DBMF 4/2019

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Saggi

Diritto della banca e del mercato finanziario ISSN 1722-8360

www.dirittobancaemercatifinanziari.it

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

di particolare interesse in questo fascicolo

• Le banche nel nuovo codice della crisi • Remunerazione degli amministratori di banche • Conti di risparmio e di pagamento • Convenzione di moratoria

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è attualmente coordinato dal prof. Daniele Vattermoli. Nell’anno 2018, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Niccolò Abriani, Concetto Costa, Giacomo D’Attorre, Giuseppe Ferri jr., Danilo Galletti, Marco Maugeri, Massimo Miola, Umberto Morera, Stefania Pacchi, Daniele Umberto Santuosso, Maurizio Sciuto, Marco Ventoruzzo.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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SOMMARIO 4/2019

PARTE PRIMA Saggi Trasferimento di servizi di pagamento legati ai conti di pagamento e tutela del consumatore, di Ciro G. Corvese Sgr e fondi comuni, tra soggetto e oggetto. Appunti sulla legittimazione processuale, di Nicola De Luca Politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche: problemi, regole europee e applicazione nazionale di Lucia Lopez

pag. 583 » 613 » 629

Commenti Conti di risparmio e direttiva UE sui servizi di pagamento – Corte Giust. UE, 4 ottobre 2018, causa C-191/17 La vexata quaestio della qualificazione della fattispecie giuridica del “conto di pagamento” ai sensi e per gli effetti del diritto UE sui servizi di pagamento nel mercato interno, di Simone Mezzacapo

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Dibattiti Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – Incontro di studio del 21 giugno 2019 presieduto da Alessandro Nigro, con interventi di Sido Bonfatti, Giovanni Falcone, Sabino Fortunato, Fabrizio Maimeri, Maurizio Sciuto, Daniele Vattermoli

» 717

Autori » 811 Indici dell’annata – Parte prima » 813


PARTE SECONDA Legislazione Convenzione di moratoria – D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155 La convenzione di moratoria nel Codice della crisi, di Marco Arato

» 117 » 119

Indici dell’annata – Parte seconda » 129 Norme redazionali » 131 Codice etico » 137


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



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Trasferimento di servizi di pagamento legati ai conti di pagamento e tutela del consumatore* Sommario: 1. Premessa. – 2. Un po’ di storia. – 2.1. Gli interventi normativi precedenti all’attuazione della PAD. – 2.2. Trasferibilità versus portabilità. – 3. Trasferibilità dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento: il necessario collegamento con la disciplina dei servizi di pagamento. – 3.1. Premessa. – 3.2. Le definizioni: servizi di pagamento e conto di pagamento. – 4. La tutela del consumatore. – 4.1. Premessa. – 4.2. L’autorizzazione del consumatore. – 4.3. La continuità dei servizi di pagamento nel caso di cessione dei rapporti in blocco. – 4.4. Il regime delle spese. – 4.5. Obblighi informativi e responsabilità. – 5. Brevi osservazioni sul regime sanzionatorio.

1. Premessa. Con il d.lgs. 15 marzo 2017, n. 37 è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva 2014/92/UE nota come Payment Account Directive (d’ora in avanti PAD) concernente la comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, il trasferimento del conto di pagamento e l’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base; attuazione che è avvenuta attraverso la modifica del Capo II-ter del Titolo VI del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (d’ora in avanti t.u.b.) con l’inserimento di 17 articoli che vanno dall’art. 126-decies all’art. 126-vicies sexies 1. Attraverso detta attuazione, il legislatore italiano ha inteso perseguire un duplice obiettivo, espressamente indicato nella PAD; da un lato, quel-

* L’articolo apparirà anche in un volume che raccoglie gli atti del convegno su “I servizi di pagamento nell’era della digitalizzazione” tenuto a Taormina il 15-16 febbraio 2018 in ricordo del prof. Giuseppe Restuccia. 1 Per una disamina completa del decreto v. Mezzacapo, La nuova disciplina nazionale dei “conti di pagamento” alla luce dell’armonizzazione attuata con la payment account directive, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, I, p. 787.

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lo di «migliorare l’integrazione del mercato UE dei conti di pagamento segnatamente: l) aumentando la trasparenza e la comparabilità delle informazioni sulle spese relative ai conti di pagamento; 2) facilitando il trasferimento del conto di pagamento; 3) eliminando le discriminazioni sull’accesso al conto di pagamento basate sulla residenza e assicurando in tal guisa nell’UE l’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base»; dall’altro, quello di «contribuire ad agevolare l’entrata sul mercato di nuovi operatori, a incrementare le economie di scala e, pertanto, ad aumentare la concorrenza nel settore bancario e dei servizi di pagamento, sia all’interno degli Stati membri che tra di essi. Le misure per semplificare il confronto dei servizi offerti e delle spese addebitate dai prestatori di servizi di pagamento e per facilitare la procedura di trasferimento del conto di pagamento consentiranno a loro volta di migliorare i prezzi e i servizi offerti ai consumatori»2. In estrema sintesi, il recepimento della PAD si inserisce nella scia di numerosi provvedimenti aventi, fra gli altri, l’obiettivo di incrementare la concorrenza fra gli intermediari nel settore dei sistemi di pagamento3

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Cfr. la Relazione allo schema di decreto legislativo (d’ora in vanti semplicemente Relazione) – Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), Sezione I, lett. B), L’indicazione degli obiettivi (di breve, medio o lungo periodo) perseguiti con l’intervento normativo. 3 Per i profili legati alla disciplina della concorrenza ed i servizi di pagamento v., fra i molti, Ardizzi – Condemi, La tutela della concorrenza nei sistemi di pagamento, in Il diritto dei sistemi di pagamento, a cura di Carriero – V. Santoro, Milano, 2005, pp. 615 ss.; Chirita, Cross-border service payments under EU fair competition and SEPA rules, European Competition Journal, 2012, pp. 403 ss.; Falce, Cooperazione e Regolazione nell’Area Unica dei Sistemi di Pagamento al dettaglio: note in tema di commissioni interbancarie, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, pp. 695 ss.; Id., Il funzionamento dei sistemi di pagamento al dettaglio. Ancora in materia di commissioni interbancarie, in Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/ CE, a cura di Rispoli Farina – V. Santoro – Sciarrone Alibrandi e Troiano, Milano, 2009, pp. 525 ss.; Id., Il mercato integrato dei sistemi di pagamento al dettaglio tra cooperazione e concorrenza (Primi appunti ricostruttivi), in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, pp. 558 ss.; Freingang - Grün, The assessment of domestic credit card interchange fees under the EC competition law, in European Business Law Review, 2005, pp. 151 ss.; Gimigliano, Il diritto europeo della concorrenza: analisi degli orientamenti comunitari e prospettive di ricerca, Il diritto dei sistemi di pagamento, a cura di Carriero e V. Santoro, cit., pp. 557 ss.; Gimigliano, La disciplina della concorrenza e i servizi di pagamento al dettaglio: continuità e discontinuità della direttiva 2007/64/CE, in Banca, impresa, soc., 2009, pp. 269 ss.; Gyselen, EU Antitrust Law in the Area of Financial Services, Fordham Corporate Law Institute, 23rd Annual Conference on International Antitrust Law and Policy, 18 October 1996; Kemppainen, Competition and Regulation in European Retail Payment

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e pone come obiettivo specifico quello di garantire a tutti i consumatori dell’UE l’accesso ai servizi di pagamento “di base” ed anche quello di vietare le discriminazioni basate sulla residenza nei confronti dei consumatori che intendono aprire un conto di pagamento all’estero, a beneficio sia dei prestatori di servizi di pagamento che dei consumatori4. Per comprendere esattamente la portata delle nuove norme, le disposizioni del d.lgs. n. 37/2017 devono essere lette congiuntamente alle misure introdotte dal d.lgs. 15 dicembre 2017, n. 218, con il quale è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva 2015/2366/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno (c.d. PSD2 - Payment Services Directive 2)5.

Systems, 2003, Bank of Finland – Discussion Papers, n. 16, pp. 1 ss.; Libertini, Brevi note su concorrenza e servizi di pagamento, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, pp. 181 ss.; Libertini, Regolazione e concorrenza nei servizi di pagamento, in Dir. banc., 2012, I, pp. 611 ss.; Maccarone, Gli indirizzi comunitari in materia di sistemi e mezzi di pagamento, in Dir. banc., 1993, I, pp. 133 ss.; Malaguti – Guerrieri, Multilateral Interchange Fees. Competition and regulation in light of recent legislative developments, Research Report, January 2014, n. 14, pp. 1 ss., www.ecri.eu; Mengozzi, La disciplina comunitaria sulla concorrenza ed attività bancaria, in Banca, impresa, soc., 1991, pp. 215 ss.; Ohrlander, EC Competition Law and Payments, in Euredia, 2000, pp. 11 ss.; Pardolesi, La concorrenza nell’industria delle carte di credito, in Dir. banc., 2006, I, pp. 3 ss.; Priest, Rethinking Antitrust Law in an Age of Network Industries, John M. Olin Center for Studies in Law, Economics, and Public Policy, 2007, Research Paper n. 352, disponibile su: htpp://www. ssrn.com. Trifilidis, Carte di pagamento e tutela della concorrenza, in Mercato, concorrenza, regole, 2004, pp. 559 ss. 4 V. Relazione, Analisi di impatto della regolamentazione (v. supra nt. 2), p. 4. Come si legge nel considerando n. 25 della PAD «È opportuno che la procedura di trasferimento dei conti di pagamento venga armonizzata in tutta l’Unione. Attualmente, le misure vigenti a livello nazionale sono estremamente variegate e non garantiscono un livello adeguato di tutela dei consumatori in tutti gli Stati membri. La predisposizione di misure legislative che stabiliscano i principi fondamentali che i prestatori di servizi di pagamento devono seguire nel fornire tale servizio in ogni Stato membro migliorerebbe il funzionamento del mercato interno sia per i consumatori che per i prestatori di servizi di pagamento. Da un lato, ciò garantirebbe condizioni di parità per i consumatori eventualmente interessati ad aprire un conto di pagamento in uno Stato membro differente, in quanto garantirebbe l’esistenza di un livello di tutela equivalente. Dall’altro, ridurrebbe le differenze tra le misure regolamentari vigenti a livello nazionale, riducendo in tal modo l’onere amministrativo per i prestatori di servizi di pagamento che intendono offrire i propri servizi a livello transfrontaliero. Di conseguenza, le misure sul trasferimento dei conti agevolerebbero la prestazione di servizi connessi ai conti di pagamento nell’ambito del mercato interno». 5 Sul punto v. più recentemente Lemme – Peluso, Dalla moneta scritturale alla mo-

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Le due direttive sono fra di loro strettamente complementari. Mentre la PSD2 prevede l’armonizzazione delle norme in materia di trasparenza delle spese, allo scopo di ridurre il costo dei sistemi di pagamento per i prestatori di servizi di pagamento; la PAD, da parte sua, mira direttamente ad armonizzare la terminologia e la presentazione delle spese e definisce standard quantitativi per gli strumenti di informazione in modo da facilitare il confronto tra conti di pagamento. Il d.lgs. n. 218/2017 ha sostanzialmente modificato il d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 con il quale era stata attuata la PSD o PSD1; e ciò ha avuto conseguenze anche sulle disposizioni che qui interessano, soprattutto in punto di definizioni per le quali, come vedremo meglio in seguito, il d.lgs. n. 37/2017 rinvia proprio al d.lgs. n. 11/2010. Tutto ciò premesso, obiettivo del presente saggio è quello di porre l’attenzione sulle norme concernenti la trasparenza introdotte nel t.u.b. dal d.lgs. n. 37/2017, con particolare riguardo a quelle che si occupano in modo specifico del trasferimento dei servizi di pagamento connessi ai conti di pagamento. Si vuole fare riferimento alle norme cha vanno dall’art. 126-quinquiesdecies all’art. 126-octiesdecies del t.u.b. e che costituiscono una disciplina speciale della trasparenza dei servizi di investimento: quella, cioè, legata al trasferimento dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento6. Il fine ultimo del presente articolo è quello di verificare se la finalità espressa dal legislatore comunitario, ossia quella di tutelare il consumatore7, sia stata raggiunta anche alla luce di una particolare conside-

neta elettronica, in Diritto ed economia del mercato, a cura di Lemme, Padova, 2018, p. 473; Antonucci, Mercati dei pagamenti: le dimensioni del digitale, in Riv. dir. banc., 2018, p. 1 ss. e, per un’analisi internazionale cfr. Gimigliano, a cura di, Bitcoin and mobile payments – Constucting a European Union framework, Londra, 2016. 6 Sulle “discipline” di trasparenza rispettivamente delle operazioni bancarie in genere, del credito al consumo e dei servizi di pagamento e sulla «opportunità della rigida distinzione dei tre regimi», cfr. Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza”?, in Dir. banc., 2011, I, pp. 11 ss. L’autorevole dottrina citata mette correttamente in dubbio la distinzione dei tre regimi soprattutto «per i problemi e le difficoltà che possono derivarne, in relazione al fatto, da un lato, che essi vengono, quanto a destinatari e ad ambiti di applicazione, a sovrapporsi largamente (…) e, dall’altro, contengono regole la cui difformità non è facilmente spiegabile (per esempio, non si comprende perché solo nel regime di trasparenza dei servizi di pagamento e non anche negli altri sia previsto a carico del fornitore del servizio l’onere di dimostrare che si è attenuto agli obblighi di trasparenza» (p. 15). 7 Con specifico riferimento alla disciplina dei trasferimenti dei servizi di pagamento legati a conti di pagamento, materia che qui maggiormente interessa, scopo della diretti-

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razione: e cioè che la disciplina in parola aveva già trovato attuazione nell’ordinamento italiano con una decretazione d’urgenza, che faceva presupporre la necessità di tutelare al più presto un soggetto debole quale, appunto, il consumatore fruitore di conti di pagamento.

2. Un po’ di storia. 2.1. Gli interventi normativi precedenti all’attuazione della PAD. Vi sono stati in passato interventi soft nella direzione di agevolare il trasferimento dei servizi di pagamento, che però non hanno avuto molto successo; ed è forse anche questo il motivo per cui si è ricorsi alla direttiva. Infatti, come si legge nell’8° considerando della PAD, «i principi comuni stabiliti nel 2008 dallo European Banking Industry Committee forniscono un modello di meccanismo per il trasferimento tra conti di pagamento offerti da banche situate nello stesso Stato membro. Tuttavia, data la loro natura non vincolante, tali principi comuni sono stati applicati in modo non uniforme nell’Unione, con risultati inefficaci. Inoltre, i principi comuni disciplinano solo il trasferimento del conto di pagamento a livello nazionale e non riguardano il trasferimento transfrontaliero. Infine, per quanto riguarda l’accesso al conto di pagamento di base, la raccomandazione 2011/442/UE della Commissione ha invitato gli Stati membri a prendere le misure necessarie per assicurarne l’applicazione al più tardi sei mesi dopo la pubblicazione della raccomandazione. A oggi solo pochi Stati membri rispettano i principi fondamentali di tale raccomandazione». Come già accennato in premessa, la disciplina che tratteremo ha avuto già una precedente attuazione con gli artt. 2 e 2-bis del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 poi convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33 recante “Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti”8.

va è quello di evitare ai consumatori che intendono trasferire i propri conti di pagamento di incorrere in eccessivi oneri amministrativi e finanziari; si intende imporre ai prestatori di servizi di pagamento l’obbligo di offrire ai consumatori una procedura chiara, rapida e sicura per trasferire i conti di pagamento, compresi i conti di pagamento con caratteristiche di base. 8 Sul punto sia permesso di rinviare al mio, Commento al d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33 recante “Misure urgenti per il sistema bancario

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Le norme citate attuavano parzialmente la PAD; nello specifico, l’art. 2 ha dato attuazione al Capo III della direttiva citata, fatta eccezione per l’art. 11, che reca nella rubrica «Agevolazione dell’apertura di un conto transfrontaliero da parte dei consumatori» e che è stato recepito nel nostro ordinamento con l’art. 2-bis, introdotto ex novo in sede di conversione del decreto citato. Gli artt. 2 e 2-bis citati recepivano quanto richiesto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) – nelle proposte di riforma concorrenziale al Parlamento e al Governo, ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza per l’anno 2014, pubblicata nel luglio 20149.

e gli investimenti” – Parte seconda: L’attuazione “parziale” della Payments Accounts Directive, in Dir. banc., 2016, II, p. 33 ss., cui adde Barillà, Il trasferimento dei servizi di pagamento, in Nuove leggi civ., 2015, p. 1031 e Mucciarone, La portabilità dei conti, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, I, p. 581. 9 Come è riportato nei lavori parlamentari per la conversione in legge del d.l. n. 3/2015, «l’Antitrust, per quanto riguarda l’adozione di strumenti che favoriscano la spinta competitiva innescata dai consumatori di servizi bancari, ha sottolineato che essi devono mirare ad aumentare il tasso di mobilità della clientela, che risulta ancora oggi di modesto rilievo. A parere dell’Autorità sussistono, infatti, problemi di trasparenza e completezza informativa, permangono vincoli non necessari tra servizi bancari e si registrano tempistiche ancora troppo lunghe in caso di trasferimento di alcuni servizi. Relativamente al grado di trasparenza delle informazioni a favore dei clienti bancari, si osserva che, nonostante l’introduzione di indicatori sintetici di costo, la scarsa mobilità registrata e la grande dispersione dei prezzi segnalano il permanere di ostacoli informativi per i consumatori e difficoltà alla mobilità; si reputa necessario fornire ai consumatori adeguati strumenti di comparazione tra il costo del proprio conto e quelli offerti dalle altre banche mediante lo sviluppo di motori di ricerca indipendenti dalle banche (e in concorrenza tra loro). A tal fine appariva all’Antitrust necessario integrare le attuali norme contenute nel TUB – titolo VI, capo 1 (decreto legislativo 1° settembre 1993, n.385) in materia di trasparenza dei rapporti contrattuali delle condizioni con i clienti, rendendo obbligatorio il termine entro cui il processo di trasferimento di un conto corrente deve essere terminato. Tale termine non dovrebbe superare i 15 giorni lavorativi, come previsto dalla proposta di direttiva comunitaria sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base (…). A ciò andrebbe associata una disposizione che obblighi la banca, laddove il trasferimento non venisse concluso entro tale termine per responsabilità della stessa banca, a risarcire il cliente in una misura proporzionata al ritardo e alla disponibilità sul conto corrente. Il trasferimento del conto corrente deve garantire altresì il trasferimento dei servizi e strumenti di incasso/pagamento ad esso associati, senza oneri a carico del correntista. Vanno infine introdotti strumenti che favoriscano lo sviluppo di motori di ricerca indipendenti dalle banche (e in concorrenza tra loro) che consentano

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Tuttavia, la materia oggetto degli articoli appena citati era già stata in parte disciplinata dall’art. 1, co. 584 e 585 della l. 27 dicembre 2013 n. 147 (legge di stabilità 2014); disposizioni che introducevano la possibilità di trasferire, senza spese aggiuntive per il cliente, i servizi di pagamento connessi ad un conto di pagamento da un prestatore di servizi ad un altro. L’art. 1, co. 584 della l. n. 147/2013 disponeva che, fermo restando il rapporto di conto istituito presso l’originario prestatore di servizi di pagamento, il cliente avrebbe potuto trasferire il servizio di pagamento presso un diverso prestatore. Il trasferimento sarebbe avvenuto, senza spese aggiuntive, utilizzando i comuni protocolli tecnici interbancari italiani. Si precisava che al trasferimento dei servizi sarebbe conseguito il subentro, da parte del prestatore di servizi di pagamento di destinazione, nei mandati di pagamento e riscossione conferiti al prestatore di servizi di pagamento di origine, alle condizioni stipulate fra il prestatore di servizi di pagamento di destinazione e il cliente. Si stabiliva altresì che detto trasferimento si sarebbe dovuto perfezionare entro il termine di 14 giorni lavorativi, da quando il cliente avrebbe chiesto al prestatore di servizi di pagamento di destinazione di acquisire, da quello di origine, i dati relativi ai mandati di pagamento e di riscossione in essere. L’art. 1, co. 585 della l. n. 147/2013 demandava ad uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia la disciplina dei servizi oggetto di trasferibilità, delle modalità e dei termini di attuazione delle norme così introdotte. Il d.lgs. n. 37/2017 ha abrogato tutte queste norme, fatta eccezione per il comma 15 dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015, che però esula dagli obiet-

un più agevole confronto tra i servizi bancari da parte dei consumatori” (v. https://www. senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/907139/index.html?part=dossier_ dossier1-sezione_sezione26-h2_h22&spart=si). Orbene, l’Antitrust faceva riferimento al conto corrente e non già, come la PAD, al conto di pagamento ma le osservazioni svolte non cambiano nella sostanza posto che, come è stato correttamente affermato in dottrina, non sembra sia possibile “dubitare del fatto che il conto di pagamento si identifichi rispettivamente nel conto corrente bancario ed in quello postale, infatti, l’uno e l’altro possono essere utilizzati dagli utenti per l’esecuzione dei servizi di pagamento. Si può, dunque, dire che il conto corrente bancario e quello postale (...) sono una specie del contratto che la Direttiva (PSD, ndr) designa quale conto di pagamento» (sul punto v. ampiamente V. Santoro, I servizi di pagamento, in Janus diritto e finanza, pp. 15 ss.).

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tivi del presente saggio, in quanto disciplina il trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro10. 2.2. Trasferibilità versus portabilità. La disciplina del trasferimento di servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento si colloca all’interno di tutte quelle disposizioni che, nel corso del tempo, il legislatore ha emanato, seppure con riferimento specifico ai contratti bancari, a tutela della concorrenza e dei diritti del consumatore. Il termine “portabilità”, che figurava nella versione dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015 prima della conversione, è stato utilizzato per la prima volta con riferimento alla disciplina della surrogazione dei mutui bancari, contenuta nell’art. 8 del d. l. 31 gennaio 2007, n. 7 (Decreto recante “Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese”, più noto come decreto Bersani), che è stata poi trasfusa, parzialmente nell’art. 120-quater del t.u.b. per effetto del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 14111. Il d.lgs. n. 141/2010 non ha però abrogato l’art. 8, co. 4-bis del Decreto Bersani, che dispone agevolazioni fiscali applicabili al caso in cui il mutuante surrogato subentri nelle garanzie accessorie, personali e reali, accessorie al credito surrogato. In particolare, non si applicano l’imposta di registro, di bollo, le imposte ipotecarie e catastali e le tasse sulle concessioni governative; né trova applicazione l’imposta sostitutiva delle predette forme di prelievo che ordinariamente grava - tra l’altro - sulle

10 All’art. 2 del d.l. n. 3/2015, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 33/2015, il co. 15 è sostituito dal seguente: «15. Il trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, è effettuato senza oneri e spese per il consumatore. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Consob e la Banca d’Italia, adotta disposizioni di attuazione del presente comma e, in deroga a quanto stabilito nel periodo precedente, può stabilire che, per il trasferimento dei titoli depositati presso un depositario centrale estero o non assoggettati al regime di dematerializzazione, al consumatore possano essere addebitate le spese sostenute in diretta conseguenza del necessario intervento di un soggetto terzo». 11 Per un recente commento della norma v. Lemma, Commento sub art. 120-quater del t.u.b., in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, Milano, 2018, pp. 1961 ss.

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operazioni di finanziamento a medio e lungo termine concluse dagli intermediari (v. art. 120-quater, co. 10 del t.u.b.). Il nono comma dell’art. 120-quater del t.u.b. delinea il campo oggettivo di applicazione della norma. Essa trova applicazione: a) nei casi e alle condizioni ivi previsti, anche ai finanziamenti concessi da enti di previdenza obbligatoria ai loro iscritti; b) ai soli contratti di finanziamento conclusi da intermediari bancari e finanziari con persone fisiche o micro-imprese12; mentre non si applica ai contratti di locazione finanziaria. Innanzitutto, si prevede che la portabilità dei contratti di finanziamento è disciplinata dalle regole sulla surrogazione di cui all’art. 1202 c.c. ed il debitore può esercitare la facoltà di surrogazione anche se il credito non è esigibile o se è stato pattuito un termine a favore del creditore (co. 1). Per effetto della surrogazione il mutuante surrogato subentra nelle garanzie, personali e reali, accessorie al credito cui la surrogazione si riferisce (ad es. ipoteca). La surrogazione comporta il trasferimento del contratto, alle condizioni stipulate tra il cliente e l’intermediario subentrante, con esclusione di penali o altri oneri di qualsiasi natura (co. 2 e 3). L’annotazione della surrogazione presso i registri immobiliari può essere richiesta senza formalità, allegando copia autentica dell’atto di surrogazione stipulato per atto pubblico o scrittura privata; tale atto può essere presentato anche in via telematica (v. art. 8, co. 8 del d.l. 13 maggio 2011, n. 70). Ai sensi del co. 4 dell’art. 120-quater del t.u.b., al cliente non possono essere imposte spese o commissioni per la concessione del nuovo finanziamento, per l’istruttoria e per gli accertamenti catastali, che si svolgono secondo procedure di collaborazione tra intermediari improntate a criteri di massima riduzione dei tempi, degli adempimenti e dei costi connessi. In ogni caso, gli intermediari non applicano alla clientela costi di alcun genere, neanche in forma indiretta, per l’esecuzione delle formalità connesse alle operazioni di surrogazione. Resta salva, ai sensi del successivo co. 5, la possibilità del finanziatore originario e del debitore di rinegoziare il finanziamento in essere, senza spese, mediante scrittura privata anche non autenticata. Inoltre, è espressamente prevista la sanzione della nullità di ogni patto, anche posteriore alla stipulazione del contratto, con il quale si

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Sul punto v. Lemma, Commento, cit., pp. 1965 s.

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impedisca o si renda oneroso per il debitore l’esercizio della facoltà di surrogazione. Trattasi di una nullità relativa che non si estende al contratto (co. 6). Il co. 7 dell’art. 120-quater del t.u.b., più volte rimaneggiato13, disciplina la possibilità di risarcimento del danno da ritardo per il caso di intempestivo perfezionamento della surrogazione, prevedendo che, ove la surrogazione non si perfezioni entro il termine di trenta giorni lavorativi dalla data della richiesta – formulata dalla banca surrogata al finanziatore originario - di avvio delle procedure di collaborazione, il finanziatore originario è tenuto a risarcire il cliente in misura pari all’uno per cento del debito residuo del finanziamento per ciascun mese o frazione di mese di ritardo. Resta ferma la possibilità per il finanziatore originario di rivalersi sul mutuante surrogato, nel caso in cui il ritardo sia dovuto a cause allo stesso imputabili. Infine, la surrogazione per volontà del debitore e l’eventuale rinegoziazione non comportano il venir meno dei benefici fiscali. Il riferimento a questa disciplina sarà utile nel prosieguo della trattazione al fine di evidenziare le differenze con le norme oggetto di commento.

3. Trasferibilità dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento: il necessario collegamento con la disciplina dei servizi di pagamento. 3.1. Premessa. La materia del trasferimento dei servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento è parte di un più ampio complesso normativo introdotto dal d.lgs. n. 37/2017, che attraverso l’art. 1 ha inserito nel Titolo VI del t.u.b., nel quale sono contenute norme regolanti la “Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti”, il Capo II-ter “Disposizioni particolari relative ai conti di pagamento” composto dagli

13 Sul punto v. l’ampia disamina svolta da Mucciarone, Sulla surroga nei finanziamenti bancari non perfezionata nel termine (art. 120-quater, co. 7, T.U.B., modificato dalla l. n. 27/2012, in Dir. banc., 2012, I, pp. 757 ss.

