Diritto della banca e del mercato finanziario 4/2018

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

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Diritto della banca e del mercato finanziario

• Risoluzione bancaria • Prededuzione e par condicio creditorum • Partecipazioni rilevanti nelle banche • Azione revocatoria e piano di risanamento attestato

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ottobre-dicembre

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è attualmente coordinato dal prof. Daniele Vattermoli. Nell’anno 2017, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Niccolò Abriani, Stefano Ambrosini, Lucia Calvosa, Giuseppina Capaldo, Giacomo D’Attorre, Giuseppe Fauceglia, Danilo Galletti, Gianvito, Giannelli, Raffaele Lener, Massimo Miola, Mario Stella Richter, Maurizio Sciuto.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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SOMMARIO 4/2018

PARTE PRIMA Saggi Prededuzione e par condicio creditorum, di Luigi Carlo Ubertazzi pag. 513 Il socio persona fisica titolare di partecipazioni qualificate » 547 di una banca, di Alessandro V. Guccione, Marco Palmieri L’esonero da revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie del socio illimitatamente responsabile in esecuzione del piano di risanamento attestato, di Luca » 583 Mandrioli La disciplina dei pagamenti non autorizzati nel nuovo sistema delineato dal recepimento della direttiva PSD2, » 627 di Giovanni Berti De Marinis

Dibattiti La risoluzione bancaria – Incontro di studio del 20 giugno 2018 presieduto da Alessandro Nigro, con interventi di Sandro Amorosino, Giuseppe Guizzi, Bruno Inzitari, Michele Perrino, Giuseppe Santoni, Daniele Vattermoli

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Autori » 753 Indici dell’annata – Parte prima » 755 Indici dell’annata – Parte seconda » 758 Norme redazionali » 759 Codice etico » 764



PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Prededuzione e par condicio creditorum* Sommario: Sez. I. Il diritto vigente al 27.10.2018 – 1. Tema, punti di osservazione, tesi di questo scritto relative alle procedure concorsuali riguardanti le imprese. – 2. La regola generale sul riparto dell’attivo non è la par condicio ma l’ordine di distribuzione ex art. art.111 l. fall.; – 3. Una ricostruzione consequenziale dei rapporti tra par condicio e 111 l. fall.; – 4. Alcune possibili obiezioni a queste conclusioni: loro critica. – 5. Le regole che definiscono le ipotesi di prededuzione non sono eccezionali. – 6. E non sono soggette ad interpretazione restrittiva. – Sez. II. La riforma in cantiere. – 7. Sintesi delle conclusioni relative al diritto attuale. I lavori preparatori della riforma. – 8. Una comparazione tra sistema attuale e codice della crisi: la nozione di credito prededucibile; – 9. Ed il suo rilievo. – 10. Il progetto di riforma (non realizzata) delle cause di prelazione. – 11. Alcune osservazioni sulla “opportunità” della riforma dei prededucibili.

Sezione I. Il diritto vigente al 27.10.2018

1. Tema, punti di osservazione, tesi di questo scritto relative alle procedure concorsuali riguardanti le imprese. Il tema dei rapporti tra par condicio e prededuzione vede in campo una serie articolata di norme diverse. In particolare vi è anzitutto la regola dell’art. 2741 c.c. secondo cui «1. I creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione. / 2. Sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e

* Questo scritto è dedicato agli studi in memoria di Michele Sandulli. Una parte dello scritto è stata presentata al Convegno di Vicoforte del 26 ottobre 2018 su Le soluzioni negoziate della crisi e il fallimento tra prassi applicative e riforma organica.

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leCipoteche»1. Vi è inoltre la serie delle regole relative alle cause di prelazione ed alle ipotesi di prededuzione. Vi sono poi le norme sulla liquidazione concorsuale di beni di privati: e così ad esempio quelle relative al beneficio di inventario (art. 498 c.c.), all’eredità giacente (art. 530.2 c.c.), alla cessione dei beni ai creditori (art. 1982 c.c.). Vi sono infine le regole relative alle procedure concorsuali riguardanti le imprese: e qui in particolare ricordo quelle riguardanti l’area del concorso2, e quelle relative all’“ordine di distribuzione delle somme” che siano “ricavate dalla liquidazione dell’attivo”3. In questo quadro ci si è chiesti da tempo quale sia il ruolo della par condicio: ed in particolare se costituisca una regola o addirittura un principio generale4, e se le norme antitetiche alla par condicio debbano essere interpretate soltanto in via restrittiva o possano esserlo anche in senso estensivo. A questo proposito un processual-civilista milanese ha segnalato che gli stati membri della UE non seguono tutti il medesimo sistema: ed al contrario alcuni adottano il criterio della par condicio, altri quello della priorità temporale del credito, ed altri ancora un sistema misto tra i primi due5. Inoltre un bravo civilista barese ha ritenuto che l’art. 2741 c.c. ha un’impostazione dicotomica, ed in particolare che le regole

1 Qui ricordo in particolare che l’art. 2741 è stato preceduto via via quantomeno dal codice Napoleone e dal codice civile italiano del 1865 (così per tutti Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm. 1984, I, p. 95). 2 A questo proposito ad esempio Jaeger, Par condicio, cit., p. 102, ricorda che «le regole che vengono generalmente chiamate in causa riguardano il divieto delle azioni esecutive (art. 51 l. fall.), le revocatorie (art. 66 ss), l’inefficacia degli atti e dei pagamenti effettuati o ricevuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento (art. 44), le norme penali sulla cd bancarotta fraudolenta preferenziale (art. 216 terzo comma)». Ma il sistema conosce anche regole «che si pongono come antitetiche al principio della par condicio creditorum», tra le quali «quella che attribuisce ai creditori il ‘diritto di compensare coi loro debiti verso il fallimento crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento’ (art. 56)»; e «le disposizioni dell’ultimo comma dell’art. 67 l. fall., che esclude dall’applicazione della revocatoria fallimentare ‘l’istituto di emissione’, ‘gli istituti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno, limitatamente a queste autorizzazioni’ e ‘gli istituti di credito fondiario’, aprendo la via per ulteriori esenzioni con il rinvio alla legge speciale» (così per tutti Jaeger, Par condicio, cit., pp. 103-104). 3 Così la rubrica e rispettivamente l’incipit dell’art. 111.1 l. fall. 4 Così il paragrafo 1124 della relazione al codice civile, in Ministero di grazia e giustizia, Codice Civile. Testo e Relazione Ministeriale, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1943, p. 260. 5 Così Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, in Riv. dir. proc., 2005, pp. 2 ss.

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sulla par condicio e quelle sulle cause di prelazione sono pari-ordinate6. Sempre partendo dall’art. 2741 un altro civilista di fama ha poi osservato che «è di certo da escludersi un qualsiasi ‘diritto’ dei creditori […] di pretendere che il debitore osservi un qualsivoglia ordine nell’adempimento delle sue obbligazioni»; che «il campo di applicazione del principio» della par condicio «è sempre stato ravvisato nell’ambito delle procedure esecutive»; che «per i debitori non fallibili […] ciascun creditore […] ha un astratto diritto […] di aggredire i beni del debitore […] indipendentemente da quanto abbiano fatto gli altri creditori e da quanto questi ultimi possano avere ottenuto»; che «neppure in quest’ambito ristretto opera un principio incondizionato di parità di trattamento tra tutti i creditori chirografari», perché ad esempio «alla falcidia fallimentare –ed al relativo presidio rappresentato dalle revocatorie […]– sfuggono tutti i crediti ai quali sia applicabile l’art. 103 l. fall.» e «tutti i debiti non pecuniari»: e ne conclude che la par condicio costituisce «solo uno strumento comodo per la soluzione di un problema distributivo […], senza alcuna pretesa di giustizia sostanziale», onde «il legislatore fa benissimo ad applicarlo con grande elasticità e senza superflue enfatizzazioni» 7. Ed infine molti parlano da tempo di “crisi della ‘par condicio’”, sia «come conseguenza della trasformazione delle procedure concorsuali»8 sia come risultato della dilatazione dell’area delle cause di prelazione e di prededuzione, che ha avuto luogo dopo l’emanazione della legge fallimentare: ed in particolare hanno concluso che «la par condicio creditorum non è un principio assoluto, ispirato a interessi superiori, di carattere economico, sociale o ideologico»; e «risponde, piuttosto, a criteri di ‘ordine’ nelle procedure concorsuali, che passano in secondo piano di fronte al riconoscimento di interessi prevalenti meritevoli di tutela. Come tale ha, effettivamente, un valore ‘residuale’»9. Per parte mia mi fermo qui soltanto su un aspetto dei rapporti tra par condicio e prededuzione: e precisamente sulle regole riguardanti il riparto del ricavato dell’attivo nelle procedure concorsuali relative alle

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Così Barbiera, Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali, Artt. 2740-2744, in Codice civile commentato, diretto da Schlesinger, Milano, 1991, passim, che ricorderò meglio al paragrafo 4. 7 Così P. Schlesinger, L’eguale diritto dei creditori di essere soddisfatti sui beni del debitore, in Riv. dir. proc. 1995, pp. 319 ss. ed in particolare alle pp. 321, 323, 325, 327, 329, 330. 8 Così il titolo del paragrafo 2 dello studio di Jaeger, Par condicio, cit., p. 88. 9 Così Jaeger, Par condicio, cit., p. 104.

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imprese. A questo proposito in un primo tempo «si era consolidato l’insegnamento secondo cui ‘l’art. 111.1 l. fall. aveva carattere eccezionale ed era quindi di stretta interpretazione in quanto deroga al fondamentale principio della par condicio creditorum’»10. Tuttavia la dottrina ha notato da tempo che la disciplina del riparto ha poi avuto un’evoluzione importante: ed in particolare che “la riforma” dell’art. 111 l. fall. introdotta dal d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 «ha innovato profondamente la disciplina in materia, facendo espresso riferimento a» tutte «le procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare»11. Tuttavia ancora di recente una serie di decisioni del Tribunale di Milano relative all’amministrazione straordinaria di Ilva ha considerato la regola particolare relativa alla prededuzione prevista dall’art. 3.1-ter del d.l. 347/2003: ed ha ritenuto che essa sia norma eccezionale per rapporto alla par condicio e che debba essere interpretata ed applicata restrittivamente12. Il tema dei rapporti tra prededucibili e par condicio mi pare resti allora attuale; mi dedico dunque ad esso; lo esaminerò soltanto dal punto di vista della disciplina vigente ordinaria; non lo riguarderò invece da quello delle regole costituzionali13 e della UE; non lo esaminerò nemmeno dal punto di vista dell’opportunità della disciplina vigente; e dedico una prima parte ampia (e precisamente i primi 6 paragrafi) all’esame del diritto italiano vigente al 27.10.2018 (data in cui ho ultimato questo scritto), ed una seconda parte più breve alla riforma oggigiorno in cantiere, e che sembra giungerà in porto prima della scadenza della relativa delega legislativa al governo. Ed a me pare in sintesi che ad oggi, e per quanto riguarda le procedure concorsuali relative alle imprese, (i) la par condicio non sia la regola generale relativa al riparto dell’attivo, che è invece quella prevista dall’art. 111 l. fall. e dal suo ordine di distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo14; (ii) le regole sulla prededuzione

10 Così Ambrosini, La ripartizione dell’attivo, in Ambrosini-Cavalli-Iorio, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale diretto da Cottino, vol. XI, Tomo II, Padova, 2009, p. 659: che trascrive una massima di Cass., 11 novembre 1981 n. 6056, in Mass. giust. civ. 1981, p. 11. 11 Così Ambrosini, La ripartizione, cit., p. 661. 12 V. Sul punto i successivi paragrafi 5-6. 13 Alcuni cenni sul tema della verifica della legittimità costituzionale delle norme in campo sono invece in Barbiera, Responsabilità, cit., p. 87 ss.; Jaeger, Par condicio, cit., pp. 105-106; Tarzia, Par aut dispar, pp. 7 ss. 14 L’art. 111 l. fall. regola i prededucibili, i privilegiati ed i chirografi. Non considera invece i crediti postergati. A questo proposito si ricorderà che per le società a responsabilità limitata l’art. 2467 prevede che «il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore

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non sono norme eccezionali; e (iii) esse non devono essere interpretate in via restrittiva.

2. La regola generale sul riparto dell’attivo non è la par condicio ma l’ordine di distribuzione ex art. art.111 l. fall. Comincio in particolare dalla tesi (i): ed espongo qui alcuni primi argomenti a suo favore. Un primo argomento è offerto dalla formulazione attuale della regola dell’art. 111 l. fall., rubricato “ordine di distribuzione delle somme”, e secondo cui «le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono erogate nel seguente ordine: / 1) per il pagamento dei crediti prededucibili; / 2) per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge; / 3) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso, compresi i creditori indicati al n. 2, qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui rimasero non soddisfatti da questa». Anzitutto la formulazione dell’art. 111 non contiene alcun riferimento espresso alla regola della par condicio creditorum nel riparto dell’attivo. Inoltre ed al contrario la lettera dell’art. 111 l. fall. prevede espressamente un ordine di distribuzione delle somme che soddisfa prima i prededucibili, poi i privilegiati e solo infine i chirografari: e dunque implicitamente nega alla par condicio la qualificazione di regola generale per l’esecuzione concorsuale. Un secondo argomento è offerto dall’ampiezza dell’area in cui l’ordine di distribuzione delle somme previsto dall’art. 111 l. fall. si applica nel fallimento. (i) L’art. 111 l. fall. prevede in particolare due categorie di ipotesi di crediti prededucibili. La prima categoria è prevista dalla regola dell’art. 111.2 l. fall. secondo cui «sono considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla pre-

della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito»: come è noto che, secondo Cass., 20 giugno 2018, n. 16291, questa regola si applica a certe condizioni anche alla spa. Questo scritto non si occupa tuttavia dei crediti postergati: anche perché la loro disciplina non modifica in nulla le considerazioni e le conclusioni di questo scritto.

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sente legge». Questa regola si limita a rinviare ad altre norme (attuali o future) che tipizzano ipotesi di crediti prededucibili; non estende rispetto ad esse l’area della prededucibilità; ha l’impronta/impostazione propria di una ricostruzione sistematica realizzata dal legislatore; e svolge dunque una funzione che forse poteva essere lasciata alla dottrina. Tuttavia il rinvio dell’art. 111 l. fall. ad altre ipotesi legislative di prededuzione del credito copre un’area “di prededucibili” che ha attualmente dimensioni corpose. Qui mi esimo dall’effettuare un censimento di queste ipotesi: ma ne vedremo tra breve in particolare una, e così quella della prededuzione ex art. 3.1.ter del dl 347/2003. (ii) L’area dei crediti prededucibili è poi estesa ulteriormente dalla regola dell’art. 111, co. 2, l. fall., che prevede la prededuzione di tutti i crediti «sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali». Questa norma definisce la fattispecie/ ipotesi regolata di crediti prededucibili attraverso un sintagma costituito da sostantivi molto “ampi”; definisce un’area di prededucibili più ampia di quella prevista dalla formulazione previgente dell’art. 111 n. 1 l. fall., che si riferiva soltanto alle «spese, comprese le spese anticipate dall’erario, e ai debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa»; e si presta ad ulteriori espansioni sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione, e senza necessità di passare attraverso interventi del legislatore. Un terzo argomento è offerto dall’ampiezza dell’area in cui l’“ordine di distribuzione delle somme” previsto dall’art. 111 l. fall. si applica anche alle procedure concorsuali diverse dal fallimento relative alle imprese. (i) Anzitutto la definizione di crediti prededucibili ex art. 111, co. 2 l. fall. si applica anche a tutte le procedure concorsuali diverse dal fallimento ma disciplinate dalla legge fallimentare. Quest’applicazione deriva da due richiami incrociati: di cui il primo è costituito dalla regola dell’art. 111.2, secondo cui «sono considerati crediti prededucibili […] quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge»; ed il secondo è integrato da una serie di rinvii all’art. 111 l. fall. da parte delle regole della legge fallimentare sulle procedure concorsuali diverse dal fallimento. Qui mi fermo sul secondo tipo di rinvio: e noto che l’applicazione dell’art. 111 l. fall. è prevista espressamente per il concordato e gli accordi di ristrutturazione di debiti dall’art. 182-quater l. fall., secondo cui «i crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati in esecuzione di un concordato preventivo di cui agli articoli 160 e seguenti ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182 bis sono prededucibili ai sensi e per gli effetti dell’articolo 111»; e per la liquidazione coatta amministrativa è prevista dall’art. 212, co. 1 l. fall., secondo cui «le somme

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ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono distribuite secondo l’ordine stabilito nell’art. 111». (ii) Il medesimo “ordine di distribuzione delle somme” previsto dall’art. 111 l. fall. è poi disposto dalle discipline delle procedure concorsuali relative alle imprese che sono collocate al di fuori della legge fallimentare. Qui ne ricordo in particolare soltanto alcune, senza pretesa di completezza; ricordo in particolare soltanto quelle che a me sembrano di maggior impatto per i valori in campo e per il significato sistematico; e le ricordo in un ordine che non è necessariamente cronologico, e richiama anzitutto alcune discipline di settori economicamente importanti e poi quella dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese. Così in particolare il d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385, “testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, regola la liquidazione coatta amministrativa nel relativo “comparto”, disponendo all’art. 91 che «i commissari procedono alla ripartizione dell’attivo liquidato secondo l’ordine stabilito dall’art. 111 della legge fallimentare». Così ancora il d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, “testo unico dell’intermediazione finanziaria”, regola la liquidazione coatta amministrativa degli intermediari finanziari, disponendo all’art. 57 che «si applicano, in quanto compatibili, […] l’art. 91 del testo unico bancario, intendendosi le suddette disposizioni riferite alle SIM, alle società di gestione del risparmio e alle SICAV in luogo delle banche». Così ancora il d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, “codice delle assicurazioni private”, regola la loro liquidazione coatta amministrativa, disponendo all’art. 260 che «i commissari procedono, secondo l’ordine stabilito dall’art. 111 della legge fallimentare, alla ripartizione dell’attivo liquidato». Così ancora il d.lgs. 8 luglio 1998 n. 270, “nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’art. 1 della legge 30 luglio 1998 n. 274”, anzitutto dispone all’art. 52 che «i crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore sono soddisfatti in prededuzione a norma dell’art. 111, primo comma, numero 1, della legge fallimentare, anche del fallimento successivo alla procedura dell’amministrazione straordinaria», con una norma che riprende quella dell’art. 104, co. 8 l. fall. relativa all’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento: ed inoltre stabilisce all’art. 67 della legge 270/1999 sull’amministrazione straordinaria, rubricato “ripartizione dell’attivo”, che «le ripartizioni hanno luogo secondo le disposizioni dagli artt. […] 111 […] della legge fallimentare». Ed infine se ben vedo il

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medesimo rinvio all’art. 111 l. fall. è disposto anche dalla disciplina della risoluzione delle imprese bancarie15 16 17 .

15 Alludo qui in particolare alla disciplina della risoluzione delle banche prevista dalla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 59/2014/UE (e precisamente dalla direttiva 15 maggio 2014, 2014/59/UE, “che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio”: ed alla sua attuazione in Italia avvenuta con d.lgs. 180/2015 (e precisamente con decreto legislativo 16 novembre 2015 n. 180, recante “attuazione della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE), n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio”). La direttiva ed il dl 180/2015 di attuazione ed i loro rapporti con le altre procedure concorsuali mi sembrano articolati e non semplici; a me interessa qui il tema dell’applicabilità dell’art. 111 l. fall. anche alle banche che possono essere sottoposte alla risoluzione prevista dal dlgs 180/2015; e sotto questo profilo le linee principali del sistema mi sembrano le seguenti. (i) Il d.lgs. 180/2015 definisce la nozione di banca risolvibile, e dunque la categoria delle banche cui esso si applica (art. 2). (ii) L’art. 12, co. 2 del d.lgs. 180/2015 prevede poi che «una banca […] risolvibile può essere assoggettata a liquidazione coatta amministrativa o” alternativamente “a risoluzione”». (iii) Secondo l’art. 12, co. 2 del d.lgs. 180/2015 la banca risolvibile può essere sottoposta sin dall’inizio alla liquidazione coatta amministrativa. Questa liquidazione è disciplinata dalle regole speciali degli artt. 80 ss. del t.u.b., ed in via residuale da quelle generali della liquidazione coatta amministrativa previste dagli artt. 194 ss. l. fall. E già si è detto che secondo l’art. 212, co. 1 l. fall. «le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono distribuite secondo l’ordine stabilito dall’art. 111» l. fall. (iv) Secondo il d.lgs. 180/2015 un procedimento avviato per la risoluzione della banca può avere in particolare tre esiti. Un primo esito si ha quando la risoluzione conduce a riequilibrare i conti della banca: ed in questo caso non vi è un problema di ripartizione concorsuale del ricavato della liquidazione dell’attivo della banca risolvibile. Un secondo esito si ha quando dopo la risoluzione la banca «si trova in stato di insolvenza alla data di adozione del provvedimento di avvio della risoluzione di cui all’articolo 32»: ed in questo caso «si applica l’art. 82, comma 2, del Testo Unico Bancario», e così la banca viene dichiarata insolvente e se ben vedo si procede alla sua liquidazione coatta amministrativa. Un terzo esito ricorre quando al termine della risoluzione «residuano attività o passività in capo all’ente sottoposto a risoluzione» (così l’art. 38 d.lgs. 180/2015): ed in questo caso la banca risolvibile «è sottoposta a liquidazione coatta amministrativa secondo quanto previsto dal Testo Unico Bancario» (così l’art. 38, co. 3 d.lgs. 180/2015). (v) Gli artt. 194 ss. l. fall. prevedono poi una disciplina generale della liquidazione coatta amministrativa: e secondo l’art. 212 l. fall. «le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono distribuite secondo l’ordine stabilito nell’art. 111» della legge fallimentare. (vi) Ed in questo modo l’art. 111 l. fall. si applica in ogni caso in cui la banca non è risanata dalla risoluzione e deve essere sottoposta ad una fase di liquidazione coatta amministrativa. 16 Le conclusioni qui esposte sull’applicazione dell’art. 111 alle procedure di amministrazione straordinaria previste dalla legge fallimentare e dalla legge Marzano sono largamente condivise: e v. difatti per tutti Cavalaglio, I crediti prededucibili nelle procedure concorsuali (parte prima: la disciplina previgente), in Dir. fall. 2010, pp. 449 ss. ed in particolare p. 450, secondo cui nella disciplina previgente «la centralità” dell’art. 111 l. fall. “appare subito con tutta evidenza. È indubbio che è stata dettata e collocata esclusivamente all’interno della procedura fallimentare, però ha costituito il costante punto di riferimento per tutte le altre procedure concorsuali, ad eccezione dell’amministrazione controllata e del concordato preventivo. / Difatti essa viene espressamente richiamata dall’art. 212 l. fall. per la liquidazione coatta amministrativa. / […] infine, le disposizioni finali dell’art. 8 della disciplina della cd amministrazione straordinaria speciale, comunemente denominata legge Marzano, ne consentono l’applicazione mediante il richiamo generalizzato delle norme del dlgs 270/1999». Per parte mia ho tuttavia ricordato poc’anzi che l’art. 111 è richiamato anche dalle discipline ulteriori e principali relative ad altre procedure concorsuali extra legge fallimentare. 17 Mi esimo invece dall’esaminare qui più da vicino il ginepraio delle leggi particolari sull’amministra-

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Un quarto argomento è offerto dall’ampiezza dell’area dei creditori privilegiati. Qui se ben vedo le aree di applicazione del pegno e dell’ipoteca sono rimaste sostanzialmente invariate. Non così invece l’area dei privilegi: come è subito testimoniato dalle non poche norme che hanno modificato quelle del codice civile relative alle ipotesi di privilegio e che sono ricordate da ogni buona edizione del “codice civile” e delle leggi collegate18. E l’espansione dei privilegi si somma a quella della prededuzione per restringere ulteriormente l’area di applicazione della regola della distribuzione paritaria ai chirografi. Quelli che ho ora chiamato come il secondo, il terzo ed il quarto argomento che escludono la qualificazione della par condicio come regola generale costituiscono in realtà soltanto tre momenti di un ragionamento complessivo che termina con un argomento ulteriore, che chiamerò qui come il quinto. Questo argomento è offerto dalle dimensioni attuali dell’area di applicazione di prededuzione e privilegio (da un lato) e distribuzione paritaria ai chirografi (dall’altro). (i) Anzitutto l’art. 111 l. fall. consente in astratto di ripartire il ricavato soltanto o prevalentemente a favore di prededucibili e privilegiati. (ii) Inoltre questa ripartizione prevalente a favore di prededucibili e privilegiati è avvenuta in concreto non di rado. Questo esito della procedura è derivato talvolta dalla imperizia dei suoi organi. Alle volte è tuttavia il risultato di una scelta valoriale di interpretazione della disciplina: in modo da privilegiare la conservazione dell’azienda, la continuazione dell’impresa, la preservazione delle occasioni attuali di lavoro (anziché la liquidazione dell’impresa e la speranza che il funzionamento del mercato offra nuove intraprese e nuove occasioni di lavoro); e secondo una linea che è cominciata già con la

zione straordinaria: e così ad esempio non ho esaminato le regole relative alle tre leggi fotografia ricordate da Jaeger, Par condicium, cit. pp. 91-92, e relative alla flotta Lauro, ai bieticultori ed al gruppo Sir (e non ho verificato se queste norme sono ancora vigenti); e nemmeno ho considerato le ulteriori discipline ricordate da Bonfatti, La procedura ‘Alitalia-bis’ e il futuro dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in Dir. banc., 2017, I, p. 619 ss. ed in particolare pp. 653 ss.; e nemmeno quelle sulle banche venete (su cui vedi i materiali su La liquidazione delle “banche venete”, in Dir. banc., 2017, II, pp. 109 ss., con commento di Brozzetti, Una soluzione ad hoc per il dissesto di due banche venete, pp. 119 ss.). 18 Così ad esempio De Nova, Codice civile e leggi collegate, Bologna, 2018, in corrispondenza all’art. 2751-bis c.c. ricorda anzitutto le seguenti leggi di novellazione delle regole relative ai privilegi ex art. 2745 ss.: l. 29 luglio 1975, n. 426; l. 31 gennaio 1992 n. 59; l. 23 dicembre 2000 n. 388. Sempre De Nova, Codice civile, cit., e sempre in corrispondenza all’art. 2751-bis c.c., ricorda inoltre non poche decisioni della Corte costituzionale che hanno dichiarato illegittime alcune regole dell’art. 2751-bis c.c. in parte qua non estendeva il relativo privilegio ad alcune ipotesi inizialmente non previste ex lege.

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legge Prodi del 197919, e specialmente con il dibattito degli anni 80 sull’opportunità e la possibilità di passare de iure condito «dalla meritevolezza dell’imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale»20. (iii) In questo quadro occorre allora prendere atto dello stato attuale delle norme, dei relativi valori e dei fatti; constatare dunque qual è il diritto vigente/lo ius quo utimur; e non continuare a qualificare la par condicio come regola generale. Un sesto argomento è offerto dalla storia delle regole riguardanti la prededuzione. In sintesi già il testo iniziale della legge fallimentare prevedeva l’ordine attuale di distribuzione del ricavato della liquidazione dell’attivo prima ai prededucibili, poi ai privilegiati e solo infine ai chirografi; quest’ordine è stato via via applicato a tutte le altre procedure concorsuali della legge fallimentare; è stato poi applicato via via anche alle altre grandi leggi sulle procedure concorsuali per settori di attività o tipo di impresa; e la sua importanza è poi progressivamente cresciuta man mano che si estendevano l’area dei prededucibili e quella dei privilegiati. Questa evoluzione è stata certamente voluta da un legislatore consapevole, che non poche volte si è basato su lavori preparatori affidati a commissioni di “tecnici”. E tutta la storia ora ricordata testimonia una tendenza ad espandere l’area della prededuzione, a far regredire quella della par condicio, e ad interpretare le norme sulla prededuzione in modo non restrittivo ma espansivo. Un ultimo argomento è forse suggerito dalla linea di evoluzione della funzione delle procedure concorsuali relative all’impresa e ad un tempo della disciplina dei crediti prededucibili. (i) La linea di questa evoluzione è largamente nota. È stata tuttavia sintetizzata bene con qualche accento personale da un libro di Terranova. In particolare questo autore ha ricordato che dopo la legge fallimentare del 1942 «è cambiato il ruolo della responsabilità patrimoniale. L’economia industriale era caratterizzata da investimenti cospicui, effettuati con ingenti masse di capitale di rischio […]. L’economia finanziaria ha ribaltato tale concezione, perché fa più affidamento sulla redditività prospettica dell’affare, che non sulla capienza patrimoniale del soggetto finanziato. […] Tuttavia, se il capita-

19

Alludo qui alla l. 3 aprile 1979 n. 95, recante “conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 gennaio 1979, n. 26, concernente provvedimenti urgenti per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”. 20 Così il titolo di Pacchi Pesucci, Dalla meritevolezza dell’imprenditore alla meritevolezza del complesso aziendale, Milano, 1989.

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le di rischio è esiguo, […] la garanzia patrimoniale tende anch’essa ad azzerarsi e le eventuali perdite, alla fine, ricadono per intero sul ceto creditorio./[…] le procedure esecutive (individuali e collettive) comportano un mutamento di destinazione dei beni aziendali […] il mutamento di destinazione riduce il valore di scambio di tutti i beni». In questo quadro «le moderne procedure d’insolvenza, invece di puntare alla liquidazione del patrimonio del debitore per poi distribuire il ricavato ai creditori, cercano di preservare la continuità aziendale, in modo da non disperdere i valori organizzativi […] e non far subire al patrimonio responsabile le perdite dovute alla differenza tra il valore d’uso (legato ai costi di ripristino) e il valore di scambio (legato ai prezzi che si possono spuntare con le vendite coattive) dei cespiti da reimmettere sul mercato»21. Ed a me pare che nel medesimo quadro si collochino anche le norme che consentono «il pagamento integrale dei creditori strategici anche per la parte del corrispettivo loro dovuto per prestazioni rese prima dell’apertura del concorso»: perché la relativa «scelta del legislatore […] si spiega in un quadro normativo che mira a salvare la continuità aziendale […]. Il creditore che ha effettuato prestazioni necessarie al ciclo produttivo da salvare viene trattato meglio di chi le ha rese per attività (o per rami d’azienda) inefficienti, da sopprimere»22. (ii) E l’interpretazione che qui propongo mi pare pienamente in linea con l’evoluzione della funzione delle procedure concorsuali e dei crediti prededucibili ricordata da Terranova: e può esserne forse ulteriormente suggerita e confortata.

3. Una ricostruzione consequenziale dei rapporti tra par condicio e 111 l. fall. A questo punto mi pare possibile proporre una ricostruzione delle linee dei rapporti attuali tra prededuzione e par condicio. L’art. 111 l. fall. costituisce la regola generale sull’ordine di distribuzione del ricavato della liquidazione, che in linea di principio vale per tutte le procedure

21 I passi ora trascritti sono tratti dal manoscritto di Terranova, Le crisi di impresa in un’economia finanziaria, in corso di stampa per i tipi di Giappichelli, e precisamente dal paragrafo 3 (intitolato Il ruolo del patrimonio come garanzia dell’obbligazione) del capitolo intitolato Prime impressioni sull’articolato “Rordorf”. 22 I passi ora trascritti sono tratti dal manoscritto di Terranova, Le crisi, cit., e precisamente dal paragrafo 16 (intitolato Alcuni mutamenti di prospettiva) del capitolo intitolato Diritti soggettivi e attività d’impresa nelle procedure concorsuali.

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concorsuali relative all’impresa, siano esse previste dalla legge fallimentare o da regole “esterne” ad essa; l’art. 111 l. fall. prevede una sovraordinazione dei prededucibili a tutti i crediti privilegiati e chirografi; e dunque la par condicio non costituisce né una regola né tantomeno un principio generale relativo ai creditori dell’impresa. Invece la par condicio si applica in qualche misura soltanto ai rapporti interni alla medesima categoria di creditori23; quest’applicazione (non verticale ma) orizzontale è prevista espressamente dall’art. 111.1 n. 3 l. fall., secondo cui “il pagamento dei creditori chirografari” deve avvenire “in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso”; ma la par condicio si applica ragionevolmente anche ai rapporti tra i prededucibili, come pure a quelli tra privilegiati di pari grado24.

4. Alcune possibili obiezioni a queste conclusioni: loro critica. Queste conclusioni non sono contraddette dalle regole dell’art. 2741 c.c. secondo cui «1. I creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione. / 2. Sono cause legittime di prelazione i privilegi, il pegno e le ipoteche». A questo proposito richiamo anzitutto le considerazioni generali ricordate al paragrafo 1 sulla portata e sulla crisi della par condicio creditorum25. Ed inoltre soggiungo le osservazioni particolari che seguono.

23

Sul punto v. per tutti Marinucci, I crediti prededucibili nel fallimento, Padova, 1998, pp. 185 ss.; Bruschetta, La nuova disciplina dei crediti prededucibili, in Bonfatti e Falcone, Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa, Milano, 2006, p. 225. 24 Questa conclusione mi pare corrisponda alla communis opinio ed alla prassi. Essa tuttavia si coniuga di volta in volta con la circostanza che i privilegi possono essere generali o speciali, e che dunque esistono categorie di creditori privilegiati diversi a seconda dell’oggetto del privilegio. D’altro canto è interessante osservare che alcune norme recenti hanno introdotto una categoria di crediti prededucibili sotto-ordinati agli altri prededucibili: come ad esempio in particolare con gli artt. 4, co. 2 e 3 del d.l. 25 giugno 2017 n. 99, “disposizioni urgenti per assicurare la parità di trattamento dei creditori nel contesto di una ricapitalizzazione precauzionale nel settore creditizio nonché per la liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza s.p.a. e di Veneto Banca s.p.a.”, convertito con modificazioni dalla l. 31 luglio 2017 n. 121. Ed una categorizzazione analoga è avvenuta per alcuni crediti chirografari: e sul punto v. in particolare Vattermoli, “Strumenti di debito chirografario di secondo livello”. Alchimie linguistiche e tutela del mercato bancario, in Dir. banc., 2018, II, p. 207 ss. e specialmente pp. 219 ss. 25 V. in particolare il paragrafo 1 di questo scritto.

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Alcune prime considerazioni riguardano il livello generale dei rapporti tra codice civile e disciplina delle procedure concorsuali. Anzitutto il codice civile è una legge ordinaria che non ha un rango formale superiore a quello della legge fallimentare e delle altre leggi sulle procedure concorsuali dell’impresa che rinviano all’art. 111 l. fall. Inoltre il momento storico attuale è quello che Natalino Irti ha definito brillantemente come “l’epoca della decodificazione”; il codice civile non ha dunque più la centralità che aveva una volta nel diritto privato dell’economia; e dunque anche da un punto di vista culturale/ideologico l’art. 2741 c.c. non suggerisce più un’interpretazione della legge fallimentare e delle altre norme che rinviano all’art. 111 l. fall. in modo “obbediente” all’art. 2741 c.c. Un secondo gruppo di considerazioni riguarda la formulazione letterale dell’art. 2741 c.c. Anzitutto questa formulazione esprime due regole, di cui una riguarda la par condicio e l’altra le cause legittime di prelazione; ma non prevede esplicitamente che la prima debba essere qualificata come la regola e la seconda come l’eccezione. Inoltre la formulazione letterale dell’art. 2741 fa “salve” le cause di prelazione; questa clausola è suscettibile di più interpretazioni alternative; una di queste può ritenere che la “salvezza” delle cause di prelazione esprima una regola pari grado a quella della par condicio; e l’affermazione della generalità di quest’ultima non è dunque imposta dalla lettera dell’art. 2741. Un terzo gruppo di considerazioni, di maggior rilievo, riguarda più da vicino la “sostanza delle cose”. E qui mi sembrano suggestive in particolare alcune osservazioni di due civilisti e di una sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione. (i) Un primo scritto interessante di un civilista è costituito da una buona voce di enciclopedia di Ciccarello26: secondo cui «la par condicio, tipico meccanismo di uguaglianza formale, sembra invero armonizzarsi con il privilegio nel nome di un più maturo criterio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2 cost.) che, in questa diversa prospettiva, consentirebbe di ridurre ad unità il sistema; in realtà però la supposta coerenza […] si incrina a misura che aumenta il numero di privilegi con la conseguenza che la regola di par condicio attraverso una sorta di ribaltamento delle posizioni, rischia nel tempo di essere sostituita da un’altra, per la quale ogni credito (secondo la causa che lo ha determinato o secondo la qualità del creditore) è diversa-

26 Ciccarello, voce Privilegio (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, pp. 723-746.

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mente tutelato dall’ordinamento in base ad una speciale graduazione di valori»27. (ii) Un secondo scritto ancor più interessante è un libro di Lelio Barbiera 28. Anzitutto secondo Barbiera «la par condicio dell’art. 2741, comma 1, e specularmente, le deroghe previste dall’art. 2741, comma 2, sono il riflesso, da un lato del rifiuto del principio di priorità temporale nella soddisfazione dei crediti, dall’altro della considerazione dicotomica dei crediti, distinti in una categoria nella quale non ha rilevanza la loro causa o la compresenza di un diritto reale di garanzia e in un’altra nella quale queste circostanze vengono in rilievo»29. Inoltre secondo Barbiera «un rapporto di regola-eccezione fra i due commi» dell’art. 2741 è «difficilmente giustificabile tra fenomeni non riconducibili alla logica formale. È preferibile fare riferimento alla scelta dicotomica del legislatore»30. Infine secondo Barbiera «è dubbia in conclusione la possibilità di configurare i singoli privilegi quali eccezioni alla par condicio, instaurando confronti dell’interno del comparto dei privilegi in relazione al tertium comparationis rappresentato dal complessivo sistema civilistico. Poiché la scelta della causa del credito cui attribuire il privilegio rientra nella valutazione politica del legislatore, come ribadito dalla Corte costituzionale […], è preferibile attribuire alle norme che determinano privilegi carattere di norme a fattispecie esclusiva, non riconducibile a nessuna superiore regola, neppure in via di eccezione e quindi insuscettibili di qualsiasi comparazione in termini di analogia e di valutazione ex art. 3, comma 1 cost.»31. (iii) In questo quadro è poi intervenuta la sentenza Cass. S.U., 17 maggio 2010, n. 11930. Questa decisione riguardava l’interpretazione dell’art. 2752 c.c. rubricato “crediti per tributi dello stato, per imposta sul valore aggiunto e per tributi degli enti locali”: e così riguardava un “privilegio generale sui mobili” di alcuni enti territoriali. In quell’occasione le Sezioni Unite hanno svolto alcune considerazioni che «consentono di superare la questione dell’ammissibilità della applicazione analogica della causa di prelazione in-

27

Così Ciccarello, voce Privilegio, cit., p. 725. Alludo qui in particolare a Barbiera, Responsabilità, cit., p. 87 ss., ed in particolare al suo commento sistematico all’art. 2741. 29 Così Barbiera, Responsabilità, cit., pp. 89-90. 30 Così Barbiera, Responsabilità, cit., p. 90. 31 Così Barbiera, Responsabilità, cit., p. 94. La medesima linea interpretativa è suggerita da Jaeger, op. cit., 105-106, che preannuncia sul punto un secondo scritto, che tuttavia se ben vedo non è stato pubblicato; da Ciccarello, voce Privilegio, cit., p. 725; da Tarzia, Par aut dispar., cit., pp. 9 ss. 28

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dicata dall’art. 2752 c.c., sistematicamente invocata in nome del suo asserito carattere eccezionale per propugnarne una lettura restrittiva: che alcune decisioni di questa Corte hanno affermato (Cass. 7494/1990; 4373/1989), mentre altre escluso (Cass. 7309/2006; 17396/2005). Le Sezioni Unite ritengono, infatti, sufficiente al riguardo ricordare e ribadire la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, secondo la quale: a) a fronte di una norma attributiva di un privilegio non è consentito utilizzare lo strumento ermeneutico per introdurre, sia pur in considerazione del rilievo costituzionale di un determinato credito, una causa di prelazione ulteriore, che implicherebbe la configurazione di un autonomo modulo normativo che codifichi la tipologia del nuovo privilegio ed il suo inserimento nel sistema di quelli preesistenti : e quindi una scelta economico-politica riservata alla discrezionalità del legislatore; b) per converso è ammissibile l’utilizzabilità di detto strumento non solo nei limiti consentiti dalla massima espansione della portata semantica dell’espressione legislativa, ma anche quando l’estensione della norma a un caso non compreso nella lettera legislativa sia giustificata da un giudizio di meritevolezza del medesimo trattamento, fondato sulla ratio legis indipendentemente dalla somiglianza al caso previsto; c) il confine fra le due fattispecie è costituito dalla ‘causa’ del credito che, ai sensi dell’art. 2745 c.c., rappresenta la ragione giustificatrice della creazione di qualsiasi privilegio, perciò valendo a determinarne l’ambito oggettivo e soggettivo; e che viene così ad assumere l’ulteriore ruolo di limite alla portata espansiva delle relative disposizioni./Si deve aggiungere che costituiscono sicuramente ius singulare le norme settoriali istitutive di singoli privilegi, con tutte le conseguenze interpretative connesse; laddove le cause di prelazione previste dal codice civile – ed ancor prima da quello del 1865 – come ben evidenzia l’art. 2741 c.c., nel definirle ‘legittime’, ed hanno rilevato qualificati studiosi e più decisioni di questa Corte (Cass. 17396/2005; 8743/1992; 7684/1994; 2271/1991; 2163/1991), rispondono ad un criterio di equità discendente dallo stesso art. 3 Cost. Il quale esclude che costituiscano un’eccezione sfavorevolmente restrittiva rispetto al principio generale della par condicio creditorum, essendo voluto dal legislatore quale rimedio di giustizia alternativa, distributiva e commutativa, per esigenze di parità sostanziale (e non solo formale dei cittadini) dinanzi alla legge; nonché per svolgere una funzione riequilibratrice a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti». E la sentenza ora ricordata delle Sezioni Unite ne ha ricavato il seguente principio di diritto: «le norme del cod. civ. che stabiliscono i privilegi in favore di determinati crediti possono essere oggetto di interpretazione estensiva, la quale costituisce il risultato di un’operazione logica diretta ad individuare il reale

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significato e la portata effettiva della norma, che permette di determinare il suo esatto ambito di operatività, anche oltre il limite apparentemente segnato dalla sua formulazione testuale; e di identificare l’effettivo valore semantico della disposizione, tenendo conto dell’intenzione del legislatore, e soprattutto dalla ‘causa’ del credito che, ai sensi dell’art. 2745 c.c., rappresenta la ragione giustificatrice di qualsiasi privilegio. Con la conseguenza che il privilegio generale sui mobili istituito dall’art. 2752 c.c., sui crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni previsti dalla legge per la finanza locale, deve essere riconosciuto anche per i crediti dei comuni relativi all’imposta comunale sugli immobili (ICI) introdotta dal D.Lgs. n. 504 del 1992, pur se successiva e quindi non compresa tra i tributi contemplati dal R.D. n. 1175 del 1931». (iv) Le considerazioni di Ciccarello riguardavano i privilegi ex art. 2745 ss. c.c. Quelle di Barbiera erano più ampie e riguardavano tutte le cause legittime di prelazione ex art. 2741. La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione riguardava un privilegio speciale previsto dall’art. 2752 c.c. Ma le medesime argomentazioni possono essere trasposte tali e quali anche ai rapporti qui considerati tra prededucibili, cause di prelazione e par condicio32.

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Ricordo qui che la disciplina previgente dell’art. 111 n. 1 l. fall. prevedeva «il pagamento delle spese, comprese le spese anticipate dall’erario, e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa, se questo è stato autorizzato». Un’opinione diffusa riteneva che questa norma disciplinava i cd “debiti della massa”, e prevedeva un caso di crediti che non partecipavano al concorso ed erano soddisfatti al di fuori del concorso fallimentare. Così ad esempio secondo Cavalaglio, I crediti prededucibili, cit., p. 450, passim e p. 476 l’art. 111 l. fall. prevede una «soddisfazione indipendente dal concorso dei creditori anteriori dei debiti di massa. Di conseguenza non risulta possibile applicare a questi le regole pecuniarie del concorso vero e proprio»; ed analogamente v. ad esempio Vaselli, I debiti della massa nel processo di fallimento, Padova, 1951, p. 18 e passim; Marinucci, I crediti prededucibili, cit., p. 185; Vitale, I debiti della massa nel fallimento. Individuazione delle fattispecie, Milano, 1975, p. 16 e passim. La l. 9 gennaio 2006 n. 5 ha poi sostituito il vecchio testo ora trascritto dell’art. 111 n.1 l. fall., che prevede “il pagamento dei crediti prededucibili”: ed ha introdotto l’attuale art. 111-bis l. fall. rubricato “disciplina dei crediti prededucibili”, che prevede le modalità dell’accertamento e del pagamento dei crediti prededucibili. Nel nuovo contesto la questione relativa alla qualificazione dei crediti prededucibili come concorsuali o non concorsuali mi pare sostanzialmente superata. In ogni caso prima e dopo la riforma del 2006 restava e rimane la questione considerata da questo scritto, e precisamente la questione dei rapporti tra par condicio creditorum e crediti prededucibili: a tacer d’altro perché tale questione si pone anche al di fuori del concorso tra i creditori che partecipano al concorso nella procedura (ad esempio fallimentare); e perché la questione ha una rilevanza sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione delle regole che definiscono il credito prededucibile (in modo analogo a quanto vedremo tra

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Una quarta considerazione è di carattere dichiaratamente “subordinato”; ipotizza in arguendo che la regola dell’art. 2741 sulla par condicio sia generale a tutto l’ordinamento e quella dell’art. 111 l. fall. sia generale per il sottosistema delle procedure concorsuali relative all’impresa; e sostiene che l’art. 111 non può comunque essere qualificato come regola eccezionale: perché quando esistono una regola ed una deroga, la deroga non costituisce necessariamente una regola eccezionale, ma può benissimo essere una norma speciale. Una quinta considerazione riguarda un aspetto del quadro in cui si colloca la prededuzione. Le “disposizioni generali” del codice civile relative alla responsabilità patrimoniale principiano con gli artt. 2740 e 2741. In particolare l’art. 2740 c.c. sulla “responsabilità patrimoniale” dispone che “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. / Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge”. A questo proposito ricordo le conclusioni di un libro recente di Giovanna Marchetti33. Questa autrice ha preso atto di un’opinione diffusa che qualifica come “principio generale” quello ex art. 2740, co. 1 «per cui la responsabilità patrimoniale è illimitata», e ne ricava la conclusione che «le deroghe al suddetto principio» ex art. 2740, co. 2 «sono qualificate come regole rigorosamente eccezionali»34. Marchetti ha tuttavia sottolineato che già il codice civile del 1942 prevedeva espressamente alcune ipotesi di patrimoni separati35: ma che dopo di allora i patrimoni qualificati dal legislatore come separati si sono moltiplicati, e comprendono in particolare anche quello notoriamente importante dei patrimoni destinati ex art. 2645-ter c.c. Marchetti si è chiesta allora quale sia veramente il ruolo dell’art. 2740, co. 2: e ne ha concluso che «ripudiati tanto il concetto di patrimonio come universitas quanto l’identificazione tra persona e patrimonio, il dogma di unicità e indivisibilità” di entrambi “non aveva più ragion d’essere, sicché la dottrina ha cominciato a riconoscere che la stessa persona possedesse

breve in materia di interpretazione delle regole sui privilegi). 33 Alludo allo scritto di Marchetti, La responsabilità patrimoniale negoziata, Padova, 2017. 34 Così Roppo, Responsabilità patrimoniale del debitore, citato Marchetti, La responsabilità, cit., p. 94, nt. 55. 35 E qui si ricorderanno tra l’altro gli istituti relativi all’accettazione con beneficio di inventario ex artt. 484 ss. c.c., che ha per effetto di «tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede» ex art. 490, co. 1; e «della separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede».

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più di un patrimonio»36; che «il principio di tipicità delle limitazioni della responsabilità patrimoniale enunciato dall’art. 2740, co. 2 non è […] il logico corollario di quello di indivisibilità del patrimonio, bensì della regola opposta della sua divisibilità»37; e che «una volta escluso il carattere eccezionale dell’art. 2740, co. 2 non vi sono ostacoli contro la possibilità di ammettere l’interpretazione analogica delle norme che regolano fenomeni di separazione patrimoniale”38. Con ciò si è passati dalla visione dell’art. 2740, co. 1 come principio generale e dell’art. 2740, co. 2 come deroga eccezionale, ad una lettura che esclude il carattere eccezionale della regola dell’art. 2740, co. 2 sui patrimoni separati. E la vicinanza degli artt. 2740 e 2741 (per sedes materiae, per funzione, per articolazione/ struttura della norma) può allora forse suggerire e confortare l’interpretazione qui proposta della regola sulla par condicio, e così una lettura dell’art. 2741 secondo una linea analoga a quella dell’art. 2740.

5. Le regole che definiscono le ipotesi di prededuzione non sono eccezionali. Il secondo tema che mi sono ripromesso di esaminare è quello se le regole che definiscono le ipotesi di prededuzione siano norme eccezionali. E qui ricordo che secondo l’art. 111.2 l. fall. «sono considerati crediti prededucibili» tra l’altro «quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge»; esamino in particolare una di queste “disposizioni specifiche di legge”, e precisamente l’art. 3, co. 1-ter del d.l. 347/200339;

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Marchetti, La responsabilità, cit., p. 145. Marchetti, La responsabilità, cit., p. 149. 38 Marchetti, La responsabilità, cit., p. 172. 39 In particolare il legislatore ha emanato anzitutto il d.l. 23 dicembre 2003 n. 347, recante “misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza”, e convertito con modificazioni della l. 18 febbraio 2004 n. 39, “conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, recante misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza”. Successivamente il legislatore ha emanato il d.l. 5 gennaio 2015 n. 1, recante “disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di Taranto”, e convertito dalla l. 4 marzo 2015 n. 20, recante “conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 gennaio 2015, n. 1”. In particolare l’art. 1 della legge di conversione ora detta 20/2015 ha introdotto l’art. 2-bis al d.l. 5 gennaio 2015 n. 1, secondo cui «2-bis. All’articolo 3 del decreto-legge n. 347, dopo il comma 1-bis è inserito il seguente» art. 1-ter, che sarà trascritto integralmente tra breve nel testo. 37

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verifico se essa (come le altre che definiscono le ipotesi di prededuzione) sia eccezionale; e concludo che non lo è. In sintesi il d.l. 347/2003 riguarda le imprese che abbiano le caratteristiche oggettive e soggettive indicate dal suo art. 1; prevede all’art. 2 una “ammissione immediata” di queste imprese “all’amministrazione straordinaria” disciplinata dal d.lgs. 8 luglio 1999 n. 270; ed introduce all’art. 3, co. 1-ter una regola relativa alla prededuzione, secondo cui «per le imprese che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, e che sono ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria di cui al presente decreto, i crediti anteriori all’ammissione alla procedura, vantati da piccole e medie imprese individuate dalla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, relativi a prestazioni necessarie al risanamento ambientale, alla sicurezza e alla continuità dell’attività degli impianti produttivi essenziali nonché i crediti anteriori relativi al risanamento ambientale, alla sicurezza e all’attuazione degli interventi in materia di tutela dell’ambiente e della salute previsti dal piano di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 marzo 2014, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 105 dell’8 maggio 2014, sono prededucibili ai sensi dell’articolo 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni». Ci si è chiesti se l’art. 3, co.1-ter del d.l. 347/2003 sia una norma eccezionale. A questa domanda hanno dato risposta positiva alcune decisioni inedite del Tribunale di Milano relative all’amministrazione straordinaria di Ilva. In particolare alcuni provvedimenti gemelli del giudice delegato relativi a domande di insinuazione al passivo hanno escluso la prededuzione ex art. 3, co.1-ter d.l. 347/2003 sulla base della seguente motivazione standard in diritto: «considerata l’impossibilità di aderire ad una interpretazione estensiva di tale norma, trattandosi di disposizione che introduce un’eccezione alla par condicio creditorum; considerato in particolare, con riferimento alla previsione concernente i crediti relativi a prestazioni necessarie alla continuità degli impianti produttivi essenziali, che il legislatore ha ritenuto di attribuire il beneficio della prededuzione ai crediti funzionali a garantire la continuità dei soli impianti produttivi essenziali e non dell’intero complesso aziendale; ritenuto che tale carattere di essenzialità risulta attribuibile alla sola gestione e conduzione dei processi essenziali per l’esercizio degli altiforni e della acciaierie presso il sito di Taranto, non potendosi riconoscere carattere prededucibile a tutti i crediti non riconducibili in via diretta ed esclusiva a prestazioni funzionali a tale limitata parte degli impianti produttivi». Ed

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analogamente una decisione milanese pronunciata su un’opposizione allo stato passivo Ilva ha ribadito che “la prededuzione” ex art. 3, co.1ter «ha come effetto l’alterazione della graduazione dei crediti previsti dalle cause legittime di prelazione e quindi va mantenuta ed applicata rigorosamente in via eccezionale». A me pare invece che l’art. 3, co. 1-ter non sia una regola eccezionale. Anzitutto l’art. 3, co. 1-ter d.l. 347/2003 dispone che alcuni crediti sono «prededucibili ai sensi dell’articolo 111 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267». In questo modo l’art. 3, co.1-ter rientra tra le “specifiche disposizioni di legge” che qualificano un credito come prededucibile ex art. 111, co. 2 l. fall.; i relativi crediti rientrano nella categoria generale dei prededucibili ex art. 111, co. 2 l. fall.; e come già l’art.111 l. fall. così anche l’art. 3, co. 1-ter d.l. 347/2003 non è dunque regola eccezionale. Inoltre l’art. 3, co.1-ter qualifica come prededucibili alcuni crediti «vantati da piccole e medie imprese individuate dalla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003»40. L’art. 3, co.1-ter costituisce allora una delle molte regole che proteggono in modo rafforzato gli interessi delle piccole e medie imprese, per la posizione di debolezza e ad un tempo di importanza che esse occupano nel sistema economico-sociale dell’Unione Europea. Ed anche sotto questo profilo l’art. 3, co.1-ter non è allora una regola eccezionale, ma costituisce parte di un sistema speciale di norme a favore delle p.m.i.

6. E non sono soggette ad interpretazione restrittiva. Il terzo tema che mi sono ripromesso di esaminare è quello dei criteri di interpretazione delle regole che definiscono le ipotesi di prededuzione. A questo proposito un’opinione diffusa in passato ha ritenuto che le regole qui considerate (siano eccezionali e) debbano essere interpretate in via restrittiva: ed i provvedimenti inediti del Tribunale di Milano relativi ad Ilva e ricordati poc’anzi lo hanno affermato anche di recente per l’art. 3, co. 1-ter d.l. 347/2003. A me pare invece che le regole che definiscono le ipotesi di prededuzione (non sono eccezionali e) possono essere interpretate anche in via estensiva.

40 L’art. 3, co.1-ter allude precisamente alla raccomandazione della Commissione 6 maggio 2003, 2003/361/CE, “relativa alla definizione delle micro imprese, piccole e medie imprese”.

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Difatti è vero che secondo l’art. 14 disp. prel. c.c. «le leggi […] che fanno eccezione a regole generali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». E tuttavia la par condicio non è regola generale; l’art.111 l. fall. e le regole particolari richiamate dall’art. 111, co. 2 (e dunque anche l’art. 3, co.1-ter d.l. 347/2003) non sono regole eccezionali; e per entrambe le ragioni l’interpretazione delle regole sui prededucibili non è soggetta ai limiti previsti dall’art. 14 disp. prel. c.c. Inoltre la storia dell’art. 111 l. fall. testimonia che la sua interpretazione non è avvenuta sempre in modo restrittivo, ed al contrario ha condotto ad una estensione progressiva dell’area della prededuzione41: segno evidente che il diritto vivente esclude da tempo la necessità di interpretare ex art. 14 disp. prel. c.c. le norme sulla prededuzione. Senza dire in arguendo che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno giustamente dichiarato che le regole eccezionali possono essere interpretate non solo in via restrittiva, ma anche in modo letterale ed estensivo: e che così ad esempio Cass. S.U., 8 novembre 2010 n. 22623 ha scritto che «riguardo alle norme eccezionali, questa Corte se ha sempre escluso la possibilità di un’interpretazione analogica ha, tuttavia, ammesso la possibilità di una interpretazione estensiva (Cass. nn. 5297 del 2009, 17396 del 2005; 9205 del 1999)»42. Resta infine da ricordare la riforma oggi in cantiere. Qui è noto che secondo l’art. 2, co. 1) della l. 19 ottobre 2017 n. 155, recante “dele-

41 Qui si ricorderà in particolare che la formulazione iniziale dell’art. 111, co. 1 n. 1 l. fall. prevedeva la prededuzione «per il pagamento delle spese, comprese le spese anticipate dall’erario, e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa, se questo è stato autorizzato». Una prima opinione poteva in particolare ritenere che le spese prededucibili fossero soltanto quelle compiute dagli organi della procedura. È noto che invece sono state qualificate come prededucibili anche «ipotesi di spese […] rispetto alla formazione delle quali l’ufficio fallimentare appare del tutto estraneo (Luisi, Censoni, Giur. sist. Bigiavi Fall., I, pp. 586 ss.: Vitale, I debiti, cit., p. 15), nonché casi in cui la l. fall. prevede che i debiti originariamente concorsuali, in quanto assunti dal fallito anteriormente alla dichiarazione di fall., si trasformino in debiti di massa, come previsto dall’art. 74, per i contratti a esecuzione continuata o periodica allorquando il cur. subentri nel rapporto e come previsto dall’art. 82 per il pagamento dei premi assicurativi pregressi (v. Guglielmucci, Fall. 83, p. 196; Tarzia, Fall. 83, pp. 153 ss.; Censoni, Giur. sist., cit., pp. 189 ss.)» (così Coppola, Commento all’art. 111, in Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare (e alle leggi sulle procedure concorsuali)6, Padova, 2013, p. 773); e sul punto v. anche Marinucci, I crediti prededucibili, cit., pp. 10 ss. e passim. 42 Così il punto 7.1. della motivazione della decisione ora ricordata delle Sezioni Unite.

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ga al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, «nell’esercizio della delega […] il Governo provvede […] attenendosi ai seguenti principi generali: / […] l) ridurre […] i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure […] di contenimento delle ipotesi di prededuzione […] al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l’attivo delle procedure». Ora una decisione giudiziale recente inedita (relativa ad Ilva) sembra avere invocato “l’esigenza” di contenimento delle ipotesi di prededuzione “rappresentata anche dalla legge delega” come argomento che suggerisce di qualificare le regole attuali sulla prededuzione come eccezionali e di interpretarle in via restrittiva. A me pare invece che questa opinione non sia condivisibile: già perché il principio ora trascritto della legge delega 155/2017 non esprime un’interpretazione dello ius conditum e tanto meno una sua lettura autentica, ma enuncia un obiettivo che dichiaratamente è soltanto de iure condendo. Senza dire che (come vedremo ai paragrafi successivi) la riforma in cantiere non modifica ancora la disciplina degli interessi in gioco prevista dalla legge prima di essa vigente.

Sezione II. La riforma in cantiere.

7. Sintesi delle conclusioni relative al diritto attuale. I lavori preparatori della riforma. In sintesi la disciplina dei crediti prededucibili vigente alla data del 27.10.2018 è formulata secondo le seguenti linee: 1) la regola della par condicio creditorum ex art. 2741, co. 1 c.c. non costituisce né una regola generale né un principio generale: mentre le regole generali sono quelle previste dall’art. 111 l. fall., e così sia l’art. 111.2 l. fall. sulla fattispecie/nozione di credito prededucibile sia l’art. 111.1 l. fall. sull’“ordine di distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo”; ed entrambe le regole degli artt. 111, co. 1 e 111, co. 2 si applicano sostanzialmente a tutte le procedure concorsuali relative alle imprese; 2) le regole cui rinvia l’art. 111, co. 2 per definire alcune delle ipotesi di prededuzione non sono norme eccezionali; tanto vale ad esempio

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anche per l’art. 3, co. 1-ter del dl 347/2003; e tutte le norme richiamate dall’art. 111, co. 2 costituiscono regole puntali che esprimono e ribadiscono le regole generali/i principi dell’art. 111, co. 2; 3) tutte le regole relative alla fattispecie ed alla rilevanza della fattispecie del credito prededucibile non debbono essere interpretate in via restrittiva ma possono esserlo secondo ogni criterio di interpretazione, anche analogica. A questo punto esamino brevemente alcuni punti della riforma in cantiere, specialmente per verificare se la sua disciplina dei prededucibili segue le medesime linee della vecchia legge fallimentare. A questo proposito è noto che una commissione ministeriale presieduta da Rordorf, allora primo presidente aggiunto della Corte di cassazione, ha predisposto uno schema di legge delega articolata, da cui è derivata la legge 19 ottobre 2017 n. 155, “delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, e che ha attribuito al governo una delega ampia per procedere a questa riforma. Il d.m. del Ministro della Giustizia 5 ottobre 201743 ha poi istituito a questo fine una commissione di studio presieduta da Renato Rordorf. Questa commissione è stata poi allargata con dm 16 novembre 201744. Secondo il primo d.m. «la predisposizione delle bozze degli schemi di decreto legislativo dovranno» (sic!) «essere ultimate entro il 10 gennaio 2018» da parte della commissione ministeriale. Questa commissione ha svolto una vera montagna di lavoro. In particolare la commissione ha preparato ed il Ministero ha pubblicato inizialmente sul suo sito i seguenti documenti: 1) “Codice della crisi e dell’insolvenza” (che qui di seguito chiamerò per brevità come il codice della crisi); 2) “Disposizioni per l’attuazione del Codice della crisi e dell’insolvenza, norme di coordinamento e disciplina transitoria”; 3) “Tabella dei tribunali competenti ai sensi dell’articolo 2 comma 1 lettera n) punto 3

43 Questo decreto è intitolato “Costituzione Commissione di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo in vista dell’approvazione del disegno di legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” ed è pubblicato alla pagina https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page?contentId=SDC119995&p revisiousPage=mg_1_36_0. 44 Questo decreto è intitolato “integrazione Commissione di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo in vista dell’approvazione del disegno di legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” ed è pubblicato alla pagina https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_8_1.page?contentId=SDC120000&p revisiousPage=mg_1_36_0.

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della legge 19 ottobre 2017 n. 155”; 4) “relazione alla proposte di revisione della competenza dei tribunali in materia di procedure concorsuali articolo 2, comma 1, lettera n) della legge 19 ottobre 2017, n.155”45. Ed il sito del ministero pubblica inoltre la lettera di Rordorf 22 dicembre 2017, che trasmette al ministro alcuni risultati del lavoro della sua commissione. La lettera Rordorf 22 dicembre 2017 si riferisce anche ad uno schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 12 della legge delega 155/2017 relativo alle “garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire”; segnala in relazione ad essa che «la sottocommissione presieduta dal prof. Alpa ha elaborato anche una proposta di attuazione della delega contenuta nell’art. 12 della citata legge n. 155 del 2017, […] corredata da una breve relazione. La Commissione, per ragioni di tempo, non è stata in grado di esaminarla e di approvarla»; dichiara di allegarla; ma alla data dell’1 settembre 2018 il sito del Ministero non aveva ancora pubblicato i documenti predisposti dalla sottocommissione Alpa. Ed alla medesima data il sito del ministero non aveva ancora pubblicato nemmeno un documento ulteriore la cui redazione era affidata ai lavori preparatori affidati alla commissione Rordorf, e precisamente «lo schema del decreto di riordino dei privilegi e delle garanzie non possessorie (in attuazione degli artt. 10 e 11 della legge delega), che non sembra possibile completare in un così breve arco di tempo»46. Dopo questi primi lavori preparatori della commissione Rordorf sono intervenute le elezioni politiche, si è formata una nuova maggioranza parlamentare, è stato nominato un nuovo governo della Repubblica. A questo punto i lavori preparatori della riforma delle procedure concorsuali sono continuati non per mano della commissione Rordorf, ma ad opera dell’ufficio legislativo del Ministero della giustizia, “presieduto” da Mauro Vitiello. I lavori di quest’ufficio hanno condotto ad una nuova bozza del codice della crisi. Alla data del 27.10.2018 il sito del Ministero di giustizia elencava gli schemi di decreti legislativi predisposti, li pubblicava alla pagina https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_2.page?viewcat=csan_

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Questi cinque documenti sono pubblicati alla pagina https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS119984&previsiousPage=mg_1_36. In particolare questa pagina elenca e linka ad alcuni documenti. L’elenco dei cinque documenti esposto poc’anzi nel testo è al netto di alcune confusioni del sito ministeriale: che tra l’altro elenca alcuni documenti che riguardano i lavori della commissione incaricata della preparazione della legge delega e non invece degli schemi di decreto delegato; e contiene talvolta più di un link al medesimo documento. 46 La citazione è tratta dalla lettera di Rordorf del 22 dicembre 2017 al Ministro.

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tipologia3; indicava che la pagina aveva come “aggiornamento: 15 ottobre 2018”; ed a questa data e sino al 27.10.2018 (data in cui ho visionato la pagina per l’ultima volta) tra gli “schemi di decreti legislativi – articolati e relazioni illustrative” non indicava ancora quello di attuazione della legge delega 155/2017 sulla riforma delle procedure concorsuali. I bene informati sanno naturalmente che i lavori preparatori della riforma sono in corso. In particolare la pagina http://ilfallimentarista.it/articoli/ news/riforma-della-crisi-di-impresa-licenziato-dal-ministero-lo-schemadi-decreto ha pubblicato il 10 ottobre 2018 un articolo dal titolo “riforma della crisi di impresa: licenziato dal Ministero lo schema di decreto”: e questo articolo scrive che «il Ministero della Giustizia ha licenziato ed inviato ai due ministeri concertanti (Ministero dello Sviluppo Economico e Ministero dell’Economia e delle Finanze) lo schema di decreto legislativo recante il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza in attuazione della Legge delega n. 155/2017. […] Il testo del provvedimento approderà in Consiglio dei Ministri a fine mese». A sua volta la pagina https://www. fiscoetasse.com/normativa-prassi/12728-riforma-della-crisi-di-impre-sapubblichiamo-lo-schema-del-decreto-legislativo.html ha pubblicato il 12 ottobre 2018 un articolo intitolato “Il testo e la relazione illustrativa del nuovo schema di decreto sulla riforma della crisi delle imprese (cd riforma Rordorf delle procedure concorsuali), licenziato dal Ministero della giustizia”: e codesto articolo contiene anche un link a questo codice. Per parte mia assumo qui che il testo pubblicato da fiscoetasse.com sia “vero”; assumo inoltre che il progetto licenziato dal Ministero della giustizia riceverà i pareri favorevoli delle Camere e sarà approvato dal Governo sostanzialmente senza alcuna modifica di rilievo delle regole relative ai prededucibili; mi pare di poterlo perciò chiamare per semplicità “il codice della crisi” o talvolta anche “la riforma” o “la riforma in corso”; ed esprimo qui alcune prime riflessioni sulle regole di questo testo relative ai prededucibili ed in qualche misura anche alla disciplina delle cause legittime di prelazione.

8. Una comparazione tra sistema attuale e codice della crisi: la nozione di credito prededucibile. In particolare un primo gruppo di riflessioni riguarda la nozione, la categoria e se si vuole la fattispecie dei crediti prededucibili. E qui verifico allora se e come questa nozione sia diversa secondo la legge fallimentare ora vigente e rispettivamente il codice della crisi.

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Secondo l’art. 111, co. 2 della legge fallimentare attuale «sono considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge». Invece secondo l’art. 6 del codice della crisi «1. Oltre ai crediti così espressamente qualificati dalla legge, sono prededucibili: / a) i crediti relativi a spese e compensi per le prestazioni rese dall’organismo di composizione della crisi di impresa di cui al capo II del titolo II e dall’organismo di composizione della crisi da sovraindebitamento; / b) i crediti professionali sorti in funzione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e per la richiesta delle misure protettive, nei limiti del 75% del credito accertato e a condizione che l’accordo sia omologato; / c) i crediti professionali sorti in funzione della presentazione della domanda di concordato preventivo nonché del deposito della relativa proposta e del piano che la correda, nei limiti del 75% del credito accertato e a condizione che la procedura sia aperta ai sensi dell’articolo 47; / d) i crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali per la gestione del patrimonio del debitore, la continuazione dell’esercizio dell’impresa, il compenso degli organi preposti e le prestazioni professionali richieste dagli organi medesimi. / 2. La prededucibilità permane anche nell’ambito delle successive procedure esecutive o concorsuali. / 3. Non sono prededucibili i crediti professionali per prestazioni rese su incarico conferito dal debitore durante le procedure di allerta e composizione assistita della crisi a soggetti diversi dall’OCRI». In questo modo le regole dell’art. 111, co. 2 l. fall. e 6 del codice della crisi presentano alcuni elementi di somiglianza ed alcune differenze. E qui ne ricordo alcune. a) L’art. 111, co. 2 l. fall. stabilisce che «sono considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge»; analogamente l’art. 6, co. 1 del codice della crisi qualifica come prededucibili «i crediti così espressamente qualificati dalla legge»; ed a prima vista le due regole sono interamente sovrapponibili. b) L’art. 111, co. 2 l. fall. esprime poi una clausola generale, secondo cui sono crediti prededucibili anche quelli che sono «sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge». Invece il codice della crisi non esprime una clausola generale analoga: ed al contrario elenca all’art. 6, co. 1 alcune ipotesi/fattispecie specifiche che possono rientrare nella categoria dei crediti «sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali» prevista dall’art. 111, co. 2 l. fall., ma certamente non la esauriscono. Qui ci si può chiedere se le regole specifiche dell’art. 6 del codice della crisi possano essere interpretate in senso analogico: ed una risposta positiva mi sembra consentita da

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ragioni simili a quelle ricordate or ora e per cui l’art. 111 l. fall. non è regola eccezionale e può essere interpretato ed applicato anche in via analogica; ed inoltre dalla circostanza che l’art. 6 del codice della crisi (intitolato alla “prededucibilità dei crediti”) è collocato in un capo del codice che è espressamente rubricato e dedicato ai “principi generali”. c) L’art. 111 l. fall. esprime una nozione generale di crediti prededucibili, che ha come sedes materiae la disciplina del fallimento, ma che in base ad una serie di rinvii si applica a tutte le procedure concorsuali relative alle imprese: siano esse disciplinate dalla legge fallimentare o piuttosto da altre leggi. Occorre ora verificare se altrettanto valga anche per l’art. 6 del codice della crisi. Qui ci si può chiedere anzitutto se l’art. 6 si applica a tutte le procedure concorsuali disciplinate dal codice della crisi: e la risposta mi sembra debba essere positiva già perché l’art. 6 è collocato nel titolo I del codice rubricato “disposizioni generali” a tutto il codice della crisi ed in particolare nel suo capo II rubricato “principi generali” del codice. Ci si può chiedere inoltre se l’art. 6 del codice della crisi sia applicabile anche alle procedure concorsuali che resteranno disciplinate da leggi diverse dal codice della crisi e ad un tempo rinviino all’art. 111 l. fall.: ed anche qui una risposta positiva mi sembra possibile già perché i riferimenti delle altre leggi all’art. 111 l. fall. possono essere ragionevolmente riletti come rinvii alla norma corrispondente dell’art. 6 del codice della crisi; mentre occorrerebbe ma per il momento mi esimo qui dal verificare se il medesimo risultato interpretativo sia suggerito anche dal titolo X del codice della crisi, relativo alle «disposizioni dell’attuazione del codice della crisi e dell’insolvenza, norme di coordinamento e disciplina transitoria». A questo punto mi fermo in particolare sul rapporto tra gli obiettivi della legge delega e la parte della riforma relativa ai prededucibili. La legge delega 155/2017 non attribuiva espressamente al governo il potere di modificare l’impostazione pregressa di fondo relativa ai prededucibili: e si capisce dunque che le linee della disciplina che è oggigiorno vigente dei crediti prededucibili (che abbiamo ricostruito ai paragrafi precedenti) sono rimaste ferme anche nella riforma. La legge delega chiedeva invece espressamente al governo “di procedere ad un “contenimento delle ipotesi di prededuzione”. E la riforma ha seguito questa indicazione. Difatti anzitutto essa ha circoscritto l’area dei crediti prededucibili: perché non ha ripreso la clausola generale della prededucibilità dei crediti «sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge» che era prevista dall’art. 111, co. 2 l. fall.; ed anzi l’ha sostituita con le regole (corrispondenti ma più circoscritte) previste dall’art. 6 lett. b) e c) del codice della crisi. Inoltre la riforma ha

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circoscritto anche l’ammontare massimo di ciascuno dei crediti prededucibili previsti dall’art. 6 lett. b) e c) del codice della crisi, in quanto lo ha ridotto dal 100 al solo 75% dei relativi “crediti professionali”.

9. Ed il suo rilievo. Un secondo gruppo di riflessioni riguarda la rilevanza della fattispecie dei crediti prededucibili. E qui ancora una volta verifico se questa rilevanza sia uguale nella legge fallimentare e rispettivamente nel codice della crisi. Secondo l’art. 111 l. fall. «Le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono erogate nel seguente ordine: / 1) per il pagamento dei crediti prededucibili; / 2) per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge; / 3) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso, compresi i creditori indicati al n. 2, qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui rimasero non soddisfatti da questa. […] e tali crediti sono soddisfatti con preferenza ai sensi del primo comma n.1)». Invece secondo l’art. 221 del codice della crisi «1. Le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo sono erogate nel seguente ordine: / a) per il pagamento dei crediti prededucibili; / b) per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge; / c) per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi sia stato ammesso, compresi i creditori indicati alla lettera b), qualora non sia stata ancora realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui essi siamo rimasti non soddisfatti dal relativo realizzo; / d) per il pagamento dei crediti postergati». In questo modo la disciplina della legge fallimentare e quella del codice della crisi presentano alcuni elementi di somiglianza ed alcune differenze: e qui ne ricordo in particolare le seguenti. Una prima differenza consiste in ciò che l’art. 111.1 l. fall. non prevede espressamente una regola equivalente all’art. 221 del codice della crisi secondo cui il riparto delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo è destinato ai crediti postergati solo dopo il soddisfo di quelli prededucibili, privilegiati e chirografari. La differenza è tuttavia solo apparente: perché l’interpretazione sistematica dell’art. 111 l. fall. e delle diverse regole relative alla postergazione dei crediti comporta comunque che anche oggi i crediti postergati sono soddisfatti per ultimi.

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Una seconda differenza riguarda la rilevanza della nozione/fattispecie del credito prededucibile. Qui già si è visto che l’art. 111 l. fall. è regola generale applicabile a tutte le procedure concorsuali relative alle imprese, siano esse previste o non previste dalla legge fallimentare. È da chiedersi se la medesima conclusione valga nel sistema previsto dalla riforma. Qui una prima risposta negativa sembra essere suggerita dalle seguenti circostanze: anzitutto l’art. 221 del codice della crisi ha come sedes materiae la disciplina dedicata alla procedura della “liquidazione giudiziale”; inoltre l’art. 221 non dispone espressamente la propria applicazione ad altre procedure concorsuali previste dal codice; ed infine il codice della crisi non contiene norme che prevedano espressamente l’applicazione dell’art. 221 ad altre procedure concorsuali. A ben vedere non mancano tuttavia alcuni argomenti che possono invece suggerire l’applicazione dell’art. 221 del codice della crisi ad altre procedure concorsuali liquidatorie relative alle imprese. a) Anzitutto quest’applicazione è certo possibile per le procedure che ad un tempo sono oggi disciplinate da leggi diverse da quella fallimentare, rinviano espressamente all’art. 111 l. fall., e non saranno regolate dal codice della crisi: perché ragionevolmente il rinvio attuale all’art. 111 l. fall. può/deve essere allora riletto come rinvio all’art. 221 del codice della crisi. b) Inoltre l’applicazione dell’art. 221 è possibile anche alle altre procedure concorsuali liquidatorie relative alle imprese disciplinate dal codice della crisi. Anzitutto l’art. 6 del codice della crisi contiene una definizione della fattispecie dei crediti prededucibili; le norme sono normalmente perfectae; la definizione legislativa della fattispecie ex art. 6 lascia allora presumere che essa abbia una rilevanza giuridica e chiama il giurista a ricostruirla; ed in mancanza di diverse indicazioni del codice della crisi questa rilevanza può essere costituita dalla prededuzione di un credito rispetto ad ogni altro, così come previsto dall’art. 221. Inoltre l’art. 111 l. fall. è una regola generale e può essere interpretata anche in via analogica; i medesimi argomenti che ho invocato a supporto di questa prima conclusione sono utilizzabili almeno in parte per estenderla anche all’art. 221 del codice della crisi; e questo può allora essere applicato anche alle altre procedure liquidatorie relative alle imprese. Infine la medesima conclusione può forse essere suggerita anche dall’applicazione analogica delle norme attuali collocate al di fuori della legge fallimentare e che rinviano all’art. 111 l. fall.: perché dopo il codice della crisi il rinvio all’art. 111 della vecchia legge fallimentare deve ragionevolmente essere inteso come un rinvio all’art. 221 del codice della crisi. c) Mi pare tuttavia sarebbe stato preferibile

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modificare il progetto attuale di codice della crisi: inserendo all’art. 6 la regola che ora è collocata invece all’art. 221; integrando il nuovo art. 6 con l’indicazione espressa delle procedure concorsuali regolate dal codice della crisi cui l’art. 6 si applica; e sopprimendo per conseguenza la regola qui considerata dell’art. 221 del codice.

10. Il progetto di riforma (non realizzata) delle cause di prelazione. Un terzo gruppo di riflessioni non riguarda il tema della prededuzione, ma quello vicino relativo ai crediti privilegiati. Comincio con alcune considerazioni preliminari di quadro. a) La relazione Rordorf “allo schema di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali” ha giustamente ricordato che «la disciplina dei privilegi si presenta oggi assai frastagliata e, per molti aspetti, obsoleta […] mentre altre situazioni emergenti nel contesto evolutivo della società potrebbero magari oggi apparire altrettanto (o anche più) meritevoli di una considerazione privilegiata» 47. Per queste ragioni l’art. 10 della legge delega 155/2017 ha previsto che «nell’esercizio della delega di cui all’art. 1, il Governo procede al riordino e alla revisione del sistema dei privilegi, principalmente con l’obiettivo di ridurre le ipotesi di privilegio generale e speciale, con particolare riguardo ai privilegi retentivi, eliminando quelle non più attuali rispetto al tempo in cui sono state introdotte e adeguando in conformità l’ordine delle cause legittime di prelazione». E questa riforma poteva avere anche l’effetto utile di ampliare la quota di attivo ripartibile a favore dei chirografari: che nella pratica sono spesso “schiacciati” da prededucibili e da privilegiati. b) Inoltre l’art. 11 della legge delega ha previsto che la riforma doveva estendersi anche alle “garanzie non possessorie” e ai relativi diritti di prelazione: ma anche qui la commissione Rordorf (prima) e l’Ufficio legislativo del Ministero di giustizia (poi) non hanno potuto/voluto terminare i lavori preparatori sul punto. c) Infine la disciplina attuale dei diritti di prelazione si è formata progressivamente in una società ed in economie che attribuivano rilievo specialmente agli asset tangibili: mentre negli ultimi decenni è cresciuta

47 Così il paragrafo 11 della relazione Rordorf allo schema di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali.

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in modo esponenziale l’importanza degli intangibles ed in particolare di quelli costituiti dai diritti di proprietà intellettuale48. Ora la commissione Rordorf (prima) e l’Ufficio legislativo del Ministero della giustizia (poi) hanno compiuto in poco tempo una mole di lavoro indubbiamente grande: ma il codice della crisi non ha potuto realizzare in alcun modo il progetto di riforma delle cause di prelazione.