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articoli che vanno dal 126-decies al 126-vicies decies14, i quali recepiscono le norme contenute nel Capo III della PAD, che reca nella rubrica Trasferimento del conto di pagamento15. Dato lo specifico e circoscritto obiettivo di questo lavoro, ossia verificare l’effettività della tutela del consumatore che intende trasferire servizi di pagamento legati a conti di pagamento, l’attenzione sarà focalizzata solo su tre articoli: l’art. 126-quinquiesdecies (servizio di trasferimento), l’art. 126-sexiesdecies (spese applicabili al servizio di investimento) e l’art. 126-septiesdecies (obblighi informativi e responsabilità)16.

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Sul rapporto fra le nuove norme del Capo II-ter e la disciplina generale della trasparenza cfr. Ferretti, Commento sub art. 126-decies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (v. supra nota 11), cit., pp. 2298 s. 15 Sulla trasparenza nei servizi di pagamento prima dell’attuazione della PSD2 cfr., Nigro, Linee di tendenza, cit.; Rispoli Farina, Commento sub art. 34, comma 1, lettera a) e lettera b); Basso, Commento sub art. 34, comma 1, lettera b), Articolo 126-quater t.u.b.; Spena, Commento sub art. 34, comma 1, lettera a), Articolo 126-quinquies t.u.b.; Profeta, Commento sub art. 34, comma 1, lettera b), Articolo 126-sexies t.u.b.; Szego, Commento sub art. 34, comma 1, lettera b), Articolo 126-septies t.u.b.; V. Santoro, Commento sub art. 34, comma 1, lettera b), Articolo 126-octies t.u.b., in La nuova disciplina dei servizi di pagamento, a cura di Mancini, Rispoli Farina, V. Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano, Torino, 2011; rispettivamente alle pp. 522 ss., 533 ss., 537 ss., 544 ss., 551 ss., 567 ss. e 571 ss.; Onza, La “trasparenza” dei “servizi di pagamento” in Italia (Un itinerario conoscitivo), in Banca, borsa tit. cred., 2013, I, pp. 577 ss.; Piacentini, Osservatorio. La trasparenza nei servizi di pagamento: il provvedimento di Banca d’Italia 20 giungo 2012, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, pp. 349 ss. Dopo l’attuazione della PSD2 v. Roncaglie e Sepe, Commento sub art. 126-bis; Marullo Reedtz, Commento sub art. 126-quater; Cocchi, Commento sub art. 126-quinquies; De Poli, Commento sub artt. 126-sexies e 126-septies e Lucantoni, Commento sub art. 126-octies del t.u.b., in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (v. supra, nota 11), cit., rispettivamente alle pp. 2243 ss.; 2253 ss., 2261 ss., 2269 ss. e 2282 ss. 16 Con specifico riferimento alla tutela del consumatore, il considerando n. 44 della PAD prevede che è «opportuno garantire ai consumatori l’accesso a una serie di servizi di pagamento con caratteristiche di base. Tra i servizi collegati ai conti di pagamento di base dovrebbero essere inclusi il deposito di fondi e il prelievo di denaro contante. È opportuno che i consumatori possano effettuare le operazioni di pagamento essenziali, ad esempio l’accredito dello stipendio o di altre prestazioni, il pagamento di fatture o imposte e l’acquisto di beni e servizi, anche ricorrendo ad addebiti diretti, a bonifici, e all’uso di una carta di pagamento. È opportuno che tali servizi permettano di acquistare beni e servizi online e diano ai consumatori la possibilità di impartire ordini di pagamento avvalendosi della funzione online dell’ente creditizio, ove disponibile. Tuttavia, è opportuno che il conto di pagamento con caratteristiche di base non sia limitato all’uso online, perché ciò rappresenterebbe un ostacolo per i consumatori che non hanno accesso a Internet. Gli Stati membri dovrebbero garantire che, per quanto riguarda i servizi relativi all’apertura, alla gestione e alla chiusura del conto di pagamento nonché al deposito

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Come già accennato in precedenza, il Capo III della PAD era già stato recepito in Italia con gli artt. l e 2-bis del d.l. n. 3/2015; e la Sezione II del d.lgs. n. 37/2017, rubricata Trasferimento dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento e della quale fanno parte i tre articoli prima citati, nella sostanza riproduce la disciplina già introdotta dal citato d.l. n. 3/2015, con limitate integrazioni volte a chiarire aspetti sui quali le prime esperienze applicative hanno messo in luce l’opportunità di fornire maggiori dettagli. Si fa riferimento, in particolare: 1) ai bonifici ricorrenti in entrata da trasferire sul nuovo conto (che dovranno essere identificati dal PSP trasferente, eventualmente sulla base delle indicazioni fornite dal consumatore nell’autorizzazione); 2) agli obblighi pendenti del consumatore in relazione al vecchio conto e ai loro effetti sull’esecuzione del servizio di trasferimento; 3) alla procedura per l’agevolazione dell’apertura di un conto di pagamento in altro Stato UE17. 3.2. Le definizioni: servizi di pagamento e conto di pagamento. L’art. 126-quinquiesdecies del t.u.b.18 reca la disciplina della trasferimento dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento dete-

di fondi e al prelievo di denaro contante e alle operazioni di pagamento mediante carta di pagamento, ad eccezione delle carte di credito, il numero di operazioni disponibili al consumatore nell’ambito delle specifiche disposizioni tariffarie previste dalla presente direttiva non sia soggetto a limitazioni. Per quanto riguarda l’esecuzione dei bonifici e degli addebiti diretti, nonché le operazioni effettuate tramite carta di credito, collegate ai conti di pagamento con caratteristiche di base, gli Stati membri dovrebbero avere facoltà di determinare un numero minimo di operazioni che saranno disponibili ai consumatori nell’ambito delle specifiche disposizioni tariffarie previste dalla presente direttiva, purché i servizi a cui si riferiscono tali operazioni siano per uso personale del consumatore. Nel determinare cosa si intenda per «uso personale», gli Stati membri dovrebbero tener conto dell’attuale comportamento dei consumatori e delle prassi commerciali comuni. Le spese addebitate per le operazioni eccedenti il numero minimo di operazioni non dovrebbero in nessun caso essere superiori alle spese addebitate ai sensi della normale politica tariffaria dell’ente creditizio». 17 Cfr. la Relazione, Sezione II, Trasferimento dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento, (v. supra, nt. 2), p. 8. 18 Per un commento della norma citata nel testo v. recentemente A. Santoro, Commento sub art. 126-quinquiesdecies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (v. supra nota 11) cit., pp. 2335 ss.

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nuto da un consumatore presso un prestatore di servizi di pagamento verso un altro prestatore di servizi di pagamento19. Il primo comma dell’art. 126-quinquiesdecies cit. riprendendo integralmente il contenuto dell’art. 9 della PAD prevede che “i prestatori di servizi di pagamento forniscono il servizio di trasferimento tra i conti di pagamento detenuti nella stessa valuta a tutti i consumatori che intendono aprire o che sono titolari di un conto di pagamento presso un prestatore di servizi di pagamento stabilito nel territorio della Repubblica”. Per circoscrivere l’ambito soggettivo e oggettivo della norma citata occorre fare un breve cenno alle definizioni di cui al nuovo art. 126-decies del t.u.b. e, in particolare a quelle indicate nelle lett. a) e d) del comma 320. La lett. a) fornisce la definizione di “servizi collegati al conto”, per i quali si devono intendere tutti i servizi connessi all’apertura, alla gestione e alla chiusura di un conto di pagamento, ivi compresi l’apertura di credito, lo sconfinamento e le operazioni indicate all’articolo 2, co. 2, lett. g), del d. lgs. n. 11/2010. Quest’ultima lettera, rimasta invariata anche dopo l’attuazione della PSD221, definisce le operazioni di pagamento basate su uno dei seguenti tipi di documenti cartacei, con i quali viene ordinato al prestatore di servizi di pagamento di mettere dei fondi a disposizione del beneficiario: assegni, titoli cambiari, voucher, traveller’s cheque, vaglia postali. La lett. d) individua la definizione di “operazioni aggiuntive” nelle quali sono incluse, in relazione al conto base, i servizi e le operazioni, delle tipologie diverse da quelle individuate ai sensi dell’articolo 126–vicies semel, co. 1, che il consumatore può richiedere sul conto di base. Si applicano le definizioni previste dall’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, e dall’articolo 121, comma 1, lett. i).

19 Le modifiche apportate in sede di conversione alla rubrica della norma hanno eliminato confusioni terminologiche che avrebbero certamente condotto a notevoli dubbi interpretativi; infatti i termini “portabilità”, “conto corrente” ed “istituti bancari” sono stati sostituiti con termini più in linea con l’art. 10 PAD e cioè “trasferimento”, “conto di pagamento” e “prestatore di servizi di pagamento”. Il nuovo testo della norma in commento prende anche le distanza da quanto previsto dall’art. 120-quater del t.u.b. poco prima esaminato perché oggetto del trasferimento sono i servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento e non quest’ultimo. 20 Sul punto v. Ferretti, Commento sub art. 126-decies, cit., pp. 2295 ss. 21 V. art. 2, co. 2, d.lgs. n. 218/2017.

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Come accennato in premessa, il d.lgs. n. 218/2017, attuativo della PSD2, ha modificato il d.lgs. n. 10/2011, fra l’altro, eliminando l’art. 1 citato nella norma in commento e sostituendolo con l’art. 1, co.1, lett. h-septies) del t.u.b.22. Sono «servizi di pagamento»: le seguenti attività: 1) servizi che permettono di depositare il contante su un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento; 2) servizi che permettono prelievi in contante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento; 3) esecuzione di operazioni di pagamento, incluso il trasferimento di fondi su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utilizzatore o presso un altro prestatore di servizi di pagamento: 3.1) esecuzione di addebiti diretti, inclusi gli addebiti diretti una tantum; 3.2) esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 3.3) esecuzione di bonifici, inclusi gli ordini permanenti; 4) esecuzione di operazioni di pagamento quando i fondi rientrano in una linea di credito accordata ad un utilizzatore di servizi di pagamento: 4.1) esecuzione di addebiti diretti, inclusi gli addebiti diretti una tantum; 4.2) esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 4.3) esecuzione di bonifici, inclusi gli ordini permanenti; 5) emissione di strumenti di pagamento e/o convenzionamento di operazioni di pagamento; 6) rimessa di denaro; 7) servizi di disposizione di ordini di pagamento; 8) servizi di informazione sui conti. La prima definizione, quella di servizi collegati al conto, ha l’obiettivo precipuo di applicare le norme in materia di servizi di pagamento

22 Prima dell’attuazione della PAD la definizione era contenuta nell’art. 1, lett. b) del d.lgs. n. 11 del 2010 ma non ci sono radicale modifiche. Sul punto si rinvia a V. Santoro, I servizi di pagamento, cit.

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anche ai prestatori di detti servizi diversi dagli enti creditizi, servizi che sono nella sostanza tutte attività riferibili al tradizionale servizio di conto corrente bancario. Con specifico riguardo all’ambito oggettivo e soggettivo dell’art. 126-quinquiesdecies del t.u.b., viene in rilievo un’ulteriore definizione, quella di “servizio di trasferimento” con il quale si intende il trasferimento, su richiesta del consumatore, da un prestatore di servizi di pagamento ad un altro, delle informazioni su tutti o su alcuni ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento, o il trasferimento dell’eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione, o entrambi, con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine (art. 126-decies del t.u.b. come introdotto dall’art. 1, del d.lgs. n. 37/2017). Si deve subito notare che non si fa riferimento al trasferimento dei conti di pagamento, come pure era indicato in una versione del d.l. n. 3/2015 precedente alla conversione in legge, dove si faceva riferimento al trasferimento di un conto di pagamento riproducendo la rubrica del Capo III della PAD, al cui interno però si trovano norme che consentono, così come lo consente ora la definizione citata, il trasferimento di servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento e che quest’ultimo, secondo l’inciso finale della definizione appena riportata, potrebbe anche non essere chiuso. Infine, sempre ai fini della ricostruzione dell’ambito oggettivo, il comma 15 dell’art. 2 del d.lgs. n. 3/2015, come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 37/2017, lo estende prevedendo che “il trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, è effettuato senza oneri e spese per il consumatore. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Consob e la Banca d’Italia, adotta disposizioni di attuazione del presente comma e, in deroga a quanto stabilito nel periodo precedente, può stabilire che, per il trasferimento dei titoli depositati presso un depositario centrale estero o non assoggettati al regime di dematerializzazione, al consumatore possano essere addebitate le spese sostenute in diretta conseguenza del necessario intervento di un soggetto terzo”23.

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La versione precedente prevedeva che le disposizioni di detta norma si applicano, in quanto compatibili e secondo le modalità e i termini definiti dai decreti di cui al

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4. La tutela del consumatore. 4.1. Premessa. Le norme che più direttamente hanno ad obiettivo la tutela del consumatore che intende trasferire i servizi di pagamento legati a conti di pagamento, come predisposte dal legislatore comunitario e poi trasposte nelle singole legislazioni nazionali, sono nello specifico tre ed attengono: all’autorizzazione che deve essere rilasciata dal consumatore (art. 126-quinquiesdecies, co. 2-9), alla continuità dei servizi di pagamento nel caso di cessione di rapporti giuridici in blocco (art. 126-quinquiesdecies, co. 10) e, per ultimo ma soprattutto, agli obblighi informativi posti a carico dei prestatori di servizi di pagamento con annesse responsabilità di questi ultimi (artt. 126-sexiesdecies e 126-septiesdecies)24. 4.2. L’autorizzazione del consumatore. L’art. 126-quinquiesdecies, co. 2, del t.u.b. introduce la disciplina dell’autorizzazione che vede coinvolti tre soggetti: il consumatore, il prestatore di servizi ricevente ed il prestatore di servizio trasferente. Il trasferimento in parola avviene su impulso del consumatore il quale deve rilasciare una specifica autorizzazione al prestatore di servizi ricevente che, a sua volta, è legittimato ad avviare il servizio di trasferimento; nel caso in cui il conto abbia due o più titolari, l’autorizzazione è fornita da ciascuno di essi. Il prestatore di servizi di pagamento ricevente trasmette copia dell’autorizzazione al prestatore di servizi di pagamento trasferente ove richiesto da quest’ultimo. Tuttavia la richiesta da parte

successivo comma 18, anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, senza oneri e spese per il consumatore. 24 La circostanza che il trasferimento dei servizi di pagamento rappresenti un elemento importante della complessiva disciplina di tutela dei consumatori utenti di servizi bancari è sottolineata anche da Banca d’Italia: «Il diritto al trasferimento, la certezza dei tempi necessari per completare l’operazione nonché l’assenza di spese per il servizio rappresentano infatti il complemento necessario delle norme volte ad assicurare la comparabilità tra le diverse offerte presenti sul mercato. Tali norme garantiscono effettività al diritto di scelta del consumatore e favoriscono la competizione sul mercato per l’offerta di prodotti più convenienti per la clientela» (così Banca d’Italia, Comunicazione del 22 giugno 2017 avente ad oggetto Trasferimento dei servizi di pagamento).

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del prestatore del servizio trasferente non interrompe né sospende il termine per l’esecuzione del servizio di trasferimento. Circa la forma dell’autorizzazione si applica l’articolo 117, co. 1 e 2 del t.u.b. Circa il contenuto dell’autorizzazione, il quarto comma della norma in esame specifica che attraverso l’autorizzazione il consumatore: a) fornisce al prestatore di servizi di pagamento trasferente e al prestatore di servizi di pagamento ricevente il consenso specifico a eseguire ciascuna delle operazioni relative al servizio di trasferimento, per quanto di rispettiva competenza; b) quando intende trasferire solo alcuni dei servizi collegati al conto di pagamento, identifica specificamente i bonifici ricorrenti in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti per l’addebito in conto che devono essere trasferiti; c) indica la data a partire dalla quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti devono essere eseguiti o addebitati a valere sul conto di pagamento di destinazione. Tale data è fissata ad almeno sei giorni lavorativi a decorrere dal giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento ricevente riceve i documenti trasmessi dal prestatore di servizi di pagamento trasferente; d) indica se intende avvalersi della facoltà di ottenere il reindirizzamento automatico dei bonifici previsto dal co. 7. Il rapporto trilaterale, consumatore-prestatore servizi di investimento ricevente-prestatore di servizi trasferente, che si viene ad instaurare dopo il rilascio dell’autorizzazione necessita della specificazione delle obbligazioni ricadenti sui prestatori dei servizi di investimento e sui diritti del consumatore nei confronti sia dell’uno che dell’altro (co. 5). Circa il rapporto fra prestatore di servizi di pagamento ricevente e consumatore, il primo è responsabile dell’avvio e della gestione della procedura per conto del consumatore e quest’ultimo, dal canto suo, può chiedere al prestatore di servizi di pagamento ricevente di effettuare il trasferimento di tutti o di alcuni bonifici in entrata, ordini permanenti di bonifico o ordini di addebito diretto. Il prestatore di servizi di pagamento trasferente fornisce al prestatore di servizi di pagamento ricevente tutte le informazioni necessarie per riattivare i pagamenti sul conto di pagamento di destinazione, in conformità a quanto indicato nell’autorizzazione del consumatore, ivi compresi l’elenco degli ordini permanenti in essere relativi a bonifici e le informazioni disponibili sugli ordini di addebito diretto che vengono trasferiti, nonché le informazioni disponibili sui bonifici ricorrenti in en-

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trata e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto di pagamento del consumatore nei precedenti 13 mesi. Relativamente ai tempi entro i quali debba essere effettuato il servizio di trasferimento, il comma 3 dell’art. 126-quinquiesdecies del t.u.b. precisa che tale servizio deve essere eseguito entro dodici giorni lavorativi dalla ricezione da parte del prestatore di servizi di pagamento ricevente dell’autorizzazione del consumatore completa di tutte le informazioni necessarie, in conformità alla procedura stabilita dall’art. 10 della PAD. La Banca d’Italia può dettare disposizioni attuative del comma in esame. Qualora le informazioni fornite dal prestatore di servizi di pagamento trasferente non siano sufficienti a consentire l’esecuzione del servizio di trasferimento entro il termine di cui al suddetto comma, ferma restando la responsabilità del prestatore di servizi di pagamento trasferente ai sensi del successivo art. 126-septiesdecies del t.u.b., il prestatore di servizi di pagamento ricevente può chiedere al consumatore di fornire le informazioni mancanti (art. 126-quinquiesdecies, co. 6). L’art. 126-quinquiesdecies si sofferma su alcune questioni concernenti l’operatività del servizio di trasferimento anche al fine di garantire piena efficacia alla tutela del consumatore ponendo a carico del prestatore di servizi di pagamento trasferente alcuni obblighi. In primo luogo, quest’ultimo dovrà assicurare gratuitamente il reindirizzamento automatico dei bonifici ricevuti sul conto di pagamento di origine verso il conto di pagamento di destinazione detenuto presso il prestatore di servizi di pagamento ricevente, per un periodo di 12 mesi a decorrere dalla data specificata nell’autorizzazione del consumatore all’esecuzione del servizio di trasferimento. In secondo luogo, il prestatore di servizi di pagamento trasferente, se cessa di accettare i bonifici in entrata alla scadenza dei 12 mesi o in mancanza di richiesta da parte del consumatore del servizio di reindirizzamento, sarà tenuto ad informare tempestivamente il pagatore o il beneficiario delle ragioni del rifiuto dell’operazione di pagamento (art. 126-quinquiesdecies, co. 7). In terzo luogo, fermo restando quanto previsto dall’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, il prestatore di servizi di pagamento trasferente assicura al consumatore la fruizione dei servizi di pagamento fino al giorno precedente la data indicata dal consumatore nell’autorizzazione. Sarà poi il prestatore di servizi di pagamento ricevente a dover assicurare la fruizione dei servizi di pagamento a partire da tale data. In quarto luogo, al prestatore di servizi di pagamento trasferente spetta anche un obbligo di non fare e cioè non può non bloccare gli

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strumenti di pagamento collegati al conto di origine prima della data indicata dal consumatore nell’autorizzazione (art. 126-quinquiesdecies, co. 8). In quinto luogo, soggetta a particolare disciplina è l’ipotesi nella quale il consumatore abbia obblighi pendenti che non consentano la chiusura del conto di pagamento di origine. In tal caso il prestatore di servizi di pagamento trasferente deve darne comunicazione immediatamente al consumatore e resta fermo l’obbligo del prestatore di servizi di pagamento trasferente di effettuare tutte le operazioni necessarie all’esecuzione del servizio di trasferimento entro i termini previsti, ad eccezione della chiusura del conto di pagamento di origine. Infine, ulteriore elemento fondamentale del rapporto trilaterale è la previsione che l’esecuzione del servizio di trasferimento non può essere condizionata alla restituzione da parte del consumatore di carte, assegni o altri strumenti di pagamento collegati al conto di origine (art. 126-quinquiesdecies, co. 9). 4.3. La continuità dei servizi di pagamento nel caso di cessione di rapporti giuridici in blocco. Particolare attenzione merito la norma in base alla quale “la continuità nella fruizione dei servizi di pagamento è assicurata al consumatore anche quando il trasferimento del conto è l’effetto di operazioni di cessione di rapporti giuridici ad altro prestatore di servizi di pagamento, secondo quanto stabilito dalla Banca d’Italia” (v. art. 126-quinquiesdecies, co. 10). In virtù della delega fornita dalla norma appena citata, la Banca d’Italia ha modificato il provvedimento del 29 luglio 2009, e successive modificazioni avente ad oggetto “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”25. Le modifiche, entrate in vigore il 6 settembre 2017, erano volte a dare attuazione al nuovo Capo II-ter del titolo VI del t.u.b. ed avevano una duplice finalità: 1) da un lato, «garantire al consumatore che subisce il trasferimento del conto di pagamento una tutela almeno pari a quella prevista dalla PAD per il caso in cui il trasferimento dipenda invece da un’autonoma iniziativa del cliente»; 2) dall’altro, «ridurre al minimo gli

25 Consultabili al link https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/archivio-norme/disposizioni/trasparenza_operazioni/testo-disposizione-2017/Disp_trasparenza.pdf.

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oneri gravanti sugli intermediari, valorizzando in massima parte le procedure già adottate dal sistema bancario e, in ogni caso, quelle necessarie per adempiere agli obblighi previsti dalla Direttiva per l’ipotesi di trasferimento su iniziativa del cliente»26. Le successive disposizioni di vigilanza del luglio 2019 sono intervenute sulla disciplina dei requisiti organizzativi degli intermediari, richiedendo la predisposizione di una serie di presidi inseriti nel paragrafo 2-ter della Sezione XI dedicata proprio ai suddetti requisiti27. In particolare, la Banca d’Italia ha previsto che gli intermediari, quando procedono a operazioni di cessione che interessano anche rapporti di conti di pagamento con consumatori, adottino procedure interne che garantiscano, anche mediante la conclusione di accordi tra cedente e cessionario e l’adesione a iniziative di autoregolamentazione: a) che il consumatore riceva con congruo anticipo, almeno 30 giorni prima del momento in cui la cessione produce i suoi effetti, le informazioni relative alle conseguenze della cessione sul conto di pagamento (ad esempio, sul nuovo IBAN e su come ottenere, se del caso, i nuovi strumenti di pagamento), alle modalità per ricevere chiarimenti e segnalare disfunzioni e anomalie nonché relative ai servizi di cui alle lettere c), d), e), f);

26 Nel documento di consultazione della Banca d’Italia avente ad oggetto modifiche alle disposizioni in materia di trasparenza, entrate in vigore il 6 settembre 2017, si leggeva che «Il trasferimento del conto di pagamento da un intermediario a un altro, possibile conseguenza di una più ampia operazione di cessione di rapporti giuridici (ad esempio in occasione di una cessione di azienda o di un complesso di sportelli bancari), comporta, per i titolari dei conti, la variazione dell’IBAN e la sostituzione degli strumenti necessari per usufruire dei servizi di pagamento (es. carte di pagamento, assegni); la variazione dell’IBAN, a sua volta, può avere conseguenze sul buon fine delle operazioni di addebito e di accredito che avvengono in automatico sul conto (es. accredito dello stipendio, domiciliazione di utenze): in ragione di ciò, è opportuno garantire una informativa puntuale e tempestiva circa l’operazione di cessione e l’adozione di soluzioni organizzative adeguate da parte degli intermediari, in modo da assicurare la continuità dei pagamenti e degli incassi» . 27 Le disposizioni sono consultabili al link https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/archivio-norme/disposizioni/trasparenza_operazioni/testo-disposizione-2019/Disposizioni_Testo_integrale.pdf, pp. 112 ss. La Banca d’Italia era già intervenuta sul tema nel 2013; in quell’occasione era stato previsto che in caso di cessione di rapporti giuridici il cessionario dovesse comunicare al titolare del conto le informazioni necessarie per assicurare la continuità dei servizi connessi al conto con un anticipo di almeno 30 giorni.

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b) l’aggiornamento tempestivo dei dati negli archivi di sistema e nelle procedure utili alla funzionalità del sistema dei pagamenti; c) soluzioni applicative e informatiche che assicurino la continuità nella fruizione dei servizi di pagamento per un periodo di almeno 12 mesi a decorrere dal momento in cui l’operazione di cessione produce i suoi effetti (ad esempio, reindirizzamento automatico dei bonifici ricevuti sul conto di pagamento detenuto presso l’intermediario cedente verso il nuovo conto di pagamento di destinazione detenuto presso l’intermediario cessionario); d) il trasferimento, a valere sul conto presso l’intermediario cessionario, degli ordini permanenti di bonifico presenti sul conto detenuto presso l’intermediario cedente; e) se convenuto con il consumatore e nella misura in cui le informazioni fornite da questo consentano di provvedervi, la comunicazione delle coordinate del conto di pagamento presso l’intermediario cessionario ai pagatori che effettuano bonifici ricorrenti in entrata sul conto di pagamento detenuto presso l’intermediario cedente e ai beneficiari degli ordini relativi ad addebiti diretti presenti sul medesimo conto di pagamento; la comunicazione deve avvenire almeno 6 mesi prima che siano interrotte le soluzioni informatiche indicate alla lettera c). Il cliente fornisce all’intermediario le informazioni occorrenti alla trasmissione della comunicazione; f) con riguardo a eventuali disfunzioni e anomalie verificatesi in connessione con la cessione: i) la possibilità, per il consumatore, di segnalare la disfunzione o l’anomalia senza alcun costo, e di ottenere una risposta tempestiva; ii) un’adeguata assistenza al consumatore, idonea a minimizzare il disagio eventualmente subìto; iii) la correzione in tempi ristretti di disfunzioni e anomalie. Con riferimento alle cessioni effettuate nell’ambito di una procedura di amministrazione straordinaria, liquidazione coatta amministrativa o risoluzione, il cessionario comunica - non appena possibile e, comunque non oltre 20 giorni lavorativi dalla realizzazione della cessione - ai titolari dei conti di pagamento trasferiti le informazioni necessarie per fruire senza soluzione di continuità dei servizi di pagamento connessi al conto. La previsione relativa all’inapplicabilità della disciplina sulla continuità dei servizi di pagamento ai casi di amministrazione straordinaria, liquidazione coatta amministrativa e risoluzione è volta a conciliare al meglio la tutela della clientela con l’esigenza di assicurare la necessaria riservatezza e speditezza delle procedure di gestione delle situazioni di crisi degli intermediari.