48 Quest’ultima evoluzione verso l’economia degli intangibles suggerisce allora che un’eventuale e futura riforma relativa alle cause legittime di prelazione dovrebbe prestare un’attenzione particolare anche a quelle relative alla proprietà intellettuale. E qui segnalo in particolare due temi ed una curiosità. Un primo tema riguarda la definizione generale della fattispecie costitutiva del privilegio e del pegno relativi a diritti di proprietà intellettuale. Questo tema non è semplice, anche per la distinzione tra privative titolate e non titolate operata dall’art. 2 c.p.i. e per la questione relativa a funzione e rilievo dei diversi registri statali o internazionali di diritti di proprietà intellettuale. E qui sarebbe utile un intervento legislativo ampio e sistematico. In particolare per alcune prime indicazioni bibliografiche su questi temi rinvio a A. Tosato, L’utilizzo dei diritti di proprietà intellettuale come oggetto di garanzia, Dissertazione di dottorato, passim; Id., Garanzie «reali» e diritti IP: per un censimento dei materiali, in IDA 2009, pp. 557 ss.; e Id., Commento agli artt. 103-106 l.a., in Ubertazzi, a cura di, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza6, 2016, pp. 1916 ss. Sul tema poi delle garanzie su diritti di proprietà intellettuale v. inoltre i contributi presentati da Troiano, Capo, Giampaolino, M. Cian, Vessia, Bariatti, Nivarra, Chianale, Auteri, Maggiolo, Leonini, Spolidoro, C. Galli, Pagni al convegno su “Le garanzie su diritti IP”: convegno organizzato da Aida e contributi pubblicati in Aida 2009, pp. 3 ss. Un secondo tema riguarda la regola dell’art. 2751-bis n. 2 c.c. che prevede un privilegio generale mobiliare per i crediti riguardanti «le retribuzioni dei professionisti e di ogni altro prestatore d’opera intellettuale». Ci si chiede se, in quali casi ed in che misura questa regola si applichi anche ai crediti degli autori. La giurisprudenza sul punto è divisa (e per alcune prime indicazioni sul tema v. A. M. Rovati, Nota a Trib. Firenze 16 gennaio 2008, in AIDA 2009, pp. 597 ss.). Ed anche in questa materia sarebbe utile un intervento legislativo ponderato. Per curiosità segnalo infine che l’art. 9 della l. 25 giugno 1865 n. 2337, e così della prima legge unitaria italiana sul diritto d’autore prevedeva esplicitamente un privilegio accessorio ad un credito dell’autore e dei suoi congiunti. Questa regola riguardava tuttavia il sistema di protezione del diritto d’autore introdotto dalla legge 2337/1865, e precisamente la sua caratteristica secondo cui il periodo di tutela degli interessi patrimoniali d’autore era diviso in due parti, di cui la prima prevedeva un’esclusiva a favore degli autori, e la seconda sostituiva l’esclusiva con un sistema di cd. dominio pubblico pagante, e cioè con la libertà di ogni interessato ad utilizzare l’opera, a fronte di un credito erga omnes dell’autore contro ogni utilizzatore dell’opera. Il sistema del dominio pubblico pagante non è stato tuttavia ripreso dalle leggi successive ed in particolare da quelle del 1925 e del 1941: onde il privilegio previsto inizialmente dall’art. 9 legge 2337/1865 non è più attuale.

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11. Alcune osservazioni sulla “opportunità” della riforma dei prededucibili. La pratica segnala che nelle procedure concorsuali i creditori prededucibili e quelli privilegiati fanno spesso la parte del leone: riducendo drasticamente le chances dei creditori chirografari di partecipare adeguatamente al riparto della liquidazione dell’attivo. La legge delega che sta alla base della riforma (155/2017) ha previsto allora che il governo doveva «ridurre […] i costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure […] di contenimento delle ipotesi di prededuzione» (così l’art. 2, co. 1, lett. l) della legge delega). Inoltre ha previsto che «il Governo procede al riordino e alla revisione del sistema dei privilegi, principalmente con l’obiettivo di ridurre le ipotesi di privilegio generale e speciale, con particolare riguardo ai privilegi retentivi, eliminando quelle non più attuali rispetto al tempo in cui sono state introdotte e adeguando in conformità l’ordine delle cause legittime di prelazione» (così l’art. 10 della legge delega 155/2017). Questa delega legislativa è stata attuata soltanto in parte: perché i lavori preparatori della riforma hanno certo richiesto una vera montagna di lavoro, ma non hanno attuato in alcun modo la delega relativa alla riforma dei privilegi. E qui mi fermo allora sulle novità introdotte dalla riforma per i crediti prededucibili. Anzitutto la legge delega 155/2017 non attribuiva espressamente al governo il potere di modificare l’impostazione pregressa di fondo relativa ai prededucibili: e si capisce dunque che le linee della disciplina dei crediti prededucibili vigente oggigiorno (che abbiamo ricostruito ai paragrafi precedenti) sono rimaste ferme anche nella riforma. Inoltre la legge delega chiedeva invece espressamente al governo di procedere ad un «contenimento delle ipotesi di prededuzione». E la riforma ha seguito questa indicazione. Difatti anzitutto essa ha circoscritto l’area dei crediti prededucibili: perché non ha ripreso la clausola generale della prededucibilità dei crediti «sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge» che era prevista dall’art. 111, co. 2 della legge fallimentare; ed anzi l’ha sostituita con le regole (corrispondenti ma più circoscritte) previste dall’art. 6 lett. b) e c) del codice della crisi. Inoltre la riforma ha circoscritto anche l’ammontare massimo di ciascuno dei crediti prededucibili previsti dall’art. 6 lett. b) e c) del codice della crisi, in quanto lo ha ridotto dal 100 al solo 75% dei relativi “crediti professionali”. E qui esprimo alcune brevi note critiche al progetto di riduzione delle dimensioni dei crediti professionali prededucibili. Anzitutto questa riduzione è in linea con una tendenza legislativa

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degli anni recenti a ridurre le remunerazioni dei professionisti (che se ben vedo inizia già dalla riforma dei loro compensi varata dal governo Monti). Inoltre se ben vedo la riduzione dei crediti prededucibili è posta interamente a carico dei professionisti; tuttavia se ben vedo i lavori preparatori della riforma non hanno ancora indicato le ragioni di questa scelta legislativa ai danni dei soli professionisti; forse è da chiedersi se essa rispetti i principi di uguaglianza e di proporzionalità ex art. 3 cost.; e forse questo aspetto della riforma potrebbe non essere condiviso dalle diverse categorie dei professionisti che operano nel mondo delle procedure concorsuali.

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Il socio persona fisica titolare di partecipazioni qualificate di una banca Sommario: Introduzione. – Parte I. I profili “statici”. – 1. Introduzione e delimitazione del campo d’indagine. – 1.1. L’evoluzione della disciplina delle partecipazioni rilevanti fino al d.lgs. 72/2015. – 1.2. In sistema normativo vigente. Le competenze e le fonti normative in generale. – 2. La regolamentazione europea dell’obbligo della notifica preventiva dell’acquisto e della cessione della partecipazione qualificata. L’evoluzione della posizione del Comitato congiunto delle autorità europee di vigilanza. – 2.1. La posizione delle ESAs all’interno della Consultation on joint Guidelines for the prudential assessment of acquisitions of qualifying holdings. – 2.2. La posizione definitiva delle ESAs: le Joint Guidelines on the prudential assessment of acquisitions and increases of qualifying holdings in the financial sector del 20 dicembre 2016. – 2.2.1. Il control criterion. – 2.2.2. Il multiplication criterion. La distinzione tra soggetti obbligati alla notifica e soggetti valutati in pieno da parte dell’autorità di vigilanza. – 3. L’individuazione del titolare della partecipazione rilevante nella normativa nazionale. – Parte II. I profili “dinamici”. – 4. La disciplina delle qualità richieste al possessore della partecipazione qualificata - 4.1. [segue]: a) la capacità di mantenimento di un’adeguata solidità finanziaria. – 4.2. [segue]: b) l’impegno ad assicurare una sana e prudente gestione. – 5. Alcune riflessioni critiche circa i profili “dinamici” della partecipazione rilevante. – 6. Conclusioni: il quadro complessivo della disciplina della partecipazione rilevante in una banca del socio persona fisica.

* Il presente scritto è l’elaborazione del working paper discusso in occasione del nono convegno annuale “Problemi attuali della proprietà nel diritto commerciale” dell’Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, tenutosi a Roma il 22-23 febbraio 2018. Pur essendo il frutto di una riflessione comune, sono attribuibili ad Alessandro V. Guccione i paragrafi contenuti nella Parte I, a Marco Palmieri quelli racchiusi nella Parte II, mentre il paragrafo introduttivo e le conclusioni sono opera di entrambi. Gli autori intendono ringraziare il discussant prof. Vittorio Santoro e il referee anonimo indicato dalla Direzione della Rivista per gli utili suggerimenti resi.

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Introduzione. In questo lavoro vengono esaminati alcuni problemi relativi all’individuazione dei presupposti di applicazione della disciplina delle partecipazioni rilevanti o di controllo nelle banche, nei casi in cui tali partecipazioni appartengano a un socio persona fisica. Nella prima parte dello scritto, a cura di Alessandro Guccione, tali problemi vengono affrontati in relazione ai profili “statici” della disciplina delle partecipazioni rilevanti e di controllo, in relazione cioè alle norme che trovano applicazione sul presupposto della titolarità, diretta od indiretta, di una determinata quantità di azioni, e rispetto alle quali le valutazioni in ordine alle ragioni dell’acquisto e al possibile impiego della partecipazione possono, in alcuni casi, incidere sull’ambito di applicazione delle norme stesse, ovvero rilevare in altro modo ai fini della ricostruzione della disciplina nel complesso applicabile al titolare della partecipazione. In questa prospettiva, il rilievo attribuito alle partecipazioni indirette quale presupposto di applicazione della disciplina de qua pone, in generale, il problema di coordinare i possibili modi di essere della catena del controllo – in termini di peso relativo della partecipazione del socio persona fisica e dell’utilizzo che questa intende farne – con le finalità proprie della disciplina delle partecipazioni rilevanti. Nella seconda parte, a cura di Marco Palmieri, i problemi indicati in principio vengono affrontati in relazione ai profili “dinamici” della disciplina delle partecipazioni, ossia in relazione a talune norme dal contenuto “comportamentale”, che trovano applicazione sul presupposto dell’utilizzo della partecipazione rilevante o di controllo quale strumento per lo svolgimento di un’attività specifica da parte del titolare della stessa. A tal riguardo, l’applicazione di queste norme alla persona fisica-socia indiretta della banca risulta un elemento sostanzialmente estraneo a quanto previsto dalla disciplina societaria comune, anche qualora possa essere ipotizzato in capo al partecipe lo svolgimento delle attività che ne costituiscono il presupposto di applicazione. Nel diverso contesto qui analizzato, il problema sembrerebbe essere soprattutto quello di verificare se e, eventualmente, in quali termini l’ambito della loro applicazione risulti giustificato alla luce degli interessi in gioco.

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Parte I. I profili statici. 1. Introduzione e delimitazione del campo d’indagine. Il problema della possibilità di considerare tenuto all’adempimento delle diverse tipologie di obblighi che la legge pone a carico dell’immediato titolare di partecipazioni rilevanti un soggetto diverso da quest’ultimo attraversa, come è ben noto, numerosi ambiti disciplinari ed ha da sempre suscitato un vivace dibattito, legato tra l’altro, alla sua possibile rilevanza ai fini della ricostruzione dei precisi contorni del sistema della personalità giuridica. La prima questione che intendiamo affrontare, seppure ricompresa all’interno del problema più generale, è molto più limitata e consiste nello stabilire se ed a quali condizioni nella vigente regolamentazione delle partecipazioni nelle banche, contenuta negli artt. 19 e seguenti del t.u.b.1, possa considerarsi tenuta all’adempimento degli obblighi posti a carico del titolare della partecipazione qualificata, ovvero del soggetto che intenda acquisire tale partecipazione, la persona fisica alla quale spetti, attraverso una più o meno articolata ma univoca catena di controllo, la possibilità “teorica” di influenzare le decisioni concernenti una partecipazione rilevante in una banca direttamente detenuta da un diverso soggetto.

1 Era iniziale intenzione degli autori prendere in considerazione tutti i casi nei quali il t.u.b. attribuisce rilievo alla partecipazione diretta od indiretta al capitale di una banca, ma la diversità e la complessità di tali casi hanno suggerito una delimitazione del campo di indagine a quanto indicato nel testo. Occorre infatti ricordare che la titolarità di una partecipazione qualificata rileva direttamente ai seguenti fini: a) definizione degli stretti legami tra una banca ed un soggetto italiano od estero (art. 1, co. 1, lett. h); b) autorizzazione iniziale all’esercizio dell’attività bancaria (art. 14, co. 1, lett. d); c) disciplina delle partecipazioni nelle banche (artt. 19-24) e dei partecipanti al capitale (art. 25). A questo primo gruppo di casi sarebbe stato poi necessario aggiungere una particolare disciplina trova applicazione in virtù del controllo di una banca, che sussiste tra l’altro, giusta la relativa nozione contenuta nell’art. 23 t.u.b., in capo al soggetto che partecipa al capitale di una banca nella misura indicata nello stesso articolo, come accade per gli obblighi di comunicazione a carico del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale nelle società che controllano una banca (art. 52 t.u.b) e, soprattutto, per la disciplina della vigilanza su base consolidata (artt. 59 ss. t.u.b.).

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1.1. L’evoluzione della disciplina delle partecipazioni rilevanti fino al d.lgs. 72/2015. L’attuale disciplina delle partecipazioni rilevanti nelle banche è il prodotto di un rilevante numero di modifiche, sistematizzazioni e ripensamenti delle originarie diposizioni in materia. Un sintetico esame di questa evoluzione legislativa sembra dunque opportuno perché la prospettiva storica, contribuendo a mettere in luce gli aspetti più sensibili di una materia, può dare alcune importanti indicazioni in ordine all’individuazione di un eventuale e distinto “tipo” della proprietà di partecipazioni rilevanti. Le partecipazioni rilevanti nelle banche vengono disciplinate per la prima volta con il d.P.R. 27 giugno 1980, n. 350, emanato in attuazione della Prima direttiva 77/780/CEE del Consiglio, del 12 dicembre 1977, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio. Non era previsto alcun obbligo di autorizzazione preventiva ed ai titolari di partecipazioni superiori al 2% era imposto il solo rispetto di alcuni requisiti di onorabilità, prevedendo per i soggetti che ne erano privi l’unica sanzione della impossibilità di esercitare il diritto di voto per le azioni eccedenti. A questo semplice sistema venne in seguito ad aggiungersi quello contenuto negli artt. da 27 a 30 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, i quali prevedevano: i) l’obbligo dell’autorizzazione preventiva da parte della Banca d’Italia per l’acquisto di partecipazioni eccedenti il 5% o comunque in grado di assicurare il controllo dell’ente creditizio; ii) l’impossibilità di autorizzare l’acquisto di una partecipazione superiore al 15%, o tale da assicurare il controllo dell’ente creditizio, da parte di «soggetti diversi dagli enti creditizi e dagli enti o società finanziari»; iii) la sanzione della sospensione del voto per le azioni acquistate in mancanza di autorizzazione o in caso di revoca della stessa e, iv) soltanto nel caso di violazione del divieto di acquisto di azioni eccedenti il 15% da parte di enti non bancari o finanziari, l’obbligo di alienazione delle azioni eccedenti il limite, che in caso di non spontaneo adempimento trovava esecuzione coattiva per ordine del Tribunale. Nel 1993, il t.u.b., nella sua formulazione originaria, prende atto dell’esistenza dei sistemi normativi contenuti all’interno del d.P.R. n. 350/1985 e della l. n. 287/1990 – diversi per i problemi affrontati e per le relative soluzioni – prevedendo una distinta disciplina delle partecipazioni al capitale delle banche, contenuta negli artt. da 19 a 24, e dei requisiti di professionalità e di onorabilità dei partecipanti, contenuta nell’art. 25. Riguardo alle prime, viene confermato l’obbligo dell’autorizzazione

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preventiva all’acquisto di partecipazioni superiori al 5% o che comunque consentono il controllo, ancorandola a presupposti – la verifica dell’esistenza di condizioni atte a garantire la sana e prudente gestione della banca – diversi da quelli previsti dalla l. n. 287/1990, e viene confermato il limite alla possibilità di autorizzare l’acquisto di partecipazioni superiori al 15 % da parte di soggetti operanti in misura rilevante in settori non bancari o finanziari. Viene mantenuto il “dualismo” sanzionatorio della l. n. 287/1990: la mancanza o la revoca dell’autorizzazione impedisce al titolare di esercitare il diritto di voto, mentre l’obbligo di alienazione è previsto per la violazione del limite alla titolarità di partecipazioni in capo al soggetto che opera al di fuori del settore bancario o finanziario. Per quanto riguarda i requisiti di onorabilità dei partecipanti, l’art. 25 delegifica pressoché interamente la materia, rimettendo ad un successivo decreto del Ministro del Tesoro la determinazione dei requisiti e le quote di partecipazione in presenza delle quali tali requisiti dovranno essere rispettati, ma conferma la sanzione dell’impossibilità di esercitare il diritto di voto. Attraverso le modifiche apportate agli artt. 24 e 25 t.u.b. ad opera, rispettivamente, dell’art. 9.10, co. 1, d. lgs. n. 6/2003, come modificato dall’art. 2.1. d. lgs. n. 37/2004 e dell’art. 9.11, co. 1, d. lgs. n. 6/2003, come modificato dall’art. 2.1. d. lgs. n. 37/2004, ha luogo l’uniformazione del sistema sanzionatorio per la violazione: i) dell’obbligo di autorizzazione all’acquisto di partecipazioni rilevanti ex art. 19, co. 1, t.u.b., ii) del divieto di autorizzare l’acquisto di partecipazioni eccedenti il 15% da parte di soggetti non operanti nel settore bancario o finanziario, e iii) del divieto previsto dall’art. 25 t.u.b. di acquistare le partecipazioni eccedenti determinate soglie da parte dei soggetti privi di requisiti di onorabilità. In tutte queste ipotesi vengono ora previste, come conseguenza delle violazioni indicate, la sanzione dell’impossibilità di esercitare il diritto di voto e quella dell’obbligo di alienazione della partecipazione2.

2 L’evoluzione normativa mostra come sia venuto progressivamente creandosi un legame tra la sanzione dell’obbligo di alienazione ex art. 24, co. 3, t.u.b., il potere di autorizzare l’acquisto ed il diritto di proprietà delle “cose” che costituiscono la partecipazione – cioè, ai sensi dell’art. 1, co. 2, lett. h-quater, «le azioni, le quote e gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque i diritti previsti dall’articolo 2351, ultimo comma, del codice civile». Un legame che non solo non esisteva in origine, ma che non è nemmeno previsto dalla normativa europea, la quale si limita a prevedere la sanzione della sospensione del diritto di voto (art. 26, dir. 2013/36/UE). Dal punto di vista formale – nonostante la formulazione dell’art. 19, co. 1, t.u.b. («È sog-

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Negli anni successivi il legislatore interviene ancora, numerose volte, sulle disposizioni del t.u.b. riguardanti le partecipazioni rilevanti, attraverso modifiche non solo alla disciplina dei requisiti che devono essere posseduti dai titolari – chiarendo progressivamente che i soggetti tenuti a domandare l’autorizzazione all’acquisto ex art. 19 sono gli stessi che devono rispettare i requisiti di cui all’art. 253 – ma anche al regime

getta ad autorizzazione preventiva l’acquisizione a qualsiasi titolo») – non sembra che l’attuale regolamentazione abbia inciso sulla capacità giuridica dell’acquirente, né che abbia inteso introdurre ulteriori requisiti di validità del contratto di acquisto. L’obbligo di alienazione «entro i termini previsti dalla Banca d’Italia» previsto dall’art. 24, co. 3, t.u.b. per mancanza di autorizzazione, nonché il divieto di esercitare il diritto di voto e gli altri diritti che consentono di influire sulla società (art. 24, co. 1, t.u.b.) presuppongono, infatti, l’acquisto legittimo della titolarità della partecipazione e non avrebbero senso nel caso di invalidità o di inefficacia del contratto attraverso il quale si realizza il superamento della soglia partecipativa. La violazione dell’obbligo di alienazione non è, inoltre, assistita da una sanzione “reale” (il dato è rilevato da Benocci, Commento sub art. 24, in Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, a cura di, Testo unico bancario. Commentario, Milano, 2010, p. 245, nonché, da ultimo, anche da Sacco Ginevri, Commento sub art. 24, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, I, Padova, 2018, p. 261) – per lo meno potenziale, come quella prevista dall’art. 24, co. 2, t.u.b. per il caso di violazione del divieto di esercitare il diritto di voto – in quanto l’art. 139, co. 1, t.u.b. prevede che nel caso di violazione delle disposizioni contenute dell’articolo 24, co. 3, t.u.b. trovi unicamente applicazione una sanzione amministrativa pecuniaria che – pur rappresentando un forte deterrente, anche in ragione dell’applicabilità dell’art. 144, co. 9, t.u.b. – non sembrerebbe incidere sul contenuto del diritto di proprietà delle res che costituiscono la partecipazione rilevante. La disciplina de qua non attribuisce, in definitiva, diritti o facoltà che già non spettino ai privati – come potrebbe suggerire la “perdita” della titolarità della partecipazione da parte dei soggetti inidonei a garantire una sana e prudente gestione – ma risulta piuttosto diretta ad assicurare quella verifica della compatibilità tra il pubblico interesse e l’esercizio di un diritto da parte di soggetti privati che costituisce l’essenza dei provvedimenti di autorizzazione (v. ex multis, Virga, Diritto amministrativo. II. Atti e ricorsi, quinta ed. agg, ., Milano, 1999, p. 15; Mignone, Tipologia degli atti amministrativi, in Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi Monaco, Scoca, a cura di, Diritto amministrativo, II, Bologna, 1993, p. 1210 ss). 3 Con il d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, l’acquisto di partecipazioni rilevanti da parte di soggetti non operanti nel settore bancario o finanziario viene ricondotto alla disciplina generale dell’autorizzazione ex art. 19, anche se viene richiesto alla Banca d’Italia di accertare «la competenza professionale generale nella gestione di partecipazioni ovvero, considerata l’influenza sulla gestione che la partecipazione da acquisire consente di esercitare, la competenza professionale specifica nel settore finanziario» (art. 14, co. 1, d.l. n. 185/2008; questa disposizione verrà in seguito abrogata d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 21). Successivamente, con l’art. 1 del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 21, emanato in attuazione della dir. 2007/44/CE, vengono: i) modificati i presupposti

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sanzionatorio, attraverso l’eliminazione del secondo periodo del co. 3 dell’art. 24 (art. 1, co. 1, lett. g, del d.lgs. n. 21/2010), che prevedeva che la vendita delle partecipazioni eccedenti le soglie massime consentite ai soggetti non operanti nel settore bancario o finanziario avvenisse per ordine del Tribunale, su richiesta della Banca d’Italia. 1.2. In sistema normativo vigente. Le competenze e le fonti normative in generale. Con la creazione del MVU, attraverso il Reg. (UE) 1024/2013, la regolamentazione delle partecipazioni rilevanti ha visto accrescere in modo considerevole la propria complessità sotto il profilo della competenza a ricevere la notifica preventiva riguardante l’acquisizione di una partecipazione rilevante, nonché della disciplina in forza della quale le autorità competenti dovranno compiere le relative valutazioni. Per quanto riguarda le competenze: i) la BCE è l’autorità alla quale spetta in linea di massima la competenza esclusiva a valutare le notifiche di acquisizione e di cessione di partecipazioni qualificate negli enti creditizi [art. 4(1)(c) Reg. (UE) 1024/2013]; l’esclusività di tale competenza viene però circoscritta dallo stesso art. 4(1)(c) Reg. (UE) 1024/2013: non solo è esclusa nel caso di risoluzione di una crisi bancaria («tranne nel caso…»), ma viene «fatto salvo l’art. 15» del Reg. (UE) 1024/2013, il quale prevede che ii) spetta all’autorità nazionale di vigilanza dello stato nel quale è stabilito l’ente creditizio la competenza a ricevere «la notifica di acquisizione di una partecipazione qualificata» [art. 15(1) Reg. (UE) 1024/2013], e iii) che la stessa autorità nazionale «valuta l’acquisizione proposta e trasmette alla BCE la notifica e una proposta di decisione di vietare o di non vietare l’acquisizione» [art. 15(2) Reg. (UE) 1024/2013],

in presenza dei quali è necessario domandare l’autorizzazione ex art. 19, ii) specificati i requisiti che la Banca d’Italia è tenuta ad accertare per stabilire se ricorrano le condizioni per la sana e prudente gestione della Banca, al cui interno (art. 19, co. 5) viene ora indicata la reputazione del potenziale acquirente, da valutare anche alla luce dei requisiti di cui all’art. 25; iii) precisato che le partecipazioni di cui all’art. 25 sono le stesse indicate nell’art. 19. Il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72 ha ulteriormente modificato le norme in materia prevedendo nell’art. 25 che «I titolari delle partecipazioni indicate all’articolo 19 devono possedere requisiti di onorabilità e soddisfare criteri di competenza e correttezza in modo da garantire la sana e prudente gestione della banca», e che la reputazione del potenziale acquirente debba essere valutata, ai fini dell’autorizzazione ex art. 19, «ai sensi dell’art. 25». Da ultimo, il d.lgs. 14 novembre 2016, n. 223 ha adeguato il testo dell’art. 19 ai mutamenti nel frattempo intervenuti negli assetti della vigilanza a seguito dell’istituzione del MVU.

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fermo restando che iv) l’ultima parola spetta comunque alla BCE, la quale «decide se vietare l’acquisizione» [art. 15(3) Reg. (UE) 1024/2013]. Ancora più complesso è il quadro relativo all’individuazione della disciplina applicabile nelle diverse fasi del procedimento sopra descritto. In primo luogo, a causa dei numerosi rinvii al pertinente diritto nazionale o al pertinente diritto dell’Unione4 che, come accade per analoghe espressioni in uso nell’ordinamento nazionale (ad es. «a legislazione vigente», contenuta nell’art. 2, co. 4, l. 11 gennaio 2018, n. 7, oppure «ai sensi della legislazione vigente», contenuta nell’art. 17, co. 12-quinquies, d. lgs. 16 giugno 2017, n. 100), finiscono per spostare sui destinatari dei provvedimenti che di esse fanno uso il problema di individuare quali siano le disposizioni rilevanti ed applicabili. A questo deve aggiungersi che la BCE, le autorità nazionali, ed i soggetti che intendono acquisire una partecipazione rilevante, saranno chiamati ad applicare contemporaneamente le norme europee direttamente applicabili ed il diritto dello Stato membro nel quale è stabilito l’ente creditizio a cui si riferisce la partecipazione e con il quale viene data attuazione alle direttive europee rilevanti a tal fine. Occorre infatti tener presente che: a) la presentazione della notifica di acquisizione e di ogni altra informazione connessa all’autorità nazionale competente deve avvenire «conformemente ai requisiti di cui al pertinente diritto nazionale basato sugli atti di cui all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma»; b) la valutazione preliminare prevista dal par. 2 dell’art. 15 Reg. (UE) 1024/2013 e la conseguente proposta alla BCE deve essere formulata dall’autorità nazionale «sulla base dei criteri stabiliti dagli atti di cui all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma»; c) la decisione se vietare l’acquisizione viene, infine, assunta dalla BCE «sulla base dei criteri di valutazione stabiliti dal pertinente diritto dell’Unione» [art. 15(3) Reg. (UE) 1024/2013]; d) gli “atti di cui all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma“ a cui viene fatto riferimento sono le fonti normative che la BCE, in base appunto all’art. 4(1), co. 1, Reg. (UE) 1024/2013, deve applicare nello svolgimento dei compiti previsti dal Regolamento MVU e cioè, ancora una volta, il pertinente diritto dell’Unione, le norme nazionali di recepimento delle direttive che possano essere considerate parte del pertinente diritto dell’Unione e le norme nazionali

4 L’applicabilità del diritto nazionale e dell’Unione è evidenziata anche da Gnes, Il meccanismo di vigilanza prudenziale, in L’unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, 2016, 256.

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con le quali sono state esercitate le eventuali opzioni previste dai Regolamenti che concorrono a formare il pertinente diritto dell’Unione5.

2. La regolamentazione europea dell’obbligo della notifica preventiva dell’acquisto e della cessione della partecipazione qualificata. L’evoluzione della posizione del Comitato congiunto delle autorità europee di vigilanza. La nostra analisi della disciplina delle partecipazione qualificate nelle banche, e in particolare delle regole sull’individuazione dei soggetti tenuti all’adempimento degli obblighi connessi alla titolarità della partecipazione, deve quindi prendere le mosse dalla regolamentazione di questa materia all’interno delle fonti europee, in primo luogo da quanto previsto dall’art. 22(1) della Direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 Giugno 2013 (c.d. CRD IV, o quarta Direttiva sui Requisiti Patrimoniali delle Banche), e cioè che «Gli Stati membri prevedono che qualsiasi persona fisica o giuridica (“candidato acquirente”) che abbia deciso, da sola o di concerto con altre, di acquisire, direttamente o indirettamente, una partecipazione qualificata in un ente creditizio o di aumentare ulteriormente, direttamente o indirettamente, detta partecipazione qualificata in modo tale che la quota dei diritti di voto o del capitale da essa detenuta raggiunga o superi il 20 %, 30 % o 50 %, o che l’ente creditizio divenga una sua filiazione (“progetto di acquisizione”), notifichi prima dell’acquisizione per iscritto alle autorità competenti dell’ente creditizio nel quale intende acquisire o aumentare una partecipazione qualificata, indicando l’entità prevista della partecipazione e le informazioni pertinenti specificate conformemente all’articolo 23, paragrafo 4». Secondo la norma, nonostante la diversità delle situazioni dalle quali l’obbligo della notifica preventiva può scaturire – l’acquisto di una partecipazione rilevante ovvero l’incremento della partecipazione già detenuta fino al raggiungimento delle soglie partecipative indicate – in tutti i casi presi in considerazione l’obbligo potrebbe, a seconda delle situazio-

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Il coordinamento tra le disposizioni sopra ricordate e la legislazione nazionale è stato realizzato attraverso il d. lgs. 14 novembre 2016, n. 223, ed in particolare, per i profili esaminati all’interno di questo paragrafo, con l’introduzione all’interno del t.u.b. dell’art. 6-bis («Partecipazione al MVU e poteri della Banca d’Italia»),

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ni concrete, gravare sui seguenti soggetti: i) la persona fisica che da sola abbia deciso di acquistare la partecipazione rilevante o di aumentarla direttamente; ii) la persona fisica che da sola abbia deciso di acquistare la partecipazione rilevante o di aumentarla indirettamente; iii) la persona giuridica che da sola abbia deciso di acquistare la partecipazione rilevante o di aumentarla direttamente; iv) la persona giuridica che da sola abbia deciso di acquistare la partecipazione rilevante o di aumentarla indirettamente. Quanto agli acquisti di concerto, che non formano oggetto di questo lavoro, nelle ipotesi indicate nei punti da i) a iv), tutti partecipanti all’accordo devono considerarsi sottoposti all’adempimento dell’obbligo della notifica, non essendo presente nella norma alcuna distinzione basata sul ruolo assunto all’interno del concerto. Stando così le cose, l’unica ipotesi la cui individuazione non pone in concreto particolari problemi ricostruttivi è quella indicata sub i), cioè il caso dell’acquisto della partecipazione rilevante o dell’incremento diretti effettuati da parte di una persona fisica che agisce da sola. In tutte le altre ipotesi, l’individuazione del soggetto obbligato alla notifica richiede infatti di stabilire che cosa debba intendersi per partecipazione indiretta. Il problema dell’individuazione della fattispecie della partecipazione indiretta rilevante ai fini dell’art. 22(1) CRD IV non forma oggetto di una specifica delega all’EBA e/o alla Commissione Europea, posto che l’art. 22(9) CRD IV conferisce all’Autorità Bancaria Europea il solo compito di elaborare «progetti di norme tecniche di attuazione per fissare procedure comuni, formati e modelli per il processo di consultazione tra le autorità competenti interessate di cui all’articolo 24» e alla Commissione il potere di elaborare le conseguenti disposizioni, in conformità alle previsioni di cui all’art. 15 reg. (UE) n. 1093/20106. Occorre al riguardo ricordare che pochi mesi prima dell’adozione della CRD IV, la Commissione Europea aveva portato a termine l’analisi sull’applicazione della dir. 2007/44/CE relativa alle regole procedurali ed ai criteri «per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario». Nel documento con il quale rendicontava al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale ed al Comitato delle Regioni gli esiti di tale lavoro7, la

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Analogamente Brescia Morra, La nuova architettura della vigilanza bancaria in Europa, in Banca, impresa, soc., 2015, I, p. 75 ss. 7 Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European economic and social Committee and the Committee of the Regions. Application of

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Commissione rilevava che gli Stati membri avevano continuato a seguire le proprie prassi nazionali in ordine alla definizione delle partecipazioni indirette, nonostante fin dal 2008 le Guidelines for the prudential assessment of acquisitions and increases in holdings in the financial sector required by Directive 2007/44/EC elaborate da CEBS, CESR e CEIOPS (c.d. 3L3 Guidelines) avessero fornito alcune indicazioni al riguardo, invitando le «ESAs to update and clarify the 3L3 guidelines. Such a clarification could, for instance […] deal with indirect holdings». 2.1. La posizione delle ESAs all’interno della Consultation on joint Guidelines for the prudential assessment of acquisitions of qualifying holdings. In risposta a tale invito, nel luglio 2015 le European Supervisory Authorities (EBA, EIOPA, ESMA) hanno pubblicato un documento di consultazione [Consultation on joint Guidelines for the prudential assessment of acquisitions of qualifying holdings (JC/CP/2015/003)] con l’intento di aggiornare il contenuto delle linee guida elaborate nel 2008, nel quale il Joint Committee rileva l’esistenza e l’utilizzo da parte delle autorità di vigilanza di due possibili sistemi – in relazione ai quali il Joint Committee dichiara espressamente di non avere alcuna preferenza, alla luce dell’analisi dei costi e dei benefici di ciascuno – per stabilire quando abbia luogo l’acquisizione indiretta di una partecipazione rilevante, cioè: i) il «control criterion», secondo il quale devono essere considerati come «indirect acquirers» i soggetti che esercitano controllo del «direct holder» della partecipazione qualificata (o del «proposed direct acquirer»), controllo che viene definito nello stesso documento8; e ii) un sistema misto, nel quale i risulta-

Directive 2007/44/EC amending Council Directive 92/49/EEC and Directives 2002/83/ EC, 2004/39/EC, 2005/68/EC and 2006/48/EC as regards procedural rules and evaluation criteria for the prudential assessment of acquisitions and increase of holdings in the financial sector, COM(2013) 64 final, Brussels, 11 febbraio 2013. 8 In particolare, possono essere considerati come proposed indirect acquirers i seguenti soggetti: i) qualunque persona fisica o giuridica che «acquire control over an existing holder of a qualifying holding in a target undertaking»; o ii) qualunque persona fisica o giuridica che «directly or indirectly, control the proposed direct acquirer of a qualifying holding in a target undertaking (including the ultimate natural person or persons at the top of the corporate control chain)». Le conseguenze che il Comitato tra da questo criterio sotto il profilo dell’individuazione del soggetto obbligato alla notifica all’autorità di vigilanza appaiono coerenti con la circostanza che, in particolare nella situazione sub ii), il controllo può considerarsi sussistente al grado più alto di ciascun livello della catena del controllo societario: in questi casi viene previsto che tutti i soggetti che possano essere considerati come indirect acquirers provvedano alla notifica, salva la possibilità

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ti del criterio del controllo sono integrati ricorrendo al c.d. «multiplication criterion», nel quale il soggetto che detiene una partecipazione nell’entità che possiede, o intende acquisire, direttamente una partecipazione rilevante in un intermediario, può essere considerato come «indirect acquirer», quando moltiplicando la partecipazione detenuta nell’entità titolare della partecipazione diretta il risultato è pari o maggiore alla percentuale indicata dalla legge come partecipazione qualificata. 2.2. La posizione definitiva delle ESAs: le Joint Guidelines on the prudential assessment of acquisitions and increases of qualifying holdings in the financial sector del 20 dicembre 2016. Le ESAs hanno in seguito reso pubblica la propria posizione definitiva in merito al problema dell’individuazione del soggetto tenuto alla notifica nel caso di acquisizione di una partecipazione rilevante all’interno delle Joint Guidelines on the prudential assessment of acquisitions and increases of qualifying holdings in the financial sector ( JC/GL/2016/01) del 20 dicembre 2016, la cui decorrenza è stata fissata il primo ottobre 20179. Le autorità intendono in primo luogo definire un test che deve essere eseguito per stabilire se vi sia stata l’acquisizione indiretta e l’entità di tale partecipazione nei seguenti casi: a) quando una persona fisica o giuridica acquista o aumenta la partecipazione diretta o indiretta in un’entità che già detiene una partecipazione qualificata; b) quando una persona fisica o giuridica detiene una partecipazione diretta o indiretta in un’entità che acquista o aumenta una partecipazione diretta nel soggetto vigilato In entrambi i casi, il test da adottare prevede le seguenti fasi: i) l’applicazione del control criterion; ii) se in base a tale criterio risulta che il soggetto preso in considerazione non esercita o non intende acquistare, direttamente o indirettamente, il controllo sull’entità che già detiene la partecipazione qualificata o sull’entità che intende acquisire una partecipazione qualificata, occorre applicare il multiplication criterion nei confronti del soggetto considerato. Questa verifica deve essere compiuta in relazione ad ogni possibile diramazione della catena del controllo.

per l’autorità di vigilanza di consentire, in nome del principio di proporzionalità, che «the person or persons at the top of the corporate control chain to submit the prior notification also on behalf of the intermediate holders», naturalmente «without prejudice to the proposed direct acquirer’s obligation to submit to the target supervisor the prior notification in respect of its own acquisition of a qualifying holding». 9 Sulla base legislativa dell’intervento dell’EBA, v. infra par. 4.

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2.2.1. Il control criterion. Va segnalato preliminarmente che la definizione del control criterion delle Joint Guidelines presenta molte differenze rispetto a quella del documento di consultazione, la cui esatta portata risulta difficile da determinare, a causa dei toni generali e del limitato numero di esemplificazioni concrete contenute nel documento del 2015. Comunque sia, nessuna conseguenza pratica può essere fatta discendere da tali differenze, a causa della natura stessa del documento di consultazione. In base al control criterion devono essere considerati «indirect acquirers of a qualifying holding» tutte le persone fisiche o giuridiche: a) che acquistano direttamente o indirettamente, il controllo di un soggetto che già detiene, in modo diretto o indiretto, una partecipazione rilevante; e b) che controllano, direttamente o indirettamente un soggetto che intende acquistare in modo diretto (“proposed direct acquirer”) una partecipazione rilevante, con la precisazione – molto importante ai nostri fini – che in entrambe le fattispecie devono essere considerate come «indirect acquirers» la persona fisica o le persone fisiche al vertice della catena del controllo societario («the ultimate natural person or persons at the top of the corporate control chain»). Sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti tenuti all’obbligo della notifica alle autorità di vigilanza, il Joint Committee, nel caso sub a), considera tale obbligo sussistente in capo a tutti gli indirect acquirers presenti lungo la catena del controllo, precisando che i) per ciascuno di essi la partecipazione rilevante da notificare deve essere considerata pari alla partecipazione detenuta direttamente nell’ente vigilato dal soggetto il cui controllo viene acquisito dagli indirect acquirers e che ii) l’autorità di vigilanza può acconsentire alla comunicazione da parte del solo soggetto al vertice della catena del controllo per conto degli intermediate holders. Nel caso sub b) è invece previsto che la comunicazione debba essere effettuata da parte del soggetto che intende acquistare direttamente la partecipazione qualificata e dagli indirect acquirers – cioè da parte di coloro i quali controllano direttamente o indirettamente il direct acquirer – anche in questo caso con la precisazione che: i) la misura della partecipazione di ciascun indirect acquirer deve essere considerata pari alla misura della partecipazione rilevante oggetto di acquisizione e che ii) l’autorità di vigilanza può acconsentire alla comunicazione da parte del soggetto al vertice della catena del controllo, per conto degli intermediate holders, fermo restando l’obbligo della comunicazione in capo al soggetto che intende acquisire direttamente la partecipazione rilevante. Il controllo viene definito all’interno del §. 3.1.ii, identificandolo con le tipologie di rapporti tra impresa madre ed impresa figlia individuati all’in-

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terno dell’art. 22 della dir. 2013/34/UE – ai fini dell’obbligo di reazione del bilancio consolidato e della relazione sulla gestione consolidata – da utilizzare oltre l’ambito di applicazione di quest’ultima10, nonché con eventuali analoghi rapporti tra persone fisiche o giuridiche e un’impresa («a similar relationship between any natural or legal person and an undertaking»). In linea di principio, le situazioni previste dall’art. 22 dir. 2013/34/EU sembrerebbero potere riguardare anche le persone fisiche. Il problema è piuttosto quello di stabilire i termini precisi della similitudine posto che mentre in alcuni casi l’obbligo del consolidamento sussiste in ragione della semplice disponibilità di determinati diritti, a prescindere da ogni valutazione in ordine all’esercizio di essi da parte del loro titolare, in altri l’obbligo dipende dallo svolgimento da parte della parent undertaking di un certo tipo di attività11. 2.2.2. Il multiplication criterion. La distinzione tra soggetti obbligati alla notifica e soggetti valutati in pieno da parte dell’autorità di vigilanza. Il multiplication criterion trova applicazione quando il control criterion non ha fornito un’indicazione chiara in ordine alla possibilità di ricondurre indirettamente la partecipazione rilevante al soggetto al quale è stato applicato il control criterion. Le ragioni di questa possibile incertezza non sono indicate, ma sembrerebbero da ricondurre alle difficoltà di definire oltre ogni possibile dubbio tutte le possibili situazioni nelle quali il controllo può sussistere, in ragione della discrezionalità intrinseca nella definizione di controllo contenuta nelle Guidelines, sopra ricordata. In questo sistema, la partecipazione rilevante nel soggetto vigilato detenuta dal partecipante diretto, viene moltiplicata per la partecipazione che un altro soggetto detiene nel partecipante diretto. Il risultato indica l’entità della partecipazione “indiretta” nel soggetto vigilato: ad es. se A detiene una partecipazione diretta del 10% nel soggetto vigilato C,

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L’art. 1 della dir. 2013/34/EU prevede che «The coordination measures prescribed by this Directive shall apply to the laws, regulations and administrative provisions of the Member States relating to the types of undertakings» indicate nell’allegato I (per l’Italia: s.p.a., s.a.p.a. ed s.r.l.) e nell’allegato II (per l’Italia, s.n.c. e s.a.s.), queste ultime a condizione che «all of the direct or indirect members of the undertaking having otherwise unlimited liability in fact have limited liability by reason of those members being undertakings which are: (i) of the types listed in Annex I; or (ii) not governed by the law of a Member State but which have a legal form comparable to those listed in Annex I». 11 Il problema riguarda in particolare la situazione descritta nell’art. 22(2)(b) dir. 2013/34/ EU, che ricorre quando «that undertaking (a parent undertaking) and another undertaking (the subsidiary undertaking) are managed on a unified basis by the parent undertaking».

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e B detiene una partecipazione diretta in A del 50%, la partecipazione indiretta di B in C è uguale al prodotto 10%*50%, cioè il 5%. Nel caso in cui anche B sia a sua volta partecipato dalla persona fisica D per l’80%, la partecipazione indiretta di D in C, sarà pari a 5%*80%, e cioè il 4%. Le Joint Guidelines consentono infine alle autorità competenti, a prescindere dai risultati derivanti dall’applicazione del criterio del controllo o del multiplication criterion, di riservarsi di valutare appieno i soli soggetti al vertice della catena del controllo, oltre all’acquirente diretto della partecipazione rilevante («to assess fully only the person or persons at the top of the corporate control chain, in addition to the proposed direct acquirer»). Fermi restando l’obbligo della notificazione preventiva in capo a tutti coloro i quali intendono acquistare, direttamente o indirettamente, una partecipazione in un soggetto vigilato o aumentarla, e la possibilità per l’autorità di vigilanza di consentire la notifica da parte del soggetto al vertice della catena del controllo per conto di tutti gli altri soggetti obbligati.

3. L’individuazione del titolare della partecipazione rilevante nella normativa nazionale. La soluzione al problema dell’individuazione del titolare indiretto della partecipazione, emergente dal complesso delle disposizioni del Testo unico e delle Istruzioni di vigilanza12, sembrerebbe essere quella

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La formulazione delle norme che, nel Testo unico bancario, disciplinano l’acquisto di partecipazioni rilevanti differisce da quella europea sopra delineata. Per quanto riguarda l’individuazione del soggetto titolare della partecipazione rilevante, mentre le regole europee istituiscono (art. 22 CRD IV) l’obbligo della notifica preventiva – individuando, nei termini di cui si è detto, i soggetti sui quali tale obbligo grava – per occuparsi in seguito (art. 23 CRD IV) delle valutazioni che l’autorità competente compie in ordine alla capacità del partecipante di assicurare la sana e prudente gestione della banca, nei co. 1 e 2 dell’art. 19 t.u.b. viene previsto che siano soggetti ad autorizzazione l’acquisto delle partecipazioni di controllo o rilevanti, nonché la variazione delle partecipazioni quando la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunge o supera determinate soglie, ovvero quando comportano il controllo della banca. L’esistenza di un obbligo di notificazione è invece previsto nel successivo art. 20, co. 1, t.u.b. («La Banca d’Italia stabilisce, a fini informativi, obblighi di comunicazione in ordine a operazioni di acquisto o cessione di partecipazioni in banche»), mentre la possibilità che l’obbligo della notifica gravi su un soggetto diverso dal titolare diretto della partecipazione emerge soltanto nell’art. 22, co. 1, t.u.b. («Ai fini dell’applicazione dei capi III e IV del presente Titolo si considerano anche le partecipazioni acquisite o comunque possedute per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona»), anche se già nell’art. 19, co. 8-bis, in relazio-

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propria del control criterion, essendo state considerate rilevanti, ai fini dell’autorizzazione e della relativa richiesta, «anche le partecipazioni acquisite o comunque possedute per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona» (art. 22, co. 1, t.u.b., nonché Istr. Vigilanza, Tit. II, Cap. 1, § 3). Inoltre, nella definizione di controllo di cui all’art. 23 t.u.b. è espressamente previsto che esso possa sussistere «anche con riferimento a soggetti diversi dalle società, nei casi previsti dall’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile e in presenza di contratti o di clausole statutarie che abbiano per oggetto o per effetto il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento». Come già osservato in relazione alle regole europee, non sembrerebbero pertanto sussistere ostacoli a considerare tenuta all’obbligo della notifica preventiva e dell’autorizzazione anche la persona fisica posta al vertice della catena del controllo, purché siano ravvisabili in capo a questa, naturalmente dal lato attivo del rapporto, le situazioni descritte nell’art. 23 t.u.b.13.

ne al soggetto tenuto all’autorizzazione, viene previsto che «Le autorizzazioni previste dal presente articolo si applicano anche all’acquisizione, in via diretta o indiretta, del controllo derivante da un contratto con la banca o da una clausola del suo statuto». La disciplina dei presupposti soggettivi dell’obbligo dell’autorizzazione all’acquisito di partecipazioni rilevanti contenuta all’interno delle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia (v. il Titolo II - Capitolo 1. Partecipazioni al capitale delle banche e delle società finanziarie capogruppo della Circolare n. 229 del 21 aprile 1999 e s.m.) appare invece sostanzialmente in linea con quanto previsto dalle disposizioni europee Viene infatti previsto che «Sono tenuti a richiedere la preventiva autorizzazione alla Banca d’Italia i soggetti che intendono acquisire direttamente o indirettamente, a qualsiasi titolo, partecipazioni al capitale di banche e di capogruppo che, tenuto conto di quelle già possedute, diano luogo: a una partecipazione superiore al 5% ovvero al superamento delle soglie del 10%, 15%, 20%, 33% e 50% del capitale sociale; al controllo, indipendentemente dall’entità della partecipazione», e viene definita «partecipazione indiretta, ai sensi dell’art. 22 T.U., la partecipazione al capitale di banche acquisite o comunque possedute per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona». A tale proposito viene inoltre previsto dalle stesse Istruzioni che «Allorché la partecipazione è acquisita indirettamente, la richiesta di autorizzazione o la comunicazione va effettuata dal soggetto posto al vertice della catena partecipativa e da quello che detiene direttamente le azioni del capitale della banca. Sono ricomprese le società fiduciarie che intendono acquisire partecipazioni per conto terzi. I soggetti interessati alle comunicazioni possono sottoscrivere un unico modello 287 [cioè il modello relativo ai Partecipanti al capitale delle banche o capogruppo, n.d.r.] nel quale vanno comunque indicati gli eventuali ulteriori soggetti interposti tra il dichiarante al vertice della catena partecipativa e il soggetto diretto titolare delle azioni della banca». 13 Secondo Chiappetta, Commento sub art. 22, in Commentario al testo unico delle leggi

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Parte II – I profili “dinamici”. 4. La disciplina delle qualità richieste al possessore della partecipazione qualificata. Esaminati i profili “statici” della disciplina della titolarità – diretta o indiretta – delle partecipazioni, nonché del loro acquisto, si passa ora ad analizzare la normativa dedicata al possibile esercizio dei diritti legati alle stesse. In particolare, si esaminerà la disciplina che regola l’influenza, dominante o anche solo notevole, che il socio persona fisica può esercitare sull’istituto di credito14. La chiave di lettura della disciplina sembra poter essere rinvenuta nella supposizione di fondo che il Legislatore pare formulare circa il ruolo che deve essere svolto in concreto dal detentore di una partecipazione rilevante di una banca15. Quest’ultimo, infatti, non pare essere visto quale un possibile rentier, che delega e lascia ampio margine gestionale al management scelto, eventualmente, tramite una catena di controllo; al contrario, si presume che egli, qualora non voglia prendere parte direttamente all’organo amministrativo, si ingerisca o, quantomeno, svolga un monitoraggio attivo su quest’ultimo, finendo per indirizzarlo16. La prova

in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, I, Padova, 2012, p. 279, non sembra possibile dubitare che il soggetto «che si pone quale “controllante”, possa essere tanto una persona fisica quanto una persona giuridica», a causa delle espressioni utilizzate dal legislatore «volutamente generiche, idonee a ricomprendere ogni tipologia soggettiva». 14 La nozione di controllo che sembra derivare dalla disciplina che si andrà ad analizzare sembra abbracciare l’ampiezza delle funzioni già individuata da Montalenti, Società per azioni, corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, p. 164, il quale declina il concetto in «(i) controllo di merito, (ii) controllo di adeguatezza organizzativa, (iii) controllo di correttezza gestionale, (iv) controllo di legalità sostanziale, (v) controllo di legalità formale». 15 Cfr. Ferro-Luzzi, Separatezza banca-industria ed usufrutto di azioni di società bancaria, in Riv. dir. comm., 2002, p. 481 s., il quale evidenziava come la disciplina comunitaria si maggiormente fosse concentrata sugli aspetti amministrativi, più che su quelli finanziari delle partecipazioni. 16 Cfr. sul punto già Costi, Struttura proprietaria e diritto dell’impresa, in Banca, impresa, soc., 2001, p. 251; più recentemente, ex multis, De Biasi, Note preliminari su chi possa essere l’ottimale proprietario di una banca (universale), in Banca, impresa, soc., 2017, III, p. 472; Rosa, I requisiti d’«idoneità» dei partecipanti al capitale delle banche: problemi e riflessi per la proprietà e la governance azionarie, working paper presentato al nono convegno annuale Problemi attuali della proprietà nel diritto commerciale

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dell’esistenza di una simile supposizione sembra essere data dal fatto che il Legislatore richiede al socio il soddisfacimento non solo dei requisiti qualitativi analizzati, ma anche – come si vedrà – un comportamento adeguato al ruolo17, che eviti, peraltro, il sorgere di conflitti di interesse con l’istituto partecipato. Tale approccio si deve ricondurre al rafforzamento del c.d. Secondo Pilastro a seguito dell’adozione di Basilea III18, in particolare alla crescente attenzione dedicata dalla BRI agli assetti di governo societario come uno degli elementi fondamentali per garantire la stabilità della singola istituzione, ma anche del sistema finanziario, che viene recepita dalla CRD IV19 e che riguarda, fra l’altro, le condizioni per l’accesso all’attività bancaria, ossia buona parte delle regole che qui interessano (in particolare, gli artt. 22 ss., applicabili anche al momento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività ai sensi dell’art. 14 della stessa direttiva). Come noto, quest’ultima, ancor prima di essere recepita nei suoi punti essenziali per il tramite di una normativa di rango primario (i.e. tramite l’art. 1, co. 11, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, che ha provveduto, in particolare, a modificare l’art. 19 t.u.b.), è stata traslata direttamente nell’ordinamento interno da Banca d’Italia in forza della deleghe racchiuse negli artt. 53 e 67 t.u.b.20 a mezzo della Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013,

dell’Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, Roma, 22-23 febbraio 2018, pp. 6 e 7. 17 Comportamento che, ovviamente, che non è destinato a sfociare in un’amministrazione di fatto, ossia nell’assunzione di decisioni e nel compimento di atti di gestori a nome e per conto della società: come ricorda Abriani, Gli amministratori di fatto nelle società di capitali, Milano, 1998, p. 60 ss., non basta, infatti, essere socio di maggioranza per essere definito amministratore di fatto. 18 Evidenzia come «l’articolazione delle regole tra norma giuridica e norma sociale opera oggi sostanzialmente ad ogni livello della composita gerarchia delle fonti», compreso il livello “superiore” degli standard della B.R.I., Lamandini, Il diritto bancario dell’Unione, già pubblicato in Banca, borsa, tit. cred., I, 2015, p. 423 ss., ora in Scritti sull’Unione Bancaria, a cura di D’Ambrosio, Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, n. 81, luglio 2016, p. 16, da cui si cita. 19 Che ha abrogato la direttive 2006/48/CE (gemella della 2006/49/CE) in materia, rispettivamente, di accesso all’attività degli enti creditizi e suo esercizio, già in precedenza modificata dalla precedente direttiva 2007/44/CE avente ad oggetto proprio le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario. 20 Relative alla vigilanza regolamentare sulle banche e sui gruppi bancari. Sul punto cfr., ex multis, Costi, Governo delle banche e potere normativo della Banca d’Italia, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, settembre

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più volte emendata21, che racchiude le Disposizioni di Vigilanza per le Banche (d’ora in poi solo DVB)22. Queste ultime devono essere poi completate con ulteriori fonti di natura indirettamente legislativa, che, pur avendo una funzione di indirizzo tecnico, nel quadro dell’insieme di regole uniformi a livello europeo (c.d. Single Rulebook) acquistano valore cogente al fine di garantire il funzionamento del Single Supervisory Mechanism istituito dal Regolamento (UE) 1024/2013 del Consiglio23, di cui la Banca d’Italia fa parte

2008, n. 62, p. 10 ss.; Clemente, Commento sub art. 53, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, II, Padova, 2012, p. 632 ss.; Amorosino, La conformazione regolatoria della governance delle società bancarie da parte della Banca d’Italia, in Dir. banc., 2015, p. 209, da cui si cita, ed anche in Principe, a cura di, Il governo delle banche, Milano, 2015, p. 43 ss.; Portale, La corporate governance delle s.p.a. bancarie, in Riv. soc., 2016, p. 48 ss.; Cicchinelli, Il governo dell’impresa bancaria (riflessioni a margine del decreto legislativo n. 72 del 2015), in Riv. dir. comm., II, 2016, p. 423 ss. Evidenzia la necessità di ricorrere allo strumento regolamentare per non essere costretti a inseguire la «continua evoluzione della “normativa” internazionale» Mirone, Regole di governo societario e assetti statutari delle banche tra diritto speciale e diritto generale, in Banca, impresa, soc., 2017, I, p. 35. Analogamente, in precedenza, Capolino, il governo societario delle banche: regole e strumenti nelle disposizioni di vigilanza e nelle norme europee, in Il governo delle banche, a cura di Principe, Milano, 2015, p. 31. 21 Per la parte ivi discussa la disciplina secondaria era già stata adottata con il sesto Aggiornamento del 4 novembre 2014. 22 Successivamente il co. 9 dell’art. 19 t.u.b., nel testo risultante a seguito delle modifiche operate successivamente dall’art. 1, co. 11, lett. h, del d.lgs. 14 novembre 2016, n. 223, ha previsto specificatamente che «La Banca d’Italia adotta disposizioni attuative del presente articolo, individuando, tra l’altro: i soggetti tenuti a richiedere l’autorizzazione quando i diritti derivanti dalle partecipazioni indicate ai commi 1 e 2 spettano o sono attribuiti ad un soggetto diverso dal titolare delle partecipazioni stesse; i criteri di calcolo dei diritti di voto rilevanti ai fini dell’applicazione delle soglie previste ai commi 1 e 2, ivi inclusi i casi in cui i diritti di voto non sono computati ai fini dell’applicazione dei medesimi commi; i criteri per l’individuazione dei casi di influenza notevole; le modalità e i termini del procedimento di valutazione dell’acquisizione ai sensi dei commi 5, 5-bis e 5-ter». 23 Sul punto cfr. Lefterov, The Single Rulebook: legal issues and relevance in the SSM context, ECB Legal Working Paper n.15, 2015, p. 34 ss.; Calandra Buonaura, L’influenza del diritto europeo sulla disciplina bancaria, in www.orizzontideldirittocommerciale.it, 10 luglio 2015, p. 3 ss.; Lamandini, Il diritto bancario, cit., p. 18; Cappiello, Il meccanismo di adozione delle regole e il ruolo della European Banking Authority, in D’Ambrosio, a cura di, Scritti sull’Unione Bancaria, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, 81, luglio 2016, p. 43 s., il quale evidenzia l’ipocrisia della natura legislativa e non tecnica delle regole delegate, in quanto «Ogni norma implica un determinato contemperamento di interessi e quindi in quanto tale implica una scelta politica»; Stella

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insieme con le altre autorità nazionali competenti, sotto il vaglio della EBA24. Ai fini dei profili qui trattati risultano di peculiare importanza le già citate Joint Guidelines25 adottate dalle ESAs, che sono entrate in vigore il primo ottobre 2017 (nel caso dell’EBA tali orientamenti sono stati formulati sulla base della delega attribuita dall’art. 8, §§. 2, lett. b, e 3, CRD IV)26. L’insieme di queste norme – come evidenziano le stesse Guidelines sopra citate – mira a formare una griglia di valutazione armonizzata dei progetti di acquisizione imposta dalla CRD IV, costruendola su cinque criteri, ossia: la reputazione del candidato acquirente; la sua solidità finanziaria; la reputazione e l’esperienza dei nuovi soggetti eventualmente proposti dallo stesso per le cariche di amministrazione e direzione; l’impatto della partecipazione sulla governance bancaria; infine, il rischio che l’acquisizione sia collegata ad attività di riciclaggio o al finanziamen-

Richter Jr., A proposito di bank government, corporate governance e Single Supervisory Mechanism governance, in Dir. banc merc. fin., 2016, p. 778 ss. Evidenzia che il SSM «prevede modelli di verifica della struttura della governance che meglio sono condotti» sul modello della s.p.a., piuttosto che su quello della cooperativa, De Biasi, Note preliminari su chi possa essere l’ottimale proprietario di una banca (universale), in Banca, impresa, soc., 2017, III, p. 474 s. 24 Sul valore formalmente non vincolante dei relativi «orientamenti, ma che diviene tale in forza della formula del c.d. «comply or explain», D’Ambrosio e Perassi, Il governo societario delle banche, in Vietti, a cura di, Le società commerciali: organizzazione, responsabilità e controlli, Milano, 2014, p. 233. Similmente v. Lefterov, The Single Rulebook, cit., p. 40, nonché Cappiello, Il meccanismo di adozione delle regole e il ruolo della European Banking Authority, cit., p., 46, secondo cui «Non si tratta dunque di un arbitrario comply or explain, ma di un onere di adeguamento salvo giustificata motivazione», nonché Gardella, L’EBA e i rapporti con la BCE e con le altre autorità di supervisione e regolamentazione, in L’unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, 2016, p. 130 ss. Evidenzia una lesione del principio di legittimità quale unico strumento ammesso per la compressione dei diritti di partecipazione al punto di non ritenere «che gli orientamenti delle Autorità europee appena richiamati possano vincolare l’attuazione dell’art. 25 t.u.b» Rosa, I requisiti, cit., pp. 8 s. e 14 ss. Analogamente Venturi, Commento sub art. 19, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, I, Padova, 2018, p. 225. 25 Nonché, in particolare, l’Annex I alle stesse, che fissa, in particolare, le informazioni che debbono essere trasmesse per ottenere l’autorizzazione. 26 Ricorda specificatamente come «l’art. 6 della direttiva 36/2013/UE prescriva agli Stati membri di assicurare che “le autorità competenti facciano tutto il possibile per attenersi agli orientamenti e alle raccomandazioni emanati dall’ABE conformemente all’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1093/2010 e per rispondere alle segnalazioni e raccomandazioni elaborate dal CERS a norma dell’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1092/2010» Lamandini, Il diritto bancario, cit., p. 17.

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to del terrorismo. I medesimi criteri sono adottati anche – ça va sans dire – nel decidere il ritiro dell’autorizzazione al mantenimento della partecipazione (così, nell’ordinamento interno, prevede l’ultimo inciso del co. 5 dell’art. 19 t.u.b.), a cui consegue l’obbligatoria cessione, pena la sterilizzazione dei diritti amministrativi27. Come è facile notare, le cinque domande che l’authority deve porsi comportano non solo la verifica circa l’esistenza di determinate qualità dell’acquirente – a prescindere dal fatto che lo stesso sia una persona fisica o giuridica – e la loro costanza nel tempo, ma anche il soddisfacimento di un’aspettativa circa il comportamento del futuro possessore della partecipazione rilevante, tale da non mettere a rischio la sana e prudente gestione dell’istituto28. Questa indagine prospettica sembra rappresentare uno dei punti che denota la maggior differenza rispetto alla disciplina “comune” racchiusa nel codice civile29. Quest’ultima, infatti, non giunge mai a imporre al socio, neppure indirettamente, il compimento futuro di determinate condotte. La stessa disciplina dell’attività di direzione e coordinamento (che, peraltro, a rigor di legge30, non dovrebbe riguardare la figura del holderpersona fisica)31, laddove richiama i principi di corretta gestione societa-

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Sul punto, ex multis, Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2012, p. 350. La compressione degli interessi dell’azionista di banca in quest’ottica era già stata evidenziata da Ferri sr., La posizione dell’azionista nelle società esercenti un’impresa bancaria, già in Banca, borsa, tit. cred., I, 1975, p. 1 ss., e ora in Scritti giuridici, vol. II, Napoli, ESI, 1990, p. 611 ss.; il punto è confermato negli scritti di Angelici, Introduzione, Guizzi, Interesse sociale e governance bancaria, Ferri jr., La posizione dei soci di società bancaria, tutti racchiusi negli atti del convegno di studio Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli, pubblicato in Dir. banc., p. 806 ss. In generale per un esame della stakeholder governance che si è andata sviluppando nella disciplina bancaria v. Schwizer, Le nuove regole di corporate governance e dei controlli interni: quale impatto sulla gestione delle banche?, in Banca, impr., soc., 2015, I, p. 10 s. 29 Ovviamente tale dato non stupisce di per sé, poiché, come ricorda Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 387, la normativa di settore è caratterizzata da «deviazioni dal diritto societario comune che trovano la propria giustificazione nelle caratteristiche dell’attività o se si vuole nelle ragioni dell’impresa e in particolare nella necessità di arricchire il diritto societario degli strumenti necessari per garantire una sana e prudente gestione dell’impresa bancaria» 30 Come ricorda, ex multis, Portale, Riforma delle società e limiti di effettività del diritto nazionale, in Corr. Giur., 2003, 148, la versione inizialmente elaborata in sede di progetto di riforma del co. 1 dell’art. 2497 c.c. prevedeva un generico «chiunque» in luogo delle società e degli enti poi indicati, proprio allo scopo di ricomprendervi anche la holding individuale. 31 Esiste, infatti, un filone dottrinale che propone di estendere analogicamente la re28

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ria e imprenditoriale, si limita a prevedere la responsabilità della società o dell’ente holding qualora questi, agendo nel proprio interesse o per quello altrui, abbiano cagionato un danno al patrimonio delle sottoposte e, quindi, ai soci di minoranza e ai creditori delle medesime, senza giungere a prevedere alcuna sorta di rimedio preventivo (se non, in senso lato, la mera previsione del possibile risarcimento che può vedere coinvolto anche il beneficiario ex art. 2497, co. 2, c.c.)32, né, tantomeno, il venir meno del diritto a detenere le partecipazioni che permettono la stessa attività di direzione e coordinamento. Se, da un lato, una simile compressione della libertà economica trova giustificazione nell’interesse superiore circa la sana e prudente gestione dell’istituto di credito o del gruppo bancario partecipato, dall’altro, non può essere taciuto che – complice una certa vaghezza della normativa secondaria che si andrà ad esaminare – ciò corrisponde, nei fatti, all’attribuzione alle authority di un potere estremamente ampio, che potrebbe addirittura finire per scoraggiare gli investimenti33, soprattutto qualora

sponsabilità delle società e degli enti di cui alla norma anche alle persone fisiche: sul punto v. Prestipino, La responsabilità risarcitoria della persona fisica capogruppo, in Giur. comm., 2011, p. 105 ss.; Menti, Fallisce un’altra holding personale: anzi no, è un noto imprenditore occulto, nota a Trib. Milano, 11 aprile 2011, in Fall., 2011, X, 1237; Scognamiglio, Clausole generali, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in AA.VV., Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 609 ss.; Benedetti, La responsabilità “aggiuntiva” ex art. 2497, 2° co., c.c., Milano, 2012, 242 ss.; Sbisà, Commento all’art. 2497, commi 1-2, c.c., in Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, a cura di, Commentario alla riforma delle società, Direzione e coordinamento di società, Milano, 2012, p. 70 s. 32 Va osservato, tuttavia, che il beneficiario consapevole può essere chiamato a responsabilità solo in quanto abbia ottenuto un vantaggio, mentre nel caso egli, pur avendo scientemente indirizzato l’agire degli amministratori (senza, quindi, essere stato materialmente coinvolto nel fatto lesivo, come prevede la prima parte del comma), non l’abbia ottenuto non sembra che lo stesso possa essere interessato da un’eventuale azione risarcitoria. Sul punto sia permesso rinviare a Palmieri, La partecipazione esterna nelle società di capitali, Milano, 2015, p. 232 s. 33 Cfr. Cappiello, Il meccanismo di adozione delle regole e il ruolo della European Banking Authority, cit., p. 46, il quale evidenzia che per «favorire un corretto pricing, è tuttavia necessario che le nuove regole del gioco siano: sufficientemente chiare e definite ex ante; uniformi sull’intero Mercato unico; applicate da parte delle nuove autorità di risoluzione in modo coerente con le regole preesistenti e con le modalità con cui queste ultime sono applicate dalle autorità di supervisione; conosciute dalla molteplicità dei partecipanti al gioco (e.g. manager, azionisti, investitori, depositanti, analisti finanziari, infrastrutture di mercato, etc.)». Secondo Rotondo, Le partecipazioni nelle banche, Napoli, 2012, p. 122, il richiamo al canone della sana e prudente gestione, assieme al vincolo agli orientamenti comunitari di massima armonizzazione, costituiscono validi margini per contenere la maggior

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l’acquisizione della partecipazione rilevante conseguisse, quale effetto indiretto, a una operazione avente ad oggetto le quote di una società controllante o collegata alla banca34. 4.1. [segue]: a) la capacità di mantenimento di un’adeguata solidità finanziaria. Come anticipato, la portata dell’intreccio delle norme appena descritta si coglie analizzando la disciplina dei requisiti patrimoniali che, in applicazione dell’art. 19, co. 5, t.u.b. sono richiesti in dettaglio dai primi due paragrafi dalla Sez. IV del Cap. 1 del Tit. 1 della Parte Prima delle DVB, dedicata agli assetti proprietari necessari ad ottenere e mantenere l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria. Riprendendo quanto già disposto dalla CRD IV all’art. 23 (1)(c)35, la norma primaria si limita a disporre che Banca d’Italia può proporre il rilascio dell’autorizzazione da parte della EBA quando, nell’ottica della garanzia di una sana e prudente gestione della banca, valuti positivamente «la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione», esaminando, in particolare, «la solidità finanziaria del potenziale acquirente»36.

discrezionalità delle autorità coinvolte. Contra Benocci, Commento sub art. 19, in Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro, a cura di, Testo unico bancario. Commentario, Milano, 2010, p. 200, secondo cui la sana e prudente gestione costituisce invece un «“concetto valvola”», che «attribuisce a Banca d’Italia un certo potere discrezionale che la abilita all’utilizzo di elementi di etero-determinazione del mercato con “sostanziali pericoli di arbitrio”». 34 Cfr. Armour, Awrey, Davies, Enriques, Gordon, Mayer e Payne, Bank Governance, ECGI Working Paper, n. 316/2016, in www.ssrn.com, p. 1 ss., i quali criticano l’approccio legislativo seguito alla recente crisi finanziaria, evidenziando come il Legislatore, nell’ottica di rassicurare fin da subito il mercato, è incorso in un eccesso di regolamentazione ha irrigidito l’autonomia gestionale (anche a mezzo dell’obbligatoria adozione di standard amministrativi e best practice, non necessariamente utili per il singolo intermediario) ha aumentato i costi soprattutto a spese delle banche di minore dimensione. In precedenza, in termini in buona parte analoghi, Amorosino, La conformazione, cit., p. 218. 35 «Nell’esaminare la notifica di cui all’articolo 22, paragrafo 1, e le informazioni di cui all’articolo 22, paragrafo 3, le autorità competenti valutano, al fine di garantire la gestione sana e prudente dell’ente creditizio cui si riferisce il progetto di acquisizione e tenendo conto della probabile influenza del candidato acquirente sull’ente creditizio, l’idoneità del candidato acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione in conformità dei criteri seguenti: […] c) la solidità finanziaria del candidato acquirente, in particolare in considerazione del tipo di attività esercitata e prevista nell’ente creditizio cui si riferisce il progetto di acquisizione». 36 Una ricostruzione della distribuzione delle competenze tra la BCE e le autorità

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Tali concetti, come anticipato, erano già stati inseriti nell’ordinamento nazionale nella Sez. IV della Parte Prima del Tit. I del Cap. 1 delle DVB, ove si legge al § 1, che, rispetto ai potenziali acquirenti, «La Banca centrale europea e la Banca d’Italia, con l’obiettivo di tutelare la sana e prudente gestione, valutano inoltre la qualità e la solidità finanziaria di tali soggetti sulla base dei criteri e nei modi previsti dalle disposizioni di attuazione del Tit. II, Capo III TUB». Tuttavia le stesse DVB, pur effettuando il curioso rinvio a sé medesime sopracitato, non aggiungono elementi particolari circa i criteri di valutazione che devono essere seguiti in concreto per compiere l’istruttoria che deve essere svolta al fine della concessione dell’autorizzazione all’attività bancaria per le società di nuova costituzione [normativa che si applica anche in caso di autorizzazione all’acquisto di partecipazioni di società già costituite e in caso di revoca, secondo la complessa istruttoria che deve essere svolta da BCE e da Banca d’Italia ai sensi degli artt. 4 (1)(c) e 15 (1) del Regolamento (UE) 1024/2013 del Consiglio]. La normativa nazionale tralascia di riportare sul punto due principi contenuti nell’art. 22 della CRD IV, ovvero che «Gli Stati membri si astengono dall’imporre condizioni preliminari per quanto concerne il livello della partecipazione da acquisire e non consentono alle rispettive autorità competenti di esaminare il progetto di acquisizione sotto il profilo delle necessità economiche del mercato» (co. 3) e che «Gli Stati membri pubblicano l’elenco delle informazioni che sono necessarie per effettuare la valutazione e che devono essere fornite alle autorità competenti all’atto della notifica di cui all’articolo 22, paragrafo 1. Le informazioni richieste sono proporzionate e adeguate alla natura del candidato acquirente e del progetto di acquisizione. Gli Stati membri non richiedono informazioni che non sono pertinenti per una valutazione prudenziale» (co. 4). Un chiarimento circa l’ambito di indagine che dovrà essere svolto in concreto dall’authority, nonché la traduzione in concreto del principio di proporzionalità che viene sancito dalla CRD IV e che nel nostro ordinamento viene posto unicamente come condizione generale della regolamentazione delle autorità dall’art. 23, comma 2 della l. 28 dicembre 2005, n. 26237, si ritrovano nelle Guidelines, le quali, ai §§ 12 ss.,

nazionali anche in merito al rilascio all’autorizzazione all’acquisto della partecipazioni rilevanti si ritrova in Brescia Morra, La nuova architettura della vigilanza bancaria in Europa, in Banca, impresa, soc., 2015, I, p. 82 s. 37 Esso viene infatti «inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiun-

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prendono in considerazione il criterio della «financial soundness» del candidato acquirente. Quest’ultima deve essere intesa come la capacità del soggetto di finanziare l’operazione e di mantenere, per il prevedibile futuro, una propria solidità finanziaria anche nell’interesse della banca “target” (§ 12.1)38. Date queste finalità, gli Orientamenti suggeriscono anche che l’autorità competente dovrebbe verificare se «the proposed acquirer is sufficiently sound from a financial point of view to ensure the sound and prudent management of the target undertaking for the foreseeable future (usually three years), having regard to the nature of the proposed acquirer and of the acquisition» (§ 12.2). I successivi paragrafi specificano gli elementi negativi che possono giocare contro l’approvazione. Secondo il § 12.3 «The target supervisor should oppose the acquisition if it concludes, based on its analysis of the information received, that the proposed acquirer is likely to face financial difficulties during the acquisition process or in the foreseeable future», specificando ulteriormente, al § 12.9, che sebbene il ricorso a fondi presi a prestito per finanziare l’acquisizione non dovrebbe, di per sé, essere considerato quale un elemento negativo, l’autorità di vigilanza competente dovrebbe valutare, in ogni caso, se tale indebitamento influisca

gimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari»: sul ruolo della norma quale argine alla discrezionalità dell’autorità v. Vella, Il nuovo governo societario delle banche nelle disposizioni di vigilanza: spunti di riflessione, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, settembre 2008, n. 62, p. 21 s. 38 La norma dispone, infatti, che «should be understood as the capacity of the proposed acquirer to finance the proposed acquisition and to maintain, for the foreseeable future, a sound financial structure in respect of the proposed acquirer and of the target undertaking. This capacity should be reflected in the overall aim of the acquisition and the policy of the proposed acquirer regarding the acquisition, but also – if the proposed acquisition would result in a qualifying holding of 50% or more or in the target undertaking becoming a subsidiary of the proposed acquirer – in the forecast financial objectives, consistent with the strategy identified in the business plan». I concetti vengono ulteriormente chiariti nel successivo § 12.5, che prevede che: «The depth of the assessment of the financial soundness of the proposed acquirer should be linked to the likely influence of the proposed acquirer, the nature of the proposed acquirer (for instance, whether the proposed acquirer is a strategic or a financial investor, including whether it is a private equity fund or a hedge fund) and the nature of the acquisition (for instance, whether the transaction is significant or complex, as described in paragraph 9.3). The characteristics of the acquisition may also justify differences in the depth and methods of the analysis by the competent supervisor. In this regard, one should distinguish situations where the acquisition leads to a change in the control of the target undertaking from situations where it does not».

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negativamente sulla solidità finanziaria del candidato acquirente, oppure sulla capacità della banca “target” di rispettare i requisiti prudenziali39. Il § 12.4 aggiunge, infine, che l’autorità competente dovrebbe verificare se «the financial mechanisms put in place by the proposed acquirer to finance the acquisition, or existing financial relationships between the proposed acquirer and the target undertaking, could give rise to conflicts of interest that could affect the target undertaking». 4.2. [segue]: b) l’impegno ad assicurare una sana e prudente gestione. Altro aspetto peculiare della normativa in esame riguarda i requisiti di onorabilità, correttezza e competenza che l’art. 25 t.u.b., in attuazione dell’art. 23 della CRD IV, impone siano soddisfatti dai partecipi – diretti e indiretti – delle banche e la cui definizione è demandata dal secondo co. della norma a un emanando regolamento del Ministero dell’Economia e delle Finanze40. Concentrando l’attenzione sul solo requisito della competenza, va ricordato che la versione attuale dell’art. 25 t.u.b. è frutto delle modifiche apportate dall’art. 1, co. 12, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, che ha recepito le correzioni operate alla dir. 2006/48/CE dalla dir. 2007/44/CE (poi trasfuse nella direttiva CRD IV, che ha abrogato la previgente dir. 2006/48/CE); tuttavia la stessa novella all’art. 2, co. 8, ha stabilito che, fino all’entrata in vigore della disciplina attuativa che dovrà

39 La norma specifica, infatti, che: «While the use of borrowed funds to finance the acquisition should not, in and of itself, lead to the conclusion that the proposed acquirer is unsuitable, the target supervisor should assess if such indebtedness negatively affects the financial soundness of the proposed acquirer or the target undertaking’s capacity to comply with prudential requirements (including, where relevant, the commitments provided by the proposed acquirer to meet prudential requirements)». In merito al criterio della solidità finanziaria, il § 13.3 afferma, inoltre, che «The target supervisor should take into consideration not only the objective facts, such as the intended holding in the target undertaking, the reputation of the proposed acquirer, its financial soundness and its group structure, but also the proposed acquirer’s declared intentions towards the target undertaking expressed in its strategy (including as reflected in the business plan). This could be backed up by appropriate commitments of the proposed acquirer to meet prudential requirements under the assessment criteria laid down in the sectoral Directives and Regulations. These commitments may include, for example, financial support in case of liquidity or solvency problems, corporate governance issues, the proposed acquirer’s future target share in the target undertaking and directions and goals for development». 40 Evidenzia correttamente come la disciplina nazionale non distingua fra possessori di partecipazione di controllo e non, in particolare in merito al requisito della competenza, Rosa, I requisiti, cit., p. 21 s.

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essere emanata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ai sensi del nuovo testo dell’art. 25 t.u.b., continuino ad applicarsi le disposizioni contenute nella formulazione del medesimo articolo anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, nonché la relativa disciplina attuativa. Dato che ad oggi non risulta emanato alcun regolamento ministeriale in materia41, si dovrebbe considerare applicabile l’art. 25 t.u.b. nella vecchia formulazione e la relativa disciplina attuativa42. Tuttavia, nelle more del recepimento della disciplina europea, Banca d’Italia aveva comunicato il 12 maggio 2009 di considerare direttamente esecutiva la dir. 2007/44/CE e, quindi, immediatamente applicabili le disposizioni in essa contenute43, ora fatte proprie dalla CRD IV, anche in tema di autorizzazione all’acquisizione delle partecipazioni rilevanti, volontà poi ribadita dal CICR, «tenendo conto anche delle linee guida e degli standard emanati a livello europeo»44, con la conseguenza di poter considerare

41 Allo stato si è, infatti, solamente conclusa, in data 22 settembre 2017, la consultazione pubblica concernente lo schema di decreto ministeriale recante il regolamento in materia di requisiti e criteri di idoneità allo svolgimento dell’incarico degli esponenti aziendali delle banche, degli intermediari finanziari, dei confidi, degli istituti di moneta elettronica, degli istituti di pagamento e dei sistemi di garanzia dei depositi, ai sensi degli artt. 26, 110, co. 1-bis, 112, co. 2, 114-quinquies.3, co. 1-bis, 114-undecies, co. 1-bis, 96-bis.3, co. 3, t.u.b. 42 Evidenzia sul punto Capolino, La vigilanza bancaria: prospettive ed evoluzione dell’ordinamento italiano, in Scritti sull’Unione Bancaria, Quaderno di Ricerca giuridica della Banca d’Italia, n. 81, Luglio 2016, p. 70 come il SSM attribuisca la valutazione dei requisiti dei partecipanti al capitale alla BCE «che però, in base al meccanismo di cui all’art. 4(3) del regolamento istitutivo del SSM, applica la legge nazionale di trasposizione delle direttive europee: sicché essa si trova, al momento, ad avere nei confronti dei partecipanti e degli esponenti delle banche italiane soltanto i poteri di cui agli artt. 25 e 26 t.u.b., nella versione ancora vigente». 43 Per un esame dell’evoluzione della disciplina e dell’adozione delle Guidelines for the prudential assessment of acquisitions and increases in holdings in the financial sector required by Directive 2007/44/EC, adottate da Cebs, Cers e Ceiops il 18 dicembre 2008, v. Capolino, La vigilanza, cit., pp. 69 s. 44 In questi termini l’art. 11 del decreto adottato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, quale Presidente del CICR, n. 675 del 27 luglio 2011, ove si prevedeva che «Per il rilascio dell’autorizzazione, la Banca d’Italia – tenendo conto anche delle linee guida e degli standard emanati a livello europeo – verifica che ricorrano condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente dell’impresa vigilata, valutando la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione, in base ai seguenti criteri: a) reputazione del potenziale acquirente, ivi compresi il possesso dei requisiti di onorabilità di cui all’articolo 25 del T.U.B., la correttezza e la competenza professionale dell’acquirente, tenendo anche conto dell’esperienza pregressa maturata nella gestione

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direttamente applicabili anche le Joint Guidelines da ultimo adottate congiuntamente dalle tre authority di settore europee45. Queste ultime, al § 10.23, definiscono la competenza professionale del potenziale acquirente, distinguendo fra «management competence» e «technical competence»46. La prima «may be based on the proposed acquirer’s previous experience in acquiring and managing holdings in companies, and should demonstrate due skill, care, diligence and compliance with the relevant standards» (§ 10.24); la seconda «may be based on the proposed acquirer’s previous experience in operating and managing

di partecipazioni ovvero nel settore finanziario; b) il possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza da parte di coloro che, in esito all’acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo nella banca; c) la solidità finanziaria del potenziale acquirente; d) la capacità della banca di rispettare, a seguito dell’acquisizione, le disposizioni che ne regolano l’attività; e) l’idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’efficace esercizio della vigilanza». All’epoca gli standard di riferimento erano rappresentati dalle c.d. 3L3 Guidelines emanate il 18 dicembre 2008 congiuntamente da EBA, ESMA e EIOPA (rispettivamente CEBS, CESR e CEIOPS alla data di emanazione). Va notato, in ogni caso, che il requisito dell’indipendenza fra il socio e gli esponenti aziendali è un requisito che la Section 4 dell’Annex I chiede sia messo in luce al momento della presentazione del progetto di acquisizione da parte di una persona fisica: al § 1(f)(3) si legge, infatti, che al § 1(f)(3) che «The proposed acquirer that is a natural person should provide the target supervisor with the following additional information […] a description of the financial and non-financial interests or relationships of the proposed acquirer with the persons listed in the following points: […] any member of the administrative, management or supervisory body, in accordance with relevant national legislation, or of the senior management of the target undertaking». Appare evidente che, se interpretato rigidamente, il requisito dell’indipendenza – in particolare, con riferimento agli amministratori della banca “bersaglio” – potrebbe ostacolare acquisizioni “amichevoli”, anche in situazioni in cui vi può essere un interesse dell’istituto alla loro realizzazione: si pensi al caso di un salvataggio che passi dapprima per l’acquisto delle partecipazioni di controllo e poi per la ricapitalizzazione della banca da parte del “cavaliere bianco”. In generale sulla difficoltà di definire il requisito dell’indipendenza v. Ferro -Luzzi, Indipendente… da chi?; da cosa?, in Riv. soc., 2008, p. 207 ss.; Regoli, Gli amministratori indipendenti tra fonti private e fonti pubbliche statali, in Riv. Soc., 2008, pp. 393 s. 45 Per un’analisi delle difficoltà applicative v., ex multis, Brescia Morra, Commento sub art. 19, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, I, Padova, 2012, pp. 244 s.; Capolino, La vigilanza, cit., pp. 61 ss. 46 Più precisamente la norma dispone che «The professional competence of the proposed acquirer covers competence in management (the “management competence”) and in the area of the financial activities carried out by the target undertaking (the “technical competence”)».

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financial institutions as a controlling shareholder or as a person who effectively directs the business of a financial firm. In this case also, the experience should demonstrate due skill, care, diligence and compliance with the relevant standards» (§ 10.25). Le Guidelines estendono la verifica della competenza a tutti gli aspiranti acquirenti una partecipazione rilevante ancorché «not in a position to exercise any influence over the target undertaking or who intend to acquire holdings purely for passive investment purposes», dato che essi saranno comunque oggetto di una «assessment of the professional competence […] reduced » (così il § 8.3)47. Sul punto i successivi §§ 10.28 e 10.29 dettagliano le due possibili situazioni. La prima disposizione, partendo dal presupposto che partecipazioni anche significative in società finanziarie possono essere realizzate anche al solo scopo di diversificare il proprio portafoglio di investimenti, o di ottenere dividendi o plusvalenze, dispone che i requisiti di competenza professionale debbano essere significativamente ridotti qualora l’acquirente non persegua l’obbiettivo di essere coinvolto nella gestione dell’istituto; la seconda dispone, specularmente, che quando l’acquisizione comporti il controllo o, comunque, il potere di esercitare un’influenza sulla gestione il grado di competenza tecnica necessario sarà maggiore e dipenderà dalla natura e dalla complessità delle attività in cui il socio sarà coinvolto48. Da ciò sembra discendere, nel complesso, che ogni acquirente sarà verosimilmente oggetto di valutazione da parte dell’authority circa

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Analogamente il § 10.3: «By contrast, the assessment of professional competence should take into account the influence that the proposed acquirer will exercise over the target undertaking. This means that, according to the proportionality principle, the competence requirements are reduced for proposed acquirers who are not in a position to exercise, or undertake not to exercise, significant influence over the target undertaking. In such circumstances, the evidence of adequate management competence should be sufficient». 48 In dettaglio, i due paragrafi citati dispongono, ripettivamente, che «Persons may acquire significant holdings in financial companies with the aim of diversifying their portfolio and/or obtaining dividends or capital gains, rather than with the aim of becoming involved in the management of the financial institution concerned. Having regard to the likely influence of the proposed acquirer over the target institution, the professional competence requirements for this type of acquirer could be significantly reduced», nonché che «Similarly, when the acquisition of control or of a shareholding allows the proposed acquirer to exercise a strong influence (e.g. a holding which confers a veto power), the need for technical competence will be greater, considering that the controlling shareholders will be able to define and/or approve the business plan and strategies of the financial institution concerned. In the same way, the degree of technical competence needed will depend on the nature and complexity of the activities envisaged».

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la propria «competenza gestionale» (ovvero l’esperienza del candidato nell’acquisire e gestire di partecipazioni in società che denoti un livello adeguato di abilità, attenzione, diligenza e conformità rispetto al quadro normativo di riferimento)49, mentre solo coloro che aspirano ad acquisire il controllo o, comunque, coloro che puntano ad esercitare un’influenza notevole, saranno chiamati a dimostrare la propria «competenza tecnica» (ovvero l’esperienza maturata a gestire istituti finanziari in qualità di socio controllante o di persona che gestisce di fatto la loro attività, che denoti comunque un livello adeguato di abilità, attenzione, diligenza e conformità con riferimento alle norme di settore)50.

5. Alcune riflessioni critiche circa i profili “dinamici” della partecipazione rilevante. Dalla disciplina esaminata sembra trovare conferma quanto inizialmente accennato circa le notevoli differenze con la disciplina societaria “comune”. Considerando il fine superiore della sana e prudente gestione, il candidato acquirente di una partecipazione rilevante di una banca (anche per il tramite di una catena di controllo) è richiesto di dimostrare di godere di una solidità finanziaria al momento dell’acquisizione, ma anche di essere intenzionato a mantenerla. Alla luce del recepimento

49 A sostegno di tale lettura sembra deporre il successivo § 10.30, il quale dispone che «The following situations regarding past and present business performance and financial soundness of a proposed acquirer with regard to their potential impact on his or her professional competence should also be considered: (a) any inclusion on any list of unreliable debtors or any similar negative records with a credit bureau, if available; (b) the financial and business performance of the entities owned or directed by the proposed acquirer or in which the proposed acquirer had or has significant share with special consideration to any rehabilitation, bankruptcy and winding-up proceedings and whether and how the proposed acquirer has contributed to the situation that led to the proceedings; (c) any declaration of personal bankruptcy; and (d) any civil lawsuits, administrative or criminal proceedings, large investments or 
exposures and loans taken out, in so far as they can have a significant impact on the financial soundness». 50 Il § 10.26 delle Guidelines ha cura di precisare che «In the case of an increase in an existing qualifying holding, and to the extent that the professional competence of the proposed acquirer has been assessed previously by the target supervisor, the relevant information should be updated as appropriate. Under the proportionality principle, this updated assessment of the professional competence of the proposed acquirer should take into account the increased influence and responsibility associated with the increased holding».

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attuato dal Legislatore nazionale, ciò significa, in concreto, che egli sarà chiamato a scontare una possibile limitazione alla propria libertà economica nel medio periodo (i.e un triennio) non solo quando lo stesso è intenzionato ad assumere il controllo della banca51, ma anche quando egli si limiti ad acquisire una partecipazione destinata a produrre un’influenza notevole. Il partecipe dovrà, quindi, evitare di intraprendere operazioni finanziarie che possano esporlo al rischio di indebolire la solidità finanziaria di cui gode, al duplice scopo – come visto – di mantenere integra la possibilità di intervenire a sostegno della partecipata («the capacity of the proposed acquirer to finance the proposed acquisition and to maintain, for the foreseeable future, a sound financial structure in respect of the proposed acquirer and of the target undertaking»: così il § 12.1 delle Guidelines), nonché di evitare di trovarsi esposto al rischio di conflitti di interessi a favore dei propri creditori (§ 12.4). Sembra evidente che una simile limitazione, qualora venisse applicata in modo particolarmente stringente dall’authority competente, renderebbe meno appetibile assumere delle partecipazioni in banche52. Il

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Una conferma si ritrova nel § 8.4 delle Guidelines, in tema di applicazione del principio di proporzionalità: «When calibrating the assessment of the financial soundness of a proposed acquirer (as contemplated in Title II, Chapter 3, Section 12), the target supervisor should take into account the nature of the proposed acquirer, as well as the degree of influence the proposed acquirer would have over the target undertaking following the proposed acquisition. In this regard, in accordance with the proportionality principle, the target supervisor should distinguish between cases where control over the target undertaking is acquired and cases where the proposed acquirer would be likely to exercise little or no influence. If a proposed acquirer gains control over the target undertaking, the assessment of the financial soundness of the proposed acquirer should also cover the capacity of the proposed acquirer to provide further capital to the target undertaking in the mid- term, if necessary, and its stated intentions in respect of whether it would provide such capital»; oltre che nell’Annex I alle stesse, all’art. 4, che si occupa di definire quali informazioni in concreto debbano essere comunicate all’authority competente (in particolare le lett. c, d, ed e dispongono che siano trasmesse una «information regarding the current financial position of the proposed acquirer, including details concerning sources of revenues, assets and liabilities, pledges and guarantees, granted or received»; «a description of the business activities of the proposed acquirer»; nonchè una «financial information including credit ratings and publicly available reports on the undertakings controlled or directed by the proposed acquirer and, if applicable, on the proposed acquirer»). 52 Suggeriscono di limitare la discrezionalità regolamentare della EBA, anche a mezzo dell’adozione di idonee esemplificazioni che, anche in questo caso, paiono opportune, Enriques e Zetsche, Quack Corporate Governance, Bank Board Regulation Under the New

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rischio di una perdita di interesse da parte degli investitori-persone fisiche (anche indiretti) sembra ulteriormente acuito dal fatto che l’indagine condotta dall’autorità competente avrà necessariamente a oggetto l’intera galassia degli investimenti effettuati al fine di verificare gli effettivi impegni assunti, oltre ai rischi connessi agli stessi, non solo al momento dell’acquisto o dell’incremento della partecipazione, ma anche in costanza del possesso. Tralasciando il fatto di considerare che, verosimilmente, una frazione non indifferente di investitori sarà restia a subire una tale indagine, va rilevato che il possibile successivo ritiro dell’autorizzazione e la conseguente cessione (o riduzione) obbligata della partecipazione potrebbero essere letti dal mercato quale un giudizio negativo dell’authority sulla solidità economica dell’investitore53, con conseguente potenziale, ulteriore danno per la credibilità dello stesso54. Peraltro, si noti, che il venir meno dell’autorizzazione a possedere la partecipazione rischia di essere un elemento particolarmente pericoloso per lo stesso istituto vigilato se connesso all’ipotesi di inadempimento degli impegni assunti dal possessore della partecipazione «to comply with prudential requirements» (così il §12.9): in questo caso, difatti, l’istituto non solo potrebbe trovarsi di fronte a una mancata contribuzione del possessore, ma potrebbe addirittura vedere svalutato il valore di mercato delle proprie azioni55, qualora quest’ultimo fosse costretto dall’authority a cederle56. L’analisi della normativa sembra confermare anche i dubbi inizialmente espressi circa il ruolo che il Legislatore intende assegnare al partecipe di un istituto di credito. A differenza di quanto dispone il diritto comune, il partecipe (anche indiretto) di un istituto di credito non sembra poter ricoprire il ruolo di mero rentier, qualora egli detenga quote significative, benché non tali da assicurargli il controllo dell’istituto. In

European Capital Requirement Directive, in Theoretical Inquiries in Law, 2015, I, p. 243 e nt. 127. 53 Si deve escludere, invece, che possa rappresentare un danno la mancata autorizzazione all’acquisto o all’aumento della partecipazione, data la natura di atto amministrativo riservato, che in sé non è destinato a produrre effetti visibili all’esterno a differenza del ritiro dell’autorizzazione. 54 Più in generale considera «la valutazione connessa con la “solidità del progetto di acquisizione” estremamente delicata e complessa» Venturi, Commento sub art. 19, cit., p. 229. 55 Portale, La corporate governance, cit., p. 53; Amorosino, La conformazione, cit., p. 209. 56 Ci si potrebbe domandare, inoltre, se ciò potrà avvenire sempre volontariamente, oppure l’impegno assunto dal socio potrà essere frutto di una informale moral suasion da parte dell’authority preventiva alla concessione dell’assenso all’acquisto della partecipazione.

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tali casi egli dovrà dimostrare di godere, quantomeno, della «management competence», ovvero, ai sensi del § 10.23 delle Guidelines, l’esperienza nell’acquisizione e gestione di partecipazioni in società, nonché la capacità di rispettare la normativa pertinente. Se poi la persona fisica puntasse ad assumere il controllo dell’istituto, egli dovrebbe soddisfare i più stringenti requisiti fissati per la «technical competence», dando dimostrazione di aver sufficiente esperienza nella gestione di istituti finanziari in qualità di socio controllante o di gerente, oltre alla capacità di rispettare la normativa di settore57. Pur essendo consapevoli che le competenze richieste dal Legislatore puntano ad assicurare una sana e prudente gestione dell’istituto58, non si può nascondere che le stesse rischiano di ridurre la platea di potenziali investitori negli istituti di credito59. La considerazione non si collega tanto ai requisiti dalla «management competence», visto che, normalmente, un possessore di una partecipazione rilevante in un istituto di credito gode di

57 Il tenore della disciplina regolamentare dall’EBA sembra dar prova di come non sia stato accolto il suggerimento formulato da Enriques, Zetsche, Quack Corporate, cit., p. 240 ss., di temperare le decisioni assunte dal Legislatore, le quali tenderanno ad aumentare i costi e favorire, oltre ai consulenti, le grandi banche. A favore di una soft implementation anche Armour, Awrey, Davies, Enriques, Gordon, Mayer e Payne, Bank Governance, cit., p. 1 ss. Contra Calandra Buonaura, Crisi finanziaria, governo delle banche e sistemi di amministrazione e controllo, in Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze, diretto da Benazzo, Cera e Patriarca, Torino, 2011, pp. 656 ss., che predilige un intervento regolativo stringente. A favore di un «equilibrato mix di regole obbligatorie, soft law e vigilanza, che dovrebbe costituire l’approdo ideale del sistema» Mirone, Regole, cit., p. 39. 58 Secondo Capolino, La vigilanza, cit., p. 69, la disciplina dei requisiti dei partecipanti dà vita a «un sistema a “cerchi concentrici”, in cui, accanto a requisiti oggettivi e tassativi, che costituiscono condizione necessaria (ma non sufficiente) all’acquisizione di partecipazioni o all’assunzione di cariche nelle banche, sono presenti ulteriori criteri di competenza e correttezza, che consentono di valutare l’idoneità non solo formale ma anche sostanziale del partecipante o dell’esponente». 59 Sul punto occorre infatti tenere presente, come ricordato dallo stesso presidente dell’ABE Enria, Bank regulatory reforms: Are they having adverse effects?, discorso al 5th Santander Central Bank, Sovereign and Financial Institutions Seminar tenutosi 27/11/2015 e reperibile su eba.europa.eu, p. 5, come «Available evidence from several studies suggests a positive correlation between strong capital ratios and banks capacity to sustainably lend into the real economy». Sul punto anche Vella, Banche che guardano lontano: regole per la stabilità e regole per la crescita, in Banca, impr., soc., 2016, III, p. 387 s. Perplessità analoghe circa l’eccessiva rigidità delle regole in tema di requisiti chiesti agli amministratori sono espresse da Enriques, Zetsche, Quack Corporate, cit., p. 241, che sostengono che «A suitable set of candidates will now have to have diverse backgrounds and complementary skills, not to mention that limits on directorships will drain the pool of potential candidates».

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disponibilità economiche notevoli, di solito rappresentate proprio da partecipazioni in molteplici società, quanto a quelli della «technical competence», dato che la pregressa esperienza nel settore finanziario potrebbe essere un elemento meno scontato60. Inoltre, va rilevato che un elemento a sfavore dell’appetibilità di simili investimenti da parte di persone fisiche deriva dal fatto che queste qualità non sono trasmissibili, con ciò limitando la platea di eventuali cessionari non tanto inter vivos, ma soprattutto mortis causa, con la conseguenza che l’erede potrebbe essere costretto a cedere la partecipazione acquisita qualora non ottenesse il placet dell’authority. Sembra quindi debba concludersi che il possesso, anche indiretto, di una partecipazione rilevante di un istituto di credito da parte di una persona fisica sia destinato a diventare “una specie a rischio di estinzione”, in quanto sarà verosimilmente soppiantato da forme di investimento di natura collettiva61 o pubblica62, in ogni caso non riferibili a singoli specifici, in quanto non destinate a soddisfare i requisiti sopra descritti63.

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Auspica una maggior apertura a soci non finanziari quale strumento per assicurare una più stabile gestione della banca e non rivolta a logiche speculative, Rotondo, Le partecipazioni nelle banche, cit., p. 187. 61 Un’ipotesi ulteriore è quella dei fondi di private equity: un’analisi dell’applicabilità ad essi delle Guidelines – in particolare dei requisiti della «Financial soundness of the proposed acquirer» e della «Compliance with prudential requirements of the target undertaking» – è compiuta da Annunziata, OICR di private equity e partecipazioni qualificate al capitale delle banche: una ibridazione possibile, working paper presentato al nono convegno annuale Problemi attuali della proprietà nel diritto commerciale dell’Associazione Italiana dei Professori Universitari di Diritto Commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale”, Roma, 22-23 febbraio 2018, p. 31 ss. 62 Si pensi ai fondi sovrani sui quali v. Calamita, Fondi sovrani e diritto internazionale degli investimenti: recenti tendenze, in Dir. pubb. comp. eur., 2006, III, p. 589, la quale evidenzia come «i Paesi che hanno scelto di svolgere il ruolo di “mani forti” non possono certo essere considerati alla stregua di operatori di mutuo soccorso: è impossibile ricondurre le loro operazioni finanziarie alla volontà di aiutare gli Stati colpiti dalla crisi; piuttosto se ne evidenzia l’intento speculativo, connesso alla possibilità di acquisire ingenti porzioni di capitale azionario di banche e imprese strategiche a costi inferiori, in un clima che ha lasciato meno spazio ai controlli e alla cultura del sospetto nei confronti degli investimenti stranieri» 63 Un effetto negativo che sembra connaturato anche alla tesi proposta da Mulbert e Citlau, The Uncertain Role of Bank’s Corporate Governance in Systemic Risk Regulation, ECGI Law Working Paper n. 179, 2011, p. 36, «to change the liability rules for shareholders. As observed above, the provision of limited liability increases a firm’s appetite for risk, especially in the case of banks. A new shareholder liability regime for systemically important banks would result in shareholders being liable for more than their equity contribution», idea sviuppata anche da Schwarcz, The Governance Structure of Shadow Banking: Rethinking Assumptions About Limited Liability, 2013, in Notre Dame L. Rev., 2014, pp. 6 s. e 16 ss., in merito a un contenimento della responsabilità limitata dei soci

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6. Conclusioni: il quadro complessivo della disciplina della partecipazione rilevante in una banca del socio persona fisica. Come visto, l’eventualità che la titolarità di una partecipazione rilevante debba essere ricondotta alla persona fisica che rappresenta il vertice della catena partecipativa, costituisce una conseguenza, espressamente riconosciuta, dell’approccio seguito dalle ESAs per l’individuazione del soggetto che deve essere considerato come «indirect acquirer» ai fini dell’art. 22(1), CRD IV. Una conseguenza che non soltanto appare possibile, ma che probabilmente riguarderà molti casi concreti, con l’eccezione dei casi nei quali la persona giuridica al vertice della catena partecipativa non possa essere considerata controllata e/o partecipata dalla persona fisica nei termini fatti propri dalle Joint Guidelines. Inoltre, i presupposti in presenza dei quali è ravvisabile il controllo, ai fini dell’applicazione del «control criterion», nonché il carattere matematico del «multiplication criterion», portano ad ipotizzare una varietà di possibili situazioni concrete per quanto concerne il ruolo e il peso dell’intervento nella gestione della banca della persona fisica titolare, anche indiretta, della partecipazione rilevante. Le Joint Guidelines attribuiscono rilievo a tale stato di cose quando, in relazione alla «professional competence» del titolare della partecipazione rilevante, prevedendo una diversificazione dei contenuti del requisito a seconda che l’acquisto avvenga a scopo di investimento o di diversificazione «rather than with the aim of becoming involved in the management of the financial institution concerned», ovvero nel caso in cui «the acquisition of control or of a shareholding allows the proposed acquirer to exercise a strong influence». Nel primo caso viene ammessa, infatti, una semplificazione anche significativa del requisito («the professional competence requirements for this type of acquirer could be significantly reduced»). Tuttavia, le conseguenze pratiche di tale distinzione, anche in termini di convergenza delle prassi di vigilanza, non sono chiare, in quanto una valutazione discrezionale delle autorità competenti appare

di controllo della banca sul modello della «double liability» prevista dal ch. 58, 12 Stat. 665, del National Banking Act of 1863, secondo cui «each shareholder shall be liable to the amount, at their par value, of the shares held by him in addition to the amount invested in such shares», in precedenza già analizzata, nei suoi chiaroscuri, da Macey e Miller, Double Liability of Bank Shareholders. History and Implications, in Wake Forest L. Rev., 1992, pp. 35 ss. Sul punto v. anche Vella, Banche e assicurazioni: le nuove frontiere della corporate governance, in Banca, impr., soc., 2014, II, p. 292 s.

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comunque necessaria, non solo per stabilire se un differente trattamento debba essere effettivamente adottato, ma anche per definire il contenuto esatto dello stesso (non essendo indicati gli specifici criteri ai quali le autorità competenti dovranno attenersi, a parte la generale possibilità di prevedere una significativa riduzione dei requisiti). Emerge, nel complesso, un quadro tutt’altro che definito in ordine ai presupposti e agli obblighi delle persone fisiche titolari di partecipazioni rilevanti, a causa dei numerosi profili che le ESAs rimettono alle future valutazioni dell’autorità competente, da compiere alla luce di criteri non particolarmente stringenti, quali la definizione della «similar relationship between any natural or legal person and an undertaking» ai fini dell’individuazione del controllo, nonché la possibilità che i requisiti di professionalità – normalmente elevati, in quanto equivalenti a quelli richiesti alle persone giuridiche – siano «significantly reduced» quando l’acquisto della partecipazione rilevante avvenga per scopi diversi dal coinvolgimento nella gestione della banca partecipata. Scoraggiando gli investimenti, queste incertezze rischiano, quindi, di ridurre la platea dei possibili investitori a detrimento della solidità delle stesse banche, che, invece, si vorrebbe assicurare tramite un maggior contributo attivo dei soci-persone fisiche a una loro sana e prudente gestione.

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L’esonero da revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie del socio illimitatamente responsabile in esecuzione del piano di risanamento attestato Sommario: 1. Aspetti introduttivi. – 2. La carenza di legittimazione del socio illimitatamente responsabile a ricorrere in via autonoma all’istituto di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – 3. La rimozione del rischio di attuazione della responsabilità del socio quale effetto “indiretto” del piano di risanamento attestato predisposto dalla società. – 4. Il problematico esonero da revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere dal socio illimitatamente responsabile: il profilo d’indagine. – 5. La protezione da revocatoria degli atti e dei pagamenti compiuti dal socio illimitatamente responsabile quale terzo non imprenditore. – 6. L’esenzione da revocatoria delle garanzie concesse su beni del debitore: la necessità di risolvere questioni preliminari. – 7. L’esonero da revocatoria delle garanzie rilasciate dal socio illimitatamente responsabile su beni propri. – 8. La protezione da revocatoria delle sole garanzie reali rilasciate dal socio illimitatamente responsabile. – 9. L’esenzione da revocatoria delle garanzie concesse dal socio illimitatamente responsabile escluso, receduto o che abbia ceduto la propria quota di partecipazione sociale.

1. Aspetti introduttivi. Nonostante il suo principale campo di applicazione siano le società di capitali, l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. si occupa, in realtà, di tutti gli imprenditori commerciali astrattamente fallibili, ivi comprese le società di persone. Proprio in relazione a queste ultime, la scarna regolamentazione positiva spinge a porsi l’interessante, ma del tutto trascurato, interrogativo se ciascun socio illimitatamente responsabile possa – non in qualità di amministratore, e conseguentemente di rappresentante della società, ma in proprio – predisporre un piano di risanamento attestato che preveda il compimento, da parte del socio stesso, di determinati atti, i quali, ponendosi come idonei a ripristinare l’equilibrio finanziario dell’ente sociale, ambirebbero ad essere esonerati da azione revocatoria in caso

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di insuccesso della soluzione negoziale della crisi d’impresa e, pertanto, di fallimento della società e dei suoi soci in estensione. In effetti, mentre nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti l’art. 182-bis l. fall. identifica, in modo inequivocabile, il ricorrente con «l’imprenditore in stato di crisi»1 – formulazione, questa, che ha sostituito, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 16 d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, l’originaria espressione «debitore» – in tema di piano di risanamento attestato, l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. non è altrettanto puntuale nell’indicare i soggetti legittimati a redigere tale documento. Il destinatario della relativa disciplina viene, infatti, individuato, talvolta, nell’impresa – laddove si afferma che il professionista è indipendente quando «non è legato all’impresa» o che il piano deve apparire idoneo a consentire il risanamento dell’«esposizione debitoria dell’impresa» e ad assicurare il riequilibrio della «sua situazione finanziaria» – e, talaltra, nel debitore, nel momento in cui ci si riferisce all’esonero da revocatoria delle «garanzie concesse su beni del debitore», al professionista indipendente «designato dal debitore» che ha prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo «in favore del debitore», nonché al piano che può essere pubblicato nel Registro delle Imprese «su richiesta del debitore». Malgrado questa imprecisione terminologica, la necessaria idoneità del piano a consentire «il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa», induce a ritenere che l’utilizzo di tale strumento di composizione negoziale della crisi debba essere subordinato al rispetto di un duplice requisito: l’indebitamento deve concernere obbligazioni che attengono esclusivamente all’esercizio dell’attività d’impresa ed il debitore deve essere qualificabile come imprenditore commerciale che esercita un’attività economica e, per di più, fallibile. In questa prospettiva, diviene, pertanto, fondamentale, prima di procedere oltre, affrontare la vexata quaestio se anche il socio illimitatamente responsabile di una società a base personale sia o meno un imprenditore commerciale. Se si dovesse, infatti, escludere una simile qualifica – come a chi scrive pare corretto – la problematica in ordine alla legitti-

1 Nel cui novero rientra anche l’imprenditore agricolo, a cui l’art. 23, co. 43, d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, in l. 15 luglio 2011, n. 111, ha concesso – «in attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia» – di accedere, in situazione di crisi o insolvenza, «alle procedure di cui agli artt. 182-bis e 182-ter del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni».

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mazione del socio a predisporre – in proprio e non quale amministratore – un piano di risanamento attestato sarebbe risolta ab origine, difettando, quanto meno, una delle due sopra indicate condizioni di accesso a questo istituto, con evidente inutilità di qualsiasi approfondimento volto a stabilire se i debiti per cui il predetto socio è chiamato a rispondere illimitatamente e solidalmente ex artt. 2267, 2291 e 2313 c.c. siano o meno debiti propri riferibili all’attività d’impresa svolta dalla società.

2. La carenza di legittimazione del socio illimitatamente responsabile a ricorrere in via autonoma all’istituto di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. In passato, la letteratura scientifica ha ritenuto il socio illimitatamente responsabile di una società a base personale un imprenditore commerciale2, ovvero – sul presupposto che i soci collettivamente considerati

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In tale tipologia di società, la qualifica di imprenditore era, in effetti, attribuita tanto alla società, quanto ai suoi singoli soci illimitatamente responsabili: alla società, atteso che non tutte le sue situazioni giuridiche erano situazioni giuridiche individuali dei soci, ed a questi ultimi, singolarmente considerati, perché non tutte le situazioni giuridiche facenti capo all’ente collettivo erano situazioni giuridiche collettive dei medesimi. Così Galgano, Le società in genere. Le società di persone, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu-Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2007, pp. 397 e 408; Id., Trattato di diritto civile, Padova, 2010, vol. IV, pp. 909 e 910. Riconoscevano, altresì, al socio illimitatamente responsabile la veste di imprenditore commerciale, Izzo, Riflessioni in tema di fallimento di società con soci a responsabilità illimitata, in Il fallimento, 1985, pp. 70 ss., che si interrogava se fosse corretto parlare, dal punto di vista tecnico-giuridico, di fallimento della società di persone, ossia di un organismo che non solo era privo di personalità giuridica, ma non era neppure qualificabile come imprenditore commerciale, ovvero se l’unico fallimento in senso tecnico-giuridico non fosse proprio quello «dei veri, concreti, reali imprenditori commerciali» e, quindi, dei soci illimitatamente responsabili; Ghidini, Società personali, Padova, 1972, pp. 230 ss.; Ragusa Maggiore, Società di persone e personalità giuridica, in Dir. fall., 1958, I, pp. 141 ss.; P. Greco, L’interpretazione della legge e la personalità giuridica delle società, in Riv. dir. comm., 1953, II, p. 18, al quale pareva «certo» che «dalla non personalità delle società di persone [dovesse] derivare […] la conseguenza che imprenditori [erano] tutti i soci»; Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, vol. II, Società commerciali personali, Padova, 1951, pp. 608 e 657; V. Vitale, Società personali e contitolarità di diritti, Napoli, 1950, pp. 79 ss., che, argomentando dalla normativa dettata in tema di ditta e ragione sociale, sosteneva l’imprenditorialità dei soci di una società in nome collettivo.

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fossero titolari diretti dell’impresa – un co-imprenditore, sicché il suo assoggettamento a fallimento non costituiva un’eccezione3. In tale ottica, la disciplina prevista per l’imprenditore commerciale, e nello specifico quella dettata dalla legge fallimentare, veniva considerata applicabile al socio, in quanto, nelle società di persone, l’esercizio in comune dell’attività nulla avrebbe tolto alla sua posizione naturale di imprenditore commerciale, a cui il legislatore aveva inteso riferire l’intera normativa concorsuale: il potere che i soci illimitatamente responsabili detenevano sull’impresa – in termini di partecipazione costante ed attiva all’esercizio dell’attività economica e di immediata riferibilità dei risultati di siffatta attività – e la conseguente responsabilità avrebbero fatto dei soci stessi altrettanti co-imprenditori che esercitavano personalmente, sebbene collettivamente, l’attività commerciale, di modo che pareva pienamente giustificata e fondata l’operatività nei loro confronti di quella particolare responsabilità che l’ordinamento italiano aveva riservato agli imprenditori commerciali4. Addirittura, con contributo definito «originale ed innovatore»5, si teorizzava la sussistenza di due differenti tipologie di imprenditori: quelli

3

In questi termini si veda Auletta, Fallimento dell’ex socio con responsabilità illimitata, in Studi in onore di Giuseppe Valeri, Milano, 1955, I, pp. 142 ss., le cui conclusioni muovevano dal rilievo che i soci illimitatamente responsabili di una società a base personale, singolarmente considerati, non erano estranei all’impresa sociale, ma quest’ultima «non si realizza[va] nemmeno da ciascuno di essi», essendo il prodotto del «gruppo dei soci». Non molto dissimile era il pensiero di Provinciali-Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, p. 728, per i quali, nel fallimento di una società personale, l’insolvenza si riferiva solo apparentemente alla società quale soggetto, essendo in realtà propria dei soci, che erano, per l’appunto, insolventi quali co-imprenditori e non uti singulis commercianti. Anche Sotgia, Per un concetto tradizionale del diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 1946, II, pp. 142 ss., dopo aver ricollegato la responsabilità dei soci al «diritto di signoria e di dominio» da essi esercitato sull’impresa sociale, precisava che il fallimento degli stessi discendeva non dalla natura o meno di commerciante ovvero di imprenditore attribuibile loro, ma dalla veste di destinatari «della finalità [giuridicoeconomica] dell’impresa e di [portatori] della responsabilità per l’agire di essa di fronte ai terzi» che i medesimi ricoprivano, sicché l’art. 147 l. fall. non costituiva un’eccezione, ma una norma che corrispondeva perfettamente al sistema generale del codice. L’art. 147 l. fall. non era norma eccezionale neppure per Denozza, Responsabilità dei soci e rischio d’impresa nelle società personali, Milano, 1973, p. 205. 4 Cfr., sul punto, Vassalli, Responsabilità d’impresa e potere di amministrazione nelle società personali, Milano, 1973, pp. 275 ss. 5 Tale, almeno, lo riteneva Jorio, I soci illimitatamente responsabili, in Ruisi, Jorio, Maffei Alberti e Tedeschi, Il fallimento, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1978, p. 775.

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diretti e quelli indiretti; così, se detentrice dell’impresa era la società, solo essa poteva essere imprenditore diretto anche se, nel contempo, i suoi soci illimitatamente responsabili rivestivano la qualifica di imprenditori indiretti, quale «mero riflesso del […] collegamento con l’imprenditore diretto», che rendeva loro inapplicabile le regole dettate, in via esclusiva, per quest’ultimo, nonostante i predetti soci fallissero in estensione al fallimento della società6. È, questa, una prospettazione che, anche dopo l’entrata in vigore della riforma della legge fallimentare, non è rimasta priva di seguito. Ancora oggi, infatti, vi è chi rinviene la ragion d’essere del fallimento in estensione del socio illimitatamente responsabile nel riconoscimento in capo al medesimo della qualità di imprenditore commerciale, ancorché “indiretto”, il quale, entrando a far parte dell’ente sociale, si assume un rischio, quello di impresa, che è sostanzialmente suo7.

6 Il rinvio è a Bigiavi, Sulla qualità di imprenditore del socio illimitatamente responsabile, in Riv. dir. civ., 1958, II, pp. 302 ss., le cui riflessioni scaturivano dal rilievo che le società a base personale, ancorché non fossero persone giuridiche in senso tecnico, dovevano comunque essere considerate soggetti di diritto a cui spettava la titolarità dell’impresa sociale. La distinzione fra imprenditori diretti ed indiretti, era «pienamente legittima» anche per Pavone La Rosa, La teoria dell’«imprenditore occulto» nell’opera di Walter Bigiavi, ivi, 1967, pp. 644 ss., che, in effetti, giudicava le due suddette categorie concettuali le più idonee ad inquadrare la vicenda in forza della quale, relativamente alle società di persone, si assisteva ad un «complesso fenomeno di imputazione soggettiva della disciplina dell’impresa», la quale risultava riferita, innanzitutto, alla società, quale gruppo unitario dei soci, e di «riflesso ed in parte proiettata (inoltre) in capo ai singoli soci». Analogamente, Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, p. 201, affermava che la società – soggetto di diritto – era un imprenditore diretto ed i suoi soci erano imprenditori indiretti. Conforme nel pensare che alla diretta ed illimitata partecipazione personale dei soci nell’impresa sociale facesse da contrappeso una loro illimitata responsabilità per tutte le obbligazioni sociali, sicché i medesimi potevano essere considerati imprenditori indiretti, era Natoli, Società occulta tra azionisti sovrani, in Temi, 1957, p. 130. I pregi della teoria dell’imprenditore indiretto sono stati, più di recente, messi in luce da Jorio, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica-Zatti, Milano, 2000, pp. 157 e 158, secondo il cui parere, la stessa costituisce una risposta logica agli interrogativi suscitati dal fallimento del socio illimitatamente responsabile in ripercussione di quello della società. 7 Il che equivale ad ammettere una duplicità di imprenditori per una stessa impresa: uno diretto, la società, ed uno indiretto, i suoi soci illimitatamente responsabili, che, se svolgono attività commerciale per il tramite del primo, sono passibili di fallimento, dovendosi peraltro accertare, nel corso dell’istruttoria prefallimentare, lo stato di insolvenza e la qualità di imprenditore commerciale esclusivamente dell’ente collettivo. Così Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, pp. 521 e 522, per il quale, riconoscere che la società è un autonomo soggetto giuridico titolare dell’impresa,

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L’argomentazione, pur suggestiva, non ha però fatto breccia nella giurisprudenza, di solito assai sensibile agli intrecci relazionali ed ai conflitti tra soci e società. L’evidente diversità dei contesti di riferimento – quello fallimentare, da un lato, e quello societario, dall’altro – e, soprattutto, la sussistenza di quel principio fondamentale in forza del quale non possono coesistere due o più imprenditori per un’unica impresa, impediscono, in effetti, di accogliere senza riserve l’indirizzo sopra esaminato. Se per un verso è innegabile che, nelle società a base personale, il potere di autorganizzazione dei soci e la loro forte compenetrazione nelle scelte decisionali si sposa perfettamente con la responsabilità illimitata che la legge attribuisce ai medesimi, per un altro, è inaccettabile l’equiparazione fra soggetto titolare della partecipazione sociale e figura di imprenditore, la quale è unica e – nella scelta tra soci illimitatamente responsabili e società partecipata – va individuata proprio in quest’ultima. Una simile duplicità di soggetti imprenditori mal si concilierebbe, infatti, non solo con l’indiscussa esistenza di un unico titolare dell’impresa – rappresentato da quel centro unitario di imputazione di norme, pur sempre dotato di una certa soggettività giuridica, che è la società di persone – ma anche con la mancata applicabilità al socio illimitatamente responsabile delle disposizioni di cui alla sezione I, rubricata “Dell’imprenditore”, del Capo I, “Dell’impresa in generale”, del Titolo II del codice civile. Numerose e fondate sono, invece, le argomentazioni addotte a sostegno della non imprenditorialità del socio illimitatamente responsabile, a cui si ritiene di dover accordare preferenza8.

non significa privare ciascuno dei suoi soci della qualità di imprenditore, seppur, come sopra precisato, indiretto. 8 V. in giurisprudenza, Cass., 12 aprile 1984, n. 2359, in Il fallimento, 1984, 1361, per la quale anche nelle società di persone – che, in quanto tali, sono prive di personalità giuridica – la titolarità dell’impresa compete non ai singoli soci, bensì all’ente societario, quale centro unitario d’imputazione delle attività e degli atti posti in essere dagli amministratori; Cass., 4 ottobre 1957, n. 3599, in Giust. civ., 1958, I, 289, con nota adesiva di Santulli, Sulla qualità di imprenditore commerciale del socio di una collettiva; quale obiter dictum, Cass., 2 aprile 2012, n. 5260, in Giur. comm., 2013, II, 227 e 228, con nota di Di Donato, Revocatoria fallimentare: diverso trattamento delle disposizioni in favore del coniuge da parte del fallito in quanto socio illimitatamente responsabile; Trib. Busto Arsizio, 30 aprile 1951, in Dir. fall., 1952, II, 96; in dottrina, Macchia, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, in Il fallimento, 1994, p. 482; Franceschelli, Imprese e imprenditori, Milano, 1970, p. 145; De Ferra, Riflesso del fallimento della società nei confronti degli ex soci illimitatamente responsabili, in Riv. dir. comm., 1956, II, pp.

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Innanzitutto, nessuna norma del nostro ordinamento giuridico assegna a chi partecipa ad una società a responsabilità illimitata la qualifica di imprenditore commerciale9; qualifica, che, poggiandosi su speciali obblighi sanciti dalla legge, non è ascrivibile al socio illimitatamente responsabile di una società di persone solo perché tale10. In secondo luogo, non può sussistere, nonostante qualche isolata voce contraria11, un imprenditore senza impresa, la quale ultima appartiene all’ente sociale e non anche ai suoi soci, sebbene illimitatamente responsabili12, essendo insita nella società che esercita l’attività economica la commercialità, e ciò sin dalla sua costituzione13. Pur prive di personalità giuridica14, alle società personali è, in effetti, sempre possibile attribuire una soggettività – benché non piena – che impedisce di riconoscere a ciascuno dei rispettivi soci illimitatamente responsabili la qualifica di imprenditore, dal momento che, diversamente

60 e 62, ove ulteriori richiami in dottrina; De Gregorio, Corso di diritto commerciale. Imprenditori-Società, Roma-Napoli-Città di Castello, 1954, p. 43; Travi, Cessione di quota e fallimento del cedente nella società di persone, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, p. 550; Brunetti, Trattato del diritto delle società, Milano, 1948, I, pp. 593 e 594, che, discorrendo della responsabilità verso i terzi di una società in accomandita semplice, ha osservato come i diritti e gli obblighi «acquistati ed assunti in nome della società [siano] diritti ed obblighi dell’impresa come tale e non dei singoli soci», con la conseguenza che, poiché, il patrimonio sociale appartiene alla comunione unificata di questi ultimi, i medesimi non assumono la qualifica di imprenditore che attiene, invece, alla «società ai cui scopi è destinato»; Stratta, Responsabilità dei soci della società in nome collettivo, in Riv. dir. comm., 1946, I, pp. 402 e 403. 9 Come rilevato da Cass., 11 ottobre 1957, n. 3739, in Riv. dir. civ., 1958, II, 296, con nota di Bigiavi, Sulla qualità d’imprenditore, cit. 10 Già in epoca risalente Trib. Firenze, 6 luglio 1951, in Foro it., 1952, I, 812 e 813, osservava, in effetti, che se il socio illimitatamente responsabile fosse stato «hic ipse» un imprenditore, l’art. 147 l. fall. si sarebbe rivelato del tutto superfluo, in quanto il suo fallimento avrebbe preso avvio dall’applicazione dei generali principi del diritto concorsuale. 11 Ci si riferisce a quanto affermato, per vero con particolare riguardo alle società commerciali obbligate all’iscrizione nel Registro delle Imprese anche in mancanza di un effettivo esercizio dell’attività d’impresa, da Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, pp. 29 ss. e 139. 12 Che non sono, quindi, imprenditori commerciali, ma falliscono quale conseguenza – necessaria – dell’esecuzione collettiva della società. Così Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, I, pp. 209 e 210. 13 In argomento si veda Serio, I soci illimitatamente responsabili nel fallimento della società, in Dir. fall., 1976, I, p. 320. 14 Al pari di quanto precisato anche da Ragusa Maggiore, Società di persone e personalità giuridica, cit., p. 154.

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opinando, non si comprenderebbe quale impresa potrebbero esercitare questi ultimi, essendo imprenditore la sola società15. Senza poi dimenticare che l’autonomia patrimoniale che contraddistingue le società a base personale – più spiccata nelle società in nome collettivo, meno in quelle semplici – trova pur sempre riscontro non solo nella possibilità, per le stesse, di porre in essere rapporti giuridici con i singoli soci, ma anche e soprattutto in talune prescrizioni che evidenziano come il patrimonio di questi ultimi sia distinto da quello sociale, quali, ad esempio, l’art. 2266 c.c. – secondo cui la società acquista diritti ed assume obbligazioni tramite i soci che ne hanno l’amministrazione e la rappresentanza – l’art. 2305 c.c. – che vieta al creditore particolare del socio, finché dura la società, di chiedere la liquidazione della relativa quota – l’art. 2304 c.c. – il quale conferisce alla responsabilità dei soci carattere sussidiario rispetto a quella della società, anche nell’eventualità in cui quest’ultima dovesse essere in liquidazione – l’art. 2200 c.c. – che assoggetta all’obbligo della registrazione le società e non anche i loro soci – nonché, in ambito concorsuale, l’art. 147 l.fall., che estende il processo di fallimento della società ai singoli soci senza, tuttavia, che l’eventuale autonoma esecuzione collettiva di questi ultimi, anche laddove illimitatamente responsabili, implichi il fallimento della prima16. Né la qualifica di imprenditore del socio illimitatamente responsabile può essere desunta dal suo assoggettamento ad esecuzione collettiva. Generalmente conosciuto come norma di soggezione, l’art. 147 l. fall. rappresenta, in effetti, una previsione dal carattere eccezionale17, che

15 Così Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, pp. 33 e 34 e riferimenti ivi citati. Sostanzialmente conforme è Serio, I soci illimitatamente responsabili, cit., pp. 318 e 319. Anche per Nigro, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, Milano, 1974, p. 563 ed in nota n. 98), non è possibile individuare in capo al socio una presunta qualità di imprenditore commerciale, diretto o indiretto, insolvente, essendo il relativo fallimento riconducibile alla sua particolare responsabilità illimitata e solidale. Nello stesso senso, reputa che il socio illimitatamente responsabile di una società di persone non assuma la qualifica di imprenditore commerciale, perché in siffatta tipologia di società la titolarità dell’impresa spetta esclusivamente all’ente sociale che, ancorché privo di personalità giuridica, rappresenta un centro di imputazione unitario degli atti e delle attività poste in essere dagli amministratori, App. Firenze, 24 febbraio 1986, in Il fallimento, 1986, 796. 16 Come asserito, sebbene in epoca alquanto risalente, da Cass., 4 ottobre 1957, n. 3599, cit. 17 V. Nigro, Commento sub Articolo 147 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007, **, pp. 2172 e 2173. Che l’art. 147 l. fall. attiri nella sfera applicativa dello “statuto” dell’imprenditore commerciale, e pertanto della disciplina concorsuale, anche soggetti a cui non compete la titolarità dell’impresa

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– analogamente all’art. 184 l. fall., il quale estende al socio illimitatamente responsabile gli effetti del concordato preventivo della società, indipendentemente della sua qualità di imprenditore commerciale – non è suscettibile di interpretazione analogica18, derogando, in modo espresso, al principio generale di cui all’art. 1 l. fall. – in forza del quale sono assoggettati a fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale – sotto due profili: il socio non può fallire in modo disgiunto dalla società anche se personalmente insolvente, sussistendo un «legame inscindibile» fra le due esecuzioni collettive, ed il fallimento del socio è determinato non da una propria insolvenza, ma da quella della società, quale effetto automatico del fallimento di quest’ultima19. Ciò fa sì che la procedura instaurata nei confronti dell’organismo sociale coinvolga anche i suoi soci illimitatamente responsabili, a prescindere dalla loro qualità di imprenditori commerciali e dalla sussistenza o meno di un personale stato di insolvenza20, sicché ogni indagine al riguardo risulta del tutto irrilevante21. Il fondamento «necessario e suf-

insolvente, come i soci illimitatamente responsabili, è opinione espressa, più di recente, pure da Capo, Fallimento e impresa, in Amatucci, Capo, De Santis, Ficari, Pagni e Racugno, I presupposti. La dichiarazione di fallimento. Le soluzioni concordatarie, Padova, 2010, vol. I, pp. 86 e 87. L’eccezionalità dell’art. 147 l. fall. è stata nondimeno evidenziata da Apice, Limite temporale per il fallimento del socio, in Dir. fall., 1999, I, p. 1217; nonché da Majello, Il fallimento del socio con responsabilità illimitata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, pp. 331 e 335. Anche il Supremo Collegio ha sottolineato il carattere eccezionale e sanzionatorio che contraddistingue l’art. 147 l. fall. Si veda al riguardo, in parte motiva, Cass., 20 settembre 1984, n. 4810, in Giur. comm., 1986, II, 293, con nota di Rocco di Torrepadula, Beneficium excussionis del socio e fallimento della società. 18 Cfr., in argomento, Cass., 28 marzo 1987, n. 3037, in Giust. civ. Mass., 1987, 874; nonché, Cass., 12 aprile 1984, n. 2359, cit. 19 Così Maffei Alberti, Fallimento delle società, in Il fallimento, 1999, p. 744. Ha visto nell’art. 147 l. fall. una «sanzione anomala», pure Asquini, Sull’estensione del fallimento al socio occulto, in Foro civ., 1948, p. 53. 20 L’inadempienza dei soci, infatti, da un lato, non rappresenta una condizione essenziale affinché si attui l’estensione nei loro confronti del fallimento sociale e, dall’altro, anche qualora presente, non integra gli estremi dello stato di insolvenza richiesto per l’apertura del processo fallimentare, rimanendo per di più circoscritta alle sole obbligazioni sociali, senza estendersi a quelle personali. Così Serio, I soci illimitatamente responsabili, cit., pp. 317 e 321. 21 Come precisato da Cass., 30 aprile 1969, n. 1412, in Dir. fall., 1969, II, 897; Cass., 26 aprile 1969, n. 1359, ivi, 1969, II, 874; Cass., 14 giugno 1967, n. 1338, in Giust. civ. Mass., 1967, 705; Trib. Milano, 11 ottobre 2004, in Corr. mer., 2005, 380 e 381; Trib. Roma, 22 gennaio 1996, in Il fallimento, 1996, 504 e 505; Trib. Torino, 15 maggio 1990, ivi, 1990, 1256; nonché, in relazione alla trascurabilità della verifica circa la personale situazione

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ficiente» dell’estensione del fallimento sociale al socio illimitatamente responsabile risiede, infatti, proprio nell’apertura della prima di tali procedure, l’unica rispetto alla quale deve essere valutata l’esistenza o meno di uno stato di insolvenza22. Forti di questa conclusione, all’originale quesito se anche il socio illimitatamente responsabile sia legittimato ad avvalersi – non in rappresentanza della società, ma direttamente, quale responsabile in solido per le obbligazioni sociali – del piano di risanamento attestato di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. non può che fornirsi risposta negativa, non essendo il socio stesso – in virtù dell’indirizzo che qui si ritiene di dover condividere – un imprenditore commerciale. Poiché la composizione negoziale della crisi d’impresa difetta di una disposizione simile all’art. 154 l. fall. – che, in sede di esecuzione collettiva, attribuisce a ciascun singolo membro della compagine societaria dichiarato fallito in estensione il diritto di proporre un concordato fallimentare ai creditori sociali ed a quelli particolari – al socio illimitatamente responsabile – ed, in particolare, a colui che non amministra la società e che, quindi, non può fare affidamento su quel potere di gestione che gli consentirebbe, per altra via, di ricorrere ad un piano di risanamento

economica e, quindi, lo stato d’insolvenza dei soci di una società di persone, Cass., 13 settembre 1997, n. 9075, ivi, 1998, 1033, con le Osservazioni di Raymondi; Cass., 30 gennaio 1995, n. 1106, in Foro it., 1995, I, 3228, con nota di Vacchiano, Sulle orme della società occulta: tra «imprenditore individuale apparente» già fallito e società «di comodo», che si è pronunciata in tema di soci occulti di una società di fatto; Cass., 4 giugno 1992, n. 6852, in Il fallimento, 1992, 928; Cass., 28 maggio 1991, n. 6028, ivi, 1991, 1146; Trib. Torino, 13 ottobre 1992, ivi, 1993, 326, con Osservazioni di Ruggeri; Trib. Trieste, 22 giugno 1992, ivi, 1992, 1190; nonché, Trib. Roma, 24 aprile 1989, ivi, 1989, 1161. 22 Cfr. Cass., 11 dicembre 2000, n. 15596, in Il fallimento, 2001, 946. In modo sostanzialmente conforme si vedano altresì, Trib. Roma, 1° agosto 1988, ivi, 1989, 450; App. Genova, 18 aprile 1947, in Temi, 1947, 589. Anche per Ricci, Lezioni sul fallimento, Milano, 1992, p. 107, il fallimento del socio illimitatamente responsabile, quale inevitabile conseguenza di quello della società, non implica che il predetto socio sia un imprenditore commerciale. Pure Bracco, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1960, p. 247, specifica che, nelle società di persone, è la sentenza di fallimento pronunciata nei confronti di quest’ultima a produrre il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, i quali falliscono in quanto tali e non perché contitolari di un’impresa commerciale e, dunque, imprenditori commerciali. Concorde nel ritenere che «la legittimazione sostanziale passiva al fallimento dei soci illimitatamente responsabili» sia una diretta conseguenza del fallimento della società, ben potendo la medesima operare anche in modo anomalo, investendo persone che difettano della qualità di imprenditore e che possono non essere insolventi, è Azzolina, Il fallimento, Torino, 1953, I, p. 210.

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attestato – deve ritenersi preclusa la possibilità di avvalersi, in via autonoma, di questo strumento volto a prevenire il fallimento dell’ente sociale a cui partecipa ed, in estensione, anche il proprio.

3. La rimozione del rischio di attuazione della responsabilità del socio quale effetto “indiretto” del piano di risanamento attestato predisposto dalla società. Il risultato poc’anzi raggiunto impone di indagare quali siano le conseguenze che si producono nella sfera dei soci illimitatamente responsabili a seguito della redazione, da parte della società da essi partecipata, di un piano di risanamento attestato, chiedendosi, nello specifico, se quest’ultimo documento dispieghi la propria efficacia anche nei confronti dei componenti dell’ente collettivo – analogamente a quanto sancito dall’art. 184, co. 2, l. fall., che, salvo patto contrario, “trasla” nella sfera dei soci illimitatamente responsabili gli effetti del concordato preventivo della società – ovvero se, nel caso che ci occupa, operino altri e diversi principi. A dover essere individuate sono, in particolare, le ripercussioni giuridiche in grado di riflettersi sul socio, dal momento che, se nel concordato preventivo l’effetto principe è quello conformativo di modificazione dell’originaria obbligazione concorsuale discendente dal combinato disposto degli artt. 160 e 184 l. fall., con riferimento alla disciplina del piano di risanamento attestato, l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., da un lato, mira a favorire il risanamento dell’esposizione debitoria ed il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa e, dall’altro, produce un esonero da azione revocatoria. Mentre di quest’ultimo aspetto ci si occuperà nei paragrafi successivi, tralasciando, tuttavia, di affrontare la delicata questione se l’esenzione valga non solo per la revocatoria fallimentare ma anche per quella ordinaria, come a chi scrive pare preferibile, ovvero pure in relazione alla disciplina di inefficacia di cui agli artt. 64 e 65 l. fall., o, ancora, solo per la prima delle due suddette azioni revocatorie23, con riguardo alla

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Circoscrive entro l’ambito applicativo dell’art. 67 l. fall. le categorie di esenzioni dallo stesso contemplate al co. 3, Nigro, Commento sub art. 67 l. fall., in La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli, Santoro, Torino, 2010, Tomo I – Artt. 1-83, pp. 929 e 930. Sostanzialmente conforme è la posizione assunta da Mancinelli, La

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problematica del risanamento, è alquanto evidente che il piano attestato

rivisitazione del piano attestato di risanamento, in www.ilcaso.it, 13 settembre 2016, p. 3; Bosticco, L’effetto esonerativo del piano attestato, in Arcuri e Bosticco, Il piano di risanamento attestato e il nuovo sovraindebitamento, Milano, 2014, pp. 92 ss.; Limitone, Sub art. 67 l. fall., in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2014, p. 853; Bertacchini, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Bertacchini, Gualandi, S. Pacchi, G. Pacchi, e Scarselli, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2011, p. 226; Piscitello, Piani di risanamento e posizione delle banche, in Aa.Vv., Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa, Torino, 2007, p. 118; D’ambrosio, Le esenzioni da revocatoria nella composizione stragiudiziale della crisi di impresa, in Giur. comm., 2007, I, p. 367; De Crescienzo e Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, p. 93; Fabiani, L’alfabeto della nuova revocatoria fallimentare, in Il fallimento, 2005, p. 579. Offrendo una lettura più permissiva dell’espressione “azione revocatoria”, estende la portata delle norme di esonero di cui al co. 3 dell’art. 67 l. fall. sino a ricomprendervi non solo l’azione revocatoria fallimentare, ma anche quelle previste dagli artt. 64 e 65 l. fall., nonché l’azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 66 l. fall., proseguita o promossa dalla curatela fallimentare, Bonfatti, La nuova disciplina delle “esenzioni” dalle azioni revocatorie nella riforma della legge fallimentare. Uno sguardo d’insieme ed La disciplina della composizione delle crisi d’impresa nella nuova legge fallimentare (d.l. 14 marzo 2005, n. 35). La “esenzione” dalla revocatoria degli atti posti in essere per favorire l’accesso alle procedure di composizione negoziale, e per agevolare l’esecuzione dei “piani” e degli accordi per la prevenzione o la sistemazione della “crisi”, in La disciplina dell’azione revocatoria, a cura di Bonfatti, Milano, 2005, pp. 42 e 139; la cui visione “largheggiante” è considerata dotata di «logicità e funzionalità effettive e coerenti con gli scopi del legislatore», da Paluchowski, Le esenzioni da revocatoria, in Pajardi e Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, p. 414. In effetti, che quella qui in considerazione sia un’opzione interpretativa da condividersi, sebbene limitatamente all’estensione dell’esenzione anche all’azione revocatoria ordinaria proseguita o proposta dal curatore fallimentare, pare corretto anche allo scrivente (come peraltro già affermato in Struttura e contenuti dei “piani di risanamento” e dei “progetti di ristrutturazione” nel concordato preventivo e negli accordi di composizione stragiudiziale delle situazioni di “crisi”, in Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa, a cura di Bonfatti e Falcone, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, n. 296, Milano, 2006, pp. 516 e 517), sulla scorta della considerazione che l’azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare costituiscono, in realtà, la medesima azione (l’equivalenza fra tali due azioni è affermata, sempre in dottrina, da Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II, pp. 1144 ss.; Quatraro, Fumagalli, La revocatoria ordinaria e fallimentare, Milano, 1994, p. 103; e da Bregoli, La natura dell’azione revocatoria nella nuova legge fallimentare. Profili generali (art. 67, primo e secondo comma l. fall.), in La riforma della legge fallimentare, Atti del Convegno di Modena, 21 e 22 giugno 2005, a cura di Bonfatti, Modena, 2005, p. 7, a giudizio del quale l’azione “pauliana” di cui agli artt. 2901 ss. c.c. costituisce la matrice e la revocatoria fallimentare la sua variante; l’«identità sostanziale e funzionale» fra l’azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare è sostenuta anche da Cass., 28 agosto 2004, n. 17214, in Giust. civ. Mass., 2004, 2208 e 2209; nonché, quale obiter dictum, da Cass., 25 giugno 1980, n. 3983, in Giur. comm., 1981, II, 5; da ultimo, la non incompatibilità fra l’azione revocatoria ordinaria e quella

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di una società con soci illimitatamente responsabili non potrà mai prefiggersi l’obiettivo di ridurre l’esposizione debitoria di questi ultimi attinente a debiti diversi da quelli sociali. In una simile circostanza difetta, infatti, uno dei due presupposti di applicabilità dell’istituto di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.: la sussistenza di obbligazioni inerenti all’esercizio dell’impresa commerciale. Ciò che, invece, si trascina a cascata dalla società ai soci è, in ipotesi di successo del tentativo di composizione negoziale della crisi d’impresa, il riequilibrio della situazione finanziaria: il piano di risanamento at-

fallimentare, che possono di conseguenza essere esperite cumulativamente, è messa in luce pure da Cass., 6 maggio 1975, n. 1757, in Giust. civ. Mass., 1975, 799). Hanno, altresì, sostenuto che l’esonero di cui all’art. 67, co.3, lett. d), l. fall. operi anche in relazione all’azione revocatoria ordinaria, Terranova, I profili generali dell’istituto. Il danno come fondamento dell’azione, in Ghia, Piccininni e Severini, Trattato delle procedure concorsuali, vol. II. Torino, 2010, pp. 34 e 35; e Trentini, Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2016, pp. 76 ss., che opta per un indirizzo «più liberale», comprensivo anche dell’esonero da azione revocatoria ordinaria, che non può riguardare, tuttavia, gli atti a titolo gratuito. L’esonero sancito dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. non sembra, al contrario, estensibile, a parere di chi scrive, alle fattispecie di cui agli artt. 64 e 65 l. fall. (conforme Tarzia, Quale tutela per gli accordi con il finanziatore nella ristrutturazione dei debiti, in Il fallimento, 2009, p. 54). L’espressione con cui esordiscono queste due norme, ‹‹sono privi di effetti rispetto ai creditori››, pare, infatti, difficilmente superabile: le fattispecie in esame danno vita ad una disciplina dell’inefficacia e della conseguente pronuncia di natura dichiarativa dell’autorità giudiziaria che si discosta dal carattere costitutivo della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, divenuto ormai, per pacifica opinione della giurisprudenza, orientamento consolidato ed unanime (così Cass., 25 giugno 2009, n. 14896, in Giust. civ. Mass., 2009, 979: Cass., 18 gennaio 2006, n. 887, ivi, 2006, 254; Cass., 11 giugno 2004, n. 11097, ivi, 2004, 1325 e 1326; Cass., 7 aprile 2004, n. 6893, in Giust. civ., 2005, I, 1339; Cass., 11 settembre 2001, n. 11594, in Giust. civ. Mass., 2001, 1656; Cass. S. U., 15 giugno 2000, n. 437, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 690, con nota di Ponti e Spadetto, Azione revocatoria fallimentare e obbligazione dell’accipiens; Cass., 23 gennaio 1997, n. 699, in Giust. civ. Mass., 1997, 114; Cass. S. U., 8 luglio 1996, n. 6225, ivi, 1996, 999; Cass. S. U., 16 giugno 1996, n. 5443, in Foro it., 1996, I, 2734; Cass., 17 gennaio 1995, n. 481, in Il fallimento, 1995, 854; Cass.,15 marzo 1994, n. 2468, in Giur. comm., 1995, II, 167; Cass., 21 giugno 1984, n. 3657, in Il fallimento, 1984, 1389; Cass., 25 ottobre 1973, n. 2754, in Giust. civ. Mass., 1973, 1431; nonché, quale obiter dictum, Cass., 12 maggio 2011, n. 10486, in Giust. civ., 2011, I, 2305; Cass., 11 novembre 2003, n. 16905, in Il fallimento, 2004, 901 ss.; Cass., 8 marzo 1973, n. 629, in Giust. civ. Mass., 1973, 320; Trib. Rimini, 27 febbraio 2006, in Il fallimento, 2006, 607; App. Torino, 16 novembre 2005, ibidem, 221; App. Torino, 22 maggio 2006, ivi, 2007, 179, con nota di Fabiani, Provvisoria esecutorietà dei capi condannatori nelle sentenze revocatorie e interferenze con la riforma fallimentare; App. Trento, 12 gennaio 2001, in Foro it., 2001, I, 1363, con nota di Fabiani, La sentenza in materia revocatoria e il problema della sua esecutorietà).

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testato finisce, in effetti, per allontanare lo spettro dell’attuazione forzata della destinazione dei beni del socio alla soddisfazione dell’interesse dei creditori sociali all’originaria prestazione, nonché per rafforzare, dal punto di vista del creditore, la sicurezza di realizzare il proprio credito. La manovra finanziaria contenuta nel piano è, infatti, destinata ad eliminare il divario venutosi a creare tra quanto l’impresa può sostenere, in termini di adempimento delle obbligazioni in scadenza, e quanto giuridicamente sarebbe tenuta a sopportare. Nel riportare l’ammontare dei debiti di prossima scadenza ad un livello compatibile con i flussi di cassa prodotti, la predetta manovra contribuisce, infatti, a rimuovere il rischio, per il socio, di dover rispondere per le obbligazioni sociali, sopportando le conseguenze negative che discendono da un’eventuale inadempimento della società. D’altronde, che il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa produca effetti indiretti anche nella sfera del singolo socio illimitatamente responsabile è la conseguenza non tanto di un principio dettato dalla legge fallimentare e, in particolare, dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., quanto della regola generale di diritto comune in forza della quale, nelle società a base personale, per le obbligazioni sociali risponde solidalmente ed illimitatamente anche il socio. In altri termini, l’aspettativa, insita nella ratio e nella lettera della sopra citata disposizione di legge, di un ritorno all’equilibrio finanziario implica che il piano di risanamento attestato debba puntare, tra l’altro, a quella ripresa del regolare adempimento delle obbligazioni sociali che costituisce un traguardo a cui legittimamente aspira anche il socio illimitatamente responsabile, atteso che ciò impedisce al creditore sociale di attivare – in caso di insufficienza del patrimonio sociale – la responsabilità solidale ed illimitata che grava sul socio stesso e, quindi, di agire in executivis sul suo patrimonio delusa la richiesta di pagamento di cui agli artt. 2268 e 2304 c.c.; norma, quest’ultima, applicabile anche alle società in accomandita semplice in forza del rinvio disposto dall’art. 2315 c.c.

4. Il problematico esonero da revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti in essere dal socio illimitatamente responsabile: il profilo d’indagine. È ora giunto il momento di analizzare la protezione da revocatoria – in ipotesi di fallimento della società ed, in estensione, anche del socio illimitatamente responsabile – degli atti, dei pagamenti e delle garanzie

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posti in essere da quest’ultimo in esecuzione del piano ex art. 67 l. fall. predisposto dall’ente collettivo. In una simile eventualità, il dubbio che affiora attiene, infatti, alla circostanza che se a realizzare i fatti giuridici in questione è la società di persone, l’esonero da revocatoria è inequivocabile, trattandosi di atti senz’altro compiuti in esecuzione del piano; diversamente, qualora ad agire sia un socio, l’operatività dell’ombrello protettivo sancito dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. appare maggiormente incerta, non essendo il socio medesimo l’imprenditore che ha redatto il piano. Tuttavia, prima di addentrarsi nell’indagine in rassegna, è doveroso individuare il perché l’estensione della norma in commento abbia utilizzato – in aggiunta alla dizione “atti” – le espressioni “pagamenti” e “garanzie”, che già di per sé stessi sono “atti”. La risposta a tale interrogativo non risulta, però, così immediata come la lettura dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – che finisce per contemplare «tutta la gamma degli atti astrattamente revocabili»24 – potrebbe indurre a ritenere. In effetti, se la locuzione “atti” pare chiamare in causa la generale categoria degli “atti giuridici”, intesa nella sua più ampia accezione – ricomprendente, quindi, tutte quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali i soggetti intendono, in forza dell’autonomia privata loro concessa, modificare, estinguere o creare rapporti giuridici, così regolando i propri interessi in relazione con gli altri – la separata menzione delle garanzie e dei pagamenti esclude, in realtà, che la sopra riportata locuzione possa riferirsi agli atti esecutivi di un rapporto obbligatorio avente ad oggetto i pagamenti di debiti oppure la costituzione di una garanzia su beni propri del debitore, includendo, invece, quelli di disposizione del patrimonio, i contratti, nonché i negozi giuridici25. Se così non fosse, si dovrebbe ammettere la pleonasticità delle specificazioni “pagamenti”

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V. Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, 2006, p. 899. A tal proposito, è noto come quest’ultimo – quale costruzione «dottrinale» priva di specifici riscontri normativi, ma «costantemente accettata ed elaborata», essendo espressione dell’autonomia dei privati con riguardo ad interessi di cui possono disporre (cfr. Rescigno, Atto giuridico, I) Diritto privato, in Enc. giur. Treccani, IV, Roma, 1998, pp. 2 e 3) – costituisca l’atto di autonomia mediante il quale il privato regola da sé i propri interessi, foggiando «la fattispecie (negoziale), in relazione all’interesse che esso stesso si propone di realizzare», ben potendo, peraltro, il negozio giuridico, comporsi di più atti fra di loro combinati in modo vario, ognuno dei quali ne costituisce un momento. Per tale definizione si rinvia a G. Santoro Passarelli, Atto giuridico, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, pp. 204 ss. 25

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e “garanzie concesse su beni del debitore”. Il che, francamente, appare, oltre che difficilmente giustificabile, anche giuridicamente inaccettabile, in quanto frutto di una tecnica legislativa del tutto singolare che farebbe uso di un linguaggio inspiegabilmente sovrabbondante rispetto al contesto che si intende disciplinare. Forse, la motivazione alla base dell’impostazione prescelta dal legislatore è più semplice di quanto ci si possa immaginare: la medesima pare, infatti, risiedere in una certa omogeneità di linguaggio che accomuna le tradizionali espressioni utilizzate in sede di revocatoria fallimentare di cui all’art. 67, co. 2, l. fall., laddove si parla di «atti a titolo oneroso», di «pagamenti di debiti liquidi ed esigibili», nonché di atti «costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati». Chiarito ciò, prima di rispondere al quesito da cui si era partiti, vale a dire se anche gli atti compiuti dal socio illimitatamente responsabile in esecuzione del piano di risanamento attestato predisposto dalla società a cui partecipa beneficino, in ipotesi di successivo fallimento di quest’ultima, dell’esonero da azione revocatoria, è bene scindere e trattare separatamente la fattispecie dell’esenzione degli atti e dei pagamenti da quella – per certi versi maggiormente complessa – delle garanzie.

5. La protezione da revocatoria degli atti e dei pagamenti compiuti dal socio illimitatamente responsabile quale terzo non imprenditore. Con evidente rigore interpretativo, parte della dottrina è giunta a richiedere, quanto ai limiti oggettivi di operatività dell’esenzione da revocatoria di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., che gli atti siano espressamente ricompresi nel piano di risanamento, non essendo ammissibile che gli stessi siano solo in qualche modo riconducibili a tale documento26.

26 Sul punto v. Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., 2016, pp. 78 ss. Paiono aderire all’indirizzo in esame anche Ambrosini, Aiello, I piani attestati di risanamento: questioni interpretative e profili applicativi, in www.ilcaso.it, 11 giugno 2014, pp. 23 e 24, laddove affermano che non è sufficiente che gli atti siano collegati al piano, essendo diversamente fondamentale che il loro compimento possa essere considerato esecuzione di questo documento o, comunque, chiaramente connesso alle operazioni da esso individuate al fine di dar corso al programma di risanamento. Ancora più restrittiva è la visione proposta da Jorio, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Ambrosini, Cavalli e Jorio, Il fallimento, Padova, 2009, p. 443, il quale, ricorrendo ad

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Ciò ha indotto a considerare non protetti da azione revocatoria tanto gli atti non contenuti nel piano, quanto quelli che, sebbene a questo riconducibili, si caratterizzano per una «discordanza cronologica», in quanto, ad esempio, antecedenti all’adozione – e, pertanto, alla deliberazione ed assunzione da parte dell’organo amministrativo della società – del piano medesimo, ovvero compiuti «al di fuori (sostanzialmente) dei tempi previsti per [la sua] esecuzione»27. Ma l’impostazione progressivamente tracciata dalla letteratura più severa non si è arrestata qui, addivenendo, altresì, alla categorica revocabilità degli atti dei terzi: la natura unilaterale del piano e la sua pubblicabilità del tutto discrezionale non possono che giustificare l’attribuzione di vincoli al solo patrimonio del debitore che lo ha redatto, non godendo, di conseguenza, i suddetti atti, sebbene pianificati accanto a quelli dell’imprenditore, della stabilità assicurata dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.28.

un’interpretazione letterale del disposto dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., nonché facendo proprie le parole scritte da Ferro, in Il piano attestato di risanamento, in Il fallimento, 2005, p. 1359 – per cui «porre in essere “atti in esecuzione” (i soli irrevocabili) significa postulare, non solo in astratto, che altri atti d’impresa siano invece “non in esecuzione” del piano, pur se compiuti nell’interesse dell’imprenditore», sicché l’esonero da revocatoria è da riservarsi ai soli atti che «siano la traduzione, più o meno fedele, dei […] passaggi disegnati a monte» nel piano – ha sostenuto l’irrevocabilità esclusivamente degli atti in quest’ultimo contemplati. Su analoga posizione sembra collocarsi Burigo, Il piano attestato di risanamento: uno strumento di risoluzione della crisi finanziaria d’impresa tuttora efficace, in Dir. fall., 2017, I, p. 1069, che considera irrevocabili le sole operazioni compiute in esecuzione di un piano attestato che siano ad esso funzionali ed ivi indicate in modo analitico. Ragioni di completezza impongono, infine, di sottolineare come Cass., 5 luglio 2016, n. 13719, in Giust. civ. Mass., 2016 – il cui insegnamento è stato recepito dall’Ordinanza emessa dal Supremo Collegio in data 19 dicembre 2016, n. 26226, in www.osservatoriooci.org. – abbia specificato, sebbene in relazione all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. nel testo previgente al d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni nella l. n. 134/2012, che, per considerare esenti da azione revocatoria fallimentare gli atti esecutivi di un piano attestato di risanamento, il giudice, investito della relativa domanda proposta dalla curatela, deve appurare, con giudizio ex ante, la manifesta attitudine del piano stesso, di cui i predetti atti costituiscono uno strumento d’attuazione, a realizzare gli scopi per i quali è stato redatto, ossia permettere il risanamento dell’esposizione debitoria ed il riequilibrio della situazione finanziaria. 27 V., ancora una volta, Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., 2016, p. 79. 28 In questi termini si veda Ferro, Sub art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., in La legge fallimentare, a cura di Ferro, cit., pp. 890 e 891, a giudizio del quale, il “blocco” delle future azioni revocatorie, sancito dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., riguarda esclusivamente gli atti del debitore, la cui «meritevolezza causale» è sostenuta da un indice di coerenza con

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Alla luce di ciò, viene spontaneo chiedersi se la stessa sorte, in termini di mancata protezione da azione revocatoria, debba essere riservata anche agli atti ed ai pagamenti eseguiti dal socio illimitatamente responsabile e, soprattutto, se quest’ultimo soggetto debba davvero considerarsi terzo rispetto alla società che predispone il piano. Quello preso qui in considerazione è, in effetti, un differente profilo di terzietà che attiene non alla tradizionale questione inerente la titolarità del debito29, bensì al soggetto che predispone il piano. Ebbene, al riguardo, si ricorda che, in forza delle conclusioni tracciate nel paragrafo 2, il socio non solo non è imprenditore commerciale, ma non è neppure legittimato ad avvalersi, in via autonoma, del “piano di risanamento attestato” e, pertanto, non può essere assimilato, sotto questo aspetto, alla società a cui partecipa. Una condizione di terzietà, quella del socio rispetto all’ente sociale debitore che redige il piano, avvalorata anche dalla separatezza che intercorre tra i rispettivi patrimoni, essendo il primo esterno al secondo e non potendo, di certo, le due masse patrimoniali, essere fra loro confuse30. Ciò nonostante, nel caso che ci occupa, l’esonero da azione revocatoria degli atti e dei pagamenti compiuti dal socio illimitatamente responsabile in esecuzione del piano di risanamento attestato predisposto dalla

il piano, quand’invece gli atti dei terzi possono «evidenziare un collegamento solo indiretto con la realizzazione del risanamento», che concerne esclusivamente l’imprenditore. Del tutto conforme è l’opinione di Nardecchia, Le esenzioni dalla revocatoria. Piani attestati. Accordi di ristrutturazione. Concordato preventivo, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, tomo II, in Nuova giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, diretta da Alpa, Bonilini, Breccia, Cagnasso, Carinci, Confortini, Cottino, Jannarelli e Sesta, Torino, 2016, p. 1516, il quale fonda la limitazione dell’esonero da revocatoria agli atti posti in essere dal debitore sul presupposto «della coerenza degli atti con il progetto di risanamento dell’impresa, risanamento che riguarda esclusivamente il debitore medesimo». 29 Per la quale la più recente giurisprudenza di legittimità ha ribadito che il socio illimitatamente responsabile di una società a base personale non può essere ritenuto terzo rispetto all’obbligazione sociale, poiché risponde senza alcuna limitazione, essendo debitore al pari della società. Cfr., in argomento, Cass. S. U., 16 febbraio 2015, n. 3022, in Il fallimento, 2015, 519 ss., con nota di Lo Cascio, Concordato preventivo e soci illimitatamente responsabili. 30 Analogamente a quanto avviene nell’ambito dell’esecuzione collettiva, ove il patrimonio della società deve rimanere distinto da quello dei singoli soci ed i creditori particolari di questi ultimi partecipano soltanto al loro fallimento. Così, già in epoca remota, Cass., 4 ottobre 1957, n. 3599, cit.