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4.4. Il regime delle spese. Con riferimento al regime delle spese, profilo predominante di tutta la disciplina del trasferimento dei servizi di pagamento28, l’art. 12 della PAD obbligava gli Stati membri ad assicurare che eventuali spese addebitate al consumatore dal prestatore di servizi di pagamento “trasferente” per la chiusura del conto di pagamento detenuto presso di esso siano fissate conformemente a quanto previsto in merito dall’articolo 45, paragrafi 2, 4 e 6 della citata direttiva PSD (2007/64/CE), che prevedono quanto segue: 1) il recesso da un contratto quadro concluso per una durata superiore ai 12 mesi o per una durata indefinita non deve comportare spese per l’utente dei servizi di pagamento, dopo la scadenza di 12 mesi; in tutti gli altri casi le spese per lo scioglimento del contratto devono essere adeguate e in linea con i costi sostenuti; 2) le spese per i servizi di pagamento fatturate periodicamente sono dovute, dall’utente dei servizi di pagamento, solo in misura proporzionale per il periodo precedente lo scioglimento del contratto, e se sono pagate anticipatamente, tali spese sono rimborsate in misura proporzionale e 3) viene fatta salva la possibilità per gli Stati membri di prevedere disposizioni più favorevoli per gli utenti. La previsione comunitaria è stata recepita nell’ordinamento domestico con l’art. 126-sexiesdecies del t.u.b.29, il quale prevede: 1) in primo luogo, che il prestatore di servizi di pagamento trasferente, senza addebito di spese a carico del consumatore o del prestatore di servizi di pagamento ricevente, fornisce le informazioni richieste dal prestatore di servizi di pagamento ricevente e relative all’elenco degli ordini permanenti in essere relativi a bonifici e le informazioni disponibili sugli ordini di addebito diretto che vengono trasferiti e ai bonifici

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Nel considerando n. 15 della PAD si legge che «è essenziale che il consumatore possa comprendere le spese, in modo da poter confrontare le offerte di diversi prestatori di servizi di pagamento e scegliere in modo consapevole il conto di pagamento più adeguato alle sue esigenze. Il confronto tra le spese non è possibile quando i prestatori di servizi di pagamento usano una terminologia diversa per i medesimi servizi e forniscono informazioni in formati diversi. Una terminologia standardizzata assieme a informazioni mirate presentate in un formato uniforme e riguardanti i servizi più rappresentativi collegati ai conti di pagamento possono aiutare i consumatori a comprendere e a confrontare le spese». 29 Per un commento della norma citata nel testo v. recentemente Pistocchi, Commento sub art. 126-sexiesdecies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (v. supra nota 11), cit., pp. 2338 ss.

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ricorrenti in entrata e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto di pagamento del consumatore nei precedenti tredici mesi (co. 1 che corrisponde all’art. 2, co. 11); 2) in secondo luogo, fermo restando quanto previsto dai co. 1 e 4, che il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente non addebitano spese al consumatore per il servizio di trasferimento (co. 2); 3)in terzo luogo, per il periodo di sei mesi dal rilascio dell’autorizzazione da parte del consumatore, che il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente consentano gratuitamente al consumatore l’accesso alle informazioni che lo riguardano rilevanti per l’esecuzione del servizio di trasferimento e relative agli ordini permanenti e agli addebiti diretti in essere presso il medesimo prestatore di servizi di pagamento (comma 3 che corrisponde all’art. 2, co. 10). Disciplina a parte è dedicata alla fattispecie in cui, nell’ambito del servizio di trasferimento, il consumatore richieda la chiusura del conto di pagamento di origine. In tal caso trovano applicazione i co. 1 e 3 dell’art. 126-septies del t.u.b., ai sensi dei quali: 1) l’utilizzatore di servizi di pagamento ha sempre la facoltà di recedere dal contratto quadro senza penalità e senza spese di chiusura (co. 1) e 2) in caso di recesso dal contratto dell’utilizzatore o del prestatore di servizi di pagamento, le spese per i servizi fatturate periodicamente sono dovute dall’utilizzatore solo in misura proporzionale per il periodo precedente al recesso; se pagate anticipatamente, esse sono rimborsate in maniera proporzionale (co. 3). Il nuovo art. 126-sexiesdecies del t.u.b. dà attuazione all’art. 12, co. 1 e 2 della PAD in tema di informazioni. Con riferimento alla previsione normativa di cui all’art. 126-sexiesdecies, co. 2, del t.u.b., si deve sottolineare che l’art. 12, co. 4 della PAD dispone che «Gli Stati membri assicurano che eventuali spese addebitate al consumatore dal prestatore di servizi di pagamento trasferente o dal prestatore di servizi di pagamento ricevente per i servizi forniti a norma dell’articolo 10 diversi da quelli di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 del presente articolo siano ragionevoli e in linea con i costi effettivamente sostenuti dal prestatore di servizi di pagamento». In merito, è stato fatto correttamente notare che «qualora si ritenesse di agevolare ulteriormente il consumatore, andrebbe comunque quantomeno assicurato il rimborso delle spese vive sostenute. Ad esempio, per

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quanto riguarda il trasferimento degli strumenti finanziari va segnalato che in alcuni casi la banca sostiene delle spese per il trasferimento dei titoli, come nel caso di strumenti finanziari nominativi accentrati presso alcuni depositari centrali esteri o di titoli non dematerializzati il cui trasferimento richiedere l’utilizzo di un portavalori»30. 4.5. Obblighi informativi e responsabilità. Il co. 1 dell’art. 126-septiesdecies del t.u.b.31 (ex co. 14 dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015) si apre con una previsione normativa che chiude la disciplina delle informazioni e, dando attuazione all’art. 14 della PAD, prevede che i prestatori di servizi di pagamento mettono a disposizione dei consumatori a titolo gratuito informazioni riguardanti il servizio di trasferimento. Il contenuto delle informazioni e le modalità con cui queste sono messe a disposizione del consumatore sono disciplinati ai sensi dei capi I e II-bis del titolo VI del t.u.b. Strettamente legato a tale obbligo è il profilo della responsabilità sancito dal secondo comma della norma citata, in base al quale, «salvo il diritto al risarcimento del danno ulteriore, anche non patrimoniale, in caso di mancato rispetto degli obblighi e dei termini per il trasferimento dei servizi di pagamento, il prestatore di servizi di pagamento inadempiente è tenuto a corrispondere al consumatore, senza indugio e senza che sia necessaria la costituzione in mora, una somma di denaro, a titolo di penale, pari a quaranta euro. Tale somma è maggiorata inoltre per ciascun giorno di ritardo di un ulteriore importo determinato applicando alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento un tasso annuo pari al valore più elevato del limite stabilito ai sensi e in conformità all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, nel periodo di riferimento». Nella Relazione si legge che la norma citata «affina la precedente disposizione del decreto legge n. 3/2015 che prevedeva non il risarcimento

30 Audizione del vice direttore dell’ABI, Gianfranco Torriero, 16 febbraio 2015, consultabile all’indirizzo https://www.abi.it/DOC_Info/ Audizioni-parlamentari/Audizione_ DL_3-2015_Sistema_bancario_ Investimenti _16genn2015.pdf. 31 Per una disamina specifica dell’articolo citato nel testo v. Rossano, Commento sub art. 126-septiesdecies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (v. supra nota 11), cit., pp. 2342 ss.

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ma soltanto un indennizzo a favore del consumatore in caso di mancato rispetto da parte del PSP delle modalità e dei termini per il servizio di trasferimento». Il precedente normativo è rappresentato dall’art. 2, co. 16 e 18 del d.l. n. 3/201532. La prima disposizione prevedeva che, «in caso di mancato rispetto delle modalità e dei termini per il trasferimento dei servizi di pagamento, il prestatore di servizi di pagamento inadempiente è tenuto a indennizzare il cliente in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento» (co. 16). La seconda disposizione, ossia l’art. 2, co. 18, del d.l. n. 3/2015, introduceva una norma per la quantificazione dell’indennizzo e, nello specifico, prevedeva che «Con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, sono definiti i criteri per la quantificazione dell’indennizzo di cui al comma 16 nonché le modalità e i termini per l’adeguamento alle disposizioni di cui al comma 15 del presente articolo. In sede di prima attuazione, i decreti di cui al primo periodo sono emanati entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. I prestatori di servizi di pagamento si adeguano alle disposizioni del presente articolo sulla trasferibilità dei servizi di pagamento entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (co. 18)»33. Come si legge nella Relazione «La modifica è stata dettata dalla considerazione che “il trasferimento riguarda servizi di pagamento, l’entità delle somme giacenti sul conto non sembra un indicatore su cui equamente parametrare una forma di indennizzo forfetario, in quanto il danno per il consumatore può essere elevato anche a fronte dì giacenze ridotte. Si è ritenuto più corretto fissare una penale da pagare al cliente piuttosto che un indennizzo, visto che l’esistenza di un danno e il suo importo può variare molto da caso a caso e non dipende direttamente/automa-

32 Sulle difficoltà interpretative delle norme citate nel testo v. Mucciarone, La portabilità dei conti, cit., p. 583. 33 Nella versione precedente alla conversione in legge del d.lgs. n. 3/2015 si faceva riferimento al “risarcimento” riprendendo il contenuto dell’art. 120-quater, co. 7 del t.u.b.; ma si deve rilevare che il verbo “indennizzare” usato in sede di conversione è in linea con quanto previsto dal legislatore comunitario che si esprime in termine di rimborso (v. art. 13, par. 1 della PAD).

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ticamente dalla durata del ritardo e/o dalla giacenza del conto trasferita con ritardo. La penale, infatti, può essere considerata come strumento di deterrente per le banche (evitare ritardi “strategici’’) piuttosto che un vero indennizzo del danno subito dal cliente che dipende invece dalle circostanze del caso». Si aggiunge, inoltre che «La norma struttura questo pagamento sulla falsa riga della “clausola penale” ex art. 1382 c.c. e, quindi, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento il prestatore di servizi è tenuto a una determinata prestazione (non indennizzo) a favore del cliente, salva la risarcibilità del danno ulteriore) anche non patrimoniale. Tale prestazione il dovuta indipendentemente dalla prova del danno. La (nuova) formulazione prevede, quindi, che il prestatore di servizi di pagamento inadempiente corrisponda al consumatore, senza indugio e senza che sia necessaria la costituzione in mora, una penale pari a quaranta euro maggiorata, per ogni giorno dì ritardo, di un ulteriore importo determinato quest’ultimo applicando un tasso annuo pari a quello del valore in assoluto più elevato del limite stabilito ai sensi e in conformità dell’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, alla disponibilità esistente su} conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento». A dimostrazione della difficoltà di calcolare l’indennizzo e, quindi, della necessità di modificare la norma precedentemente in vigore (art. 2, co. 16, d.l. n. 3/2015), merita riportare le conclusioni della decisione dell’Arbitro Collegio di Bologna del 6 giugno 2017, n. 619034 nella quale si fa innanzitutto notare che a distanza di quasi due anni dall’emanazione della disciplina primaria, dal Ministero non è pervenuta alcuna regolamentazione “attuativa”, e ciò ha sollevato talune perplessità in merito all’applicabilità del rimedio indennitario (sicuro nell’an, ma non nel quantum). Nella decisione, si sottolinea, innanzitutto, che «il diritto all’indennizzo, per definizione, non è subordinato alla rigorosa dimostrazione di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità civile risarcitoria ex art. 2043 c.c. e che non rappresenta un’anomalia la mancata predeterminazione legislativa del relativo ammontare. Quando sia la legge a prevedere la disponibilità di un indennizzo, all’attore è riconosciuto il diritto a una prestazione monetaria, anche in assenza della prova del

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La decisione è consultabile al link https://www.arbitrobancariofinanziario.it/decisioni/2017/06/Dec-20170606-6190.PDF.

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danno, per il mero verificarsi di un evento che si presume lesivo. In alcuni contesti (per esempio, nella disciplina sulla “portabilità” dei mutui ex art. 120-quater, comma 7, t.u.b.), an e quantum del risarcimento simbolico spettante al danneggiato sono predeterminati dal legislatore; in altri, invece, il quantum è rimesso il prudente apprezzamento del giudice, secondo un modello puramente equitativo (art. 2045 c.c.) o parzialmente vincolato dalla predeterminazione legislativa di criteri-guida (ci si riferisce esemplificativamente all’indennità, “in considerazione delle condizioni economiche delle parti”, disposta dall’art. 2047, comma 2, c.c.)». Secondo il Collegio adito «il legislatore ha inteso cristallizzare in una regola di rango primario la presunzione che al ricorrere di un ritardo superiore a dodici giorni lavorativi è dato apprezzare un danno che fuoriesce dall’area della tollerabilità e che, pertanto, deve essere risarcito “in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento». È dunque evidente che l’interprete, nella perdurante assenza di “criteri per la quantificazione” dettati dal Ministero, non è affatto parametri di riferimento nell’opera di attuazione di un rimedio caricato di una valenza anzitutto promozionale e simbolica, ma anche riparatoria in senso ampio. È lo stesso co. 18, poi, a evidenziare che «i prestatori di servizi di pagamento si adeguano alle disposizioni del presente articolo sulla trasferibilità dei servizi di pagamento entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, con ciò persuadendo ancor di più il Collegio dell’opportunità che della nuova disciplina, nel suo complesso, sia fornita una lettura in grado di esaltarne in massima misura l’effettività anziché deprimerla». In conclusione, a giudizio del Collegio bolognese, «il diritto del ricorrente all’indennizzo va, dunque, attuato, avendo cura di mantenere una proporzionalità diretta rispetto “al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento”. A tal fine, nella volontà di rendere esplicito il processo logico sotteso all’esercizio del “prudente apprezzamento” da parte del giudicante, il Collegio ritiene di poter fare ricorso alla medesima formula adottata dal legislatore nell’attiguo settore della “portabilità” dei mutui, determinando quindi l’indennizzo spettante all’odierno ricorrente ex art. 2, d.l. n. 3 del 2015, nella misura dell’1% della “disponibilità sul conto” per ogni mese o frazione di mese di ritardo superiore a 12 giorni». La nuova norma contenuta nell’art. 126-septiesdecies, co.2 del t.u.b., con la previsione della penale elimina qualsiasi problema relativo alla determinazione del quantum; resta ferma la possibilità da parte del consumatore di potere esercitare azione di risarcimento del danno.

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5. Brevi osservazioni sul regime sanzionatorio. Nella Relazione si auspica che le nuove norme per il trasferimento dei servizi di pagamento possano portare, nel medio-lungo periodo, ad un aumento della fiducia e della tutela dei consumatori. Nello specifico «il pacchetto di misure inserite nel decreto legislativo (…) dovrebbe cambiare l’attuale situazione a favore dei consumatori. Su un piano generale, quindi, i vantaggi della trasposizione della disciplina europea si esprimono soprattutto in termini di maggior tutela per il consumatore nel comparto dei servizi di pagamento, connessi con l’armonizzazione delle norme in materia di trasparenza del1e spese, al fine di semplificare il confronto dei servizi offerti e delle spese addebitate dai prestatori di servizi di pagamento, e con le misure per facilitare la procedura di trasferimento del conto di pagamento che consentirà a sua volta di migliorare i prezzi e i servizi offerti ai consumatori». Accanto a questi potranno verificarsi altri vantaggi «connessi con l’accesso ai servizi bancari di base che faciliterà l’inclusione finanziaria consentendo a tutti i consumatori di partecipare al mercato interno e di trame beneficio. Le misure sull’accesso permetteranno di ridurre il numero di cittadini che non fruiscono di servizi bancari e di creare, al tempo stesso, un mercato dei conti di pagamento più funzionante, efficiente e competitivo. I consumatori beneficeranno, ovunque si trovino, di un migliore accesso ai loro fondi, di una maggiore sicurezza grazie a un minore ricorso alle operazioni in contante, e si sentiranno meno esclusi dal punto di vista finanziario, economico e sociale». In conclusione «un effetto positivo sulla fiducia dei consumatori può contribuire a rafforzare la domanda di conti di pagamento e a incoraggiare la mobilità dei consumatori a livello sia nazionale che transfrontaliero»35.

35 «Nel lungo periodo, inoltre, la concorrenza permetterà di ottenere incrementi di efficienza in termini di costi per i prestatori di servizi di pagamento (che potranno infatti realizzare economie di scala uti1ìzzando gli stessi sistemi informatici, processi, sistemi di formazione del personale e cosi via in tutti gli Stati membri in cui operano), agevolare l’entrata di presta tori stranieri sul mercato e aumentare il potenziale di espansione del mercato per i prestatori competitivi. I benefici non quantificabili per i prestatori di servizi di pagamento consisteranno in una più vasta base di clientela cui proporre altri prodotti e in una riduzione dei costi e dei rischi connessi ai pagamenti in contante. I vantaggi per il Paese e la collettività, nel medio e lungo periodo, nel suo insieme consisterebbero in una riduzione dei costi delle prestazioni legate alle frodi e, più in generale, il fatto dì pro-

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La questione è, a questo punto, verificare se le norme oggetto del presente studio siano o meno in grado di raggiungere concretamente gli obiettivi proposti. Ci si intende riferire alla effettività delle norme che, come ben noto, dipende oltre che dalla spontanea obbedienza da parte dei destinatari anche, meglio soprattutto, dalla concreta applicazione della sanzione in caso di violazione della norma stessa. Con riferimento all’apparato sanzionatorio, posto a corredo delle norme commentate, il nuovo art. 126-vicies sexies del t.u.b.36, al co. 3 reca modifiche all’art. 144 sempre del t.u.b.37, al fine di integrare la disciplina sanzionatoria con gli opportuni riferimenti ai nuovi articoli introdotti per recepire la PAD. In particolare: a) la violazione dell’art. 126-quinquiesdecies, regolante il servizio di trasferimento, è stata inserita nell’art. 144, co. 3, lett. b) del t.u.b.; b) la violazione dell’art. 126-septiesdecies, che disciplina gli obblighi e le responsabilità dei prestatori di servizi di pagamento, è stata inserita nell’art. 144, co. 3, lett. a) del t.u.b.;

muovere mercati bancari competitivi dovrebbe migliorare l’efficienza del mercato unico. Tutti questi vantaggi dovrebbero rafforzarsi reciprocamente, accrescendo la fiducia di consumatori e imprese e stimolando in questo modo l’efficienza del sistema dei pagamenti nel suo complesso e in definitiva la crescita economica e l’inclusione finanziaria» [Relazione, Analisi di impatto della regolamentazione, Sezione 5, (v. supra nt. 2), p. 8]. 36 Per un commento della norma citata nel testo v. recentemente Manzi, Commento sub art. 126-vicies sexies, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (v. supra nota 11), cit., pp. 2387 ss. 37 Sull’art. 144 del t.u.b, ex multis, cfr. Galantino, Commento sub art. 144, in Testo unico bancario. Commentario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e V. Santoro, Milano, 2010, pp. 1284 ss.; Bani, Le sanzioni amministrative, in La nuova legge sul risparmio. Profili societari, assetti istituzionali e tutela degli investitori, a cura di Capriglione, Padova, 2006, pp. 389 ss.; Carbone, Le sanzioni amministrative: dal Testo unico bancario (d.lg. 385/1993) a quello sui mercati finanziari (d.lg. 58/1998), in Danno e resp., 1999, II, pp. 410 ss.; Castiello, Incostituzionalità delle sanzioni bancarie, in Banc., 1996, I, pp. 56 ss.; Condemi, Commento sub art. 145, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 2001, pp. 114 ss.; De Biase, Corte costituzionale: sanzioni amministrative, sim e banche, in Foro pad., 1996, I, pp. 121 ss.; Fauceglia, “Eppur si muove!”: qualche novità nella giurisprudenza della Corte di Appello di Roma in tema di sanzioni irrogate ad esponenti bancari, in Giur. comm., 2002, II, pp. 95 ss.; Travi, La giurisdizione amministrativa per le sanzioni pecuniarie previste dal Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, II, pp. 379 ss. e, più recentemente, Engst, Commento sub art. 144, in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (v. supra nota 11), cit., pp. 2641 ss.

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c) infine, è disposta, altresì, la sottoposizione alle sanzioni previste dal t.u.b. delle violazioni delle di-sposizioni in materia di organizzazione e controlli interni ai sensi dell’art. 127, co. 01, del medesimo t.u.b. Pertanto, anche con riferimento alle suddette violazioni, nei confronti delle banche, degli intermediari finanziari, delle rispettive capogruppo e dei soggetti ai quali sono state esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti, nonché di quelli incaricati della revisione legale dei conti, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 30.000 fino al 10 per cento del fatturato e, nei confronti degli istituti di pagamento e degli istituti di moneta elettronica e dei soggetti ai quali sono state esternalizzate funzioni aziendali essenziali o importanti, nonché di quelli incaricati della revisione legale dei conti, fino al massimale di euro 5 milioni ovvero fino al 10 per cento del fatturato, quando tale importo è superiore a euro 5 milioni e il fatturato è disponibile e determinabile.

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Sgr e fondi comuni, tra soggetto e oggetto. Appunti sulla legittimazione processuale* Sommario: 1. Fondi comuni di investimento e legittimazione processuale. – 2. Breve storia della legislazione in materia di fondi comuni ed esegesi dell’art. 36, co. 4, t.u.f. – 3. Gli orientamenti contrapposti della giurisprudenza. – 4. Il riconoscimento della soggettività dei fondi: le questioni irrisolte connesse alla capacità di agire. – 5. Fondi comuni e patrimoni destinati: la responsabilità limitata al patrimonio separato come regola dell’esecuzione. – 6. Confutazione della tesi secondo cui il fondo è titolare di rapporti sostanziali e processuali.

1. Fondi comuni di investimento e legittimazione processuale. In un recente caso giudiziario1, si è posto il dubbio – rimasto tuttavia irrisolto, perché superato in punto di fatto – se per citare correttamente una Sgr che gestisce più fondi comuni d’investimento immobiliari debba essere precisato nella vocatio in ius che la Sgr è convenuta non in proprio, bensì in relazione alla gestione di un determinato fondo. Ed infatti, la Sgr Alfa p.a., citata in persona del suo amministratore e legale rappresentante, eccepiva difetto di legittimazione passiva per essere stata evocata “in proprio” e non “quale gestore” del Fondo Beta, osservando che i fatti posti a fondamento della domanda riguardavano appunto il Fondo Beta e non la Sgr Alfa. Si poneva, dunque, implicitamente anche una questione di difetto di titolarità dal lato passivo dei rapporti giuridici, che è questione di merito pur se strettamente legata a quella processuale, in quanto la Sgr Alfa sosteneva di avere agito non in proprio, bensì “in nome e per conto” del Fondo Beta.

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Scritto destinato agli studi in onore di Gustavo Visentini. Affrontato in sede cautelare da Trib. Roma (ord.), 6 dicembre 2018, inedito.

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Il caso dà lo spunto per tornare sul tema – non certo nuovo, ma ancora denso di profili problematici irrisolti – della c.d. soggettività dei fondi comuni di investimento, e quindi dei rapporti sostanziali e processuali tra Sgr, fondi, investitori e terzi. Si anticipa, al riguardo, la soluzione che emergerà dall’approfondimento. Come chiarito anche dalla Cassazione, i fondi non hanno soggettività giuridica, ma costituiscono patrimonio autonomo e separato (dunque, oggetto di diritti) delle Sgr, che li gestiscono nell’interesse degli investitori, e che sono ad esse legati da un fascio di contratti e non da un unico contratto associativo astrattamente idoneo alla creazione di un’organizzazione personificata. Alla Sgr fanno capo (come soggetto) i diritti e i rapporti nascenti dalla gestione del fondo: in relazione a tali diritti e rapporti, la legittimazione processuale sia attiva che passiva compete alla Sgr, senza che occorra spendere il “nome” o dichiarare di agire “per conto” del fondo in relazione al quale è sorta la controversia. Il patrimonio “del fondo”, quello cioè della Sgr e rientrante nel perimetro del fondo, o quello “residuo della Sgr”, quello cioè appartenente alla Sgr e non rientrante nel perimetro di alcuno dei fondi da questa gestiti, rilevano solo ai fini dell’eventuale attuazione della pretesa creditoria, dunque, nell’azione esecutiva eventualmente intentata contro la Sgr.

2. Breve storia della legislazione in materia di fondi comuni ed esegesi dell’art. 36, co. 4, t.u.f. Anteriormente alla prima regolamentazione in Italia dei fondi comuni di investimento, risalente al 1983, si sosteneva da una parte della dottrina2 che tra la società di gestione e i partecipanti al fondo corresse un rapporto di mandato, con la conseguenza che il fondo comune doveva considerarsi oggetto di una comproprietà indivisa tra i quotisti – soluzione questa ammessa all’epoca nella legislazione tedesca come alternativa alla proprietà della società di gestione3 – e che questi potessero imparti-

2 T. Ascarelli, L’investment trust, in Banca, borsa, tit. cred., 1954, I, p. 178; Libonati, Holding e investment trust, Milano, 1959, pp. 541 ss.; G. Visentini, Riflessioni in tema di fondi comuni d’investimento con riferimento al disegno di legge governativo, in Riv. soc., 1968, pp. 1194 ss. (quest’ultimo A. in particolare soffermandosi sulla comunione dei quotisti sul fondo); nonchè, in tempi recenti, Foschini, Il diritto del mercato finanziario, Milano, 2008, p. 86. 3 E v. A. Nuzzo, Il negozio di investimento in fondi comuni nella repubblica federale

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re direttive vincolanti alla società di gestione. Secondo altra impostazione, viceversa, il rapporto intercorrente tra i quotisti e la Sgr non poteva ricondursi al mandato, essenzialmente per l’assenza di qualunque potere di indirizzo dei quotisti; con la conseguenza che la proprietà del fondo doveva riconoscersi solo alla società di gestione che lo amministra in nome proprio4. Si è sostenuto, altresì, che né la posizione della Sgr né quella dei quotisti potessero essere compiutamente ricondotte al diritto di proprietà sul fondo, dovendosi constatare una separazione fra la posizione di potere, della Sgr, e quella dell’utilità-rischio, dei quotisti, spiegabile soltanto con istituti quali il trust, ignoti al civil law: si faceva così ricorso alla figura della fondazione o dell’associazione non riconosciuta5. Il legislatore del 1983, nel disciplinare alcuni aspetti dei fondi comuni di investimento, ha inteso contribuire alla soluzione di questo punto controverso affermando che ciascun fondo comune costituisce patrimonio distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da

tedesca, in Giur. comm., 1983, I, p. 678, ove si spiega (a p. 690) che è rimesso al regolamento del fondo stabilire se la proprietà debba spettare fiduciariamente alla società di gestione o ai partecipanti (Miteigentum der Anteilinhaber). 4 Colombo, L’introduzione dell’investment trust in Italia, in AA.VV., L’investment trust nelle esperienze e nei progetti europei, Padova, 1967, pp. 286 ss.; Id., Alcuni aspetti dei rapporti contrattuali relativi ai fondi d’investimento mobiliare, in Riv. soc., 1969, pp. 285 ss; Jaeger, Sui fondi comuni di investimento, in Riv. soc., 1969, pp. 1113 ss. (Id., Prospettive e problemi giuridici dei fondi comuni d’investimento mobiliare, in L’istituzione dei fondi comuni d’investimento, a cura di Geraci e Jaeger, Milano, 1970, pp. 1 ss., pp. 28 ss.); Castellano, Per una qualificazione giuridica dei fondi d’investimento mobiliare, in Riv. soc., 1969, pp. 1150 ss.; P. Rescigno, Il patrimonio separato nella disciplina dei fondi comuni d’investimento, in AA.VV., I fondi comuni d’investimento nella L. 77/1983, Milano, 1985, pp. 85 ss., p. 90. 5 E v., da una parte, Costi, La struttura dei fondi comuni d’investimento nell’ordinamento giuridico italiano e nello schema di riforma delle società commerciali, in Riv. soc., 1968, p. 242, ivi a pp. 292 ss., secondo cui il fondo è una «istituzione a carattere fondazionale», con ciò spiegandosi l’esclusione di qualsiasi potere dei partecipanti di influire sulla gestione, nel quadro di una struttura autoritaria giustificata dalla necessità di una gestione esclusivamente tecnica. Simile ma non coincidente, dall’altra parte, la posizione di Nigro, I fondi comuni di investimento mobiliare: struttura e natura giuridica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, p. 1522, ivi a pp. 1600 ss. (Id., I fondi comuni di investimento mobiliare. Struttura e natura giuridica, Milano, 1970, pp. 87 ss., spec. p. 92; Id., voce Investment trust, in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 691, ivi a pp. 704 s.) secondo cui, non essendo elemento essenziale del concetto di associazione, in senso lato, la presenza di un’organizzazione interna del gruppo, il fondo deve considerarsi un’associazione atipica che ha caratteri propri sia delle associazioni tipiche, e cioè la struttura aperta, sia delle società, e cioè lo scopo lucrativo. Più di recente, v. anche Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, pp. 278 ss.