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società, potrebbe trovare – a differenza di quelli di un qualunque altro terzo – la propria ratio in una ricostruzione dell’istituto che conduca all’irrevocabilità, in ipotesi di successivo fallimento, di tutti gli atti e i pagamenti che – a prescindere dal soggetto che li pone in essere, società o socio illimitatamente responsabile – si prefiggono il risanamento dell’impresa collettiva partecipata e, pertanto, la riduzione dell’indebitamento per cui opera la responsabilità patrimoniale del socio stesso. In altri termini, l’esonero da revocatoria degli atti e dei pagamenti compiuti da quest’ultimo potrebbe, seguendo questa progressione argomentativa, essere il risultato di una vis actractiva a quelli prodromici e funzionali al risanamento dell’esposizione debitoria dell’imprenditoresocietà che predispone il piano, non potendo il socio illimitatamente responsabile essere equiparato ad un qualsiasi terzo che dovesse fallire in forza di un’esecuzione collettiva autonoma e diversa rispetto a quella del sopra citato imprenditore-società. Da questo punto di vista, la fattispecie del socio illimitatamente responsabile che dovesse eseguire l’atto o il pagamento risulterebbe, in effetti, profondamente diversa, nei suoi fondamenti giuridici, da quella del terzo estraneo. Infatti, mentre il primo fallirebbe in conseguenza dell’assoggettamento ad esecuzione concorsuale dell’ente collettivo che ha visto “naufragare” il proprio piano di risanamento, ed in virtù di ciò meriterebbe la protezione da revocatoria laddove il piano fosse astrattamente fattibile e, pertanto, rispettoso di tutela, il secondo – vale a dire il terzo non socio – finirebbe per essere assoggettato ad esecuzione collettiva non a causa dell’insuccesso del piano, ma in via autonoma ed indipendentemente dal riscontro dei presupposti di fallibilità in capo all’imprenditore collettivo che ha formulato il piano. Sennonché, una simile ricostruzione non appare, come si cercherà di dimostrare nel prosieguo, del tutto appagante. In termini più generali, se si muove dall’assunto – in questa sede non in discussione – che l’atto o il pagamento posto in essere dal terzo debba essere espressamente contemplato dal piano, il relativo esonero da revocatoria dipende, in verità, dalla risposta che si fornisce al seguente ulteriore quesito: affinché operi l’ombrello protettivo di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. è sufficiente che l’atto o il pagamento sia compiuto in esecuzione del piano o ciò rappresenta soltanto una condizione necessaria ma non sufficiente, occorrendo, altresì, che l’atto o il pagamento in questione sia realizzato dal debitore-imprenditore che ha fatto ricorso allo strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa? Se si dovesse accordare preferenza a quest’ultima prospettazione, la conclusione sarebbe presto tracciata: nessun esonero da azione revo-

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catoria potrebbe mai riguardare gli atti ed i pagamenti compiuti da un terzo e, per quanto qui ci occupa, dal socio illimitatamente responsabile, il quale, come già più volte evidenziato, non solo non è legittimato a “confezionare” un piano di risanamento attestato avente ad oggetto i debiti sociali, ma non è neppure imprenditore. Diversamente, qualora si dovesse propendere per la prima delle due sopra delineate soluzioni, gli atti ed i pagamenti posti in essere dal terzo sarebbero evidentemente protetti da revocatoria e quelli compiuti dal socio, per il fatto stesso di essere esecutivi del piano, sarebbero – se si vuole essere coerenti con le premesse – del pari esenti da azione revocatoria nel suo fallimento in estensione, essendo irrilevante che i medesimi provengano da un soggetto diverso da quello – la società partecipata – che ha redatto il piano di risanamento attestato. Orbene, sempre in via generale, l’impressione che si ricava da una interpretazione logico-sistematica dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. è, ad avviso di chi scrive, che l’atto o il pagamento esecutivo del piano di risanamento sia esonerato da azione revocatoria indipendentemente da chi lo esegue e che, pertanto, l’ambito soggettivo di riferimento della sopra richiamata norma non sia circoscritto al solo imprenditore commerciale che predispone il piano, ma definito dal contenuto delineato – in termini programmatici – proprio da quest’ultimo documento. Peraltro, anche l’espressione testuale «posti in essere in esecuzione di un piano», con cui il legislatore delinea il perimetro degli atti e dei pagamenti destinati a beneficiare dell’ombrello protettivo da revocatoria, non pare escludere, expressis verbis, che a compiere l’atto o il pagamento possa essere anche un terzo, se ciò avviene nel rispetto di quanto pianificato dall’imprenditore. Né può essere accolta l’eccezione secondo cui gli atti ed i pagamenti del terzo non godrebbero dell’esonero da revocatoria stante l’impossibilità, per l’attestatore, di compiere un’indagine sul suo patrimonio ed, in particolare, sulla potenziale lesività degli stessi per il relativo ceto creditorio31. Ad una simile critica è, in effetti, alquanto agevole replicare adducendo due diverse argomentazioni. In primis, nulla esclude che l’attestatore, nel rendere il giudizio di veridicità dei dati aziendali, possa certificare, in forma organica e coerente, anche quelli che si riferiscono al terzo,

31 Come affermato, in tema di concessione di garanzie, da Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., p. 81.

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sebbene nei limiti della loro funzionalità al piano, essendo per di più implicito che, ai fini del rilascio del pronostico di fattibilità, l’attestatore medesimo debba prendere in considerazione qualsiasi atto e pagamento programmato, essendo irrilevante la fonte della loro provenienza. In secondo luogo, in ipotesi di terzo-società, l’idoneità dell’atto o del pagamento da questo posto in essere in vista del risanamento dell’esposizione debitoria dell’imprenditore che ha confezionato il piano, non dispensa i rispettivi organi sociali – in ossequio alla diligenza richiesta nello svolgimento del loro incarico – dal dover valutare, in via preliminare, un’eventuale profilo di pregiudizialità per il ceto creditorio e l’integrità del patrimonio sociale, esponendoli, di conseguenza, nel caso in cui la scelta gestoria compiuta dovesse risultare dannosa e depauperativa della garanzia patrimoniale, a profili di responsabilità azionabili, in sede di esecuzione collettiva, dal curatore fallimentare, pur tenendo conto, in presenza di un gruppo di imprese, di possibili vantaggi compensativi. Inoltre, per i creditori del terzo-società, il compimento di un atto o pagamento privo di corrispettività troverebbe tutela, nel relativo fallimento, attraverso l’applicazione del disposto dell’art. 64 l. fall., e ciò accedendo alla tesi, che a giudizio di chi scrive pare preferibile (v. nota n. 23v), secondo la quale la protezione da revocatoria non si estende all’inefficacia degli atti a titolo gratuito disciplinati da detta disposizione. D’altra parte, oggetto di revoca è pur sempre l’atto incriminato e la funzione dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. è proprio quella di concedere l’esonero a colui che è convenuto in revocatoria, a prescindere dal soggetto – imprenditore che ha predisposto il piano o terzo il cui intervento è stato pianificato a supporto del risanamento dell’impresa – che ha materialmente eseguito l’atto o il pagamento. Limitare l’esonero da azione revocatoria ai soli atti o pagamenti posti in essere dall’imprenditore che ha approntato un piano di risanamento attestato, senza proteggere, nell’eventuale successivo fallimento del terzo, quanto compiuto da quest’ultimo in esecuzione del predetto documento, significherebbe, infatti, aprire la strada a talune distonie e conseguenze non sempre in linea con le finalità sottese al precetto sopra richiamato. Si pensi, ad esempio, ad un creditore che, avendo ricevuto il pagamento da parte di un terzo nell’ambito di un piano di risanamento attestato, potrebbe trovarsi assoggettato a revocatoria a seguito del fallimento di quest’ultimo, nonostante abbia confidato nella riuscita della composizione negoziale della crisi d’impresa. Sempre a titolo meramente esemplificativo, si consideri, altresì, la posizione di chi abbia ricevuto, nell’ambito di un gruppo di società, un pagamento da parte della controllante, in esecuzione del piano ex art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. redatto

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da una partecipata, e che, nell’eventualità in cui a fallire fosse la prima, potrebbe essere esposto ad azione revocatoria per un atto effettuato, pur sempre, all’interno di una soluzione negoziale della crisi d’impresa. In definitiva, ciò che si deve reputare rilevante in vista dell’esonero da azione revocatoria degli atti e dei pagamenti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., sono le conseguenze a cui è esposto il loro destinatario, il quale, evidentemente, è disponibile a collaborare alla riuscita del risanamento sul presupposto che tali atti e pagamenti non siano revocati mai. Al riguardo, non deve, in effetti, essere dimenticato che la ratio dell’esonero da revocatoria è proprio quella di agevolare il tentativo di salvataggio dell’impresa, a prescindere dal raggiungimento o meno dell’esito sperato, premiando chi coopera per la composizione della crisi d’impresa, tra cui anche il soggetto destinatario dell’atto o del pagamento compiuto dal terzo, qualora tale atto o pagamento sia, per l’appunto, strumentale al risanamento dell’impresa. In conclusione, è opinione di chi scrive che l’individuazione dell’atto o del pagamento da esonerare venga in considerazione non sotto il profilo soggettivo di colui che lo ha compiuto, ma oggettivo dell’atto o del pagamento realizzato, sicché non pare potersi escludere che la protezione da revocatoria operi, in via generale, per tutti gli atti ed i pagamenti funzionali all’impresa e non soltanto per quelli strettamente eseguiti dall’imprenditore, dal momento che anche quelli effettuati dai terzi possono comunque risultare al servizio del piano. Se così stanno le cose, è gioco forza concludere che potranno usufruire dell’esonero da revocatoria anche gli atti ed i pagamenti posti in essere da quel particolare soggetto che, al pari di quanto sopra precisato, può qualificarsi terzo rispetto alla società di persone che ha predisposto il piano di risanamento attestato, che è il socio illimitatamente responsabile, per il quale il tenore letterale dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. non prevede – a differenza di quanto si avrà modo di apprezzare nei paragrafi successivi per il rilascio di garanzie – alcuna limitazione.

6. L’esenzione da revocatoria delle garanzie concesse su beni del debitore: la necessità di risolvere questioni preliminari. Strettamente connesso al tema sin qui trattato, è l’interrogativo in ordine alla sorte da riservarsi, in ipotesi di insuccesso del piano di risanamento formulato dalla società, alle garanzie eventualmente costituite dai suoi soci illimitatamente responsabili per debiti sia pregressi, che

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contratti ex novo, non operando l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. alcuna distinzione al riguardo. È, questo, un profilo di indagine che risulta assai complesso, dal momento che la disposizione in esame circoscrive espressamente la protezione da revocatoria alle sole garanzie rilasciate dal debitore32, e ciò a differenza di quanto previsto con riguardo alle operazioni funzionali all’esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. omologato, ove l’esenzione da azione revocatoria concerne, come precisato dalla lett. e) del medesimo art. 67, co. 3, l. fall., tutte le garanzie, senza limite alcuno, e, quindi, anche quelle prestate da un terzo, su beni di un terzo o nell’interesse di un terzo33. La ragione di una simile discrasia non è assolutamente chiara e le considerazioni addotte dalla dottrina per giustificare il diverso compor-

32 Contra D’Angelo, I piani attestati ex art. 67, co. 3, lett. d, l. fall.: luci e ombre a seguito del decreto “sviluppo”, in Giur. comm., 2014, I, pp. 76 e 77, per il quale non sussiste alcuna valida ragione per non esentare da revocatoria fallimentare anche le garanzie rilasciate da terzi in esecuzione di un piano di risanamento attestato, essendo inconcepibile assoggettare ad un differente regime la garanzia reale prestata dal debitore rispetto a quella rilasciata da un terzo. Senza poi trascurare la circostanza che, se così non fosse, l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. finirebbe per escludere dall’esenzione da azione revocatoria esclusivamente le garanzie prestate dai terzi e non anche i pagamenti compiuti da questi ultimi, creando «un sistema davvero irragionevole», atteso che l’atto maggiormente idoneo a ledere la par condicio creditorum, vale a dire il pagamento, risulterebbe assoggettato ad un regime meno intransigente di quello previsto per il rilascio di garanzie. Il che induce il sopra citato autore a ritenere protette da azione revocatoria fallimentare sia le garanzie su beni del debitore, sia quelle – reali e/o personali – concesse da terzi, e ciò in forza non solo di una tutt’altro che improbabile “svista” legislativa, ma della superfluità di un riferimento esplicito anche alle garanzie prestate da terzi rispetto alla natura del piano di risanamento attestato, il quale, per un verso, non presuppone il raggiungimento di particolari accordi con i creditori e la presenza di “creditori estranei” da soddisfare in modo integrale, e, per un altro, viene, di norma, messo in campo in «situazioni di difficoltà di minore gravità». 33 Al pari di quanto affermato da D’Ambrosio, Commento sub art. 67, 3° co., lett. d), e), g), l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, pp. 990 e 991; nonché da Calderazzi, Art. 63, 3° co., lett. d) e lett. e), in Le azioni revocatorie: la disciplina, il processo, a cura di Vitalone, Patroni Griffi e Riedi, Torino, 2014, p. 278. Della diversità di formulazione che intercorre fra le lettere d) ed e) dell’art. 67, co. 3, l. fall. se ne sono avveduti, fra gli altri, anche Nardecchia, Le esenzioni dalla revocatoria, cit., p. 1516; Bonfatti, La disciplina delle esenzioni dall’azione revocatoria fallimentare, in Jorio e Sassani, Trattato delle procedure concorsuali, II. Il fallimento, Milano, 2014, p. 316; Ambrosini e Aiello, I piani attestati di risanamento, cit., p. 24; Rago, Manuale, cit., p. 905.

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tamento tenuto dal legislatore non appaiono sempre del tutto convincenti. Se si ripercorrono le posizioni raggiunte in argomento dalla letteratura scientifica, emerge come, per taluni, la limitazione contenuta nell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. affondi le proprie radici nel fatto che le garanzie rilasciate dal debitore s’inseriscono nell’ambito di un progetto di risanamento – il piano, per l’appunto – che si prefigge l’obiettivo di superare la crisi in cui versa la sua impresa e la cui fattibilità è attestata da un professionista, il quale, però, non è per nulla obbligato a dar corso, dopo aver compiuto un’attenta verifica della situazione contabile del suddetto debitore, ad un accertamento delle condizioni patrimoniali e finanziarie del terzo garante, sicché ammettere l’irrevocabilità «al di fuori di ogni cautela in ordine all’inidoneità dei negozi a pregiudicare l’equilibrio economico-finanziario dei terzi garanti», significherebbe compromettere le ragioni dei creditori di questi ultimi, a tutto vantaggio del ceto creditorio «dell’obbligato principale, senza nemmeno prevedere, per i primi, tutela di sorta»34. Diversamente e per altra via, la precisazione «garanzie concesse su beni del debitore» è considerata non solo il frutto di un’infelice formulazione normativa – espressione di quel disfavore che il legislatore riserva agli accordi stragiudiziali rispetto a quelli parzialmente o totalmente giudiziali, quali, rispettivamente, l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. ed il concordato preventivo – ma anche del tutto superflua o, meglio ancora, priva di ratio, non integrando, la concessione di garanzie su beni di terzi, un atto dell’imprenditore in crisi35. Addirittura, per taluni, siffatta concessione di garanzie sarebbe incapace di diminuire la massa attiva da distribuire all’interno del fallimento e, di conseguenza, di incidere sulla par condicio creditorum, la quale deve essere assicurata solo in relazione ai beni del fallito, sicché le ga-

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In questi termini si esprime Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., p. 81. In tal senso si veda Bonfatti, La disciplina delle esenzioni dall’azione revocatoria fallimentare, cit., p. 317, che in altro suo scritto – v. Le procedure di composizione negoziale delle crisi e del sovraindebitamento, a cura di Bonfatti e Falcone, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, n. 372, Milano, 2014, pp. 16 e 17 – non manca di sottolineare come l’esenzione da revocatoria degli atti costitutivi di garanzie su beni del debitore attenga a tutte le garanzie, e solo a quelle, di cui sarebbe «lecito occuparsi (o preoccuparsi)» in caso di assoggettamento ad esecuzione collettiva dell’imprenditore che ha formulato il piano di risanamento stragiudiziale, non riguardando, pertanto, le garanzie concesse su beni di terzi, le quali non necessitano di alcuna forma di esenzione, in quanto a costituire il vincolo di prelazione su di un proprio bene non è il soggetto poi fallito. 35

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ranzie concesse su beni di terzi sarebbero escluse da revocatoria non in forza dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., ma perché di per sé stesse non soggette ad azione revocatoria nel fallimento del debitore, potendo tutt’al più esserlo, in presenza dei necessari presupposti, nell’eventuale esecuzione collettiva del terzo36. Per non dire poi di altra parte della dottrina – molto attenta al dato normativo di quella che rappresenta «un’eccezione alla regola generale della revocabilità» – che, nel tentativo di offrire un’opzione interpretativa coerente con il sistema, osserva come l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. attenga al solo rilascio, da parte del debitore (poi fallito), di una garanzia reale su beni propri in vista dell’attuazione del piano di risanamento dallo stesso intrapreso, trascurando del tutto l’ipotesi in cui la garanzia sia prestata da un terzo su beni propri ed a favore del suddetto debitore, in quanto una simile fattispecie non arrecherebbe un danno, bensì un vantaggio alla massa37. Sennonché, anche quest’ultima affermazione non può, a parere di chi scrive, essere del tutto condivisa, posto che la concessione, da parte del terzo, di garanzie non determina una riduzione dell’indebitamento o un incremento del patrimonio su cui può confidare l’intero ceto creditorio, ma finisce per incidere sulla par condicio creditorum. Sul punto, non deve, in effetti, essere trascurata la circostanza che, una volta escusso, il terzo garante ha diritto di surrogarsi ex art. 1203, n. 3), c.c., ovvero per volontà del creditore ai sensi dell’art. 1201 c.c., nella posizione vantata da quest’ultimo, o, in alternativa, di agire in regresso, a norma dell’art. 2871 c.c. se terzo datore di ipoteca che ha pagato i creditori o sofferto l’espropriazione38, ed, ai sensi dell’art. 1950 c.c. se fideiussore escusso, così non solo modificando, in entrambe le circostanze, la composizione della massa passiva sotto il profilo soggettivo, ma dando corso altresì, nell’eventualità del recesso, ad un incremento, anche se limitatamente agli interessi ed alle spese, della massa medesima. Né può essere accolta la conclusione in forza della quale la differenza tra la previsione di cui alla lett. d) e quella di cui alla successiva lett. e)

36 Così Demarchi, I piani di risanamento ex art. 67 legge fallimentare, in www.ilcaso. it, 27 gennaio 2010, p. 14. 37 Per tali riflessioni si rimanda a Rago, Manuale, cit., pp. 905 e 906. 38 Nonché terzo datore di pegno a cui la suddetta disposizione si applica, in via analogica, in forza dell’insegnamento del Supremo Collegio. V., in argomento, Cass., 3 settembre 2007, n. 18522, in Giust. civ., 2008, I, 132, che ribadisce quanto precedentemente affermato da Cass., 4 dicembre 1985, n. 6073, in Giust. civ. Mass., 1985, 1838 ss.

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del co. 3 dell’art. 67 l. fall. sembrerebbe risiedere nella sussistenza – in sede di concordato preventivo, in misura maggiore, e negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in misura minore – di una qualche forma di controllo dell’autorità giudiziaria, quanto meno nel corso del giudizio di omologazione, che difetta, al contrario, nel piano di risanamento attestato. Se così fosse, sarebbe alquanto agevole replicare che una simile motivazione avrebbe dovuto fondare anche l’esonero degli atti e dei pagamenti, con riferimento ai quali, invece, le dizioni dei due sopra ricordati precetti normativi sono assolutamente identiche: in entrambe le situazioni, infatti, il legislatore esenta da revocatoria «gli atti [e] i pagamenti […] posti in essere in esecuzione», rispettivamente, «di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria», e di un concordato preventivo o di un «accordo omologato ai sensi dell’art. 182-bis». In considerazione di quanto sin qui esposto, vi è quindi da ritenere che la locuzione «garanzie concesse su beni del debitore» sia, in realtà, espressiva del tentativo – verosimilmente mal riuscito – del legislatore di operare una distinzione tra gli atti costitutivi di garanzie per debiti propri e quelli per debiti altrui, ivi compresa non solo la concessione di un pegno o di un’ipoteca, ma anche il rilascio di tutte quelle garanzie coinvolgenti la generica responsabilità patrimoniale del debitore, come, per l’appunto, la fideiussione39. Orbene, anche se questa fosse l’effettiva motivazione alla base dell’utilizzo della sopra riportata locuzione, certo è che il disposto dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., per quanto maldestramente “confezionato”40, ha un

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Al pari di quanto sostenuto da Bonfatti, La disciplina delle esenzioni dall’azione revocatoria fallimentare, cit., p. 317, nell’intento di fornire una giustificazione alla distinzione introdotta dal legislatore; le cui conclusioni, tuttavia, non convincono Panzani e Tarzia, Gli effetti del piano attestato e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti sugli atti pregiudizievoli, in Il fallimento, 2014, pp. 1066 e 1067, per i quali credere che il legislatore abbia inteso riferirsi non ai beni del debitore o di terzi, ma alle garanzie prestate per debiti propri o per debiti altrui, significherebbe addivenire ad «una vera e propria forzatura» del disposto dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., essendo preferibile considerare il riferimento, contenuto in tale articolo, alle garanzie concesse su beni del debitore, «una specificazione tanto ovvia quanto superflua, frutto di una svista», non ripercorsa nella formulazione della successiva lett. e) dello stesso art. 67, co. 3, l. fall. 40 Aspetto, questo, di cui si accorge anche Ricciardiello, Profili di fattibilità giuridica dei piani attestati di risanamento ex art. 67, co. 3, lett. d), legge fallim., in Dir. fall., 2017, I, p. 1039, laddove afferma che l’istituto «meritava, forse, una [propria] autonoma col-

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proprio rilievo giuridico che vincola l’interprete ad una lettura che va al di là della mera distinzione fra garanzie concesse per debiti propri e garanzie rilasciate per debiti altrui. Né la norma in esame pare poter essere aggirata affermando che il rilascio di garanzie su beni di terzi è fattispecie protetta da revocatoria, in quanto rientrante nella generica espressione “atti”, coerentemente a quanto disposto nella successiva lett. e) del medesimo art. 67, co. 3, l. fall., la cui più ampia formulazione, come visto poc’anzi, consente anche alle garanzie rilasciate su beni appartenenti a soggetti diversi dall’imprenditore che accede al concordato preventivo ovvero che ricorre per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. di beneficiare dell’ombrello protettivo da azione revocatoria. A prescindere dalla sensatezza o meno della limitazione introdotta dal legislatore, una simile ricostruzione finirebbe per dar corso ad un’evidente elusione di un precetto il cui contenuto è molto puntuale: ritenere che le garanzie rilasciate su beni di terzi rientrino, quanto all’esonero da azione revocatoria, nella generica definizione di «atti […] posti in essere in esecuzione di un piano» significherebbe, infatti, degradare la specificazione «garanzie concesse su beni del debitore» ad una mera superfetazione priva di qualunque valore giuridico; il che non pare accettabile.

7. L’esonero da revocatoria delle garanzie rilasciate dal socio illimitatamente responsabile su beni propri. Una volta ricostruita, nei termini che precedono, la portata dell’espressione «garanzie concesse su beni del debitore», resta ora da affrontare il più specifico tema della sorte da riservarsi alle garanzie rilasciate dai soci illimitatamente responsabili in attuazione del piano di risanamento attestato confezionato dalla società di persone a cui partecipano. Al riguardo, va sin da subito precisato che è soltanto nella circostanza in cui si dovesse considerare il socio illimitatamente responsabile debitore per obbligazioni riconducibili all’impresa, e pertanto direttamente obbligato nei confronti dei creditori sociali, che opererebbe – in ipotesi di successivo fallimento della società di persone ed, in estensione, del

locazione sistematica all’interno della legge fallimentare», e ciò indipendentemente dal trattamento riservato agli atti posti in essere in sua esecuzione.

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socio medesimo – l’esonero da azione revocatoria delle garanzie rilasciate da quest’ultimo, il quale, pur essendo terzo rispetto all’imprenditoresocietà, finirebbe, in realtà, per garantire un debito proprio e non altrui, risultando, la garanzia, come richiesto dalla disposizione in commento, costituita «su beni del debitore». Per cogliere nel suo preciso significato questa affermazione, sulle cui conseguenze forse non si è ancora riflettuto a sufficienza, è necessario affrontare, limitandosi, in tal sede, ad un’esposizione da assolvere con la maggior rapidità possibile per non appesantire il lettore con decenni di ricostruzioni dogmatiche, la preliminare questione – che da diversi lustri richiama l’attenzione della letteratura scientifica e della giurisprudenza41 – in ordine alla natura della responsabilità illimitata del socio di società di persone, cercando, nello specifico, di appurare se la posizione di quest’ultimo – che rispetto alla società a cui partecipa è sicuramente di terzietà, atteso che i suoi beni non appartengono direttamente al patrimonio dell’ente sociale – converga comunque verso quella di debitore. È, questa, una problematica resa ancora più delicata dalla circostanza che il socio illimitatamente responsabile di una società semplice, giusto il disposto dell’art. 2267 c.c., risponde sì personalmente e solidalmente per le obbligazioni contratte dall’ente collettivo a cui partecipa, ma, una volta richiestogli il pagamento di siffatti debiti, ha diritto, ai sensi dell’art. 2268 c.c., di domandare, anche se il predetto ente sociale è in liquidazione, la preventiva escussione del patrimonio di quest’ultimo, indicando i beni sui quali il creditore può soddisfarsi in modo agevole; addirittura, in forza di questo principio, il socio di società in nome collettivo ed in accomandita semplice, per effetto dell’art. 2304 c.c., può essere chiamato ad effettuare il pagamento a favore del creditore sociale solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio della società. Ciò posto, è noto come l’indirizzo “classico” ritenga che la responsabilità del socio di società di persone sia una responsabilità per debito altrui – essendo il socio medesimo nient’altro che un garante delle obbligazioni contratte dall’ente sociale e, conseguentemente, soggetto passivo di un’obbligazione di garanzia42 – salvo poi offrire al suo interno una

41 E che i recenti sviluppi interpretativi degli ordinamenti stranieri e le novità introdotte nel panorama italiano a seguito della riforma del diritto societario in tema di trasformazione (artt. 2500 ss. c.c.) e di fallimento (artt. 147 ss. l. fall.) hanno contribuito a rinvigorire. Così Speranzin, La responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali: profili sostanziali e concorsuali, in Dir. fall., 2017, I, 312 ss. 42 V., in tal senso, Genghini e Simonetti, Le società di persone, Padova, 2012, p. 213.

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certa varianza di sfumature, che spaziano dalla semplice vicinanza43 ed identificazione con la fideiussione ex lege44, alla risalente equiparazione alla figura della fideiussione indemnitatis45. Nei confronti dei creditori sociali, il debitore principale sarebbe, infatti, la società ed i soci si troverebbero nella posizione di meri garanti di debiti giuridicamente imputabili all’organismo societario46, tant’è che, nell’eventualità in cui il socio dovesse essere chiamato a pagare un debito facente capo a quest’ultimo, finirebbe, pur sempre, per soddisfare

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Per tale opzione interpretativa cfr. Cantele, Crediti privilegiati nei confronti di società di persone: si estende la prelazione ai fallimenti personali dei soci?, in Il fallimento, 1990, p. 1249; nonché Genghini e Simonetti, Le società di persone, cit., p. 215; che danno tutti seguito alla tesi proposta da Ferri, Delle società, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1968, Artt. 2247-2324, pp. 183 e 184. 44 Seppur con diversità di argomentazioni, sostengono la teoria in esame, Patriarca, Trasformazione regressiva e principio di maggioranza, Padova, 1988, p. 144, che individua nell’illimitata responsabilità del socio di una società di persone una «sorta di fideiussione necessaria avente ad oggetto il suo patrimonio»; Tantini, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Padova, 1973, p. 205, il quale assimila anch’egli l’illimitata responsabilità dei soci di una società di persone ad una fideiussione necessaria che, concretamente, si traduce in una «dilatazione del conferimento»; Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, p. 126; Rescigno, L’accollo ex lege, in Banca, borsa, tit. cred., 1954, I, p. 262; Romano Pavoni, Teoria delle società, Tipi – costituzione, Milano, 1953, p. 274. In termini sostanzialmente conformi v. anche Caputo, Estensibilità del privilegio nei confronti dei soci nel fallimento delle società di persone, in Banca, borsa, tit. cred., 1976, II, p. 348. 45 Come concluso, prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice civile, da Sacerdoti, La prescrizione in materia di società commerciali, in Riv. dir. comm., 1911, I, pp. 883 ss., per il quale il socio sussidiariamente responsabile poteva essere assimilato al fideiussor indemnitatis, essendo quest’ultimo tenuto a prestare «quel tanto che il creditore non [fosse] riuscito ad ottenere dal debitore principale». Contra, in epoca successiva, Ravazzoni, La fideiussione, Milano, 1957, pp. 193 ss., che ha sostenuto l’inapplicabilità all’illimitata responsabilità dei soci di una società a base personale di quelle disposizioni – quali gli artt. 1952, 1955 e 1957 c.c. – espressive della funzione di garanzia svolta dalla fideiussione in genere e da quella indemnitatis, in particolare. 46 Depone in tal senso – per Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1995, pp. 135 e 136 – pure la sussidiarietà – esplicitantesi nella previsione, automatica o meno, del benefiucium excussionis – che contraddistingue la responsabilità personale dei soci rispetto a quella della società, dal momento che la medesima presuppone che il peso economico del debito gravi sul soggetto che per primo è tenuto a rispondere verso il creditore. Considera quella del socio illimitatamente responsabile una responsabilità per debito altrui, anche Pellegrino, L’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, Padova, 1992, p. 449.

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quello che per lui rappresenterebbe un «non debito», posto che «nulla doveva»47. Il socio illimitatamente responsabile di una società di persone sarebbe, in altri termini, obbligato non per un debito proprio, bensì per uno della società, avendo, siffatti due debiti, una differente fonte: mentre l’obbligazione sociale si originerebbe ex art. 1173 c.c., la responsabilità del socio presenterebbe radici più complesse, includendo la relazione fra la società ed il socio medesimo, sì che quest’ultimo si porrebbe in posizione di mero garante del debito sociale48. Sennonché, la Suprema Corte ha da tempo rigettato con fermezza l’indirizzo fin qui ripercorso, considerando quella del socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali una responsabilità personale e diretta, ancorché di carattere sussidiario, stante il beneficium excussionis che la legge accorda al socio medesimo; beneficio, che, tuttavia, operando esclusivamente in sede esecutiva ed impedendo, nello specifico, al creditore di aggredire il patrimonio di ogni singolo membro della compagine societaria prima di aver agito infruttuosamente sui beni della società, non incide minimamente sulla natura del debito sociale quale debito proprio del socio, né fa assumere a quest’ultimo la qualifica di soggetto terzo rispetto ai creditori sociali, tenuto ad adempiere alle obbligazioni contratte dalla società nei loro confronti analogamente a quanto accade in forza di un vincolo fideiussorio49, essendo, invece, il

47 Così, testualmente, Simonetto, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, pp. 130 ss. Pure, Maisano, Il concordato preventivo delle società, Milano, 1980, p. 195, esclude che le obbligazioni sociali siano obbligazioni personali dei soci. 48 Il rinvio è a Maggiolo, Obbligazioni sociali, responsabilità dei soci e solidarietà, in Riv. dir. comm., 1990, I, pp. 47 e 48. 49 V. Cass., 6 dicembre 1994, n. 10461, in Il fallimento, 1995, 412 e 413, con Osservazioni di Marchetti, a giudizio della quale – ma analoghe considerazioni si rinvengono, più di recente, in Cass. S. U., 16 febbraio 2015, n. 3022, cit. – la situazione di «identità debitoria» intercorrente fra il socio illimitatamente responsabile e la società emerge, in modo alquanto chiaro, in sede di esecuzione collettiva, ove la posizione di terzietà del primo rispetto alla seconda non è in alcun modo sostenibile, dal momento che, per un verso, il fallimento di quest’ultima si estende al socio in virtù di siffatta qualifica, senza necessità alcuna di dover indagare la sua qualità o meno di imprenditore e la ricorrenza di uno stato d’insolvenza, e, per un altro, solo la sussistenza di una corrispondente responsabilità diretta ed immediata del socio per i debiti della società è in grado di giustificare il diritto attribuito al creditore sociale di insinuarsi, contestualmente, nel passivo fallimentare del succitato socio, comportante la diretta ed immediata sottoposizione del patrimonio di quest’ultimo al soddisfacimento del ceto creditorio sociale. Che rispetto all’obbligazione sociale il socio non sia terzo, ma debitore al pari del-

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suddetto socio debitore al pari dell’ente societario, e ciò per il semplice fatto di essere tenuto a rispondere senza limitazioni50. Priva di personalità giuridica, la società a base personale non rappresenta, infatti, un soggetto che può essere titolare di obbligazioni e responsabilità proprie, autonome rispetto a quelle dei singoli soci illimitatamente responsabili, rendendo di conseguenza impossibile distinguere fra obbligazioni pecuniarie di questi ultimi ed obbligazioni della società, perché nei confronti dei creditori sociali non sussistono due differenti

la società, è sostenuto pure da Cass., 6 novembre 2006, n. 23669, in Giust. civ. Mass., 2006, 2582. Anche per Cass., 5 novembre 1999, n. 12310, in Le società, 2000, 304, con Il Commento di Fusi, il socio illimitatamente responsabile, rispondendo con il proprio patrimonio di debiti che non possono considerarsi a lui estranei ed essendo tenuto a provvedere, laddove i fondi sociali dovessero risultare insufficienti, anche attraverso contribuzioni aggiuntive rispetto a quelle effettuate in esecuzione dei conferimenti (art. 2280, co. 2, c.c.), non può in alcun modo essere accostato alla figura di un fideiussore, seppure ex lege, garante di un debito altrui. In termini sostanzialmente analoghi, si esprimeva in passato, con riguardo alla garanzia offerta dal socio di una società di persone ammessa alla procedura di concordato preventivo, Cass., 17 gennaio 1978, n. 196, in Giur. comm., 1978, II, 328 ed in Dir. fall., 1978, II, 198 ss., che osservava, in effetti, come la responsabilità dei soci per tutte le obbligazioni sociali, a prescindere dalla loro fonte, fosse prevista dalla legge quale effetto del contratto sociale e, pertanto, a garanzia del soddisfacimento di un’obbligazione propria dei soci, i quali, peraltro, non potevano dirsi terzi rispetto all’obbligazione sociale, ma debitori alla stregua della società per il semplice fatto di essere tenuti a rispondere senza limitazioni, non essendo in grado, il disposto dell’art. 2268 c.c., di mettere in discussione una simile «identità debitoria», attribuendo semplicemente al socio la facoltà di richiedere un ordine nella scelta dei beni da assoggettare all’esecuzione. Sembra nondimeno collocarsi nell’ambito dell’orientamento in esame, Cass., 24 giugno 1954, n. 2175, in Giur. it., 1955, I, 675. Da ultimo, anche App. Milano, 7 novembre 1975, in Riv. dir. comm., 1978, I, 341 ss., ha aderito all’indirizzo ora al vaglio, sostenendo che, nelle società a base personale, «il debito del socio illimitatamente responsabile è lo stesso debito della società», a nulla rilevando l’autonomia patrimoniale che caratterizza quest’ultima, la sussidiarietà che contraddistingue la posizione dei soci, nonché la circostanza che i medesimi rispondano in modo differente rispetto all’ente sociale. 50 Sicché, allorquando il socio – nello specifico caso un accomandatario di una società in accomandita semplice – rilascia una garanzia ipotecaria per un debito sociale, un simile atto non può essere considerato costitutivo di una garanzia per un debito altrui, bensì di una garanzia per un’obbligazione propria, come recentemente ribadito da Cass. S. U., 16 febbraio 2015, n. 3022, cit., che dà seguito alle precedenti pronunce, Cass., 6 novembre 2006, n. 23669, cit.; Cass., 6 dicembre 1994, n. 10461, cit. Conforme all’indirizzo in oggetto è, pure, Cass., 30 agosto 2007, n. 18312, in Il fallimento, 2008, 550 ed in Giust. civ. Mass., 2007, 1618 ss.

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obbligazioni, una dell’organismo collettivo ed una dei soci, ma un’unica obbligazione: la stessa51. L’imperfetta soggettività giuridica della società di persone si risolve e sostanzialmente s’identifica in quella dei soci, la cui «pienezza del potere di gestione e responsabilità illimitata» fanno dei debiti sociali debiti di ognuno di essi, proteggendo i relativi patrimoni dalle aggressioni dei terzi e dei creditori esclusivamente in forza del «fragile diaframma della sussidiarietà della loro responsabilità rispetto a quella del patrimonio sociale»52. Sebbene con taluni aggiustamenti e correzioni di rotta che, per la loro complessità, in questa sede è possibile ripercorrere solo per grandi linee, rinviando il loro approfondimento ad un successivo contributo monografico, è a quest’ultimo indirizzo che occorre accordare preferenza53. La responsabilità patrimoniale «per le obbligazioni sociali», che gli

51 In questo senso cfr. Ghidini, Società personali, cit., p. 228 ed ulteriori riferimenti stranieri ivi citati. Pure per Buonocore, Fallimento e impresa, cit., p. 49, non esiste un’obbligazione del socio distinta da quella della società, ma è proprio quest’ultima che, per determinati aspetti, grava anche sul primo. In modo sostanzialmente conforme, Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, cit., pp. 553 e 554, considerando la responsabilità della società, «tutta personale», sprovvista di senso qualora «privata [della] personale responsabilità dei soci», specifica che questi ultimi, «per l’operare dell’impresa nel traffico», contraggono, quali imprenditori, la medesima obbligazione assunta dall’impresa. Sembra, inoltre, potersi ascrivere all’indirizzo in oggetto Ragusa Maggiore, Soggettività delle società di persone: valore semantico o apofantico?, in Vita not., 1990, p. 350, a giudizio del quale i soci di una società a base personale rispondono ai sensi dell’art. 2740 c.c., non potendo, pertanto, adempiere ad obbligazioni non loro se non a fronte del rilascio di una separata garanzia sul proprio patrimonio per il debito contratto collettivamente. Sostegno alla tesi ora al vaglio è offerto, altresì, da Vassalli, Responsabilità d’impresa, cit., p. 68, che considera la responsabilità del socio una responsabilità diretta, le obbligazioni della società obbligazioni proprie del socio ed il beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale accordato a quest’ultimo «una condizione di procedibilità dell’azione dei creditori sociali nei confronti dei singoli soci». 52 In argomento, si rinvia a Cass., 24 marzo 2011, n. 6734, in Giust. civ. Mass., 2011, 454 – i cui principi sono ripresi da Cass., 21 novembre 2014, n. 24795, ivi, 2014 – la quale conclude affermando che «per la struttura delle società personali, il debito della società resta essenzialmente un debito che fa capo anche al singolo socio». 53 La teoria del “debito proprio” è, invece, considerata incapace di consentire una «ricostruzione unitaria di tutte le ipotesi normative di responsabilità aggiuntiva, restando confinata alla situazione peculiare del socio», da Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, p. 129, in nota n. 1). La conclusione che vede nella responsabilità dei soci una garanzia patrimoniale per debiti propri è giudicata del tutto inaccettabile pure da Scotti Camuzzi, Unico azionista, gruppi, «lettres de patronage», Milano, 1979, pp. 75 ss., per il quale è inammissibile che le obbligazioni sociali possano essere

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artt. 2267, 2291 e 2313 c.c. attribuiscono ai soci, si riferisce – a giudizio di chi scrive – alle sole obbligazioni sociali da risarcimento danni, le uniche per le quali i suddetti soci possono essere chiamati a rispondere in ipotesi di inadempimento della società. La vicenda in esame si estrinseca, nello specifico, in una tipica fattispecie di assunzione legale cumulativa, da parte del socio, del debito di cui agli artt. 1218 e 2043 c.c. facente capo all’ente sociale, in forza della quale il primo assume, in via solidale, la medesima obbligazione da risarcimento danni rimasta non soddisfatta dal secondo. Ne consegue, che poiché, alle condizioni qui descritte, le obbligazioni sociali risarcitorie non adempiute sono anche debiti propri del socio illimitatamente responsabile, essendo a lui direttamente riconducibili, nessun ostacolo dovrebbe frapporsi all’ammettere che pure la garanzia rilasciata da quest’ultimo possa rientrare nella previsione di esonero da revocatoria di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., trattandosi, per l’appunto, di una garanzia concessa su beni del debitore. In effetti, se da un lato, è vero che, alla data di predisposizione del piano attestato ed, in particolare, di costituzione della suddetta garanzia, nessuna delle obbligazioni sociali potrebbe risultare inadempiuta – e, conseguentemente, il socio non essere ancora qualificabile quale debitore nel senso sopra indicato –­­ dall’altro, è alquanto verosimile che l’istituto in rassegna – ponendosi come obiettivo il riequilibrio della situazione finanziaria ed il risanamento dell’esposizione debitoria – venga attivato dalla società proprio in presenza di debiti nel frattempo scaduti. Peraltro, la garanzia rilasciata dal socio deve necessariamente assicurare il ristoro della posizione giuridica del rapporto obbligatorio già sfociata, per la società, in un risarcimento del danno ex artt. 1218

qualificate alla stregua di debiti diretti dei soci verso i creditori. Da ultimo, anche Nigro, Il fallimento del socio illimitatamente responsabile, cit., pp. 571 ss., sottolinea, con spirito critico, come l’obbligo dei soci, individualmente considerati, non possa essere lo stesso che grava sulla società: come potrebbe, infatti, il socio dar corso ad un’obbligazione di fare o di non fare? Se è vero che il contenuto dell’obbligazione è il comportamento del debitore, diviene logicamente impensabile che tale comportamento possa essere direttamente imputato ai singoli soci, facendo carico esclusivamente all’ente sociale. D’altra parte, una simile imputazione è esclusa da talune disposizioni dell’impianto normativo del Codice civile – quali gli artt. 2268 e 2304 – da cui risulta, in modo alquanto evidente, che quelle azionabili dai creditori nei confronti dei soci sono solamente ragioni di credito dal contenuto pecuniario.

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e 2043 c.c. In altri termini, a chi scrive pare indispensabile, al fine di mandare esente da azione revocatoria la garanzia concessa dal socio illimitatamente responsabile, che quest’ultimo debba risultare debitore dell’obbligazione pecuniaria che garantisce, non essendo sufficiente che lo sia per un qualsiasi altro debito. Infine, l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. non specifica in alcun modo se le «garanzie concesse su beni del debitore» debbano garantire esclusivamente debiti di quest’ultimo, ovvero anche di terzi. Tuttavia, nella sua categoricità, la norma in esame non lascia spazio ad una lettura che comprenda le garanzie costituite per debiti altrui54, e ciò anche se a rilasciare la garanzia in oggetto è il socio illimitatamente responsabile. L’apertura ad una simile esenzione da revocatoria finirebbe, infatti, per legittimare la redazione di piani attestati che difficilmente potrebbero risultare idonei a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa che vi fa ricorso, dal momento che il rilascio di garanzie per debiti altrui si risolverebbe, per i creditori di quest’ultima, in un’operazione tutt’al più neutra, se controbilanciata dal regresso o dalla surroga, se non addirittura, in ipotesi contraria, in un incremento del passivo, facendo così venir meno qualunque ragione giustificatrice dell’esonero da azione revocatoria. Il che significa, che il socio-debitore che dovesse decidere di rilasciare una garanzia per debiti di un terzo finirebbe per contrarre un’obbligazione che non andrebbe a vantaggio del risanamento della società a cui partecipa, ma a garanzia dei creditori di un altro soggetto; il che non sarebbe coerente con la ratio dell’istituto.

54 Interpretazione che pare, al contrario, essere proposta da Ferro, Sub art. 67, co. 3, lett. d), cit., p. 891, laddove, interrogandosi se le “garanzie su beni del debitore” siano esclusivamente quelle per debiti propri o anche quelle per debiti altrui – il che, peraltro, coinvolge la più generica questione del vincolo di destinazione di tutti gli atti propri del piano – afferma che «se la riferibilità di essi al debitore (come autore e soggetto cui è imputabile la stabilità patrimoniale coinvolta)» sembra essere l’opzione interpretativa più convincente, «la finalità degli atti» non pare escludere a priori che gli stessi possano comportare anche un immediato vantaggio per i terzi, e ciò pure nella forma di garanzie per debiti altrui, «se risulta il medesimo indice di coerenza con il piano, la vera causa dell’istituto». Contra Nardecchia, Le esenzioni dalla revocatoria, cit., pp. 1516 e 1517.

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8. La protezione da revocatoria delle sole garanzie reali rilasciate dal socio illimitatamente responsabile. Accolto, nel paragrafo che precede, il principio secondo cui, nei termini poc’anzi precisati, anche le garanzie concesse dal socio illimitatamente responsabile, qualora debitore, possono astrattamente beneficiare dell’ombrello protettivo da azione revocatoria, è ora opportuno chiedersi se con la generica formulazione «garanzie concesse su beni del debitore» il legislatore abbia inteso riferirsi alle sole garanzie reali, ovvero anche a quelle personali. Ebbene, al riguardo, è opinione di chi scrive che la sopra ricordata espressione attenga esclusivamente alla prima di tali due tipologie di garanzie – costitutive di un pegno o di un’ipoteca – con esclusione, pertanto, di quelle – al pari della fideiussione – che consentirebbero ai creditori beneficiari di aggredire il patrimonio del debitore coinvolgendo la generica responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c.55.

55 Nello stesso senso, ritengono che l’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. si riferisca alle garanzie reali e non a quelle comportanti la generica responsabilità patrimoniale del debitore come, ad esempio, la fideiussione, Nardecchia, Le esenzioni dalla revocatoria, cit., pp. 1516 e 1517; Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., pp. 80 e 81, che limita il raggio di operatività dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. alle sole garanzie rilasciate su beni del debitore, «(e li menziona espressamente), non per una svista nella formulazione, bensì perché non avrebbe, ragionevolmente, potuto parlare di garanzie (personali) prestate dal debitore: nessuno garantisce personalmente il pagamento dei propri debiti»; Ferro, Sub art. 67, co. 3, lett. d), cit., p. 891; Paluchowski, Il pagamento eseguito in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria. Ovvero l’esenzione di cui all’art. 67 lettera d), in Pajardi e Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, cit., p. 4, a giudizio della quale, poiché l’intero patrimonio del debitore è coinvolto in «una operazione globale che ne impedisce l’impegno complessivo a favore di un solo creditore o di alcuni solamente», pare del tutto ragionevole concludere che le garanzie personali siano escluse dall’ombrello protettivo da azione revocatoria sancito dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.; D’Ambrosio, Commento sub art. 67, 3° co., lett. d), e), g), l. fall., cit., p. 991; Ambrosini, Articolo 182-bis – Accordi di ristrutturazione dei debiti, in Ambrosini e Demarchi, Il nuovo concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2005, p. 187. Facendo rientrare la concessione di garanzie personali nella più ampia e generica categoria di “atti” dispositivi del debitore, altra parte della dottrina sostiene, invece, che il riferimento alle “garanzie” rappresenti non tanto una restrizione alle sole garanzie reali, quanto un’estensione anche a quelle personali, sicché l’esenzione da revocatoria di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. riguarderebbe tutti gli atti dispositivi dell’imprenditore. Cfr., in tal senso, Meo, I piani attestati di risanamento, in Ghia, Piccininni e Severini, Trattato

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Intendere il disposto dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. come riferito, in generale, ai beni quale espressione del patrimonio del debitore significherebbe, infatti, condannare il precetto normativo in esame ad un’ambiguità interpretativa, in quanto è insegnamento impartito dall’art. 810 c.c. quello in forza del quale i beni costituiscono le cose che possono formare oggetto di diritti, ivi compreso, quindi, il rilascio di una garanzia di tipo fideiussorio. La locuzione «su beni del debitore», in luogo di quella maggiormente generica «sui beni del debitore», pare, invece, richiamare non l’intero patrimonio di quest’ultimo, ma solo taluni specifici beni che lo compongono, con la conseguenza che la garanzia che assicura l’adempimento dell’obbligo del socio non potrà riguardare la generalità delle cose che possono formare oggetto di diritti. Né, tanto meno, ci si può limitare ad osservare che se il legislatore avesse voluto circoscrivere l’esenzione da revocatoria alle sole garanzie reali, lo avrebbe specificato in modo espresso. La riflessione che deve essere condotta è, infatti, di più ampio respiro. Che con l’espressione «garanzie concesse su beni del debitore», il legislatore abbia voluto riferirsi a beni specifici e, pertanto, dal punto di vista delle garanzie, al pegno ed all’ipoteca, è considerazione che discende da un’interpretazione razionale e sistematica dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., in virtù della quale, in sede fallimentare, hanno ragione di sopravvivere, e dunque di beneficiare dall’esonero da revocatoria, solamente quelle garanzie che consentono al creditore garantito un soddisfacimento al di fuori del concorso e con preferenza rispetto alla restante parte del ceto creditorio concorrente. D’altra parte, che senso avrebbe esonerare da azione revocatoria una fideiussione rilasciata dal socio illimitatamente responsabile per debiti della società di cui, tuttavia, risponde – anche qualora si accedesse alla tesi che considera valida tale garanzia56 – se

delle procedure concorsuali, Torino, 2011, vol. 4, pp. 633 e 634, in nota n. 12). 56 Chi scrive è consapevole dell’acceso dibattito sorto in ordine alla validità o meno della fideiussione prestata dal socio illimitatamente responsabile. Senza addentrarsi a fondo in questo tema – che di per sé richiederebbe un’indagine che finirebbe inevitabilmente per travalicare i confini del presente contributo – è, tuttavia, doveroso ricordare che un primo indirizzo ritiene nulla la suddetta garanzia per mancanza della relativa causa. Mentre il socio illimitatamente responsabile, in ragione di tale sua qualifica, riveste la posizione di coobbligato solidale per le obbligazioni contratte dalla società, la causa giuridica del contratto di fideiussione, consistente nel garantire un debito altrui, postula un’alterità del debito non riscontrabile in capo al socio stesso, il quale non può,

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l’esecuzione collettiva costituisce già, di per sé stessa, attuazione della

di conseguenza, garantire con una fideiussione obbligazioni che già gli si riferiscono (cfr., sul punto, App. Genova, 12 maggio 1982, in Giur. comm., 1985, II, 133 e 134, con nota di Nigro, Fideiussione dei soci illimitatamente responsabili e concordato preventivo della società). Né è dato comprendere come il sopramenzionato socio, che appunto risponde con tutto il suo patrimonio del debito dell’ente sociale, possa garantire l’obbligazione sociale rimasta inadempiuta (così Di Chio, Le obbligazioni personali e sociali del socio illimitatamente responsabile nelle società di persone, ivi 1978, II, pp. 334 e 335; in modo conforme si veda Pinto, Obbligazioni sociali garantite dal socio illimitatamente responsabile nelle società di persone, ivi, 1983, I, p. 51). Ammettere una simile possibilità, significherebbe, in effetti, giungere all’assurdo di considerare nel contempo il socio illimitatamente responsabile terzo coobbligato per la medesima obbligazione – id est il debito della società – e, di conseguenza, fideiussore di sé stesso (il rinvio è di nuovo a App. Genova, 12 maggio 1982, cit.; conforme, sebbene quale obiter dictum, Trib. Lucca, 20 ottobre 1975, in Giur. comm., 1976, II, 697), quand’invero vi dovrebbe essere una necessaria alterità tra garante e garantito (v. Trib. Ferrara, 8 marzo 1984, ivi, 1985, II, pp. 69 ss., con nota di Pacchi Pesucci, Fideiussione o rinuncia al beneficium excussionis?). L’orientamento in oggetto è, tuttavia, rigettato con fermezza da quell’opzione interpretativa che considera le garanzie personali (avalli o fideiussioni) prestate dai soci, rilasciate per debiti altrui e non propri (cfr., in argomento, G.F. Campobasso, Diritto commerciale, Torino, 1995, vol. 2, Diritto delle società, p. 85), dovendosi pertanto ritenere pienamente valida la fideiussione prestata dal socio illimitatamente responsabile a garanzia dei debiti della società, posto che la medesima, rientrando fra quelle concesse per debiti altrui ex art. 1936 c.c., non si sovrappone alla garanzia prevista dalle disposizioni in tema di responsabilità illimitata e solidale dei soci, ben potendo sussistere altri interessi – al pari di quello che il socio resti obbligato anche dopo la sua uscita dalla società, ovvero quello di poter ricorrere ad un mezzo di garanzia del tutto slegato dal beneficium excussionis contemplato dall’art. 2304 c.c. – che giustificano l’ottenimento di tale garanzia fideiussoria in capo al creditore sociale (v. Cass., 12 dicembre 2007, n. 26012, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 409 ss., con nota di Barillà, Fideiussione prestata dal socio di società in nome collettivo per obbligazioni contratte dalla società: autonomia patrimoniale e rafforzamento delle garanzie ai creditori; cui adde, più di recente, Cass., 26 febbraio 2014, n. 4528, in Giust. civ. Mass., 2014. Conforme è, altresì, per la giurisprudenza di merito, Trib. Ferrara, 6 novembre 1980, in Giur. comm., 1981, II, 476 e 477, laddove, in parte motiva, sottolinea come, anche in ipotesi di società di persone, possa ritenersi rispettato il requisito dell’alterità del fideiussore rispetto al debitore principale, presupposto dall’art. 1936 c.c. per la validità di una fideiussione, nel caso di specie, rilasciata dal socio illimitatamente responsabile relativamente a debiti della società; nonché, in dottrina, Brancadoro, Alterità del debito sociale, fideiussione del socio illimitatamente responsabile e concordato preventivo di società di persone, in Riv. dir. comm., 1984, II, pp. 66 ss.; Pacchi Pesucci, Fideiussione o rinuncia al beneficium excussionis?, loc. cit., pp. 77 ss.). In altri termini, anche a prescindere dalla natura giuridica delle società di persone, la fideiussione prestata da un socio illimitatamente responsabile a garanzia delle obbligazioni sociali deve essere giudicata valida, atteso che la causa di siffatta forma di garanzia – consistente nell’ampliamento del potere di aggressione del creditore – può

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generica responsabilità patrimoniale del debitore? Per il creditore munito di garanzia, e perciò beneficiario, sarebbe, in effetti, del tutto irrilevante, in termini di responsabilità patrimoniale del socio, assoggettare o meno la predetta fideiussione a revocatoria, posto che quest’ultimo soggetto risponde in ogni caso delle obbligazioni sociali con tutto il suo patrimonio. Il risultato conseguibile, dal punto di vista satisfattivo, per il creditore garantito dipenderebbe sempre e comunque dalla conversione in denaro del medesimo patrimonio sottoposto ad esecuzione: quello del debitore. Il che priva di rilevanza il problema di revocare una garanzia che ha come oggetto un patrimonio che è già nella disponibilità del creditore garantito per effetto dell’assoggettamento a fallimento in estensione del socio. D’altronde, l’art. 2740 c.c. esaurisce di per sé stesso tutte le possibili forme di garanzia personale rilasciabili per un debito proprio57, non essendo possibile individuarne altre. Né alcun rilievo potrebbe essere attribuito ad un presunto interesse del sopra citato creditore garantito a concorrere due volte sullo stesso patrimonio, in forza del titolo che deriva dal credito sociale e di quello che si fonda sull’avvenuto rilascio della garanzia fideiussoria. Una simile duplicazione di partecipazione al concorso è, invero, assolutamente inaccettabile se il debitore fallito è il medesimo ed unico è il patrimonio su cui concorrere. A prescindere dai titoli in suo possesso, al creditore è concesso, in sede espropriativa, di aggredire una sola volta il patrimonio del proprio debitore, sebbene il credito vantato – che è, pur sempre, lo stesso – è sorto in virtù di due diversi ed autonomi titoli: quello da

essere costituita non tanto dall’aspetto quantitativo del differente patrimonio oggetto di escussione, quanto dal profilo qualitativo, in termini di modalità e tempestività di quest’ultima, rispetto a quella che discenderebbe dalla sua semplice responsabilità illimitata (così Fierro, Fideiussione prestata dal socio illimitatamente responsabile per debiti sociali ed effetti del concordato della società, in Giur. comm., 1985, II, pp. 773 ss.). In definitiva, secondo la tesi in oggetto, poiché la responsabilità assunta dai soci illimitatamente responsabili a seguito del rilascio di una fideiussione per un debito della società a cui partecipano è geneticamente distinta da quella che scaturisce dal rapporto societario (v. Cass., 8 novembre 1984, n. 5642, in Dir. fall., 1985, II, 43 ss., ed in Dir. fall., 1986, II, 18, con nota di Lembo, Socio illimitatamente responsabile come fideiussore nel concordato preventivo della società), alla quale si aggiunge con finalità di potenziamento, sussiste una non identità fra l’ente sociale ed i suoi soci illimitatamente responsabili che rende la succitata forma di garanzia pienamente valida, essendo rispettato il requisito, fissato dall’art. 1936 c.c., dell’iniziale alterità del debito garantito (v. App. Milano, 28 ottobre 1986, in Banca, borsa, tit. cred., 1988, II, 223). 57 Come, peraltro, già rilevato da Trib. Ferrara, 8 marzo 1984, cit.

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cui è scaturito l’iniziale debito garantito e quello del garante, la cui figura finisce, nel caso di specie, per coincidere con quella del suddetto debitore-socio.

9. L’esenzione da revocatoria delle garanzie concesse dal socio illimitatamente responsabile escluso, receduto o che abbia ceduto la propria quota di partecipazione sociale. Giunti a questo punto, vale la pena occuparsi di un ultimo tema: l’esonero da azione revocatoria del socio illimitatamente responsabile, il quale, successivamente al rilascio, in esecuzione del piano di risanamento attestato predisposto dalla società da lui partecipata, di una garanzia su beni propri, abbia perso la qualifica di socio, e ciò a prescindere dalla causa – esclusione, recesso, o cessione della quota di partecipazione sociale – che ha determinato lo scioglimento del vincolo contrattuale che lo legava all’ente. In una simile ipotesi, ci si deve, in effetti, domandare se, a seguito del fallimento della società, il sopra menzionato atto possa essere revocato in forza della sola azione pauliana, qualora il socio non sia più fallibile in estensione per decorso del termine annuale di cui all’art. 147 l. fall., ovvero mediante l’azione di cui agli artt. 66 e 67 l. fall., in caso di declaratoria fallimentare in estensione, previa adesione, ovviamente, a quella tesi secondo la quale l’esonero da revocatoria non sarebbe circoscritto alla sola azione revocatoria fallimentare, ma ricomprenderebbe anche quella ordinaria58. Prendendo avvio proprio da quest’ultima fattispecie, occorre rilevare come al quesito in oggetto possa fornirsi, senza particolari incertezze, risposta negativa. La posizione dell’ex socio fallito in estensione al fallimento della società è, infatti, del tutto equiparabile, per quanto qui rileva, a quella dei restanti componenti dell’organismo collettivo, ai quali, nel paragrafo 7, è stata riconosciuta – pur con tutte le precisazioni che vengono in questa sede richiamate – la qualifica di debitori e, pertanto, di soggetti che possono beneficiare dell’esonero da revocatoria di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., con riguardo alle garanzie rilasciate su beni propri. In effetti, se per un verso è vero che la qualità di socio si perde a seguito dello scioglimento del rapporto sociale, per un altro, è

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Come precisato nel paragrafo 3.

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altrettanto vero che l’illimitata e solidale responsabilità per le obbligazioni contratte dall’ente collettivo fino al giorno dello scioglimento del vincolo sociale sopravvive, ex art. 2290 c.c., a tale vicenda, rimanendo, per di più, la medesima che incombeva sul predetto socio prima della sua uscita. Non si tratta, in altri termini, di una responsabilità differente, anormale o facente leva su di un titolo nuovo e diverso59, tale da escludere che la garanzia su beni propri a suo tempo rilasciata dal socio uscente sia stata concessa – come prescritto dall’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – da un soggetto debitore. Maggiormente complesso e non così scontato si profila, invece, l’approfondimento in ordine alla fattispecie dell’ex socio illimitatamente responsabile non più fallibile per decorso del termine annuale di cui all’art. 147 l. fall., in relazione alla quale vi è, invero, da dubitare che possa operare, al di fuori dell’esecuzione concorsuale, l’esonero da azione revocatoria ordinaria rientrante nella disciplina di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. Se da un lato, infatti, non può essere un caso che, in tema di azione revocatoria ordinaria – l’unica ovviamente esperibile nella fattispecie ora al vaglio – il legislatore abbia subordinato l’esonero in questione all’apertura dell’esecuzione collettiva, dall’altro, è singolare che il successo del trattamento protettivo debba dipendere dalla mancata riuscita del piano attestato e dal conseguente fallimento della società ed, in estensione, del socio, sì che una legittimazione da parte dei creditori ad esperire un’azione revocatoria ordinaria al di fuori dell’esecuzione concorsuale finirebbe per rendere del tutto fragile e vacillante l’efficacia del suddetto strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa. In effetti, se l’esonero da azione revocatoria fosse circoscritto al solo fallimento, il terzo convenuto in giudizio godrebbe, in tale ambito, di una tutela protettiva maggiore rispetto a quella al medesimo spettante nella diversa circostanza in cui l’impresa in crisi fosse ancora in bonis; il che è evidentemente inaccettabile. Peraltro, all’interno del vasto dibattito in ordine alla portata dell’espressione «non sono soggetti all’azione revocatoria» di cui all’art. 67, co. 3, l.fall., la letteratura scientifica non ha mancato di osservare come detta immunità si estenda sino a ricomprendere l’azione ordinaria esperibile al di fuori dell’esecuzione collettiva, dal momento che, divenendo tale azione improcedibile a fronte di un sopravvenuto fallimento,

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Così Travi, Cessione di quota, cit., p. 551.


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risulterebbe alquanto irrazionale assoggettare uno stesso atto ad una disciplina più severa al di fuori dell’esecuzione collettiva che all’interno di quest’ultima, ovvero nell’eventualità in cui non fosse disposta alcuna procedura concorsuale60. Indubbiamente ragionevole, codesta interpretazione merita di essere accolta: i risultati a cui perviene si lasciano apprezzare per la loro utilità dal punto di vista sistematico: chi riceve una garanzia da un socio illimitatamente responsabile non dovrebbe, infatti, preoccuparsi delle future sorti del vincolo sociale che lo lega alla società, dal momento che se un domani il socio non dovesse più far parte della compagine societaria l’atto non potrebbe essere comunque revocabile, a prescindere dal sopravvenire o meno di un eventuale fallimento della società ed, in estensione, del socio medesimo. Per di più, poiché, nella vicenda che ci occupa, all’origine dell’esonero da revocatoria vi è la predisposizione di un piano astrattamente idoneo a riequilibrare la situazione finanziaria del debitore ed a consentire il risanamento dell’impresa, va da sé che, se si dovesse aderire alla diversa tesi rispetto a quella qui sostenuta, sarebbe alquanto difficile per il creditore – salvo l’ipotesi di un piano e di un’attestazione del tut-

60 Il rinvio è a Bonfatti, La nuova disciplina delle “esenzioni” dalle azioni revocatorie nella riforma della legge fallimentare, cit., pp. 42, 139 e 140. Conforme, circa la possibilità di estendere la speciale disciplina di esonero anche all’azione revocatoria ordinaria esercitata al di fuori dell’esecuzione collettiva, è, più di recente, Trentini, Piano attestato di risanamento, cit., pp. 76 ss., atteso che l’art. 2901, co. 3, c.c., in forza del quale il principio secondo cui non è soggetto a revocatoria l’adempimento di un debito scaduto, deve essere inteso in senso ampio, sì da ricomprendere anche il piano di risanamento attestato e gli atti compiuti in sua esecuzione, essendo questi ultimi volti, «quanto meno prospetticamente, all’estinzione delle obbligazioni o almeno di alcune». Argomentando dal tenore letterale dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – che, non operando alcuna discriminazione, non sembrerebbe escludere l’actio pauliana – nonché dalla considerazione che, per come strutturato, il piano di risanamento attestato può contemplare atti, pagamenti e garanzie che sicuramente rientrano nell’ambito operativo dell’art. 2901 c.c., il sopra citato autore precisa, infatti, che laddove si consentisse ad un qualsiasi creditore di impugnare gli atti esecutivi di un piano, valutati idonei a superare la situazione di difficoltà finanziaria in cui versa l’imprenditore, la funzione di questo strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa potrebbe risultare «gravemente pregiudicata». Diversamente, Tarzia, Quale tutela, cit., p. 54, esclude che l’esonero di cui al già più volte citato art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. possa operare in relazione all’azione revocatoria ordinaria esercitabile dal singolo creditore al di fuori della procedura, non essendo ammissibile una «sorta di efficacia “extra-concorsuale”» della normativa fallimentare atta ad incidere su quella civilistica.

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to fraudolenti – provare il consilium fraudis, ossia la consapevolezza e la conoscibilità da parte del debitore, per gli atti a titolo gratuito, e del debitore e del terzo, per quelli a titolo oneroso, del pregiudizio che il rilascio della garanzia avrebbe arrecato alle ragioni dei creditori, posto che detto atto si colloca all’interno di un programma di risanamento sulla cui fattibilità, in termini di realizzabilità, si è precedentemente e favorevolmente pronunciato il professionista attestatore. A conclusioni non molto dissimili da quelle tracciate con riguardo alle garanzie rilasciate, quando ancora faceva parte della compagine sociale, dall’ex socio illimitatamente responsabile non più fallibile, pare doversi pervenire anche in relazione all’eventualità in cui il socio – già receduto, escluso o che ha ceduto la propria quota di partecipazione alla data di confezionamento del piano di risanamento attestato – abbia costituito – in esecuzione di quest’ultimo documento – una garanzia per un debito sorto prima dello scioglimento del vincolo sociale. In una simile circostanza, si tratta, pur sempre – in forza delle conclusioni raggiunte nel paragrafo 7 circa la natura della responsabilità del socio e a condizione che la società si sia resa inadempiente alle obbligazioni da risarcimento danni in origine contratte quando ancora detto socio era in forza alla compagine societaria – del rilascio di una garanzia per debiti propri. Né pare reggere ad una più compiuta analisi l’obiezione secondo la quale la conclusione testé tracciata finirebbe per danneggiare – destinando parte del patrimonio a garanzia di tutti o di alcuni soltanto dei creditori sociali – le ragioni di soddisfacimento dei creditori particolari dell’ex socio. Nel caso di specie, infatti, questo soggetto, in forza della sua illimitata e solidale responsabilità, sarebbe comunque tenuto a soddisfare il credito sociale garantito, dovendosi, peraltro, dubitare che al socio, persona fisica, possa essere imposto il rispetto del principio della par condicio creditorum, non essendo un imprenditore commerciale assoggettabile autonomamente a fallimento. La protezione da azione revocatoria dovrebbe, al contrario, non operare qualora l’ex socio abbia costituito, in esecuzione del piano di risanamento attestato predisposto dalla società partecipata, una garanzia per un debito sorto successivamente allo scioglimento del suo vincolo sociale e, pertanto, al di fuori del raggio d’azione della sua responsabilità patrimoniale: si tratterebbe, in effetti, di una fattispecie di rilascio di garanzie da parte di un terzo per debiti altrui, che, in quanto tale, non potrebbe godere – come poc’anzi dimostrato – dell’ombrello protettivo volto a preservare dagli effetti negativi derivanti dall’accoglimento dell’azione revocatoria.

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La problematica in esame andrebbe, invece, risolta in termini diametralmente opposti nell’ipotesi in cui quello posto in essere dal suddetto socio escluso, receduto o che ha ceduto la propria quota di partecipazione sociale, fosse un atto o un pagamento riguardante un debito venuto ad esistenza dopo la sua fuoriuscita dalla compagine societaria, dal momento che per questi ultimi si è ritenuto, nel paragrafo 5, che l’esonero da revocatoria operi anche in relazione a quelli compiuti da un terzo.

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La disciplina dei pagamenti non autorizzati nel nuovo sistema delineato dal recepimento della direttiva PSD2 Sommario: 1. I servizi di pagamento e la nuova regolamentazione europea. – 2. Gli istituti di pagamento nel modello PSD2. – 2.1. (Segue) I PISP e gli AISP. – 3. La responsabilità dei prestatori di servizi di pagamento nella PSD2. – 4. (Segue) La specifica disciplina della responsabilità dei PISP. – 5. L’autenticazione forte nel nuovo sistema PSD2. – 6. Le ipotesi in cui è possibile derogare all’autenticazione forte: il profilo della targeted authentication. – 7. La responsabilità dei prestatori di servizi di pagamento in assenza di autenticazione forte. – 8. Conclusioni.

1. I servizi di pagamento e la nuova regolamentazione europea. Il mercato dei sistemi di pagamento1, pur nella permanente e massiccia presenza dei pagamenti in contante, ha subito negli ultimi anni un consistente sviluppo2. Tali forme di trasferimento di moneta scritturale erano originariamente disciplinate dalla direttiva 2007/64/CE (c.d. PSD)3

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Sull’evoluzione storica dei sistemi di pagamento, v. Sciarrone Alibrandi, Le banche e il sistema dei pagamenti, in Riflessioni su banche e attività bancaria, immaginando il “futuribile”, a cura di Brozzetti, Milano, 2015, p. 177 ss.; Janczuk-Gorywoda, Evolution of EU retail payments law, in Eur. law rev., 2015. 2 Evidenzia tale dato, Mezzacapo, La nuova disciplina UE dei limiti alle interchange fees e delle business rules in materia di “pagamenti basati su carte”, tra regolamentazione strutturale del mercato interno e promozione della concorrenza, in Dir. banc., 2017, p. 455 ss. Si veda, sull’evoluzione della moneta, la ricostruzione di Bagella, Note sulla evoluzione della moneta nell’economia contemporanea, in An. giur. econ., 2015, p. 7 ss. 3 Tale disposizione recava modifiche alle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, ed abroga la direttiva 97/5/CE. Sulla PSD, v. O. Troiano, La nuova disciplina privatistica comunitaria dei servizi di pagamento: realizzazioni e problemi della Single Euro Payments Area (SEPA), in Quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento: prime riflessioni, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, a cura di Mancini e Perassi, 2008, p. 46 ss. e, diffusamente, i contributi contenuti in La nuova disciplina

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come recepita tramite il d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 114 che, pur avendo il merito di aver dettato una normativa unitaria di tali servizi all’interno del mercato unico, ha dimostrato però limiti che ne hanno reso necessaria una pronta riforma5. Le ragioni, in parte riconducibili ad ambiguità genetiche della PSD, sono però in gran parte rintracciabili nell’esigenza di individuare una compiuta ed uniforme regolamentazione di fenomeni connessi alla rapida evoluzione tecnologica nell’ambito dei servizi di pagamento. La presenza di nuove forme di pagamento e di nuovi player in tale mercato, hanno infatti imposto l’emanazione della direttiva 2015/2366/UE (c.d. PSD2) con l’obiettivo di rendere meno ambigua la disciplina dei servizi di pagamento e, contestualmente, di riportare all’interno di un compiuto quadro regolatorio fenomeni che, nell’originario assetto descritto dalla PSD, risultavano difficilmente inquadrabili normativamente e, quindi, scarsamente controllati6.

dei servizi di pagamento, a cura di Mancini, Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano, Torino, 2011, passim. Sui precedenti interventi comunitari in tema di sistemi di pagamento, v. D’Orazio, L’azione comunitaria in tema di carte di pagamento, in Dir. inform., 1988, p. 958; Id., Aspetti evolutivi della disciplina CEE delle carte di pagamento, ivi, 1989, p. 765; Sciarrone Alibrandi, La raccomandazione comunitaria n. 47/89 relativa alle operazioni mediante strumenti di pagamento elettronici, con particolare riferimento alle relazioni tra gli emittenti ed i titolari di tali strumenti, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, I, p. 497 ss. 4 Su cui, v. Gimigliano e Pironti, L’attuazione della direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno: prime osservazioni sul d.lgsl. 27 gennaio 2010, n. 11, in Contr. e impr. Eur., 2010, p. 713 ss. 5 Sul punto v., le considerazioni di Donnelly, Payments in the digital market: Evaluating the contribution of Payemnt Services Directive II, in Computer law & security review, 2016, p. 828 s., dove fa notare come la PSD, pur avendo contribuito a creare il mercato unico dei pagamenti, si è però dimostrata inadeguata a far entrare nel mercato i positivi apporti della tecnologia. Sulla direttiva PSD, v. diffusamente i contributi contenuti in Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, a cura di Mancini e Perassi, Bologna-Roma, 2008, passim; in Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE, a cura di Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e O. Troiano, Milano, 2009, passim. 6 Cfr., preliminarmente, Ciraolo, I servizi di pagamento nell’era FinTech, in FinTech. Introduzione ai profili giuridici di un mercato unico tecnologico dei servizi finanziari, a cura di Paracampo, Torino, 2017, p. 179 ss. Va comunque segnalata l’esigenza di leggere tale disposizione congiuntamente con il regolamento (UE) 260/2012 relativo ai bonifici ed agli addebiti diretti in euro, nonché con la direttiva 2014/92/UE sulla disciplina del conto di pagamento recepita recentemente con d.lgs. 15 marzo 2017, n. 37. Su tale ultima disposizione, v. Mezzacapo, La nuova disciplina nazionale dei “conti di pagamento” alla luce dell’armonizzazione attuata con la payment accounts directive, in Banca borsa tit. cred., 2017, p. 787 ss.

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Tutto ciò, trova la sua giustificazione non solo nella necessità di predisporre idonee tutele per i pagatori7, il cui interesse si appunta prevalentemente sulla esigenza di garantire un elevato livello di correttezza del rapporto e di sicurezza dello strumento di pagamento8, ma anche nell’altrettanto rilevante urgenza di definire un quadro normativo stabile che permettesse agli operatori del mercato di poggiare le proprie scelte operative e di business sul solido terreno di una regolamentazione uniforme e moderna9. Si consideri, inoltre, come una solida disciplina dei servizi di pagamento al livello europeo appare necessaria al fine di garantire una più omogenea ed agevole diffusione transfrontaliera dei medesimi servizi all’interno del mercato unico10.

7 Non va trascurato, sotto tale ultimo profilo, anche il ruolo fondamentale che, sia nella PSD che nella PSD2, svolge l’attenta regolamentazione del contratto quadro fra cliente e prestatore di servizi di pagamento. Sul punto, v. le considerazioni di Rispoli Farina, Informazione e servizi di pagamento, in An. giur. econ., 2015, p. 175 ss. la quale, pur se in relazione alla direttiva PSD – ma con considerazioni riferibili anche al nuovo assetto regolatorio -, evidenzia come l’imposizione di un contenuto minimo del contratto che lega il cliente al PSP, rendendo maggiormente trasparente il contenuto dei reciproci obblighi, svolge non solo una funzione di tutela del contraente debole, ma realizza anche effetti positivi sul mercato stimolandone la dinamicità e salvaguardandone la concorrenzialità. La rilevanza della trasparenza nei servizi di pagamento è testimoniata, recentemente, dalla pubblicazione da parte di Banca d’Italia del documento di consultazione recante “Modifiche alle disposizioni in materia di «trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti»” del 11 luglio 2018 nella quale, fra le altre cose, vengono poste in consultazione le modifiche imposte dalla direttiva PSD2 in tema di informazioni precontrattuali, di comunicazioni alla clientela e di disciplina dei reclami. 8 Sulla regolamentazione del rapporto fra utente e prestatore di servizi di pagamento, v. Troiano, Contratto di pagamento, in Enc. dir., Ann. V, Milano, 2012, p. 392 ss. 9 Cfr., Cascinelli, Pistoni e Zanetti, La Direttiva (UE) 2015/2366 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, in Diritto bancario, 2016, p. 1 s. 10 Sul punto, pur se in relazione alla direttiva 2007/64/CE, v. Merusi, Fra omissioni ed eccessi: la recezione della direttiva comunitaria sui servizi di pagamento, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, p. 1171, il quale individua proprio nel far fronte a tali esigenze la necessità di emanare una disposizione normativa di livello comunitario. Tale A., infatti, afferma che la direttiva 2007/64/CE è stata emanata proprio «per abbattere le barriere nazionali che, ostacolando i pagamenti a distanza, ostacolano la circolazione dell’Euro e per rendere omogeneo il servizio per tutti gli utenti, qualunque sua la loro collocazione nell’ambito del mercato comunitario. È cioè una di quelle direttive che perseguono l’utilità dell’Europa attraverso una disciplina omogenea di una delle componenti del mercato comune». Condividono tale impostazione Santoro e Sciarrone Alibrandi, La nuova disciplina dei servizi di pagamento dopo il recepimento della direttiva 2007/64/ CE (DLGS. 27 gennaio 2010, n. 11), in Banca, borsa, tit. cred., 2010, p. 377, secondo i

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Il recepimento della direttiva PSD2 attraverso il d.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218 ha in tal senso profondamente innovato sia il tessuto del testo unico bancario nelle norme riferibili alla disciplina degli istituti di pagamento, sia il d.lgs. n. 11 del 2010 tentando di riallineare il quadro regolatorio alla realtà estremamente mutevole dei moderni servizi di pagamento. In tal senso, oltre ad una opportuna rimodulazione del c.d. negative scope necessario a rendere meno ambiguo l’ambito di disapplicazione della direttiva che aveva portato nella precedente versione ad una implementazione disomogenea della regolamentazione11, particolare attenzione viene riposta nell’esigenza di estendere l’ambito di applicazione della direttiva (c.d. positive scope) a nuovi operatori professionali (third party providers)12 ed a nuove operazioni quali le transazioni one leg o il found checking13. Allo stesso modo, il progresso tecnologico applicato ai sistemi di pagamento, da un lato espone il cliente pagatore a nuovi pericoli – essendo sempre più tecnologicamente evoluti i sistemi di frode14 – e, dall’altro, pone a disposizione dello stesso strumenti sempre più performanti di protezione delle operazioni svolte con moneta scritturale. Anche sotto tale profilo, particolare attenzione viene riposta da parte della PSD2 su nuovi sistemi di sicurezza che garantiscano sia nelle operazioni di paga-

quali, con la direttiva 2007/64/CE «il legislatore comunitario ha scelto di intervenire in misura massiccia (e con la tecnica dell’armonizzazione massima) nel campo dei servizi di pagamento, con il preciso obiettivo – funzionale alla realizzazione del progetto SEPA – di dare vita ad un quadro normativo di riferimento per tali servizi». 11 Sotto tale profilo, merita di essere segnalata per il probabile impatto che avrà sulle piattaforme di e-commerce, la rimodulazione dell’esenzione relativa agli agenti commerciali che riguarderà, in generale, tutte le operazioni di pagamento effettuate tramite un agente commerciale ove questo operi solo per conto del beneficiario o del pagatore. Ove invece lo stesso agente operi sia per conto del beneficiario che del pagatore, l’esenzione dall’applicazione della normativa dovrebbe limitarsi alle ipotesi nelle quali l’agente non entri mai in possesso dei fondi del cliente. In tal senso v., l’art. 3 lett. b), nonché il considerando n. 11 della direttiva PSD2. In dottrina, sul punto, Zeppieri, L’implementazione in Italia della nuova direttiva sui servizi di pagamento, in Diritto bancario, 2018, p. 2 s. 12 Le ragioni che hanno spinto il legislatore comunitario ad intervenire sul tema sono rinvenibili nei considerando n. 27 e 28 della direttiva PSD2. 13 Si veda, l’art. 2 della PSD2. Sull’ambito di applicazione del precedente assetto normativo, v. Gimigliano e Pironti, L’attuazione della direttiva 2007/64/CE, cit., p. 709 ss. 14 Cfr., sulle problematicità scaturenti dalla diffusa presenza di fenomeni fraudolenti, Mason e Bohm, Banking and fraud, in Computer law & security review, 2017, p. 237 ss.

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mento con carta, sia – e forse soprattutto – nelle transazioni on line15, il massimo livello possibile di sicurezza. In questo senso vanno lette le disposizioni che si occupano della c.d. autenticazione forte quale strumento per assicurare l’effettiva autorizzazione dell’operazione di pagamento. Lo scopo del presente lavoro è, quindi, quello di cercare di individuare come il nuovo assetto regolatorio, condizionato da una forte implementazione dello strumento tecnologico, incida sotto il profilo della tutela del pagatore nel caso di pagamenti non autorizzati.

2. Gli istituti di pagamento nel modello PSD2. Prima di affrontare la specifica tematica, appare però opportuno soffermarsi sul mutato quadro normativo che delimita la riserva di attività nell’ambito dei servizi di pagamento che vede oggi coinvolti, quali istituti di pagamento, nuovi operatori che si stavano di fatto affermando nel mercato dei pagamenti in assenza di una loro specifica normazione16. Pur rimanendo intatta la riserva di cui all’art. 114 sexies t.u.b., che limita la possibilità di prestare servizi di pagamento solo alle Banche, agli istituti di moneta elettronica ed agli istituti di pagamento17, è proprio tale ultima categoria18 che si arricchisce di due nuove figure soggettive quali i “prestatori di servizi di disposizione di ordini di pagamento” (i c.dd. PISP) e i “prestatori del servizio di informazione sui conti” (i c.dd. AISP)19.

15 V., sul punto, le riflessioni di Tripodi, L’evoluzione delle forme di pagamento su internet, in Disc. comm. serv., 2015, p. 19 ss. 16 Passa in rassegna i distinti servizi di pagamento contemplati dalla direttiva PSD evidenziandone le differenze, Santoro, I servizi di pagamento, in Ianus, 2012, p. 9 ss. 17 Cfr., Martelloni, Art. 114 sexies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia4, diretto da Capriglione, Padova, 2018, p. 1758 ss. 18 Sulla quale v., in generale, V. Troiano, I soggetti operanti nel settore finanziario, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2010, p. 610 ss. 19 Va tuttavia segnalato come nella normativa di recepimento di cui al d.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218 più che di nuovi soggetti apparirebbe maggiormente opportuno parlare di nuovi servizi di pagamento. Mentre nella PSD2 è rinvenibile la definizione di “prestatore di servizio di disposizione di ordine di pagamento” (art. 4, § 18) e di “prestatore di servizi di informazione sui conti” (art. 4, § 19), nella novella del d.lgs. n. 11 del 2010 si rinviene esclusivamente la definizione dei due servizi – rispettivamente alla lettera b-bis e b-ter dell’art. 1 - quasi a voler ribadire l’unitarietà della figura dei prestatori di servizi di pagamento pur nella multiforme gamma di servizi che lo stesso può erogare e per i quali, come si vedrà, necessita di idonea autorizzazione.

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La consacrazione normativa di tali due soggetti si deve al combinato disposto delle attuali versioni dell’art. 1, co. 2, lett. h-sexies t.u.b. e dell’art. 1, co. 2, lett. h-septies 1), del t.u.b. che ai numeri 7 ed 8 include proprio le suddette tipologie di attività fra quelle erogabili da un prestatore di servizi di pagamento (d’ora in avanti PSP). Queste innovative attività rappresentano uno degli aspetti maggiormente interessanti del nuovo quadro normativo che scaturisce dalla PSD2 che, pur incentivando il progresso tecnologico, non ha potuto trascurare l’esigenza di far fronte ai connessi rischi di cui lo stesso è foriero20. I PISP (Payment initiation service providers) erogano un servizio consistente nel disporre, su richiesta del cliente, un ordine di pagamento relativamente ad un conto radicato presso un diverso PSP. La peculiarità di tale servizio, si concretizza essenzialmente nel fatto che il PISP non entra mai nella disponibilità delle somme oggetto di pagamento21 ma opera esclusivamente quale mezzo attraverso il quale l’ordine viene impartito22. L’apertura del mercato a tali nuove figure professionali si evince chiaramente tanto dal fatto che viene sancito il diritto del pagatore di avvalersi di un PISP nel caso in cui il conto di

20 Se da un lato è evidente il vantaggio che tali nuovi prestatori apportano al mercato, dall’altro pongono problemi nuovi che vanno correttamente dominati da un punto di vista normativo. Emblematiche sono le considerazioni svolte dal considerando n. 29 della direttiva PSD2: «I servizi di disposizione di ordine di pagamento consentono al prestatore di servizi di disposizione di ordine di pagamento di assicurare al beneficiario che il pagamento è stato disposto così da incentivare il beneficiario a consegnare i beni o a prestare il servizio senza indebiti ritardi. Tali servizi offrono una soluzione a basso costo per i commercianti e i consumatori e consentono a questi ultimi di fare acquisti online anche senza carte di pagamento. Poiché non sono attualmente soggetti alla direttiva 2007/64/CE, i servizi di disposizione di ordine di pagamento non sono necessariamente soggetti alla vigilanza di un’autorità competente e non devono rispettare i requisiti di cui alla direttiva 2007/64/CE. Ciò solleva una serie di questioni giuridiche, ad esempio sul piano della tutela dei consumatori, della sicurezza e della responsabilità nonché della concorrenza e delle questioni legate alla protezione dei dati, con particolare riguardo alla protezione dei dati degli utenti di servizi di pagamento in conformità delle norme dell’Unione sulla protezione dei dati. È quindi opportuno che le nuove disposizioni affrontino tali aspetti». 21 V. l’art. 5 ter, co. 2, lett. a) del d.lgs. n. 11 del 2010. 22 In questo senso, la dottrina ha distinto fra “negozio autorizzativo” posto in essere dal pagatore nei confronti del PISP e “ordine di pagamento” che tale ultimo soggetto inoltra al prestatore di servizi di pagamento di radicamento del conto. Cfr., De Stasio, Ordine di pagamento non autorizzato e restituzione della moneta, Milano, 2016, p. 156 ss.

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pagamento sia disponibile on line23, quanto dall’espressa esclusione che debbano ricorrere vincoli di natura contrattuale fra tale ultimo soggetto ed il PSP di radicamento del conto al fine di poter garantire l’erogazione del suddetto servizio24. Risultano inoltre strumentali a garantire l’effettività di tale diritto la previsione degli obblighi ricadenti sul PSP di radicamento del conto volti ad incardinare una leale collaborazione con il PISP che si concretizza nell’obbligo di comunicare tempestivamente le informazioni relative all’ordine di pagamento impartito su richiesta del pagatore tramite il PISP nonché di assicurare parità di trattamento agli ordini impartiti tramite tale nuovo operatore rispetto a quelli che, al contrario, vengano trasmessi direttamente da parte del pagatore25. Allo stesso modo, particolare attenzione viene riposta sugli obblighi gravanti tanto in capo al PISP, quanto in capo al PSP di radicamento del conto di utilizzare modalità di comunicazione, di archiviazione e gestione dei dati del pagatore che ne garantiscano la sicurezza ed evitino, per tal via, l’esposizione dello stesso ad eventuali pregiudizi e rischi di frode26. Discorso analogo, pur nella profonda diversità del servizio offerto, può essere svolta in relazione agli AISP (Account information service provider)27 che possono essere definiti quali aggregatori on line di informazioni relative a uno o più conti di pagamento accessibili a distanza detenuti dall’utente presso altri PSP. Anche in questo caso l’ordinamento esclude la necessaria presenza di un accordo contrattuale fra AISP e PSP di radicamento del conto28 ma, contestualmente, impone obblighi di leale collaborazione fra tali due prestatori, nonché oneri connessi alla corretta e sicura gestione dei dati e delle comunicazioni29.

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Cfr., art. 66 della direttiva PSD2. In questo senso, l’art. 5 ter, co. 1 del d.lgs. n. 11 del 2010. 25 Art. 5 ter, co. 3, lett. b) e c) del d.lgs. n. 11 del 2010. 26 Si veda, sul punto, l’art. 5 ter, co. 2, lett. b) – e) del d.lgs. n. 11 del 2010. 27 Su cui v., Catenacci e Fornasaro, PSD2: i prestatori di servizi s’informazione sui conti (AISP), in Diritto bancario, 2018, p. 1 ss. 28 Art. 5 quater, co. 1 del d.lgs. n. 11 del 2010. 29 In questo senso, nella disposizione europea, v. l’art. 67 della direttiva PSD2 e, sotto il profilo domestico, quanto dispone l’art. 5 quater, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 11 del 2010. È stata evidenziata la rilevanza che tale nuovo servizio di pagamento può assumere in termini di prevenzione del sovraindebitamento del pagatore/consumatore ponendo, però, altrettanti problemi connessi alla corretta gestione e protezione dei dati forniti all’AISP. Sul punto, v. Donnelly, Payments in the digital market: Evaluating the contribution of Payemnt Services Directive II, cit., p. 831. 24

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In entrambi i casi, come ovvio, la possibilità di tali nuovi PSP di svolgere la loro attività si fonda sulla necessità per i PSP di radicamento del conto di consentire a PISP ed AISP la possibilità di utilizzare le procedure di autenticazione fornite dal primo agli utenti30. 2.1. (Segue) I PISP e gli AISP. Le novità sopra brevemente accennate vanno calate, ovviamente, nel contesto ormai consolidato relativo ai PSP. Mentre Banche31 ed Istituti di moneta elettronica32 risultano già legittimati ad erogare servizi di pagamento, discorso autonomo meritano quei soggetti che, in via esclusiva, intendono erogare tali prestazioni33. Questi soggetti, come noto, dovranno ottenere l’autorizzazione di Banca d’Italia ricorrendo le condizioni stabilite dall’art. 114-novies t.u.b. ed essere quindi iscritti all’apposito albo di cui all’art. 114-septies t.u.b.34. L’autorizzazione a prestare un servizio di pagamento può, da ultimo, essere acquisita anche da soggetti che, rispettando le disposizioni sopra richiamate, esercitino attività imprenditoriali diverse.

30 In questo senso, v. il considerando n. 30 della direttiva PSD2, e l’art. 10 bis, co. 5 del d.lgs. n. 11 del 2010. 31 La dottrina ha evidenziato come, originariamente, il sistema dei pagamenti rappresentava monopolio delle banche che però, con il passare del tempo, sembra vengano progressivamente marginalizzate. In questo senso Sciarrone Alibrandi, Le banche e il sistema dei pagamenti, cit., p. 180. 32 Sui quali, v. V. Troiano, Gli istituti di moneta elettronica, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza legale, luglio 2001, p. 16 ss. 33 Si veda diffusamente, sul punto, Condemi, Gli istituti di pagamento tra orientamenti comunitari e disciplina nazionale, in Armonizzazione europea dei servizi di pagamento, a cura di Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e O. Troiano, cit., p. 323 ss.; Santoro, Gli istituti di pagamento, ivi, p. 49 ss.; Id., Istituti di pagamento, in Enc. dir., Ann. V., Milano, 2012, p. 353 ss. il quale si sofferma sulle caratteristiche che differenziano tali soggetti dalle banche essendogli preclusa una attività di raccolta del risparmio in senso proprio dovendo costituire un patrimonio separato con i fondi provenienti dai clienti che, peraltro, potranno essere utilizzati esclusivamente per effettuare l’operazione di pagamento. Sotto altro profilo, è stata evidenziata l’esigenza di aprire il mercato a nuovi soggetti già nelle finalità che portarono all’emanazione della PSD al fine di creare un tessuto di mercato maggiormente competitivo. Così, Mancini, Il sistema dei pagamenti e la Banca centrale, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galannti, in Tratt. dir. econ. diretto da Picozza e Gabrielli, Padova, 2008, p. 1120. 34 La dottrina ha evidenziato come si tratterebbe, in questi casi, di una “autorizzazione speciale” che può, cioè, limitarsi solo ed esclusivamente ai servizi di pagamento che l’autorizzando istituto di pagamento desidera esercitare. Sarà quindi necessaria una estensione dell’autorizzazione a nuovi servizi ove il prestatore intenda ampliare il proprio raggio di attività. In questo senso, Santoro, Gli istituti di pagamento, cit., p. 358.

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In tale ultima circostanza è però richiesta la costituzione di un patrimonio destinato – ai sensi dell’art. 114-terdecies t.u.b. – dedicato esclusivamente all’esercizio delle attività di prestazione di servizi di pagamento35. Ai requisiti stabiliti in generale al fine di ottenere la suddetta autorizzazione si somma, nel caso in cui tali soggetti vogliano erogare il servizio di disposizione di ordini di pagamento, la necessità di dotarsi, fermo restando gli altri requisiti, di una polizza assicurativa sulla responsabilità civile che copra il prestatore per i danni cagionati da condotte proprie o di terzi nell’esercizio della suddetta attività36. Regole particolari, in punto di autorizzazione, si rinvengono anche per i prestatori che intendano erogare solo l’attività di informazione sui conti i quali, non essendo tenuti in questo caso a rispettare requisiti patrimoniali di cui all’art. 114-novies, co. 1, lett. c, t.u.b., otterranno l’iscrizione in una sezione speciale dell’albo dando prova, anche questa volta, della conclusione di una polizza assicurativa a garanzia dei danni arrecati all’utente o al prestatore presso cui è radicato il conto37. Che sia particolarmente sentita la problematica derivante da possibili pregiudizi che potrebbero sorgere, in particolare, dall’esercizio dell’attività di disposizione di ordini di pagamento, è ulteriormente evidente – e si giustifica alla luce delle considerazioni che di qui a breve si faranno in tema di responsabilità del prestatore per pagamenti non autorizzati – per il fatto che la presenza della polizza assicurativa di cui all’art. 114-novies, co. 1-bis t.u.b. viene richiesta anche per gli istituti di moneta elettronica nel caso in cui gli stessi intendano erogare tale servizio38. La definizione per tal via fatta del c.d. positive scope della PSD2, nel ribadire la consueta riserva di attività circa i servizi di pagamento, presenta

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Così, l’art. 114-novies, co. 4 t.u.b. Sugli istituti di pagamento ibridi, v. Gimigliano, Artt. 114-sexies – 114-undecies, in Testo unico bancario. Commentario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro, Milano, 2010, p. 925 s.; Santoro, Istituti di pagamento, cit., p. 357 ss.; N. Mancini, Il nuovo assetto normativo dei servizi di pagamento, in Banca, impresa, soc., 2013, p. 142 s. 36 In questo senso, v. l’art. 114-novies, co. 1 bis t.u.b. Va peraltro fatto presente come gli estremi di tale polizza debbano essere poi riportati anche nell’albo di cui all’art. 114-septies t.u.b. 37 Cfr., art. 114-septies, co. 2-bis t.u.b. Anche in questo caso, gli estremi della polizza dovranno essere indicati nell’albo. Sul punto, Minto, Art. 114-novies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, cit., p. 1789 s. 38 Così si esprime l’art. 114-quinquies, co. 1 bis t.u.b. Nulla, invece, viene specificato sul punto per le Banche.

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il positivo merito di aver voluto ricomprendere nel quadro della vigilanza indicato dall’art. 114-quaterdecies ss. t.u.b.39 anche servizi di pagamento – e relativi soggetti – che prima dell’entrata in vigore della novella operavano in un limbo normativo che poteva pregiudicare non solo la struttura concorrenziale del mercato dei pagamenti ma, soprattutto, la concreta tutela dei clienti in assenza di precise prescrizioni organizzativo/strutturali40. Sotto tale ultimo profilo, se non è certo una novità il fatto che gli istituti di pagamento siano soggetti a vigilanza da parte di Banca d’Italia41, per come implementato attraverso le Istruzioni dettate sul punto dall’Autorità nazionale42, è altrettanto vero che il recepimento della PSD2 ha sensibilmente incrementato tale aspetto in diretta relazione con la previsione di una regolamentazione patrimoniale e di governance degli Istituti di pagamento maggiormente articolata43. La PSD2, oltre a rideterminare l’applicazione della disciplina dei “fondi propri” agli Istituti di pagamento44 cercando di aumentare la qualità e la quantità del patrimonio regolamentare, richiede a tali ultimi soggetti, sottoponendo questi profili a vigilanza, che implementino misure di governo societario

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Su cui v. Siclari, Art. 114-quaterdecies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, cit., p. 1822 ss. 40 Particolarmente corposa è, nella PSD2, la sezione relativa all’autorizzazione (artt. 5 ss.) nonché quella relativa ai poteri di vigilanza (artt. 22 ss.) 41 Art. 5, co. 2 t.u.b. 42 Cfr., il Provvedimento Banca d’Italia recante “Disposizioni di vigilanza per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica” del 17 maggio 2016. 43 Il recepimento della PSD2 con d.lgs. n. 218 del 2017 si è preoccupata di stabilire all’art. 5 commi 3 e 4, una specifica disposizione transitoria volta a garantire agli Istituti di pagamento i tempi tecnici necessaria ad adeguare la propria struttura patrimoniale e organizzativa alle nuove disposizioni. 44 La direttiva PSD2 esclude che tali discipline possano applicarsi ai PISP ed AISP se questi offrono esclusivamente, rispettivamente, il servizio di disposizione di ordini di pagamento e di informazione sui conti. La ragione di tale scelta va rintracciata nel fatto che tali prestatori non entrano mai nella disponibilità dei fondi dei clienti. V., in tal senso, il considerando n. 35 della PSD2. Cfr., in generale, Donnelly, Payments in the digital market: Evaluating the contribution of Payemnt Services Directive II, cit., p. 830. Con specifico riferimento agli AISP, v. Pappadà, Art. 114-septiesdecies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, cit., p. 1844 s. Sul punto, sembra opportuno richiamare le affermazioni svolte da una parte della dottrina che, anche prima dell’introduzione del sistema PSD2, faceva notare come la connessione fra autorizzazione, struttura patrimoniale, di governance e connessa vigilanza si fonda sempre su un principio di proporzionalità volto a non ingessare eccessivamente gli attori del mercato. In questo senso, Santoro, Gli istituti di pagamento, cit., p. 358 ss.

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e procedure volte ad elevare gli standard di sicurezza per gli utenti. Non sembra assolutamente casuale che, anche alla luce degli Orientamenti EBA emanati sul punto e con la precipua finalità di adattare gradualmente la struttura degli operatori alle nuove regole della PSD2, la stessa Banca d’Italia abbia da ultimo richiamato l’attenzione dei soggetti vigilati proprio sulla necessità intervenire al fine di incrementare le misure di protezione, la capacità di individuare, gestire e segnalare eventuali incidenti di sicurezza, nonché di incrementare la sicurezza dei dati sensibili relativi ai pagamenti stabilendo policy di accesso ai dati e di identificazione dei soggetti che hanno accesso agli stessi45. Tutto ciò porterà sicuramente ad una riarticolazione delle attuali “Disposizioni di vigilanza per gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica” che tenga in considerazione le modifiche introdotte sul punto dalla PSD246. Appare evidente che le novità introdotte dalla direttiva abbiano, nel mutato quadro tecnologico, la funzione di plasmare i PSP in maniera tale da determinare una mitigazione dei nuovi – e sempre più incisivi – rischi di frode47 con l’evidente finalità di stimolare una più capillare diffusione di strumenti di pagamento innovativi e sicuri48. Tali novità, che per i PSP già attivi si concretizzano in un’opera di mera implementazione di funzioni già attive, si presentano invece per i nuovi player del mercato dei pagamenti quale novità assoluta che imporrà agli stessi un consistente sforzo organizzativo che non potrà non avere ripercussioni anche sulle loro scelte di business.

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Comunicazione Banca d’Italia, 12 marzo 2018, recante “Indicazioni per gli Istituti di Pagamento e gli IMEL per il mantenimento dell’autorizzazione allo svolgimento dei servizi di pagamento”. 46 Appare opportuno segnalare che Banca d’Italia ha pubblicato in data 11 luglio 2018 un Documento di consultazione recante “Modifiche alle disposizioni di vigilanza par gli istituti di pagamento e gli istituti di moneta elettronica in attuazione della Direttiva 2015/2366/UE”. 47 Insiste su tale profilo, ponendolo in diretta relazione con gli obblighi organizzativi imposti dalla PSD2 ai prestatori di servizi di pagamento, Minto, Art. 114-novies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, cit., p. 1789 48 Sull’innovativa forma di pagamento nota coma m-payment, v. Moneti, Mobile payments: gli sviluppi del mercato e l’inquadramento normativo, in An. giur. econ., 2015, p. 101 ss.; Gimignano e Nava, L’inquadramento giuridico dei m-payment: profili ricostruttivi e di Gistonie regolamentari, in Smart cities e diritto dell’innovazione, a cura di Olivieri e Falce, Milano, 2016, p. 181 ss.; Cervone, Strumenti di pagamento innovativi, interoperabilità e neutralità tecnologica: quali regole e quale governance per un mercato sicuro, efficiente ed innovativo, in Riv. trim. dir. econ., 2016, p. 41 ss.

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D’altronde, come già segnalato, una delle finalità della PSD2, integrante il positive scope della stessa, era proprio quello di creare un quadro comune ed uniforme di regole che, al livello europeo, permettesse la creazione di un mercato dei pagamenti sicuro ed omogeneo: di incrementare, cioè, quel level playing field necessario ad un sano sviluppo concorrenziale dei mercati49.

3. La responsabilità dei prestatori di servizi di pagamento nella PSD2. Se questa nuova conformazione strutturale dei soggetti operanti nel mercato dei pagamenti appare già di per sé strumentale a garantire un assetto del mercato in grado di gestire e prevenire operazioni di pagamento non autorizzate, è altrettanto evidente la necessità di intervenire sul punto attraverso una rinnovata regolamentazione del profilo della responsabilità del PSP proprio in relazione a quelle operazioni50. Va in primo luogo segnalato come per quanto concerne la disciplina generale del riparto delle responsabilità fra utente/pagatore e PSP relativa ad eventuali utilizzi non autorizzati dello strumento, fatta eccezione per modifiche terminologiche, non sembrano riscontrarsi sostanziose differenze di impostazione. Permane pressoché intatta la previsione dei reciproci obblighi di condotta gravanti sulle parti che vedono, da un lato, l’utente obbligato ad utilizzare lo strumento di pagamento in maniera conforme ai termini stabiliti nel contratto quadro ed a comunicare tempestivamente ogni eventuale sottrazione/manomissione dello stesso51 e, dall’altro, impongono al PSP di assicurare l’esclusiva disponibilità dello strumento al solo utilizzatore mettendo a disposizione dello stesso canali gratuiti ed immediati al fine di comunicare eventuali anomalie, furti o sottrazioni52. L’utente che venga a conoscenza di una operazione

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Si veda, in tal senso, il considerando n. 33 della direttiva PSD2. Pur se con riferimento al sistema precedente al recepimento della PSD2, evidenzia le ragioni che fondano la scelta regolatoria di oggettivizzare la responsabilità del prestatore di servizi di pagamento invertendo su di esso l’onere di dimostrare un utilizzo fraudolento o la colpa grave dell’utente, Caggiano, Pagamenti non autorizzati tra responsabilità e restituzioni. Una rilettura del d.legisl. 11/2010 e lo scenario delle nuove tecnologie, in Riv. dir. civ., 2016, p. 459 ss. 51 Cfr., art. 7 del d.lgs. n. 11 del 2010. 52 In questo senso, l’art. 8 del d.lgs. n. 11 del 2010. 50

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non autorizzata o scorrettamente eseguita dovrà comunicarlo il prima possibile – e comunque non oltre 13 mesi dalla data di addebito – al prestatore del servizio che dovrà tempestivamente rettificare la stessa53 gravando quest’ultimo di un onere probatorio estremamente consistente in caso di operazioni non autorizzate. Ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 11 del 2010, infatti, sarà il PSP a dover dimostrare che l’operazione contestata sia stata correttamente autenticata e registrata non potendo però desumere, ai sensi del secondo comma, che l’utilizzo dello strumento di pagamento possa di per sé significare che l’operazione sia stata autorizzata da parte dell’utente né che lo stesso sia qualificabile come inadempiente di fronte agli obblighi sullo stesso gravanti ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 11 del 201054. Dato questo quadro normativo evidentemente orientato a responsabilizzare tanto i pagatori quanto i prestatori del servizio55, nel caso in cui si accerti l’assenza di un’autorizzazione all’esecuzione del pagamento da parte dell’utilizzatore – e fatta eccezione per l’ipotesi in cui abbia agito fraudolentemente –, quest’ultimo non dovrà sopportare alcuna perdita per pagamenti effettuati dopo la comunicazione dello smarrimento, furto o sottrazione dello strumento di pagamento56, come pure nel caso in cui il prestatore non abbia predisposto canali efficienti al fine di permettere la suddetta comunicazione. Negli altri casi, ove il pagatore non abbia agito fraudolentemente o non abbia violato con dolo o colpa grave gli oneri di condotta prescritti dall’art. 7 del d.lgs. n. 11 del 2010, lo stesso potrà sopportare una perdita massima di soli 50 euro57 rimanendo la restante parte a carico del

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Obbligo, questo, stabilito dall’art. 9 del d.lgs. n. 11 del 2010. Per qualche ulteriore riferimento, sia consentito il rinvio a Berti de Marinis, La responsabilità del prestatore di servizi di pagamento per utilizzo fraudolento di bancomat e carte di credito. La prospettiva italiana, in Aa. Vv., Fraude electronico. Su gestión civil y penal, Valencia, 2015, p. 335 ss. 55 Cirialo, Le carte di debito nell’ordinamento italiano. Il servizio Bancomat, Milano, 2008, p. 181 s. 56 Sul punto va segnalata l’introduzione del comma 2-ter all’art. 12 del d.lgs. n. 11 del 2010 ai sensi del quale il pagatore non dovrà sopportare alcun onere neanche nel caso in cui “lo smarrimento, la sottrazione o l’appropriazione indebita dello strumento di pagamento non potevano essere notati dallo stesso prima di un pagamento”. 57 Nella disciplina precedente il recepimento della direttiva PSD2, l’importo massimo che rimaneva comunque a carico dell’utilizzatore era di 150 euro. La modifica quantitativa, pur non mutando l’impostazione generale della disciplina, appare però significativa in quanto espressione dell’esigenza di rafforzare il clima di fiducia nell’utilizzare gli 54

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PSP58. In tutte le circostanze nella quali nasca un obbligo di rimborso da parte del PSP, lo stesso dovrà procedere a riaccreditare le somme relative ai pagamenti non autorizzati immediatamente o, al più tardi, entro la giornata operativa successiva a quella nella quale è avvenuta la comunicazione dell’anomalo pagamento59 rimanendo però impregiudicato il diritto dello stesso ad accertare anche successivamente la regolare autorizzazione dell’operazione e di recuperare, quindi, gli importi già rimborsati al cliente60. In punto di responsabilità del PSP – specifica attenzione verrà a breve riservata alle peculiarità che riguardano la responsabilità dei PISP – il profilo che sembra destare le maggiori problematiche è quello relativo all’obbligo del prestatore non solo di dimostrare la violazione degli obblighi di condotta gravanti sull’utente, ma anche che tali violazioni siano caratterizzate da dolo o colpa grave61. Il problema si rinviene in tutta la sua rilevanza non solo sotto il profilo interno, essendo evidente a tutti la difficoltà di stabilire elementi oggettivi al fine di valutare la presenza di un elemento soggettivo, ma anche in relazione alla nuova normativa europea. Questa, infatti, sembra cogliere nei considerando la scivolosità del tema e, pur ribadendo come il concetto di “grave negligenza” implichi una concreta valutazione dei fatti e debba essere apprezzata con i filtri propri di ogni diritto nazionale62, da un lato propone un esempio di colpa grave – individuando quale grave negligenza il fatto che l’utente conservi lo strumento di pagamento insieme ai codici per il suo utilizzo in un formato aperto e facilmente individuabile da terzi – e, dall’altro, richiama il PSP ad assolvere tale pesante onere probatorio con maggior rigore nel caso di operazioni, quali quelle on line, che non avvengano

strumenti di pagamento in parola. L’utente, infatti, saprà che tenendo una condotta che non arrivi ad essere qualificata come dolosa o gravemente colposa, potrà sopportare una perdita economica non superiore a 50 euro. 58 Art. 12 del d.lgs. n. 11 del 2010. 59 Cfr., art. 11 del d.lgs. n. 11 del 2010. Ai sensi del secondo comma delle medesima disposizione, il prestatore di servizi di pagamento potrà sospendere il rimborso solo ove riscontri un motivato sospetto di frode. 60 Art. 11, co. 3, del d.lgs. n. 11 del 2010. Il rimborso, quindi, non determina alcun riconoscimento di responsabilità da parte del prestatore di servizi di pagamento. 61 Evidenzia come proprio questo risulta essere il fulcro intorno al quale ruota l’intera disciplina della responsabilità dei prestatori di servizi di investimento, Cirialo, Uso non autorizzato degli strumenti elettronici di pagamento, in Dir. banc., 2017, p. 158. 62 Ciò ripropone, in tutta la sua evidenza, il problema della sussistenza di diversi livelli di protezione del pagatore all’interno dei singoli Stati membri.

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presso un punto vendita stante la maggiore difficoltà probatoria che incontra in questi casi l’utilizzatore63. Tale passaggio – pur nella consapevolezza dell’impossibilità di riconoscere precettività ai considerando ma nell’altrettanto solida convinzione di dovergli assegnare il ruolo di canone interpretativo dell’articolato della direttiva – sembra porsi in evidente sintonia con i risultati raggiunti dai giudicanti proprio su due dei profili maggiormente sensibili e presenti nella casistica che si mostra, come ben immaginabile, estremamente variegata. Il primo consiste nell’individuare la sussistenza di una colpa grave in tutte le ipotesi nelle quali fra sottrazione o manomissione dello strumento di pagamento e suo utilizzo fraudolento intercorrano tempi tecnici insufficienti a permettere l’estrapolazione dei codici di utilizzo dallo stesso. Se la giurisprudenza ordinaria non fornisce un grande aiuto64, è

63 In tal senso, v. il Considerando n. 72 della PSD2: «Per valutare l’eventuale negligenza o grave negligenza da parte dell’utente di servizi di pagamento, dovrebbero essere prese in considerazione tutte le circostanze. È opportuno che di norma le prove e il grado della presunta negligenza siano valutati sulla base del diritto nazionale. Non di meno, il concetto di negligenza implica la violazione del dovere di diligenza, mentre per negligenza grave si dovrebbe intendere un comportamento che si spinge oltre la semplice negligenza e implica un grado significativo di mancanza di diligenza; ad esempio, lasciare le credenziali usate per autorizzare un’operazione di pagamento vicino allo strumento di pagamento, in un formato aperto e facilmente individuabile da terzi. I termini e le condizioni contrattuali per la fornitura e l’uso di uno strumento di pagamento, il cui effetto sarebbe quello di aumentare l’onere della prova per il consumatore o ridurre l’onere della prova per l’emittente, andrebbero considerate nulle e prive di effetti. Inoltre, in situazioni specifiche, in particolare se lo strumento di pagamento non è utilizzato presso il punto vendita, come nel caso dei pagamenti online, è opportuno che il prestatore di servizi di pagamento sia tenuto a fornire prove della presunta negligenza poiché in tali casi i mezzi a disposizione del pagatore sono molto limitati». 64 È dato acquisito come tali controversie siano quasi del tutto assenti nella giurisprudenza ordinaria. Sulle ragioni di tale assenza, prevalentemente connesse allo scarso valore economico dei giudizi ed alla conseguente antieconomicità degli stessi, v. Cirialo, Le carte di debito nell’ordinamento italiano, Milano, 2007, p. 178; Sangiovanni, Bancomat, carte di credito e responsabilità civile nella giurisprudenza dell’ABF, in Resp. civ., 2012, p. 697 ss. Le poche pronunce sul punto, peraltro, non fanno applicazione delle disposizioni specifiche di cui al d.lgs. n. 11 del 2010 poiché, i tempi della giustizia, fanno pervenire all’attenzione degli interpreti fatti anteriori all’entrata in vigore della disciplina. Per tale ragione, la giurisprudenza ordinaria tenta di apportare una sufficiente tutela del cliente valorizzando la natura contrattuale della responsabilità del prestatore di servizi di pagamento innalzando anche il livello di diligenza richiesto a tali peculiari professionista. In questo senso Cass., 12 giugno 2007, n. 1377, in www.dejure.it; Cass., 19 gennaio 2016, n. 806, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 843, con nota di Bellomia, Truffa

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nelle pronunce dell’Arbitro bancario e finanziario che si rintracciano le più interessanti soluzioni alla problematica che appare ormai affermare in maniera reiterata, pur nella necessaria valorizzazione della fattispecie concreta oggetto di giudizio, che tale evento implichi una colpa grave ammettendo la possibilità per il PSP di raggiungere la prova della congiunta conservazione del codice e dello strumento di pagamento anche attraverso presunzioni derivanti, in particolare, dallo strettissimo lasso di tempo intercorso fra sottrazione dello strumento di pagamento o sua manomissione ed effettuazione dell’operazione illegittima65. Il secondo riguarda, come detto, le eventuali operazioni di pagamento che non avvengano presso punti vendita fisici per le quali il PSP è “tenuto a fornire prove delle presunta negligenza” in maniera maggiormente puntuale. Anche sotto tale profilo sembra che le decisioni ABF risultino già conformi nella misura in cui ritengono di inquadrare nella grave negligenza, tutte quelle ipotesi di phishing che avvengano attraverso attività agevolmente percepibili come captazione fraudolenta di credenziali66 mentre tendono ad escluderla nell’ipotesi in cui gli stes-

al bancomat del cliente imprudente: la banca non diligente è responsabile. In dottrina, analizzano il tema della diligenza richiesta al professionista in ambito bancario, Frau, Home banking, bonifici non autorizzati e responsabilità della banca, in Resp. civ. prev., 2013, p. 1285 ss.; Carbone, Diligenza concreta: alla banca “accorta” non può sfuggire la falsità della firma della firma dell’assegno, in Corr. giur., 2014, 909 ss.; Marseglia, La responsabilità da status della banca in caso di clonazione della carta prepagata, in Giur. it., 2017, p. 2632 ss. Rare sono le ipotesi nelle quali i giudici hanno potuto applicare le disposizioni di cui al d.lgs. n. 11 del 2010. In tale ultimo senso, v. Trib. Firenze, 19 gennaio 2016, in Dir. banc., 2017, 143. 65 Collegio di Coordinamento, decisione 17 ottobre 2013, n. 5304; Collegio di Milano, decisione 21 gennaio 2016, n. 627; Collegio di Roma, decisione 11 marzo 2016, n. 2227; Collegio di Bari, decisione 8 maggio 2017, n. 4886. Tale tendenza è a volte temperata riconoscendo valore a condotte colpose del prestatore di servizi di pagamento consistenti, fra l’altro, nella non predisposizione del servizio di sms alert o nell’anomalo prelievo di somme decisamente incompatibile con le abitudini del cliente. In questo senso, ABF, Collegio di Bari, decisione 26 ottobre 2017, n. 13529. 66 Cfr., senza pretesa di esaustività, ABF, Collegio di Milano, decisione 9 novembre 2017, n. 14254; ABF, Collegio di Palermo, decisione 10 novembre 2017, n. 14358; ABF, Collegio di Milano, decisione 14 novembre 2017, n. 14552. Sul punto va però segnalata una recente sentenza della Cassazione che sembra marcare un contrasto con i consolidati orientamenti dell’ABF. Si tratta di Cass., 12 aprile 2018, n. 9158, in www.dejure.it, la quale, pur giudicando su fatti anteriori all’entrata in vigore del d.lgs. n. 11 del 2010, riconosce la responsabilità del prestatore di servizi di pagamento per una operazione online effettuata captando fraudolentemente le credenziali di accesso tramite una mail inviata al cliente con la quale si chiedeva di indicare le stesse. La base giuridica su cui

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si dati vengano carpiti attraverso condotte fraudolente maggiormente “raffinate” e, come tali, difficilmente riconoscibili anche da parte di un utente mediamente accorto67.

4. (Segue) La specifica disciplina della responsabilità dei PISP. Se sotto tale profilo non sembrano quindi rinvenirsi all’orizzonte significative turbolenze interpretative, potendosi ipotizzare il consolidarsi degli orientamenti fino ad ora maturatisi in seno alla giurisprudenza ABF, una concreta e nuova disciplina si è resa invece necessaria proprio al fine di regolamentare il regime di responsabilità gravante su quei prestatori di servizi che si dedichino alla “disposizione di ordini di pagamento”. Come accennato in precedenza, nonostante i PISP non vengono assoggettati alla disciplina dei fondi propri ove svolgano esclusivamente il servizio disposizione di ordini di pagamento, sotto il profilo autorizzativo devono necessariamente dimostrare di aver stipulato una polizza ai sensi del 114-novies, co. 1 bis, t.u.b. che copra i danni cagionati nell’esercizio della propria attività. Dietro la convinzione secondo la quale sarebbe sproporzionato assoggettare tali operatori a regole patrimoniali eccessivamente rigide, rimane altrettanto latente la consapevolezza che

fonda la propria decisione va rintracciata nell’applicazione dell’art. 2050 c.c. che porta la Corte ad affermare che «in tema di responsabilità della banca in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile a dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo». Nel caso di specie, non viene qualificato come eccessivamente incauta la condotta del cliente come sopra descritta. 67 Si tratta dei casi nei quali il pc del pagatore viene di fatto contagiato da virus, trojan o malware che, rimanendo latenti ed innocui non producendo alcun malfunzionamento apparente, riescono a captare le credenziali inserite da parte dell’utente all’interno della propria pagina di home banking. Si tratta del fenomeno noto in gergo con il termine man in the browser su cui v., fra le ultime, ABF, Collegio di Roma, decisione 9 febbraio 2017, n. 1179; ABF, Collegio di Napoli, decisione 25 luglio 2017, n. 9080. Tutte seguono l’orientamento consolidatosi a seguito di Collegio di Coordinamento, decisione 26 ottobre 2012, n. 3498.

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il ruolo svolto da tali PSP espone il mercato e gli utenti a rischi che devono essere gestiti e metabolizzati attraverso la predisposizione di adeguate tutele. Rimanendo al profilo delle operazioni di pagamento non autorizzate o non correttamente eseguite, nonostante i PISP non entrino mai nella disponibilità dei fondi dell’utente che vengono trasferiti dal conto di pagamenti intrattenuto presso il PSP di radicamento del conto a quello del beneficiario, assumono però un decisivo ruolo di impulso per l’intera operazione. È infatti tramite il PISP che, di fatto, il pagatore autorizza un determinato pagamento richiedendo a tale prestatore di eseguirlo dando immediata conferma al beneficiario dell’avvenuta transazione68. Ciò rende evidente come la partecipazione attiva di un provider terzo possa incidere anche in punto di responsabilità in tutte le circostanze nelle quali il pagamento non sia stato richiesto dall’utente o sia stato eseguito in maniera difforme rispetto alle richieste di quest’ultimo. Sotto tale profilo, da un lato vi è l’esigenza di assicurare una immediata protezione del pagatore che lamenti un eventuale danno in operazioni che vedano coinvolto un PISP69 e, dall’altro, si percepisce la convinzione per cui una corretta ripartizione della responsabilità fra i soggetti professionali coinvolti sia necessaria e strumentale a fare in modo che gli stessi pongano la massima attenzione nell’implementare i rispettivi sistemi di sicurezza70. È evidente, infatti, come in un sistema che va via via integrando all’interno di una medesima operazione di pagamento una molteplicità di prestatori – ciascuno dei quali conferisce il proprio apporto tecnico alla corretta realizzazione dell’operazione – sarebbe estremamente rischiosa la deresponsabilizzazione di uno dei due soggetti. Questa ripartizione di responsabilità fra i vari anelli che compongono la catena dell’operazione di pagamento sembra essere tenuta in considerazione dal nuovo sistema regolatorio che, per quanto riguarda il primo profilo, pone l’utente nella possibilità di rivalersi direttamente – ed a prescindere da un giudizio circa le concrete responsabilità – nei confronti del PSP di radicamento del conto dal quale potrà ottenere la rettifica delle operazioni non autorizzate o non correttamente

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V., supra. V. il considerando n. 73 della direttiva PSD2. Cfr. il considerando n. 74 della direttiva PSD2.


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eseguite71 e verso il quale potrà far valere le relative responsabilità72. Si comprende come tale scelta – nel porre in prima linea il soggetto con il quale il pagatore ha maggiore familiarità, che ha una più diretta relazione con il conto di pagamento sollecitato dall’operazione e che risulta, nei fatti, solitamente quello maggiormente strutturato – sembra rispondere ad esigenze di rapidità e di semplificazione dando al pagatore un unico e diretto interlocutore obbligato, in prima battuta, a rettificare l’operazione o a ripristinare la provvista illegittimamente compromessa. Non deve peraltro dimenticarsi come tale immediata responsabilizzazione del PSP di radicamento del conto viene a giustificarsi anche in relazione agli obblighi che lo stesso assume ai sensi dell’art. 6-bis del d.lgs. n. 11 del 2010 che garantisce a tale prestatore la possibilità di negare ai PISP – come pure agli AISP – la possibilità di accedere conti di pagamento “per giustificate e comprovate ragioni connesse all’accesso fraudolento o non autorizzato al conto di pagamento” rendendo evidente come, a prescindere dai soggetti coinvolti, permanga sempre una sorta di controllo sul conto di pagamento da parte del PSP di radicamento dello stesso73. In questo quadro di insieme, la corretta ripartizione delle eventuali responsabilità fra i soggetti coinvolti sembra essere relegata ad un momento successivo nel quale, una volta che il PSP di radicamento del conto abbia rimborsato il pagatore, spetterà al PISP rimborsare a quest’ultimo, senza indugi, la somma di denaro già rimborsata al pagatore dal primo prestatore dovendo, nel caso in cui sia lo sesso PISP ad essere responsabile per l’operazione non autorizzata, risarcire anche il danno eventualmente subito dal PSP di radicamento del conto74. Quello che sembra ipotizzare la disposizione è, quindi, una sorta di automatica ed immediata riallocazione della perdita derivante dall’ope-

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Così afferma l’art. 9, co. 2 bis del d.lgs. n. 11 del 2010. Art. 11, co. 2 bis del d.lgs. n. 11 del 2010. 73 In tali termini si esprime il comma 1 della disposizione menzionata. 74 Su tale profilo, in dottrina, v. De Stasio, Ordine di pagamento, cit., p. 159 s., il quale fa notare come nel sistema delineato dalla PSD2 «si prevede che l’obbligo di rimborso di ordini non autorizzati dal cliente faccia capo al SPS di radicamento del conto, cioè che intrattiene il conto di quest’ultimo, ma che nei rapporti tra SPS che rimborsa il cliente e TPP che ha trasmesso l’ordine non autorizzato (prestatore “di servizi di disposizione di ordini di pagamento”) potrà esserci un regresso in termini di risarcimento immediato per le perdite subite o gli importi pagati in conseguenza del rimborso al pagatore, compreso l’importo dell’operazione non autorizzata». 72

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razione non autorizzata o non correttamente eseguita che coinvolge, a cascata, entrambi i soggetti coinvolti lasciando ad una fase successiva la possibilità per il PISP di dimostrare la sua estraneità causale rispetto al vizio che ha inficiato il pagamento e recuperare, per tal via, il rimborso dallo stesso riconosciuto al PSP di radicamento del conto75. Tale scelta risulta sicuramente giustificabile alla luce del fondamentale apporto che assume un PISP nell’ambito di una operazione di pagamento svolta avvalendosi dei servizi erogati da quest’ultimo. Appare quindi pienamente comprensibile una sorta di tendenza a far “scivolare” rapidamente sul PISP il costo dell’operazione di pagamento non autorizzata o non correttamente eseguita facendo salva, ovviamente, la possibilità per quest’ultimo di dimostrare la sua estraneità causale all’accaduto76.

5. L’autenticazione forte nel nuovo sistema PSD2. Il profilo dell’attribuzione della responsabilità ai PSP che, a vario titolo, partecipano all’operazione di pagamento, non deve far sfuggire l’influenza che le nuove tecnologia hanno in tema di autenticazione del pagatore con evidenti e sostanziali riflessi anche sul profilo della responsabilità del PSP. Appare evidente, infatti, come le tecniche attraverso cui verificare l’identità del pagatore da parte del prestatore, da cui dipende la riconducibilità allo stesso dell’operazione di pagamento77, dipendano dall’attendibilità, non accessibilità da parte di terzi ed univocità delle credenziali di sicurezza attribuite dal PSP all’utente78. Se rientra fra gli obblighi del PSP, come in precedenza detto, quello di fare in modo che tali dati – che permettono materialmente l’autorizzazione di un pagamento – non siano accessibili a terzi79, è altrettanto vero che il progresso tecnologico espone l’utente ed il sistema a rischi

75 Viene ovviamente fatto salvo, come sopra già detto, il diritto del prestatore di servizi di pagamento di dimostrare anche successivamente il fatto che l’operazione di pagamenti sia stata correttamente autorizzata recuperando dal pagatore le somme illegittimamente rimborsate a quest’ultimo. 76 Regime del tutto similare si vedrà applicare il PISP nel caso di mancata, inesatta o tradiva esecuzione dell’operazione di pagamento ai sensi dell’art. 25-bis del d.lgs. n. 11 del 2010. 77 Art. 1, co. 1, lett. q del d.lgs. n. 11 del 2010. 78 Art. 1, co. 1, lett. q-ter, del d.lgs. n. 11 del 2010. 79 Art. 8, co. 1, del d.lgs. n. 11 del 2010.

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che vanno necessariamente gestiti e dominati80. Sotto tale profilo, la novità introdotta dal recepimento della direttiva PSD2 che sembra di maggior rilievo si appunta proprio sulla disciplina di sistemi di autenticazione rafforzati che, basandosi sulla richiesta di due fattori indipendenti fra di loro – nel senso che la violazione di uno di essi non compromette l’affidabilità dell’altro81 -, garantiscono maggiore sicurezza circa la riferibilità dell’operazione al cliente. Ciò che si richiede a tal fine è la presenza di due o più elementi riconducibili a qualcosa che l’utente “sa” (categoria della conoscenza); a qualcosa che l’utente “ha” (categoria del possesso) ed a qualcosa che “caratterizza” l’utente (categoria dell’inerenza)82. L’applicazione dell’istituto, contenuta negli artt. 97 e 98 della PSD2 ed implementata dal regolamento attuativo 2018/389/UE, dovrebbe comportare attraverso l’inserimento dei dati sopra riportati, la generazione di un codice di autenticazione neutro83, monouso e dinamico che, quindi, risulta inscindibilmente connesso alla specifica operazione di pagamento che il cliente si accinge a svolgere84. Appare evidente come tutto questo, genererà l’esigenza di stabilire procedure tali da permettere l’operatività dell’istituto compreso la consegna al cliente non più solo delle credenziali, ma anche di dispositivi e software necessari a captare l’elemento necessario a generare il codice monouso di autenticazione85.

80 Proprio la crescente presenza di tali rischi ha spinto, nel nuovo sistema PSD2, a prevedere un innalzamento delle cautele organizzative e di governo dei prestatori di servizi di pagamento proprio con un focus particolare su tali nuove problematiche. Nel rinviare a quanto sopra detto, si segnala anche quanto disposto dagli artt. 95 ss. della direttiva PSD2 in tema di “Rischi operativi e di sicurezza e autenticazione”. 81 Art. 9, § 1 del regolamento di attuazione 2018/389/UE. 82 Art. 4, co. 1, punto n. 30 della PSD2 come recepito dall’art. 1, co. 1, lett. q-ter, del d.lgs. n. 11 del 2010. 83 Nel senso che dal codice di autenticazione non può in alcun modo risalirsi agli elementi inseriti dal pagatore per generare il codice di autenticazione, né renda possibili generare un altro codice di autenticazione dai dati contenuti nel primo. 84 Cfr., quanto dispone l’art. 5 del regolamento di attuazione 2018/389/UE che impone una relazione univoca fra codice di autenticazione e dati (beneficiario, importo ecc.) del pagamento da effettuare tale che l’eventuale modifica dei dati di pagamento determina l’invalidità del codice di autenticazione e, quindi, la sua non utilizzabilità. 85 Si vedano, sul punto, gli artt. 27 – 29 del regolamento di attuazione 2018/389/ UE. Risulta ipotizzabile la diffusione di dispositivi atti a captare i dati biometrici del pagatore o volti a generare codici dinamici (token) nonché di software istallati su dispositivi esistenti (pc, smatphone) che assolvano la medesima funzione. Si tratterebbe di dispositivi multifunzionali il cui livello di sicurezza deve essere garantito dai prestatori

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Tali strumenti di “autenticazione forte”, tutt’altro che nuovi nei pagamenti che avvengono tramite pos86, da un lato vengono in parte rimessi in discussione in tali settori e parallelamente, implementati, in particolare, nelle ipotesi di operazione on line al fine di renderle maggiormente sicure87. In questo senso, è l’art. 97 della PSD2, come recepito dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 11 del 2010, che impone ai PSP, fatte salve le eccezioni di cui a breve si dirà, di applicare sistemi di autenticazione forte in caso di accesso da parte del cliente al proprio conto on line, nel caso di operazioni di pagamento elettronico nonché, da ultimo, nel caso di effettuazione di qualunque operazione a distanza che rechi in sé un rischio di frode. Tali procedure di autenticazione forte, essendo strumentali a ricondurre univocamente l’operazione di pagamento al titolare del conto di pagamento88, devono necessariamente trovare applicazione – ove imposte dal sistema – anche nelle ipotesi nelle quali si frappongano soggetti terzi (in particolare i già ricordati PISP ed AISP) i quali, dialogando tramite canali sicuri con il PSP di radicamento del conto, dovranno necessariamente autenticare in maniera rafforzata il pagatore89. Stante il diritto dell’utente ad avvalersi di third party providers connesso al fatto

di servizi di pagamento ai sensi dell’art. 9 paragrafo 2 s. del regolamento di attuazione 2018/389/UE. Appare evidente come tutto ciò, sicuramente foriero di una maggiore sicurezza, generi però sostanziali problematiche in termini di tutela dei dati personali, sul punto v. Caggiano, Pagamenti, cit., p. 498 ss. 86 Si combina un elemento che il pagatore ha (carta di debito o di credito) e qualcosa che il pagatore sa (il codice pin nella carta di debito) o qualcosa che caratterizza l’utente (la sua identità nel pagamento con carta di credito). 87 Cfr., Donnelly, Payments, cit., p. 837. Rilevante a tal fine risulta anche la disciplina che individua il numero massimo di tentativi ammissibili al fine di generare un codice di autenticazione, la durata massima di inattività della sessione, l’impossibilità di indicare l’elemento non correttamente inserito in caso di fallita generazione del codice di autenticazione. V., in tal senso, l’art. 4, § 3 del regolamento di attuazione 2018/389/UE. 88 Sembra opportuno segnalare un possibile profilo di criticità nell’interpretare, alla luce della regola generale che prevede l’autenticazione forte, la disposizione che impedisce al prestatore di servizi di pagamento di desumere dall’utilizzo dello strumento di pagamento il fatto che il pagamento sia stato autorizzato dal titolare del conto di pagamento (art. 10, co. 2, del d.lgs. n. 11 del 2010). Risulta senza dubbio meno comprensibile la regola da ultimo menzionata nelle circostanze in cui, essendo i sistemi di autenticazione estremamente sicuri, si pervenga attraverso l’utilizzo degli stessi alla ragionevole certezza che dietro l’uso di uno strumento di pagamento vi sia effettivamente una autorizzazione del pagatore. 89 In questo senso, espressamente, l’art. 97, § 4 della PSD2 come recepito dall’art. 10bis, co. 4 del d.lgs. n. 11 del 2010.

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che, con ogni probabilità, ogni PSP di radicamento del conto si doterà di sistemi di autenticazione forte distinti gli uni dagli altri in base al principio di neutralità tecnologica, è evidente come l’operatività di tali nuovi soggetti potrà essere garantita solo attraverso la previsione dell’obbligo per i PSP di radicamento del conto di farli accedere – ciascuno per le proprie competenze – alle procedure di autenticazione dagli stessi messe a disposizione dei pagatori90.

6. Le ipotesi in cui è possibile derogare all’autenticazione forte: il profilo della targeted authentication. L’introduzione di tali tecniche di autenticazione forte, che risultano senza dubbio di estrema utilità nell’ottica di garantire un regime sicuro dei servizi di pagamento, introducono però vincoli che se generalizzati in maniera indiscriminata potrebbero produrre un effetto dissuasivo verso l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici che il sistema vuole accuratamente evitare. In questo senso vanno lette le disposizioni contenute al Capo II del regolamento di attuazione 2018/389/UE il quale inanella una molteplicità di ipotesi che, in relazione alla tipologia di operazione91, alle modalità con le quali la stessa è compiuta92, ai beneficiari del pagamento93 o, semplicemente, all’importo dell’operazione94,

90 Obbligo in effetti materialmente imposto dall’art. 97, paragrafo 5 della PSD2 come recepito dal già citato art. 10-bis, co. 5 del d.lgs. n. 11 del 2010. 91 Nel caso, ad esempio, di servizi aventi ad oggetto esclusivamente la consultazione del saldo e delle operazioni di pagamento eseguite negli ultimi 90 gg. ai sensi dell’art. 10 del regolamento di attuazione 2018/389/UE. 92 Rientrano in tale ipotesi quelle disciplinate dall’art. 12 del regolamento di attuazione 2018/389/UE che includono i pagamenti effettuati presso terminali non custoditi aventi ad oggetto il pagamento di tariffe di trasporto o di parcheggio. Stesso discorso deve farsi per quanto disposto dall’art. 17 del regolamento di attuazione 2018/389/UE. 93 È il caso dei beneficiari di fiducia (art. 13 del regolamento di attuazione 2018/389/ UE) o dei bonifici effettuati fra conti intestati al medesimo soggetto (art. 16 del regolamento di attuazione 2018/389/UE). 94 I prestatori dei servizi di pagamento vengono dispensati dall’applicare sistemi di autenticazione forte nelle forme di pagamento contactless ove vengano soddisfatte le condizioni previste dall’art. 11 del regolamento di attuazione 2018/389/UE che prevedono degli importi massimi per singola operazione di pagamento e per operazioni aggregate che rendono superflua l’applicazione di un’autenticazione rafforzata. Stesso discorso per quanto dispone l’art. 16 del regolamento di attuazione 2018/389/UE per le operazioni di pagamento a distanza di importi singoli o aggregati poco significativi.

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vengono considerate a basso rischio di frode e, come tali, non necessariamente assoggettabili a sistemi di autenticazione forte. A tali esenzioni “tipiche” si affianca una particolare attenzione da parte del legislatore comunitario verso altri, ed a quanto pare non meno sicuri, sistemi di autenticazione. Vi è infatti chi dubita del fatto che i sistemi di autenticazione forte possano apportare vantaggi in termini di sicurezza maggiori rispetto agli svantaggi causati da un sostanziale irrigidimento della procedura di pagamento. Se sotto il profilo della sicurezza il vulnus riferibile all’autenticazione forte consiste nel fatto che la stessa si concretizza in una verifica istantanea – che si limita, cioè, alla mera fase della concreta autorizzazione del pagamento attraverso la neutra indicazione dei due elementi richiesti -, allo stesso modo è stato evidenziato come il sicuro innalzamento del livello di sicurezza determinato attraverso l’implementazione di tali sistemi di autenticazione non pone comunque al sicuro il pagatore da eventuali captazioni fraudolente dei dati. Sotto una diversa prospettiva, poi, gli operatori appaiono estremamente preoccupati del fatto che tale identificazione a due fattori possa spaventare l’utente tecnologicamente pigro o indurre a rinunciare all’acquisto (rectius: al pagamento) colui che, per mere contingenze, si trova a non disporre immediatamente del dato richiesto o del dispositivo/ software necessario a generarlo concretizzando così il “nefasto” evento definito come “rischio di abbandono della transazione”. Tutto ciò ha portato a valutare l’opportunità di introdurre, in luogo di sistemi di autenticazione forte, e con particolare riferimento ai pagamenti elettronici a distanza, i c.d. sistemi di autenticazione mirata (targeted authentication) che si fondano, in buona sostanza, nell’analisi costante, continuativa ed in tempo reale dell’operazione di pagamento dalla quale dovrebbero essere estrapolati dati che permettono, ove presenti, di identificare un determinato pagamento come a basso rischio di frode e, come tale, sicuro in quanto proveniente dal titolare del conto di pagamento. L’analisi delle abitudini di spesa, il fatto di mettere in relazione l’operazione attuale con operazioni pregresse, il tempo normalmente utilizzato per effettuare l’operazione, la geolocalizzazione del dispositivo, l’intensità e frequenza delle battute sulla tastiera, la rapidità nello spostamento del mouse ecc. sono tutti dati che, captati e conservati, offrono al sistema ragionevoli indici di sicurezza che non dovrebbero essere assoggettati ad ulteriori verifiche statiche le quali appesantirebbero in maniera sproporzionata l’operazione di pagamento. Tali preoccupazioni vengono tenute in considerazione dallo stesso

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regolamento di attuazione 2018/389/UE95 nella parte in cui ammette la possibilità di non assoggettare ad autenticazione forte tutte quelle operazioni che, a seguito di monitoraggio da parte del PSP, risultino qualificabili come non a rischio frode96. In tutte le circostanze sopra descritte nelle quali non è strettamente obbligatoria l’adozione di un sistema di autenticazione forte, fermo restando gli obblighi generali di autenticazione stabiliti dall’art. 2 del regolamento di attuazione 2018/389/UE, si è ritenuto maggiormente funzionale all’esigenza di stimolare la diffusione dei pagamenti elettronici “autorizzare a non applicare” l’autenticazione a due fattori rimettendo ad una scelta discrezionale del PSP l’individuazione dello standard di sicurezza dei propri pagamenti.

7. La responsabilità dei prestatori di servizi di pagamento in assenza di autenticazione forte. L’utilizzo di sistemi di autenticazione forte, tuttavia, appare tutt’altro che neutra e priva di conseguenze proprio in punto di responsabilità del prestatore stesso per eventuali pagamenti non autorizzati. La ratio che ha stimolato la diffusa previsione di tali strumenti rafforzati di autenticazione non poteva che comportare un aggravio di responsabilità per i PSP che non “esigano” che l’autorizzazione dell’operazione avvenga attraverso l’inclusione del doppio elemento. Ai sensi dell’art. 12, co. 2-bis del d.lgs. n. 11 del 201097, il pagatore non potrà sopportare alcuna perdita – fatta eccezione l’ipotesi nella quale abbia agito fraudolentemente – nel caso in cui il prestatore non esiga o non ac-

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Si veda, in tal senso, il considerando n. 14 del regolamento di attuazione 2018/389/

UE. 96

In questo senso vanno letti gli artt. 18 ss. del regolamento di attuazione 2018/389/ UE che impone, per ovvie ragioni, non soltanto l’implementazione di adeguati sistemi di monitoraggio che valutino la sussistenza almeno dei fattori di rischio previsti dalla normativa, ma che tengano costantemente aggiornati gli stessi al fine di evitare abbassamenti di sicurezza dannosi per i pagatori (cfr., sul punto, il considerando n. 15 del regolamento di attuazione 2018/389/UE). Ove l’analisi di tali elementi dovesse evidenziare un rischio di frode non basso, il prestatore di servizi di pagamento dovrà tornare a pretendere una autenticazione forte (considerando n. 17 del regolamento di attuazione 2018/389/UE). 97 Disposizione che rappresenta la trasposizione pressoché letterale dell’art. 74, § 2 della direttiva PSD2.

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cetti un’autenticazione forte. La posizione del pagatore viene, in questi casi, equiparata a quella dell’utente che abbia subito operazioni non autorizzate dopo la comunicazione della sottrazione, smarrimento o utilizzo indebito dello strumento o quando il prestatore non abbia predisposto sistemi adeguati al fine di comunicare le circostanze poco sopra menzionate. La disposizione si apre, però, ad un dubbio interpretativo non risultando immediatamente chiaro se tale norma si applichi solo alle ipotesi nelle quali il prestatore, essendone obbligato, non ha adottato sistemi di autenticazione forte, ovvero debba estendersi anche alle ipotesi nelle quali la scelta di non applicare l’autenticazione a due fattori – pur legittima in quanto rientrante nell’ambito delle deroghe espressamente previste98 -, si concretizzi però pur sempre in una decisione personale dell’operatore le cui conseguenze dovrebbero, a ragione, ricadere necessariamente sullo stesso99. Il dubbio sorge, in particolare, nelle ipotesi in cui l’esenzione dall’obbligatorietà della strong authentication si fonda su dati oggettivi che, come tali, non espongono il PSP ad alcuna valutazione discrezionale circa la rischiosità dell’operazione di pagamento100. Nonostante ciò, però, appare evidente come anche in questi casi la scelta di non applicare strumenti di autenticazione rafforzati determini una deviazione da una “regola” che, stabilita per ragioni prudenziali, da un lato espone il pagatore ad un rischio maggiore di frode e, dall’altro, permette al sistema di accelerare l’operazione di pagamento semplificandola e abbassando il rischio di c.d. abbandono della transazione. A ciò si aggiunga, anche, che il fatto di “autorizzare” il PSP a non applicare l’autenticazione forte non rappresenta un obbligo ma una mera facoltà la cui opportunità verrà congruamente valutata dal professionista anche in funzione dell’analisi dei costi/benefici derivanti dalla stessa. Fra i costi, dovranno senza dubbio computarsi anche gli esborsi derivanti dalle restituzioni causate dal non “esigere” una auten-

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V. supra. Va anche segnalato come un scelta diversa, determinerebbe anche la possibilità – sicuramente da scongiurare - di una perdita di fiducia degli utenti verso i sistemi di pagamento maggiormente innovativi. 100 Rientrano in tale fattispecie le ipotesi nelle quali l’esenzione viene ad essere vincolata a dati meramente quantitativi relativi all’importo dell’operazione di pagamento intesa singolarmente o aggregata. 99

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ticazione forte101. Se ciò è vero per le esenzioni che si giustificano su elementi oggettivi, ancora di più lo è nel caso dell’esenzione di cui agli artt. 18 ss. del regolamento di attuazione 2018/389/UE la quale, come detto, giustifica la disapplicazione dell’autenticazione forte nel caso in cui il prestatore abbia implementato sistemi di monitoraggio che siano in grado di individuare il livello di rischio frode del pagamento e che, ponendolo a sistema in tempo reale con le soglie di rischio stabilite, etichettino quel determinato pagamento come sicuro. Ove in tale attività di monitoraggio si dovessero riscontrare indici che innalzino il rischio di frode relazionato all’operazione di pagamento, il prestatore dovrebbe permettere l’esecuzione della stessa solo “esigendo” una autenticazione forte. L’assenza di una procedura di validazione rafforzata, connessa ad un pagamento disconosciuto da parte dell’utente, rende evidente un errore nell’implementazione della targeted authentication che appare sicuramente giusto non addossare all’utente. Tale impostazione, da ultimo, si pone in diretta assonanza con l’obbligo generale gravante sui PSP di assicurare la fornitura di strumenti di pagamento sicuri che risulta inscindibilmente connesso all’obiettivo di policy generale – che traspare in maniera evidente dall’impostazione della nuova direttiva – consistente nell’esigenza di creare un elevato grado di fiducia dell’utente verso tali servizi di pagamento. Se, dato lo sviluppo tecnologico dei sistemi atti a frodare il pagatore, lo standard di sicurezza medio è oggi rappresentato da sistemi di autenticazione forte, in tutte le ipotesi nelle quali non si “esiga” tale forma di autenticazione si sta mettendo a disposizione dell’utente uno strumento di pagamento non conforme al livello di sicurezza che appare lecito attendersi e, tutto ciò, non può pregiudicare il pagatore.

8. Conclusioni. In conclusione, il nuovo scenario aperto dal recepimento della direttiva PSD2 va letto nel contesto della costante tensione fra le esigenze di sviluppo di un mercato estremamente influenzato dalla tecnologia, la volontà di stimolare la diffusione degli strumenti di pagamento di-

101 Appare a tutti evidente come il regime di imputazione proprio di tale sistema sia quello del rischio. In questo senso, O. Troiano, Contratto di pagamento, cit., p. 407.

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versi dal denaro contante e le connesse esigenze di tutela dell’utente pagatore/acquirente102. Il compito del legislatore è tutt’altro che agevole presupponendo una difficile opera di mediazione fra tutti tali interessi con l’obiettivo principale di creare una stabile confidenza dei pagatori europei verso i nuovi servizi di pagamento. In questo senso, l’assenza di particolari novità nella disciplina sostanziale della responsabilità del PSP per operazioni non autorizzate o non correttamente eseguite103 – fatta eccezione per quelle, pur di un certo rilievo, poco sopra segnalate –, non deve far pensare ad una attenuazione del livello di attenzione riposto verso l’esigenza di protezione del pagatore permanendo una forte tendenza – figlia della precedente disciplina – a fare in modo che i costi delle “frodi” vengano di norma metabolizzati da parte del sistema. Appare evidente, in tale quadro, come la protezione del singolo pagatore non potrà che ripercuotere i suoi effetti sulla massa degli utenti che, con ogni probabilità, vedranno aumentare il prezzo di tali servizi. È un rischio che, tuttavia, non sembra evitabile alla luce dell’esigenza di creare una forte fiducia nella moneta scritturale al fine di determinare, gradualmente, la sua sostituzione al contante. Non vi è dubbio, però, come l’interesse principale che traspare dalla disciplina in parola riguardi la chiara interconnessione fra sistema dei pagamenti ed e-commerce che determina una particolare e del tutto comprensibile attenzione verso tutte quelle forme di pagamento elettronico a distanza104. Sotto tale profilo appare opportuno segnalare come proprio in queste circostanze emerga una nuova rilevanza del “pagamento” che non si limita più ad essere qualificabile quale mero adempimento di una obbligazione ma sembra assumere esso stesso il carattere di manifestazione della volontà negoziale del pagatore. In questi casi, infatti, il contratto “nasce” con il pagamento e viene ese-

102 Su tali profili si sofferma, Bartolomucci, Il regime dei pagamenti nei contratti del consumatore, in Corr. giur., 2014, p. 26 ss. 103 Cfr., Ciraolo, Uso non autorizzato degli strumenti elettronici di pagamento, in Dir. banc., 2017, p. 184 ss. 104 Insistono su tale problematica, Marcoccio e Corsini, Servizi di pagamento via internet: il contesto normativo comunitario e italiano sugli aspetti rilevanti ai fini della sicurezza delle operazioni, in Ciberspazio e diritto, 2015, p. 271 ss. L’interesse comunitario verso tali profili è evidente dall’elaborazione della “Strategia per il mercato unico digitale in Europa” – COM(2015) 192 final – e dalla revisione intermedia della stessa “Un mercato unico digitale connesso per tutti” – COM(2017) 228 final.

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guito attraverso lo stesso con un procedimento che porta istantaneamente dalla conclusione del contratto alla sua materiale esecuzione da parte dell’utente. Il pagamento, in altre parole, diventa l’atto che viene esternamente percepito quale volizione negoziale e non risulta più qualificabile esclusivamente quale grigio atto esecutivo di un obbligo già assunto dal pagatore. In questo senso, le cautele introdotte nei pagamenti a distanza da parte della PSD2 sembrano assumere rilievo, oltre che sotto il profilo della prevenzione delle frodi, anche dal punto di vista sostanziale essendo volti ad accertare che dietro la conclusione di un contratto on line vi sia effettivamente la genuina volontà negoziale del soggetto che effettua il pagamento. La stessa richiesta di sistemi di autenticazione forte, “rallentando” l’iter di formazione del contratto, potrebbero essere indirettamente valutati quali strumenti volti ad indurre il pagatore ad una più accorta riflessione sull’operazione economica che sta compiendo. Lo stesso rischio di “abbandono della transazione” – che, dal canto suo, il mercato vuole comprensibilmente evitare a tutti i costi –, non mi sembra che sia qualificabile sempre come un male se, dietro il rifiuto di autorizzare un pagamento, vi sia la matura e consapevole volontà di non procedere all’acquisto di un bene o di un servizio che, res melius perpensa, il pagatore/contraente non ritiene più necessario o indispensabile in quel momento. Gli strumenti di pagamento sono, infatti, il mezzo attraverso cui realizzare una finalità105 e la loro concreta disciplina deve essere tale da permettergli materialmente di realizzarla. In questo quadro, le novità introdotte dalla direttiva PSD2 – con le modifiche apportate al d.lgs. n. 11 del 2010 ed al t.u.b. – sembra possano essere valutate positivamente nella consapevolezza, però, che la rapida obsolescenza della tecnologia che caratterizza tali settori si converte immediatamente in obsolescenza normativa che, con ogni probabilità, chiamerà nuovamente il legislatore europeo ad adattare il sistema dei pagamenti alle future novità che la scienza vorrà proporre o tenterà di imporre.

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105 Onza, Gli strumenti di pagamento nel contesto dei pagamenti on line, in Dir. banc., 2017, p. 679 ss.

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La risoluzione bancaria Il 20 giugno 2018 presso la Facoltà di economia della Sapienza, Università di Roma, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dalla rivista, dal Ce.di.b. e dal Master in Diritto della crisi delle imprese, sul tema «La risoluzione bancaria». All’incontro, presieduto dal prof. Alessandro Nigro, professore ordinario fuori ruolo della Sapienza, Università di Roma, sono intervenuti il prof. Sandro Amorosino, professore ordinario fuori ruolo della Sapienza, Università di Roma, il prof. Giuseppe Guizzi, professore ordinario nell’Università di Napoli Federico II, il prof. Bruno Inzitari, professore ordinario nell’Università di Milano Bicocca, il prof. Michele Perrino, professore ordinario nell’Università di Palermo, il prof. Giuseppe Santoni, professore ordinario nell’Università di Roma Tor Vergata, il prof. Daniele Vattermoli, professore ordinario nella Sapienza, Università di Roma e Direttore del Master in diritto della crisi delle imprese. Ne pubblichiamo gli atti.

Introduzione. Alessandro Nigro Seguendo quella che ormai si può ben considerare una tradizione dei nostri incontri – iniziati, mi piace ricordare, nel 2010 – la mia introduzione si limiterà ad una rapida presentazione del tema. Prima di questo, però – anche qui come di consueto – i doverosi ringraziamenti a tutti coloro che hanno reso possibile realizzare anche quest’anno l’iniziativa. Quindi ringraziamenti vanno, da un lato, alla Casa editrice Pacini, che pubblica la nostra rivista e che ci sostiene sempre con molta fiducia. E, dall’altro, alla Facoltà e al Dipartimento che ci ospitano, nonché

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al Master in Diritto della crisi delle imprese, che si è da qualche tempo aggiunto agli ormai molti “padrini” degli incontri. Ringraziamenti vanno poi a coloro che si sono sobbarcati il peso dell’organizzazione, ai relatori che hanno di buon grado accettato di intervenire – alcuni sono ormai di casa qui; altri sono presenti per la prima volta: e li salutiamo con particolare calore – ed infine a tutti i presenti per essersi disturbati nonostante il caldo. Vengo al tema. Non credo che la scelta di dedicare attenzione specifica alla risoluzione bancaria necessiti di particolari spiegazioni. Si tratta di un istituto di particolare interesse sotto molti profili: per la sua centralità nell’ordinamento bancario e finanziario, per la sua assoluta novità, per la complessità della sua disciplina. Per la verità, dubito che questo istituto possa trovare ancora applicazione o comunque applicazione diffusa in Italia. Lo shock provocato dalla risoluzione delle “famose” quattro banche locali è ben lungi dall’essere stato assorbito. Tant’è che, in relazione alle crisi intervenute successivamente, tutti – le autorità di vigilanza, il governo, il Parlamento – si sono adoperati, più o meno affannosamente, per trovare o inventare strade che evitassero di dover adottare lo strumento della risoluzione. Nel caso delle due banche venete si è fatto ricorso al vecchio strumentario: la liquidazione coatta più la cessione di assets; nel caso del Monte dei Paschi si è fatto ricorso al nuovo strumento della “ricapitalizzazione preventiva” che ha avuto come risultato l’ingresso massiccio dello Stato nell’azionariato (anche qui, dunque, un vecchio strumento). Del resto, che sia maturato un clima di diffidenza o addirittura di ostilità per la risoluzione è dimostrato dal fatto che le autorità finanziarie europee avrebbero in animo di proporre l’esclusione dal bail-in delle obbligazioni bancarie. Tutto ciò comunque nulla toglie, io credo, all’interesse oggettivo che il tema presenta per gli studiosi del diritto delle banche. Esso offre un “territorio” per molti versi ancora sconosciuto: e questo renderà ancor più prezioso il contributo di conoscenza e di costruzione che verrà dalle relazioni dei colleghi ed amici ai quali cedo ora la parola.

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I profili generali: struttura, natura, funzioni Daniele Vattermoli Sommario: 1. Premessa e delimitazione dell’analisi. – 2. La risoluzione bancaria. Profili strutturali. – 3. Segue. Profili funzionali. – 4. Segue. La natura giuridica.

1. Premessa e delimitazione dell’analisi. Mi è stato affidato il compito, arduo e allo stesso tempo gratificante, di aprire questo importante convegno sulla risoluzione bancaria. Un compito arduo, si diceva, non tanto perché si tratta della prima relazione della giornata, quanto perché ha ad oggetto niente meno che i profili strutturali e funzionali, nonché la natura giuridica della procedura di risoluzione bancaria, di cui, per ovvie ragioni, mi dovrò limitare a tracciare i lineamenti generali. Visto il poco tempo a disposizione per adempiere all’obbligazione ingenuamente assunta, entro immediatamente in medias res, non prima peraltro di aver precisato che di risoluzione bancaria può teoricamente discorrersi a diversi livelli di analisi: domestico, europeo ed internazionale puro. A livello europeo, poi, può parlarsi di risoluzione avendo a mente la Direttiva BRRD (la n. 59/2014), oppure il Regolamento n. 806/2014/UE, che istituisce il Meccanismo di Risoluzione Unico (il Single Resolution Mechanism: SRM)1. La risoluzione bancaria non muta pelle, conservando la medesima natura giuridica, indipendentemente dal livello dell’analisi prescelto: ma dato che debbo occuparmi anche degli aspetti strutturali e funzionali, credo sia necessario delimitare subito il campo di indagine, restringendolo alla sola risoluzione domestica, quella cioè disciplinata dal d.lgs. n. 180/2015, escludendo dunque dalle successive considerazioni la risoluzione gestita nell’ambito dell’SRM, che, specialmente dal punto di vista strutturale, presenta differenze non lievi rispetto a quella regolata dalla Direttiva BRRD e, a cascata, a quella interna2.

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Per un efficace sintesi delle linee generali della BRRD e del Regolamento SRM v. Stanghellini, La gestione delle crisi bancarie. La tradizione italiana e le nuove regole europee, in Ricerche giuridiche, 4, 2, 2015, pp. 323 ss. 2 In argomento cfr., da ultimo e per tutti, Del Gatto, Il Single resolution mechanism. Quadro d’insieme, in Chiti e Santoro, L’unione bancaria europea, Pisa, 2016, pp. 267 ss.

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2. La risoluzione bancaria. Profili strutturali. Si può iniziare dagli aspetti strutturali. La procedura di risoluzione in senso stretto, per tale intendendosi quella che si apre e si chiude ai sensi, rispettivamente, degli artt. 32 e 38 d.lgs. n. 180/2015 – e nella quale dunque non rientrano né i meccanismi che possono eventualmente precederla, quali le misure di intervento precoce e l’amministrazione straordinaria; né le procedure che, sempre in via eventuale, possono essere disposte successivamente alla chiusura della stessa, quale la l.c.a. –, presenta una scansione che può essere articolata in 3 fasi: –.una prima fase, che si conclude con il provvedimento d’apertura della procedura da parte della Banca d’Italia; –.una seconda fase, definibile operativa, che attiene alla esecuzione del programma di risoluzione; –.una terza fase, infine, che si conclude con il provvedimento di chiusura. A. Procedimento di apertura3. a) La prima fase prende avvio dalla valutazione di risolvibilità della banca, operata dalla Banca d’Italia al momento della preparazione e dell’aggiornamento del piano di risoluzione (art. 12, d.lgs. n. 180/2015). La banca si intende “risolvibile” quando può essere sottoposta a l.c.a. o a risoluzione minimizzando le conseguenze negative per il sistema finanziario italiano e nella prospettiva di assicurare la continuità delle funzioni essenziali (co. 2). Qualora l’ente risultasse, a seguito di tale valutazione, non risolvibile, la Banca d’Italia provvede a comunicare alla banca interessata gli elementi di criticità riscontrati, la quale dovrà proporre le misure necessarie per superarli; nel caso in cui le misure proposte non siano ritenute adeguate – o, deve ritenersi, in caso di inerzia dell’organo amministrativo della banca –, sarà direttamente la Banca d’Italia ad imporre all’ente in dissesto l’adozione di una o più delle misure contemplate dall’art. 16 d.lgs. n. 180/20154. Il sistema modellato dalla Direttiva BRRD non tolle-

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Sul quale v. Santoni, L’apertura, in questo fascicolo. Come, ad esempio, la limitazione dell’esposizione ai rischi; la cessione di alcuni beni o rapporti giuridici; la limitazione o la sospensione di determinate attività; fino a giungere ad imporre la modifica della forma giuridica o della struttura, anche finanziaria, della banca, attraverso la emissione di passività ammissibili. 4

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ra, invero, la presenza al suo interno di una banca che, all’occorrenza, non possa essere assoggettata a risoluzione, in quanto – e lo si vedrà subito appresso – tale procedura è volta al perseguimento dell’interesse pubblico. Ciò non significa che la composizione della crisi dell’ente in dissesto debba invariabilmente passare per la procedura di risoluzione, essendo ben possibile che, nel caso concreto, si opti per l’apertura della liquidazione coatta amministrativa: ciò, però, può e deve essere il frutto di una scelta dell’Autorità di vigilanza e non essere il risultato imposto da elementi endogeni all’ente creditizio. b) In questa fase, che culmina con il provvedimento di apertura, si inserisce anche la valutazione – che deve essere equa, prudente e realistica5 – della attività e delle passività dell’ente in dissesto, ex artt. 23 ss. d.lgs. n. 180/2015, operata dall’esperto nominato dalla Banca d’Italia o, qualora vi sia urgenza di provvedere, direttamente da quest’ultima, seppure in via provvisoria. Si tratta senza dubbio dell’aspetto più spinoso e delicato dell’intera procedura di risoluzione. E’ sulla scorta di tale valutazione, invero, che si decide se vi sono o meno i presupposti per aprire la risoluzione; che si sceglie lo strumento di risoluzione da adottare; che viene quantificato l’importo del bail-in6, qualora si decidesse di ricorrere a tale strumento; che vengono identificate le diverse categorie di azionisti e creditori, classificati secondo il rango vantato nell’ordine verticale di distribuzione del

5 Con riferimento al tema della valutazione del patrimonio dell’ente in dissesto, ai fini della procedura di risoluzione, particolare importanza assume il documento elaborato dall’EBA [Eba, Regulatory Technical Standards on valuation for the purposes of resolution and on valuation to determine difference in treatment following resolution under Directive 2014/59/EU on recovery and resolution of credit institutions and investment firms (Final draft), 23 maggio 2017, disponibile on line sul sito www.eba.europa.eu], contenente gli standards tecnici e l’approccio metodologico ai quali dovrebbe attenersi il soggetto incaricato della valutazione medesima. Nel documento, il cui scopo è quello di rendere quanto più possibile omogenea l’applicazione della Direttiva BRRD negli Stati membri, viene precisato che «These draft technical standards are intended to promote the consistent application of methodologies for these valuations throughout the Union. They seek not to provide detailed valuation rules for particular types of asset or liability, but rather to further specify the principles on the basis of which the independent valuer must apply their own judgement and expertise in particular cases». 6 Sembra che il termine «bail-in» – in contrapposizione al termine bail-out – sia stato per la prima volta utilizzato, per indicare il fenomeno del risanamento dell’ente creditizio in dissesto attraverso l’allocazione delle perdite tra soci ed azionisti dell’ente medesimo, nel saggio di Calello e Ervin, From Bail-out to Bail-in, in The Economist, 28 gennaio 2010.

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patrimonio dell’ente in dissesto; che viene stimato, infine, il trattamento che i soci ed i creditori riceverebbero in caso di l.c.a. Sui criteri di valutazione la disciplina è estremamente vaga, richiedendo che la stessa debba fondarsi «su ipotesi prudenti, anche per quanto concerne i tassi di insolvenza e la gravità delle perdite» (art. 24, co. 2). Cosa siano i tassi di insolvenza ed a quale scopo essi vengano richiamati non è però ben chiaro: è peraltro plausibile che ci si voglia riferire al rischio di default dei debitori della banca, al fine della valutazione prudenziale, ossia al presumibile valore di realizzo, dei crediti dell’ente medesimo (il che renderebbe coerente l’accostamento con la «gravità delle perdite»). c) Se la banca è risolvibile ed è in stato di dissesto o di rischio di dissesto, si presenta il primo snodo procedurale importante, quello della scelta della procedura di soluzione della crisi da adottare: i) c.d. bail-in debole7; oppure ii) risoluzione in senso stretto o, infine, iii) l.c.a. La risoluzione viene disposta quando l’interesse pubblico – declinato secondo la definizione in buona misura “circolare” contenuta nell’art. 20, co. 28 e la cui sussistenza nel caso specifico è accertata dalla Banca d’Italia – può essere efficacemente perseguito solo attraverso la risoluzione9.