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quelli dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione. Sotto il profilo processuale, la novella ha quindi precisato che sul fondo non sono ammesse azioni dei creditori della società gerente, mentre le azioni dei creditori dei singoli partecipanti sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi (art. 3, co. 2, l. 23 marzo 1983, n. 77). A seguito dell’intervento legislativo, sebbene la questione risultasse stemperata dall’affermazione della regola di separazione patrimoniale, si sono contese, in materia, le seguenti impostazioni: a) il fondo come comunione di diritto comune tra i sottoscrittori cui accede un mandato senza rappresentanza alla società di gestione avente ad oggetto l’attività di investimento del fondo; b) il fondo come patrimonio “separato” o “destinato” della società di gestione che lo ha istituito; c) il fondo come soggetto autonomo di diritto; d) il fondo come titolare inerte dei beni in esso inclusi, sui quali il controllo ed il potere di disposizione spetta esclusivamente alla società di gestione in base ad un mandato anomalo ex lege (dissociazione tra proprietà e controllo della ricchezza, tra proprietà e legittimazione). Tra queste, è risultata assolutamente prevalente l’opinione sub b), cioè che il fondo costituisca patrimonio separato della Sgr, che ne dispone quale proprietaria6. L’impostazione maggioritaria è stata rafforzata

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E v. (già nel previgente regime) Colombo, Alcuni aspetti, cit., pp. 286 ss.; nonché G. Visentini, Non più senza rete i fondi «comuni», in Parabancaria, 1982, II, p. 37; A. Lener, sub art. 3, in Legge 23 marzo 1983, n. 77: istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento. Commentario a cura di Maffei Alberti, in Nuove leggi civ., 1984, p. 380, ivi a p. 410 (precisando che si tratta di una proprietà fiduciaria); F. Ascarelli, I fondi comuni di investimento, in Trattato Rescigno, Torino, 1985, pp. 741 ss., spec. pp. 753 ss.; Gentile, Il contratto di investimento in fondi comuni e la tutela del partecipante, Padova, 1991, p. 116. Per una posizione peculiare, ma pur sempre in linea con la tesi maggioritaria, v. anche Ferri jr., Patrimonio e gestione. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm., 1992, I, p. 25, secondo cui il fondo costituisce un complesso di beni funzionalmente collegati, perciò oggetto e non già soggetto dell’attività delle Sgr. Sul punto v., da ultimo, Costi, Il mercato mobiliare11, Torino, 2018, pp. 201 s.; e Costi-Enriques, Il mercato mobiliare, in Trattato Cottino, Padova, 2004, pp. 437 s., ponendo l’accento sul fatto che ciò che importa non è sapere chi è proprietario dei beni che compongono il fondo, ma stabilire su quali beni i creditori possono esercitare le loro pretese; e, similmente, Salamone, Gesione, cit., pp. 291 ss.; Miola, sub art. 36, in Testo unico della finanza. Commentario diretto da G.F. Campobasso, Intermediari e mercati, Torino, 2002, pp. 314 ss., p. 320. Per una posizione eclettica v. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare9, Torino, 2017, p. 224, nonché Id., Gli organismi di investimento

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da alcune aggiunte e precisazioni apportate con la trasposizione delle indicate regole nell’art. 36, co. 6, t.u.f. Il legislatore del testo unico ha anzitutto equiparato ai fondi anche i comparti di uno stesso fondo, precisando che tutti questi costituiscono patrimonio non solo distinto da quello della Sgr e dei partecipanti, ma anche autonomo rispetto ad ogni altro patrimonio – e cioè altro fondo o comparto di fondo – gestito dalla medesima società. Sotto il profilo gestorio, è stato inoltre chiarito che la società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti: questi beni, in altri termini, benché gestiti da un unico soggetto, non possono essere confusi. Sotto il profilo processuale, infine, è stato precisato che sul fondo non sono ammesse azioni non solo da parte dei creditori della Sgr, ma anche nell’interesse della stessa (e lo stesso è stato precisato con riguardo al depositario e al sub-depositario). Sennonché, nel 2010 7, il legislatore è intervenuto nuovamente, ma con precisazioni linguisticamente infelici e foriere di incertezza: si è così specificato che delle obbligazioni contratte per conto del fondo, il fondo comune di investimento risponde esclusivamente con il proprio patrimonio. Nel 2014, in occasione dell’adeguamento del diritto interno al rinnovato contesto normativo europeo, il contenuto riformato del comma sesto è stato meramente trasferito al comma quarto, dove tutt’ora figura. Dall’excursus normativo si ricava che la disputa sulla natura del fondo è stata parzialmente composta, nel senso che il fondo o il comparto del fondo costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della Sgr e dei partecipanti, nonché dagli altri fondi o comparti, e che la Sgr non può farne uso altro che nell’interesse dei relativi partecipanti. Il che, di per sé, depone nettamente a favore della concezione del fondo comune di investimento come patrimonio separato della Sgr. Ma la questione sulla proprietà del fondo medesimo, e cioè sulla natura del soggetto che ne è titolare, è stata addirittura complicata dall’intervento del 2010: infatti, nel parlare di obbligazioni contratte per conto del fondo, anziché nell’interesse dei partecipanti al fondo8, e

collettivo del risparmio (OICR): fattispecie e forme, Milano, 2017, pp. 123 ss. 7 Art. 32, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. dalla l. 30 luglio 2010, n. 122. 8 Come avrebbe correttamente dovuto fare: e v. F. Ascarelli, I fondi comuni, cit., p. 750. V. pure le soluzioni proposte da Pacileo, Secondo la Cassazione i fondi comuni di

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nell’indicare che, per quelle obbligazioni, la Sgr risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo, anziché con il patrimonio del quale il fondo si compone, ha ravvivato la questione relativa alla soggettività del fondo che sembrava viceversa essersi sopita.

3. Gli orientamenti contrapposti della giurisprudenza. In materia di fondi immobiliari, si è posto il dubbio se la trascrizione dell’immobile acquistato da una Sgr per conto di un fondo chiuso vada effettuata a favore della Sgr o del fondo. Aderendo alla soluzione maggioritaria, secondo cui il fondo costituisce patrimonio separato della Sgr, la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata nel senso che la trascrizione vada fatta a nome della Sgr. In questo senso, è stato chiarito che i fondi immobiliari chiusi sono privi di un’autonoma soggettività giuridica ma costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio: pertanto, in caso di acquisto nell’interesse del fondo, l’immobile acquistato deve essere intestato alla società promotrice o di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia9. La Cassazione ha anche precisato che la Sgr è pienamente

investimento non hanno soggettività giuridica, mentre la società di gestione del risparmio ha la titolarità del patrimonio del fondo, in www.dircomm.it, 2010, IX.1, § 5.3. 9 Così, Cass., 15 luglio 2010, n. 16605. Detta pronuncia è stata oggetto di molti commenti, alcuni dei quali critici: e v. Lamorgese, I fondi comuni di investimento non hanno soggettività giuridica, in Contr., 2011, p. 27; Lemma, Autonomia dei fondi comuni di investimento e regolazione della gestione collettiva del risparmio, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 423; Gentiloni Silveri, Limiti di responsabilità patrimoniale nei fondi comuni di investimento. Novità recenti: tra giurisprudenza e legislazione, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 432; Scano, Fondi comuni immobiliari e imputazione degli effetti dell’attività di investimento, in Giur. comm., 2011, II, p. 1133; Ghigi, Separazione patrimoniale e fondi comuni di investimento, in Giur. comm., 2011, II, p. 1146; FerroLuzzi, Un problema di metodo: la “natura giuridica” dei fondi comuni di investimento (a proposito di Cass. 15 luglio 2010, n. 16605), in Riv. soc., 2012, p. 751; Calicetti, Vecchie e nuove questioni in tema di fondi comuni di investimento, in Riv. dir. civ., 2012, II, p. 219; Paolini, Fondi comuni immobiliari, SGR e trascrizione, Studio n. 90-2012/I del Consiglio Nazionale del Notariato, pubblicato anche in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 233; Barbanti Silva, Alcune riflessioni in merito alla natura dei fondi comuni d’investimento, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 9, 2013; Colaiori, La destinazione intrasoggettiva di beni immobili nel sistema dei fondi comuni di investimento, in Riv. not., 2014, p. 11. Tale orientamento è stato confermato da Cass., 20 maggio 2013, n. 12187, nel senso

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legittimata ad agire per far accertare diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui detto fondo si sostanzia, rimanendo priva di rilievo sul piano processuale la spendita del nome del fondo10. L’indirizzo accolto dalla Cassazione sulla scia della dottrina prevalente è stato tuttavia posto in discussione da una recente pronuncia del Tribunale di Milano, meritevole di attenta considerazione11. Dopo avere doverosamente dato atto di conoscere l’orientamento della Cassazione, il Tribunale di Milano ha osservato come alcuni dati normativi, tra cui la novella del 2010 di cui è stata fatta menzione, «paiono muovere altri importanti passi nel senso dell’affermazione dell’autonomia patrimoniale del fondo» e cioè che «il patrimonio è “proprio” del fondo, non dunque della Sgr». Oltre alle innovazioni del 2010 di cui si è dato conto, gli ulteriori interventi normativi di cui fa cenno la citata sentenza sono: a) la c.d. Legge di stabilità del 201212, per il quale: «il Ministero dell’economia e delle finanze è autorizzato a conferire o trasferire beni immobili dello Stato ... ad uno o più fondi di investimento immobiliare, ovvero ad una o più società ...». Ancora, secondo tale normativa, «i fondi istituiti dalla società di gestione del risparmio del Ministero dell’economia e delle finanze possono acquistare beni immobili ad uso ufficio di proprietà degli enti territoriali»; b) l’art. 57, co. 6-bis, t.u.f. che ha previsto la possibilità che i fondi comuni di investimento insolventi siano ammessi alla procedura di liquidazione coatta amministrativa anche quando la Sgr che li gestisce non sia soggetta a tale procedura. Secondo il Tribunale di Milano queste innovazioni «univocamente si pongono nel senso di riconoscere autonomia patrimoniale – dunque capacità di essere titolare di diritti sostanziali e processuali – ai fondi comuni di investimento».

che «i fondi comuni d’investimento (nella specie, fondi immobiliari chiusi), disciplinati nel d.leg. n. 58/1998 e succ. mod., pur privi di un’autonoma soggettività giuridica, costituiscono patrimoni separati della Sgr, la quale è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia». 10 Cass. civ., 15 luglio 2010, n. 16605, in parte motiva (§ 1.3.). 11 Trib. Milano, 10 giugno 2016, n. 7232, inedita, ma reperibile sul portale www. giurisprudenzadelleimprese.it e quindi nota agli addetti al settore: è commentata ad esempio da Annunziata, Gli organismi, cit., pp. 129 s.; nonché da P. Basile, La soggettività dei fondi comuni di investimento: appunti a margine della pronuncia del Tribunale di Milano, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 1, 2017. 12 Art. 6, co. 1, l. 12 novembre 2011, n. 183, rubricato “Disposizioni in materia dismissioni dei beni immobili pubblici”.

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Una successiva pronuncia del Tribunale di Perugia ha recepito integralmente le considerazioni del precedente milanese, applicandole ad un caso in cui agiva in giudizio un fondo in nome proprio, benché in persona del legale rappresentante della Sgr, per fare valere i diritti rivenienti da una locazione d’immobili nei confronti del conduttore moroso. Quest’ultimo eccepiva il difetto di legittimazione attiva del fondo, reputando che questa competa solo alla Sgr. Il giudice, con approccio pragmatico, ha disatteso l’eccezione reputando che in capo al fondo sussista una sorta di legittimazione processuale concorrente, purché a spendere il “nome” del fondo sia il legale rappresentante della Sgr 13.

13 E v. Trib. Perugia, 21 febbraio 2017, n. 263. Anche questa pronuncia è inedita, ma di essa si ha una dettagliata notizia di stampa su Il Sole24Ore del 27-07-2017 (Francesco Machina Grifeo), che è opportuno riportare. «Con una decisione innovativa il Tribunale di Perugia, sentenza del 21 febbraio 2017 n. 263, bocciando l’eccezione sollevata dal convenuto, ha riconosciuto la legittimazione attiva di un Fondo di investimento a chiedere lo sfratto nei confronti di un inquilino moroso. Così superando la tesi del Fondo “come titolare inerte dei beni in essi inclusi, sui quali il controllo e poteri di disposizione spettano esclusivamente alla società di gestione”. Il giudice dopo essersi dichiarato “bene a conoscenza della sentenza della Corte di Cassazione n. 6605 del 15/7/2010” che aveva sposato questo secondo indirizzo, ha affermato che successivamente “sono intervenute significative modifiche normative che devono essere considerate”. La Suprema corte aveva affermato che i fondi comuni d’investimento - nella specie fondi immobiliare chiusi -, disciplinati dal d.lgs. n. 58 del 1998, e successive modificazioni, sono privi di un’autonoma soggettività giuridica ma costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio; pertanto, in caso di acquisto nell’interesse del fondo, l’immobile acquistato deve essere intestato alla società promotrice o di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia. I partecipanti, dunque, “sono proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che l’ha costituito”. “Pur nell’ambito di una ricostruzione che vede il fondo di investimento, come patrimonio separato della SGR e gli nega soggettività giuridica”, argomenta il Tribunale, la Cassazione “ne riconosce la peculiarità, là dove, distingue proprietà in senso sostanziale posta in capo ai partecipanti al fondo e proprietà in senso formale”. E, continua, “quest’ultima precisazione è essenziale, per rendere la ricostruzione della natura dei fondi di investimento”. In questo contesto, infatti, la SGR pur libera nella scelta dei singoli atti di gestione “è però vincolata, anzitutto nel fine, trattandosi di una gestione nell’interesse dei partecipanti, ma anche nei metodi trattandosi di gestione connotata alla gestione degli obblighi e responsabilità del mandatario e nei contenuti segnati dal regolamento”. “Tutto ciò - prosegue - non può che far degradare quella posizione giuridica di proprietà a posizione formale, svuotata di gran parte di quella sostanza del volere dell’interesse proprio che caratterizza la proprietà, come abitualmente conosciuta». A ciò si devono aggiungere “rilevanti dati normativi sopravvenuti”. E la decisione cita le parole del comma 6 articolo 36 TUF secondo cui “delle obbligazioni contratte per suo conto il fondo comune di investimento risponde esclusiva-

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4. Il riconoscimento della soggettività dei fondi: le questioni irrisolte connesse alla capacità di agire. Se il Tribunale di Milano e quello di Perugia giungono inequivocamente ad affermare la capacità giuridica dei fondi comuni di investimento, riconoscendo agli stessi la titolarità di diritti sostanziali e processuali, e cioè la soggettività giuridica, gli stessi però non si spingono nell’esame delle conseguenze di tale conclusione rispetto al problema del concreto esercizio dei diritti, e cioè delle questioni connesse alla capacità d’agire, sia sostanziale che processuale. Per una corretta impostazione del problema, pare anzitutto necessario confrontare le disposizioni di legge rilevanti in materia di gestione collettiva del risparmio con quelle dettate in altri ambiti in cui il legislatore prevede la formazione di patrimoni separati in capo ad un unico soggetto. È utile in questo senso richiamare la previsione dell’art. 22 t.u.f., in materia di gestioni patrimoniali individuali. Dopo avere affermato che gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dalla Sgr, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti, la legge precisa che su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi, mentre le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi. È evidente che, nell’ambito di questa disposizione, il legislatore si riferisce al patrimonio separato come oggetto

mente con il proprio patrimonio”, e ne deduce che “rimane confermato che il patrimonio è proprio del fondo comune, non dunque della SGR”. Poi, la legge di stabilità 2012 che all’articolo 6 comma 1 stabilisce “il Ministero dell’Economia e Finanze è autorizzato a conferire e a trasferire beni immobili dello Stato a 10 o più fondi di investimento immobiliare” e l’art. 8 bis “i fondi istituiti dalle società di gestione .... possono acquistare beni immobili ad uso ufficio di proprietà degli enti territoriali”. Da cui, continua, si evince chiaramente che i referenti “di trasferimento ed acquisto sono i fondi non le relative SGR”. Infine, il comma 6 bis articolo 57 t.u.f., introdotto dal d.lgs. n 47/2012, in cui si prevede la possibilità che i fondi comuni di investimento, siano ammessi alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, indipendentemente dalle SGR che li gestisce. Tutte queste, conclude il giudice, sono innovazioni normative “sopravvenute” rispetto alla sentenza di Cassazione, invocata dalla resistente, e che “si pongono nel senso di riconoscere autonomia patrimoniale” al Fondo e di riconoscergli la possibilità “di essere titolare di diritti sostanziali e processuali”. Per cui l’eccezione di carenza di legittimazione attiva è stata rigettata».

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aggredibile in via esecutiva, tant’è che consente il pignoramento presso terzi limitatamente agli strumenti detenuti dall’intermediario, ma di proprietà dei clienti. Ancora più chiaro è, in tal senso, l’art. 117 Codice delle assicurazioni private che, in materia di separazione patrimoniale dell’intermediario assicurativo che raccolga premi o somme dovute per i risarcimenti, prevede: a) che il conto possa risultare intestato all’intermediario personalmente e, in questo caso, le somme ivi depositate costituiscono un patrimonio autonomo rispetto a quello proprio residuo; b) che su tale conto non sono ammesse azioni, sequestri o pignoramenti da parte di creditori diversi dagli assicurati e dalle imprese di assicurazione; c) che su tale conto non operano le compensazioni legale e giudiziale e non può essere pattuita la compensazione convenzionale. Nonostante la formulazione di legge complicata dal più recente e linguisticamente poco accurato intervento del legislatore, a non diverse conclusioni si deve tuttavia giungere anche per le gestioni collettive del risparmio. Come notato anche dalla citata sentenza del Tribunale di Milano (seguita dal Tribunale di Perugia), nell’indicare che delle obbligazioni contratte per conto del fondo, la Sgr risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo è probabile che il legislatore si sia espresso con una “sineddoche”, o meglio – come credo ci suggerirebbero i linguisti – con una “metonimia”: ed invero, là dove la legge parla della “proprietà del fondo” la stessa intende in realtà riferirsi alla “proprietà riconducibile al perimetro del fondo”, senza che l’espressione debba intendersi nel senso che il soggetto titolare di tale diritto è il fondo medesimo. Più lineare è al riguardo l’espressione, utilizzata in materia di patrimoni destinati a specifici affari (art. 2447-quinquies c.c.), secondo cui per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato. Ed analoga formulazione è impiegata nella legge sulla cartolarizzazione dei crediti a proposito della società veicolo14. In ogni caso, nulla cambia sotto il profilo qui di rilievo perché – nonostante il Tribunale di Milano e quello di Perugia ne facciano discendere la proprietà del “fondo” e non della “Sgr” – è sempre e comunque la Sgr il soggetto legittimato a contrarre obbligazioni per suo conto, in proprio nome, e dunque sempre la Sgr è il legittimato passivo di qualunque pretesa, così come anche dell’eventuale azione esecutiva15.

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E v. art. 3, co. 2, l. 30 aprile 1999, n. 130. Sul punto, v. le precisazioni di Pacileo, Secondo la Cassazione i fondi comuni di


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Sebbene, dunque, possa apparire più elegante costruire il tema dei patrimoni separati come non di qualcuno, ma per qualcosa (c.d. Zweckvermögen), nella prospettiva soggettiva cui il processo – tanto di cognizione come esecutivo – impone di guardare, “debitore” delle obbligazioni contratte dalla Sgr “per conto del fondo” resta sempre il gestore del fondo. Con la conseguenza che il gestore del fondo non solo è il legittimato passivo delle azioni che riguardano la gestione del medesimo, ma è anche il titolare dei relativi rapporti sostanziali (e cioè, semplificando: il debitore o il creditore), pur beneficiando – per i debiti – di una limitazione di responsabilità ad una parte del “proprio patrimonio”, coincidente con quello “proprio del fondo”, nel senso sopra precisato.

5. Fondi comuni e patrimoni destinati: la responsabilità limitata al patrimonio separato come regola dell’esecuzione. Conferma di quanto appena osservato può ancor meglio trarsi dal confronto tra fondi comuni di investimento e patrimoni destinati ex art. 2447-bis ss. c.c. Nei patrimoni destinati a specifici affari di cui all’art. 2447-bis ss. c.c. è indubbio che il soggetto titolare dei patrimoni separati – sia esso a titolo di proprietà o per altro titolo – sia sempre e solo la società per azioni che lo istituisce ed unica è la legittimazione processuale, attiva o passiva, a nulla potendo rilevare che la società sia convenuta “in proprio” o quale gestore di un determinato patrimonio destinato: tant’è che, in caso di insolvenza del solo “patrimonio destinato” la liquidazione è di quest’ultimo (art. 2447-novies, comma 2, c.c.) e non del soggetto cui appartiene (la cui insolvenza è regolata, con riferimento ai patrimoni destinati, rispettivamente, capienti o incapienti, agli artt. 155 e 156 l. fall.; oggi artt. 262 e 263 codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato con d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, in seguito c.c.i.); il che spiega anche come interpretare correttamente la regola (sopravvalutata dal Tribunale di Milano e da quello di Perugia) che, anche in materia di fondi comuni, prevede la liquidazione coatta del fondo di un gestore non insolvente o non sottoposto ad amministrazione straordinaria (art. 57, comma 6-bis, t.u.f.).

investimento non hanno soggettività giuridica, mentre la società di gestione del risparmio ha la titolarità del patrimonio del fondo, in www.dircomm.it, 2010, IX.1, § 5.1.

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Va ancora notato come la menzione negli atti – prescritta specificamente dall’art. 2447-quinquies c.c. – abbia rilievo in relazione alla possibilità che i creditori “del patrimonio destinato” (sia qui permessa la contestata sineddoche o metonimia) possano agire su di esso in via esclusiva e non in concorso con i creditori generali. Con riferimento alla questione della trascrizione – oggetto di entrambe le pronunce della Cassazione – è specificamente previsto che qualora nel patrimonio siano compresi immobili o beni mobili iscritti nei pubblici registri, la disposizione che impedisce ai creditori della società di agire sul patrimonio separato, decorso il termine di sessanta giorni dall’iscrizione della delibera nel registro delle imprese, non si applica fin quando la destinazione allo specifico affare non è trascritta nei rispettivi registri (art. 2447-quinquies, comma 2, c.c.). La dottrina prevalente sottolinea come oggetto di trascrizione sia il solo vincolo di destinazione allo specifico affare dei beni di cui resta titolare la società, mancando nella specie un trasferimento dei diritti, stante l’assenza di alterità soggettiva tra la società ed il suo patrimonio destinato al quale i beni stessi sono assegnati16. Il che è perfettamente coerente con il rilievo generale, secondo cui alla separazione di patrimoni imputati al medesimo soggetto può accedersi indipendentemente dalla duplicazione soggettiva17. Mutatis mutandis, la menzione del fondo per il quale agiscono si impone alle Sgr per impedire che i creditori generali o “di altri fondi” possano vantare di potere agire esecutivamente anche sul fondo interessato. Quella della specifica menzione costituisce perciò, innanzi tutto, una regola di buona governance posta per gli amministratori della Sgr, per evitare di incorrere in responsabilità qualora, omettendo la menzione, pregiudichino i diritti esclusivi dei creditori del “fondo” (sempre con la concessione della sineddoche o metonimia)18. In questo senso, il Consiglio

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Così, R. Santagata, sub art. 2447-quinquies c.c., in Commentario Schlesinger, Milano, 2014, p. 208; nonché Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nelle società per azioni, Milano, 2008, pp. 195 s. 17 E v. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 545, ivi a p. 548, e che a p. 566 parla anche, molto efficacemente, di rapporto tipicamente unisoggettivo per descrivere quello intercorrente tra l’unico titolare e il patrimonio separato. V. anche Sabatelli, La responsabilità per la gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare, Milano, 1995, pp. 48 ss. 18 E v. per l’analoga questione in materia di trascrizione del vincolo nei patrimoni destinati, R. Santagata, sub art. 2447-quinquies c.c., cit., p. 210, osservando che in mancanza della trascrizione del vincolo di destinazione si produce un «danno del quale deve eviden-

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Nazionale del Notariato ha promosso uno studio che ha tentato di andare oltre l’insegnamento della Cassazione19 ed ha ipotizzato che le Sgr, nel trascrivere gli immobili a proprio favore, chiedano altresì un’annotazione nel c.d. Quadro D a favore dello specifico fondo (a nulla rilevando che questa non possa servire a risolvere fattispecie acquisitive a non domino)20, oppure trascrivano il vincolo di destinazione sugli immobili riferibili ai loro vari fondi21, al pari di come avviene per i patrimoni destinati a specifici affari: un simile risultato potrebbe reputarsi non precluso alla luce della portata assai ampia dell’art. 2645-ter c.c., letto in combinazione con l’art. 2447-quinquies c.c., da considerarsi allora emersione di un principio generale per tutte le ipotesi di separazioni patrimoniali in materia di s.p.a. Il problema – come ha posto in luce autorevole dottrina – è che «culturalmente il ricorso al linguaggio della persona giuridica enfatizza la diversificazione dei regimi (...) più di quanto non faccia il linguaggio dell’articolazione patrimoniale»22: e questo conduce spesso alla costruzione di un «soggetto biologicamente inesistente»23.