7 Il d.lgs. n. 180/2015 prevede e disciplina, agli artt. 27-31, la misura – che può essere disposta dalla Banca d’Italia in caso di accertamento del dissesto o del rischio di dissesto dell’intermediario e indipendentemente dall’adozione di un’azione di risoluzione e che, in concreto, è stata utilizzata per far fronte alla crisi delle quattro banche italiane subito dopo la pubblicazione del decreto legislativo delegato – della riduzione del valore nominale di azioni o crediti e della conversione delle passività reali in azioni della banca. Tale misura, si applica nei soli confronti degli elementi che compongono i fondi propri dell’ente ed è strumentale alla copertura delle perdite e al rispetto, da parte dell’ente medesimo, dei requisiti prudenziali: per tale ragione, e considerati gli effetti che essa produce, la stessa può essere definita bail-in “debole” [così, in dottrina, Di Brina, Il Bailin (L’influenza del diritto europeo sulle crisi bancarie e sul mercato del credito), 2016, paper consultabile on line sul sito www.orizzontideldirittocommerciale.it], o “parziale”. È peraltro possibile che al c.d. bail-in “debole” faccia seguito il bail-in in senso stretto, come espressamente stabilito dall’art. 51, co. 3, lett. b), d.lgs. n. 180/2015. Sul punto cfr. Vattermoli, Il bail-in, in Chiti e Santoro, L’unione bancaria europea, cit., p. 519. 8 Ai sensi del quale: «La risoluzione è disposta quando la Banca d’Italia ha accertato la sussistenza dell’interesse pubblico che ricorre quando la risoluzione è necessaria e proporzionata per conseguire uno o più obiettivi indicati all’articolo 21 e la sottoposizione della banca a liquidazione coatta amministrativa non consentirebbe di realizzare questi obiettivi nella stessa misura». 9 Sui problemi connessi all’accertamento, nel caso concreto, della sussistenza dell’interesse pubblico cfr. Stanghellini, Risoluzione, bail-in e liquidazione coatta: il processo decisionale, in AGE, n. 2/2016, p. 573. Sul punto si tornerà (infra, § 3) parlando

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B. Esecuzione del programma. Nella seconda fase, quella in precedenza definita operativa, viene data esecuzione al programma di risoluzione individuato nel provvedimento di apertura, da parte dei commissari speciali nominati dalla Banca d’Italia, oppure direttamente da quest’ultima. Tale programma, nel quale vengono contemplati gli strumenti di risoluzione (bail-in; cessione dell’azienda o delle azioni dell’ente a un soggetto terzo o ad un ente-ponte; cessione di determinati elementi patrimoniali ad una società veicolo)10 ritenuti nel caso concreto più appropriati per contenere gli effetti del dissesto, ha poco o nulla a che vedere con il piano di risanamento che le banche, ai sensi degli artt. 69-quater e ss. t.u.b., debbono redigere e sottoporre alla valutazione dell’A.V. Il piano, infatti, è uno strumento di pianificazione della gestione della pre-crisi redatto dallo stesso ente creditizio, che entra in giuoco nel momento in cui si registra un significativo deterioramento della situazione patrimoniale e finanziaria del soggetto vigilato e contiene le misure volte al riequilibrio della medesima; il primo, invece, non si propone l’obiettivo del risanamento dell’ente, quanto piuttosto la salvaguardia dell’intero sistema finanziario. Il programma di risoluzione, inoltre, non è detto che coincida con il piano che l’autorità di risoluzione deve redigere ai sensi degli artt. 7 e ss. d.lgs. n. 180/201511. Non è per nulla certo, invero, che gli scenari prefigurati al momento della redazione del piano siano perfettamente aderenti alla realtà: non v’è dubbio, tuttavia, che il piano de quo possa in ogni caso fungere da supporto per l’autorità di risoluzione al momento tanto della predisposizione quanto dell’attuazione del programma12. Con riferimento all’apparato di organi della procedura13, posso limitarmi a segnalare come l’intera procedura sia retta, in ultima istanza, dalla Banca d’Italia, quale Autorità di risoluzione, la quale dovrà in alcune circostanze confrontarsi con la BCE, e che potrà eventualmente avvalersi di altri due organi, i commissari speciali ed il comitato di sorveglianza, che richiamano da vicino, anche in virtù di rinvii espressi alla relativa

della funzione della risoluzione. 10 Sugli strumenti di risoluzione v. Inzitari, Gli strumenti, in questo fascicolo. 11 Sulla differenza tra i «recovery plans» ed i «resolution plans» cfr., per tutti, Armour, Making Bank Resolution Credible, ECGI Working Paper Series in Law, Working Paper N° 244/2014, p. 10. 12 Stanghellini, Risoluzione, bail-in e liquidazione coatta, cit., p. 578. 13 Sul quale v. Perrino, Gli organi, in questo fascicolo.

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disciplina, gli organi della l.c.a. di cui al t.u.b., pur non sovrapponendosi perfettamente – quanto a funzioni e poteri – a questi ultimi. In questa seconda fase si inserisce poi il sub procedimento – anch’esso eventuale – dell’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza (art. 36). Si tratta dell’unica fase giurisdizionale della procedura che, per il resto, si presenta come una procedura di stampo schiettamente amministrativo14. Come avviene nell’ambito della l.c.a. l’accertamento deve essere effettuato “ora per allora”, prendendo in esame la situazione in cui versava l’ente al momento dell’apertura della risoluzione. Ai fini della dichiarazione dello stato di insolvenza non rilevano, dunque, i risultati in termini economici – siano essi positivi15, ovvero negativi per l’ente – realizzati durante la procedura di risoluzione. L’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza rende applicabili le norme penali e quelle sugli atti pregiudizievoli per i creditori di cui alla legge fallimentare (con l’eccezione rappresentata dall’art. 67, co. 2 l. fall.), avvicinando così, anche su tale versante, la nostra procedura alla l.c.a. bancaria. C. Chiusura. La terza fase è, come si diceva, quella di chiusura, che presuppone l’accertamento, da parte della Banca d’Italia, dell’avvenuto conseguimento degli obiettivi della risoluzione o dell’impossibilità di conseguirli (art. 38). La legge non prevede alcun potere di impulso in tal senso da parte degli eventuali organi della procedura, commissari speciali e comitato di sorveglianza, né tanto meno da parte degli organi dell’ente in dissesto: la determinazione, in un senso o nell’altro, è dunque di esclusiva competenza dell’Autorità di risoluzione. Per la legge, lo si è visto, la decisione della Banca d’Italia deve fare perno sul conseguimento degli obiettivi della risoluzione: il fatto è, però, che questi ultimi, come si avrà modo di vedere subito appresso, sono molteplici ed in certa misura autonomi l’uno dall’altro e non è detto che, nel caso concreto, siano tutti realizzabili e/o che lo siano allo stesso tempo. Nel disciplinare tale fase sarebbe stato forse meglio individuare

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Sul punto si tornerà parlando della natura giuridica della risoluzione bancaria (infra, § 4). 15 Il co. 2 dell’art. 36 conferma che «Le disposizioni del Titolo VI della legge fallimentare trovano applicazione anche quando lo stato di insolvenza è superato per effetto della risoluzione».

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il trigger event in un dato oggettivo, quale ad esempio la completa esecuzione del programma di risoluzione (o, al contrario, l’accertata impossibilità di portarlo a compimento). La chiusura della risoluzione potrebbe poi spalancare le porte alla l.c.a. di cui al t.u.b., qualora, per un verso, lo strumento di risoluzione previsto nel programma e concretamente utilizzato fosse stato la cessione di beni e rapporti giuridici ad un soggetto terzo o ad un ente-ponte; e, per altro verso, fossero residuate attività o passività in capo all’ente sottoposto a risoluzione. Dal che la chiara indicazione di ontologica alternatività tra le due procedure, peraltro già desumibile dalla disciplina in tema di apertura della risoluzione. Per concludere sul punto va aggiunto che, a differenza di quanto accade nella l.c.a. (cfr. art. 92 t.u.b.), il provvedimento di chiusura della risoluzione non è anticipato dal deposito in tribunale di “bilanci finali” e di “piani di riparto”, nella procedura de qua essendo totalmente assente la fase di distribuzione della massa attiva liquida tra gli aventi diritto sul patrimonio della banca in crisi16. D. A queste tre fasi (necessarie), se ne aggiunge infine una quarta, se si vuole esterna ed eventuale, che si apre a seguito alle contestazioni sollevate dai creditori e dai soci coinvolti nella sopportazione delle perdite dell’ente in dissesto, disciplinata nel Titolo VI (artt. 87 ss.), dedicato alle Salvaguardie e Tutela Giurisdizionale. Di tale fase non è possibile in questa sede dare conto, neanche per sommi capi17. 3. Segue. Profili funzionali. Passo a quella che può essere definita la funzione giuridicamente rilevante della risoluzione, sottolineando immediatamente un dato di particolare importanza ai fini dell’analisi. Con riferimento alla procedura de qua, a differenza di quanto avviene per altre procedure18, nessun

16 Il co. 1 dell’art. 38 d.lgs. n. 180/2015 si limita a stabilire che la Banca d’Italia, una volta dichiarata chiusa la procedura, «ordina ai commissari speciali e ai componenti del comitato di sorveglianza, ove nominati, o agli organi di amministrazione e controllo dell’ente sottoposto a risoluzione, di redigere separati rapporti sull’attività svolta nell’ambito della risoluzione. I rapporti sono trasmessi alla Banca d’Italia». 17 Su tale fase v. Amorosino, Le tutele, in questo fascicolo. 18 Sull’importanza che rivestono i casi di chiusura nella individuazione della funzione giuridicamente rilevante di una certa procedura cfr. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali4, Bologna, 2017, pp. 46 ss.

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elemento può trarre l’interprete dallo studio delle ipotesi (o dei casi) di chiusura, atteso che, come si è avuto modo di osservare, l’art. 38 d.lgs. n. 180/2015 si limita a ricollegare la chiusura medesima all’accertamento dell’avvenuto conseguimento (o dell’impossibilità del conseguimento) degli obiettivi della risoluzione. Ciò premesso, non sembra dubbio che la procedura di risoluzione sia stata in origine pensata e poi concretamente articolata per assolvere alla funzione di allocare le perdite dell’ente in dissesto all’interno del medesimo (c.d. burder sharing)19, in tal modo superando il principio, da alcuni in passato definito il “mito”20, del too big to fail, che per un lunghissimo periodo di tempo ha catalizzato l’attenzione dei legislatori nazionali e sul quale è stato costruito il sistema di safety net che, in Italia come altrove, ha di fatto consentito di scaricare i costi delle crisi bancarie sui contribuenti. Un sistema che, com’è tristemente noto, ha nel tempo generato gravi inconvenienti a livello sia di crescita incontrollata del debito sovrano, sia di incentivo all’assunzione irresponsabile del rischio da parte della proprietà e dei managers dell’ente creditizio21. Se quella appena segnalata è la “cornice funzionale” della risoluzione – sulla quale, data la complessità delle questioni di vertice che in essa confluiscono, non ho ovviamente modo di indugiare22 –, sembra di un qualche interesse in questa sede indagare se e come la stessa abbia trovato traduzione nelle norme di diritto interno. In tale ottica, particolare attenzione deve essere dedicata all’art. 21, co. 1 d.lgs. n. 180/2015, che contiene l’elenco degli obiettivi che dovrebbe perseguire la risoluzione, che vanno dalla continuità aziendale, alla stabilità finanziaria; dal contenimento degli oneri a carico delle finanze pubbliche, alla tutela dei depositanti e degli investitori protetti dai sistemi di garanzia o di indennizzo; sino alla tutela dei fondi e delle altre

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Fiordiponti, Le aspettative restitutorie di azionisti e creditori ai tempi del bail-in, in AGE, n. 2/2016, pp. 527 ss. 20 Kaufman, Are some banks too large to fail? Myth and reality, in Federal Reserve Bank of Chicago, Working Papers series, Issues of financial regulation, n. 14/1989, p. 1; Moosa, The mith of too big to fail, in Journal of Banking Regulation, vol. 11, 2010, p. 319. 21 Ringe, Bank Bail-in Between Liquidity and Solvency, in 92 Am. Bankr. L.J., 2018, p. 299 ss. 22 Esprime dubbi in ordine all’effettiva idoneità della procedura di risoluzione a salvaguardare la fiducia degli investitori nel mercato finanziario Santoni, La nuova disciplina della gestione delle crisi bancarie: da strumento di contrasto a generatore di sfiducia sistematica?, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, II, pp. 619-620.

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attività della clientela. A tali obiettivi si aggiungono poi quello della minimizzazione dei costi della risoluzione e quello di evitare, per quanto possibile, la distruzione di valore (co. 2). Ora, a parte la singolarità di alcuni degli obiettivi elencati23 e la non facilissima perimetrazione di altri24, il problema più grave che pongono norme come quella testé menzionata – che il nostro ordinamento peraltro già conosce: e mi riferisco, ad esempio, all’art. 104-bis, co. 2 l. fall. dettato in tema di scelta dell’affittuario dell’azienda nel fallimento – è che tali obiettivi sembrano collocarsi tutti sullo stesso piano, sicché diviene estremamente arduo individuare, ex ante, quello che dovrà prevalere in ipotesi di potenziale conflitto tra i medesimi. Eppure, se si presta attenzione alla disciplina dei singoli strumenti di risoluzione e alla definizione di risolvibilità, sembra corretto ritenere che la precondizione per poter procedere con la risoluzione – e dunque l’obiettivo prioritario che viene perseguito attraverso di essa – sia la continuità delle funzioni essenziali dell’ente in dissesto25. È dunque alla dimensione macroeconomica che deve volgersi lo sguardo per cogliere il senso ultimo della procedura di risoluzione, concepita – almeno nelle intenzioni – come lo strumento in grado di limitare gli effetti nefasti scaturenti dall’uscita traumatica del circuito economico di un centro di imputazione di atti e rapporti giuridici. Sotto tale ottica, l’interesse pubblico perseguito sembra potersi declinare nella ricerca della stabilità del mercato finanziario, intesa però non soltanto dal punto di vista economico, ma anche (e nei limiti del possibile) come invarianza dei (e nei) rapporti giuridici in itinere26.

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La tutela dei depositanti protetti dai sistemi di garanzia dovrebbe essere di «competenza», appunto, dei sistemi di tutela, non della disciplina della risoluzione. 24 Non è ben chiaro, invero, a quali costi della risoluzione (da minimizzare) ed a quale valore (da preservare) specificamente si alluda all’art. 21. È tuttavia presumibile che tanto i costi quanto il valore abbiano a che fare, direttamente o indirettamente, con il patrimonio dell’ente in dissesto: sul punto cfr. le osservazioni di Stanghellini, Risoluzione, bail-in e liquidazione coatta, cit., p. 570. 25 Nello stesso senso Nigro, Il nuovo ordinamento bancario e finanziario europeo: aspetti generali, in Giur. comm., 2018, I, pp. 191-192; Fiordiponti, Le aspettative restitutorie, cit., pp. 527-528; Santoni, La nuova disciplina della gestione delle crisi bancarie, cit., p. 621. 26 Che poi, almeno da questo punto di vista – ossia, prescindendo dal diverso sistema di allocazione delle perdite o di sopportazione dei costi –, coincide con l’interesse pubblico sotteso alle operazioni di liquidazione c.d. “tecnica”, che per lungo tempo hanno rappresentato lo strumento principe per la gestione delle crisi bancarie in Italia.

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Nella materia de qua, tuttavia, il trade-off non è – meglio: non può essere, per ipotesi data – tra continuità aziendale e miglior soddisfacimento dei creditori, che rappresentano i “poli funzionali” normalmente evocati nel diritto concorsuale comune, atteso che tra i principi guida della risoluzione vi è, oltre al rispetto tendenziale della par condicio creditorum, quello del No Creditor Worse Off Than in Liquidation (NCWOTL), che si traduce nell’impossibilità di riconoscere ai creditori dell’ente in dissesto un trattamento deteriore rispetto a quello che ad essi spetterebbe in ipotesi di apertura della l.c.a. di cui al t.u.b. La risoluzione deve dunque perseguire anche il miglior soddisfacimento dei creditori, che rientra così a pieno titolo tra gli obiettivi necessari della procedura, integrandone in ultima analisi la funzione giuridicamente rilevante. 4. Segue. La natura giuridica. Quanto appena detto consente di passare velocemente all’ultima parte della relazione, quella dedicata alla individuazione della natura giuridica della procedura di risoluzione. Non v’è dubbio che a tal fine un ottimo punto di osservazione possa essere offerto dal confronto con la procedura di l.c.a. bancaria, che come si è appena detto, viene evocata dal d.lgs. n. 180/2015 come termine di comparazione per la verifica del rispetto delle condizioni per l’apertura della risoluzione27. Credo che la procedura di risoluzione debba essere inquadrata – almeno nell’ipotesi, definibile tipica, in cui la stessa produca anche la rimozione degli organi ordinari della banca – tra le cc.dd. gestioni straordinarie, di natura amministrativa e a carattere ablativo28, destinata a porre rimedio a crisi di funzionamento, non necessariamente a carattere patrimoniale, reversibili e con effetti che non si esauriscono nella sfera

Sul punto v. Vattermoli, Le cessioni «aggregate» nella liquidazione coatta amministrativa delle banche, Milano, 2001, pp. 7 ss. 27 V. il già citato art. 20, co. 2 d.lgs. n. 180/2015. Sul tema dei rapporti tra risoluzione e l.c.a. v., altresì, le osservazioni di Guizzi, I rapporti con altri procedimenti o strumenti di soluzione delle crisi bancarie, in questo fascicolo. 28 E v. Caridi, L’amministrazione speciale. Struttura, funzione disciplina, in Chiti e Santoro, L’unione bancaria europea, cit., p. 466, che individua nell’amministrazione speciale, ossia nella nomina dei commissari speciali, una «gestione sostitutiva coattiva».

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dei rapporti interni all’ente che ne è assoggettato, coinvolgendo altresì le situazioni giuridiche dei terzi (in particolare, dei creditori)29. Questa proiezione verso l’esterno fa assumere alla risoluzione bancaria una connotazione del tutto peculiare nell’ambito delle gestioni straordinarie, avvicinandola, dal punto di vista degli effetti, al tipico operare delle procedure concorsuali, contraddistinte appunto dall’essere necessariamente a rilevanza esterna. D’altra parte, la risoluzione presenta i medesimi presupposti della l.c.a.; inoltre, lo si è visto, la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, possibile anche se l’ente lo abbia in un secondo momento e per effetto della risoluzione superato, rende applicabili le norme penali contenute nel Titolo VI della legge fallimentare e quelle in tema di revoca degli atti pregiudizievoli ai creditori; ed infine, gli atti posti in essere nel corso della risoluzione non sono soggetti a revocatoria. Nonostante le rilevate similitudini – di un certo peso, ai fini del discorso, proprio quella in tema di accertamento giudiziale dello stato di insolvenza –, la risoluzione bancaria non può tuttavia essere riguardata come una procedura concorsuale, per il semplice, ma decisivo rilievo, che attraverso di essa non viene attuata in forma coattiva la responsabilità patrimoniale dell’ente in dissesto30. Ed invero, nessun concorso, né sostanziale né formale, si apre tra i creditori, l’avvio della procedura non determinando alcun vincolo generale di destinazione sul patrimonio responsabile, né, conseguentemente, alcun blocco delle azioni esecutive individuali; i crediti nei confronti dell’ente non scadono al momento dell’apertura, e durante il corso della procedura non v’è sospensione del corso degli interessi31. Nel senso appena segnalato depongono, infine, le norme che stabiliscono la temporanea ed estremamente breve, ossia sino alla mezzanotte del giorno lavorativo successivo alla pubblicazione del programma di risoluzione, sospensione degli obblighi di pagamento e di consegna da parte della banca in risoluzione e la limitazione, ugualmente temporanea e breve, dell’escussione di garanzie nei confronti di quest’ultima:

29 In generale, sulle gestioni straordinarie o commissariali v. Nigro, La disciplina della crisi patrimoniale delle imprese. Lineamenti generali, in Trattato di diritto privato diretto da Bessone, XXV, Torino, 2012, pp. 114 ss. 30 Per considerazioni non del tutto coincidenti v. Terranova, Diritti soggettivi e attività d’impresa nelle procedure concorsuali, in Giur. comm., 2017, I, pp. 669 ss. (in part. 697698). 31 Fermi restando, ovviamente, gli effetti prodotti dalle singole misure di risoluzione.

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norme che, lungi dal rappresentare il riflesso della natura concorsuale della procedura di risoluzione, ne attestano, al contrario, l’irriducibilità. Eppure, come si è anticipato, è proprio alla l.c.a. (recte: al trattamento che gli azionisti ed i creditori riceverebbero nell’ambito della stessa) che il d.lgs. n. 180/2015 fa riferimento per valutare se la procedura di risoluzione sia, nel caso specifico, adottabile. a) Il confronto con la procedura concorsuale amministrativa serve in primo luogo – e lo si è visto – per fissare la soglia massima delle perdite che ciascun azionista o creditore della banca in dissesto può subire per effetto della risoluzione32. Nel diritto comune della crisi delle imprese non è la prima volta che per l’applicazione di una certa misura si utilizza come parametro di riferimento il trattamento che avrebbero ricevuto i creditori in caso di apertura di una procedura concorsuale a carattere liquidativo-satisfattivo33. Nella procedura de qua, però, c’è qualcosa di diverso, che svela, a ben vedere, la reale portata della risoluzione bancaria. Nell’art. 22, co. 1, lett. c) – replicato, sul punto, dall’art. 87, co. 1 – si fa invero riferimento alle perdite subite dagli azionisti e, eventualmente, dai creditori, per effetto della misura di risoluzione, che vengono poste in relazione con quelle che gli stessi soggetti avrebbero sopportato in caso di apertura della l.c.a. La procedura di cui ci stiamo occupando si caratterizza, allora, per il fatto non già di soddisfare crediti (e, più in generale, interessi economici), bensì di allocare perdite. Il che è pienamente in linea con quanto si è detto in precedenza, circa la non riconducibilità della risoluzione alle procedure di attuazione coattiva della responsabilità patrimoniale della banca in dissesto. La concreta operatività della risoluzione – e, in particolare, dello strumento del bail-in – deve dunque fare i conti con un modello virtuale della l.c.a., che rappresenti ciò che sarebbe accaduto (in termini, occorre ribadire, di perdite), in ipotesi di apertura della procedura concorsuale.

32 Cfr. art. 22, co. 1, lett. c): «nessun azionista e creditore subisce perdite maggiori di quelle che subirebbe se l’ente sottoposto a risoluzione fosse liquidato, secondo la liquidazione coatta amministrativa disciplinata dal t.u.b. o altra analoga procedura concorsuale applicabile»; la stessa norma, quasi ad attestarne l’importanza sistematica, è replicata, con formulazione praticamente identica, nell’art. 87, co. 1. 33 E si pensi alle norme, in tema di concordato preventivo, di cui agli artt. 160, co. 2 e 180, co. 4 l. fall.

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Restano, ovviamente, tutti i problemi legati all’assenza di un test di mercato che consenta di determinare il valore reale dell’impresa bancaria in dissesto (sia esso a going concern o di liquidazione), nella specie sostituito da mere stime34. b) L’altro pilastro sul quale si fonda la struttura edificata a protezione degli aventi diritto sul patrimonio della banca in dissesto è rappresentato dal rispetto della par condicio creditorum35, che tuttavia, inserendosi in un meccanismo di allocazione di perdite, ben può essere definita virtuale. L’espressione sembra invero particolarmente adatta a descrivere l’operatività della regola (o meccanismo) della parità di trattamento dei creditori – nella specie estesa ai soci della banca in dissesto – nell’ambito della procedura di risoluzione, attesa la portata intrinsecamente concorsuale di tale regola e la consequenziale irrilevanza che la stessa dovrebbe avere fuori dall’esecuzione (individuale o collettiva) sui beni del debitore. Le due regole assolvono una funzione complementare l’una all’altra, operando però su piani differenti. Ed invero. Se il rispetto del principio del NCWOTL risponde ad un criterio di efficienza di stampo paretiano, evitando che per mezzo della risoluzione si realizzino trasferimenti di valore a danno degli interessati, con il richiamo alla par condicio il legislatore si colloca invece sul piano dell’equità, facendo sì che l’eventuale surplus generato dalla risoluzione venga allocato – sotto forma di minori perdite – secondo l’ordine verticale e quello orizzontale di distribuzione del patrimonio responsabile, replicando, ancora una volta, la ripartizione dell’attivo in ambito concorsuale. Si può aggiungere che nella specie la regola della parità di trattamento, oltre ad essere virtuale, è altresì invertita. Posto che di essa, come si

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In generale, sui problemi connessi all’attuazione della responsabilità patrimoniale di un’impresa in dissesto in difetto di una liquidazione reale della massa attiva, ossia di un test di mercato, cfr., tra gli altri, Coogan, Confirmation of a Plan Under the Bankruptcy Code, in 32 Case W. Res. L. Rev., 1982, p. 313, nt. 62; Baird e Bernstein, Absolute Priority, Valuation Uncertainty, and the Reorganization Bargain, in 115 Yale L. J., 2006, pp. 1930 ss. (gli autori da ultimo citati riportano (a 1943) anche una frase di Black, Noise, in 41 J. Fin., 1986, p. 533, secondo il quale «all estimates of value are noisy»); Adler e Ayres, A Dilution Mechanism for Valuing Corporations in Bankruptcy, in 111 Yale L. J., 20012002, pp. 83 ss.; Bebchuk, A New Approach to Corporate Reorganization, in 101 Harvard L. Rev., 1988, pp. 775 ss. 35 Cfr. art. 22, co. 1, lett. b): «Salvo che sia diversamente previsto dal presente decreto, gli azionisti e i creditori aventi la stessa posizione nell’ordine di priorità applicabile in sede concorsuale ricevono pari trattamento e subiscono le perdite secondo l’ordine medesimo».

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è avuto modo di anticipare, occorre tenere conto non già ai fini del soddisfacimento dei creditori, bensì per “distribuire” perdite, è chiaro che in tale distribuzione si dovrà necessariamente partire da coloro che, tra tutti gli aventi diritto sul patrimonio della banca in dissesto, presentano il grado di seniority più basso, ossia gli azionisti, e procedere in senso ascendente tra le passività ammissibili, sino ai creditori privilegiati. In un ordine esattamente inverso, appunto, a quello che con funzione satisfattiva è delineato dall’art. 111 l. fall. Infine, non v’è dubbio che il perseguimento della parità di trattamento tra i creditori (e tra gli azionisti) sia solo tendenziale, attesa la possibilità per l’Autorità di risoluzione di escludere dall’ambito delle passività ammissibili determinate poste del passivo della banca. È proprio sul terreno della possibile alterazione del principio della parità di trattamento tra i creditori che sembra cogliersi uno dei riflessi più limpidi del potere discrezionale esercitabile dell’Autorità di risoluzione nella gestione dei dissesti bancari. Un potere – è opportuno sottolineare – che, visto dall’esterno, può rappresentare un serio ostacolo al mantenimento della fiducia degli investitori nella procedura di risoluzione (e, più in particolare, nello strumento del bail-in)36, con inevitabili ricadute sulla idoneità di quest’ultima ad assicurare la stabilità dei mercati. Un sistema, concludo, reso ancor più incerto ed instabile per gli investitori dal meccanismo sostitutivo del test di mercato adottato ai fini del NCWOTL, ossia la stima (operata sia ex ante sia, con funzione «riparatrice», ex post) delle attività e delle passività dell’ente in dissesto, snodo cruciale e maggiormente critico, a mio parere, dell’intera procedura di risoluzione37.

36 Non a caso, nel documento elaborato dal FSB, Principles on Bail-in execution, 21 giugno 2018, disponibile on line sul sito www.fsb.org (e sul quale cfr., Vattermoli, Introduzione ai Principle on Bail-in Execution, in Dir. banc., 2018, II, p. 113), viene posto l’accento sulla necessità che «Discretionary exclusions from the scope of bail-in and departures from pari passu treatment of similarly situated creditors should be nondiscriminatory and applied only where they are necessary to meet the resolution objectives consistent with the Key Attributes, to contain the potential systemic impact of a firm’s failure or to maximise the value for the benefit of all creditors as a whole» (Principle n. 2). 37 Fiordiponti, Le aspettative restitutorie, cit., p. 531: «per i soggetti protagonisti della partecipazione alla copertura delle perdite si prospettano conseguenze equiparate agli effetti della liquidazione, che sono però immaginati sulla base di una valutazione di prospettiva, necessariamente teorica».

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L’apertura Giuseppe Santoni Sommario: 1. Premessa. – 2. La pianificazione del risanamento. – 3. Gli strumenti di intervento precoce. – 4. Il programma di risoluzione e la valutazione-delle attività e delle passività. – 5. I presupposti della risoluzione. – 6. L’avvio del procedimento. – 7. Conclusioni.

1. Premessa. Ringrazio sentitamente i gentili ospiti professori Alessandro Nigro e Daniele Vattermoli per il cortese invito a partecipare a questo incontro di studio, su un argomento così attuale e controverso. Il tema che mi è stato affidato, l’apertura della risoluzione, suscita l’interrogativo iniziale di individuare il momento di apertura. La risposta più agevole che verrebbe spontaneo dare, anche perché di certo è formalmente la più corretta, è quella che individua tale momento nella adozione del provvedimento amministrativo di accertamento della sussistenza dei presupposti della risoluzione, e che dunque dispone l’avvio della risoluzione. Tuttavia, tale risposta finisce con il trascurare che la risoluzione deve essere considerata il culmine di un complesso processo decisionale, volto a realizzare le cinque finalità (in realtà sintetizzabili in tre) individuate come gli obiettivi della risoluzione dall’art. 31 della Direttiva BRRD, e riprese dall’art. 21 del d.lgs. 180/2015, e sui quali mi soffermerò brevemente di seguito. Ora, se si condivide che il processo decisionale a monte della risoluzione, o – se si preferisce – il meccanismo di risoluzione, sia ampio e complesso ed inizi ben prima che la procedura di risoluzione sia formalmente avviata con gli atti amministrativi che ne dispongono l’inizio, si rende necessario soffermarsi brevemente sulle componenti principali di quel processo. 2. La pianificazione del risanamento. Il primo tassello di tale processo decisionale consiste certamente nella adozione delle misure di pianificazione del risanamento della banca in crisi, ed in particolare nel cd. piano di risanamento che ciascun intermediario bancario o finanziario, in quanto sottoposto alla disciplina di risoluzione, ha l’obbligo di predisporre (art. 69-ter, t.u.b.), unitamente

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alla stipula di eventuali accordi infragruppo di sostegno finanziario (art. 69-duodecies, t.u.b.). Il cd. piano di risanamento è stato significativamente assimilato al cd. living will1, o se si preferisce testamento biologico, o DAT (dichiarazione anticipata di trattamento), come il biotestamento è denominato nella recente legge 22 dicembre 2017, n. 219, con il quale il paziente può esprimere le proprie volontà in merito ai trattamenti sanitari che intende ricevere. Il piano di risanamento, individuale o di gruppo, è rivolto a individuare i soggetti coinvolti nella eventuale ripatrimonializzazione della banca, le dimensioni degli interventi, le modalità attraverso le quali saranno attuati, i prevedibili risultati ai quali tendono, la verifica dell’idoneità della soluzione individuata a superare l’eventuale dissesto della banca La Direttiva comunitaria, e con essa la legge italiana, al riguardo hanno ripreso integralmente l’impostazione originaria del Dodd Frank Act americano, modificandola in un punto significativo. Mentre infatti per la legislazione americana la pianificazione preliminare spetta alla società bancaria o finanziaria, salvo il potere dell’autorità di controllo ed anche della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC: in breve, il Fondo federale di tutela dei depositi) di valutare la funzionalità e la credibilità del piano, ed imponendo, ove necessario delle misure correttive; invece, nel sistema della disciplina europea, il potere suppletivo delle autorità di controllo – sia europea che nazionali, secondo le rispettive competenze – è ulteriormente rafforzato con il riconoscimento di autonomi poteri di richiesta di modifiche del piano alla banca o alla capogruppo, anche con l’indicazione delle modifiche da apportare, nonché di impartire l’ordine delle modifiche da apportare e fino ad arrivare al potere di richiedere alla banca o alla capogruppo di dare attuazione al piano di risanamento, fissando un termine. Ma soprattutto, come vedremo, nel momento della concreta attuazione della risoluzione, il programma di risoluzione da attuare sarà quello predisposto dalla autorità. Proprio tale autonomo potere di pianificazione, e comunque il forte potere di controllo che la direttiva comunitaria ed i diversi ordinamenti europei assegnano alle autorità di risoluzione, nell’ambito delle rispet-

1 Vedi Guaccero, Global Crisis, Globalization of Remedies. Comparative Remarks on the Approach to Banking and Financial Crisis in the US and the EU, in Ann. dir. comp. e st. leg., 2017, p. 348.

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tive competenze, riguardo alla valutazione dei piani di risanamento, fa comprendere che l’adozione dei successivi provvedimenti di apertura della risoluzione rientrano in un quadro di pianificazione e di programmazione pubblica la cui compatibilità con una economia di mercato resta a mio avviso da giustificare. Colpisce al riguardo il ruolo che nella disciplina comunitaria ed italiana anche organismi per così dire intermedi finiscono con l’assumere, quale ad esempio il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, i cui compiti sicuramente si accentueranno ulteriormente nel momento in cui avrà definitiva attuazione il terzo pilastro dell’Unione Bancaria Europea, attraverso la istituzione di un Fondo europeo di assicurazione unico dei depositi. Uno degli aspetti più paradossali dei noti e recenti esempi di applicazione delle discipline conseguenti all’Unione Bancaria Europea risiede nella circostanza che l’italiano Fondo Interbancario di Tutela dei depositi aveva in passato una minore soggezione all’autorità di vigilanza italiana, e comunque svolgeva funzioni di pubblico interesse minore, rispetto agli omologhi tedeschi o francesi2, e dunque una maggiore autonomia decisionale, e ciò nonostante i suoi interventi sono stati ritenuti come idonei a violare la disciplina degli aiuti di stato in misura maggiore di quegli omologhi. Mentre, in nome del mercato e della sua tutela, si è venuto delineando un sistema di intervento se non di interferenza nella gestione degli intermediari da parte delle autorità pubbliche di controllo, specie europee, che non ha antecedenti nella precedente, e generalmente considerata meno liberista, esperienza italiana. Con la conseguenza che spesso il giudizio sulla misura del carattere pro-concorrenziale o meno di determinati interventi sembra essere legato non tanto alla loro entità o alle modalità previste, ma dalla considerazione di chi li pone in essere. 3. Gli strumenti di intervento precoce. Solo un cenno ad un momento ulteriore e successivo rispetto alla pianificazione della risoluzione, ma comunque anteriore rispetto alla formale emanazione del provvedimento di risoluzione. Tale momento è costituito dal ricorso ai cd. strumenti di intervento precoce, vale a di-

2 Vedi Bentivegna, Il ruolo (incerto) dei sistemi di garanzia dei depositanti nel nuovo regime, in AGE, 2016, p. 467, nt. 23.

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re dalla adozione di misure volte a anticipare ed anche a prevenire un eventuale provvedimento di risoluzione. Tra tali misure rientrano per lo più provvedimenti adottati dalle autorità di vigilanza o con il beneplacito di queste, quali ad esempio ordini di fare o non fare, rimozione di esponenti aziendali, nomina di commissari a fianco degli amministratori ed infine l’adozione della «nuova» amministrazione straordinaria3. Si tratta di misure che devono essere considerate come alternative alla risoluzione, ma la cui adozione non vale in termini assoluti ad escluderne la futura adozione, laddove si rivelino come insufficienti ad impedire il verificarsi dei relativi presupposti. 4. Il programma di risoluzione e la valutazione delle attività e delle passività. Passando alla adozione del provvedimento di risoluzione vero e proprio, va sottolineato come questo debba essere necessariamente preceduto dalla predisposizione di un programma di risanamento adottato dall’autorità di risoluzione competente, nel quale, ai sensi dell’art. 32, d.lgs. 180/15, devono essere individuate le misure di risoluzione da adottare sulla base della valutazione effettuata ai sensi degli artt. 23 e ss.; inoltre, ove tra le misure previste nel piano vi sia anche il bail in, il piano deve indicarne l’ammontare e quali categorie di passività siano escluse, in base al successivo art. 49. Tra le diverse ulteriori eventuali misure che, singolarmente o cumulativamente, il piano deve indicare vanno ricordati: la entità delle misure di burden sharing, il ricorso al fondo di risoluzione, la possibile permanenza in carica degli esponenti aziendali, la costituzione di un ente ponte e/o di una società veicolo per la gestione delle attività, con indicazioni relative ad operazioni di cessione all’ente ponte o alla società veicolo di beni e rapporti giuridici, ovvero di cessione delle partecipazioni al capitale sociale dell’ente ponte, o delle attività o passività di questo. In pratica, il programma di risoluzione prevede tutte le misure che saranno adottate con il provvedimento di risoluzione, e la sua redazione si fonda sulla valutazione equa, prudente e realistica delle attività e delle passività della banca, effettuata, ai sensi dell’art. 23, su incarico della Banca d’Italia, da un esperto indipendente, che può essere anche il com-

3 Stanghellini, Risoluzione, bail-in e liquidazione coatta: il processo decisionale, in AGE, 2016, p. 569.

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missario straordinario dell’amministrazione straordinaria. Se sussistono motivi di urgenza, la valutazione dell’art. 23 può essere sostituita da una valutazione provvisoria effettuata dalla Banca d’Italia, che include una stima motivata di eventuali ulteriori perdite. La valutazione provvisoria dovrà essere poi seguita da una valutazione definitiva: come esempio, va ricordato che nel noto caso delle quattro banche poste in risoluzione nel novembre 2015, le valutazioni a monte di tutti i provvedimenti adottati sono state provvisorie. La valutazione costituisce uno degli snodi più importanti dell’avvio della procedura di risoluzione. In primo luogo, ai sensi dell’art. 24, essa fornisce elementi affinché sia accertata l’esistenza dei presupposti della risoluzione, o comunque delle misure di burden sharing; inoltre, perché fornisce elementi per individuare le azioni di risoluzione da adottare, anche tenendo conto del piano di risoluzione elaborato dalla stessa banca o dallo stesso gruppo bancario; ancora, perché quantifica l’entità della riduzione o della conversione degli strumenti di capitale necessari per coprire la perdita, e in caso di bail-in, le passività ammissibili a riduzione o conversione; infine, se le azioni di cessione prevedono la cessione di attività e di passività ad un ente ponte o ad una società veicolo, o anche ad un soggetto terzo, perché individua i beni ed i rapporti giuridici oggetto delle rispettive cessioni. Il nesso tra valutazione e programma di risoluzione è evidente. La valutazione fornisce tutti gli elementi necessari per accertare i presupposti della risoluzione, ma fornisce anche l’indicazione del rimedio da adottare. È evidente come tale disciplina riveli il tentativo di obiettivizzare il più possibile l’accertamento dei presupposti della crisi e dei rimedi da adottare, esternalizzando le relative valutazioni ad un esperto indipendente, il quale espressamente può essere chiamato a rispondere dei danni cagionati per dolo o colpa grave (art. 23, co. 3). In realtà, come vedremo, una delle critiche più dure che è stata mossa alla nuova disciplina delle crisi bancarie è l’eccessiva discrezionalità delle autorità, sia nell’accertamento dei presupposti della crisi che dei rimedi da adottare4. L’obiettivazione, e il ricorso a prassi per così dire di mercato, quale deve essere considerata la rimessione della valutazione

4 Hanno parlato di potere «enorme» (Lener) o «near dictatorial» (Presti), citati in Fiordiponti, Le aspettative restitutorie di azionisti e creditori ai tempi del bail-in, in AGE, 2016, p. 537.

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ad una società di revisione esterna, appare tuttavia una novità più formale che sostanziale, poiché il peso “politico” delle decisioni da adottare resta comunque tutto sulla autorità pubblica competente, mentre l’intervento del revisore esterno si pone come un parere tecnico che va ad integrare e rafforzare le motivazioni dei provvedimenti da adottare. 5. I presupposti della risoluzione. Passando ad esaminare i presupposti della risoluzione, essi sono comuni anche alle altre procedure di gestione delle crisi bancarie, come esplicitamente enuncia la rubrica dell’art. 17, d.lgs. 180/15: si tratta del dissesto o del rischio di dissesto della banca ed ancora l’impossibilità di prospettare ragionevoli misure alternative che consentano di superare il dissesto o il rischio di dissesto in tempi adeguati, quali l’intervento di uno o più soggetti privati o di un sistema di tutela, o anche un’azione di vigilanza, come misure di intervento precoce o la stessa amministrazione straordinaria. Non mi dilungo sul dissesto o sul rischio di dissesto5, né sull’impossibilità di adottare misure alternative, bensì sulla circostanza che il loro accertamento è effettuato dalla Banca d’Italia, o dalla Banca Centrale Europea, secondo il riparto di competenze previsto dall’art. 19. Poiché i presupposti sono comuni a tutte le procedure e le misure di crisi, occorre verificare come l’Autorità provveda ad individuare la procedura di crisi da adottare nel caso concreto. Il criterio seguito è quello della esclusione progressiva dell’utilità del ricorso alle misure meno invasive. La prima misura è quella cd. del burden sharing, ovvero della riduzione o della conversione di azioni, di altre partecipazioni o strumenti di capitale emessi dalla banca, ove esse siano sufficienti a rimediare lo stato di dissesto o il rischio di questo. In caso di insufficienza, si ricorre alla liquidazione coatta amministrativa o alla risoluzione: a quest’ultima previo accertamento dell’interesse pubblico a conseguire gli obiettivi previsti dall’art. 21 L’ordine in cui il decreto elenca tali obiettivi è oltremodo significativo. Al primo posto è indicata la continuità delle «funzioni essenziali» della banca (peraltro non precisate): generalmente, la locuzione è fatta

5 Per il quale rinvio al mio, La disciplina del bail-in, lo stato di dissesto e la dichiarazione dello stato di insolvenza, in AGE, 2016, pp. 516 e ss.

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coincidere dagli interpreti con la continuità aziendale, al punto che più di un autore concorda con la definizione della risoluzione come concordato coatto con continuità aziendale6. La formula, suggerita da Gaetano Presti, è fortunatissima e molto citata7, ma si basa in realtà su un ossimoro, che, a mio avviso, anziché spiegare, confonde le idee. Infatti, a meno di ritenere il piano di risanamento predisposto (per legge) dalla banca o dal gruppo bancario come una sorta di piano concordatario, dal quale peraltro ben può discostarsi il programma di risoluzione adottato dall’autorità, non si comprende dove sia l’accordo negoziale che dovrebbe caratterizzare il concordato. Che poi l’accordo sia qualificato come coatto, rende ancora più evidente l’artificio retorico che è celato dalla brillante formulazione. Ciò chiarito, non vi è dubbio che la continuità aziendale costituisca il primo tra tutti gli obiettivi che la norma intende perseguire attraverso la risoluzione, con ciò individuando nell’interruzione della attività (e direi: in primo luogo, la chiusura degli sportelli, ed il panico fra i risparmiatori che essa genera) l’evento principale da evitare ed impedire al verificarsi della crisi bancaria: ciò che ne spiega la collocazione al primo posto fra gli obiettivi, e prima di altri di portata apparentemente più generale. Gli ulteriori obiettivi della risoluzione indicati nell’art. 21 sono: di evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria, in particolare attraverso la prevenzione del contagio, mantenendo la disciplina di mercato, e salvaguardando i fondi pubblici, senza ricorrere o riducendo al minimo il ricorso al sostegno finanziario pubblico straordinario; la tutela dei depositanti e degli investitori oltre che dei fondi e delle altre attività dei clienti. Le valutazioni effettuate dall’autorità di vigilanza sono di particolare importanza per comprendere il meccanismo della risoluzione, i cui principi sono enunciati nell’art. 22, in otto punti, elencati dalla lettera a) alla lettera h), i primi quattro dei quali fanno tutti riferimento alle perdite e all’ordine e ai modi nei quali sono ripartite: il primo, e a mio avviso più significativo criterio, è che le perdite sono subite dagli azionisti e dai creditori nell’ordine e nei modi stabiliti dal decreto.

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Vedi Presti, Il bail-in, in Banca, impr., soc., 2015, p. 346 La condivide, tra gli altri, Calandra Buonaura, La disciplina del risanamento e della risoluzione delle banche. Aspetti critici, in Orizzonti del diritto commerciale, 2017, p. 7. 7

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Tali ordine e modi hanno suscitato un vivace dibattito sul se la risoluzione sia o meno una procedura concorsuale, nel senso cioè se essa sia ispirata ai principi del concorso. Al riguardo, è stato sottolineato con forza da Bruno Inzitari, come la banca sottoposta a risoluzione sia innanzitutto sottoposta ad un vero e proprio spossessamento8, perché viene meno ogni potere decisionale dell’assemblea; gli organi di amministrazione e controllo decadono (ma come visto, non necessariamente); i commissari speciali assumono la rappresentanza legale e poteri di tutti gli organi sociali, oltre ad assumere il potere di dare esecuzione alle misure di risoluzione (art. 37) e a promuovere l’azione sociale di responsabilità e quella dei creditori sociali; azione che, nel caso di mancata nomina dei commissari può essere esercitata anche da un commissario ad acta all’uopo nominato. Tuttavia, e ricollegandomi idealmente alle numerose altre considerazioni svolte oggi da Daniele Vattermoli, deve essere osservato che l’art. 22, co. 1, lettera b), prevede che «salvo che sia diversamente previsto dal presente decreto, gli azionisti e i creditori aventi la stessa posizione nell’ordine di priorità applicabile in sede concorsuale ricevono pari trattamento e subiscono le perdite secondo l’ordine medesimo». Dunque, proprio tale principio generale della risoluzione prevede espressamente che il principio di parità di trattamento possa essere derogato dal decreto. Ed infatti, l’art. 52, co. 2, lett. a), dopo avere enunciato che le misure di bail-in sono disposte «in modo uniforme nei confronti di tutti gli azionisti ed i creditori dell’ente appartenenti alla stessa categoria, proporzionalmente al valore nominale dei rispettivi strumenti finanziari o crediti, secondo la gerarchia applicabile in sede concorsuale e tenuto conto delle clausole di subordinazione (…)», precisa «salvo quanto previsto dall’art. 49, commi 1 e 2». Le disposizioni oggetto del richiamo elencano le passività, vale a dire – per usare il lessico giuridico – i crediti verso la banca esclusi dal bail-in, per legge o in via eccezionale individuati dalla Banca d’Italia, previa adozione del procedimento previsto dal successivo co. 4. Si tratta di passività che espressamente (art. 49, co. 3, lett. a), «possono ricevere un trattamento più favorevole rispetto a quello che spetterebbe a passività ammissibili dello stesso grado o di grado sovraordinato se l’ente sottoposto alla risoluzione fosse liquidato, secondo la liquidazione coatta

8 Vedi Inzitari, La risoluzione e la condivisione concorsuale delle perdite, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di Jorio e Sassani, V, Milano, 2016, p. 1219.

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amministrativa disciplinata dal Testo Unico Bancario o altra analoga procedura concorsuale applicabile». Personalmente, ho difficoltà a capire come si possa conciliare tale disposizione con il principio no creditor worse off (NCWO). Tale principio vieta ogni trattamento del creditore deteriore rispetto a quello che avrebbe ricevuto se la banca fosse stata assoggettata alla liquidazione coatta amministrativa. Esso è considerato come il principale presidio di tutela del creditore della banca assoggettata a risoluzione, ed è ribadito in varie norme: in primo luogo nell’art. 52, co. 2, lett. b), ma anche e soprattutto negli artt. 87, 88 e 89, norme che prevedono l’obbligo di procedere ex post ad una nuova valutazione, da parte di un esperto indipendente, incaricato dalla Banca d’Italia, che può essere anche il medesimo esperto che aveva effettuato la valutazione ex art. 23 e ss. Si tratta di una valutazione, che può condurre anche a riconoscere il diritto del creditore trattato in modo deteriore a ottenere un indennizzo equivalente alla differenza tra il trattamento ricevuto e quello che gli sarebbe spettato se la banca fosse stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa. Ciò che non mi riesce di capire è come sia possibile che una certa categoria di creditori, quelli esclusi dal bail-in, possano ricevere un trattamento più favorevole rispetto a quello che sarebbe loro spettato in caso di l.c.a., senza che le altre categorie di creditori, assoggettate al concorso che si sarebbe avviato con la l.c.a., non ricevano inevitabilmente in conseguenza di ciò un trattamento peggiore. Ne consegue che, a mio avviso, si deve escludere che la procedura di risoluzione possa essere ritenuta una procedura concorsuale, vale a dire con regole di concorso assimilabili a quelle regolate dalla legge fallimentare. 6. L’avvio del procedimento. Passando ora ad esaminare i profili procedimentali dell’avvio della risoluzione, va innanzitutto rilevato che il provvedimento di avvio della risoluzione emanato dalla Banca d’Italia deve essere previamente approvato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, il cui decreto è espressamente condizione di efficacia del provvedimento della Banca d’Italia (art. 32, co. 2). La Banca d’Italia può determinare la decorrenza degli effetti del provvedimento solo dopo aver ricevuto la comunicazione dell’approvazione da parte del MEF. Inoltre il provvedimento di avvio è trasmesso alla BCE, all’ente sottoposto a risoluzione e agli ulteriori destinatari (sistemi di garanzia e autorità previste dall’art. 32, co. 4).

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La Banca d’Italia può attuare il programma di risoluzione dando esecuzione alle misure previste sia con propri provvedimenti di carattere particolare, sia demandando ai commissari speciali il compimento di atti; in entrambi i modi possono essere adottati atti che tengono luogo di quelli spettanti agli organi sociali, agli azionisti e ai detentori di altre partecipazioni. La norma appena enunciata, contenuta nell’art. 34, è di particolare importanza, perché consente alle autorità o anche ai commissari speciali di dar luogo alle riduzioni e alle conversioni delle azioni o degli altri strumenti finanziari, che costituiscono la prima e più radicale misura conseguente all’accertamento dello stato di dissesto della banca. Venendo poi alle misure di risoluzione, esse sono disciplinate negli artt. 39 e ss. Le misure possibili previste dall’art. 39 sono: 1) la cessione in blocco dei beni e dei rapporti giuridici ad un soggetto terzo, vale a dire ad un’altra banca, già esistente sul mercato. Si tratta della misura più vicina alla “vecchia” cessione delle attività e passività a favore di una banca acquirente, che si pone come “cavaliere bianco”; 2) la cessione d’azienda ad un ente ponte (o cd. bridge bank), il quale dovrà essere altresì dotato di adeguati mezzi finanziari, nonché essere tempestivamente autorizzato all’esercizio dell’attività bancaria; 3) il bail-in, come disciplinato negli artt. 48 ss.; 4) la cessione di beni e rapporti giuridici ad una società veicolo per la gestione di attività, che tuttavia può essere adottato solo congiuntamente ad una delle altre tre. Non mi dilungo sul contenuto delle varie misure, nell’odierno convegno oggetto di altre relazioni; vorrei però esprimere la mia profonda perplessità sulla efficienza dello strumento costituito dall’ente ponte, per come è risultato nella vicenda delle quattro banche. Esso infatti trova la sua giustificazione nella esigenza di creare una discontinuità tra la banca sottoposta a risoluzione e l’esigenza di continuare l’attività bancaria. Tuttavia, l’ente ponte si è rivelato uno strumento del tutto inadeguato a creare la discontinuità necessaria. L’attività bancaria continua ad essere svolta negli stessi locali, dalle stesse persone, fatto salvo il cambio del vertice aziendale (ove questo avvenga) e perciò la clientela non avverte nessun mutamento di identità del soggetto bancario. In breve, e a mio avviso, lo strumento dell’ente ponte è del tutto incapace di funzionare e personalmente esprimo l’auspicio ed il suggerimento non solo che esso non venga più utilizzato in futuro, ma anzi che esso venga emendato dalla disciplina di legge.

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7. Conclusioni. Vengo rapidamente alle conclusioni, nelle quali svolgerò alcune considerazioni sulle critiche più diffuse rivolte al sistema normativo come sopra delineato. Una prima critica si riferisce alla circostanza che le misure adottate dal legislatore comunitario per far fronte alla grande crisi finanziaria non sono state focalizzate solo sul salvataggio delle banche in difficoltà, come è avvenuto negli USA, da cui pure quelle misure hanno tratto ispirazione. Esse infatti hanno avuto come principale obiettivo di evitare distorsioni concorrenziali tra banche sane e banche in difficoltà, oltre che appartenenti a Stati membri differenti. È stato al riguardo osservato9 che la natura peculiare del sistema giuridico dell’UE, basato su una sorta di doppia sovranità, per il quale gli aiuti di Stato sono concessi dagli Stati membri, ma il rispetto delle norme sulla concorrenza è imposto a livello dell’UE, ha finito per concedere alla Commissione un ruolo chiave nella legislazione emanata in risposta alla crisi riguardante il controllo sui salvataggi da effettuarsi con fondi pubblici. E ciò nonostante che la legislazione comunitaria sia molto più permissiva di quella statunitense nel consentire aiuti di stato alle banche in difficoltà. A ciò si aggiungano le dure critiche mosse non solo all’eccessiva discrezionalità in generale concesse alle diverse autorità che intervengono per accertare i presupposti degli interventi e delle procedure previste dalla Direttiva BRRD, oltre che nella individuazione delle misure da adottare, ma anche alla sovrapposizione di competenze tra le diverse autorità. Una delle carenze maggiori della nuova disciplina delle crisi bancarie è da rinvenire proprio nell’eccessiva frammentazione dei poteri di decisione e di intervento tra diverse autorità, le quali devono pervenire quasi a concertare le proprie decisioni, con tempi inevitabilmente lunghissimi e perciò incompatibili con le esigenze di rapidità imposte dal contrasto dei dissesti bancari e dal conseguente pericolo di contagio. In particolare, nella gestione delle crisi bancarie italiane è emerso un potere eccessivo che la Commissione Europea si è attribuito, in forza delle proprie competenze relative alla tutela del mercato, con la conseguenza che ha finito con il condizionare scelte riguardanti materie sicuramente estranee alle sue valutazioni, quale ad esempio il valore da attribuire ai crediti in sofferenza10.

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Vedi Guaccero, Global Crisis, cit., p. 358. Cfr. Giunta e Rossi, Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la Grande

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La sensazione complessiva è che la nuova legislazione comunitaria in materia di crisi bancarie, andando oltre le roboanti dichiarazioni di principio di salvaguardia del sistema bancario europeo, avesse come finalità principale quella di concedere agli organi comunitari un controllo più pregnante sulla erogazione degli aiuti di stato alle banche nazionali da parte dei singoli stati membri. Il che si è tradotto in concreto nell’uscita dal mercato italiano di alcune banche poco significative: è evidente, invece, che l’eventuale uscita dal mercato di una banca sistemica giustifichi, come di fatto ha giustificato nel caso Monte dei Paschi, un aiuto di stato di ingente portata per evitare il contagio. Tuttavia, l’esperienza delle quattro banche ha dimostrato come la crisi di fiducia nel sistema bancario ed il pericolo di contagio possano essere generati anche per vicende relative a banche di piccole dimensioni, specie se per ragioni di lotta e di speculazione politica si dà un clamore mediatico suicida per il Paese che lo asseconda: le crisi bancarie si gestiscono in silenzio, come Beneduce e una prassi ormai quasi secolare della Banca d’Italia hanno insegnato. Delle crisi bancarie meno si parla, soprattutto sui giornali e nei talk show televisivi, e meglio è. Non possono essere perciò condivise le critiche fondate sul rilievo della incompatibilità della opacità della gestione delle crisi bancarie, come affrontate in Italia, con il metodo democratico imposto dalla legislazione europea. Al riguardo, si deve rilevare che la trasparenza avrebbe dovuto riguardare semmai il processo legislativo che ha condotto all’approvazione della nuova disciplina che si sta esaminando, attraverso la sottoposizione al dibattito parlamentare e alla pubblica opinione dell’esame dei costi, con l’indicazione dei rispettivi destinatari, delle diverse opzioni possibili, come ad esempio avvenne negli USA, in occasione dell’approvazione del Banking Act del 193311. Ed invece l’attenzione vivacissima della classe politica e della pubblica opinione italiana dedicata

Crisi, Bari, 2017, p. 193; Calandra Buonaura, La disciplina, cit., p. 11, nt. 15. 11 Sul punto, cfr. Giordano, Storia del sistema bancario italiano, Roma, 2007, p. 46, il quale pone a confronto la vivacità del dibattito parlamentare statunitense che portò all’emanazione del Glass Steagall Act, con l’assoluta segretezza a seguito della quale furono portati a compimento dei coevi salvataggi bancari italiani (su cui, cfr. ivi, pp. 36 ss.). L’A. non manca peraltro di sottolineare come il modus operandi italiano sollevò all’epoca vivaci critiche, e ricorda tuttavia i diversi esiti del salvataggio del Credito Italiano, nel febbraio 1931, rispetto a quello pubblico, quasi contemporaneo (maggio 1931), del Creditanstalt austriaco, il cui fallimento generalmente è considerato come la vicenda che diede inizio alla grande crisi bancaria europea di quegli anni.

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alle crisi bancarie degli ultimi anni finisce con il porsi in fortissimo contrasto con la quasi assoluta disattenzione dedicata alla emanazione della predetta disciplina, anche quando adottata a livello comunitario. La diffusa diffidenza, causata dall’incomprensione degli obiettivi generali perseguiti, mi spinge a condividere e sottoscrivere la previsione formulata da Alessandro Nigro nella introduzione all’odierno convegno, secondo cui la risoluzione non è attesa da un luminoso futuro.

Gli organi Michele Perrino Sommario: 1. Premessa. Interazione degli organi delle procedure di risoluzione. – 2. Organi a livello europeo. Il Fondo unico di Risoluzione. – 3. Il Comitato di risoluzione unico. – 4. Consiglio e Commissione. – 5. I Collegi di risoluzione. – 6. Organi a livello nazionale. La Banca d’Italia. – 7. Ministero Economia. Commissari speciali. – 8. L’amministratore speciale. L’amministratore temporaneo. – 9. Comitato di sorveglianza. – 10. Gli organi della società bancaria. – 11. I riflessi sull’organo amministrativo. – 12. L’impatto sulla competenza decisionale dei soci. – 13. Valutazioni d’insieme e conclusive.

1. Premessa. Interazione degli organi delle procedure di risoluzione. Nell’accingermi ad affrontare il tema assegnatomi degli “organi” della risoluzione bancaria, mi prendo la libertà di interpretarlo in termini allargati: non solo trattando degli organi in senso stretto deputati all’applicazione e attuazione delle procedure di risoluzione, ma anche degli stessi organi della società bancaria, nella misura in cui in vario modo coinvolti in tale contesto. A tal fine, nell’individuare anzitutto gli organi delle procedure di risoluzione, occorre distinguere il livello europeo da quello nazionale, pur nella loro stretta interrelazione e necessità di raccordo (cfr. cons. 38 e 54 Reg. CE 15 luglio 2014, n. 806/2014, sulla necessità di memorandum di intesa fra Comitato di risoluzione unico e autorità di risoluzione nazionali). In particolare, la reciproca interazione degli organi delle procedure di risoluzione bancaria è governata da regole che disciplinano: l’obbligo del segreto (art. 5 d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180; art. 88, Reg. n. 806/2014; ma v. anche l’art. 32, co. 7, sulla disapplicazione della l. n. 241/1990, e l’art. 60, co. 2, d.lgs. n. 180/2015, sulla generale dispensa di BItalia da informazioni, comunicazioni, depositi e registrazioni circa l’esercizio dei poteri di risoluzione); la collaborazione fra autorità (art. 6,

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d.lgs. n. 180/2015; anche art. 3, co. 6) anche degli altri stati membri (art. 30, 76 d.lgs. n. 180/2015), nonché fra organi della procedura di risoluzione e organi della banca (art. 9, art. 30, d.lgs. n. 180/2015), fra Comitato e organismi del SSM (cons. 89 Reg. n. 806/2014), fra Commissione UE e Comitato di risoluzione unico (cfr. art. 18, co. 10, Reg. n. 806/2014/2015: «La Commissione ha il potere di ottenere dal Comitato tutte le informazioni che ritiene pertinenti per svolgere i compiti che le sono attribuiti»). 2. Organi a livello europeo. Il Fondo unico di Risoluzione. Com’è noto, nell’architettura dell’Unione bancaria europea, il sistema unico di risoluzione delle crisi (Single Resolution Mechanism, SRM), attuato a mezzo della Direttiva del 15 maggio 2014, n. 2014/59/UE (Bank Recovery and Resolution Directive-BRRD) e del Regolamento UE n. 806/2014 – con la previsione di norme di procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi, che contemplano fra l’altro la costituzione di un Fondo Unico di Risoluzione (Single Resolution Fund) – costituisce uno dei tre pilastri (il secondo) del c.d. Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU) o Single Supervisory Mechanism (SSM)1. L’esigenza di unificazione delle regole e degli strumenti si lega alla necessità che il costo del denaro e più ampiamente dei servizi bancari dipenda dal merito creditizio delle banche e della clientela, anziché dal luogo di stabilimento delle banche e dalle diversità dei relativi contesti normativi e amministrativi nella gestione delle crisi bancarie e nell’apprestamento delle risorse per farvi fronte. Di qui, in particolare, anche la necessità della creazione di un Fondo di risoluzione unico e di un Comitato di risoluzione unico per la gestione e amministrazione di quel Fondo. Quanto in particolare al Fondo, la cui istituzione e applicazione è regolata in modo uniforme dal Reg. UE n. 806/2014, si tratta – come precisa il cons. 19 di quest’ultimo provvedimento – di «un elemento essen-

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Insieme agli altri due pilastri: 1) il rafforzamento delle regole di vigilanza prudenziale, mediante istituzione del SEVIF (Sistema Europeo Vigilanza Finanziaria, risultante da tre autorità di vigilanza: EBA-European Banking Autority, ABE in italiano; EIOPA-European Insurance and Occupational Pensions Authority, AEP in italiano; ESMAEuropean Securities and Market Authority, AESFEM in italiano); 2) il sistema unico di garanzia dei depositi, istituito in base alla direttiva 2014/49/UE. Il SEVIF è peraltro affiancato dallo ESRB-European Systemic Risk Board (Comitato Europeo per il Rischio Sistemico).

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ziale senza il quale l’SRM non potrebbe funzionare adeguatamente. Se il finanziamento della risoluzione rimanesse nazionale per lungo tempo, il legame tra emittenti sovrani e settore bancario non si romperebbe del tutto e gli investitori continuerebbero a fissare le condizioni di prestito basandosi sul luogo di stabilimento delle banche piuttosto che sul loro merito di credito». Il Fondo è così chiamato alla funzione di «evitare che prassi nazionali divergenti ostacolino l’esercizio delle libertà fondamentali o falsino la concorrenza nel mercato interno». A tal fine, «è opportuno che il Fondo sia finanziato mediante contributi versati dalle banche a livello nazionale e che le sue risorse siano messe in comune a livello dell’Unione»: il Fondo è infatti alimentato con contributi ordinari ex ante e straordinari ex post da parte di tutti gli enti creditizi oggetto del SSM (cfr. artt. 70-71 Reg. n. 806/2014). 3. Il Comitato di risoluzione unico. In base al Considerando n. 11, Reg. UE n. 806/2014, «nel contesto del meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism, SRM), un potere di risoluzione centralizzato per gli Stati membri partecipanti è affidato al Comitato di risoluzione unico istituito ai sensi del presente regolamento («Comitato») e alle autorità nazionali di risoluzione». Il Comitato (Single Resolution Board, CRU), ai sensi dell’art. 42, Reg. n. 806/2014, «è un’agenzia dell’Unione con una struttura specifica corrispondente ai suoi compiti. Esso ha personalità giuridica»; ed in ciascuno Stato membro «gode della più ampia capacità giuridica riconosciuta alle persone giuridiche dall’ordinamento giuridico nazionale», potendo in particolare acquistare o alienare beni mobili e immobili e stare in giudizio. È composto da 5 membri, oltre ad un componente «nominato da ciascuno Stato membro partecipante in rappresentanza delle loro autorità nazionali di risoluzione» (art. 43 Reg. n. 806/2014). Per di più, «la Commissione e la BCE designano ciascuna un rappresentante, che ha il diritto di partecipare alle riunioni delle sessioni esecutive e delle sessioni plenarie in qualità di osservatore permanente», di «partecipare alle discussioni» e di «accesso a tutti i documenti». Esso è il proprietario del Fondo di risoluzione unico (art. 67, co. 3, Reg. 806/2014), lo amministra (art. 75, Reg. 806/2014) e vi ricorre «solo al fine di garantire un’applicazione efficiente degli strumenti e poteri di risoluzione» (art. 67 e 76, Reg. n. 806/2014).

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Riguardo in particolare ai poteri e funzioni del Comitato dell’organo in esame, esso assume le decisioni in tema di risoluzione di società e gruppi bancari posti sotto la vigilanza diretta della BCE, cioè le banche più significative, con il compito di applicare le regole e le procedure uniformi, sancite dal Reg. n. 806/2014, e di farlo «insieme al Consiglio e alla Commissione e alle autorità nazionali di risoluzione nell’ambito del meccanismo di risoluzione unico (SRM)» (art. 1, co. 2, Reg. n. 806/2014). In dettaglio, il Comitato «è incaricato di elaborare i piani di risoluzione e di adottare tutte le decisioni relative alla risoluzione per: a) le entità di cui all’articolo 2 che non fanno parte di un gruppo e i gruppi: i) che sono considerati significativi a norma dell’articolo 6, paragrafo 4, del Regolamento (UE) n. 1024/2013 o ii) in relazione ai quali la BCE ha deciso, a norma dell’articolo 6, paragrafo 5, lettera b), del regolamento (UE) n. 1024/2013, di esercitare direttamente tutti i poteri pertinenti e b) altri gruppi transfrontalieri» (art. 7, Reg. n. 806/2014). E adotta il programma di risoluzione anche per le altre banche e gruppi, «se l’azione di risoluzione richiede l’utilizzo del Fondo» (art. 7, co. 3, cpv. 2, Reg. n. 806/2014). Quindi, può (art. 7, Reg. n. 806/2014) estendere la sua azione anche alle banche che non costituiscono oggetto di vigilanza diretta della BCE. Infatti, «ove necessario, per garantire un’applicazione coerente di standard elevati di risoluzione», in seguito alla notifica da parte di un’autorità nazionale di risoluzione di una misura di risoluzione in itinere, il Comitato può «effettuare una segnalazione all’autorità nazionale di risoluzione pertinente, qualora il Comitato ritenga che il progetto di decisione», sia pure riferito a un’entità o un gruppo diversi da quelli soggetti a vigilanza diretta della BCE, non è conforme con il regolamento o con le sue istruzioni generali; per arrivare perfino ad una sostituzione forzosa, cioè decidere in qualsiasi momento, in particolare se la propria segnalazione suddetta non è trattata in modo adeguato, di propria iniziativa e previa consultazione dell’autorità nazionale di risoluzione interessata o su richiesta di quest’ultima, di esercitare direttamente tutti i poteri pertinenti a norma del regolamento, anche in relazione a qualsiasi entità o gruppo bancario diverso da quelli per cui il Comitato funge come sopra da autorità di risoluzione. 4. Consiglio e Commissione. Malgrado la latitudine dei poteri descritti, il CRU resta una autorità priva di una significativa autonomia decisionale paragonabile a quella delle autorità di risoluzione nazionali, come vedremo specificamente a

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proposito della Banca d’Italia. Esso opera infatti sotto il controllo incisivo della Commissione e del Consiglio; il che, come è stato notato2, si legherebbe alla preoccupazione di non violare la c.d. “dottrina Meroni” – di cui alla decisione C. Giustizia 13 giugno 1958, casi riuniti C-9/56 e C-10/56 Imprese Meroni e c., industrie metallurgiche, spa v. Alta Aut. CECA – nel senso che la disciplina in esame, nel prevedere un coinvolgimento di Commissione e Consiglio nella azioni del Comitato, sarebbe giustificata dal divieto di delega da parte delle istituzioni dell’Unione di «un potere discrezionale che comporti una ampia libertà di valutazione ed atto ad esprimere, con l’uso che ne viene fatto, una politica economica vera e propria»; mentre «non vi ricadrebbero invece dei poteri d’esecuzione nettamente circoscritti, ed il cui esercizio può per ciò stesso venir rigorosamente controllato in base a criteri obiettivi stabiliti dall’autorità delegante»3. In definitiva: alla Commissione spetta la valutazione della conformità al quadro ordinamentale delle decisioni discrezionali assunte dal Comitato; al Consiglio competono poteri di esecuzione e di controllo su proposta della Commissione. Tale riparto di funzioni, in ordine al coinvolgimento di Commissione e Consiglio nelle decisioni del CRU, si traduce nell’iter complesso previsto dall’art. 18, Reg. n. 806/2014, per l’adozione di una procedura di risoluzione europea. In particolare, il CRU adotta un programma di risoluzione (art. 18, co. 1, Reg. n. 806/2014): a) se «l’entità è in dissesto

2

Cfr. Sorace, I «pilastri» dell’Unione bancaria, in L’Unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, Pacini, 2016, p. 110; Del Gatto, Single resolution mechanism. Quadro d’insieme, ivi, p. 286. 3 Eloquente è in tal senso il Considerando 24 Reg. n. 806/2014: «Dato che solo le istituzioni dell’Unione possono stabilire la politica di risoluzione dell’Unione e che l’adozione di ogni specifico programma di risoluzione lascia un margine di discrezionalità, è necessario prevedere un’adeguata partecipazione del Consiglio e della Commissione in quanto istituzioni che possono esercitare competenze di esecuzione a norma dell’articolo 291 TFUE. La valutazione degli aspetti discrezionali delle decisioni di risoluzione assunte dal Comitato dovrebbe essere operata dalla Commissione. Stante il notevole impatto delle decisioni di risoluzione sulla stabilità finanziaria degli Stati membri e sull’intera Unione nonché sulla sovranità di bilancio degli Stati membri, è importante che al Consiglio siano conferiti i poteri di esecuzione necessari all’adozione di determinate decisioni in materia di risoluzione. Dovrebbe pertanto essere il Consiglio, su proposta della Commissione, ad esercitare un controllo efficace sulla valutazione fatta dal Comitato della sussistenza di un interesse pubblico e a valutare eventuali modifiche non irrilevanti dell’ammontare delle risorse del Fondo da utilizzare per un dato intervento di risoluzione».

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o a rischio di dissesto» b) se, «considerate la tempistica e altre circostanze pertinenti, non si può ragionevolmente prospettare che qualsiasi misura alternativa per l’entità in questione […] permetta di evitare il dissesto dell’entità in tempi ragionevoli» c) se «l’azione di risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico». La valutazione circa la sussistenza di quest’ultimo presupposto, la necessità cioè dell’azione di risoluzione «nell’interesse pubblico», è quanto mai terreno di discrezionalità; dal che l’esigenza di coinvolgimento della Commissione e del Consiglio nella valutazione di tale presupposto, che l’art. 18, co. 5, Reg. n. 806/2014, individua nel senso che l’azione di risoluzione è considerata nell’interesse pubblico se: è necessaria al conseguimento di uno o più obiettivi della risoluzione di cui all’articolo 14; ed è ad essi proporzionata; e se la liquidazione dell’ente con procedura ordinaria di insolvenza non consentirebbe di realizzare tali obiettivi nella stessa misura. Basti pensare alle divergenti valutazioni operate dal CRU nella decisione del 7 giugno 2017 di avvio della risoluzione del Banco Popular Español S.A.4, poi realizzata con la cessione al Banco Santander, argomentando nel senso del cospicuo impatto che l’applicazione della ordinaria procedura di insolvenza (anche considerata l’applicabilità alle banche in Spagna della stessa legislazione dell’insolvenza prevista per le altre imprese, salvo alcuni adattamenti) avrebbe avuto sulla stabilità del sistema, stante fra l’altro la dimensione del gruppo, l’ampiezza della sua azione e le sue interconnessioni; e nelle decisioni del 23 giugno 2017 di negato avvio invece della risoluzione per Banca popolare di Vicenza e veneto Banca s.p.a.5, con considerazioni basate assai succintamente su: la limitatezza della clientela, con implicito riferimento – come spiega la Banca di Italia sul suo sito6 – alla limitata sfera territoriale di operatività; la ridotta interconnessione con altre istituzioni finanziarie, tale da limitare i rischi sistemici di stabilità; l’idoneità di una liquidazione dell’ente con procedura ordinaria di insolvenza a realizzare adeguatamente gli interessi coinvolti (con il che la giustificazione ripete sostanzialmente il tenore dell’art. 18, co. 5, Reg. n. 806/2014, senza aggiungere alcuna esplicazione).

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Cfr. https://srb.europa.eu/en/content/banco-popular. Cfr. https://srb.europa.eu/en/content/banca-popolare-di-vicenza-veneto-banca. 6 Cfr. https://www.bancaditalia.it/media/notizia/domande-e-risposte-sulla-soluzione-dellacrisi-di-veneto-banca-e-banca-popolare-di-vicenza. 5

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Ai sensi dell’art. 18, co. 7, Reg. n. 806/2014, «immediatamente dopo l’adozione del programma di risoluzione»; e prima di procedere alla sua effettiva attuazione, «il Comitato lo trasmette alla Commissione». Quindi, «entro 24 ore dalla trasmissione del programma di risoluzione da parte del Comitato, la Commissione lo approva o obietta ad esso per quanto riguarda gli aspetti discrezionali del programma di risoluzione»; infine, «entro 12 ore dalla trasmissione del programma di risoluzione da parte del Comitato, la Commissione può proporre al Consiglio: a) di obiettare al programma di risoluzione a motivo del fatto che il programma di risoluzione adottato dal Comitato non soddisfa il criterio dell’interesse pubblico»; «b) di approvare o di obiettare a una modifica significativa dell’importo del Fondo previsto nel programma di risoluzione del Comitato». Obiezioni e proposte di modifica di Commissione e Consiglio non possono essere disattese dal CRU. Infatti, «il programma di risoluzione può entrare in vigore soltanto se il Consiglio o la Commissione non hanno espresso obiezioni entro un periodo di 24 ore dopo la trasmissione da parte del Comitato». Qualora invece, «entro 24 ore dalla trasmissione del programma di risoluzione da parte del Comitato, il Consiglio abbia approvato la proposta della Commissione per la modifica del programma di risoluzione per motivi connessi all’utilizzo del Fondo o la Commissione abbia obiettato» relativamente ai profili discrezionali del programma, «il Comitato, entro otto ore, modifica il programma di risoluzione conformemente alle motivazioni espresse». Radicale è peraltro l’effetto preclusivo dell’opposizione eventualmente espressa dal Consiglio «a sottoporre un ente a risoluzione a motivo del fatto che il criterio di interesse pubblico di cui al paragrafo 1, lettera c), non è soddisfatto»; nel qual caso «l’entità interessata è liquidata in modo ordinato conformemente alla legislazione nazionale applicabile», senza ulteriore possibilità dunque di applicazione del programma di risoluzione (cfr. art. 18, co. 8, Reg. n. 806/2014). 5. I Collegi di risoluzione. Una considerazione specifica merita la figura dei Collegi di risoluzione, previsti in tema di risoluzione delle crisi dei gruppi transfrontalieri dagli artt. 87 ss. BRRD, e in Italia contemplati dall’art. 70, d.lgs. n. 180/2015. Come è noto, la BRRD esprime la fondamentale esigenza (cons. 33): che i piani di risanamento e di risoluzione di un gruppo siano elaborati

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per il gruppo stesso nel suo complesso, e individuino misure in relazione a un ente impresa madre e a tutte le singole filiazioni appartenenti al gruppo; che le autorità competenti si adoperino per giungere a una decisione congiunta sulla valutazione e l’adozione di tali piani; che nella stesura dei piani di risoluzione di gruppo si tenga conto specificamente del potenziale impatto delle azioni di risoluzione in tutti gli Stati membri nei quali il gruppo opera; che le autorità di risoluzione degli Stati membri nei quali il gruppo detiene filiazioni siano implicate nella stesura del piano (cons. 34); che nella risoluzione di gruppi transfrontalieri si raggiunga un equilibrio fra, da un lato, la necessità di procedure consone all’urgenza della situazione e funzionali al raggiungimento di soluzioni efficaci, eque e tempestive per il gruppo nel suo complesso, e, dall’altro, l’esigenza di preservare la stabilità finanziaria in tutti gli Stati membri in cui il gruppo opera (cons. 27, Reg. UE n. 806/2014). Di qui l’opportunità che le diverse autorità di risoluzione confrontino le loro posizioni all’interno di un collegio di risoluzione, facendo sì che le azioni di risoluzione proposte dalla autorità di risoluzione a livello di gruppo (su cui infra) siano preparate e discusse fra le diverse autorità di risoluzione nel quadro dei corrispondenti piani a livello di gruppo, e comprendendo all’interno dei collegi di risoluzione le posizioni delle autorità di risoluzione di tutti gli Stati membri in cui il gruppo opera. In tal senso, il collegio di risoluzione non è un organo decisionale, ma una piattaforma, cioè un meccanismo di raccordo e coordinamento inteso a facilitare il processo decisionale delle autorità nazionali, mettendo capo a decisioni congiunte, poi formalmente da assumere ed attuare da parte delle differenti autorità nazionali interessate in guisa da «agevolare una risoluzione coordinata, che ha più probabilità di produrre i migliori risultati per tutti gli enti di un gruppo» (cons. 98). A tal fine, l’iter disegnato dalla BRRD è che «l’autorità di risoluzione a livello di gruppo» (che, ai sensi dell’art. 2, n. 44, BRRD, è «l’autorità di risoluzione nello Stato membro in cui si trova l’autorità di vigilanza su base consolidata») «dovrebbe proporre il programma di risoluzione di gruppo e sottoporlo al collegio di risoluzione», con l’effetto che «le autorità nazionali di risoluzione dissenzienti o che decidano di avviare autonomamente azioni di risoluzione dovrebbero motivare il proprio disaccordo e comunicare tali motivazioni, unitamente ai particolari delle eventuali azioni di risoluzione che intendano avviare autonomamente, all’autorità di risoluzione a livello di gruppo e alle altre autorità di risoluzione interessate dal programma di risoluzione di gruppo» (cons. 98). Nel dettaglio, i collegi di risoluzione sono costituiti dalle autorità di risoluzione a livello di gruppo (art. 88, co. 1, BRRD) e dalle stesse pre-

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sieduti (co. 5), e includono (co. 2) le autorità di risoluzione di tutti gli Stati membri in cui sono presenti le espressioni organizzative (filiazioni, imprese madri, succursali significative etc.). Una variante è costituita dai collegi europei di risoluzione, previsti dall’art. 89 BRRD, secondo cui «se un ente di un paese terzo o un’impresa madre di un paese terzo ha enti filiazione nell’Unione stabiliti in due o più Stati membri, oppure due o più succursali nell’Unione ritenute significative da due o più Stati membri, le autorità di risoluzione degli Stati membri in cui sono stabiliti tali enti filiazioni nell’Unione o in cui tali succursali significative sono situate costituiscono un collegio europeo di risoluzione» (co. 1), il quale «svolge le funzioni ed esegue i compiti di cui all’articolo 88 in relazione agli enti filiazioni e, nella misura in cui detti compiti siano pertinenti, alle succursali» (co. 2). Di entrambe le indicate figure tiene conto l’art. 70, co. 1, d.lgs. n. 180/2015, prevedendo che «la Banca d’Italia istituisce collegi di risoluzione e collegi europei di risoluzione, partecipa ai collegi istituiti da altre autorità e attua le decisioni assunte in seno a questi ultimi, nei casi e con le modalità previste dall’ordinamento dell’Unione Europea»; ribadendo che «in caso di soggetti facenti parte di un gruppo con componenti aventi sede legale in altri Stati membri o con succursali significative stabilite in altri Stati membri, la redazione dei piani di risoluzione, la valutazione della risolvibilità, la determinazione delle misure volte ad affrontare o rimuovere gli impedimenti alla risolvibilità, la determinazione del requisito minimo di passività soggette a bail-in, nonché la predisposizione e l’approvazione dei programmi di risoluzione, quando riguardano il gruppo, avvengono nell’ambito dei collegi di risoluzione previsti dagli articoli 88 e 89 della direttiva 2014/59/UE., e in conformità alle norme tecniche di regolamentazione adottate dalla Commissione Europea» (ivi). 6. Organi a livello nazionale. La Banca d’Italia. La Banca d’Italia è l’autorità nazionale italiana di risoluzione, di cui all’art. 3 Direttiva n. 2014/59/UE, BRRD. L’art. 3, co. 6, d.lgs. n. 180/2015, dispone che «la Banca d’Italia, nell’esercizio della propria autonomia organizzativa, prevede adeguate forme di separazione tra le funzioni connesse con la gestione delle crisi e le altre funzioni da essa svolte, in modo da assicurarne l’indipendenza operativa, e istituisce forme di collaborazione e coordinamento tra le relative strutture». Di qui l’istituzione presso la Banca d’Italia di una apposita «Unità di Risoluzione e Gestione delle crisi».