6. Confutazione della tesi secondo cui il fondo è titolare di rapporti sostanziali e processuali. Come osservato, le citate sentenze del Tribunale di Milano e di quello di Perugia, nel riconoscere soggettività ai fondi comuni di investimento,

temente rispondere il notaio rogante in solido con gli amministratori della società…». 19 L’approfondimento delle varie ipotesi per conto del CNN è di Paolini, Fondi comuni, cit., p. 233, la quale continua a reputare preferibile la trascrizione a favore del fondo, pur ritenendo meramente nominalistico il riconoscimento allo stesso della soggettività. 20 In questo senso convincentemente Vigo, Impresa e pubblicità immobiliare, Milano, 2001, pp. 12 s. Reputa invece per questo insufficiente la soluzione dell’annotazione nel Quadro D, Restuccia, I fondi d’investimento chiusi, Bari, 2012, pp. 99 ss. 21 Svalutata tuttavia da Paolini, Fondi comuni, cit., p. 18 dell’estratto, sul rilievo, tuttavia non decisivo, che tale vincolo di destinazione non sarebbe idoneo a dare evidenza del patrimonio residuo. Soluzione che appare invece divisata da Pacileo, Secondo la Cassazione i fondi comuni di investimento non hanno soggettività giuridica, mentre la società di gestione del risparmio ha la titolarità del patrimonio del fondo, in www. dircomm.it, 2010, IX.1, § 5.2. 22 Così Spada, Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 837, ivi a p. 845. 23 L’espressione è di Spada, Autonomia patrimoniale e nuova legislazione commerciale, scritto inedito del 1996, riportato da Salamone, Gestione e separazione, cit., p. 279.

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ne affermano la capacità di essere titolari di diritti sostanziali e processuali. Tale affermazione va oltre il riconoscimento della capacità giuridica del fondo, e cioè dell’idoneità dello stesso ad essere centro autonomo di imputazione di diritti ed obblighi, postulando anche la capacità del fondo di esercitare, sostanzialmente e processualmente, quei medesimi diritti. Si tratta, tuttavia, di una impostazione che non regge ad un’analisi più approfondita. Se al fondo è riconosciuta oltre che la natura di oggetto dei diritti anche quella di soggetto di essi titolare, l’unico inquadramento sistematico plausibile è quello tra gli enti privati a carattere associativo, e cioè quale associazione non riconosciuta tra i quotisti, la cui gestione spetta però, per legge, anziché agli associati stessi, alla Sgr che lo ha istituito o che lo gestisce. E questa era infatti una delle tesi prospettate molti anni orsono da parte della letteratura che ravvisava nei fondi comuni di investimento un fenomeno associativo24, al pari di quello che si determina in altre forme di gestione collettiva del risparmio, come le Sicav e – per restare in materia di fondi chiusi – le Sicaf25. Non osta, peraltro, a tale

24 Per questa concezione, v. in particolare Nigro, I fondi comuni, cit., pp. 1600 ss. (e v. anche le altre opere del citato A., retro a nt. 5). Tale tesi, tuttavia, si pone in contrasto con la concezione maggioritaria che, viceversa, esclude la formazione di un rapporto associativo tra i partecipanti al fondo: la tesi più diffusa è nel senso che «la legge e ancor prima le caratteristiche dell’operazione, escludono ogni organizzazione di gruppo (il che rimane vero anche nell’ipotesi in cui il regolamento dei fondi chiusi preveda un’assemblea dei partecipanti) fra i partecipanti; ognuno di essi ha un rapporto personale e diretto con la società di gestione e non ha alcun rapporto con gli altri partecipanti: fra i partecipanti e la società di gestione corre un fascio di rapporti identici e non un rapporto collettivo, del quale siano contitolari i partecipanti come gruppo» (così, Costi, La struttura, cit., p. 199, ma già A. Lener, Costituzione e gestione di fondi comuni, in Foro it., 1985, V, pp. 177 ss.). Nel solco della tesi maggioritaria si colloca anche Cass., 14 luglio 2003, n. 10990. 25 Al di là del riconoscimento della natura associativa al rapporto tra quotisti, discusso alla precedente nota, il confronto con le Sicav e le Sicaf è comunque interessante. Ed infatti, tanto alle Sicav quanto alle Sicaf «non si applicano gli articoli da 2447-bis a 2447-decies del codice civile» (artt. 35-quater, co. 2, 35-quinquies, co. 1, t.u.f.). Questa regola impedisce, quindi, a queste speciali società per azioni, tra i cui azionisti esiste certamente un rapporto associativo, di istituire più “fondi” attraverso la tecnica dei patrimoni destinati; divieto che, invero, potrebbe anche trarsi dalla regola che impedisce in generale l’esercizio di attività riservate attraverso patrimoni destinati (art. 2447-bis, co. 2, c.c.). La limitazione, peraltro, non costituisce impedimento alla creazione di più comparti all’interno del medesimo “fondo”: ed infatti, «nel caso di Sicav e Sicaf multicomparto, ciascun comparto costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti da quello

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concezione la circostanza che la Sgr sia non una persona fisica, ma una persona giuridica a sua volta con propri organi rappresentativi: è infatti sempre più diffusa, anche in Italia, la tesi che sia ammissibile la figura della persona giuridica amministratore, che ben si attaglia alla posizione della Sgr rispetto alla struttura fondamentalmente fondazionale riconosciuta per questa via al fondo26. Il riconoscimento al fondo della soggettività propria delle associazioni non riconosciute avrebbe, tuttavia, delle importanti ricadute anche sui profili, che qui vengono esaminati specificamente, della legittimazione della Sgr ad agire, sostanzialmente e processualmente, per il fondo. Ma se è vero che la Sgr è l’organo di amministrazione del fondo, avente natura di associazione non riconosciuta, e non è il titolare dei beni di cui quest’ultimo si compone, non può essere corretto affermare – come fa

degli altri comparti» (art. 35-bis, co. 6, t.u.f.). Al riguardo, mentre è dubbio che le Sicav possano emettere categorie di azioni in relazione ai diversi comparti, tale possibilità non è preclusa alle Sicaf (sul punto, v. Annunziata, La disciplina, cit., pp. 223 ss.), venendosi così a creare una sorta di tracking stocks (e v. art. 2350, co. 2, c.c., che, peraltro, espressamente esclude la possibilità di emettere azioni correlate a patrimoni destinati ex art. 2447-bis c.c.). La disciplina delle Sicav e Sicaf, appena richiamata, esclude che la formazione di un vincolo associativo tra tutti gli azionisti – nel caso di azioni correlate ad un comparto, dotato di caratteristiche speciale tra alcuni di essi – possa in qualche modo incidere sulla natura del rapporto di investimento distinguendolo da quello che corre tra i quotisti di un fondo comune (anche di diversi fondi o comparti) e la Sgr. Ed infatti, titolare del patrimonio oggetto dell’investimento mobiliare o immobiliare è sempre la Sicav o la Sicaf e non i suoi azionisti (o un’associazione tra essi), che su quel patrimonio vantano esclusivamente un diritto di “secondo grado”: è quindi scontato che è la Sicav o la Sicaf l’unico soggetto legittimato attivamente o passivamente a fare valere i diritti o i rapporti che dipendono dalla gestione di un particolare comparto. Dalle medesime disposizioni si deve altresì dedurre che, a differenza della gestione di più fondi da parte di una Sgr, una Sicav o Sicaf multicomparto realizza una separazione patrimoniale tra comparti, ma non anche tra questi e un “patrimonio residuo”, dato che i comparti di una Sicav o Sicaf devono necessariamente corrispondere nel loro complesso al patrimonio della Sicav o della Sicaf. I creditori della Sicav o Sicaf multicomparto dovranno, dunque, agire nei confronti della Sicav o della Sicaf, che è unico soggetto, ma potranno soddisfarsi solo sul comparto in relazione alla cui gestione abbiano maturato il proprio credito: in questo senso, pur se non si applica alle Sicav o alle Sicaf la disciplina dei patrimoni destinati di s.p.a., è tuttavia certamente legittimo trarre da questa disciplina i princìpi (su cui mi sono soffermato nel testo) tra cui, in particolare, quello che consente la trascrizione del vincolo di destinazione nel caso di fondi immobiliari. 26 E si v. per tutti Cetra, La persona giuridica amministratore, Torino, 2013, pp. 13, 21, 74 ss., 157 ss.; e G. Pescatore, L’amministratore persona giuridica, Milano, 2012, pp. 120 ss. V. anche Cons. Not. Milano, Massima n. 100 (18-05-2007) e similmente, Cons. Not. Firenze, Orientamento n. 17/2010.

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l’art. 36, co. 6, c.c. – che la Sgr assume in proprio nome obbligazioni per conto del fondo. Se di organo gestorio si trattasse, infatti, la Sgr dovrebbe agire in nome e per conto del fondo, del quale dovrebbe appunto avere la rappresentanza in ragione del rapporto gestorio27. Il che implicherebbe anche la necessità che, processualmente, il fondo agisca e sia convenuto come tale, pur se legalmente rappresentato – pro tempore – da una determinata Sgr. Ma così non è né secondo la legge, che parla di agire per conto, né secondo la prassi: a parte il frequente uso di attribuire al fondo una denominazione, che però non risulta altro che dalla delibera istitutiva, ciascun fondo gestito da una Sgr, di fatto, non ha una sede, non ha un codice fiscale e non ha una sua partita IVA. Lo stesso, perciò, pur se avente una soggettività, è comunque insuscettibile di identificazione sia sotto il profilo sostanziale che processuale, dovendo sempre qualificarsi per relationem rispetto alla Sgr: una soggettività perciò che dovrebbe dirsi “nascosta”, e perciò probabilmente inutile. Sotto il profilo processuale, si nota poi come non possa inquadrarsi questo fenomeno nei casi di rappresentanza (ex art. 75 c.p.c.), poiché non vi è esercizio di diritti altrui in nome altrui, ma al più sostituzione (ex art. 81 c.p.c.), dovendo la Sgr esercitare diritti altrui, cioè (in thesi) del fondo, in nome proprio. Il che però contraddice la premessa e cioè che il fondo sia titolare di diritti anche processuali.

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Non a caso questa tesi era stata sostenuta nel giudizio cautelare concluso con l’ordinanza citata alla nt. 1.

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Politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche: problemi, regole europee e applicazione nazionale Sommario: 1. I compensi degli amministratori bancari tra crisi finanziaria e corporate governance bancaria. – 2. La “specialità” delle imprese bancarie. – 3. Segue. I suoi riflessi sulle remunerazioni. Come disciplinare i compensi nelle banche: standards or rules? – 4. Le fonti: dalla soft law internazionale alle regole europee. – 5. Ambito soggettivo di applicazione, identificazione del personale più rilevante e principio di proporzionalità. – 6. La struttura della remunerazione: il bonus cap. – 7. Segue. Gli ulteriori elementi strutturali del compenso variabile. – 8. La remuneration governance delle banche. – 8.1 Il ruolo dell’assemblea: il say on pay nelle società bancarie. – 9. Considerazioni conclusive.

1. I compensi degli amministratori bancari tra crisi finanziaria e corporate governance bancaria. Solo di recente, i sistemi di remunerazione e incentivazione dei managers nel settore bancario e finanziario sono oggetto di attenzione, in ambito internazionale, da parte degli standard setters, dei policy makers, degli accademici e dell’opinione pubblica in generale. Il tema delle remunerazioni degli amministratori, invece, è da tempo ampiamente trattato dalla letteratura giuridica ed economica con riferimento alle imprese non finanziarie. Come spesso riportato, il motivo di questo crescente interesse è strettamente legato alle cause e agli effetti della crisi finanziaria globale degli ultimi anni duemila, tra i cui fattori scatenanti viene spesso annoverato il mal funzionamento dei meccanismi di corporate governance delle società bancarie e in particolare gli eccessivi compensi riservati agli esponenti bancari, considerati spesso ingiustificati e sproporzionati – tanto da scatenare reazioni anche di carattere “populistico” - al cospetto del manifestarsi della crisi, della recessione economica e del fallimento di molte grandi istituzioni finanziarie. Da un lato, specifici contributi, anche contenuti in documenti ufficiali, mettono in evidenza la debolezza del governo delle banche e imputano ai sistemi di remunerazione di aver favorito un uso eccessivo di incentivi

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di breve termine e di non aver allineato i sistemi di remunerazione al risk appetite, alle strategie di lungo termine e alla sostenibilità nel tempo delle imprese bancarie1. Da altro lato, che la remunerazione sproporzionata dei managers delle istituzioni finanziarie sia in assoluto una delle possibili cause della crisi è tema intorno al quale non vi è concordanza di vedute2 e dalle indagini empiriche condotte emergono risultati non univoci3.

1

Cfr. de Larosière Group, High Level Group on Financial Supervision on the EU – Report, reperibile su www.ec.europa.eu, dove si rileva che «Remuneration and incentive schemes within financial institutions contributed to excessive risk-taking by rewarding short-term expansion of the volume of (risky) trades rather than the long-term profitability of investments»; OECD Organisation for Economic Cooperation and Development, Corporate Governance and financial crisis. Conclusions and emerging good practices to ehnance implementation of the Principles, reperibile su www.oecd.org; Id., Corporate Governance and Financial Crisis: Key Findings and Main Messages, reperibile su ww.oecd.org; FSB- Financial Stability Board, Thematic Review on Risk Governance, 2013, reperibile su www.fsb.org; Id., Principles for an Effective Risk Appetite Framework, consultabile in www.fsb.org.; Senior Supervisory Group, Observations on risk management practices during the recent market turbulence, Murch 6, 2008, consultabile all’indirizzo: https://www.newyorkfed.org; Liikanen Group, High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector – Final Report, reperibile su www.ec.europa.eu; Commissione Europea, Corporate Governance in Financial Institutions: Lessons to be drawn from the current financial crisis, best practices, reperibile su www.ec.europa.eu; Id., Communication from the Commission accompanying Commission Recommendation complementing Recommendations 2004/913/EC and 2005/162/EC as regards the regime for the remuneration of directors of listed companies and Commission Recommendation on remuneration policies in the financial services sector, COM(2009) 211 final, Brussels, 30.4.2009 secondo cui « a broad consensus that compensation schemes based on short-term returs, without adeguate consideration for the corresponding risks, contributed to incentives that led to financial institutions’ engagement in overly risk business practices». 2 Ex multis, Bebchuk, Spamann, Regulating Bankers’ Pay (2009). Harvard Law School John M. Olin Center for Law, Economics and Business Discussion Paper Series. Paper 634, consultabile anche su https://www.ssrn.com/; Enriques, Zetzsche, Quack Corporate Governance, Round III? Bank Board Regulation Under the New European Capital Requirement Directive (2014). ECGI Law Working Paper, No. 249/2014, disponibile all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=2412601; Lehuede, Kirkpatrick, Teichmann, Corporate Governance Lessons from the Financial Crisis (May 1, 2012). Disponibile all’indirizzo SSRN: https://ssrn.com/abstract=2393978, da cui emerge come la crisi finanziaria sia da imputare alle lacune e agli errori dell’assetto di corporate governance delle imprese finanziarie, in cui si è favorita un’eccessiva assunzione di rischi e il sistema delle remunerazioni non ha favorito la sostenibilità e gli interessi a lungo termine delle società; Hopt, Better Governance of Financial Istitution (2013). ECGI Working Papers in Law, No. 207/2013,10 ss., consultabile all’indirizzo https://papers.ssrn.com; Mülbert, Corporate Governance of Banks after The Financial Crisis – Theory, Evidence, Reforms (2009) ECGI Working Papers in Law, No. 130/2009, pp. 7 ss., reperibile all’indirizzo web https://www.ssrn.com/en/; Adams, Governance and the Financial Crisis. (May 4, 2009). ECGI - Finance Working Paper, No. 248/2009, disponibile all’indirizzo: www.ssrn.com. 3 Ci sono analisi che negano, ad esempio, che ci sia una diretta connessione tra i

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Il problema delle retribuzioni è strettamente connesso con quello più generale riguardante il ruolo della corporate governance delle banche

sistemi remunerativi e l’incremento dei rischi assunti; in altri studi si rileva anche che non esistono prove che il malfunzionamento della corporate governance sia tra i principali fattori scatenanti della crisi. Gli accademici membri dello Squam Lake Working Group on Financial Regulation non si dicono convinti che «these high levels of compensation are inherently destabilizing to individual firms or to the overall financial system. They are also not obvious evidence of a failure of corporate governance, despite claims to the contrary», cfr. Squam Lake Working Group on Financial Regulation, Regulation of Executive Compensation in Financial Services, disponibile all’indirizzo http://www.squamlakegroup.org/. Anzi, talune analisi dimostrano come le banche dotate di una buona governance, e nelle quali si è registrato un maggiore allineamento tra interessi dei managers e degli azionisti, non abbiano ottenuto rendimenti maggiori: cfr. Fahlenbrach, Stulz, Bank CEO Incentives and Credit Crisis. Journal of Financial Economics, vol. 99, issue 1, 2011, pp. 11 ss, i quali non hanno trovato prove che negli Stati Uniti le banche dotate di politiche retributive più rischiose abbiano avuto performance peggiori durante la crisi finanziaria; nello stesso senso Nestor Advisors LTD, Banks boards and Financial Crisis. A corporate governance study of the 25 largest European banks. (2009). Disponibile all’indirizzo https://www.nestoradvisors.com/publications; Yeoh, Causes of the Global Financial Crisis: Learning From the Competing Insights, International Journal of Disclosure and Governance, vol. 7/2010, 1, pp. 42 ss; in particolare Beltratti & Stulz, Why Did Some Banks Perform Better During the Credit Crisis? A Cross-Country Study of the Impact of Governance and Regulation. (2009). NBER Working Paper, No. 15180, consultabile all’indirizzo web: http://www.nber.org/papers/w15180, i quali si dicono non convinti che la debolezza dei sistemi di governance sia una delle cause primarie della crisi finanziaria e non ci sono prove che le banche con una governance migliore siano state più performanti durante la crisi; Kumar, Singh, Global Financial Crisis: Corporate Governance Failures and Lessons, Journal of Finance, Accounting and Management, 4(1), January 2013, pp. 21 ss. Diversi studi, invece, provano che i sistemi incentivanti riservati agli amministratori hanno avuto considerevoli effetti sull’assunzione generale del rischio da parte delle banche. Si veda Suntheim, Managerial Compensation in the Financial Service Industry, August 27, 2011, manoscritto consultabile all’indirizzo: https://ssrn.com/abstract=1592163, che analizza i compensi erogati agli amministratori dalle maggiori banche tra il 2000 e il 2006 e dimostra come essi abbiano avuto un forte impatto sul rischio bancario e sulle scelte di policy adottate dalle banche. Lo studio dimostra che le banche, che hanno erogato agli amministratori incentivi ad alto rischio, hanno ottenuto performances peggiori dopo il fallimento della Lehman Brothers. Mentre le banche dei Paesi che hanno una più rigida regolamentazione della governance bancaria hanno reagito più efficacemente ai rischi prodotti dagli incentivi ai managers. Nel medesimo senso DeYoung, Peng and Yan, Executive compensation and business policy choices at U.S. commercial banks, Journal of Financial and Quantitative Analysis, vol. 48, No. 01, 2013, 165-196; Coles, Daniel, Naveen, Managerial incentives and risk-taking, Journal of Financial Economics, vol.79, issue 2, 2006, pp. 431–468.

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nella crisi recente4. Si imputa al governo societario delle banche di non essere riuscito a prevenire o attenuare l’impatto degli effetti macroeconomici della crisi sulle imprese finanziarie5. Tuttavia, non ci si può interrogare solo sul contributo dato dalla governance bancaria nella crisi del settore finanziario; ci sono riflessioni che opportunamente tendono a sottolineare un altro rilevante aspetto, ovvero la profonda diversità delle banche rispetto alle imprese non finanziarie, che rende la governance bancaria, sotto vari profili, “speciale” o addirittura “unique” (la c.d. “bank exceptionalis”theory of governance)6. L’analisi delle principali cause della crisi e dell’incapacità delle regole esistenti di eliminarne o almeno limitarne gli effetti dannosi ha suscitato l’introduzione di nuovi vincoli atti ad aumentare la qualità del capitale di base, a ridurre la leva finanziaria, ad attenuare gli effetti prociclici delle valutazioni del merito creditizio e a garantire riserve maggiori di liquidità. Il ripensamento della disciplina prudenziale dell’attività bancaria non poteva tuttavia limitarsi a rafforzare l’adeguatezza della dotazione patrimoniale delle banche ma ha dovuto anche imporre regole imperative in materia di governo societario e organizzazione interna in grado di individuare, misurare e valutare i rischi cui è esposta la banca, realiz-

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In questo senso Ferrarini, CRD IV and the Mandatory Structure of Bankers’ Pay. (April 13, 2015). ECGI Working Paper Series in Law, No. 289/2015, 5, disponibile all’indirizzo http://ssrn.com/abstract_id=2593757. 5 Così Lehuede, Kirkpatrick, Teichmann, Corporate, cit., p. 4. Come correttamente spiega chi ha analizzato le cause della crisi finanziaria dalla prospettiva della corporate governance «many organizations suffered from a lethal combination of powerful, sometimes misguided incentives; inadequate control and risk management systems; misleading accounting; and low quality human capital in terms of integrity and/or competence, allwrapped in a culture that failed to provide a sensible guide for managerial behavior», Sahlman, Management and the Financial Crisis (We Have Met The Enemy And He Is Us…) (2009). Harvard Business School Working Paper, No. 10-033, reperibile all’indirizzo: http://www.hbs.edu/research/pdf/10-033.pdf. 6 Cfr. Armour, Awrey, Davies, Enriques, Gordon, Mayer, Payne, Principles of financial regulation, Oxford University Press, 2016, p. 370; D’Ambrosio, Perassi, Il governo societario delle banche, in Le società commerciali: organizzazione, responsabilità e controlli, a cura di Vietti, Milano, 2014, pp. 209 ss.; Ferrarini, Understanding the Role of Corporate Governance in Financial Institutions: A Research Agenda. (2017). ECGI- Law Working Paper, No. 347/2017, 3, disponibile all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=2925721; ma anche Levine, The Corporate Governance of Banks: A Concise Discussion of Concepts and Evidence. (2014). World Bank Policy Research Working Paper, No. 3404. Disponibile all’indirizzo SSRN: https://ssrn.com/abstract=625281, p. 7 ss.

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zando un efficace risk governance framework7. I segnali di cambiamento sotto questo aspetto sono diversi. Si avverte la necessità di riconsiderare il modo in cui le banche sono governate, in particolare riguardo al ruolo e alla struttura dei boards, alla funzione del risk management e alla disciplina dell’executive compensation. A livello globale, c’è stata, quindi, una revisione ponderosa, come si vedrà, dei principi e degli standards in materia di governance bancaria, con particolare attenzione al tema dei compensi nelle banche che si pone a cavallo tra gli assetti di corporate governance degli intermediari e la regolazione/supervisione bancaria sviluppatasi a livello internazionale. I problemi avvertiti nelle politiche di remunerazione delle società bancarie hanno portato all’elaborazione diffusa di principi e standards, emanati a livello di soft law, da diverse organizzazioni internazionali, i quali hanno influenzato la successiva regolamentazione adottata dal legislatore europeo con la direttiva 2013/36/UE, c.d. CRD IV, recepita anche in Italia dalle Disposizioni di Vigilanza della Banca d’Italia. La normativa secondaria del regolatore bancario, nella sua ultima versione, pone per la prima volta la tematica delle remunerazioni nella prospettiva della vigilanza prudenziale, come espressamente indicato nelle premesse, dove si rileva che le politiche di remunerazione e incentivazione, pur rientrando «nell’ambito degli assetti organizzativi e di governo societario delle banche», sono tuttavia oggetto dell’«attività di controllo da parte dell’Autorità di vigilanza»8, nella misura in cui hanno ricadute sulla sana e prudente gestione delle banche. Il presente lavoro si propone di analizzare gli aspetti più rilevanti della nuova normativa europea e nazionale, dalle fonti abbastanza stratificate, in materia di compensi e incentivi manageriali nel settore bancario, partendo dalla specificità delle istituzioni bancarie, dalle criticità dell’at-

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Lo rileva Frigeni, La governance bancaria come risk governance: evoluzione della regolamentazione internazionale e trasposizione nell’ordinamento italiano, in Aa.Vv., Regole e mercato, a cura di Mancini, Paciello, Santoro, Valensise, Vol. I, Torino, 2016, pp. 54-55. Uno studio condotto da Ellul, Yerramilli, “Stronger Risk Controls, Lower Risk: Evidence from U.S Bank Holding Companies”, Journal of Finance (2013), vol. 68, issue 5, pp. 1757 ss. dimostra come le banche dotate di un maggior controllo del rischio prima della crisi siano state molto più prudenti nella loro esposizione ai rischi e siano state più efficienti, sia in termini di performance operativa che in termini di rendimento azionario durante il periodo della crisi. 8 Lo mette in evidenza Chiloiro, La remunerazione degli amministratori delle banche: profili di diritto societario, in Banca, impresa, soc., 2017, p. 86.

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tività bancaria e dalle peculiarità del governo societario delle banche, fattori che inevitabilmente influenzano le pratiche di remunerazione. Si pone il problema di capire quale modello regolamentare sia più efficace a disciplinare i diversi aspetti del sistema di retribuzione, ossia la governance, la struttura, l’informazione al pubblico e la supervisione esterna. Particolarmente delicato, come si vedrà, è il profilo strutturale del pacchetto remunerativo che, nella parte variabile, prevede l’applicazione del c.d. bonus cap, fortemente criticato da più parti. Ulteriore rilevante momento della nuova normativa è la remuneration governance, in particolare l’istituto del say on pay9 che nelle banche italiane, diversamente da quanto accade nelle società di diritto comune e nelle società quotate, ha carattere obbligatorio e vincolante. Ci si chiede se tale strumento sia effettivamente efficace nelle istituzioni finanziarie, in che misura garantisca l’effettiva partecipazione e responsabilizzazione dei soci nell’approvazione dei piani di retribuzione, e se possa essere eventualmente esteso agli altri modelli societari.

9 L’istituto del say on pay (letteralmente “dichiara lo stipendio”) si inquadra in quel filone di origine comunitaria teso a rivitalizzare il ruolo dell’assemblea e ad enfatizzare la sua centralità, attraverso l’imposizione di obblighi di trasparenza pre-assembleare, in aggiunta a quelli di informazione periodica e successiva, specialmente in occasione di delibere di particolare rilievo. In questo senso tra i primi interventi sul tema c’è l’emanazione da parte della Commissione Europea della Comunicazione al Consiglio e al Parlamento Europeo intitolata “Modernizzare il diritto delle società e rafforzare il governo societario nell’Unione Europea – Un piano per progredire”, adottata il 21 maggio 2003, risultato del Final Report dell’High Level Group of Company Law Expert, in cui si raccomandava l’adozione di una disciplina che garantisse un’adeguata informazione nei conti annuali in merito alla politica delle remunerazioni e alla struttura dei compensi percepiti dai singoli amministratori, nonché l’approvazione preventiva da parte degli azionisti dei piani di compensi basati su azioni o opzioni su azioni. L’istituto del say on pay, in realtà, è stato recepito in modo disomogeneo dagli Stati membri. Questa diversità di soluzioni è dovuta sia al fatto che i principi europei in tema di remunerazioni degli amministratori sono, almeno in un primo momento, per lo più contenuti in raccomandazioni, molto spesso recepite dagli Stati membri solo attraverso fonti autodisciplinari, sia all’esistenza di differenti realtà societarie nei diversi sistemi giuridici di riferimento. I modelli di say on pay adottati differiscono tra loro con riferimento a diversi aspetti come la portata dispositiva o imperativa dell’istituto, l’oggetto della delibera - a seconda che esso riguardi la politica sulla remunerazione, il compenso complessivo accordato all’organo gestorio o gli emolumenti corrisposti dei singoli componenti – l’efficacia giuridica della delibera assembleare, vincolante o solo consultiva.