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Sono proprie delle autorità di risoluzione funzioni ad amplissimo raggio: predisposizione e aggiornamento dei piani di risoluzione (art. 7, d.lgs. n. 180/2015); valutazione della risolvibilità; comunicazione alla banca o alla capogruppo di eventuali ostacoli alla risolubilità e indicazione delle misure per superare gli stessi impedimenti (art. 14, d.lgs. n. 180/2015); imposizione di misure di rimozione degli impedimenti alla risolubilità (art. 16, d.lgs. n. 180/2015)7; determinazione del requisito minimo di passività soggette a bail-in ai sensi dell’articolo 50, d.lgs. n. 180/2015; avvio della risoluzione, individuazione (anche sulla base della valutazione preventiva di cui all’art. 24, d.lgs. n. 180/2015, effettuata da un esperto indipendente) e adozione delle relative misure; istituzione e disposizione dell’utilizzo del fondo/o dei fondi di risoluzione nazionali (art. 79, d.lgs. n. 180/2015), presso la stessa Banca d’Italia (art. 78, d.lgs. n. 180/2015) o presso soggetti da essa individuati (art. 80, d.lgs. n. 180/2015); chiusura della risoluzione (art. 38, d.lgs. n . 180/2015). In particolare, l’avvio della risoluzione (art. 4, d.lgs. n. 180/2015) ha luogo con provvedimento della Banca d’Italia approvato dal Ministro dell’Economia (cfr. art. 32, commi 1 e 2, d.lgs. n. 180/2015). Gli artt. 60 e 61 sono rispettivamente dedicati ai poteri generali e accessori di risoluzione (in effetti previsti quali poteri strumentali sia all’attuazione delle misure di risoluzione in senso stretto di cui al capo IV, sia alla messa in opera delle misure di riduzione/conversione di azioni, altre partecipazioni e strumenti di capitale di cui al capo II), con previsione di un amplissimo ventaglio di poteri profondamente incisivi sulla banca in risoluzione e sui diritti di creditori e azionisti, su cui non mi soffermo attenendo alla materia delle funzioni e degli strumenti delle misure di risoluzione, che esula dal tema affidatomi. Interessa invece sottolineare la centralità dell’autorità nazionale di risoluzione nel senso di un suo ruolo sostanzialmente egemonico, tale da sostanzialmente ridurre a suoi meri bracci operativi gli altri due organi, commissari speciali e comitato di sorveglianza. Basti richiamare il testo dell’art. 34, co. 2, d.lgs. n. 180/2015, secondo cui «Il programma è attuato dalla Banca d’Italia in una o più delle seguenti modalità: a) con atti di uno o più commissari speciali dalla stessa nominati, che esercitano i poteri disciplinati dall’articolo 37 e dal Capo V; b) con atti che tengono luogo di quelli dei competenti organi sociali, degli azionisti e dei titolari

7 Si tratta di misure preparatorie di assetti, che in caso di risoluzione successiva si prestino alla attuazione più rapida ed efficace delle relative misure

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di altre partecipazioni; c) con provvedimenti di carattere particolare, anche rivolti agli organi dell’ente sottoposto a risoluzione, ai sensi del comma 4». Perciò Banca d’Italia opera solo in parte attraverso i commissari, in gran parte invece direttamente. 7. Ministero Economia. Commissari speciali. Veniamo dunque al ruolo dei commissari speciali, subito dopo aver dedicato un cenno al Ministero dell’Economia Ai sensi dell’art. 4, d.lgs. n. 180/2015: «1. Il Ministro dell’economia e delle finanze approva il provvedimento di cui all’articolo 32 con cui la Banca d’Italia dispone l’avvio della risoluzione ed esercita le funzioni di sua competenza previste dal presente decreto». E «l’approvazione del Ministro dell’economia e delle finanze», in base all’art. 32, co. 2, d.lgs. n. 180/2015, «è condizione di efficacia del provvedimento. La Banca d’Italia, ricevuta la comunicazione dell’approvazione del Ministro dell’economia e delle finanze, determina la decorrenza degli effetti del provvedimento, anche in deroga all’articolo 21-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241». Tornando ai commissari speciali, come già ricordato, l’art. 34, co. 2, d.lgs. n. 180/2015, ne prevede la nomina da parte della Banca d’Italia, quale modalità di attuazione del programma che la stessa autorità di risoluzione può però attuare anche direttamente. La loro disciplina è dettata con un faticoso sistema di rinvii al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.), disposti dall’art. 37, co. 3, secondo cui «3. Ai commissari speciali si applicano le disposizioni relative ai commissari liquidatori» nella l.c.a. bancaria «contenute nell’articolo 81, commi 2 e 3, nell’articolo 84, commi 3, 4, 6, 7 e nell’art. 85 del Testo Unico Bancario»8.

8

Così richiamando, in dettaglio, le disposizioni relative a: (art. 81, co.2) pubblicità della nomina sul sito web della Banca d’Italia e obbligo di deposito nel registro delle imprese degli atti di nomina degli organi della l.c.a., entro 15 gg dalla comunicazione; (art. 81, co. 3) potere di Banca d’Italia di revoca e sostituzione dei commissari e dei membri del comitato di sorveglianza; (art. 84, co. 3) potere della Banca d’Italia di «emanare direttive per lo svolgimento della procedura» e di «stabilire che talune categorie di operazioni o di atti debbano essere da essa autorizzate e che per le stesse sia preliminarmente sentito il comitato di sorveglianza»; (art. 84, co. 4) dovere dei commissari di presentazione annuale di «una relazione sulla situazione contabile e patrimoniale della banca e sull’andamento della liquidazione, accompagnata da un rapporto del Comitato di sorveglianza»; (art. 84, co. 6) applicazione ai commissari liquidatori e al comitato di sorveglianza dell’art. 72,

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Inoltre, ai sensi dell’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 180/2015, «L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità e di quella dei creditori sociali contro i membri degli organi amministrativi e di controllo e il direttore generale, dell’azione contro il soggetto incaricato della revisione legale dei conti, nonché dell’azione del creditore sociale contro la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento, spetta ai commissari speciali sentito il comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. In mancanza di loro nomina, l’esercizio dell’azione spetta al soggetto a tal fine disegnato dalla Banca d’Italia». Riguardo specificamente alla latitudine dei poteri e più in generale al ruolo dei commissari speciali nel sistema degli organi della risoluzione, l’art. 37, co. 1, d.lgs. n. 180/2015, stabilisce che «I commissari speciali, salva diversa previsione del provvedimento di nomina, hanno la rappresentanza legale dell’ente sottoposto a risoluzione, assumono i poteri degli azionisti, dei titolari di altre partecipazioni e dell’organo di amministrazione di quest’ultimo, promuovono e adottano le misure necessarie per

co. 7, 8 e 9 t.u.b. (nel testo come sostituito dal d.lgs. n. 181/2015), cioè della disciplina dei poteri e funzionamento degli organi dell’amministrazione straordinaria (relativa a decisione a maggioranza e rappresentanza a firma congiunta di 2 componenti, in caso di pluralità dei commissari, decisione a maggioranza e rappresentanza a firma congiunta di 2 componenti; possibilità di deleghe a uno o più commissari; deliberazioni a maggioranza del comitato di sorveglianza, con prevalenza del voto del presidente, limitazione della responsabilità dei commissari e dei membri del comitato di sorveglianza per atti compiuti nell’espletamento dell’incarico ai soli casi di dolo o colpa grave, su azioni civili nei loro confronti promosse previa autorizzazione della Banca d’Italia); (art. 84, co. 7) possibilità per i commissari, previa autorizzazione di Banca d’Italia e parere favore del comitato di sorveglianza, di «farsi coadiuvare nello svolgimento delle operazioni da terzi, sotto la propria responsabilità e con oneri a carico della liquidazione»; nonché, con l’autorizzazione di Banca d’Italia, di delegare a proprie spese a terzi il compimento di singoli atti; (art. 85) disciplina degli adempimenti iniziali dei commissari liquidatori, quali gli obblighi di presa in consegna dell’azienda dai precedenti organi di amministrazione o di liquidazione ordinaria redigendo un sommario processo verbale; di acquisizione di una situazione dei conti e formazione dell’inventario, con applicazione dell’art. 73, co. 1, ultimo periodo, 2 e 4 (riguardo, rispettivamente, all’assistenza alle operazioni di almeno un componente del comitato di sorveglianza; alla possibilità, in caso di mancato intervento degli organi amministrativi disciolti o per altre ragioni, di un insediamento d’autorità, «con l’assistenza di un notaio e, ove occorra, con l’intervento della forza pubblica»; e, in caso di mancata approvazione del bilancio dell’esercizio precedente, al deposito da parte dei commissari presso il registro delle imprese, «in sostituzione del bilancio, di una relazione sulla situazione patrimoniale ed economica, redatta sulla base delle informazioni disponibili. La relazione è accompagnata da un rapporto del comitato di sorveglianza», con esclusione comunque di ogni distribuzione di utili).

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conseguire gli obiettivi della risoluzione, secondo quanto disposto dalla Banca d’Italia e previa sua autorizzazione, quando prevista dall’atto di nomina o successivamente». Se si pone a confronto questa disposizione con gli artt. 84 e 90 t.u.b., in tema di commissari liquidatori nella l.c.a. bancaria, ci si rende conto di una sostanziale diversità di accenti. In base all’art. 84, co. 1, t.u.b., «i commissari liquidatori hanno la rappresentanza legale della banca, esercitano tutte le azioni a essa spettanti e procedono alle operazioni della liquidazione. I commissari, nell’esercizio delle loro funzioni, sono pubblici ufficiali»; ed in virtù dell’art. 90, co. 1, t.u.b., «I commissari liquidatori hanno tutti i poteri occorrenti per realizzare l’attivo». Invece, i commissari speciali agiscono sempre e comunque secondo quanto disposto dalla Banca d’Italia e in esecuzione dei suoi dettami, quale suo braccio operativo. Al punto da far ritenere che ai commissari speciali «spettano compiti e poteri non esclusivi e soprattutto derivati»9; e perfino da suggerire che «gli stessi agiscano più che come vero e proprio organo della procedura, quali meri delegati della Banca d’Italia, che si configura allora come l’unico organo in senso tecnico della risoluzione»10, cioè quale genuino dominus della procedura di risoluzione, rispetto al quale i commissari speciali degradano ad una sorta di “meri commissari ad acta”11. Compete peraltro ai commissari, ai sensi dell’art. 56, d.lgs. n. 180/2015, il «piano di riorganizzazione aziendale», che occorre predisporre «quando il bail-in è applicato per ricapitalizzare un ente sottoposto a risoluzione, conformemente all’articolo 48, comma 1, lettera a» (cfr. art. 56, co. 1, d.lgs. n. 180/2015). Tale piano «è redatto e attuato da uno o più commissari speciali nominati ai sensi dell’articolo 37 o dall’organo di amministrazione dell’ente, se non decaduto, e contiene gli elementi indicati dalla Banca d’Italia con provvedimenti di carattere generale o particolare» (art. 56, co. 2, d.lgs. n. 180/2015). Solo nella redazione di tale piano può forse esprimersi un certo spazio di autonomia dei commissari rispetto all’autorità di vigilanza, nel senso di una possibile “iniziale” redazione

9 Cfr. Caridi, L’amministrazione speciale: struttura, funzione e disciplina, in L’unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, 2016, p. 484. 10 Cfr. Caridi, L’amministrazione, cit., p. 490. 11 Cfr. Santoni, Tre interrogativi sull’operazione di salvataggio delle quattro banche. Scritto per il Convegno «Salvataggio bancario e tutela del risparmio», in Riv. dir. banc., www.dirittobancario.it, 11, 2016, p. 1; Caridi, L’amministrazione, cit., p. 491.

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che non avvenga per forza “sotto dettatura”; ma è uno spazio contenutissimo e più formale che reale, dato che spetta comunque alla Banca d’Italia valutarne l’adeguatezza «a ripristinare la sostenibilità economica a lungo termine dell’ente sottoposto a risoluzione», approvandolo in caso positivo, o altrimenti comunicando i propri rilievi e chiedendo ai commissari (o all’organo amministrativo, se a questo affidato) di modificare il piano tenendone conto (art. 56, co. 5), anche ove occorra con una seconda revisione e possibile proposta di modifica (co. 6) e richiesta di revisione anche in corso di attuazione (art. 56, co. 8). Per un verso, quindi, la nomina dei commissari speciali realizza un’ipotesi di gestione sostitutiva coattiva, con portata ablativa anche dei diritti degli azionisti; per altro verso, è prevista l’integrale soggezione degli stessi commissari all’autorità di risoluzione. Sotto entrambi i profili, la figura dei commissari speciali non sembra dunque corrispondere appieno a quella dei commissari liquidatori della l.c.a. bancaria, e costituisce piuttosto la traduzione nazionale della figura dell’amministratore speciale prevista dalla BRRD. 8. L’amministratore speciale. L’amministratore temporaneo. Quanto a quest’ultima figura, l’art. 23 del Reg. n. 806/2014 stabilisce che il programma di risoluzione adottato e applicato dal Comitato possa prevedere «inoltre, ove opportuno, la nomina da parte delle autorità nazionali di risoluzione di un amministratore speciale per l’ente soggetto a risoluzione a norma dell’articolo 35 della direttiva 2014/59/UE. Il Comitato può stabilire che sia nominato lo stesso amministratore speciale per tutte le entità affiliate a un gruppo laddove ciò sia necessario per agevolare soluzioni intese a ripristinare la solidità finanziaria delle entità interessate» (ult. comma). La figura di questo «amministratore speciale» è poi sommariamente delineata dall’art. 35 della BRRD, all’interno del Titolo IV intitolato alla «Risoluzione». Si tratta perciò di un possibile strumento delle procedure di risoluzione. In particolare, ai sensi dell’art. 35 BRRD, «gli Stati membri provvedono a che le autorità di risoluzione possano nominare un amministratore speciale in sostituzione dell’organo di amministrazione dell’ente soggetto a risoluzione». «L’amministratore speciale assume tutti i poteri degli azionisti e dell’organo di amministrazione dell’ente» (co. 2) ed «ha il compito statutario di adottare tutte le misure necessarie a promuovere gli obiettivi di risoluzione di cui all’articolo 31 e attuare azioni di risoluzione in base alle decisioni dell’autorità di risoluzione» (co. 3). Sicché ricorre

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qui quella ipotesi di “gestione sostitutiva coattiva”12 già rilevata quanto ai commissari speciali. In base all’art. 35, co. 2, BRRD, «tuttavia, l’amministratore speciale può esercitare tali poteri esclusivamente sotto il controllo dell’autorità di risoluzione». Si tratta perciò di una figura integralmente soggetta alla autorità di risoluzione, che può «revocare l’amministratore speciale in qualsiasi momento» (co. 4). D’altra parte, ai sensi dell’art. 35, comma 6, BRRD, «l’amministratore speciale non può essere nominato per un periodo superiore a un anno. Tale periodo può essere rinnovato, in via eccezionale, qualora l’autorità di risoluzione ritenga che sussistono ancora le condizioni per la nomina di un amministratore speciale»: previsione, questa della durata non superiore ad un anno, che non corrisponde a quanto previsto dall’art. 37, comma 4, d.lgs. n. 180/2015, secondo cui «la durata dell’incarico dei commissari» speciali è stabilita senza paletti temporali dalla Banca d’Italia, e «il periodo può essere prorogato», emergendo così al riguardo un disallineamento fra le due figure, rispettivamente previste dalla direttiva europea e dalla legge nazionale, su cui si tornerà. Figura ancora diversa è quella prevista dall’art. 29 BRRD, all’interno del Titolo III intitolato alle misure di «Intervento precoce», dell’Amministratore temporaneo. Ai sensi dell’art. 29, co. 1, BBRD, «Gli Stati membri provvedono a che le autorità competenti possano nominare uno o più amministratori temporanei dell’ente, qualora la sostituzione dell’alta dirigenza o dell’organo di amministrazione ai sensi dell’articolo 28 sia ritenuta insufficiente da parte dell’autorità competente per porre rimedio alla situazione» (co.1). «All’atto della nomina l’autorità competente specifica i poteri dell’amministratore temporaneo che sono proporzionati alle circostanze. Questi poteri possono comprendere alcuni o tutti i poteri dell’organo di amministrazione dell’ente ai sensi del relativo statuto e della legislazione nazionale, ivi compreso il potere di esercitare alcune o tutte le funzioni amministrative dell’organo di amministrazione dell’ente» (co. 2); operando «secondo un principio di proporzionalità e in base alle circostanze»: in sostituzione temporanea dell’organo di amministrazione dell’ente; ovvero in affiancamento temporaneo all’organo di amministrazione stesso» (co. 1).

12

Cfr. Caridi, L’amministrazione, cit., p. 472.

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Come è stato osservato, mentre l’»Amministratore Speciale» (AS) corrisponde (pur con le rilevate discrasie) al «commissario speciale» di cui al d.lgs. n. 180/2015, l’Amministratore temporaneo (AT) sembra figura più prossima al commissario straordinario13. Si tratta invero di un «delegato dell’autorità di risoluzione con funzioni meramente esecutive», «una longa manus della stessa»14, con «una connotazione ‘ablativa’ dell’amministrazione speciale» tenuto conto del subentro nei diritti degli stessi azionisti, che «supera quella che caratterizza, nel t.u.b., la posizione dei commissari liquidatori»15, ed evidenzia, come anticipato, la sostanziale continuità fra amministrazione speciale nella BRRD e nel Reg n. 806/2014 e i commissari speciali di cui all’art. 37 d.lgs. n. 180/2015. Con la necessità che si pone allora di conformare quest’ultima figura alla prima anche quanto alla già rilevata divergenza relativa alla durata della nomina, non specificata dall’art. 37, co. 4, d.lgs. n. 180/2015, e invece limitata dall’art. 35, co. 6, BRRD, a «un periodo non superiore a un anno», salvo possibilità di rinnovo peraltro solo «in via eccezionale». 9. Comitato di sorveglianza. Ai sensi dell’art. 37, co. 6, d.lgs. n. 180/2015, «unitamente ai commissari speciali, è nominato un comitato di sorveglianza, composto da tre a cinque membri, che designa a maggioranza di voti il proprio presidente. Al comitato si applicano le disposizioni relative al comitato di sorveglianza contenute negli articoli 81, commi 2 e 3 e 84 del Testo Unico Bancario». Qui v’è sostanziale identità con compiti e regole di funzionamento del comitato di sorveglianza nella l.c.a., come conferma l’integrale richiamo dell’art. 84 t.u.b., oltre che dei co. 2 e 3 dell’art. 81, circa pubblicità della nomina sul sito web della Banca d’Italia, e obbligo di deposito nel registro delle imprese degli atti di nomina degli organi della l.c.a., entro 15 giorni dalla comunicazione.

13 14 15

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Cfr. Caridi, L’amministrazione, cit., pp. 468, 477. Cfr. Caridi, L’amministrazione, cit., p. 473 Loc. cit.


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10. Gli organi della società bancaria. Se questo è il panorama degli organi delle procedure di risoluzione bancaria, pure occorre considerare il versante dei riflessi dell’applicazione delle misure di risoluzione sugli organi della società bancaria. Come altrove ho già avuto occasione di notare16, a venire in considerazione è qui un peculiare sistema di regolazione e traslazione del rischio di impresa su titolari dell’iniziativa societaria, organi sociali e creditori della banca in crisi che, con differenze significative a fronte di quanto è dato riscontrare nel diritto concorsuale “comune”, e con profili di novità rispetto allo stesso diritto societario dell’ordinaria crisi d’impresa commerciale, vale, con specifico riguardo agli organi sociali della banca sottoposta alla misura di risoluzione, ad arricchirne e per certi versi mutarne i compiti, imponendo doveri di informazione, allerta, iniziativa ed elaborazione di programmi di intervento, collaborazione con l’Autorità di vigilanza e i soggetti da questa preposti alla gestione della crisi; doveri scaturenti non solo in presenza del presupposto del dissesto o anche solo di un mero pericolo di dissesto, ma ancor prima già nella fase attiva e fisiologica dell’impresa bancaria, attraverso la doverosa preventivazione dell’eventualità di una crisi futura e (mercé l’elaborazione, ora per allora, di un “piano di risanamento”) delle misure di contrasto da dispiegare al suo attualizzarsi; come pure a paralizzarne competenze e funzioni fino all’estremo dell’esautorazione temporanea o definitiva. 11. I riflessi sull’organo amministrativo. Quanto in particolare agli obblighi di allerta, iniziativa ed elaborazione di programmi di intervento, l’art. 19, co. 1, d.lgs. n. 180/2015, impone all’organo di amministrazione o di controllo di una banca di informare tempestivamente la Banca d’Italia o la BCE, a seconda di quale sia l’autorità di vigilanza competente, «se ritiene che la banca è in dissesto o a rischio di dissesto ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. a)» d.lgs. n. 180/2015, situazioni queste definite dal comma 2 del medesimo art. 17. Riguardo poi ai doveri di preparazione a fronteggiare la crisi:

16

Cfr. Perrino, Il diritto societario della crisi delle imprese bancarie nella prospettiva europea: un quadro d’insieme, in L’unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, cit., p. 358 (da cui anche le successive citazioni); il lavoro è pubblicato anche in Riv. dir. soc., 2016, pp. 267 ss.

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–.è introdotta una apposita ed aggiuntiva competenza dell’assemblea straordinaria di società facente parte di un gruppo bancario, in ordine all’approvazione e alla revoca di un accordo per fornirsi sostegno finanziario fra società del gruppo medesimo (senza che né tale approvazione né la revoca diano luogo ad alcun diritto di recesso dei soci, come ha cura di precisare l’art. 69-quaterdecies, co. 5, t.u.b., come introdotto dall’art. 12, d.lgs. n. 181/2015, in base agli art. 19 ss., BRRD), la cui predisposizione e, una volta approvato, attuazione compete d’altra parte all’organo amministrativo, che deve riferire annualmente al riguardo all’assemblea (art. 69-quaterdecies, co. 2 e 3, t.u.b., sulla base in particolare dell’art. 21 BRRD, sulla competenza degli azionisti all’approvazione dell’accordo); –.l’organo amministrativo della società bancaria deve predisporre e approvare «un piano di risanamento individuale che preveda l’adozione di misure volte al riequilibrio della situazione patrimoniale e finanziaria in caso di suo significativo deterioramento», e poi riesaminarlo e, se necessario, aggiornarlo almeno annualmente o con la maggiore frequenza richiesta dalla Banca d’Italia (BRRD, art. 5; art. 69-quater t.u.b., come introdotto dall’art. 12, d.lgs. n. 181/2015); –.sempre l’organo amministrativo è tenuto a collaborare ai fini della predisposizione e del tempestivo aggiornamento del piano di risoluzione individuale (che la Banca d’Italia ha il compito di predisporre anticipatamente per ciascuna banca, cfr. art. 7, d.lgs. n. 180/2015), fornendo le informazioni necessarie a tal fine (cfr. art. 9, d.lgs. n. 180), con ciò incrociando il terreno degli obblighi di collaborazione. Con riferimento, in particolare, a questi ultimi doveri, in base all’art. 22, co. 1, lett. e, d.lgs. n. 180/2015, i componenti degli organi di amministrazione e di controllo e l’alta dirigenza, pure allorquando, come di regola, decaduti dalla carica e sostituiti, restano in ogni caso obbligati a fornire «alla Banca d’Italia o ai commissari speciali l’assistenza necessaria, anche in caso di cessazione dalla carica». Nel caso di bail-in con ricapitalizzazione dell’ente, ai sensi dell’art. 56, d.lgs. n. 180/2015, l’organo di amministrazione, se non decaduto, è peraltro tenuto (in alternativa ai commissari speciali, se nominati ex art. 37) a redigere un piano di riorganizzazione aziendale e ad attuarlo, riferendo almeno ogni sei mesi alla Banca d’Italia sui relativi progressi (co. 2 e 7). Inoltre, si prevede che siano gli organi di amministrazione, su delega delle assemblee, «a deliberare l’aumento di capitale necessario per consentire, in caso di bail-in, la conversione di passività in azioni computabili nel capitale primario di classe 1» (art. 58, co. 1, d.lgs n. 180/2015), con espressa disapplicazione dei limiti a siffatta delega posti

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dall’art. 2443, co. 1 e 2, c.c., oltre che delle condizioni poste dall’art. 2438 c.c. (che cioè le azioni precedentemente emesse siano state interamente liberate) e 2441 c.c. quanto al diritto di opzione degli azionisti attuali (cfr. art. 58, co. 2, d.lgs. n. 180/2015). Passando ora al secondo piano suindicato, la regola base è che gli organi con funzione di amministrazione e di controllo e l’alta dirigenza dell’ente, ove sottoposto a procedura di risoluzione, decadono con effetto automatico a partire «dall’insediamento dei commissari speciali o dal primo atto compiuto dalla Banca d’Italia in luogo dei competenti organi sociali» (cfr. art. 35, co. 1, d.lgs. n. 180/2015) e «sono sostituiti» (art. 22, co. 1, lett. e). Ciò salvo che la loro permanenza in carica, di tutti o alcuni dei componenti, non serva a conseguire gli obbiettivi stessi della risoluzione e sia perciò così disposto dal relativo provvedimento di avvio della procedura (artt. 22, comma 1, lett. e); 32, co. 1, lett. b.5; 35, co.1 lett. b, d.lgs. n. 180/2015); nel qual caso peraltro resta fermo il potere della Banca d’Italia di «disporre la rimozione o la sostituzione degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza dell’ente sottoposto a risoluzione, nel caso in cui siano venute meno le condizioni della loro permanenza in carica» (art. 60, co. 1, lett. m, d.lgs. n. 180/2015). D’altra parte, in luogo degli organi decaduti sono i commissari speciali, se nominati, che «hanno la rappresentanza legale dell’ente sottoposto a risoluzione, assumono i poteri […] dell’organo di amministrazione di quest’ultimo, promuovono e adottano le misure necessarie per conseguire gli obiettivi della risoluzione» (art. 37, co. 1, d.lgs. n. 180/2015). Ancor prima del varo delle vere e proprie misure di risoluzione, inoltre, fra le c.d. misure di intervento precoce (di cui ai nuovi artt. 69-octiesdecies ss. t.u.b., come introdotti dall’art. 13, d.lgs. n. 181/2015; cfr. art. 27 ss., BRRD) sono previsti nuovi poteri della Banca d’Italia di disporre la rimozione o ordinare il rinnovo dei componenti degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza della banca, allorché risulti fra l’altro che «il deterioramento della situazione della banca o del gruppo bancario sia particolarmente significativo». 12. L’impatto sulla competenza decisionale dei soci. Un altro profilo di incidenza delle misure di risoluzione bancaria sulle ordinarie competenze degli organi sociali, concerne la disattivazione forzosa dei diritti amministrativi, delle prerogative e dei rimedi connessi alla posizione partecipativa, così da sterilizzarne la capacità di influenza sulla attività e le sorti della banca in crisi e così rimuovere ogni possi-

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bile ostacolo all’attuazione delle tecniche autoritative di regolazione e riassetto. Così, nel quadro anzitutto delle misure di rimozione degli impedimenti alla “risolvibilità” (definita dall’art. 12, co. 2, d.lgs. n. 180/2015, nei termini della assoggettabilità della banca a l.c.a. o a risoluzione minimizzando gli effetti negativi sistemici assicurando la continuità delle funzioni essenziali), la Banca d’Italia può imporre modifiche di forma giuridica e struttura operativa della banca assai penetranti, fino al conferimento dell’intera azienda bancaria ad una società controllata, senza che a fronte dell’adozione obbligatoria delle relative decisioni spetti agli azionisti – pur in presenza della sostanziale modificazione dell’oggetto sociale così in via eteronoma realizzata – il diritto di recesso di cui all’art. 2437 c.c. (BRRD, art. 17, co. 5, lett. g; art. 16, co. 2, lett. a, d.lgs. n. 180/2015). Nel caso poi di effettivo avvio della risoluzione, «sono sospesi i diritti di voto in assemblea e gli altri diritti derivanti da partecipazioni che consentono di influire sull’ente sottoposto a risoluzione» (art. 35, comma 1 lett. a, d.lgs. n. 180/2015; art. 72, comma 2, BRRD); mentre all’attuazione del programma di risoluzione provvede la Banca d’Italia, fra l’altro e come già visto discorrendo degli organi in senso stretto della risoluzione: o «con atti di uno o più commissari speciali dalla stessa nominati» (art. 34, co. 2, lett. a, d.lgs. n. 180/2015), i quali «assumono i poteri degli azionisti, dei titolari di altre partecipazioni» (oltre che dell’organo di amministrazione) e «promuovono e adottano le misure necessarie per conseguire gli obiettivi della risoluzione» (art. 37 co. 1, d.lgs. n. 180/2015; art. 35, BRRD); o in via diretta «con atti che tengono luogo di quelli (oltre che, n.d.r.) dei competenti organi sociali, degli azionisti e dei titolari di altre partecipazioni» (art. 34, co.2, lett. b, d.lgs. n. 180/2015). In quest’ultima direzione, fra l’altro, la Banca d’Italia può: –.«disporre direttamente l’aumento di capitale» necessario alla conversione di passività in azioni, in seno al bail-in (cfr. art. 58, co. 3, d.lgs. n. 180/2015), senza attendere che vi proceda l’assemblea dei soci (art. 60, co. 1, lett. h, d.lgs. n. 180/2015) o l’organo amministrativo per delega dell’assemblea (ivi, comma 1); –.disporre direttamente, o autorizzare il commissario speciale a disporre «fusioni o scissioni di enti sottoposti a risoluzione, di soggetti nei confronti dei quali è disposta la riduzione o la conversione di strumenti di capitale, di enti-ponte o di veicoli per la gestione dell’attività», con produzione degli effetti previsti dal codice civile immediatamente scaturenti dalla «pubblicazione della decisione sul sito internet della Banca d’Italia, anche in assenza degli adempimenti pubblicitari richiesti dalla legge» (art. 99, co. 3, lett. a, d.lgs. n. 180/2015).

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La sterilizzazione in termini analogamente generalizzati delle prerogative amministrative, onde favorire l’attuazione delle finalità di regolamentazione coattiva della crisi, può peraltro riguardare anche, nella già menzionata ipotesi di cessione delle azioni o delle altre partecipazioni della banca in risoluzione ad un soggetto terzo, ai sensi dell’art. 40 s., d.lgs. n. 180/2015, l’esercizio dei diritti corporativi in capo al terzo cessionario, disponendosi che sino al rilascio in favore di quest’ultimo dei necessari provvedimenti autorizzativi per l’acquisizione di partecipazioni nelle banche, di cui agli artt. 19 ss. t.u.b., o – in caso di mancata autorizzazione – sino all’obbligatoria alienazione delle partecipazioni come sopra acquisite, «i diritti di voto in assemblea e gli altri diritti derivanti dalle partecipazioni cedute che consentono di influire sulla società sono sospesi e possono essere esercitati esclusivamente dalla Banca d’Italia, la quale non risponde per l’esercizio di tali diritti o per l’astensione dall’esercizio degli stessi, se non in caso di dolo o colpa grave» (cfr. art. 41, co. 3, lett. b, d.lgs. n. 180/2015); ed il medesimo regime si applica anche ai diritti relativi a partecipazioni qualificate acquisite in conseguenza di conversione per via di bail-in, finché non siano completate le valutazioni per l’autorizzazione ai sensi dell’art. 19 t.u.b. (cfr. art. 53, co. 1, d.lgs. n. 180/2015). Ancora, nei confronti della banca in risoluzione alla quale «viene applicato il bail-in può essere disposta la trasformazione della forma giuridica, anche successivamente alla chiusura della risoluzione», nel qual caso non spetta ai soci – pur sempre nella rilevata ottica di rimozione di ogni intralcio all’operazione, anche in considerazione delle conseguenze che l’exit del socio potrebbe altrimenti avere sul patrimonio dell’ente – il diritto di recesso di cui agli artt. 2437 e 2497-quater c.c.; mentre più in generale non trovano applicazione «le disposizioni della Sezione I del Capo X del Titolo V del Libro V del codice civile, ad eccezione degli articoli 2498 e 2500, che si applicano in quanto compatibili» (art. 48, co. 2, d.lgs. n. 180/2015). 13. Valutazioni d’insieme e conclusive. Non si tratta peraltro di regole del tutto inedite, bensì di diversa e maggiore intensità di accenti e incisività degli interventi rispetto al contesto di diritto comune (societario e della crisi di impresa). Come in altra

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sede ho avuto modo di osservare17, non rivoluzionario appare anzitutto e a ben vedere l’assetto di tendenziale disattivazione di prerogative e rimedi degli azionisti, onde impedirne ogni azione di contrasto all’attuarsi forzoso delle misure di risoluzione della crisi, ove solo si rammentino altre note disposizioni di legge nazionale, che pure comprimono i diritti degli azionisti in pendenza di procedura (in senso lato) di crisi, quali l’art. 2499 sui limiti alla ammissibilità della trasformazione della società, a seconda della sua compatibilità con finalità e stato della procedura concorsuale applicata; o l’art. 200, co. 1, l. fall., sulla cessazione delle funzioni assembleari dall’apertura della liquidazione coatta amministrativa. E neppure eterodosso appare il previsto esautoramento delle stesse prerogative corporative degli azionisti, quanto fra l’altro all’attuazione delle operazioni riorganizzative societarie funzionali alla regolazione della crisi, mediante il loro esercizio sostitutivo forzoso ad opera di organi della procedura, essendo anche questo un fenomeno già osservato – oltre che nel diritto societario ordinario, con l’art. 2446, co. 2, c.c., in tema di riduzione giudiziale forzosa del capitale sociale – nel diritto concorsuale comune: e ciò, segnatamente, quanto al concordato preventivo, sotto forma di proposte interpretative per cui è l’organo attuatore della procedura a poter e dovere dar seguito alle operazioni di riassetto societario divisate come contenuto della misura di crisi, quali mero atto esecutivo ormai sottratto al potere di condizionamento degli azionisti; e più recentemente per via delle precise disposizioni, che all’art. 185 l. fall. (come novellato dall’art. 3, co. 6, d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132) consentono al tribunale di attribuire al commissario giudiziale o a un amministratore giudiziario il potere di compiere ogni atto necessario, ove il debitore non vi provveda, all’esecuzione della proposta concordataria, ivi incluso l’esercizio del voto per la delibera di aumento del capitale sociale del debitore (ivi, comma 6). Lungi dal rivelarsi dirompenti rispetto alle regole ordinarie, anche le viste previsioni in tema di integrazione e articolazione dei doveri di condotta degli organi di amministrazione e controllo appaiono piuttosto la positivizzazione, in termini certo speciali ed adeguati al peculiare contesto della crisi bancaria, di quanto un sempre più esteso indirizzo interpretativo è andato elaborando – nell’orizzonte del diritto societario della crisi, ma senza di necessità accreditarne uno statuto di rigorosa autonomia disciplinare – in chiave di specifici obblighi di comportamento

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Cfr. Perrino, Il diritto, cit., pp. 366 ss.


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degli organi sociali e di conseguenti responsabilità, in situazioni di crisi dal loro iniziale profilarsi fino alla vera e propria insolvenza, quanto ad esempio a doveri di monitoraggio, allerta, selezione e varo di opportune procedure legali di composizione della crisi, avvio delle pertinenti operazioni di riorganizzazione o definizione dei rapporti societari; obblighi e responsabilità specifiche, la cui emersione distinta in fase di crisi, rispetto alla vita ordinaria dell’impresa, trova del resto inequivoche conferme normative in disposizioni del diritto comune delle società di capitali, a partire dagli artt. 2485 e 2486 c.c. rispetto al verificarsi di cause di scioglimento delle società, oltre che nelle norme della legge fallimentare che contemplano il potere/dovere di accesso degli amministratori alle procedure ivi regolamentate (e cfr., fra l’altro, l’art. 152, co. 2, lett. b, l. fall., richiamato anche dall’art. 161, co. 4, l. fall.). Pure le regole in tema di possibile o automatica sospensione o disattivazione definitiva delle funzioni degli organi sociali, si aggiunga, con l’obiettivo di spianare la strada a misure coattive di intervento sulla crisi bancaria, trovano significativi pendant nelle già note disposizioni comuni di diritto della crisi, sia societaria generale che specificamente di società bancarie, quali: sul versante generale, la disciplina della possibile rimozione giudiziale degli amministratori in caso di gravi irregolarità nella gestione, ai sensi dell’art. 2409 c.c., o in caso di scioglimento della società non debitamente seguito dall’avvento dei liquidatori, in base all’art. 2487, co. 2, c.c.; o la già richiamata disposizione dell’art. 200, co. 1, l. fall., secondo cui dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa «cessano le funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e controllo», salvo che in ordine alla proposizione di un concordato ai sensi dell’art. 214 l. fall.; e, su quello prettamente bancario, la disciplina contenuta all’art. 53-bis t.u.b. (come inserito dall’art. 1, co. 20, d.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72), relativamente al potere della Banca d’Italia fra l’altro di convocare d’autorità gli organi collegiali fissandone l’ordine del giorno e proponendo le specifiche decisioni da assumere (co. 1, lett. b e c), e di «disporre, qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca, la rimozione di uno o più esponenti aziendali» (co. 1, lett. e); o le previsioni circa lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e di controllo, disposto con il decreto di apertura della procedura di amministrazione straordinaria, ex art. 70 t.u.b., e sull’effetto sospensivo dello stesso provvedimento a carico delle funzioni delle assemblee; e ancora la prevista cessazione delle funzioni degli organi amministrativi, di controllo e assembleari a seguito dell’emanazione del

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decreto che dispone la liquidazione coatta amministrativa della banca, a norma dell’art. 80 t.u.b. Esiste, sempre problematico, il tema dei diritti fondamentali potenzialmente posti a rischio. Del resto, la disciplina della risoluzione bancaria per un verso prende atto, fin dalle premesse della BRRD (cfr. cons. 13, 24, 29, 49, BRRD), della inemendabile idoneità degli strumenti e poteri previsti per la risoluzione della crisi bancaria, nel perseguire gli obiettivi di salvaguardia della continuità delle funzioni bancarie onde evitare o limitare effetti negativi sulla stabilità finanziaria, ad incidere sui diritti degli azionisti e dei creditori, così come sulla libertà d’impresa dello stesso ente bancario come attore economico, e con ciò ad interferire con i presidi posti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in particolare, con l’art. 16 in tema di libertà d’impresa e con l’art. 17 in tema di diritto di proprietà; oltre che con l’art. 47 sulla tutela giurisdizionale, cfr. cons. 88, BRRD) e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, in particolare dall’art. 1, protocollo 1, in tema di diritto di proprietà (disciplina, quest’ultima, posta al centro della valutazione di ammissibilità di interventi ablativi senza indennizzo delle partecipazioni sociali, mediante la nazionalizzazione dell’istituto bancario inglese Northern Rock in crisi, dalla decisione della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 10 luglio 2012, Dennis Grainger e a. c. Regno Unito); per altro verso stabilisce che l’applicazione degli stessi strumenti e poteri, soprattutto nei casi in cui il perseguimento degli anzidetti obiettivi di continuità e stabilità in qualche modo imponga di incidere su capisaldi come la parità di trattamento dei creditori, debba in ogni caso risultare giustificata dal pubblico interesse, imporre disparità proporzionate al diverso rischio sostenuto, non comportare indebite discriminazioni, dirette o indirette, per motivi di cittadinanza, sotto ogni profilo conformandosi al principio di proporzionalità di cui all’art. 52 della Carta (cons. 49, BRRD). Altro, non meno problematico è il tema della trasparenza e del controllo democratico delle posizioni di vasto potere attribuito agli organi della risoluzione e fin qui osservate. Il tema è presente nella disciplina europea del CRU, allorché il Cons. 42, Reg. n. 806/2014, impone il dialogo costante con il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio «al fine di garantire trasparenza e controllo democratico, così come a tutela dei diritti delle istituzioni dell’Unione, è opportuno che il Comitato risponda al Parlamento europeo e al Consiglio di qualsiasi decisione assunta in base al presente regolamento»; ciò nella consapevolezza che «a fini di trasparenza e di controllo democratico, è opportuno conferire ai parlamenti nazionali

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determinati diritti ad essere informati delle attività del Comitato e a dialogare con il Comitato». Ed il successivo cons. 43 si occupa dei rapporti con i parlamenti nazionali, disponendo che «il parlamento nazionale di uno Stato membro partecipante o la sua commissione competente dovrebbero poter invitare il presidente a partecipare a uno scambio di opinioni concernente la risoluzione di enti di detto Stato membro, insieme con un rappresentante dell’autorità nazionale di risoluzione. Tale ruolo dei parlamenti nazionali risulta opportuno alla luce del potenziale impatto delle azioni di risoluzione sulle finanze pubbliche, sugli enti e i rispettivi clienti e dipendenti, nonché sui mercati degli Stati membri partecipanti». Su tali premesse, l’art. 45, Reg. n. 806/2014 prevede fra l’altro obblighi di relazione annuale del CRU al Parlamento europeo, ai parlamenti nazionali degli Stati membri partecipanti conformemente all’articolo 46, al Consiglio, alla Commissione e alla Corte dei conti europea, e di audizione del CRU su richiesta dei parlamenti europeo e nazionali e del Consiglio. Non sono invece immediatamente riconoscibili disposizioni specifiche in materia nella disciplina italiana di recepimento, quanto alla posizione, come visto sovraordinata, attribuita a Banca d’Italia quale autorità nazionale di risoluzione, al di là della generale previsione (di cui all’art. 19, comma 4, l. 28 dicembre 2005, n. 262, recante «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari»), dell’obbligo di trasmettere al Parlamento e al Governo, entro il 30 giugno di ciascun anno, una relazione sull’attività svolta nell’anno precedente, senza peraltro disposizioni specifiche riguardo all’esercizio dei poteri di risoluzione in discorso. Ed è un terreno che meriterebbe anche questo allora – della trasparenza e del controllo democratico, in una temperie culturale sempre meno disponibile a deleghe opache di potere a salvaguardia della stabilità del sistema – di essere invece coltivato e sviluppato con attenzione.

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Dissesto, insolvenza e misure di risoluzione Bruno Inzitari Sommario: 1. Dissesto, insolvenza, resolution. – 2. Le misure di risoluzione.

1. Dissesto, insolvenza, resolution. 1.1. Il Testo Unico Bancario non contiene una definizione dell’insolvenza bancaria, stabilisce le modalità dell’accertamento giudiziale dell’insolvenza secondo un sostanziale rinvio al diritto comune (art. 82 t.u.b.), sottrae le banche alla procedura di fallimento stabilendo per esse la procedura concorsuale della liquidazione coatta amministrativa (art. 80, co. 6, t.u.b.). In considerazione dell’assenza di una autonoma definizione dell’insolvenza bancaria, il riferimento alla generale previsione dell’art. 5 dettata dalla legge fallimentare per le imprese di diritto comune deve necessariamente essere interpretato e coordinato con le peculiarità dell’impresa bancaria. Va considerato peraltro che l’art. 5 l. fall. non contiene una diretta definizione di insolvenza, ma piuttosto contempla le modalità in cui l’insolvenza stessa si manifesta a seguito di un comportamento sostanzialmente inadempiente del debitore. Le circostanze richiamate dall’art. 5 l. fall. sono infatti principalmente l’inadempimento o altri fattori esteriori che dimostrino che l’imprenditore di diritto comune non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Si tratta di circostanze che, secondo l’interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza, non sono adeguate ad esprimere e rappresentare l’insolvenza bancaria, la quale si ritiene che possa essere desunta da altri indici, soprattutto di natura patrimoniale, piuttosto che dalla astratta capacità di adempiere alle obbligazioni. Quest’ultima circostanza risulta infatti di difficile o troppo tardiva emersione nell’impresa bancaria, con conseguente rischio di un ulteriore aggravamento del dissesto, produttivo di grave ed irreparabile pregiudizio nel sistema bancario e nel sistema economico più in generale. L’indice di maggiore significatività a questo riguardo viene identificato nella situazione patrimoniale dell’azienda bancaria, piuttosto che nelle condizioni di liquidità e di credito. La banca infatti ben difficilmente si viene a trovare nella impossibilità di pagare. Nel momento di crisi di liquidità, essa potrebbe comunque ricorrere alla liquidazione degli attivi

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più facilmente monetizzabili (titoli, ecc.) o attingere, anche al di fuori dei presupposti richiesti, alle diverse forme di credito interbancario, ecc. I criteri dell’art. 5 l. fall., almeno per quanto emergono dalla lettera della legge, non risultano pertanto appropriati e devono essere interpretati per l’impresa bancaria in considerazione della circostanza che eventi quali la cessazione materiale dei pagamenti o altre anomalie nelle regolarità dell’adempimento delle obbligazioni intervengono quando la insolvenza della banca si è già completamente verificata in tutta la sua gravità e irreversibilità, rendendo impossibile la gestione della crisi e dando piuttosto luogo al conseguente grave pregiudizio di dover regolare l’insolvenza solo attraverso la liquidazione atomistica che, come è noto, comporta la maggiore perdita di valore e compromette in modo anche grave la stabilità del sistema, comportando l’interruzione dei rapporti di credito o di altra natura in corso. Per tali motivi, la valutazione dello stato di insolvenza della banca è il risultato di un giudizio prognostico che assume il deficit patrimoniale quale indice di una diagnosi precoce del dissesto e quindi dell’insolvenza della banca. In conclusione, la nozione di insolvenza bancaria è per certi aspetti sovrapponibile allo stato di insolvenza dell’art. 5 l. fall., ma se ne discosta nella misura in cui può essere accertata, grazie ad una valutazione prognostica dei dati di natura patrimoniale, in un momento cronologicamente anteriore rispetto al manifestarsi di fattispecie riconducibili all’inadempimento. La necessità di anticipare l’emersione dello stato di insolvenza della banca dando prevalente rilevanza all’indice tecnico presuntivo del deficit patrimoniale, trova conferma nella disciplina della Direttiva BRRD 2014/59/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, nonché nel Decreto Legislativo 16 novembre 2015, n. 180, «Risanamento e risoluzione degli enti creditizi», che ha dato attuazione a tale direttiva. Il sopravvenire della disciplina della crisi bancaria introdotta dall’Unione Europea con la Direttiva BRRD 2014/59/UE ha ulteriormente confermato l’interpretazione che individua l’insolvenza bancaria, come già detto, secondo un giudizio prognostico che assume il deficit patrimoniale quale indice di una diagnosi precoce del dissesto e quindi dell’insolvenza della banca. Infatti, la Direttiva in parola pone quale presupposto per l’avvio della procedura di risoluzione il dissesto o il rischio di dissesto dell’ente («an institution is failing or likely to fail»), in considerazione dell’opportunità di «un avvio tempestivo della procedura, prima che l’ente finanziario sia insolvente a termini di bilancio e che l’intero capitale sia esaurito» (cfr. il

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Considerando 41 della Direttiva BRRD 2014/59/UE, di cui si riporta il testo nella sua traduzione italiana «È opportuno che il quadro di risoluzione preveda un avvio tempestivo della procedura, prima che l’ente finanziario sia insolvente a termini di bilancio e che l’intero capitale sia esaurito. La procedura di risoluzione dovrebbe essere avviata allorché un’autorità competente, previa consultazione dell’autorità di risoluzione, determina che l’ente è in dissesto o a rischio di dissesto e che l’attuazione di misure alternative, come specificato nella presente direttiva, eviterebbe tale dissesto in tempi ragionevoli. Eccezionalmente, gli Stati membri possono prevedere che, oltre all’autorità competente, anche l’autorità di risoluzione possa determinare, previa consultazione dell’autorità competente, che l’ente è in dissesto o a rischio di dissesto. Il fatto che un ente non soddisfi i requisiti per l’autorizzazione non giustifica di per sé l’avvio della procedura di risoluzione, soprattutto se esso è ancora economicamente sostenibile o se sussistono i presupposti perché lo sia. Un ente dovrebbe essere considerato in dissesto o a rischio di dissesto quando viola, o è probabile che violi in un prossimo futuro, i requisiti per il mantenimento dell’autorizzazione; quando le sue attività sono, o è probabile che siano in un prossimo futuro, inferiori alle passività; quando non è in grado, o è probabile che non sia in grado in un prossimo futuro di pagare i propri debiti in scadenza; quando necessita di un sostegno finanziario pubblico straordinario, ad eccezione delle circostanze particolari stabilite nella presente direttiva»). Le espressioni failing or likely to fail costituiscono una endiadi nelle previsioni della disciplina della Direttiva BRRD sulla Resolution e in ogni caso vengono utilizzate come tali nei provvedimenti delle autorità dell’Unione Europea. La locuzione originale della Direttiva indica una situazione assimilabile al fallimento – failure – o di prevedibile fallimento – likely to fail. La costante utilizzazione unitaria dei due termini come endiadi è confermata del fatto che, secondo la direttiva, la circostanza che il dissesto si sia già verificato – failing – o che risulti probabile – likely to fail – non comporta alcuna distinzione di disciplina, in quanto le due locuzioni sono espressione della stessa fattispecie di failing, in cui la situazione attuale o prospettica di failing assume in ogni caso la medesima rilevanza, in considerazione del carattere determinante della valutazione precoce, secondo criteri prospettici prognostici del dissesto e della stessa insolvenza della banca. Questo trova conferma nelle modalità di attuazione della Direttiva BRRD in un sistema giuridico sicuramente significativo e rilevante come quello della Germania. La Sanierung und Abwicklungsgesetz, denominata SAG, che ha dato attuazione alla BRRD in Germania, ha unifica-

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to le espressioni failing or likely to fail nell’unica espressione Bestandgefärdung che indica il pericolo o la minaccia di perdita di continuità tale da compromettere l’esistenza della banca (cfr. Jahn-Schmitt-Geier, Handbuch Bankensanierung und–abwicklung, C.H. BECK, München, 2016, pag. 184 e ss.). Tale espressione era già stata usata nell’ordinamento tedesco prima della introduzione della legislazione di attuazione della Direttiva BRRD ed in particolare in sede penale al § 54a della Kreditwesengesetz, che prevede uno specifico reato per aver causato il dissesto o aver condotto la banca in una situazione di prevedibile dissesto.1 1.2. Il dissesto o il rischio di dissesto («failing or likely to fail») costituiscono il presupposto della procedura di risoluzione e della liquidazione coatta amministrativa, come espressamente stabilito dall’art. 80 t.u.b., così come modificato dall’art. 23 del d.lgs. 16 novembre 2016, n. 181 e artt. 17 e 20 del d.lgs. 16 novembre 2016, n. 180. Secondo la definizione dell’art. 18 del Regolamento UE n. 806/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 luglio 2014, dell’art. 32, par. 4, della Direttiva 2014/59 UE del Parlamento Europeo e del Consiglio e dell’art. 17 del d.lgs. n. 180/2015, la banca è considerata in dissesto o a rischio di dissesto in una o più delle seguenti situazioni: a).risultano irregolarità nell’amministrazione o violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie che regolano l’attività della banca di gravità tale che giustificherebbero la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività; b).risultano perdite patrimoniali di eccezionale gravità, tali da privare la banca dell’intero patrimonio o di un importo significativo del patrimonio; c) le sue attività sono inferiori alle passività; d) essa non è in grado di pagare i propri debiti alla scadenza; e).elementi oggettivi indicano che una o più delle situazioni indicate nelle lettere a), b), c) e d) si realizzeranno nel prossimo futuro;

1 Nel Banking Act (integrato con la disciplina di attuazione della direttiva BRRD) la condizione di failing or likely to fail è letta unitariamente, cfr. section 6.14: «A banking institution is considered to be failing to fail in one or more of the following circumstances: – if the banking is failing, or is likely to fail to satisfy the threshold conditions in circumstances where that failure would justify the variation or cancellation by the PRA or FCA of the banking institution’s permission to carry on one or more regulated activities; – the value of the assets of the banking institution are or are likely soon to be less than value of its liabilities; – the banking institution is unable or likely to become unable to pay its debts as they fall due».

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f).è prevista l’erogazione di un sostegno finanziario pubblico straordinario a suo favore, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 18. Da tale elencazione emerge che si tratta di elementi che nella sostanza coincidono con gli stessi indici che vengono presi in considerazione per l’accertamento giudiziale dell’insolvenza della banca, in quanto fanno riferimento ad insufficienze anche prospettiche della banca. Tali indici sono infatti prevalentemente riferiti alla situazione patrimoniale della banca. In particolare le perdite patrimoniali lett. b), e il deficit patrimoniale lett. c), la circostanza che tali elementi si potranno realizzare nel prossimo futuro lett. e), come pure l’indice di cui alla lett. d), secondo cui la banca è considerata in dissesto o a rischio di dissesto quando «essa non è in grado di pagare i propri debiti alle scadenze», riproponendo in altre parole la formulazione dell’art. 5 l. fall. a norma del quale «lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimento od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni» vale a dire alle scadenze e con mezzi normali di pagamento. Ne discende che il dissesto o rischio di dissesto da un lato e lo stato di insolvenza dall’altro non descrivono diversi gradi della crisi della banca. La differenza fra tali nozioni risiede piuttosto nella diversità di funzione che l’ordinamento nazionale ed europeo attribuisce ad esse. Il dissesto o rischio di dissesto è, infatti, il presupposto per l’apertura della procedura di gestione della crisi – risoluzione o liquidazione coatta amministrativa – e viene accertato dalla Banca d’Italia o dalla Banca Centrale Europea, secondo le dimensioni della banca ed è dovere dell’organo di amministrazione e controllo informare la Banca centrale Europea se la banca è in dissesto o a rischio di dissesto secondo quanto previsto dall’art. 17, co. 1, lett. a), come avvenuto da parte della Banca Popolare di Vicenza con notification del 23.6.2016. I riferimenti contenuti nella BRRD all’insolvenza non sono diretti a prevedere o regolare un ulteriore livello di gravità della crisi bancaria, ma piuttosto più semplicemente sono volti ad indicare la procedura ordinaria di insolvenza come procedura residuale ed alternativa alla procedura di Risoluzione. La BRRD presuppone infatti che in ogni paese della Unione Europea sia prevista una generale ed ordinaria procedura di insolvenza volta a disciplinare la crisi e l’insolvenza dell’impresa, compresa l’impresa bancaria. Negli altri paesi dell’Unione Europea non risulta sia prevista una speciale procedura concorsuale per la banca, come piuttosto è prevista in Italia con la liquidazione coatta amministrativa di cui all’art. 80 e segg. t.u.b. e conseguentemente è giustificato

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che nell’indicare la procedura alternativa e residuale alla risoluzione, la BRRD faccia riferimento alla «procedura ordinaria di insolvenza». In conclusione, dissesto ed insolvenza sono concetti sovrapponibili nel contenuto, ma che corrono paralleli nella funzione che rispettivamente svolgono. L’accertamento del dissesto o rischio di dissesto dà luogo, come si è detto, alla procedura di risoluzione o alla «ordinaria procedura di insolvenza» e cioè alla liquidazione coatta amministrativa, come appunto è accaduto per le due banche venete. L’accertamento dello stato di insolvenza secondo il nostro sistema deve avvenire da parte del Tribunale e questo sia nel caso in cui sia stata disposta la procedura di risoluzione, sia di liquidazione coatta amministrativa (che nel nostro sistema costituisce per le banche la procedura residuale denominata nella BRRD procedura ordinaria di insolvenza). La dichiarazione di insolvenza è nel nostro ordinamento comunque il risultato di un ulteriore procedimento giudiziale promosso dai commissari speciali della risoluzione oppure su ricorso dei commissari liquidatori nella liquidazione coatta amministrativa, art. 82, co. 2, t.u.b., ferme restando le legittimazioni di legge. A differenza di quanto avviene nel fallimento dell’imprenditore di diritto comune, la dichiarazione dello stato di insolvenza della banca non costituisce il presupposto per l’avvio della procedura di gestione della crisi, in quanto l’insolvenza può essere accertata giudizialmente dal Tribunale anche in un momento successivo all’apertura della risoluzione o della liquidazione coatta amministrativa (cfr. i già citati art. 36 d.lgs. n. 180/2015 o art. 82, co. 2, t.u.b.). L’insolvenza bancaria costituisce infatti piuttosto il presupposto per l’esercizio delle azioni concorsuali, quali le azioni revocatorie, e per l’applicazione delle altre norme, anche di carattere penale, come peraltro espressamente specificato dall’art. 36 d.lgs. n. 180/2015, in relazione all’insolvenza dichiarata dopo l’apertura della procedura risoluzione. Il verificarsi di una situazione di dissesto o rischio di dissesto comporta l’applicazione della misura della risoluzione qualora il Comitato di risoluzione unico rilevi che non sia prospettabile una qualsiasi misura alternativa che permetta di evitare il dissesto in tempi ragionevoli e che l’azione di risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico (cfr. art. 18, Regolamento UE n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 luglio 2014). Nel caso delle Banche Venete ad esempio, il sopravvenire dello stato di failing or likely to fail e le dimensioni Significant della banca potevano consentire il trattamento del dissesto attraverso la procedura della risoluzione. Il Comitato ha, tuttavia, ritenuto di escluderne l’adozione in

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considerazione della mancata ricorrenza di un interesse pubblico richiesto per la applicazione di una tale misura, la cui complessa articolazione esige non soltanto una adeguata prospettiva di collocamento dell’azienda bancaria o di parti di essa, ma anche un’adeguata giustificazione sulla base di un programma di risanamento che giustifichi l’applicazione delle misure di risoluzione, quali la riduzione, la conversione, il ricorso all’ente ponte o alla società veicolo per la cessione dell’azienda o di parte dell’azienda o delle attività o passività, il bail-in. 2. Le misure di risoluzione. Tra le diverse misure di risoluzione2 la riduzione delle azioni, come pure la riduzione e conversione dei crediti, sono sicuramente le più innovative. Esse possono essere applicate indipendentemente dall’avvio di una procedura di risoluzione, e costituiscono uno dei tratti significativi del procedimento di assorbimento delle perdite, insieme con il bailin. Quest’ultima espressione, che il legislatore italiano ha mantenuto e ripreso da quella originaria della direttiva, è definita all’art. 1, co. 1, lett. g), d.lgs. n. 180 del 2015, la riduzione o conversione in capitale dei diritti degli azionisti o dei creditori e può essere intesa quale misura di ricapitalizzazione interna, vale a dire un salvataggio interno, realizzato con mezzi propri.

2 Così definite dall’art. 39 nel d.lgs. 180/2015, la cui disciplina si applica alle banche aventi sede legale in Italia, alle società italiane capogruppo di un gruppo bancario e società appartenenti a un gruppo bancario ai sensi degli artt. 60 e 61 del t.u.b. alle società incluse nella vigilanza consolidata ai sensi dell’art. 65, co. 1, lett. c), e h), del t.u.b., alle banche aventi sede legale in Italia incluse nella vigilanza consolidata di uno stato membro. La disciplina della risoluzione si applica anche alle SIM rientranti nel novero dell’art. 55-bis co. 1, del t.u.f. che prestano servizi o attività di investimento consistenti in a) negoziazione per conto proprio; b) sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo o assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; c) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. Il capo II-bis del t.u.f. (rubricato «Risoluzione delle SIM», composto dagli articoli da 60-bis.1 a 60-bis.4), prevede che le SIM rientranti nel menzionato art. 55-bis, co. 1, possono essere sottoposte a «riduzione o conversione di azioni o di altre partecipazioni e di strumenti di capitale», a «risoluzione», ovvero a «liquidazione coatta amministrativa», previste dall’art. 20 del d.lgs. 180/2015, al ricorrere dei presupposti dell’art. 17 del medesimo decreto. Sembra si possa dire che la disciplina della risoluzione di cui al d.lgs. 180/2015, si applichi alle SIM allorquando la natura della attività svolta comporta l’assunzione di obbligazioni che impegnano il suo patrimonio verso terzi ed il mercato.

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Nel caso in cui la riduzione e la conversione previste dall’art. 20, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 180 del 2015, non consentano di rimediare allo stato di dissesto o al rischio di dissesto, tale obiettivo, secondo quanto previsto dallo stesso art. 20, lett. b), potrà essere perseguito attraverso la procedura di risoluzione. L’assorbimento delle perdite, attraverso la riduzione e la conversione, può risultare non sufficiente a consentire il superamento del dissesto. Di qui la necessità di dare contestualmente corso alle misure di risoluzione stabilite dall’art. 39, d.lgs. n. 180 del 2015. Queste sono alternativamente o cumulativamente applicabili e consistono nella cessione di beni e rapporti giuridici a un soggetto terzo, a un ente-ponte, a una società veicolo e nella applicazione del bail-in. Abbiamo visto che la Banca d’Italia sulla base della valutazione predispone il programma di risoluzione e attraverso l’applicazione delle diverse misure, effettua una operazione di scomposizione e ricomposizione delle risorse aziendali. In questo modo l’autorità di risoluzione, utilizzando i beni e rapporti giuridici attivi e passivi del patrimonio del precedente ente sottoposto a risoluzione, viene a formare il patrimonio aziendale di un nuovo ente. Le operazioni di riduzione e conversione effettuate consentono di dotare il nuovo ente di un patrimonio in equilibrio, in modo tale che esso sia idoneo allo svolgimento dell’attività bancaria3. Una volta assorbite le perdite, le misure di risoluzione previste dall’art. 39, d.lgs. n. 180 del 2015, offrono le condizioni per la prosecuzione della gestione dell’azienda o delle parti di essa ritenute idonee ad una prosecuzione dell’attività, aprendo la strada, quindi, al superamento del dissesto.

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La prima applicazione del d.lgs. n. 180 del 2015, che si è avuta a pochi giorni dalla sua entrata in vigore, costituisce un rilevante precedente. La Banca d’Italia, con i provvedimenti del 22 novembre 2015, emessi ai sensi dell’art. 32, ha sottoposto le quattro banche a risoluzione, ha determinato nello stesso tempo la chiusura della precedente procedura di amministrazione straordinaria ed ha nominato i commissari speciali ed il comitato di sorveglianza della banca in risoluzione. In questo caso, come si è sopra già accennato, le misure di risoluzione adottate non comprendevano la applicazione del bail in, in quanto la legge di delegazione europea 2014, n. 114, all’art. 8, co. 1, lett. b), prevedeva che lo strumento del bail-in si applicasse dal 1° gennaio 2016. La copertura delle perdite quantificate sulla base della valutazione provvisoria ex art. 25 del d.lgs. 180, è stata disposta dalla Banca d’Italia con provvedimento di riduzione delle riserve, delle azioni (capitale rappresentato da azioni, anche non computate nel capitale regolamentare), e delle obbligazioni subordinate (riduzione del valore nominale degli elementi di classe 2, computabili nei fondi propri).

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Al fine di realizzare una definitiva separazione e distacco dalle vicende patrimoniali ed anche reputazionali del precedente ente sottoposto a risoluzione, l’attività bancaria può essere condotta da un nuovo soggetto 4. La cessione di beni e rapporti giuridici ad un soggetto terzo o ad un ente-ponte o a una società veicolo per la gestione delle attività, sono strumenti attraverso i quali si realizza la complessiva ingegneria di risoluzione. L’ente-ponte viene costituito con una funzione meramente strumentale di gestione di beni e rapporti giuridici e di mantenimento della continuità delle funzioni essenziali precedentemente svolte dall’ente sottoposto a risoluzione, al fine di consentire la successiva collocazione sul mercato dell’azienda bancaria attraverso la cessione a terzi delle partecipazioni al capitale oppure dei diritti o ancora delle attività e passività trasferite all’ente-ponte. Tale funzione strumentale emerge anche dalle previsioni relative ai requisiti per l’esercizio dell’attività bancaria. Nella cornice dell’enteponte essa può essere consentita in via provvisoria anche se non sono soddisfatti i requisiti richiesti. Ciò evidentemente al solo scopo di non interrompere la continuità dell’attività bancaria ed evitare quindi ulteriori perdite di valore del patrimonio e pregiudicare la stabilità del sistema. L’ente-ponte viene appositamente costituito 5 con nomina degli organi di amministrazione e controllo da parte della Banca d’Italia. L’intera conformazione è di stretta competenza della autorità di risoluzione, la quale redige il testo dello statuto e con apposito provvedimento, ne dispone l’adozione unitamente all’assegnazione ai suoi organi delle strategie e del profilo di rischio. Lo scopo e i limiti di intervento dell’ente-ponte sono quindi scanditi dallo statuto e dal provvedimento e sono necessariamente circoscritti alle finalità di mantenimento del valore e della continuità, particolarmente con riguardo alla salvaguardia dei rapporti con la clientela, al fine di

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Non a caso allorquando, con decreto legge del 22 novembre 2015 n. 183, sono stati costituiti quattro enti-ponte ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. 16 novembre 2015 n. 180, la locuzione nuova ha contraddistinto la denominazione di tutte e quattro le società per azioni destinatarie dei patrimoni delle quattro banche, proprio al fine di assicurare anche sul piano della individuazione della ragione sociale il completo distacco dal precedente ente sottoposto risoluzione. 5 Nel caso delle quattro banche con il citato decreto legge del 22 novembre 2015, n. 183.

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consentire entro un arco di tempo assai circoscritto, la collocazione della banca sul mercato6. Si deve ritenere dunque che all’ente-ponte siano consentite azioni e operazioni volte alla conquista di nuovi mercati o all’allargamento dell’attività purché coerenti con il raggio di azione temporale dell’enteponte stesso. Deve inoltre considerarsi che tali azioni ed iniziative potrebbero risultare non compatibili con la disciplina della concorrenza considerato che il nuovo soggetto bancario temporaneamente condotto dall’ente-ponte si potrebbe avvalere rispetto agli altri competitors, della posizione di vantaggio raggiunta per effetto della avvenuta applicazione delle misure di risoluzione. L’ente-ponte assolve alla funzione di separare con un secco e deciso iato l’originario ente sottoposto a risoluzione dal soggetto destinato al mercato e costituisce l’involucro organizzativo, conformato quale società per azioni, totalmente controllato dalla Banca d’Italia con il quale, successivamente all’applicazione della risoluzione, l’azienda bancaria viene messa nelle condizioni di poter operare nel mercato. Si tratta di condizioni che il mercato dovrà valutare ed apprezzare. L’azienda potrà così operare attraverso l’intervento di terzi che ne ritengano conveniente l’acquisizione la quale potrà avvenire con l’acquisto delle partecipazioni o con la fusione con soggetti bancari già esistenti oppure mettendo mano ad ulteriori ricapitalizzazioni. In ogni caso le possibilità che l’azienda bancaria che risulta all’esito della risoluzione e della gestione provvisoria attuata dall’ente-ponte, possa continuare ad operare utilmente nel mercato e nel rispetto dei requisiti prudenziali, dipende strettamente dall’ulteriore consolidamento del patrimonio. Questo potrà essere realizzato sia per l’effetto dell’impegno e dell’investimento che potrà essere attuato da soggetti terzi, sia dall’in-

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Gli ulteriori elementi della strategia e del profilo di rischio indicati dalla Banca d’Italia sono volti a porre in essere politiche e azioni gestionali e commerciali prudenti e sostenibili; ad adottare iniziative volte ad assicurare continuità alle funzioni essenziali svolte a favore delle comunità locali; a rinsaldare i legami con la clientela e i territori di elezione e per tale via preservare il valore aziendale; a perseguire una prudente crescita dell’attività creditizia, prevalentemente a favore del settore retail e delle piccole e medie imprese, sulla base di una adeguata valutazione del merito creditizio attuale e prospettico dei sovvenuti; a favorire il processo di dismissione sul mercato della banca in linea con le indicazione della autorità di risoluzione; ad applicare rigorose politiche di remunerazione del personale; a rafforzare il senso di appartenenza e identità con la banca delle risorse umane.

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gresso di una governance completamente nuova e di una altrettanto rinnovata compagine sociale. Quanto alla società veicolo essa è costituita su disposizione della Banca d’Italia, che nomina gli organi di amministrazione e controllo, definendone le attribuzioni e le remunerazioni7. La cessione dei beni e dei rapporti giuridici ad essa è sostanzialmente servente rispetto alla cessione ad un terzo, ad un ente-ponte o all’applicazione del bail-in, e conseguentemente l’art. 39, co. 2, d.lgs. n. 180 del 2015, prescrive che essa non può essere disposta se non congiuntamente alle altre misure appena citate. Tale cessione inoltre può essere disposta solo in presenza di particolari presupposti (art. 46, co. 1, d.lgs. n. 180 del 2015), riconducibili nella sostanza: a) all’esigenza di agevolare il funzionamento dell’ente sottoposto a risoluzione o dell’ente-ponte; b) alla massimizzazione dei proventi ricavabili dalla liquidazione; c) ad evitare quegli effetti negativi nei mercati finanziari che si potrebbero verificare con l’applicazione di una procedura concorsuale. L’espressione cessione di cui agli artt. 39-47, d.lgs. n. 180 del 2015, comprende nello stesso tempo il trasferimento dei diritti di credito, dei diritti reali o rapporti giuridici attivi e passivi, ma comprende anche il potere della Banca d’Italia di disporre autonomamente ed unilateralmente tali trasferimenti e di conformarne le dimensioni, il contenuto, la portata e tutte le modalità e financo gli effetti. Il trasferimento è dunque l’atto dispositivo della autorità di risoluzione con cui si realizza la separazione e il definitivo distacco di quelle parti del patrimonio – vale a dire dei beni e dei rapporti giuridici attivi e passivi – destinate a trovare continuità nel mercato rispetto a quelle parti che hanno subito la riduzione o che comunque non sono suscettibili di ulteriore continuità. Il trasferimento di beni e diritti non discende dalle volontà negoziali del cedente e del cessionario, che la legge stessa stabilisce che non siano richieste. L’art. 47, co. 2, d.lgs. n. 180 del 2015, prevede espressamente che le cessioni non richiedono il consenso di soggetti diversi dal cessionario. Il trasferimento è il frutto del solo esercizio di un potere riconosciuto alla Banca d’Italia di disporre di tutte le risorse che dopo

7 Il capitale dell’ente-ponte, come pure della società veicolo, è interamente o parzialmente detenuto dal fondo di risoluzione o da autorità pubbliche (art. 47, co. 2, d.lgs. 180 del 2015).

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l’assorbimento delle perdite, risultino nel patrimonio dell’originario ente sottoposto a risoluzione. Essa ne dispone mediante un atto di attribuzione patrimoniale, definito provvedimento di cessione, ad un soggetto terzo o all’ente-ponte. Si tratta quindi di un trasferimento di beni e rapporti giuridici che viene realizzato per effetto dell’esercizio di un potere di cessione sui generis, di diritto speciale. L’art. 39, d.lgs. n. 180 del 2015, nello stabilire le diverse misure di risoluzione, determina le modalità che devono essere rispettate e le finalità che devono essere perseguite dall’autorità di risoluzione nell’esercitare il potere di cessione. A seconda del soggetto destinatario della cessione, il trasferimento di beni rapporti giuridici, che viene realizzato con la cessione, risulta di volta in volta espressione di una operazione sostanzialmente diversa. Se il destinatario della cessione è un soggetto terzo, le azioni, le partecipazioni, tutti i diritti, le attività e le passività vengono scambiate contro un corrispettivo che il terzo potrà corrispondere ai titolari delle azioni o partecipazioni oppure all’ente sottoposto a risoluzione. Se invece il destinatario è l’ente-ponte, l’oggetto della cessione è il medesimo ma a differenza del caso precedente, non viene prevista la corresponsione di un corrispettivo, trattandosi di una successione nei diritti e nelle attività o nelle passività che non ha carattere di collocazione sul mercato ma piuttosto di trasferimento del tutto transitorio, propedeutico ad una collocazione futura dell’azienda bancaria. Se infine destinatario della cessione è una società veicolo per la gestione delle attività, la cessione è relativa soltanto a quei beni e rapporti giuridici che è opportuno staccare dalla più ampia cessione effettuata ad un terzo o all’ente-ponte, al fine di massimizzare il valore oppure al fine di consentirne la liquidazione assieme alla stessa società veicolo. La cessione riveste caratteri del tutto speciali anche riguardo agli effetti. Sulla base di quanto stabilito all’art. 47, d.lgs. n. 180 del 2015, la pubblicazione nel sito internet di Banca d’Italia ha efficacia di pubblicità notizia, dichiarativa e costitutiva ivi compresi l’efficacia di cui agli artt. 1264, 2022, 2355, 2470, 2525, 2556 c.c.8 Il trasferimento dei beni e

8 La Banca d’Italia sulla base del potere ad essa riconosciuto di determinare la decorrenza dei provvedimenti di avvio della risoluzione (l’art. 32, co. 2, d.lgs. n. 180 del 2015) costruisce una opportuna sequenza temporale dei diversi provvedimenti. Ciò al fine di soddisfare nello stesso tempo l’esigenza di contemporanea applicazione delle diverse misure (richiesta per l’efficacia dell’intervento e la stabilità del sistema) e l’esigenza di consequenzialità giuridica dei diversi passaggi. Nella risoluzione delle

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dei diritti è indenne dalle eccezioni del contraente ceduto, questo può opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto ma non quelle fondate su altro rapporto col cedente (art. 47, co. 4), e comporta a favore del cedente anche in deroga agli artt. 1273, 2112, 2558, 2560, effetti liberatori dagli obblighi di adempimento (art. 47, co. 5). La cessione sul piano sostanziale ha poi effetti di separazione patrimoniale, in quanto gli azionisti ed i creditori dell’ente sottoposto a risoluzione, come pure i terzi i cui diritti, attività o passività non sono oggetto di cessione, subiscono l’estinzione di qualsiasi pretesa sui diritti, sulle attività e passività oggetto della cessione, come pure nei confronti degli organi di amministrazione e controllo o dell’alta dirigenza del cessionario (art. 47, co. 7, d.lgs. n. 180 del 2015)9.

Le tutele * Sandro Amorosino Sommario: 1. La tutela come fine e le tutele come mezzi. – 2. La partecipazione alla procedura del piano di risoluzione. – 3. La forzata assenza della partecipazione nella procedura di risoluzione. – 4. I procedimenti di riesame dei provvedimenti di risoluzione. – 5. Lo “speciale” regime del giudizio amministrativo relativo ai provvedimenti di risoluzione. –

1. La tutela come fine e le tutele come mezzi. Il tema delle tutele in relazione alle risoluzioni bancarie può essere letto da due angolazioni diverse, pur se tra loro complementari. In un primo significato tutela ha una valenza sostanziale e sta ad indicare quali posizioni ed interessi i legislatori (europeo e nazionale) hanno ritenuto meritevoli di salvaguardia nelle vicende di risoluzione.

quattro banche la decorrenza dell’avvio della risoluzione è stato fissato alle ore 22 del 22 novembre; la nomina degli organi della risoluzione nello stesso momento; la cessione dell’azienda bancaria dall’ente in risoluzione all’ente-ponte alle ore 00,01 del giorno di costituzione dell’ente-ponte, la cui costituzione decorreva dalle ore 00.00 del 23 novembre 2015. Da quanto descritto può ricavarsi l’unitarietà del provvedimento ma anche la necessità di una scansione temporale che dia conto e giustificazione della consequenzialità dei diversi passaggi. 9 Agli azionisti e creditori è riconosciuta la tutela secondo il principio del no worse creditor off (NWCO) di cui all’art 87, d.lgs. n. 180 del 2015. * Questo scritto è destinato agli Studi in onore di Enrico Follieri.

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La compresenza “multilaterale” di posizioni soggettive diversificate, o confliggenti, ha imposto ai decisori politici di scegliere tra gli interessi “in campo”, privati e pubblici (o generali che dir si voglia). La tutela è intesa come fine: salvaguardare – nei limiti consentiti dalle concrete contingenze, e quindi in misura volta a volta variabile – gli interessi ritenuti primari. Il legislatore europeo ed “a cascata” quello nazionale li hanno individuati: – nella continuità – ove possibile, con i vari tipi di strumenti previsti – dell’impresa bancaria, entità autonoma doverosamente separata, come insegnava Ferro-Luzzi1 – dalle sorti della società gerente; – nella stabilità del sistema bancario; – nel non aggravio per la finanza pubblica (salvo “eccezioni” negoziate); –.nella tutela, nella misura possibile, dei creditori, il cui trattamento “finale” non deve essere peggiore di quello in cui si sarebbero trovati qualora la banca fosse stata sottoposta ad una procedura liquidatoria concorsuale (principio No Creditor Wors Off). Sono tutti interessi-obiettivo, da ponderare e contemperare nel caso concreto, oggetto di valutazioni complesse, previsionali e decisorie, al fine della scelta tra gli strumenti da utilizzare nella risoluzione (sale of businness, bridge bank, bad bank e bail-in). In un secondo significato tutela ha un senso strumentale e procedurale, riguarda i “soggetti interessati” ed attiene agli strumenti giuridici di difesa, utilizzabili nelle varie fasi della sequenza risolutoria ed “a valle” di essa. Tutela, quindi, come mezzo di difesa delle posizioni ed interessi incisi. Questi mezzi sono di più tipi; si parla – quindi – di tutele al plurale. Sul plesso normativo e sui meccanismi operativi della risoluzione – ordinati alla tutela degli interessi generali – vi è ormai una copiosa letteratura2 (cui si rinvia).

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Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario, vol. I, Torino 2004, pp. 37 ss. Nella già vasta bibliografia ci si limita a richiamare le monografie, recenti, di Rossano, La nuova regolazione delle crisi bancarie, Torino, 2017; Rulli, Contributo allo studio della disciplina della risoluzione bancaria, Torino, 2017; Raganelli, Architettura finanziaria e corti europee, Napoli, 2018; Ciraolo, Il finanziamento «esterno» delle risoluzioni bancarie, Padova, 2018, e, per un inquadramento diacronico, Brozzetti, «Ending of too big to fail» tra soft law e ordinamento bancario europeo, Bari, 2018 (cfr. in 2

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Molto minore è stato, invece, l’interesse per le tutele, intese come istituti e procedure di garanzia e difesa dei soggetti “coinvolti” nelle risoluzioni. In linea teorica i meccanismi di tutela operano in tre dimensioni giuridiche: – il procedimento (più precisamente: i procedimenti collegati) di risoluzione; – i rimedi amministrativi avverso i provvedimenti adottati; – i ricorsi giurisdizionali. A sessantasei anni dal saggio fondativo di Benvenuti3, che teorizzò il continuum tra le funzioni, è superfluo sottolineare le analogie morfologiche e le connessioni, diacroniche e sostanziali, tra le diverse procedure decisorie: quelle dell’amministrazione, quelle relative agli eventuali ricorsi amministrativi e quelle giurisdizionali. È un dato pacifico, con particolare riguardo alle procedure che – come nella risoluzione bancaria – hanno ad oggetto l’esercizio di un potere decisorio connotato da ampie facoltà di valutazione (tecnica ed al contempo discrezionale: poiché in ciascun caso concreto la graduazione degli obiettivi è tale); un potere che incide fortemente sulle posizioni dei soggetti, di vario tipo, interessati alla vicenda. In linea generale si può rilevare che i diversi meccanismi – procedimentali, remediali e giustiziali – sono, o dovrebbero essere, caratterizzati da un doppio minimo comun denominatore, funzionale e strutturale. La funzione è quella di pervenire alle decisioni più corrette in rapporto alle specifiche fattispecie e, a questo scopo, di garantire la partecipazione piena alle varie fasi della vicenda, dei soggetti potenzialmente incisi, prima, ed effettivamente “colpiti”, poi, dai provvedimenti ordinati alla risoluzione.

particolare pp. 148 ss.); adde Di Pietropaolo, voce Meccanismo di risoluzione unico in Enc. dir., Annale IX, Milano 2016, pp. 556 ss.; De Aldisio, Il meccanismo di risoluzione unico. La distribuzione dei compiti tra il Comitato di risoluzione unico e le autorità di risoluzione nazionali e altri aspetti istituzionali in AA.VV. Scritti sull’Unione Bancaria, Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n. 81, Roma, 2016, pp. 137 ss. e Del Gatto, Il Single Resolution Mechanism. Quadro d’insieme; Macchia, Il Single resolution Board, entrambi in AA.VV. L’Unione Bancaria Europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, 2016. 3 Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Rass. dir. pubb., 1952, pp. 118 ss.

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In ragione di questa comune funzione, pur diversamente declinata nelle varie procedure, di varia natura, i meccanismi di tutela dovrebbero presentare delle analogie strutturali, relative: al dovere di massima acquisizione degli elementi di valutazione; agli istituti procedurali previsti per la rappresentazione delle posizioni soggettive; alla piena conoscibilità, da parte dei soggetti interessati, degli atti di ciascuna procedura (in particolare di quelli che “preannunciano” decisioni negative); al diritto di replica; al dovere degli organismi pubblici decidenti di prendere seriamente in considerazione le allegazioni delle parti ed al correlato obbligo di puntuale motivazione; alla impugnabilità delle decisioni, sia amministrative che giurisdizionali4. In estrema sintesi: il principio comune alle fasi procedimentali, remediali e giustiziali è, o meglio dovrebbe essere, quello del «due process» of law e, nei procedimenti in contraddittorio, quello del «fair trial»5. 2. La partecipazione alla procedura del piano di risoluzione. Si è usato più volte il condizionale perché il modello teorico ora richiamato trova un forte ostacolo ad inverarsi nell’oggetto stesso e nella disciplina normativa delle attività poste in essere dal Single Resolution Board e, per quanto di competenza – propria o esecutiva – dall’Autorità nazionale di risoluzione. Appare innanzitutto necessario raccordare il piano di risoluzione e la risoluzione. Il primo, continuativamente aggiornato, viene in rilievo in questa sede perché dovrebbe costituire la base conoscitiva ed il disegno organizzatorio cui fare riferimento nel caso in cui, successivamente alla sua approvazione, lo “scenario” della ipotizzata risoluzione sia divenuto reale. Per quanto riguarda il procedimento ordinato alla predisposizione ed approvazione del piano di risoluzione le regole europee prevedono un’ampia partecipazione. A questo proposito l’art. 9 del d.lgs. n. 180/2015 prevede un obbligo di cooperazione della banca nella predisposizione del piano.

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Su questi profili generali v., per tutti, i lavori più recenti: Picozza, Introduzione al diritto amministrativo2, Padova, 2018, pp. 298 ss.; pp. 375 ss. e p. 509 ss.; Lombardi, Le parti del procedimento amministrativo. Tra procedimento e processo, Torino, 2018, pp. 171 ss. 5 Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, p. 232.

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Il piano di risoluzione – si ricorda di passata – è un atto di natura mista: è programmatico/previsionale, ma al contempo è immediatamente conformativo6 dell’organizzazione della società e dell’attività dell’impresa bancaria, nel senso che l’Autorità di risoluzione può e deve adottare tutti i provvedimenti necessari a far eliminare il divario tra la situazione effettuale dell’ente e quella ritenuta idonea ad assicurare la (eventuale) risolvibilità mediante l’applicazione delle misure previste nel piano di risoluzione. Il giudizio di risolvibilità7 – ch’è frutto anch’esso di una valutazione previsionale – può essere quindi una presa d’atto di una situazione (ritenuta ragionevolmente come) compliant, oppure un obiettivo da raggiungere mediante l’attuazione del piano di risoluzione. In questo scenario, assai sommariamente richiamato – nel quale non c’è (ancora) l’urgenza e la riservatezza del provvedere – si collocano le forme di partecipazione procedimentale della banca. Vengono qui in rilievo tre direttrici. In primo luogo: in vista della predisposizione del piano di risoluzione la società bancaria deve compiere uno screening, una sorta di autoanalisi della situazione reale dell’impresa ed un’autoindividuazione delle misure idonee ad eliminare le disfunzioni, ma anche, più semplicemente, i limiti della propria imprenditività [fase ascendente]. Di tutto ciò la banca deve dare una corretta rappresentazione all’Autorità di risoluzione, la quale – seconda fase – deve assumere il quadro sistematico ricevuto, vagliarne la completezza e la plausibilità, introdurre le integrazioni ed i correttivi necessari (salvo predisporne uno alternativo, ma motivando, in questo caso, circa l’“inservibilità” dello schema ricevuto) ed inviarlo alla banca [fase discendente]. In terza battuta la banca può presentare le sue osservazioni o chiedere chiarimenti o anche una consultazione diretta e l’Autorità di Vigilanza, dopo aver vagliato tali ulteriori acquisizioni istruttorie, procede ad approvare il piano di risoluzione.

6 Santoro, Prevenzione e «risoluzione della crisi delle banche», in www. regolazionedeimercati.it, e Sartori, Il sistema bancario nella prospettiva dei nuovi meccanismi di risanamento, in Riv. trim. dir. econ., 2017 – suppl. al n. 4. 7 Magliari, Dalla direttiva sul risanamento e la risoluzione degli enti creditizi al Meccanismo di risoluzione unico. Il quadro istituzionale, in AA.VV. L’Unione Bancaria, cit., p. 391.

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3. La forzata assenza della partecipazione nella procedura di risoluzione. Veniamo alla risoluzione in senso proprio, la quale, com’è noto, ha come presupposti: l’accertato dissesto; la verificata insussistenza di soluzioni alternative ed il parimenti dichiarato interesse pubblico alla risoluzione stessa. Sono tutti procedimenti di accertamento8 costitutivi di situazioni giuridiche, i quali lasciano poco spazio logico-giuridico alla partecipazione – in funzione di tutela delle rispettive posizioni – degli organi dell’ente o dei suoi stakeholders [Vi è invece – “in senso inverso”, “ascendente” – l’obbligo della banca di informare la Banca d’Italia della situazione di dissesto o di rischio di dissesto]. A tali accertamenti segue l’avvio o apertura della risoluzione, in sostanza la decisione di «risolvere». Siamo quindi in presenza di una fattispecie complessa, a formazione progressiva, che presenta, per quanto qui interessa, un tratto unitario: si tratta di valutazioni e decisioni per così dire conclusive e di sintesi, strettamente riservate all’autorità di risoluzione, che costituiscono il fondamento del provvedimento di avvio della risoluzione, il quale si concretizza nel programma della risoluzione, articolato in una o più delle procedure operative previste. Sarebbe in astratto possibile ipotizzare che, nella fase prodromica dell’accertamento del dissesto, sia ammessa un’interlocuzione tra l’Autorità di risoluzione e l’ente potenziale destinatario dello specifico mix di misure risolutorie? A questa prospettazione “garantistica” si deve opporre che, onde evitare comportamenti opportunistici “anticipatori” da parte dei vertici societari, e comunque fughe di notizie destabilizzanti, le misure di risoluzione, una volta decise in sede riservata, debbono giungere senza preavviso, quocumque inaudito, come il fulmine di Giove della mitologia, pur se il programma della risoluzione prevede uno o più procedimenti ablatori reali ad efficacia esterna. A tale corretta impostazione corrisponde una chiusura “a doppio chiavistello” nella disciplina del d.lgs. n. 180/2015, in quanto: – l’art. 32 («Avvio della risoluzione»), co. 7, dispone: «Ai procedimenti previsti dal presente articolo non si applicano le disposizioni della legge 7 agosto 1990, in materia di partecipazione al procedimento amministrativo»;

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Giannini, Diritto Amministrativo, Vol. II, Milano, 1993, pp. 482 ss.

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– il successivo art. 60, («Poteri generali di risoluzione») comma 2, lett. b) dispone: «nell’esercizio dei poteri di risoluzione la Banca d’Italia non è tenuta: (…) b) a fornire comunicazioni, prima dell’esercizio di un potere di risoluzione di cui al presente Capo, inclusa la pubblicazione obbligatoria di eventuali avvisi o prospetti, né a depositare o registrare documenti presso altre autorità». Si tratta di due “sottolineature” non del tutto necessarie: – da un lato perché proprio nella legge n. 241/1990 vi sono più disposizioni che contengono deroghe o eccezioni ai principi generali di partecipazione e trasparenza, le quali ben si attagliano alla fattispecie della risoluzione: da quella relativa all’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento (che non vale quando vi sia l’urgenza di provvedere: art. 7); a quella relativa al segreto d’ufficio, che sicuramente si applica all’Autorità nazionale di risoluzione, in virtù della normazione di settore europea ed interna (art. 28)9; – dall’altro perché attribuisce all’Autorità nazionale di risoluzione una facoltà, ampiamente discrezionale, di dare, o non dare, comunicazioni “all’esterno” prima dell’adozione del provvedimento di risoluzione; facoltà ch’è già funzionalmente riconducibile al dovere di celerità e di segretezza. L’art. 32 e l’art. 60 del d.lgs. n. 180/2015 sono quindi di disposizioni – “segnale” (per usare una locuzione di scienza della legislazione). 4. I procedimenti di riesame dei provvedimenti di risoluzione. Veniamo alla dimensione remediale, cioè ai ricorsi avverso i provvedimenti di risoluzione, da presentarsi ad un organo di riesame che è, o dovrebbe essere, istituito presso l’Autorità di risoluzione, ma composto da soggetti esterni ed indipendenti. Nel diritto amministrativo questi ricorsi sono compresi tra i procedimenti di secondo grado e sono qualificati di riesame, in funzione di autotutela decisoria10.

9 V., per l’art. 7, Proietti, La partecipazione al procedimento amministrativo e, per il segreto (art. 28), Carloni, Il segreto d’ufficio, entrambi in AA.VV., Codice dell’azione amministrativa, rispettivamente a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, pp. 116 ss. e pp. 574 ss. 10 Picozza, Introduzione, cit. pp. 375 ss.; Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado in AA.VV., Diritto amministrativo, a cura di Scoca, Torino, 2015, pp.

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Si tratta di strumenti tradizionali di cd giustizia nell’amministrazione, sempre meno utilizzati nel nostro Paese11, preferendosi il ricorso al giudice (salvo il ricorso straordinario al Capo dello Stato, se si sono “persi i termini” per il primo). Viceversa, sono molto diffusi nei sistemi regolatori globali12 e nelle regolazioni europee. In particolare sia nella disciplina del S.S.M. – che ha il suo centro di riferimento nel Consiglio di vigilanza istituito nella BCE – sia nella disciplina del S.R.M.13 – al cui vertice è posto il S.R.B. – sono previsti organismi di riesame (rispettivamente: la Commissione amministrativa del riesame e la Commissione per i ricorsi). La ragione è l’elevato tasso di tecnicità che questi organismi di riesame “di settore” – composti da esperti indipendenti con capacità di valutazione sostanziale, anche tecnica, e caratterizzati da rapidità di pronuncia – assicurano rispetto ai giudici, europei e nazionali, “costretti” nell’ambito della legittimità. Su un piano dogmatico generale essi sono da ricomprendersi tra gli «organismi giudicanti» delle controversie economiche, accanto ai giudici in senso proprio (di vario genere e livello) ed alle procedure di ADR, arbitrali o conciliative14. Nel caso specifico delle risoluzioni bancarie è da riscontrare, per quanto riguarda gli organismi di riesame, una significativa asimmetria regolatoria: il Regolamento UE n. 806/2014, all’art. 85, prevede l’istituzione, presso il S.R.B., di una Commissione per i ricorsi (composta da cinque esperti molto qualificati ed esterni, che agiscono esclusivamente nel pubblico interesse). Viceversa nessun organo di riesame è previsto nella disciplina nazionale, legislativa o regolamentare (dell’Unità autonoma di risoluzione e gestione delle crisi, costituita presso Banca d’Italia a seguito della sua individuazione, da parte del legislatore italiano, come Autorità nazionale di risoluzione).

356-7; Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2017, pp. 596 ss. 11 Torchia, La nuova governance economica dell’UE e l’unione bancaria, in AA.VV., L’Unione bancaria, cit. pp. 60-61. 12 Casini, Potere globale, Bologna, 2018, pp. 22 ss. 13 D’Ambrosio, Meccanismo di vigilanza unico; Di Pietropaolo, Meccanismo di risoluzione unico, entrambi in Enc. dir. Annale IX, Milano, 2016, pp. 615 ss. e pp. 556 ss. 14 Sia consentito il rinvio a Amorosino, Gli organismi «giudicanti» delle controversie economiche in Id. Le dinamiche del diritto dell’economia, Pisa, 2018, pp. 117 ss.

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Tale asimmetria risponde ad una sorta di comprensibile «ritrosia» ad istituire organismi indipendenti di riesame delle decisioni dell’Autorità (di vigilanza ed ora anche) di risoluzione, ritenendosi sufficiente la possibilità di ricorrere al giudice (nella specie: quello amministrativo). Né sarebbe possibile “riesumare”, allo scopo, l’istituto del reclamo al CICR15, previsto dall’art. 9 del t.u.b., il quale è andato in desuetudine (a seguito della marginalizzazione del Comitato nel sistema di Banking Union); in più il CICR è legittimato a pronunciarsi unicamente sui provvedimenti adottati da Banca d’Italia nell’esercizio dei poteri di vigilanza attribuitile dal t.u.b. (ora rimastile nel SSM). Qualche malizioso potrebbe pensare che la mancata previsione di un organismo di riesame dei provvedimenti di risoluzione, adottati dall’«Unità autonoma» nei confronti delle banche non significative (e, comunque, non oggetto di intervento da parte del SRB), sia motivata dall’intento di conservare una sorta di monopolio delle valutazioni tecniche, ed anche discrezionali, nella scelta dei tempi e dei modi (cioè del mix tra gli strumenti/procedure di risoluzione). Monopolio non scalfito dalla sindacabilità dei provvedimenti in sede giurisdizionale che – come si dirà – pur essendo esclusiva, cioè estesa ai diritti, è limitata ai profili di legittimità e, anche in questo ambito, piuttosto “compressa”. Per “contrappasso” è interessante accennare rapidamente alla configurazione data dall’art. 85 del Regolamento UE n. 806/2014 alla «Commissione per i ricorsi». S’è già accennato alla composizione: cinque persone di elevata reputazione e qualificazione tecnica e giuridica e di sicura indipendenza (dovendo essere esterni al Board e ad altri organismi pubblici competenti in materia). Legittimati a ricorrere sono tutti i soggetti interessati, ivi comprese le autorità di risoluzione (ciò che può sottendere conflitti di competenza tra chi ha adottato il provvedimento impugnato e l’autorità ricorrente). I termini per impugnare sono due mesi dalla data di notifica della decisione e, per decidere il ricorso, un mese dal ricevimento (termine ordinatorio). La presentazione del ricorso non ha effetto sospensivo, ma la Commissione – anche su richiesta del ricorrente – può sospendere l’esecuzione della decisione impugnata «se ritiene che le circostanze lo richiedano».

15

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Bani, Commento all’art. 9, in AA.VV. Commentario, cit. pp. 105 ss.


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La concessione della tutela cautelare non è dunque subordinata a presupposti specifici, anche se è presumibile che essi ruotino attorno al periculum in mora. L’istruttoria del ricorso prevede la partecipazione, scritta ed orale, delle parti interessate. Le decisioni devono esser motivate e notificate. In caso di accoglimento del ricorso il Board è vincolato alla decisione della Commissione. In sintesi: si rinvengono i tratti del giusto procedimento, nel solco della tendenza ad assimilarlo al “giusto processo”, anticipando in sede procedimentale molte garanzie tipiche del processo16. 5. Lo “speciale” regime del giudizio amministrativo relativo ai provvedimenti di risoluzione. I ricorsi giurisdizionali sono proposti – a seconda dell’organo della risoluzione: Single Resolution Board o Autorità Nazionale – al Tribunale di primo grado delle Comunità europee o al TAR del Lazio, in sede di giurisdizione esclusiva. 5.1. Per quanto riguarda la giurisdizione europea, in particolare del Tribunale di primo grado, si rinvia alle trattazioni generali17: si tratta di una giurisdizione di legittimità, e quindi di annullamento, “doppiata” dalla possibilità di proporre un’azione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale dell’UE [i cui presupposti sono quelli “consolidati”: il comportamento contra jus di un’istituzione dell’Unione, l’esistenza di un danno, il nesso di causalità tra il comportamento ed il danno provocato]. La particolare complessità delle vicende di risoluzione, sommate alla limitazione della responsabilità delle Autorità ai casi di colpa grave, concorrono a rendere di difficile esperibilità l’azione risarcitoria. 5.2. È noto, in linea generale, che il sindacato del giudice amministrativo italiano sui provvedimenti delle autorità indipendenti ha una portata limitata in quanto esso programmaticamente non “entra” nell’appropriatezza delle scelte compiute dall’autorità [nel nostro caso: di risoluzione]; scelte che il G.A. qualifica “per postulato” come frutto di discrezionalità tecnica (a fronte della quale ritiene preclusa l’utilizzazione dello speri-

16

Raganelli, Architettura finanziaria e corti europee, cit., p. 283. Chiti, La tutela giurisdizionale, in AA.VV., Diritto amministrativo europeo, Milano, 2018, pp. 418 ss. 17

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mentato strumentario dell’eccesso di potere, di cui ci si avvale per scrutinare le scelte discrezionali)18. Il G.A. – semplificando al massimo – si limita a verificare se il provvedimento sia palesemente sproporzionato ed irragionevole (sotto il limitato profilo della plausibilità, o meno, della soluzione scelta) e se non sia fondato su un evidente travisamento od omessa considerazione dei fatti (che nel nostro caso dovrebbe innanzitutto riguardare la sussistenza dei presupposti della risoluzione). L’estrema complessità del percorso decisionale dell’Autorità di risoluzione, pieno di “nodi” ed alternative pragmatiche, certo non favorisce un approccio confutatorio19 del giudice, il quale è quasi fatalmente indotto ad una mera verificazione di coerenza del percorso stesso. È da chiedersi, tuttavia, se l’ampiezza dello spatium decidendi attribuito all’Autorità di risoluzione, in ordine alla scelta tra i vari strumenti della “cassetta degli attrezzi” consegnatagli dal legislatore europeo, non comporti anche l’esercizio di discrezionalità in senso proprio; è da aggiungere l’intervento nel procedimento – in sede europea – della Commissione e del Consiglio e, in sede nazionale, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che connotano di politicità le decisioni predisposta su base tecnica. E le scelte politiche sono discrezionali anche nel senso comune, atecnico, della locuzione. Siamo in presenza di un’evidente caso di «contaminazione tra la sfera dell’opinabilità e la sfera dell’opportunità»20. È da constatare, peraltro, che un’impostazione ulteriormente riduttiva della sindacabilità sembra sottesa all’art. 95 del d.lgs. n. 180/2015, giusta il quale: – si presume, fino a prova contraria, che la sospensione dei provvedimenti risolutori della Banca d’Italia o del MEF sia contraria all’interesse pubblico [id est: l’interesse pubblico delle misure adottate è sempre presunto]; – si inibisce al G.A. di disporre consulenze tecniche [id est: le valutazioni tecniche dell’Autorità di risoluzione sono, fino a prova contraria

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Chieppa – Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Milano 2017, pp. 330 ss.. Follieri, Logica del sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Milano, 2017, pp. 442 ss. 20 V., acutamente, Cintioli, voce Discrezionalità tecnica, in Enc. dir. Annali II, Tomo 2, Milano, 2008, p. 485. 19

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a carico del ricorrente, corrette ed insindacabili, salvo i vizi evidenti cui s’è accennato]; – infine, si consente al G.A. «di limitare gli effetti della pronuncia di annullamento, facendo salvi eventuali atti, amministrativi o negoziali, adottati o conclusi dall’Autorità di risoluzione o dai commissari speciali sulla base del provvedimento annullato, qualora ciò appaia necessario a tutelare gli interessi dei terzi in buona fede che abbiano acquistato» assets rivenienti dalla risoluzione21. È quasi un paradosso: due elementi tra loro antologicamente “incompatibili”, da un lato, il “postulato” della tecnicità delle scelte dell’Autorità di risoluzione e, dall’altro, la valutazione discrezionale (ed anche politica) circa la rispondenza all’interesse pubblico dello specifico mix di misure risolutorie adottate, concorrono a costituire una sorta di tenaglia nella quale resta pressata la tutela giurisdizionale dei diritti ed interessi lesi. Tutto ciò, ovviamente, indebolisce molto la posizione dei soggetti interessati22 (in primis i creditori della banca sottoposti al bail-in). Se, da un lato, la “tenuta costituzionale” del meccanismo si fonda sulla indubbia preminenza dell’interesse pubblico alla stabilità sistemica23, dall’altro non si può non sottolineare come il sindacato giurisdizionale non solo sia il più delle volte tardivo (essendo pressoché impraticabile la tutela cautelare), ma appaia strutturalmente inadeguato24. In sintesi: sul versante nazionale la partecipazione procedimentale è forzatamente preclusa, i rimedi amministrativi sono inesistenti ed il sindacato giurisdizionale appare dimezzato.

21 22 23 24

Magliari, L’attuazione, cit., pp. 400 ss. Ciraolo, Il finanziamento, cit., p. 153. Rossano, La nuova regolazione, cit., p. 111. Rulli, Contributo, cit., p. 165.

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I rapporti con altri procedimenti o strumenti di soluzione delle crisi bancarie Giuseppe Guizzi 1. Il tipo di problema su cui mi è stato chiesto di soffermarmi non è, in realtà, nuovo. La definizione dei rapporti che intercorrono tra le diverse procedure per la gestione e soluzione della crisi delle banche contemplate dall’ordinamento costituisce, infatti, una questione per certi versi classica per gli studiosi di quello che oggi si definisce «diritto dell’economia» (ma che io preferisco continuare a chiamare ancora diritto bancario), e che si è posta all’attenzione della nostra dottrina sia nel vigore della legge bancaria del 1936, sia all’indomani della promulgazione del Testo Unico del 1993. La differenza, rispetto al passato, è rappresentata, semmai, dalla circostanza che con l’avvento della nuova disciplina della risoluzione il quadro d’insieme si presenta assai più articolato, e dunque l’esercizio di quest’actio finium regundorum è certamente molto più complesso. Mentre, infatti, fino ad ora il problema si poneva in termini abbastanza semplici, nella misura in cui si trattava di chiarire solo la relazione esistente tra l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa, oggi si tratta, invece, di mettere ordine in un materiale normativo che è molto più denso e stratificato. Tale complessità nasce in parte - come ci ha ricordato Daniele Vattermoli nella relazione introduttiva - dall’esistenza di una disciplina multilivello, sicché nel ricostruire il quadro bisogna tenere conto dell’intreccio tra le previsioni contenute nelle fonti comunitarie e quelle dettate dalle fonti nazionali, e poi del fatto che mentre per le banche che assumono rilevanza sistemica a livello europeo la gestione della procedura di crisi si svolge a livello sovranazionale, con l’intervento del SRB, per le altre banche la competenza resta, invece, affidata alle Autorità nazionali. Ma essa dipende, a mio avviso, anche e soprattutto, dal fatto che pure a livello di diritto interno, dopo l’attuazione della CRDIV, si è venuto arricchendo in primo luogo il sistema delle misure di intervento precoce che possono essere adottate dall’Autorità di vigilanza appunto per evitare che la crisi giunga a compimento. Orbene per affrontare in maniera adeguata un problema complesso come quello descritto, vorrei premettere due osservazioni di metodo. La prima osservazione – e qui mi ricollego agli insegnamenti di Paolo Ferro-Luzzi – è che un problema come quello che ci occupa non può essere affrontato guardando semplicemente alle norme nella loro ogget-

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tività, in quanto esse ci offrono indicazioni in definitiva assai parziali, e talora anche equivoche, ma deve essere piuttosto indagato rivolgendo l’attenzione anche, e soprattutto, alla realtà effettuale, ossia sempre tenendo conto di come queste procedure sono state e vengono in concreto applicate. La seconda osservazione – e qui sono evidenti, credo, i riflessi anche dell’insegnamento del mio maestro, Berardino Libonati – è di non dimenticare mai la dimensione storica dell’esperienza giuridica. In questo senso è, pertanto, certamente utile muovere proprio da una preliminare considerazione di qual è stato, sino a oggi, il rapporto tra le procedure delineate dall’ordinamento, e a cui si affidava, allora in via esclusiva, la gestione della crisi, ossia l’amministrazione straordinaria da un lato, e la liquidazione coatta amministrativa, dall’altro lato. Se, infatti, come scriveva Gerhart Husserl, anche quella giuridica è un’esperienza che si colloca nel tempo, sicché il giurista, che pur deve sempre tenere il piede poggiato sul terreno del presente, non può svolgere correttamente la sua opera senza avere uno sguardo insieme retrospettivo e prospettico, ecco che l’analisi del punto di partenza, e dunque la sintetica ricostruzione del dibattito pregresso ha un valore più ampio di quello semplicemente informativo e documentario. Tale analisi acquista, invece, un significato utile, anzi essenziale, proprio per meglio comprendere non solo il punto in cui ci troviamo oggi ma altresì – dunque in senso prospettico, e poi con l’aiuto, come detto, della considerazione imprescindibile della realtà effettuale – qual è presumibilmente la tendenza del sistema, e quali possano ragionevolmente essere, pertanto, nella prospettiva a venire, le condizioni d’uso sia della procedura di amministrazione straordinaria, di cui il legislatore nazionale non ha inteso fare a meno, sia della liquidazione coatta amministrativa, valutandole poi entrambe in rapporto agli spazi occupati e alla funzione assolta dalla nuova procedura della risoluzione. 2. Nel sistema previgente la questione dei rapporti tra amministrazione straordinaria e liquidazione coatta è stata, per vero, alquanto discussa, e ciò perché controverso era soprattutto l’esatto inquadramento della natura e del ruolo della prima. Pur nell’ambito, infatti, di un generale consenso sull’idea che l’amministrazione straordinaria integrasse una forma sostitutiva nella gestione dell’impresa bancaria, riconducibile al paradigma delle c.d. gestioni commissariali, il contrasto emerso in dottrina riguardava, infatti, la ricostruzione della funzione cui tale commissariamento era preordinato. Nel vigore ancora della legge bancaria del 1936 – ma il dibattito si è poi riproposto, in termini analoghi, anche nella vigenza del quadro nor-

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mativo parzialmente novellato dal Testo Unico – si sono contrapposti, tendenzialmente, due diversi indirizzi interpretativi. Da un lato si è sostenuta la tesi – ed è stata la posizione assunta, in particolare, proprio dal professor Nigro – che l’amministrazione straordinaria costituisse una procedura preordinata al risanamento dell’impresa bancaria, e quindi, in questo senso, necessariamente contrapposta e alternativa rispetto alla liquidazione coatta, che presupponeva, siccome procedura liquidatoria, l’accertamento della sua non risanabilità. Dall’altro lato si è propugnata, invece, l’idea – ed è la posizione espressa, tra gli altri, con particolare chiarezza da Ferro-Luzzi – della neutralità sul piano funzionale dell’amministrazione straordinaria, e del suo essere procedura destinata essenzialmente a permettere di rilevare le cause delle disfunzioni in cui versava la gestione della banca, di individuarne le soluzioni più opportune, in relazione alla loro maggiore o minore gravità, ma senza potere essere concepita come una procedura preordinata, a priori, a conseguire l’obiettivo del risanamento. Naturalmente, non è questa la sede per prender posizione nell’ambito di quel dibattito, e tuttavia credo che l’idea della neutralità della funzione – al di là di alcuni dati normativi che pure hanno, mi sembra, un certo peso: penso al fatto che l’amministrazione straordinaria era per definizione una procedura a tempo, destinata a concludersi con il decorso del biennio indipendentemente dal fatto che il risanamento si fosse o meno realizzato, o fosse ancora in itinere ma non pienamente compiuto; ma penso, anche e soprattutto, al fatto che i presupposti normativi per accedere all’amministrazione straordinaria risultavano estraneamente eterogenei e non necessariamente collegati a un crisi patrimoniale e a un rischio di dissesto, ed erano poi individuati senza neppure operare un’autentica distinzione tra cause che lasciavano prospettare la possibilità di un loro superamento e cause, invece, irreversibili – fosse in qualche misura avvalorata da quelle che risultavano normalmente le condizioni d’uso della procedura stessa nella prassi applicativa della Banca d’Italia. In una parola avvalorata proprio dalla richiamata realtà effettuale. Credo, infatti, che non sia revocabile in dubbio che la ragione del frequente, e direi fino ad oggi quasi sistematico, ricorso all’amministrazione straordinaria da parte dell’Autorità di Vigilanza, in presenza di disfunzioni dell’impresa bancaria che si manifestavano in primo luogo sul versante organizzativo, sia stato determinato dall’attitudine della procedura, proprio perché neutra quanto ai contenuti, a operare quale strumento, diremmo con il linguaggio contemporaneo, di intervento precoce volto a prevenire la crisi. Gli è, infatti, che se la crisi di una banca pone sempre, in definitiva, un problema di tipo collettivo – nel senso che la crisi

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di qualsiasi banca si riflette sempre sulla realtà sociale in cui essa opera, sicché le sue implicazioni di natura socio economico su individui e imprese, che con essa intrattengono rapporti ora come prestatori ora come prenditori di capitale, sono solo progressivamente più gravi e più ampie quanto maggiore è la dimensione della banca e l’ambito anche territoriale in cui essa esercita la propria attività – è evidente che il ricorso alla procedura di amministrazione straordinaria consentiva alla Banca d’Italia, in situazioni capaci di creare anche semplicemente il rischio di una perdita di fiducia del mercato nei confronti dell’impresa e il conseguente rischio di una corsa agli sportelli, di realizzare un momento di cesura tra la gestione della banca e la sua proprietà, appunto sostituendo gli organi di amministrazione scelti dai soci, con uno o più commissari nominati dall’Autorità di vigilanza. Commissari i quali tuttavia – oltre a dover individuare eventuali soluzioni per i problemi di volta in volta rilevati, la cui adozione era comunque da sottoporre all’approvazione dell’assemblea – dovevano, ed è questo il punto centrale, pur sempre provvedere a una gestione ordinaria e in continuità dell’attività bancaria. Insomma, in questa prospettiva, l’amministrazione straordinaria costituiva una fase di gestione interinale della banca destinata, allora, a sfociare, a seconda dei casi, o nel ripristino di una gestione affidata alla vecchia proprietà, ove questa fosse disponibile e in grado ad attuare le misure individuate dai commissari come necessarie per rimediare alle disfunzioni rilevate, oppure nel trasferimento dell’impresa in favore di una diversa proprietà, là dove nell’inerzia dei vecchi soci si fossero individuati nuovi soggetti disposti ad adottare le misure di riorganizzazione indicate dalla gestione commissariale, ovvero, in ultima analisi, destinata a sfociare, in assenza dell’una o dell’altra prospettiva, nella liquidazione coatta amministrativa. Una procedura, quest’ultima, la cui funzione peraltro, a dispetto del nome, non si risolveva tendenzialmente mai nella cessazione dell’impresa bancaria oggettivamente considerata – in quanto anche nella liquidazione coatta l’obiettivo è pur sempre quello di cedere l’azienda bancaria in esercizio, e i rapporti in essere, cosi garantendone la continuazione seppure in capo ad una diversa entità, e dunque con una diversa imputazione soggettiva – bensì, piuttosto, in una procedura di dissoluzione del soggetto a cui quella impresa era originariamente riferibile, e di soddisfacimento dei suoi creditori. E tuttavia, anche chi propendeva per questa ricostruzione della funzione dell’amministrazione straordinaria in chiave, come detto, neutra, non poteva non riconoscerne l’intrinseca anomalia sistematica. Da questo punto di vista mi sembra, anzi, molto, significativa una riflessione svolta proprio da Paolo Ferro-Luzzi, in un articolo pubblicato sulla Ri-

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vista di diritto commerciale circa trent’anni or sono, ed in cui si interrogava sulle prospettive di riforma di tale procedura nel quadro di quel processo di ammodernamento della legislazione bancaria – che oramai appariva ineludibile, di fronte alla sempre più accentuata tendenza alla formazione di un sistema creditizio integrato a livello europeo –, e che poi sarebbe sfociato nella promulgazione del Testo Unico. Ebbene, nell’indagare quale dovesse essere la prospettiva di riforma per una più efficace gestione delle crisi bancarie, Ferro Luzzi dubitava che la strada obbligata fosse quella di un potenziamento dell’ambito di operatività dell’amministrazione straordinaria, esprimendo, invece, apertamente la convinzione che la strada da seguire fosse semmai altra, e segnatamente quella di dover favorire, anticipandolo, il ricorso alla liquidazione coatta. Ciò non solo perché «la dissoluzione del soggetto, propria della liquidazione coatta, stacca definitivamente l’azienda dalla vecchia proprietà, e non riesco proprio a capire perché la vecchia proprietà, privata o pubblica che sia, debba comunque essere favorita», ma anche perché «il meccanismo del trasferimento delle attività e passività», che è connaturato alla liquidazione coatta, «consente maggiore chiarezza»; in quest’ottica di «possibile dilatazione del campo di applicazione della liquidazione coatta», concludeva allora Ferro-Luzzi, quel che occorre è «essenzialmente garantire la continuità dell’esercizio dell’impresa, dunque tempestivamente separando la gestione aziendale che deve continuare, dal soggetto che cade in liquidazione, e quindi in sostanza accelerare e rendere più sicure le procedure di trasferimento di azienda» 3. Ho voluto ricordare, citandola testualmente, questa riflessione sviluppata, come detto, circa trent’anni orsono, perché – oltre a offrirci un vivissimo esempio della capacità di Ferro Luzzi di precorrere i tempi, e dunque di avanzare, nella ricostruzione del sistema, sempre con quello sguardo prospettico di cui parlava Husserl – mi sembra ci permetta di capire molto bene quale sia la situazione in cui ci veniamo, invece, a trovare oggi, nel sistema che emerge all’esito dell’attuazione della BRRD. Se, infatti, come ha detto molto efficacemente Bruno Inzitari nel suo intervento, la procedura di risoluzione si esaurisce, in definitiva, integralmente con l’esecuzione del programma, appunto di risoluzione (e mi scuso per il bisticcio di parole), fissato dalla Banca d’Italia con il provvedimento di apertura di cui all’art. 32 d.lgs. 180/2015, ne consegue, a mio avviso, non solo e non tanto che essa si presenta come qualcosa evidentemente di abbastanza diverso da una procedura concorsuale, almeno nel senso classico del termine, ma anche e soprattutto come essa finisca per atteggiarsi a mero strumento per realizzare proprio quell’obiettivo

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che Ferro-Luzzi indicava come prioritario nel suo scritto del 1989, vale a dire di anticipare la separazione dell’impresa bancaria dai suoi «proprietari», e poi, se del caso, anche dal soggetto, la società per azioni, cui essa si imputa. Quest’aspetto mi sembra, per vero, evidente ove la risoluzione si realizzi con l’applicazione del bail-in puro (c.d. open bank bail-in), giacché in questo caso, pur nella conservazione formale dell’identità della società bancaria, è la sua struttura finanziaria – in una parola la sua proprietà – a essere completamente modificata. Ma esso emerge, e anzi con ancora maggiore immediatezza, pure qualora il programma di risoluzione richieda anche l’applicazione della misura della cessione di attività e passività all’ente ponte, atteso che in tale evenienza la separazione dell’impresa dall’originaria società viene, per così dire, ad essere anticipata su già un piano formale. Se questa è la prospettiva entro cui dobbiamo collocare la risoluzione, mi sembra, allora, che per le due procedure con cui ci siamo fino ad ora confrontati, l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta, resti davvero – almeno rispetto a quelle banche sistemiche a livello nazionale in cui esse operano in concorrenza con la procedura di risoluzione – un limitato spazio di operatività. Limitatissimo, se non del tutto evanescente, mi sembra, in primo luogo, lo spazio per un proficuo e utile ricorso all’amministrazione straordinaria. La funzione che tale procedura era chiamata a svolgere, almeno per come manifestatasi nella realtà effettuale è, infatti, oramai assorbita, per un verso, dalla nuova, ampia, serie di misure di intervento precoce disciplinate dal t.u.b., e, per altro verso, proprio dalla risoluzione. Quanto al primo aspetto, il sistema conosce oramai, indiscutibilmente, plurime misure che possono essere adottare al manifestarsi di disfunzioni e che se convenientemente e opportunamente adottate possono prevenire il sorgere e comunque l’aggravamento della crisi, e condurre anzi a una sua soluzione. Basterà qui rammentare: (i) la previsione, già a monte, di un obbligo per le banche di predisporre ex ante, e con la supervisione dell’Autorità di vigilanza, un piano di risanamento (art. 69-quater); (ii) la previsione che, al manifestarsi degli indizi di crisi, consente alla Banca d’Italia di imporne l’attuazione e, se del caso, di esigerne una modificazione (art. 69-noviesdecies); (iii) la previsione che riconosce alla Banca d’Italia, in presenza di rischi per la sana e prudente gestione, di adottare le misure di cui all’art. 53-bis, nonché, nei casi di gravi irregolarità nell’amministrazione o di deterioramento della situazione patrimoniale della banca (art. 69-vicies semel), le riconosce il potere di disporre la rimozione di tutto il consiglio di amministrazione, e

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financo dei componenti dell’alta dirigenza, e che prevede oltretutto che la delibere di nomina, seppure ancora riservate al competente organo sociale, debbono essere sempre approvate dall’Autorità di Vigilanza; (iv) la disposizione che prevede, infine, la possibilità, per la Banca d’Italia, di procedere anche alla nomina di commissari in temporaneo affiancamento agli amministratori (art. 75-bis), che si tratti di quelli originari o anche dei nuovi nominati all’esito del removal collettivo. Ebbene, in un sistema di interventi così variamente articolato, e tutti accomunati, al vertice, sempre dalla medesima finalità di tipo precauzionale, mi sembra che la funzione di misura di intervento precoce tradizionalmente assegnata al provvedimento che dispone l’apertura dell’amministrazione straordinaria – e che pure oggi è anche normativamente consacrata (cfr. art. 69-vicies semel, co. 5) – perda obiettivamente di significato. E ciò ancor più ove si consideri che i suoi presupposti continuano a essere delineati in termini assai labili, e poi parzialmente sovrapponendosi a quelli che consentono l’attivazione dei poteri di intervento appena sommariamente tratteggiati. Gli è, del resto, che in un simile contesto, delle due l’una. O i nuovi organi sociali – come sostituiti apparentemente dalla proprietà, ma in realtà nominati su indicazione e con il gradimento della Banca d’Italia, e quindi, di fatto, già agenti alla stregua di commissari – riescono a trovare sul mercato una soluzione per superare la crisi, ma allora, in questo caso, l’apertura dell’amministrazione straordinaria è inutile, mentre potrebbe rendersi ben più opportuno l’avvio della procedura di risoluzione, e ciò al fine di agevolare l’attuazione di quella soluzione, se del caso anche coattivamente in modo da neutralizzare il rischio di eventuali comportamenti ostruzionistici della vecchia proprietà (significativa è, infatti, al riguardo, la previsione dell’art. 37, d.lgs. 180/2015, che riconosce ai commissari speciali, eventualmente nominati, anche il potere di sostituirsi all’assemblea della società e ai soci per attuare il programma di risoluzione; un aspetto, questo, che distingue, allora, nettamente la risoluzione rispetto all’amministrazione straordinaria, nell’ambito della quale, invece, non vengono meno le competenze dell’assemblea per le eventuali operazioni di riorganizzazione societaria). Oppure, al contrario, i nuovi organi sociali non riescono a individuare sul mercato una soluzione e una risposta adeguata alla crisi, ma allora anche in questo caso, dove pure in thesi potrebbe esserci ancora un qualche spazio per il ricorso all’amministrazione straordinaria, mi sembra che essa finisca per subire la concorrenza della procedura di risoluzione, la quale con la sua maggiore duttilità permette – tramite il ricorso alla cessione delle attività e passività all’ente ponte (art. 42 d.lgs. 180/2015) – di realizzare,

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proprio con quella maggiore immediatezza e chiarezza di cui parlava Ferro-Luzzi, il distacco dell’impresa bancaria dal soggetto che la esercita, e di permettere così una gestione in continuità della prima, che, tuttavia, è pur sempre una gestione provvisoria, in attesa, cioè dell’individuazione della soluzione definitiva più idonea allo scopo. Insomma, nel nuovo sistema la vera funzione che l’amministrazione straordinaria svolgeva – ossia garantire la cesura tra la gestione dell’impresa e la sua proprietà – è scomparsa, risultando assorbita e assolta dalla procedura di risoluzione, che la realizza o attraverso la misura della ristrutturazione del passivo, (nell’ipotesi cioè di applicazione dell’open bank bail-in) o, comunque, attraverso la cessione dei rapporti attivi e passivi all’ente ponte. Una misura, quest’ultima, che permette, del resto, di soddisfare l’esigenza di una gestione in continuità dell’impresa bancaria separata dal soggetto cui essa in precedenza si imputava con un’estrema flessibilità, come ci dimostra – ed ecco di nuovo il rilievo assunto della realtà effettuale – proprio l’esperienza delle prime (e fino a ora uniche) applicazioni della disciplina dettata dal d.lgs. 180/2015, intervenute alla fine del 2015. La vicenda delle quattro banche risolte è emblematica, appunto perché segnala – in un contesto in cui sul mercato non era stato possibile individuare una soluzione adeguata al fine di superare la crisi in cui siffatte banche versavano – come, attraverso la cessione all’ente ponte, si sia potuta, in definitiva garantire l’ultrattività della gestione commissariale dell’impresa in continuità, separandola una volta per tutte dal soggetto destinato, invece, alla dissoluzione, e così anche oltrepassando il vincolo della durata biennale che invece, tipicamente caratterizza e limita lo svolgimento dell’amministrazione straordinaria. 4. Ma nel quadro come modificato alquanto ridotto è, a ben vedere, pure lo spazio che può essere utilmente occupato dalla liquidazione coatta amministrativa. Anche da questo punto di vista mi sembrano significative le indicazioni che ci vengono offerte dalla realtà effettuale, ancora una volta rappresentata dalla vicenda che ha coinvolto le quattro banche sottoposte a risoluzione, ma anche, sebbene in minor misura, dalla vicenda che ha coinvolto le due Banche Venete, rispetto alle quali pure la disciplina della risoluzione non è entrata in gioco, essendosi provveduto all’immediata apertura della liquidazione coatta. E’ emblematica la vicenda delle quattro banche risolte, nelle quali dalla procedura di risoluzione – il cui programma ha poi preso forma, come detto, attraverso la misura del burden sharing imposto alle azio-

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ni e alle obbligazioni subordinate tramite lo specifico potere attribuito all’Autorità di risoluzione, e con la conseguente cessione degli attivi all’ente ponte, che ha poi continuato a gestire l’impresa bancaria sino al ricollocamento della stessa in capo a una nuova proprietà – si è rapidissimamente transitati alla liquidazione coatta della originaria società bancaria, oramai privata di ogni asset. E tuttavia siffatte procedure liquidatorie si presentano del tutto sui generis, sol che si consideri – e qui posso portare la mia personale esperienza di componente del comitato di sorveglianza di una delle quattro banche risolte transitate in l.c.a. (ma credo che analoghe testimonianze possano essere date pure da chi, come Bruno Inzitari e Giuseppe Santoni, in quelle procedure ha assunto la veste di commissario liquidatore) – non solo che esse nulla hanno, in realtà, più da liquidare, dal momento che l’azienda bancaria è stata già ceduta all’ente ponte, ma neppure si preoccupano di dare corso alle tipiche attività che di una procedura concorsuale dovrebbero essere proprie. I commissari liquidatori, infatti, si astengono vuoi dal dare corso a iniziative di reintegrazione dell’attivo – che peraltro, essendo intervenuta la dichiarazione di insolvenza, potrebbero essere limitate, al massimo, soltanto all’esperimento di eventuali azioni revocatorie, atteso che l’altro strumento tipico di reintegrazione dell’attivo nell’ambito del concorso, ossia le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori per la loro eventuale mala gestio, hanno formato anch’esse oggetto di cessione all’ente ponte, di tal ché il commissario liquidatore appare privo della legittimazione a proporle – vuoi financo da quella che dovrebbe essere la più classica delle attività in una procedura concorsuale, vale a dire la formazione dello stato passivo, che nel caso dovrebbe evidentemente interessare, oltre ad eventuali passività non cedute, i possessori di titoli obbligazionari sottoposti, come detto, in occasione della risoluzione, alla misura dell’azzeramento. Insomma, non è chi non veda come – almeno nella prima esperienza applicativa – la liquidazione coatta applicata alla vecchia società bancaria, svuotata di tutto per il tramite della risoluzione, si presenti come una pura finzione, tanto che viene ragionevolmente da domandarsi perché l’Autorità di Vigilanza continui stancamente a farla trascinare, senza disporne la chiusura, se del caso – in assenza di una disposizione specifica del t.u.b. regolante tale eventualità – ad instar di quanto previsto dall’art. 118, co. 4 l. fall. Ma non molto diverse mi sembrano anche le indicazioni che si possono trarre dalla vicenda che ha interessato, nel giugno 2017, le due Banche Venete; una vicenda, questa, che si è svolta senza che entrasse in gioco la disciplina della risoluzione, ma seguendo, invece, il più

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collaudato e vecchio itinerario rappresentato dalla cessione degli attivi e dell’azienda bancaria da parte del commissario liquidatore. Anche in questo caso, infatti, la cessione degli attivi è stata progettata ben prima della stessa apertura della liquidazione coatta – con una trattativa condotta dall’Autorità di Vigilanza – e poi perfezionata, nella sostanza senza pagamento di alcun corrispettivo, pressoché contestualmente al provvedimento che ha avviato la procedura concorsuale; il che implica, allora, se non mi inganno, che pure le attività demandate ai commissari liquidatori di tali banche, se anche non del tutto inesistenti come abbiamo visto essere per quelli preposti alle banche risolte, finiscono per svolgersi all’interno di un perimetro, comunque, estremamente limitato e circoscritto. 5. In definitiva, e per cercare di trarre le fila e di ordinare a sistema le sensazioni suscitate da quelle che sono state le prime esperienze applicative della risoluzione, mi sembra che la risposta all’interrogativo propostomi possa essere la seguente: che nel nuovo quadro normativo l’unica, vera, possibilità di prevenzione della crisi è affidata al corretto, tempestivo esercizio da parte dell’Autorità di Vigilanza – che oramai assume sempre più un ruolo centrale nelle decisioni di governo dell’impresa bancaria, e che anzi si accentua progressivamente con l’emergere dei primi sintomi di crisi (e dunque anche prima della stessa apertura della procedura di risoluzione, dove l’Autorità pubblica a ciò preposta diventa, invece, come ha ben messo in luce Michele Perrino, l’autentico e pressoché esclusivo autore delle scelte che definiscono le modalità di gestione della crisi) – dei numerosi e variegati poteri di intervento precoce, più che essere affidata alla procedura di amministrazione straordinaria. Una procedura, questa, che a me sembra essere avviata a diventare soltanto un relitto storico, di fatto destinata a essere surrogata, anche come forma di gestione commissariale, dallo strumento della cessione degli attivi all’ente ponte. La conclusione finale mi sembra, pertanto, debba essere nel senso che nella nuova disciplina delle modalità di gestione delle crisi delle banche vi è molto poco di replicabile nella prospettiva della regolazione delle crisi dell’impresa diversa da quella bancaria, appunto perché è solo rispetto alle banche che si pone l’esigenza di un intervento fortemente anticipato di controllo sulla gestione, finalizzato ad evitare la perdita di fiducia, che dell’impresa bancaria è la vera ricchezza, e il cui venir meno può innescare le crisi di sistema con cui in questi anni – e le vicende che ho sommariamente richiamato stanno a ricordarcelo – siamo stati costretti necessariamente a confrontarci.

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Nota bibliografica Sulla dimensione temporale dell’esperienza giuridica, e quindi sulla necessità di una prioritaria considerazione anche della realtà effettuale – giacché «un ordinamento giuridico è sempre qualcosa di più e di diverso da un insieme di proposizioni formulate verbalmente» in quanto «diversamente dagli altri prodotti umani … le norme giuridiche non vengono collocate nel flusso della storia come «prodotti finiti»» conseguendone che «il problema del senso della norma» non può che essere definito che «in relazione alla sua concreta condizione di vita» – cfr. Husserl, Recht un Zeit. Fünf rechtsphilosophische Essays, Frankfurt am Main, 1955 (che si può leggere nella traduzione italiana di Cristin, Milano, 1998, in specie p. 16 ss.); Ascarelli, Prefazione a Studi di Diritto comparato e in tema di interpretazione, Milano, 1952, p. IX ss. Sull’amministrazione straordinaria delle banche, e in particolare per le due opposte concezioni emerse in dottrina riguardo alle sue funzioni, a cui si fa riferimento nel testo, cfr., ancora nella vigenza della legge bancaria del 1936, Nigro, Crisi e risanamento delle imprese: il modello dell’amministrazione straordinaria delle banche, Milano, 1985, passim; Ferro-Luzzi, Le imprese bancarie in amministrazione straordinaria, in Riv. dir. comm., 1989, I, p. 351 ss. Per ulteriori riferimenti, nel sistema quale risultante dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, ossia del t.u.b., cfr. Capolino, Profili processuali e sostanziali dell’amministrazione straordinaria delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, II, p. 743 ss.; Nigro, sub art. 70, in Commentario al testo unico bancario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, Milano, 2010, p. 620 ss.; Costi, L’ordinamento bancario5, Bologna, 2012, p. 802 ss.; Rocco di Torrepadula, sub art. 70, in Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Costa, Torino, 2013, II, p. 734 ss. Per una ricostruzione generale delle misure di intervento precoce e delle funzioni della risoluzione, nonché delle sue diverse modalità di attuazione, nel quadro generale tracciato dalla Banking Recovery and Resolution Directive (BRRD) cfr. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, in AA. VV., Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, n. 75, Roma, 2014, p. 147 ss.; Id, La gestione delle crisi bancarie. La tradizione italiana e le nuove regole europee, in Ricerche giuridiche (Quaderni del Centro Studi Giuridici e del Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari-Venezia), volume 4, 2015, p. 315 ss.; Perrino, Il diritto societario della crisi

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delle imprese bancarie nella prospettiva europea: un quadro d’insieme, in Riv. dir. soc., 2016, I, p. 267 ss. Sulla procedura di risoluzione e sui problemi di inquadramento nel sistema delle procedure concorsuali cfr. Presti, Il bail-in, in Banca, impresa, soc., 2015, p. 339 ss.; Inzitari, BRRD, Bail in, risoluzione della banca in dissesto, condivisione concorsuale delle perdite (d.lgs. n. 180 del 2015), in Contr. e impr., 2016, p. 659 ss.; Rulli, Contributo allo studio della disciplina della risoluzione bancaria, Torino, 2017, passim. Per una riflessione sul possibile ruolo dell’amministrazione straordinaria nel nuovo quadro normativo, come risultante all’esito dell’attuazione della BRRD e della CRDIV, e in particolare sulle difficoltà di tracciare con precisione il suo ambito di operatività rispetto alle altre misure di intervento precoce, cfr. Castiello D’Antonio, L’amministrazione straordinaria delle banche nel nuovo quadro normativo. Profili sistematici, in AGE, 2016, p. 551 ss. Sul tema delle possibili interferenze tra i presupposti del removal collettivo, di cui all’art. 69-vicies semel t.u.b., e quelli indicati, invece, dall’art. 70 t.u.b. per l’apertura dell’amministrazione straordinaria, cfr. Ciraolo, La Banca d’Italia e il potere di rimozione degli esponenti aziendali tra vigilanza prudenziale e disciplina della crisi, in Banca, impresa, soc., 2016, p. 51 ss., in specie p. 67 ss. Sulla disciplina e le finalità della liquidazione coatta amministrativa nella vigenza della legge bancaria del 1936 cfr. Fortunato, Sulla liquidazione coatta delle imprese bancarie, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, I, p. 715 ss.; dopo la promulgazione del Testo Unico, cfr. Id., La liquidazione coatta delle banche dopo il testo unico: lineamenti generali e finalità, ivi, 1994, I, p. 771 ss., nonché, con particolare riferimento al tema della cessione degli attivi, Vattermoli, Le cessioni aggregate nella liquidazione coatta amministrativa delle banche, Milano, 2001, passim; Perrino, Le cessioni in blocco nella liquidazione coatta bancaria, Torino, 2005, passim. Nel quadro novellato, per un primo accenno al tema dei rapporti tra risoluzione e l.c.a., Stanghellini, Risoluzione, bail-in e liquidazione coatta: il processo decisionale, in AGE, 2016, p. 567 ss; Porzio, La banca insolvente, in Aa. Vv., L’Unione bancaria europea, a cura di Chiti – Santoro, Pisa, 2016, p. 407 ss., in specie p. 410 ss. Sul ruolo centrale oramai assunto dall’Autorità di Vigilanza nell’ambito della governance delle banche, sia permesso rinviare a Guizzi, Appunti in tema di interesse sociale e governance nelle società bancarie, in Riv. dir. comm., 2017, I, p. 241 ss., in specie p. 261 ss.

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Considerazioni conclusive Alessandro Nigro 1. Abbiamo ascoltato una serie di relazioni tutte di notevole spessore e di estremo interesse: credo che sarebbe di assai scarsa utilità che io ne riassumessi il contenuto o ne ripercorressi gli itinerari. Penso che possano essere più proficue osservazioni integrative, ispirate anche e proprio da quanto abbiamo fin qui ascoltato. 2. I relatori hanno ben illustrato, dai diversi punti di vista, le peculiarità strutturali e funzionali della risoluzione bancaria in sé considerata; nonché i collegamenti fra questo strumento ed altri strumenti di soluzione delle crisi bancarie. Ritengo che si possa andare oltre. Ed andare oltre nel senso che la risoluzione bancaria presenta, a mio sommesso parere, un’ulteriore peculiarità: essa, a ben vedere, costituisce il punto, per così dire, terminale dell’intero assetto risultante dal nuovo ordinamento bancario e finanziario, europeo prima e nazionale poi. Si deve muovere da una considerazione di fondo. L’appena ricordato nuovo ordinamento bancario europeo è, nel suo insieme, centrato (uso questa parola nel senso del termine francese axé) sulle crisi, nella prevenzione e gestione delle crisi. Il legislatore europeo mostra di essere “ossessionato”, per così dire, dallo “spettro” delle crisi bancarie e si è dedicato ad esorcizzare questo spettro in ogni segmento e componente dell’ordinamento. Non solo c’è una apposita normativa sulla gestione delle crisi, non solo c’è un’apposita disciplina sui sistemi di tutela dei depositi, volti come tali a fronteggiare le conseguenze delle crisi, ma anche la terza componente, quella della vigilanza è modellata, inequivocabilmente, sull’esigenza di prevenire le crisi: i coefficienti patrimoniali, la sana e prudente gestione, ecc. sono considerati e regolati come presidi intesi prima di tutto a prevenire le crisi. Partendo da questa constatazione, non è difficile convincerci che l’intero ordinamento potrebbe, da un certo punto di vista, essere raffigurato come un insieme di tre cerchi concentrici: il cerchio più esterno abbraccia la vigilanza; il cerchio intermedio abbraccia da un lato le misure di intervento precoce e dall’altro i sistemi di garanzia dei depositi; il cerchio più interno abbraccia gli strumenti di gestione delle crisi che vedono al loro centro appunto la risoluzione bancaria.

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3. Ciò posto, ritengo che si debba cominciare a riflettere sul crescente ruolo che, nelle discipline delle crisi, quella comune e quelle speciali, vanno assumendo le simulazioni. a. Nell’ambito della disciplina comune delle crisi, fino a poco tempo fa conoscevamo una sola figura di simulazione: quella implicita nel meccanismo di verifica giudiziale della convenienza nel concordato preventivo ai sensi dell’art. 180 l. fall. (erede di quello già implicito nel sistema ante riforma, che prevedeva un giudizio di ufficio da parte del tribunale in punto di convenienza per i creditori). Come ben sappiamo, l’art. 180 l. fall. oggi prevede che il creditore dissenziente – il quale risponda a certi requisiti che qui non rilevano – possa contestare la convenienza appunto della proposta di concordato e che il tribunale possa omologare il concordato qualora ritenga che il credito dell’opponente possa risultare soddisfatto «in una misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili». Un meccanismo analogo è stato di recente riproposto nel nuovo art. 182-septies a proposito degli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e delle convenzioni di moratoria. Il Tribunale può consentire l’estensione degli effetti dell’accordo o della convenzione ai creditori estranei a certe condizioni, fra cui l’accertamento che quei creditori possano risultare soddisfatti, in base all’accordo o alla convenzione «in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili». Si tratta di un meccanismo sicuramente impreciso e probabilmente anche rozzo. È impreciso, perché non sono esplicitamente individuate le ipotesi alternative che dovrebbero simularsi e rispetto alle quali procedere alla comparazione. Con riferimento all’art. 180, lo sappiamo, l’alternativa concretamente praticabile viene comunemente individuata nel fallimento: e nello stesso senso sembrerebbe essersi orientato il legislatore, visto che ha di recente integrato la previsione dell’art. 172, stabilendo che nella sua relazione il commissario giudiziale deve illustrare le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi. Ai fini del giudizio di convenienza, dunque, si deve simulare che il debitore venga assoggettato a fallimento, determinare i risultati che avrebbe avuto la liquidazione fallimentare del patrimonio e confrontare le percentuali di soddisfacimento che il creditore avrebbe conseguito in quella liquidazione con quelle assicurate dalla procedura concordataria. Nel caso dell’art. 182-septies, si naviga letteralmente nell’incertezza più assoluta: è probabile che, anche qui, si debba assumere come alternativa il fallimento; ma è soluzione tutt’altro che sicura.

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Ho detto che si tratta di un meccanismo probabilmente anche “rozzo”, perché, pur a voler assumere in entrambi casi come alternativa il fallimento, è difficile simulare con una certa completezza e plausibilità gli esiti ipotizzabili di una procedura fallimentare, anche soltanto in considerazione della teorica possibilità di gestione dinamica della liquidazione (esercizio provvisorio, affitto, vendita dell’intera azienda). Dal che la tendenza ad “appiattirsi” sul modello “minimo” di una procedura con liquidazione atomistica dei beni e valutazione dei medesimi a prezzo di realizzo. Il che porta ovviamente a falsare ogni comparazione. b. Passando alla disciplina speciale delle crisi bancarie, molto simile a quelli che ho fin qui considerato è il meccanismo di simulazione implicito nella condizione generale posta in materia di risoluzione (artt. 22, 87 d.lgs. n. 180/2015) secondo la quale nessun azionista o creditore della banca deve subire perdite maggiori di quelle che avrebbe subito se l’ente in crisi fosse liquidato secondo la l.c.a. o altra analoga procedura concorsuale applicabile e che presiede alla riduzione o conversione delle azioni e dei crediti (burden sharing e bail-in). È molto simile, ma la disciplina è più articolata, anche se la simulazione dei possibili esiti di una procedura di liquidazione coatta amministrativa presenta gli stessi profili di incertezza visti prima con riferimento alla simulazione di una procedura fallimentare. Più raffinato è invece un altro tipo di simulazione previsto dalla nuova disciplina bancaria: quello dato dai piani, rispettivamente, di risanamento e di risoluzione. Mi soffermerò appresso specificamente sui piani. Per adesso mi limito a ricordare che tali piani sono – dovrebbero essere – il risultato di analisi e valutazioni complete ed approfondite, un prodotto, dunque, di alto livello e di elevato grado di attendibilità. c. Mi interessa sottolineare che in tutte le figure che ho sommariamente delineato la simulazione non si risolve in un mero esercizio teorico. In tutti questi casi, si producono effetti sostanziali, quasi sempre irreversibili. Così, sono irreversibili gli effetti prodotti dalla simulazione ex artt. 180 e 182-septies e dai piani di risanamento e di risoluzione; non lo sono, teoricamente almeno, quelli prodotti dalle azioni di risoluzione, stante il congegno di valutazione e «recupero» previsto dagli artt. 87 ss. d.lgs. n. 180/2015. Dato tutto questo, mi pare evidente che i meccanismi di simulazione dovrebbero sempre essere oggetto di una particolare cura da parte del legislatore.

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4. Le banche e le imprese di investimento debbono necessariamente avere la forma di società: di conseguenza, la disciplina delle loro crisi, che trova al suo centro appunto la risoluzione, costituisce una “porzione” di quello che sempre più spesso si usa denominare come il “diritto societario della crisi”, per tale intendendosi quel segmento dell’ordinamento che comprende il complesso delle regole destinate a governare la situazione, per un verso, ed il funzionamento, per altro verso, delle società in relazione allo stato di crisi e/o al loro conseguente assoggettamento a procedure o procedimenti di soluzioni o composizione di quello stato di crisi. In tale contesto, però, essa disciplina si presenta come eccezionale, l’eccezionalità essendo data proprio da quanto osservavo prima, vale a dire il costituire tale disciplina il centro di gravità dell’intero ordinamento, che vede le banche assoggettate ad un regime di controlli pubblicistici talmente stretto ed incisivo, soprattutto nelle situazioni di crisi, da privare le medesime, in effetti, di qualsiasi spazio di autonomia: il che ovviamente non si riscontra per le imprese diciamo comuni. So bene che non mancano in dottrina opinioni secondo le quali la nuova disciplina del risanamento e della risoluzione delle imprese bancarie dovrebbe leggersi «all’insegna di una sostanziale coerenza con la logica ispiratrice, i principi generali e le dorsali disciplinari della crisi di impresa più ampiamente considerate» (Perrino). Non credo però che queste opinioni possano essere condivise: e non lo credo proprio alla luce di quanto rilevavo poco fa, che preclude in radice ogni possibilità di “comunicazione” di regole o di principi dal comparto del diritto speciale delle banche a quello del diritto comune delle imprese o viceversa. 5. La sicura eccezionalità della disciplina delle crisi bancarie – e con questo passo ad un ultimo ordine di osservazioni – se rende impossibile derivarne regole direttamente utilizzabili in altre porzioni del diritto societario della crisi e specificamente in quello riguardante la crisi delle imprese di diritto comune, non impedisce di trarre da essa ispirazione, per arricchire e potenziare l’attuale diritto comune delle crisi. Debbo a questo punto aprire una parentesi. In materia di diritto della crisi molti ordinamenti e fra questi l’ordinamento italiano si vanno lentamente “riassestando” secondo due direttrici fondamentali: la direttrice della progressiva anticipazione, dal punto di vista temporale, di quella che definirei la “soglia di attenzione” per le vicende di crisi; e la direttrice della crescente rilevanza degli strumenti di pianificazione in funzione di prevenzione o di soluzione delle crisi. Per la prima direttrice, con riferimento al nostro ordinamento, mi basterà ricordare l’introduzione,

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ad opera della legge delega del 2017, della disciplina degli strumenti di allerta e prevenzione, che, a mio modo di vedere, dovrebbero avere ad oggetto non soltanto le situazioni di crisi in senso stretto – intesa cioè come probabilità di insolvenza – ma anche tutte le situazioni di difficoltà suscettibili di sfociare in una crisi in senso stretto. Per quanto riguarda la seconda direttrice, mi basterà, sempre con riferimento al nostro ordinamento, ricordare le diverse figure introdotte dalla riforma del 2005/2007, il piano di risanamento attestato, il piano nel concordato preventivo, il programma di liquidazione nel fallimento, figure che si aggiungono a quella, primigenia, dei programmi di ristrutturazione o di cessione dell’amministrazione straordinaria. Orbene. Le nuove normative sulla crisi delle imprese bancarie hanno introdotto due figure pianificatorie, di importanza, nel sistema, fondamentale ed alle quali ho già accennato: il piano di risanamento1, che deve essere predisposto e periodicamente aggiornato da ciascuna banca, che contiene l’indicazione delle misure che essa banca adotterebbe per far fronte a situazioni di difficoltà e che è valutato dall’autorità di vigilanza; ed il piano di risoluzione2, che deve essere predisposto e periodicamente aggiornato, per ciascuna banca, dall’autorità di risoluzione e che prevede le modalità per l’applicazione alla banca delle misure e dei poteri da attivare in caso di risoluzione. I dati da sottolineare sono, innanzi tutto, che le due figure realizzano contemporaneamente le due direttrici che ho prima indicato: l’uno e l’altro piano vengono infatti predisposti in relazione a future ed ipotetiche situazioni di crisi e quindi in uno stadio anticipato al massimo rispetto alla stessa insorgenza della crisi. E sono, poi, che tali piani non sono – l’ho già detto prima – pure e semplici simulazioni, ma costituiscono vere e proprie pianificazioni, in relazione alle quali l’autorità di vigilanza può arrivare a rimodellare completamente l’impresa: per esempio, a norma dell’art. 69-sexies, co. 3, lett c), t.u.b. la Banca d’Italia, all’esito della valutazione del piano di risanamento, può «ordinare modifiche da apportare all’attività, alla struttura organizzativa o alla forma societaria della banca o del gruppo bancario o ordinare altre misure necessarie per conseguire le finalità del piano3».

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Oggetto degli artt. 69-ter ss. del t.u.b. Oggetto degli artt. 7 ss. d.lgs. 180/2015. 3 Si può aggiungere che a norma dell’art. 6 della BRRD, l’autorità può «ingiungere all’ente di: a) ridurre il proprio profilo di rischio, compreso il rischio di liquidità; b) 2

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Ovviamente, non è neppure lontanamente pensabile che questa articolata disciplina possa essere “trasportata” puramente e semplicemente nel campo delle imprese di diritto comune. In linea generale, bisognerebbe pensare a norme ad hoc, che prevedano e disciplinino apposite figure di “piani di risanamento”, ispirati appunto a quelli contemplati per le banche, stabilendo chi debba predisporli, chi debba verificarli o controllarli, quali ne siano gli effetti, ecc. Simili norme sarebbero senz’altro opportune: naturalmente avendo come destinatarie solo le società per azioni (o addirittura solo quelle che abbiano certe dimensioni). In questi termini mi esprimevo in occasione del nostro incontro di due anni fa. Allora avevo evidenziato come vi fosse già la sede adatta, costituita dall’allora disegno di legge delega di riforma della disciplina delle procedure concorsuali in fase di elaborazione da parte della Commissione Rordorf, la cui parte dedicata alle misure di allerta e di prevenzione avrebbe potuto tranquillamente ospitare una innovazione del genere. Si trattava di un auspicio, rimasto comunque inascoltato. A questo punto, però, si potrebbe porre un nuovo interrogativo, proprio alla luce di quanto ormai positivamente stabilito dalla legge delega n. 155/2017. Questa prevede, all’art. 14, l’introduzione sia del dovere degli amministratori «di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale», sia del dovere degli organi di controllo di avviso del verificarsi della crisi. Ci si potrebbe interrogare, allora, se, fra gli assetti organizzativi adeguati potrebbero annoverarsi anche e proprio i piani di risanamento diciamo così preventivi. La risposta non è semplice: da un lato, il concetto di “adeguatezza” è un concetto molto elastico, sicuramente suscettibile di abbracciare anche la figura in questione; dall’altro, un piano di risanamento del genere di quello di cui stiamo parlando è strumento complesso, costoso e, per altro verso, delicato. Credo che si possa e si debba riflettere sull’argomento.

attivare tempestive misure di ricapitalizzazione; c) riesaminare la strategia e la struttura dell’ente; d) modificare la strategia di finanziamento al fine di migliorare la resilienza delle linee di business principali e delle funzioni essenziali; e) modificare la propria struttura di governance».

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6. Mi accorgo, al termine del mio discorso, di aver proposto praticamente solo dubbi, senza prospettare certezze. Ma penso che possa andar bene anche cosÏ. Sollevare dubbi significa sollecitare attenzione e pensiero: e questo non può che essere, in sÊ, valutato positivamente.

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AUTORI

Sandro Amorosino, prof. ord. fuori ruolo di Diritto dell’economia nell’Università Sapienza di Roma Alessandro Benocci, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Pisa Giovanni Berti De Marinis, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Perugia Sido Bonfatti, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Modena e Reggio Emilia Oliver Butzbach, ricercatore di Economia politica nell’Università della Campania Luigi Vanvitelli Giuseppina Capaldo, prof. ord. di Istituzioni di diritto privato nell’Università Sapienza di Roma Vincenzo Caridi, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Siena Roberto Cornetta, avvocato in Milano Talita Desiato, dottoranda di ricerca nell’Università della Campania Luigi Vanvitelli Giovanni Battista Fauceglia, dottorando di ricerca nell’Università di Salerno Marta Flores Segura, prof. titular di Derecho mercantil nell’Università autònoma de Madrid Gianluca Greco, prof. a contratto nell’Università Statale di Milano Alessandro V. Guccione, prof. ass. di Diritto Commerciale nell’Università di Modena e Reggio Emilia Giuseppe Guizzi, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Napoli Federico II Bruno Inzitari, prof. ord. di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Milano Bicocca Salvatore Maccarone, prof. ord. fuori ruolo di Diritto del mercato finanziario nell’Università Sapienza di Roma Luca Mandrioli, prof. a contratto nell’Università di Modena e Reggio Emilia Eugenio Maria Mastropaolo, avvocato in Roma Alessandro Nigro, prof. ord. fuori ruolo di Diritto commerciale nell’Università Sapienza di Roma Marco Palmieri, ricercatore a t.d. nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Michele Perrino, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Palermo Gennaro Rotondo, ricercatore nell’Università della Campania Luigi Vanvitelli

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Carmine Ruggiero, avvocato in Napoli Brunella Russo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Messina Giuseppe Santoni, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Roma Tor Vergata Carlo Maria Ubertazzi, prof. ord. fuori ruolo di Diritto commerciale nell’Università di Pavia Daniele Vattermoli, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Sapienza di Roma

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INDICI DELL’ANNATA PARTE PRIMA SAGGI Benocci Alessandro, La regolamentazione del mercato del controllo societario tra ragioni di efficienza ed esigenze di garanzia pag. Berti de Marinis Giovanni, La disciplina dei pagamenti non autorizzati nel nuovo sistema delineato dal recepimento della direttiva PSD2 » Bonfatti Sido, Questioni dibattute su diritto di proprietà e Fondi Comuni di Investimento: gli strumenti di gestione delle crisi dei Fondi Comuni di Investimento e dei patrimoni separati » Butbach Olivier, Desiato Talita, Rotondo Gennaro, I diritti di proprietà nelle imprese bancarie: spunti per un’analisi economico giuridica » Capaldo Gisueppina, Cartolarizzazione dei crediti di leasing e articolazione del patrimonio » Cornetta Roberto, Gli IMEL tra integrazione verticale dei pagamenti nell’impresa e regolamentazione » Fauceglia Giovanni Battista, Il “dialogo” tra Arbitro Bancario Finanziario, giurisprudenza e dottrina in tema di usura bancaria: linee generali » Flores Segura Marta, El tratamiento de los concursos de sociedades pertenecientes al mismo grupo en la ley concursal española » Guccione Alessandro Valerio, Palmieri Marco, Il socio persona fisica titolare di partecipazioni qualificate di una banca » Maccarone Salvatore, La gestione delle crisi bancarie tra diritto europeo e norme interne » Mandrioli Luca, L’esonero da revocatoria degli atti, dei pagamenti e delle garanzie del socio illimitatamente responsabile in esecuzione del piano di risanamento attestato » Mastropaolo Eugenio Maria, I sistemi interni di segnalazione delle violazioni in ambito bancario, finanziario, mobiliare e del risparmio gestito come strumento per la prevenzione e la gestione dei rischi aziendali » Nigro Alessandro, Presente e futuro della trasparenza bancaria: spunti di riflessione »

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627

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365 37 403

275 53 547 11

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Indici dell’annata

Russo Brunella, Incentivi alla gestione dei crediti deteriorati: lo schema di garanzia GACS e l’attività dei Fondi Atlante Ubertazzi Luigi Carlo, Prededuzione e par condicio creditorum Vattermoli Daniele, «Strumenti di debito chirografario di secondo livello». Alchimie linguistiche e tutela del mercato bancario

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225 513

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DIBATTITI La risoluzione bancaria – Incontro di studio del 20 giugno 2018 presieduto dal prof. Alessandro Nigro con interventi di Sandro Amorosino, Giuseppe Guizzi, Bruno Inzitari, Michele Perrino, Giuseppe Santoni, Daniele Vattermoli

MITI E REALTA’ Aforismi

COMMENTI Bonfatti Sido, La natura giuridica dei “piani di risanamento attestati” e degli “accordi di ristrutturazione” Caridi Vincenzo, Sanzioni della banca d’Italia e della Consob e principio del favor rei Ruggiero Carmine, Le fondazioni bancarie tra funzioni pubbliche e private: organi e requisiti di partecipazione

INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Fallimento Fallimento – Credito per l’attività (professionale) svolta in funzione della predisposizione di un piano di risanamento attestato – Prededucibilità nel fallimento successivo – Esclusione Fallimento – Credito per l’attività (professionale) svolta in funzione della omologazione di un accordo di ristrutturazione – Prededucibilità nel fallimento successivo – Sussiste

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Indici dell’annata

Fondazione bancaria Fondazione bancaria – Consiglio Generale – Nomina di un componente da parte della Regione – Deliberazione del Consiglio contraria alla nomina per ragioni di incompatibilità – Impugnazione – Legittimazione dell’interessato – Sussiste – Giurisdizione del giudice ordinario Fondazione bancaria – Consiglio Generale – Nomina di un componente da parte della Regione – Deliberazione del Consiglio contraria alla nomina per ragioni di incompatibilità – Impugnazione avanti il Tribunale – Istanza ex art. 700 c.p.c. – Sospensione cautelare della deliberazione – Possibilità – Accertamento in via d’urgenza dell’insussistenza di ragioni di incompatibilità – Possibilità – Fattispecie

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2017 App. Milano, 19 marzo 2017, n. 87

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2018 Cass., 25 gennaio, n. 1895 Cass., 25 gennaio, n. 1896 Trib. Napoli, 5 febbraio 2018

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Sanzioni amministrative Sanzioni amministrative – Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob – Nuova disciplina – Norma transitoria – Sanzioni ex art. 187-bis t.u.f. – Retroattività della disciplina più favorevole sopravvenuta – Esclusione – Contrasto con gli art. 3 e 117 Cost. – Sussiste – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità

INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI

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Indici dell’annata

PARTE SECONDA LEGISLAZIONE Nuova disciplina dei sistemi di garanzia dei depositi – d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 30 – Attuazione della direttiva 2014/49/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi pag. Commento al d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 30: il nuovo sistema di » protezione dei depositanti bancari, di Gian Luca Greco Gli accordi di ristrutturazione nella riforma delle procedure concorsuali – I. l. 19 ottobre 2017, n. 155: Delega al governo per la riforma delle discipline della crisi delle imprese e dell’insolvenza, art. 5; - II. Relazione al disegno di legge presentato alla Camera dei deputati; - III. Schema di decreto delegato recante il codice della crisi e dell’insolvenza, con osservazioni di A.N. »

3 6

43

DOCUMENTI E INFORMAZIONI Crisi bancarie e bail-in – Financial Stability Board, Principles on Bail-in Execution, 21 june 2018 Introduzione ai “Principles on Bail-in Execution”, di Daniele Vat-

»

83

termoli

»

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NORME REDAZIONALI

a. I contributi proposti per la pubblicazione (saggi, note a sentenza, ecc.) debbono essere inviati, in formato elettronico (word), al Direttore responsabile prof. avv. Alessandro Nigro al seguente indirizzo email alessandro.nigro@tiscali.it È indispensabile l’indicazione nella prima pagina (in alto a destra) dell’indirizzo email, per l’invio delle bozze. b. I contributi proposti per la pubblicazione sono preventivamente vagliati dalla Direzione. Quelli che superano tale vaglio vengono trasmessi, in forma anonima, ad uno dei componenti della apposita struttura di revisione, coordinata dal prof. Daniele Vattermoli. Il revisore rimette al coordinatore la sua relazione che, in forma anonima, è trasmessa al Direttore il quale, se la relazione è positiva, autorizza la pubblicazione del contributo.

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto

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Norme redazionali

corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. … 4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio

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c.c. c.comm.


Norme redazionali

Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall. legge cambiaria l.camb. testo unico t.u. testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) t.u.b. testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58) t.u.f. 2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc.

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Norme redazionali

Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm.

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Norme redazionali

Rivista della cooperazione Rivista delle società Rivista del diritto commerciale Rivista del notariato Rivista di diritto civile Rivista di diritto internazionale Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto pubblico Rivista di diritto societario Rivista giuridica sarda Rivista italiana del leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Vita notarile 4. Commentari, trattati

Riv. coop. Riv. soc. Riv. dir. comm. Riv. not. Riv. dir. civ. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. RDS Riv. giur. sarda Riv. it. leasing Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.

Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

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Norme redazionali

CODICE ETICO

La rivista Diritto della banca e del mercato finanziario è una rivista scientifica peer-reviewed che si ispira al codice etico delle pubblicazioni elaborato da COPE, Committee on Publication Ethics, Best Practice Guidelines for Journal Editors. (http://publicationethics.org/resources/guidelines)

Doveri dell’Editore

Fornisce alla rivista risorse adeguate nonché la guida di esperti (p. e. per la consulenza grafica, legale ecc.), così da svolgere il proprio ruolo in modo professionale e accrescere la qualità del periodico. L’Editore si preoccupa di perfezionare un contratto che definisca il suo rapporto con il proprietario della rivista e/o con la Direzione. I termini di detto contratto devono essere in linea con il Codice di condotta per editori di riviste scientifiche messo a punto da COPE. Il rapporto tra Direzione, Comitato di Redazione ed Editore deve basarsi saldamente sul principio di indipendenza editoriale.

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Il Direttore e il Comitato di Redazione della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario sono i soli responsabili della decisione di pubblicare gli articoli sottoposti alla rivista stessa. Nelle loro decisioni, essi sono tenuti a rispettare le linee di indirizzo della rivista. Gli articoli scelti verranno sottoposti alla valutazione di uno o più revisori e la loro accettazione è subordinata all’esecuzione di eventuali modifiche richieste e al parere conclusivo del Comitato di Redazione. La Direzione e il Comitato di Redazione sono tenuti a valutare i manoscritti per il loro contenuto scientifico, senza distinzione di razza, sesso, orientamento sessuale, credo religioso, origine etnica, cittadinanza, di orientamento scientifico, accademico o politico degli autori. Se il Comitato di Redazione rileva o riceve segnalazioni in merito a errori o imprecisioni, conflitto di interessi o plagio in un articolo pubblicato, ne darà tempestiva comunicazione all’Autore e all’Editore e intraprenderà le azioni necessarie per chiarire la questione e, in caso di necessità, ritirerà l’articolo o pubblicherà una ritrattazione.

Doveri degli Autori

Gli Autori, nel proporre un articolo alla rivista, devono attenersi alle Norme per gli Autori consultabili sul sito internet della rivista. Gli Autori sono tenuti a dichiarare di avere redatto un lavoro originale in ogni sua parte e di avere debitamente citato tutti i testi utilizzati. Qualora siano utilizzati il lavoro e/o le parole di altri Autori, queste devono essere opportunamente parafrasate o letteralmente citate.

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Codice etico

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Va correttamente attribuita la paternità dell’opera e vanno indicati come coautori tutti coloro che abbiano dato un contributo significativo all’ideazione, all’organizzazione, alla realizzazione e alla rielaborazione della ricerca che è alla base dell’articolo. Tutti gli Autori sono tenuti a dichiarare esplicitamente che non sussistono conflitti di interessi che potrebbero aver condizionato i risultati conseguiti o le interpretazioni proposte. Gli Autori devono inoltre indicare gli eventuali enti finanziatori della ricerca e/o del progetto dal quale scaturisce l’articolo. I manoscritti in fase di valutazione non devono essere sottoposti ad altre riviste ai fini di pubblicazione. Quando un Autore individua in un suo articolo un errore o un’inesattezza rilevante, è tenuto a informare tempestivamente la Redazione e a fornirle tutte le informazioni necessarie per indicare le doverose correzioni del caso. I protocolli di studio dei lavori originali devono essere preventivamente autorizzati dai comitati etici di riferimento degli Autori e le ricerche devono essere condotte secondo norme etiche con specifico richiamo alla dichiarazione di Helsinki.

Doveri dei Revisori

Attraverso la procedura del peer-review i Revisori assistono il Comitato di Redazione nell’assumere decisioni sugli articoli proposti, e inoltre possono suggerire all’Autore correzioni e accorgimenti tesi a migliorare il proprio contributo. Qualora non si sentano adeguati al compito proposto o sappiano di non potere procedere alla lettura dei lavori nei tempi richiesti sono tenuti a comunicarlo tempestivamente al Comitato di Redazione. Ogni testo assegnato in lettura deve essere considerato riservato; pertanto tali testi non devono essere discussi con altre persone senza l’esplicita autorizzazione della Direzione. La revisione deve essere effettuata in modo oggettivo. I Revisori sono tenuti a motivare adeguatamente i giudizi espressi. I Revisori s’impegnano a segnalare al Comitato di Redazione eventuali somiglianze o sovrapposizioni del testo ricevuto con altre opere a loro note. Tutte le informazioni riservate o le indicazioni ottenute durante il processo di peer-review devono essere considerate confidenziali e non possono essere usate per altre finalità. I Revisori sono tenuti a non accettare in lettura articoli per i quali sussiste un conflitto di interessi dovuto a precedenti rapporti di collaborazione o di concorrenza con l’autore e/o con la sua istituzione di appartenenza.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria

L’abbonamento alla rivista decorre dal 1° gennaio di ogni anno e dà diritto a tutti i numeri relativi all’annata, compresi quelli già pubblicati. L’abbonamento si intende rinnovato in assenza di disdetta da comunicarsi almeno 60 giorni prima della data di scadenza a mezzo lettera raccomandata a.r. da inviare a Pacini Editore S.r.l. Cedola di sottoscrizione - Abbonamento Italia 2018 (4 fascicoli): € 120,00 - Abbonamento Estero 2018 (4 fascicoli): € 170,00 - Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento ☐ assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA ☐ versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) ☐ carta di credito ☐ MasterCard ☐ VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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