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2. La “specialità” delle imprese bancarie. La remunerazione degli amministratori, come noto, costituisce aspetto cruciale della governance societaria le cui finalità tradizionalmente sono quelle di garantire l’acquisizione e il mantenimento delle risorse professionali più capaci e di servire da incentivo per allineare gli interessi dei managers con quelli degli azionisti, riducendo così i costi di agenzia che il rapporto soci-amministratori reca con sé, con l’obiettivo comune di creare valore economico sostenibile nel tempo. Tuttavia, nel sistema societario delle banche il ricorso alla teoria economica del rapporto principal-agent non riesce ad inquadrare appieno il problema delle modalità di remunerazione degli amministratori bancari, in considerazione dei molteplici interessi coinvolti nell’esercizio dell’attività bancaria10. Questo pluralismo di interessi si giustifica in ragione delle finalità di carattere pubblico e dei riflessi macroeconomici propri del settore, in particolare delle ripercussioni che l’attività bancaria riversa sul sistema economico e della necessità di arginare gli effetti delle esternalità negative generate dalle crisi bancarie11. Come noto, le banche sono tra loro altamente interconnesse e questo significa che la crisi di una singola banca può contagiare l’intera rete finanziaria, minacciando non solo la stabilità dello specifico settore ma dell’intero tessuto economico generale, con enormi costi sociali. In questa prospettiva l’impresa bancaria è definita stakeholder society o multistakeholders, il cui governo societario mira non solo a tutelare coloro che nell’impresa investono capitale finanziario ma la totalità dei soggetti che entrano in contatto con la banca e che a vario titolo nutrono un legittimo interesse al buon funzionamento della stessa (depositanti, bondholders, clienti, contribuenti)12.

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In merito, v. Zalewska, A New Look at Regulating Bankers’ Remuneration, Corporate Governance. An International Review, 24(3), May 2016, pp. 322 ss. 11 Un recente studio mette in evidenza le diversità delle banche rispetto alle imprese non finanziarie, tra le quali: «regulation, supervision, capital structure, risk, fiduciary relationships, ownership, and deposit insurance», that would make banks special and there by influence their corporate governance». Quanto alla corporate governance «According to past studies, banks’ boards of directors are larger, more independent, have a superior number of committees and meet more often, but seem to play a weaker disciplinary role. Executive compensation would be higher in banking, but pay-performance sensitivity appears lower», De Haan –Vlahu, Corporate governance of banks. A survey, Journal of Economic Surveys, 2016, Vol. 30, Issue 2, pp. 228 ss. 12 V. Mehran, Morrison, Shapiro, Corporate Governance and Banks: What Have We

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Sotto diversi profili, che di seguito si illustrano, le imprese bancarie sono diverse dalle imprese non finanziarie: differenze dovute alla composizione del loro capitale, alla loro particolare struttura finanziaria e alla complessità e opacità del loro business. Queste particolarità, a loro volta, sono suscettibili di influenzare i sistemi di remunerazione e incentivazione degli amministratori. A) La struttura finanziaria delle banche si caratterizza per l’elevato livello del leverage. Le banche tipicamente trasformano i depositi a breve termine in prestiti a lungo termine. Accanto ai depositi, le banche emettono anche debito a breve e lungo termine che insieme ai primi costituisce la maggior parte del passivo presente nei bilanci. Inoltre, quello che è l’elemento fisiologico tipico dell’attività bancaria, ovvero la leva finanziaria, è spesso oggetto di abusi. A causa del maggior indebitamento rispetto ad altre imprese, i soci delle imprese bancarie e i loro agents tendono a privilegiare operazioni ed investimenti ad alto rischio, impegnando il denaro preso a prestito. Se le aspettative si rivelano vantaggiose, gli azionisti ottengono effettivamente ritorni più elevati, potenzialmente illimitati; se le cose vanno male, gli azionisti, grazie alla responsabilità limitata, rispondono nei limiti di quanto da loro investito, mentre i creditori (obbligazionisti, depositanti e contribuenti) subiscono le maggiori perdite rimanenti. In questo senso, gli azionisti e i dirigenti, spesso remunerati con partecipazioni al capitale, non internalizzano gli effetti avversi che la maggior assunzione di rischio invece riversa sugli stakeholders. I depositanti e i bondholders potrebbero tutelarsi se riuscissero a monitorare l’attività delle banche ed a fare in modo di contenerla entro certi limiti di rischio. Tuttavia, i costi del controllo sono troppo alti rispetto ai benefici; i depositanti impiegano solo modeste quantità di ricchezza e peraltro sono ampiamente dispersi, di conseguenza non vogliono o non sono in grado di monitorare lo stato dei depositi e tendono ad assumere atteggiamenti di free riding. B) Un secondo aspetto riguarda le conseguenze delle crisi bancarie che non si riversano solo sulla rete finanziaria, riducendo le possibilità di erogazione del credito nell’intero sistema, ma hanno ricadute pesanti sui conti pubblici e sull’intera collettività. La realtà delle banche c.d. too big to fail fornisce agli amministratori incentivi ad espandere la dimensione e la complessità del business bancario, perché gli effetti negativi

Learned from the Financial Crisis?, ( June 1, 2011). FRB of New York Staff Report No. 502. Disponibile all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=1880009.

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degli eventuali rischi assunti si ripercuotono sul sistema economico e sui contribuenti. L’intervento dello Stato nelle crisi bancarie solleva amministratori ed azionisti dal peso di sopportare i costi delle politiche intraprese che dunque vengono esternalizzati. I sistemi di assicurazione dei depositi e l’implicita garanzia dei salvataggi statali se, da un lato, aiutano ad evitare la corsa agli sportelli per il ritiro dei depositi, da altro lato, non fanno che rafforzare il moral hazard degli amministratori13. C) Ulteriore singolarità dell’attività bancaria è data dalla mancata coincidenza tra passività liquide (i depositi a vista) e attività illiquide (i crediti con scadenze più lunghe) che può determinare un problema di non sufficiente liquidità: gli attivi infatti potrebbero non essere abbastanza liquidi per il pagamento delle passività, ovvero per il rimborso dei depositi. Questa mancata corrispondenza aumenta la vulnerabilità della banca e soprattutto il rischio di bank runs (corsa agli sportelli), che tipicamente rappresenta un problema di azione collettiva tra i depositanti. D) Le banche sono considerate imprese “opache”, in cui i bilanci non riescono a dare effettivamente cognizione del valore dei prestiti e degli altri assets, per cui difficile diventa valutarne la complessiva solvibilità. La difficoltà di monitorare le attività finanziarie delle banche dipende molto dall’asimmetria informativa che si crea tra i dirigenti, da una parte, e i soci, i creditori e i supervisori, dall’altra: i primi dispongono di informazioni idonee a dare effettiva contezza dei prestiti che ai secondi sono precluse e che non permettono loro di svolgere efficacemente l’attività di monitoraggio. La letteratura sottolinea come la qualità del credito non sia direttamente osservabile e può anzi essere facilmente e per lungo tempo occultata14. E) Nelle banche, il trasferimento degli attivi (dei crediti) è più agevole di quanto accade nelle altre imprese, e si traduce in un trasferimento del rischio di credito - ovvero di un rischio tipicamente bancario - a soggetti non regolati e vigilati come le banche (il c.d. shadow banking system). Attraverso la tecnica delle cartolarizzazioni, gli amministratori, la cui remunerazione è in parte basata sulle performances della banca, possono facilmente modificare la composizione degli assets finanziari, e quindi

13 E’ stato efficacemente rilevato che «the agency problems of banks are exacerbated by the presence of government guarantees and deposit insurance, which distort bankers’ incentives and encourage risk-taking. In addition, the special role of banks and the negative externalities of their failure make banks’ agency problems costlier for the economy at large», De Haan, Vlahu, Corporate governance, cit., p. 5. 14 Cfr. Levine, The Corporate Governance, cit., p. 9.

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il profilo di rischio della banca, per soddisfare gli obiettivi prestazionali concordati. Anche questo fattore incrementa i costi di agenzia tra azionisti e stakeholders e favorisce il moral hazard dei managers 15. F) Nelle imprese bancarie si è osservato che i sistemi di incentivazione del management comunemente adottati dalle altre società e i meccanismi retributivi basati sulla performance azionaria hanno presentato diversi limiti. Nella pratica, la valutazione della performance aziendale molto spesso basata sull’andamento del valore delle azioni, in un limitato periodo di tempo, non consente di valutare gli effetti degli investimenti nel lungo periodo16, soprattutto alla luce dei vari fattori di rischio assunti17. Si è, altresì, constatato che i sistemi di remunerazione variabile rappresentati da strumenti finanziari, in particolare da stock options, hanno determinato l’assunzione di rischi eccessivi, soprattutto se elaborati in base a procedimenti facilmente manipolabili dai soggetti che ne beneficiano e se coloro che devono approvarli rinunciano ad esercitare forme di controllo, o siano del tutto disinformati18. In questo senso, gli stessi sistemi di incentivazione sono generalmente indicati come un agency cost. Gli amministratori beneficiari delle opzioni sono portati ad adottare strategie opportunistiche e decisioni rischiose per incrementare la volatilità dei titoli e mantenere elevato il loro valore entro un arco temporale molto limitato, segnatamente in concomitanza con l’esercizio delle op-

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Lo sottolineano Ferrarini - Siri, Le politiche di remunerazione nelle banche tra principi e regole, in Remunerazioni e managers. Uomini (d’oro) e no, AGE, 2014, p. 417. 16 Ferrarini, Moloney, Executive remuneration in the EU: the context for reform. (April 2005). ECGI - Law Working Paper, No. 32/2005. Disponibile all’indirizzo https://ssrn.com/ abstract=715862. 17 Cfr. Artiaco, Remunerazione degli amministratori e corporate governance: nuovi paradigmi dopo la crisi finanziaria, Milano, 2013, p. 184. 18 Il dato di partenza che giustifica l’attivazione di incentivi azionari risiede nel fatto che l’azionista tipicamente ha una maggiore propensione ad assumere rischi, perché investe nell’impresa solo una parte delle sue risorse e tendenzialmente diversifica i propri investimenti, esponendosi a guadagni potenzialmente illimitati e a perdite limitate al singolo investimento. L’azionista ha interesse a che l’amministratore conduca gestioni potenzialmente rischiose, che possano procurargli profitti più elevati. L’amministratore, dal canto suo, ha un atteggiamento più prudente, tendente alla stabilità, consapevole che il suo compenso, in particolare quello fisso, dipende dall’andamento dell’attività imprenditoriale. Da qui l’idea di indurre gli amministratori ad una maggiore intraprendenza operativa, e quindi all’assunzione di maggiori rischi, attraverso l’assegnazione di una parte variabile della remunerazione in azioni e strumenti finanziari che permettano di allineare le sue aspettative con quelle dell’azionista

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zioni di cui dispongono, massimizzando profitti di breve termine (c.d. short-terminism) a scapito di quelli di medio-lungo periodo19. La relazione i tra sistemi retributivi basati su stock options e l’assunzione di maggiori rischi nel settore bancario è stata analizzata e comprovata dalla letteratura economica già in periodi precedenti al manifestarsi della crisi finanziaria20. Studi empirici recenti dimostrano l’esistenza di una forte correlazione tra il ricorso alle stock options, da un lato, e la volatilità dei corsi azionari, dall’altro. Durante gli anni della crisi, nelle banche le opzioni legate al valore azionario hanno incentivato i managers ad un uso notevole e distorto della leva finanziaria. È un dato comunemente riconosciuto che l’assunzione di rischi eccessivi dipende per i beneficiari delle stock options dall’asimmetria tra attese di guadagno e prospettive di perdita: questi incentivi consentono di realizzare compensi potenzialmente illimitati in caso di risultati positivi ma, in caso di risultati negativi, non hanno sostanziali ripercussioni sulle tasche dei managers21. Le opzioni, infatti, conferiscono al titolare il diritto di acquisire azioni ad una data futura e ad un prezzo predeterminato, il c.d. strike price. Questo diritto è esercitabile se il prezzo azionario corrente è al di sopra del prezzo di esercizio; altrimenti, è inutilizzabile. Di conseguenza, il titolare di un’opzione si preoccupa solo di fluttuazioni di prezzo delle azioni al di sopra del prezzo di esercizio, mentre non ricava alcun vantaggio se il prezzo delle azioni finisce per essere uguale allo strike price o molto al di sotto di esso. In questo senso, le options “isolano” gli executives dalle perdite

19 Cfr. in particolare lo studio di Bebchuk, Cohen, Spamann, The Wages of Failure: Executive Compensation at Bear Stearns and Lehman 2000-2008. (November 24, 2009). Yale Journal on Regulation, Vol. 27, 2010, pp. 257 ss.; Harvard Law and Economics Discussion Paper No. 657; ECGI - Finance Working Paper, No. 287. Disponibile all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=1513522. 20 Cfr. Chen, Steiner, Whyte, Does stock option-based executive compensation induce risk-taking? An analysis of the banking industry, Journal of Banking & Finance, 2006, vol. 30, pp. 915 ss.; Saunders, Strock, Travlos, Ownership structure, deregulation and bank risk-taking, Journal of Finance, ( Jun.1990, vol. 45), pp. 643 ss.; Chen, Steiner, Whyte, Risk-taking behavior and management ownership in depository institutions, Journal of Financial Research, 1998, vol. 21, No.1, pp. 1 ss.; Fields, Fraser, On the compensation implications of commercial bank entry into investment banking, Journal of Banking and Finance, 1999, 23 (8), pp. 1261 ss. 21 In questo senso Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, 2009, p. 119; ma anche Amatucci, I riflessi delle stock options sulle cause determinanti della crisi finanziaria, in Riv. dir. civ., 2009, I, pp. 557 ss.

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sofferte dagli azionisti; in caso di riduzione del valore degli assets bancari, essi infatti «will fully capture stock price gains, but will not fully bear stock price declines, as common shareholders would»22.

3. Segue. I suoi riflessi sulle remunerazioni. Come disciplinare i compensi nelle banche: standards or rules? Le specificità e i problemi che si sono evidenziati rispetto alle imprese bancarie non fanno altro che esacerbare i numerosi agency conflicts in esse presenti, tanto da ridurre l’efficacia dei tipici meccanismi di mitigazione degli agency problems di solito attivabili nelle altre organizzazioni societarie, come per esempio: il monitoraggio del management da parte degli investitori istituzionali; l’intensificazione dell’attivismo degli azionisti; la struttura remunerativa dei dirigenti ancorata alla performance dell’impresa e composta da strumenti di partecipazione al capitale; il rischio di eventuali takeovers ostili che incentivino i managers a realizzare gli obiettivi degli azionisti. I sistemi di remunerazione nell’ottica classica di una buona corporate governance delle imprese non finanziarie servono principalmente ad allineare gli interessi degli azionisti con quelli dei managers, verso la massimizzazione del valore dell’impresa, soprattutto attraverso forme di retribuzione variabile basate sulla performance dell’impresa e sulla partecipazione al capitale. Questo è il principale obiettivo dell’executive compensation, e l’intervento dei regulators dovrebbe tendere ad assicurare l’adeguatezza dei meccanismi di governo interno e la tutela dei diritti degli azionisti. Per le imprese bancarie il discorso è diverso, in considerazione delle caratteristiche sopra descritte. L’allineamento degli interessi tra i managers e gli azionisti che una buona governance mira a realizzare non è sufficiente nella prospettiva della stabilità finanziaria della banca, perché gli interessi degli azionisti non sono allineati con quelli dei depositanti, degli obbligazionisti e dei contribuenti.

22 Così Bebchuk, Spamann, Regulating Bankers’, cit., p. 18. Tuttavia, i piani di stock options possono produrre anche un effetto contrario, rendendo i managers più avversi al rischio; in particolare se le opzioni possedute hanno acquistato un valore positivo, gli amministratori potrebbero evitare operazioni troppo rischiose che siano tali da ridurre il valore dell’azione sino ad un livello inferiore allo strike price. Lo segnala Cappiello, La remunerazione degli amministratori. “Incentivi azionari” e creazione di valore, Milano, 2005, p. 54.

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Difficilmente la forza disciplinante del mercato e l’autonomia contrattuale sono in grado di determinare incentivi per il management bancario corretti ed adeguati rispetto a tutti gli interessi coinvolti; ciò fa pensare all’esistenza di un market failure che richiede l’intervento dei regolatori e delle Autorità di Vigilanza23. Il problema non è se intervenire – aspetto oramai assodato, almeno in un’ottica di vigilanza prudenziale - ma quanto e come intervenire. La regolazione può limitarsi a disciplinare il procedimento di approvazione dei compensi e i meccanismi di disclosure degli stessi o giungere addirittura ad una etero-determinazione della struttura della retribuzione. Regolatori e supervisori hanno affrontato in maniera incisiva le disfunzioni generate dai sistemi di remunerazione degli amministratori e dei dirigenti, puntando il dito sulla entità e sulla struttura variabile dei compensi, spesso frutto di politiche gestorie aggressive24. L’intervento dei regulators dovrebbe essere teso a fissare misure di carattere «prudenziale» che dovrebbero presidiare i processi di elaborazione e controllo dei sistemi di remunerazione per garantirne la coerenza con gli obiettivi, i livelli reddituali e le condizioni patrimoniali e finanziarie del singolo intermediario. In questo senso, le prassi remunerative assumono rilievo anche in una prospettiva macroprudenziale: i compensi, per esempio, dovrebbero ridursi nelle fasi di deterioramento o svalutazione dei crediti per rendere disponibili le risorse interne, diminuire i costi aziendali e rafforzare patrimonialmente il singolo intermediario, ma anche per recare beneficio all’intero sistema, evitando che l’assunzione di politiche di contrazione dei prestiti, eventualmente adottata anche da altri intermediari, produca effetti sistemici negativi25. Ulteriore criticità legata alla regolamentazione dei compensi riguarda la necessità di intraprendere riforme condivise a livello sovranazionale, in modo che non siano adottate solo da alcuni Stati (one-sided reforms).

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Tuttavia, c’è chi ritiene che l’esigenza di regolare i compensi dei banchieri appaia piuttosto debole, dato che appare tutt’altro che dimostrato che la struttura dei compensi abbia contribuito all’assunzione di rischio durante la crisi. Anche assumendo che le compensation structures delle banche siano state deboli, ciò non significa che ci sia automaticamente bisogno di regolamentarle, così Ferrarini, Bankers’ Compensation and Prudential Supervision: the International Principles, Research Handbook on executive compensation, J.Hill, R. Thomas, eds., Edward Elgar Press, 2012, p. 127, consultabile anche sul sito www.ssrn.com. 24 In questi termini, Calandra Bonaura, Le politiche, cit., p. 280. 25 Così Marano, Venturi, La regolamentazione sui sistemi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari, in Le nuove S.p.A. Le società bancarie, a cura di Cagnasso, Panzani, Bologna, 2015, p. 190.

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La finalità della regolamentazione post-crisi è quella di raggiungere un effettivo level playing field in modo che tutti i Paesi operino in condizioni di parità concorrenziale sul mercato del lavoro manageriale, arginando il rischio di arbitraggi normativi. Da un lato, infatti, non è possibile prevenire la diffusione di possibili contagi provenienti da banche situate in paesi che non adottano regole per disciplinare i compensi nelle istituzioni finanziarie; da altro lato, gli Stati che si dotano di politiche di remunerazione più rigide saranno competitivamente svantaggiati rispetto a Stati che implementano discipline più permissive, maggiormente attrattive per imprese e managers26. A fronte di questo scenario, si è sviluppato, a livello internazionale, un vivace dibattito e il tema delle politiche di remunerazione è diventato un problema di scelta dell’approccio regolamentare preferibile. Da una parte si propone un modello che mira a definire ex ante, con regole dettagliate e analitiche imposte dall’esterno, la struttura, la composizione del pacchetto remunerativo e i livelli massimi dei compensi, in modo che questi siano tarati su obiettivi di lungo periodo e coerenti con una appropriata gestione dei rischi (approccio regolatorio o rule - based). Da altra parte, si preferisce un modello che lasci il sistema retributivo alla libera determinazione dei consigli di amministrazione e delle assemblee dei soci, salvo il successivo controllo da parte delle Autorità di Vigilanza alla luce dei principi essenziali suggeriti dagli standard setters (approccio di vigilanza o principle-based)27. Secondo questo modello, le regole in materia di retribuzioni sono un ostacolo alla competizione e all’innovazione e un’indebita ingerenza nell’autonomia privata e nel merito delle scelte gestorie28. Sottoporre a regolazione le strutture retributive degli amministratori bancari produce diversi effetti: influisce sulla

26 In questo senso Ferrarini, Regulating Bankers’ Pay: Systemic Risk, Proportionality and Culture, Bankers’ Pay, Incentives and Regulation Conference, 29-30 September 2017, Banco de Portugal, Lisbon, disponibile all’indirizzo https://www.bportugal.pt/sites/ default/files/cbpir_01.pdf; con riferimento in generale alla regolamentazione delle banche, Calandra Buonaura, L’attività degli intermediari finanziari nella regolamentazione sovranazionale, in Rivista ODC, 2013, p. 4. 27 In questo senso, Ferrarini, Siri, Le politiche di remunerazione, cit., p. 416, per i quali il problema attiene a «una più fondamentale opzione di policy che riguarda la scelta tra regole (rules) e principi (standards)»; Ferrarini, Remunerazione degli amministratori esecutivi, governo societario, populismo: riflessioni a margine della crisi finanziaria, in Diritto, mercato ed etica. Dopo la crisi, a cura di Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2010, p. 292 ss. 28 V. Ferrarini, CRD IV, cit., pp. 18 ss.

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flessibilità degli accordi in materia di compensi che dovrebbero adattarsi alle caratteristiche della singola impresa; incide sulla concorrenza fra le imprese nella selezione dei dirigenti più capaci, limitando notevolmente la discrezionalità dei consigli di amministrazione e dei soci; attira i managers più capaci verso ordinamenti che non impongono limiti ai livelli delle remunerazioni. In questa prospettiva, i regulators e la vigilanza, anziché disegnare con prescrizioni vincolanti la struttura dei sistemi di remunerazione e incentivazione - funzione che dovrebbe rimanere nella competenza dei consigli di amministrazione – dovrebbero assicurare un’efficace supervisione della gestione del rischio, verificare l’impatto delle scelte in materia di compensi sul profilo di rischio della banca, monitorando il livello di compliance della singola banca rispetto alle scelte adottate dal sistema di remuneration governance. Ciò consente di affrontare la materia con soluzioni di best practice che non siano eccessivamente rigide ma che offrano agli organi sociali un indicatore, un modello con cui valutare le proposte adottate, obbligando gli stessi a confrontarsi con i principi e gli standards suggeriti e a giustificare le eventuali scelte che si discostano dai parametri consigliati. Così facendo, sarebbe possibile entrare nel merito del contenuto delle soluzioni retributive, mantenendo pur sempre una certa flessibilità e adattabilità alle specifiche caratteristiche della singola impresa29. Questo secondo orientamento induce, inoltre, a credere che sia più corretto ed efficace regolamentare la governance sulle retribuzioni, ovvero le modalità con cui sono adottate le politiche di remunerazione, piuttosto che definirne per legge la struttura, potenziando il ruolo e le responsabilità degli organi amministrativi di vertice delle banche, favorendo l’intervento dei remuneration committees, il controllo del risk management e il coinvolgimento degli azionisti nell’approvazione dei piani retributivi. Altrettanto importante, in quest’ottica, è l’obbligo di trasparenza sulla struttura e sull’ammontare dei compensi perché la disclosure rende maggiormente responsabili gli executives e i boards di fronte agli azionisti e al mercato, permette ai soci di esercitare consapevolmente il say on pay, e consente l’esercizio effettivo della supervisione da parte delle Autorità di Vigilanza, con il vantaggio di comportare costi relativamente contenuti.

29 In questo senso, Calandra Buonaura, Crisi finanziaria, governo delle banche e sistemi di amministrazione e controllo, in Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze, a cura di Benazzo, Cera, Patriarca, Torino, 2011, p. 667.

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In Europa è prevalso, come si vedrà più avanti, il primo modello regolamentare30. Rispetto al contesto pre-crisi, aumentano le disposizioni normative, si rafforza il loro livello di dettaglio, si prevedono maggiori prescrizioni direttamente applicabili, si intensifica l’azione di controllo e l’azione repressiva delle Autorità di Vigilanza, si riconoscono all’EBA poteri di regolazione e supervisione. Questo risultato sembra essere in linea con il nuovo paradigma della regolamentazione bancaria in Europa che, dopo la crisi del 2007, è divenuto a crescente «vocazione prescrittiva»31. Le critiche sollevate a questa impostazione del problema del bankers’ pay contestano ai regulators di favorire la strutturazione di meccanismi retributivi troppo rigidi, vincolanti e resistenti alla ricerca delle soluzioni più appropriate alle singole imprese32. In questa prospettiva, le soluzioni proposte - per contrastare i pericoli che le retribuzioni possano portare ad un’eccessiva assunzione di rischi - andrebbero ricercate piuttosto nel rafforzamento dei requisiti di vigilanza prudenziale - come più elevati livelli di capitale - e nei presidi di governance, soprattutto per le financial institutions che decidono di adottare politiche retributive particolarmente rischiose. Anche a livello internazionale, i commentatori fanno osservare come i governi non dovrebbero intervenire nel regolare i livelli e la struttura dei compensi degli amministratori nelle imprese finanziarie, anche perché non sono professionalmente qualificati per fare questo. Per altro, i boards delle banche perderebbero una funzione chiave della governance e troverebbero più difficile allineare gli incentivi manageriali alla corporate strategy e al risk profile della specifica impresa 33. La teoria economica e la storia, inoltre, insegnano che i prezzi, quando determinati dal mercato, sono lo strumento migliore por allocare risorse. Certo il mercato non è perfetto ma «but it almost certainly does a better job than government officials would»34.

30 Cfr. Dijkhuizen, The EU’s Regulatory Approach to Banks’ Executive Pay: From ‘Pay Governance’ to Pay Design, European Company Law, 2014/11, Issue 1, pp. 30 ss. 31 In tema, Gobbo, La governance delle banche. Il passato, il presente, il futuro, in Le società bancarie, cit., pp. 135-138. 32 Cfr. Cappiello, Morera, Del merito e delle ricompense dei vertici dell’impresa bancaria, in AGE, 2/2007, p. 411. 33 V. Ferrarini, CRD IV, cit., p.18. 34 Cfr. Squam Lake Working Group on Finantial Regulation, Regulation of Executive Compensation in Financial Services, cit., p. 3. Tra le soluzioni proposte dal gruppo alternative alla regolamentazione pubblica delle remunerazioni: «One is systemically sensitive

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In questo scenario, il regolatore bancario italiano sembra propendere per una soluzione di compromesso tra istanze regolatorie e autonomia privata delle banche. Come si vedrà più avanti la Banca d’Italia ha adottato, nella stesura delle Disposizioni di vigilanza sul governo delle banche, la tecnica della better regulation, con la quale, da un lato, detta una serie di principi generali che presiedono la materia, rimettendo alla libera determinazione degli organi sociali le scelte più opportune per attuarli, coerentemente con il principio d proporzionalità; dall’altro, fornisce linee applicative che intendono facilitare l’applicazione dei principi attraverso indicazioni di contenuto specifico35. Questo modello normativo sembra più rispettoso della autonomia dei soggetti vigilati, influendo il minimo indispensabile sulle scelte organizzative dei singoli intermediari e lasciando maggiore spazio anche alla discrezionalità delle Autorità di Vigilanza. 4. Le fonti: dalla soft law internazionale alle regole europee. In ambito internazionale, il sistema finanziario, prima e durante tutto il periodo di implementazione dell’apposita regolamentazione in materia di politiche di remunerazione e incentivazione, ha visto il diffondersi di principles, guidelines, best practices e recommendations da parte di organismi e istituzioni a rilevanza internazionale che hanno offerto un modello di riferimento per la predisposizione delle politiche retributive. In particolare, il settore bancario è stato il primo ad essere interessato da un processo di regolamentazione delle remunerazioni dei managers e delle reti di vendita ed ha svolto poi un’azione di traino per i settori

capital requirements that force larger and more-complex banks to hold more capital. Another is the creation of a long-term debt instrument that converts to equity during a crisis so that an undercapitalized or insolvent bank can transform into a well-capitalized bank at no cost to tax payers. Executive compensation presents an additional mechanism for inducing financial firms to internalize the costs of their actions. Specifically, if a significant portion of senior management’s compensation is deferred and contingent on the firm surviving without extraordinary government assistance, managers will be less inclined to pursue risk strategies». 35 In merito Montalenti, La corporate governance degli intermediari finanziari: profili di diritto speciale e riflessi sul diritto societario generale, in L’ordinamento italiano del mercato finanziario tra continuità e innovazioni, a cura di Calandra Buonaura, Bartolacelli e Rossi, Milano, 2014, pp. 11 e ss.; Capolino, Il governo societario delle banche: regole e strumenti nelle disposizioni di vigilanza e nelle norme europee, in Il Governo delle banche, a cura di Pincipe, Milano, 2015, p. 15; Amorosino, La conformazione regolatoria della governance delle società bancarie da parte della Banca d’Italia, ivi, p. 44.

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del risparmio gestito, delle assicurazioni e delle imprese di investimento, con i quali condivide i principi generali ma non le norme di dettaglio. Nel loro insieme, gli orientamenti espressi in ambito internazionale costituiscono indirizzi e criteri interpretativi utili per il corretto recepimento delle disposizioni da parte delle banche nonché per orientare e calibrare l’azione di controllo dell’Autorità di Vigilanza36. Risonanza internazionale e influenza sugli orientamenti successivi delle autorità comunitarie hanno avuto, a partire dal 2009, i Principles for Sound Compensation Practices, successivamente sviluppati attraverso standards applicativi con i Principles for Sound Compensation Practices: Implementation Standards, elaborati dal Financial Stability Board, i quali dettano una serie di principi rivolti a istituzioni finanziarie significative (dal punto di vista del rischio sitemico) e ai regolatori nazionali affinché vengano implementati nella definizione delle remuneration policies. L’Unione Europea ha iniziato ad occuparsi del problema delle remunerazioni dei managers dopo gli scandali societari di inizio secolo, in particolare dopo il caso Enron, adottando dapprima un approccio disciplinare “pay governance”, teso a regolare il modo – ovvero il procedimento - con cui vengono elaborate e adottate le politiche dei compensi e degli incentivi all’interno delle organizzazioni societarie. Importante è sottolineare che le prime Raccomandazioni adottate dalla Commissione, seguendo i suggerimenti dell’High Level Group of Company Law Experts, sottolineano la necessità che la forma, la struttura e il livello delle remunerazioni rimangano di competenza delle società e dei loro

36 Tra i primi contributi volti a creare, almeno a livello di soft law, un sistema di regole e controlli sulle prassi e sulle politiche di remunerazione, si segnalano gli High Level Principles for Remuneration Policies che il CEBS (Committee of European Banking Supervisors) ha redatto in stretta collaborazione con il Financial Stability Board, la Commissione Europea, il Basel Committee on Banking Supervision e con il Committee of European Securities Regulators (2009). Successivamente il CEBS ha pubblicato le sue Guidelines on Remuneration Policies and Practices (2010). Considerato il particolare rilievo che tali prescrizioni assumono nel contesto normativo europeo, i contenuti essenziali di queste linee giuda sono ripresi nelle disposizioni delle direttive e sono poi recepiti nel quadro normativo dei singoli Stati come norme cogenti per le banche. Anche l’OCSE ha prodotto diversi documenti sui sistemi di remunerazione, soprattutto nell’ambito di analisi sulle cause e sugli effetti della recente crisi finanziaria (The Corporate Governance Lessons from the Financial Crisis, 2008; Corporate Governance and Financial Crisis. Key Findings and Main Message, 2009; Corporate Governance and Financial Crisis, Conclusions and emerging good practices to enhance implementation of the Principles, 2010; Corporate Governance Board Practices; Incentives and Governing Risks, 2011).

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azionisti ma che, a causa dei potenziali conflitti di interesse che comportano, devono essere «subjected to appropriate governance controls, based on adequate information rights» e per questo le Raccomandazioni chiedono che le politiche vengano comunicate agli azionisti e sottoposte annualmente al voto (consultivo o vincolante) dell’assemblea dei soci37. Le Raccomandazioni, riprendendo il contenuto dei Principles del FSB, intendono soprattutto incentivare, attraverso un’azione di orientamento e indirizzo, soluzioni di buon governo societario nella assunzione delle politiche retributive, in modo da tenere in giusta considerazione gli interessi degli azionisti. L’approccio “pay governance”, tuttavia, muta con due successive Raccomandazioni del 2009 per diventare un approccio “pay design”, ovvero un orientamento rule-based che, rompendo con il passato, suggerisce, non in modo cogente, di disciplinare il livello e la struttura variabile della remunerazione38. La Commissione, nondimeno, consapevole che l’adesione da parte degli Stati alle due Raccomandazioni non è stata sufficientemente uniforme e ritenendo necessaria una strategia coordinata tra gli Stati per garantire la competitività dell’Europa, decide di intervenire in materia di executive compensation nelle banche e nelle imprese di investimento con la direttiva 2010/76/UE (c.d. CRD III), che attraverso un insieme di regole particolarmente dettagliate e di carattere vincolante agisce sulla struttura dei compensi, e in particolare sulla composizione della parte variabile. Con la direttiva CRD III, per la prima volta, le remunerazioni diventano oggetto di vincoli regolamentari funzionali al rispetto del principio di sana e prudente gestione delle banche e alla prevenzione di rischi anche a carattere sistemico. L’impianto della CRD III viene sostanzialmente ribadito dalla successiva direttiva 2013/36/UE (CRD IV) che riprende e avvalora i principi già espressi dalle autorità comunitarie, conferma molte delle soluzioni già presenti nella CRD III, consegnando un corpus normativo, certamente più dettagliato e rigoroso, che rappresenta attualmente la disciplina vigente in materia di remunerazioni nel sistema

37 Le Raccomandazioni sono la n. 2004/913/CE in materia di remunerazioni degli amministratori di società quotate e la n. 2005/162/CE sul ruolo di supervisione degli amministratori non esecutivi nelle società quotate. 38 Si tratta della Raccomandazione 2009/384/CE, sulle politiche retributive nel settore dei servizi finanziari, e la 2009/385/CE, in tema di executive compensation di società quotate.

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bancario europeo39. Le disposizioni delle Direttive vanno lette e interpretate congiuntamente ai contributi regolamentari prodotti dal CEBS (Committee of European Banking Supervisory) tra il 2009 e il 2010 (gli High Level Principles of Remuneration Policies e le Guidelines on Remuneration Policies and Practices), ora sostituiti dalle Guidelines on sound remuneration policies, pubblicate dall’EBA (European Banking Authority) il 26 giugno 2016, in vigore dal 13 gennaio 2018. L’obiettivo dell’Autorità Europea, che ha poteri regolamentari e funzioni di monitoraggio, è quello di assicurare una più omogenea ed uniforme applicazione delle disposizioni europee nei vari Stati membri dell’Unione, al fine di accrescere la convergenza delle regole e delle prassi di supervisione e prevenire arbitraggi regolamentari, cercando altresì di superare alcune indubbie rigidità contenute nella direttiva. Le EBA Guidelines non sono direttamente vincolanti per le singole banche, ma obbligano le Autorità di Vigilanza nazionali di ciascun Stato membro a recepirle nella propria regolamentazione; in caso di mancato adeguamento, le autorità nazionali devono informare l’EBA e giustificare le proprie decisioni, in base al principio del comply or explain40. L’azione della direttiva CRD IV si dispiega lungo quattro direttrici, già individuate dai Principles del FSB: i) il rafforzamento dei presidi di governance; ii) una disclosure ad hoc

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Come dimostra lo studio di Barontini, Bozzi, Ferrarini, Ungureanu, Directors’ Remuneration Before and after the Crisis: Measuring the Impact of Reforms in Europe ( January 2013). Boards and Shareholders in European Listed Companies. Facts, Context and Post-Crisis Reforms, a cura di Belcredi e Ferrarini, Cambridge University Press, 2013, pp. 251 ss., disponibile su https://ssrn.com/abstract=2250677, il livello delle remunerazioni nelle imprese finanziarie è notevolmente diminuito dopo la crisi finanziaria. Questo è dovuto in parte alle performances negative delle imprese finanziarie nel periodo 20072010, ma anche alla pressione esercitata dai regolatori nazionali ed internazionali come con la direttiva CRD III che ha avuto un impatto sostanziale nella maggior parte degli ordinamenti, nei quali si è registrato un significativo cambiamento nei livelli e nella struttura delle remunerazioni: si è raggiunto un equilibrio adeguato tra compenso variabile e compenso fisso; la remunerazione variabile è differita e concessa, almeno in parte, in azioni o strumenti collegati alle azioni, come richiesto dai criteri internazionali. 40 L’Autorità Europea ha inoltre contribuito all’elaborazione di regolatori tecnical standards, poi recepiti dalla Commissione europea nei propri regolamenti, che hanno carattere vincolante e sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri, come è accaduto in materia di remunerazioni per l’identificazione dei c.d. risk takers o identified staff, ossia dei soggetti la cui attività professionale ha o può avere un impatto rilevante sul profilo di rischio della banca (Regolamento 604/2014), e per l’individuazione delle caratteristiche degli strumenti finanziari diversi dalle azioni che possono essere impiegati per il pagamento di parte della remunerazione variabile (Regolamento 527/2014).

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sulle politiche di remunerazione; iii) la definizione della struttura della remunerazione coerente con la ponderazione del rischio operata dalla singola impresa bancaria, soprattutto attraverso l’articolazione della struttura variabile del compenso; vi) l’intensificazione e il monitoraggio dei meccanismi di supervisione. A livello di normazione secondaria, le disposizioni della direttiva CRD IV in materia di remunerazione sono state recepite in Italia nella Circolare della Banca d’Italia n. 285 del 2013 (“Disposizioni in materia di vigilanza delle banche”); l’Autorità di Vigilanza, in applicazione dell’art. 53, comma 1, lett. d), del t.u.b., ha aggiunto, con il settimo aggiornamento del 18 novembre 2014, al Titolo IV un nuovo Capitolo 2 su “Politiche e prassi di remunerazione e incentivazione”, che per espressa affermazione della Banca d’Italia tengono conto anche degli indirizzi e dei criteri concordati in sede internazionale, tra cui quelli dell’EBA e dell’FSB. In particolare, i contenuti essenziali delle Guidelines dell’EBA emanate nel 2015 sono ripresi nelle disposizioni della Circolare – il cui settimo capitolo è stato da ultimo aggiornato dalla Banca d’Italia41 – e quindi recepiti nel quadro normativo nazionale come norme cogenti per le banche.

5. Ambito soggettivo di applicazione, identificazione del personale rilevante e principio di proporzionalità. Prima di entrare nel merito delle regolamentazione europea e nazionale, conviene affrontare tre aspetti preliminari: l’ambito di applicazione della disciplina, l’individuazione dei soggetti destinatari delle regole e la previsione del principio di proporzionalità. Quanto al primo punto, le disposizioni comunitarie sui meccanismi di remunerazione e incentivazione si applicano, per espressa previsione della direttiva, a banche ed imprese di investimento a livello individuale e a livello di gruppo, di impresa madre e filiazioni, comprese quelle site nei centri finanziari offshore (art. 92). Ai sensi dell’art. 109, par. 2, della CRD IV, tutti gli obblighi imposti dalle disposizioni in materia di governance, gestione dei rischi, controlli interni e sistemi di remunerazione devono essere assolti su base consolidata dalla capogruppo in modo da

41 Si tratta del 25° Aggiornamento del 23 ottobre 2018 con cui è stato interamente sostituito il Capitolo 2 “Politiche e prassi di remunerazione e incentivazione” per adeguare il quadro normativo italiano agli Orientamenti dell’EBA emanati il 27 giugno 2016.

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rendere i relativi presidi coerenti e ben integrati all’interno del gruppo. L’intento è quello di presidiare i compensi e gli incentivi ovunque essi siano presenti nel gruppo per garantire gli obiettivi prudenziali della regolamentazione. La disciplina di attuazione emanata dalla Banca d’Italia, di conseguenza, si applica per espressa disposizione alle banche italiane e alle società capogruppo di un gruppo bancario e, in quanto compatibili, alle succursali italiane di banche extracomunitarie. Sarà, dunque, la società capogruppo, nell’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento, a definire la politica di remunerazione del gruppo, assicurarne la complessiva coerenza, fornendo gli indirizzi necessari alla sua attuazione e verificandone la corretta applicazione. In particolare, la politica di remunerazione e incentivazione del gruppo deve tener opportunamente conto delle caratteristiche di ciascuna società (il settore di appartenenza, la giurisdizione dove la società è stabilita o prevalentemente opera; la quotazione in borsa). Le singole società del gruppo restano in ogni caso responsabili del rispetto della normativa a esse direttamente applicabile e della corretta attuazione degli indirizzi forniti dalla società capogruppo. La capogruppo assicura, inoltre, che le remunerazioni nelle società del gruppo siano conformi ai princìpi e alle regole contenuti nelle Disposizioni di Vigilanza e, nel caso di società estere, non contrastino con il diritto nazionale del paese in cui esse sono insediate. La Direttiva pone un obbligo espresso, a carico degli enti creditizi e delle imprese di investimento, di creare e mantenere, per le categorie di persone la cui attività professionale ha un impatto significativo sul loro profilo di rischio, politiche e prassi remunerative in linea con una gestione efficace dei rischi. La Commissione Europea ha recepito, attraverso il Regolamento 604/2014, i regulatory tecnical standards emanati dall’EBA in materia di identificazione dei c.d. material risk takers (MRTs) o identified staff42. Il processo di identificazione è parte integrante della politica

42 Il Regolamento delegato (UE) n. 604, adottato il 4 marzo 2014 ai sensi dell’articolo 94(2) della CRD IV su proposta dell’EBA, integra la direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione relative ai criteri qualitativi e quantitativi adeguati per identificare le categorie di personale le cui attività professionali hanno un impatto sostanziale sul profilo di rischio dell’ente. I criteri dettati dal Regolamento per l’individuazione dei material risk takers sono di tipo qualitativo e di tipo quantitativo. Sotto il primo profilo, il Regolamento individua un elenco di casi in cui può ritenersi che una risorsa possa determinare un impatto significativo sul profilo di rischio dell’intermediario: se ad esempio appartiene all’organo di gestione nella sua funzione di gestione; se appartiene all’organo di gestione nella sua

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di remunerazione complessiva della banca e, conseguentemente, segue tutte le regole previste per quest’ultima (es. approvazione assembleare; definizione e revisione periodica da parte dell’organo con funzione di supervisione strategica); si tratta di una autovalutazione svolta annualmente dalla banca, i cui esiti devono essere opportunamente documentati, e consente di identificare i membri del personale la cui attività professionale ha un impatto significativo sul profilo di rischio dell’ente e quindi di «graduare l’applicazione dell’intera disciplina in funzione dell’effettiva capacità delle singole figure aziendali di incidere sul profilo di rischio della banca»43.

funzione di supervisione strategica; se appartiene all’alta dirigenza; se è responsabile di fronte all’organo di gestione per le attività della funzione indipendente di gestione dei rischi, della funzione di controllo della conformità o della funzione di audit interno; se è a capo di un’unità operativa/aziendale rilevante, ecc. Sotto il profilo quantitativo, una risorsa è da annoverare tra i material risk takers: se, tra l’altro, le è stata attribuita una remunerazione complessiva pari o superiore a € 500.000 nel precedente esercizio finanziario; se rientra nello 0,3 % del personale, arrotondato all’unità più vicina, cui è stata attribuita la remunerazione complessiva più elevata nel precedente esercizio finanziario; se le è stata attribuita nel precedente esercizio finanziario una remunerazione complessiva che è pari o superiore alla remunerazione complessiva più bassa attribuita ad un senior manager. Una risorsa individuata tra i material risk takers, solo sulla base di criteri quantitativi, può essere esclusa da tale categoria se esercita attività professionali e ha poteri solamente in un’unità operativa/aziendale che non è rilevante o non ha alcun impatto sostanziale sul profilo di rischio di un’unità operativa/aziendale rilevante tramite le attività professionali svolte. Tale esclusione deve fondarsi su una valutazione rigorosa e sottoposta a preventiva informativa tramite notifica all’Autorità di Vigilanza, ove la banca motiva le ragioni delle esclusioni, fornendo chiara evidenza dei presupposti su cui esse si fondano. L’esclusione da parte dell’ente di un membro del personale cui è stata attribuita una remunerazione complessiva pari o superiore a € 750.000 nel corso dell’esercizio precedente, o in relazione al criterio di cui al paragrafo 1, lettera b), deve essere subordinata alla preventiva approvazione dell’autorità competente responsabile della vigilanza prudenziale dell’ente che ha presentato la relativa istanza di autorizzazione. 43 La politica sul processo di identificazione del personale più rilevante definisce almeno: i criteri e le procedure utilizzati per l’identificazione del personale più rilevante, ivi compresi quelli per l’eventuale esclusione; le modalità di valutazione del personale; il ruolo svolto dagli organi societari e dalle funzioni aziendali competenti per l’elaborazione, il monitoraggio e il riesame del processo di identificazione. Gli esiti del processo di identificazione del personale più rilevante sono opportunamente motivati e formalizzati e contengono almeno le seguenti informazioni: il numero del personale identificato come personale più rilevante, ivi compreso il numero dei soggetti identificati per la prima volta; i nomi o gli identificativi individuali, i ruoli e le responsabilità di tale personale; un confronto con gli esiti del processo di identificazione dell’anno precedente. Le medesime informazioni riguardano il personale eventualmente escluso e quello per il quale è stata presentata o si intende presentare una notifica o istanza di esclusione.

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Altro aspetto distintivo della disciplina europea è l’affermazione del principio di proporzionalità, sancito nella Direttiva CRD III e confermato nella successiva Direttiva CRD IV. Il sistema bancario è caratterizzato da soggetti con profili dimensionali, organizzativi e di rischio affatto diversi tra loro, per questo gli enti creditizi dovrebbero applicare le disposizioni in materia di remunerazione in modo diverso a seconda delle dimensioni, dell’organizzazione interna dell’ente e della natura, portata e complessità delle loro attività, in ossequio al principio «one size does not fit all». La proporzionalità dei dispositivi e delle misure in ambito retributivo consente di rispettare le naturali diversità delle singole istituzioni finanziarie, quali espressione dell’autonomia privata nelle scelte di organizzazione e gestione. La CRD III prevedeva che alcune disposizioni della direttiva potessero essere totalmente o parzialmente disapplicate nei confronti di enti creditizi meno complessi e nei confronti del personale che incide meno sui profili di rischio dell’ente creditizio e che percepisce quote di remunerazione variabile più contenute. La CRD IV, al fine di evitare un’applicazione delle regole troppo rigida, stabilisce un generale criterio di proporzionalità in forza del quale le istituzioni rispettano i principi introdotti, «secondo modalità e nella misura appropriate alle loro dimensioni, organizzazione interna e alla natura, ampiezza e complessità delle loro attività»44. Le disposizioni della direttiva dovrebbero riflettere perciò le differenze tra diversi tipi di enti in maniera proporzionata (considerando 66). Tuttavia il principio ha suscitato non pochi problemi di armonizzazione della regolamentazione tra i vari Stati dell’Unione. La direttiva CRD IV infatti non fornisce sufficienti criteri per l’attuazione di tale principio, sostanzialmente lasciando agli Stati membri il compito di dare indicazioni per la sua declinazione pratica. Le Autorità nazionali hanno, infatti, interpretato e applicato le regole riguardanti il principio di proporzionalità in maniera non omogenea. Recentemente l’EBA ha diffuso una Opinion riguardante il principio di proporzionalità contenuto nella CRD IV, e pur riconoscendo che la CRD IV non ammette eccezioni o deroghe all’applicazione delle prescrizioni in materia di compensi, suggerisce ai competenti organi legislativi europei di modificare alcune disposizioni della direttiva per rendere l’applicazione del principio di proporzionalità più uniforme ed efficace, al fine di garantire un effettivo level playing

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Art. 92, par. 2, direttiva 39/2013/UE


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field45. L’Autorità Europea propone nello specifico di esentare (in tutto o in parte) le banche di minori dimensioni e il personale che percepisce una remunerazione variabile relativamente bassa (anche se collocato in banche di maggiore dimensione) dall’applicazione delle regole in materia di differimento di parte della remunerazione variabile e di pagamento di parte della stessa in strumenti finanziari. Questi accorgimenti dovrebbero consentire di alleggerire gli enti creditizi, soprattutto quelli minori, dagli oneri e dai costi amministrativi di implementazione che la normativa attuale senz’altro comporta46.

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EBA, Opinion of the European Banking Authority on the application of the principle of proportionality to the remuneration provisions in Directive 2013/36/EU, EBA/ Op/2015/25, che osserva come «This would put the extent to which the principles should be applied beyond doubt, while also ensuring that the scope of the exemptions is consistent across the Union and that the overall objective of ensuring that remuneration policies and practices are consistent with and promote sound and effective risk management is maintained». 46 La Commissione Europea ha recentemente avanzato una proposta di modifica della direttiva 36/2013/UE, accogliendo i rilievi formulati dell’EBA nella sua Opinion, osservando quanto segue: «La relazione della Commissione COM(2016) 510 del 28 luglio 2016 ha evidenziato che, se applicati a enti piccoli e non complessi, alcuni principi, cioè i requisiti sul differimento e sul pagamento in strumenti di cui all’articolo 94, paragrafo 1, lettere l) e m), della direttiva 2013/36/UE, sono eccessivamente onerosi e non commisurati ai loro vantaggi prudenziali. Si è inoltre riscontrato che il costo dell’applicazione di questi requisiti supera i loro vantaggi prudenziali nel caso del personale con una bassa componente variabile della remunerazione, perché questi livelli di remunerazione variabile non incoraggiano, o incoraggiano poco, il personale a prendere rischi. Di conseguenza, mentre tutti gli enti dovrebbero avere l’obbligo generale di applicare tutti i principi a tutti i membri del loro personale le cui attività professionali hanno un impatto rilevante sul loro profilo di rischio, è opportuno inserire nella direttiva disposizioni che esentino gli enti piccoli e non complessi e il personale con una bassa componente variabile della remunerazione dai principi sul differimento e sul pagamento in strumenti. Sono necessari criteri chiari, coerenti e armonizzati per individuare gli enti piccoli e non complessi e il personale con una bassa componente variabile della remunerazione, al fine di garantire la convergenza in materia di vigilanza e promuovere condizioni di parità per gli enti e un’adeguata tutela di depositanti, investitori e consumatori in tutta l’Unione. Al tempo stesso bisogna offrire una qualche flessibilità alle autorità competenti, perché possano adottare un approccio più rigoroso quando lo reputino necessario». (Considerando 5 e 6 della Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2013/36/UE per quanto riguarda le entità esentate, le società di partecipazione finanziaria, le società di partecipazione finanziaria mista, la remunerazione, le misure e i poteri di vigilanza e le misure di conservazione del capitale). «La modifica proposta prevede che, per ovviare ai problemi incontrati nell’applicazione delle norme sul differimento e sul pagamento in strumenti nel caso degli enti più piccoli e meno complessi e del personale con una bassa componente variabile della remune-

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La disciplina di attuazione emanata dalla Banca d’Italia tiene conto del principio di proporzionalità applicandolo in due direzioni: le prescrizioni sono graduate prima tra intermediari, ovvero in funzione della tipologia e della “dimensione” dell’intermediario (proportionality among institutions); in un secondo momento, come visto sopra, la diversificazione avviene all’interno di ciascun intermediario, graduando le norme in funzione della posizione ricoperta dal personale dello stesso (proportinality among categories of staff). A tale scopo, le Disposizioni di vigilanza suddividono le banche in tre categorie: le banche di maggiori dimensioni o complessità operativa47, che applicano per intero la disciplina contenuta nel capitolo delle Disposizioni di Vigilanza dedicato alle remunerazioni; le banche di minori dimensioni o complessità operativa48 che applicano la disciplina sulle remunerazioni ma non osservano, neppure con riferimento al personale più rilevante, la disciplina relativa alla remunerazione variabile49; le banche intermedie che applicano in-

razione, tali disposizioni non si applicano nel caso di enti che si trovano al di sotto delle soglie fissate per le deroghe, ovvero a) a un ente il cui valore delle attività sia in media pari o inferiore a 5 miliardi di euro nel quadriennio immediatamente precedente l’esercizio finanziario corrente; b) a un membro del personale la cui remunerazione variabile annua non superi 50 000 euro e non rappresenti più di un quarto della sua remunerazione totale. Al tempo stesso si offre una certa flessibilità alle autorità competenti per l’adozione di un approccio più rigido per cui «In deroga alla lettera a), l’autorità competente può decidere che agli enti il cui valore totale delle attività sia inferiore alla soglia di cui alla lettera a) non si applichi la deroga, in ragione della natura e dell’ampiezza delle loro attività, dell’organizzazione interna o, se pertinente, delle caratteristiche del gruppo a cui appartengono. In deroga alla lettera b), l’autorità competente può decidere che ai membri del personale la cui remunerazione variabile annua sia inferiore alla soglia e alla quota di cui alla lettera b), non si applichi la deroga, a causa delle specificità del mercato nazionale in termini di pratiche di remunerazione o della natura delle responsabilità e del profilo professionale di questi membri del personale». 47 Le banche considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) del RMVU (Regolamento UE n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013) sono quelle con un attivo superiore ai 30 milioni di euro, sulle quali insiste la vigilanza prudenziale esercitata direttamente dalla Banca Centrale Europea, al contrario le banche considerate meno significative sono quelle sulle quali insiste la vigilanza prudenziale delle autorità nazionali. 48 Le banche con attivo di bilancio pari o inferiore a 3,5 miliardi di euro, che non siano considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) del RMVU. 49 Le Disposizioni di vigilanza, come detto, si distinguono tra «regole di principio» e «regole di maggior dettaglio»: le prime si rivolgono a tutto il personale, nel quale rientrano i componenti degli organi con funzione di supervisione strategica, gestione e controllo, i dipendenti e i collaboratori della banca, al fine di evitare disparità di trattamento e favorire, attraverso il sistema retributivo, la compartecipazione di tutto il personale ai risultati realizzati dall’ente, a prescindere dalla dimensione o dalla complessità operativa

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teramente la disciplina del Capitolo 2, ma con percentuali, periodi di differimento e di retention almeno pari alla metà di quelli previsti dalla normativa per le banche di maggiori dimensioni e in modo crescente in funzione delle caratteristiche della banca o del gruppo bancario50. Il criterio di proporzionalità tiene, dunque, conto delle caratteristiche e delle dimensioni dell’impresa bancaria ma soprattutto della rischiosità e della complessità dell’attività svolta. Con riferimento a quest’ultimo criterio, diversi sono gli indici che ricorrono per stabilire la complessità dell’ente, la dimensione degli attivi, infatti, rappresenta solo un primo punto di partenza della classificazione delle tre categorie di banche. Possono configurare un esempio di attività svolta da cui discende complessità operativa/organizzativa anche la gestione del risparmio, l’investment banking, la negoziazione per conto proprio o in conto terzi; anche la struttura proprietaria potrebbe, in talune circostanze, configurare condizioni di limitata complessità operativa/organizzativa (es. controllo totalitario da parte di un intermediario estero); un indice ulteriore di complessità potrebbe essere la quotazione su mercati regolamentati. La Banca d’Italia, in ogni caso, si riserva di intervenire per modificare le norme di vigilanza in tema di proporzionalità una volta approvata la proposta di revisione della direttiva formulata dalla Commissione Europea nel novembre del 201651.

dell’ente, sia essa maggiore, intermedia o minore; le seconde invece si indirizzano al “personale più rilevante” e alle retribuzioni da questi percepite, e comprende le categorie di soggetti la cui attività professionale ha o può avere un impatto rilevante sul profilo di rischio della banca o del gruppo bancario, qualora il carattere dimensionale della banca espressamente lo richieda. Sono di principio le regole relative alle modalità di determinazione del bonus pool, quelle riguardanti il riconoscimento, l’erogazione o l’aggiustamento dei compensi variabili. Sono regole di maggior dettaglio le disposizioni relative al limite tra componente fissa e variabile, alcune disposizioni sulla struttura della componente variabile, la disciplina relativa alla politica pensionistica e di fine rapporto. 50 Le banche con attivo di bilancio compreso tra 3,5 e 30 miliardi di euro e le banche che fanno parte di un gruppo bancario con attivo di bilancio consolidato compreso tra 3,5 e 30 miliardi di euro, che non siano considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) del RMVU. 51 V. nt. 46.

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6. La struttura della remunerazione: il bonus cap. La struttura del pacchetto remunerativo, disciplinata nella sezione III del Titolo VI, Capitolo 2, della Circolare di Banca d’Italia, costituisce senz’altro lo strumento più efficace ed immediato per il raggiungimento degli obiettivi della regolamentazione, ma anche l’aspetto più complicato dal punto di vista tecnico, in ragione degli specifici dispositivi adottati e delle misure implementate affinché i sistemi di remunerazione siano coerenti con la sana e prudente gestione degli intermediari. Tale profilo è inoltre quello in cui si percepisce maggiormente la frizione tra l’autonomia privata delle imprese bancarie e l’intervento pubblico del regolatore. Il livello e la composizione, soprattutto variabile, dei compensi, riconosciuti in particolar modo alle figure apicali, dovrebbero essere rimessi della libera contrattazione tra le parti del rapporto lavorativo affinché si giunga alla determinazione del “giusto” corrispettivo. La regolamentazione prudenziale tuttavia impone l’adozione di strumenti tecnici nella composizione della remunerazione affinché il compenso sia: i) in linea con le strategie e gli obiettivi aziendali, gli interessi di lungo periodo e con la cultura d’impresa dell’ente; ii) coerente con le politiche di gestione prudente del rischio; iii) compatibile con i livelli di capitale e liquidità dell’impresa; vi) tale da evitare conflitti di interesse52. Per struttura della remunerazione deve intendersi la composizione del compenso totale che, coerentemente con quanto stabilito dalla Direttiva, è obbligatoriamente distinta tra una componente fissa ed una variabile. Le Disposizioni di vigilanza adottano una definizione di remunerazione volutamente ampia comprendendo ogni forma di pagamento o beneficio, incluse eventuali componenti accessorie (c.d. allowances), corrisposto, direttamente o indirettamente, in contanti, strumenti finanziari o

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In particolare è il par. 16 degli Orientamenti dell’EBA ad indicare le finalità della remunerazione: essa «dovrebbe essere coerente con gli obiettivi dell’attività aziendale e i profili di rischio, con la cultura d’impresa dell’ente e i suoi valori, nonché con i suoi interessi a lungo termine e le misure intese ad evitare i conflitti d’interessi; inoltre, non dovrebbe incoraggiare l’assunzione di rischi eccessivi. Eventuali modifiche a tali obiettivi e misure dovrebbero essere tenute in considerazione nel momento in cui la politica di remunerazione è aggiornata. Gli enti dovrebbero assicurare che le prassi di remunerazione siano allineate alla loro propensione complessiva al rischio, tenendo conto di tutti i tipi di rischi, ivi compresi i rischi di reputazione e quelli derivanti dalla vendita di prodotti inadeguati». L’Autorità Europea specifica altresì che gli enti dovrebbero tenere anche conto degli interessi a lungo termine degli azionisti.

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servizi o beni in natura (fringe benefits), in cambio delle prestazioni di lavoro o dei servizi professionali resi dal personale alla banca o ad altre società del gruppo bancario53. La prima regola enunciata dalle Disposizioni di vigilanza è costituita dall’obbligo di rispettare un opportuno bilanciamento tra la quota fissa e la quota variabile della remunerazione totale; tale bilanciamento è puntualmente determinato e attentamente valutato in relazione alle caratteristiche della banca e delle diverse categorie di personale, in specie di quello maggiormente rilevante. Per componente fissa, l’Autorità di Vigilanza, seguendo gli Orientamenti dell’EBA, intende la remunerazione che ha natura stabile e irrevocabile, determinata e corrisposta sulla base di criteri prestabiliti che devono riflettere i livelli di esperienza professionale e di responsabilità e che non creano incentivi all’assunzione di rischi, non dipendono dalle performance della banca e non hanno natura discrezionale. Le Disposizioni sono state modificate per rendere maggiormente chiari i criteri che gli intermediari devono seguire per distinguere la componente fissa da quella variabile. La componente variabile è invece costituita i) dalla remunerazione il cui riconoscimento o la cui erogazione possono modificarsi in relazione alla performance, comunque misurata (obiettivi di reddito, volumi, etc.), o ad altri parametri (es. periodo di permanenza), esclusi il trattamento di fine rapporto stabilito dalla normativa generale in tema di rapporti di lavoro e l’indennità di mancato preavviso, quando il loro ammontare è determinato secondo quanto stabilito dalla legge e nei limiti da essa previsti; ii) dai benefici pensionistici discrezionali e dagli importi pattuiti tra la banca e il personale in vista o in occasione della conclusione anticipata del rapporto di lavoro o per la cessazione anticipata dalla carica, indipendentemente dal titolo, dalla qualificazione giuridica e dalla motivazione economica per i quali sono riconosciuti; iii) dai c.d. carried interest54; iv) e da ogni altra forma di remunerazione che non sia univocamente qualificabile

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Possono non rilevare i pagamenti o i benefici marginali, accordati al personale su base non discrezionale, che rientrano in una politica generale della banca e che non producono effetti sul piano degli incentivi all’assunzione o al controllo dei rischi. 54 I carried interest sono oggetto di specifiche previsioni nel Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob, come modificato per recepire le regole sulle remunerazioni recate dalla direttiva UCITS V. I “carried interests”, vale a dire le parti di utile di un OICVM o di un FIA percepite dal personale per la gestione dell’OICVM o del FIA stesso, sono considerati anche nella normativa sulla gestione collettiva una forma di remunerazione variabile.

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come remunerazione fissa. La Banca d’Italia precisa che è in ogni caso da considerare variabile la remunerazione per la quale non sia possibile una chiara assegnazione a una delle due componenti. Le Disposizioni precisano che la componente fissa deve essere sufficiente a consentire alla parte variabile di contrarsi sensibilmente – e, in casi estremi, anche azzerarsi – in relazione ai risultati, corretti per i rischi effettivamente conseguiti (fully flexible policy). L’obbligo di bilanciare adeguatamente le due componenti della remunerazione totale sembrerebbe configurato in termini opportunamente elastici, in modo che ciascuna banca vi provveda in base alle proprie caratteristiche e in relazione alle diverse categorie di personale, in particolare al personale più rilevante55. Tuttavia, il rapporto tre le due componenti della remunerazione totale è soggetto ad un limite imperativo di carattere quantitativo, per espressa volontà del legislatore comunitario, il quale impone il rispetto di un rapporto massimo tra le due componenti della remunerazione individuato in 1:1 (one-to-one ratio), ovvero la componente variabile non può superare il 100% della quota fissa. Il limite massimo del 100% è stato recepito dalle disposizioni della Banca d’Italia e rientra tra le misure di maggior dettaglio indirizzate al personale più rilevante, in particolare ai risk takers, come individuati dal relativo regolamento europeo, indipendentemente dal fatto che essi appartengano ad una delle tre macrocategorie di intermediari indicati dalla disciplina della Banca d’Italia56.

55 Nelle Disposizioni si precisa che alcuni criteri da considerare per determinare il rapporto tra la componente variabile e quella fissa sono: il tipo di attività svolta dalla società di appartenenza; le finalità societarie (es. mutualistiche); la qualità dei sistemi di misurazione della performance e di correzione per i rischi; le mansioni e livello gerarchico del personale; i livelli complessivi di patrimonializzazione. Mentre per il personale la cui attività non incide sul profilo di rischio della banca o del gruppo la remunerazione può essere tutta o quasi tutta fissa. 56 La Banca d’Italia riferisce - nella relazione sull’analisi di impatto delle politiche di remunerazione - che, dalla raccolta dati realizzata dalla European Banking Authority in relazione alle remunerazioni pari o superiori a 1 milione di euro (EBA Guidelines On the Data Collection Exercise Regarding High Earners), emerge come il rapporto fra componente variabile e componente fissa in Italia sia, nel campione esaminato, pari al 124%, mentre il rapporto fra componente variabile e remunerazione totale è pari al 55%. Gli altri Paesi europei con sistemi bancari comparabili che partecipano all’esercizio mostrano valori più elevati della componente variabile sia in rapporto alla componente fissa (Francia 375%, Germania 211%, Spagna 137%), sia in rapporto al totale (Francia 79%, Germania 68%, Spagna 58%).

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È prevista, conformemente alle norme europee, la possibilità di innalzare il limite fino al 200% solo se lo statuto lo prevede57, con delibera assembleare, assunta a seguito di una proposta dettagliata e motivata dell’organo con funzione di supervisione strategica, quando l’assemblea è costituita con almeno la metà del capitale sociale e la deliberazione è assunta con il voto favorevole di almeno i 2/3 del capitale sociale rappresentato in assemblea, o subordinatamente quando la deliberazione è assunta con il voto favorevole di almeno 3/4 del capitale rappresentato in assemblea, qualunque sia il capitale sociale con cui l’assemblea è costituita.58 La proposta dell’organo di supervisione deve essere dettagliata e analitica nel suo contenuto e deve esporre le ragioni della richiesta di innalzamento del cap, precisando gli effetti che questo avrà sulla stabilità patrimoniale dell’ente e sulla sua capacità di rispettare le prescrizioni di vigilanza prudenziale. La direttiva, in verità, lasciava liberi gli Stati membri di individuare le modalità ritenute più opportune per l’introduzione della possibilità di aumentare il limite da parte dell’assemblea e la Banca d’Italia ha ritenuto opportuno che sia lo statuto a prevedere se l’aumento del cap sia o

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Da ultimo la Banca d’Italia ha chiarito che è possibile individuare rapporti differenti (entro il limite del 200%) per singoli individui o categorie di personale; in ogni caso, l’individuazione di limiti differenti per soggetti appartenenti a una medesima categoria di personale è eccezionale ed è adeguatamente motivata. Se l’assemblea approva l’aumento del limite, non è necessario negli anni successivi sottoporre all’assemblea una nuova delibera, a condizione che non siano cambiati i presupposti sulla base dei quali l’aumento è stato deliberato, il personale a cui esso si riferisce e la misura stessa del limite. In ogni caso, nella politica di remunerazione è data adeguata informativa sull’aumento del limite precedentemente approvato e sulle motivazioni per cui esso non è sottoposto a nuova delibera assembleare. L’assemblea può comunque deliberare, in qualsiasi momento, sulla riduzione del limite superiore a 1:1, con le maggioranze previste per l’assemblea ordinaria; entro cinque giorni dalla decisione assembleare, la banca informa la Banca Centrale Europea o la Banca d’Italia della deliberazione assunta. 58 Questa previsione della normativa secondaria costituisce diretta attuazione della norma primaria contenuta nell’art. 53 del t.u.b. laddove si stabilisce che «determinate decisioni in materia di remunerazione e di incentivazione siano rimesse alla competenza dell’assemblea dei soci, anche nel modello dualistico di amministrazione e controllo, stabilendo quorum costitutivi e deliberativi anche in deroga alle norme di legge». La funzione della norma primaria sarebbe quella, per altro communente indicata, di dare “copertura costituzionale” alla disposizione regolamentare che, in deroga a quanto stabilito dal codice per le società di diritto comune, esige un rafforzamento dei quorum previsti per l’assemblea chiamata a deliberare sull’aumento del cap.

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meno possibile non solo per garantire adeguata trasparenza su questo aspetto, ma anche per rimettere la decisione finale in ordine al livello dei compensi alle singole società. La previsione del coinvolgimento dei soci riguardo l’innalzamento del cap, da una parte, consente margini adeguati di flessibilità e, dall’altra, conferma, come si vedrà più avanti, il trend normativo, nazionale e comunitario, che vede riconosciuto agli azionisti un maggior ruolo e una maggiore responsabilizzazione, rispetto al passato, nelle decisioni riguardanti gli incentivi e le retribuzioni degli amministratori, decisioni che inevitabilmente incidono sulle aspettative dei soci e sui ritorni attesi dall’ente partecipato. Anche i doveri di informazione e motivazione dell’organo di supervisione strategica mirano a favorire l’assunzione di scelte consapevoli da parte dei soci La scelta regolamentare di riconoscere all’assemblea delle banche la possibilità di elevare tale limite, secondo quanto espressamente chiarito della Banca d’Italia59, rappresenta un contemperamento tra le esigenze - prima sottolineate – di intervento pubblico e di tutela dell’autonomia delle banche nel disegno delle proprie politiche di remunerazioni. L’approvazione assembleare dell’aumento del cap non sostituisce né esclude tuttavia l’intervento dell’Autorità di Vigilanza, anche in questo aspetto della materia. Per aumentare il grado di controllo e supervisione sulle prassi remunerative, è previsto che la proposta di aumento del cap debba essere inviata alla Banca d’Italia, almeno sessanta giorni prima di quello fissato per l’assemblea, corredata da indicazioni sufficienti a dimostrare che i limiti più elevati del cap non pregiudichino il rispetto della normativa prudenziale. Seguirà l’invio di un’ulteriore informativa all’Autorità circa l’esito finale della deliberazione adottata dall’assemblea. Si ritiene che il coinvolgimento in via preventiva dell’Autorità sulla proposta di aumento non escluda un successivo intervento ex post di supervisione e di verifica della coerenza tra la proposta avanzata dall’organo di supervisione strategica e il piano di remunerazione attuato a seguito delle decisione di aumento del limite adottata dai soci. L’informativa da inviare all’Autorità di Vigilanza è inoltre strettamente funzionale all’esercizio dei suoi poteri di intervento, attualmente ampliati dalla nuova formulazione dell’art. 53-bis, co. 1, lett. d), che, come si

59 V. Banca d’Italia, Disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari. Relazione sull’analisi d’impatto, Novembre 2014, reperibile sul sito istituzionale dell’Autorità.

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vedrà, consentono all’Autorità di Vigilanza di fissare limiti al rapporto tra parte fissa e parte variabile, quando necessario per il mantenimento di una solida base patrimoniale della banca. Nella imposizione del cap, emerge il differente orientamento della direttiva rispetto ai Principles del FSB. Questi ultimi adottano un approccio di tipo qualitativo teso a definire un equilibrio tra incentivo al rischio, da un lato, e sana e prudente gestione, dall’altro, prevedendo che «a substantial proportion of compensation should be variable»; anche la precedente direttiva CRD III si limitava ad esigere un «giusto equilibrio» tra remunerazione fissa e variabile, senza fissare alcun limite. L’introduzione del limite fisso, e in parte derogabile, se costituisce sicuramente la maggiore novità delle nuove regole, è nello stesso tempo l’elemento più critico del regime imposto dalla direttiva. È stato correttamente osservato come il limite previsto vada fortemente ad incidere sul principio di sussidiarietà, sia verticale (ovvero nel rapporto tra norme europee e disposizioni nazionali), sia orizzontale (nella relazione tra norme statuali e autonomia privata, in virtù degli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio dell’attività bancaria)60. Il bonus cap rappresenta una precisa scelta di politica legislativa nell’ampio dibattito tra esigenze di equità e distribuzione della ricchezza, da una parte, e ragioni di efficienza e sviluppo delle imprese e dei mercati, dall’altra. La scelta compiuta dal legislatore europeo sembra privilegiare l’istanza equitativa, ed è espressamente volta a contenere i livelli delle remunerazioni, giustificandoli alla luce dei risultati, e ad evitare eccessive assunzioni di rischi. Tuttavia, ad una più attenta analisi, il bonus cap non solo non raggiunge questi obiettivi ma rischia di essere addirittura controproducente. Innanzitutto, da un punto di vista di governance societaria, è da giudicare negativamente la scelta dei regolatori di limitare, attraverso l’imposizione di una norma imperativa, la sfera di autonomia e discrezionalità degli amministratori e dell’assemblea degli azionisti nel bilanciare la componente variabile rispetto alla quota fissa. L’introduzione del limite inderogabile non favorisce l’attivismo degli azionisti, da più parti evocato in questo settore, e irrigidisce troppo la contrattazione tra questi e i manager nel trovare le soluzioni remunerative più appropriate alle caratteristiche dell’impresa.

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Così Marano, Venturi, La regolamentazione, cit., 288.

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Si è, inoltre, osservato come la previsione del cap stia generando, dal punto di vista della stabilità gestionale, un aumento della componente fissa della retribuzione che rappresenta un irrigidimento dei costi, capace di incidere sul piano della stabilità e delle capacità di autofinanziamento dell’impresa (infatti mentre la componente variabile, legata alle performance, nei periodi di risultati negativi determina una riduzione dei costi, il compenso fisso continua ed incidere nella stessa maniera sui costi complessivi dell’impresa)61. Per altro, il limite imposto, nel favorire un aumento della componente fissa, riduce l’incentivo a migliori performances soprattutto nel lungo periodo62. In tal modo il compenso variabile perde la sua naturale vocazione ad essere strumento di selezione delle personalità più capaci nel mercato manageriale; senza trascurare il fatto che l’imposizione del tetto, nei soli paesi membri dell’UE, penalizza, dal punto di vista competitivo, le banche europee: gli amministratori più abili infatti saranno attratti da ordinamenti dove il limite alla remunerazione variabile non è imposto. In una recente analisi è stato dimostrato come il cap, contrariamente a quanto asserito nei testi normativi europei, non serve affatto a ridurre l’eccessiva assunzione dei rischi; mentre il precedente sistema incentivante – caratterizzato da bassi stipendi fissi e opportunità di alti bonus – procurava forti incentivi ad evitare rischi “cattivi” (quelli con valori negativi attesi) ed incoraggiava l’assunzione di rischi “buoni” (quelli con risultati positivi previsti), nel sistema attuale, con stipendi al di sopra dei valori di mercato e bonus limitati, se si corrono rischi “cattivi”, i ma-

61 In questo senso, Ferrarini, Regulating Banker’s Pay in Europe: The Case for Flexibility and Proportionality, in Festschrifr für Theodor Baums, Mohr Siebeck, 2016, p. 413; Cappiello, I compensi variabili, cit., p. 445. 62 I rischi denunciati nel testo si sono dimostrati concreti; diverse analisi empiriche dimostrano come le banche siano state più propense ad aumentare la parte fissa della remunerazione, riducendo la parte variabile collegata alle performance, e abbiano spinto i manager più capaci a scegliere paesi il cui mercato del lavoro manageriale è meno regolamentato di quello europeo, v. Kilhof, EU variable pay regulation is hurting banks’ risk management, World Finance, November 12, 2014, consultabile all’indirizzo http:// www.worldfinance.com, secondo cui «With the CRD IV rules, EU banks are prevented from rewarding such performance, have become less competitive and as a result, are losing some of their best employees in the process. Problematically, it has become apparent that the strongest employees typically have the experience needed in order to take managed risks. With banks losing out on this talent pool, compliance and risk management has become that much harder. And for Europe, this is a concerning development, as the fragile economy by no means is in a state where the best financial heads are expendable».

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nagers non subiscono conseguenze negative, a causa del fatto che la remunerazione percepita è in larga parte fissa; se si perseguono rischi “buoni” che portano ad alti profitti, i managers non sono ricompensati adeguatamente perché la parte variabile della retribuzione è limitata per effetto del cap 63. Ne deriva, pertanto, che il cap non tende a favorire la creazione di valore per l’impresa. Non solo. Il limite quantitativo al rapporto fisso/variabile previsto normativamente si applica a tutte le imprese finanziarie, indipendentemente dalle dimensioni, dalla esposizione concreta ai rischi e dalla rilevanza sistemica. In questo modo, la normativa sposa un approccio di tipo “one-size fits all”, che è proprio il contrario di quanto il legislatore si è prefisso in molte parti della disciplina, ad esempio attraverso l’applicazione del principio di proporzionalità64. Da altra parte, pare che il cap abbia contribuito a favorire anche il problema delle c.d. allowances, ovvero pagamenti di indennità di ruolo e di funzione, tendenzialmente opachi e di dubbia qualificazione ai fini della loro riconducibilità nella componente fissa o variabile della remunerazione. Si tratta di compensi corrisposti dalle banche in modo discrezionale, ritenuti dalle stesse non rientranti nella remunerazione variabile in quanto non misurati sulle performance personali o dell’intera azienda, ma legati alle responsabilità assunte e all’esperienza65. Sul punto, è dovuta intervenire l’EBA con una sua recente Opinion, nella quale l’Autorità chiarisce che per rientrare nella parte fissa della remunerazione, come ritenuto da molti istituti finanziari, le c.d. role–based allowances devono essere predeterminate, chiare e trasparenti, continuative, legate al ruolo specifico e alle responsabilità organizzative di chi le riceve e non devono essere revocabili discrezionalmente o incentivare l’assunzione rischi. Le indennità che non presentano queste caratteristiche non possono essere considerate comprese nella fixed remuneration ma vanno classificate come voci della componente variabile in modo che non favoriscano un sostanziale aggiramento del bonus cap e degli altri requisiti imposti dalla direttiva.

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Così Murphy, Regulating Banking Bonuses in the European Union: A Case Study in Unintended Consequences, in European Financial Management,Vol. 19, Issue 4, September 2013, p. 632. 64 Lo rileva Ferrarini, Regulating Banker’s, cit., p. 414. 65 S. Cappiello, I compensi, cit., p. 446.

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Alla luce di queste considerazioni, il cap non appare affatto una misura utile a disincentivare l’assunzione di rischi e a limitare il livello totale delle remunerazioni, ma non lo è anche alla luce dei poteri di intervento riconosciuti all’Autorità di Vigilanza. L’art. 53 bis, comma 1, lett. d) prevede espressamente che la Banca d’Italia possa adottare, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di una o più banche o dell’intero sistema bancario riguardante «la fissazione di limiti all’importo totale della parte variabile delle remunerazioni nella banca, quando sia necessario per il mantenimento di una solida base patrimoniale»66. Come si evince, si tratta di un potere formulato in maniera alquanto ampia per consentire al supervisore di poter intervenire in due direzioni: non solo sul limite al fisso/variabile adottato da ogni singolo intermediario, ma anche prevedendo una percentuale massima più bassa nei confronti dell’intero sistema bancario, come d’altronde consentito dalla stessa direttiva (art. 94, comma 1, lett. g) punto i). Il potere di intervento riguarda la parte variabile del compenso (per sua natura più rischiosa) ed è giustificato dalla necessità che venga garantita la solidità patrimoniale delle banche, in attuazione dei principi stabiliti dal legislatore comunitario, per i quali la componente variabile è corrisposta o attribuita solo se è sostenibile rispetto alla situazione finanziaria e patrimoniale dell’ente nel suo insieme, consentendo alle Autorità di Vigilanza nazionali di riesaminare i sistemi di retribuzione sulla base delle indicazioni e dei parametri forniti dall’EBA (v. l’Orientamento 323 in materia di remunerazione variabile). L’Autorità di Vigilanza è dunque chiamata a valutare l’adeguatezza delle politiche retributive e delle forme contrattuali impiegate dal singolo intermediario e ad intervenire nella prospettiva di rafforzare il patrimonio della banca, attraverso l’autofinanziamento rea-

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La norma secondaria dispone altresì che la Banca d’Italia, per le banche che beneficiano di eccezionali interventi di sostegno pubblico, può fissare limiti alla remunerazione complessiva degli esponenti aziendali. Con riguardo a questi enti, la direttiva applica i principi di cui all’art. 93, in aggiunta a quelli generali previsti all’articolo 92, paragrafo 2, in base ai quali: a) la remunerazione variabile è rigorosamente limitata a una percentuale dei ricavi netti quando è incompatibile con il mantenimento di una solida base di capitale e con l’uscita tempestiva dal sostegno pubblico; b) le autorità competenti esigono che gli enti ristrutturino le remunerazioni in modo da allinearle a una sana gestione dei rischi e alla crescita a lungo termine, anche, ove appropriato, stabilendo limiti alla remunerazione dei membri dell’organo di gestione dell’ente; c) nessuna componente variabile della remunerazione è erogata ai membri dell’organo di gestione dell’ente, salvo che ciò sia giustificato.

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lizzato tramite un contenimento dei costi. Come noto, la determinazione del compenso fa parte delle scelte gestionali che ciascuna impresa può autonomamente determinare e questo significa che all’Autorità di Vigilanza è precluso un giudizio sull’opportunità delle scelte retributive. Tuttavia, come accade per altre decisioni gestionali, l’Autorità di Vigilanza è tenuta a verificarne la legittimità, ovvero la corrispondenza con principi della vigilanza prudenziale (si pensi alle c.d. misure di conservazione del capitale che consentono alla Banca d’Italia di vietare determinate operazioni, anche di natura societaria, e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio, ex art. 53 bis, comma 1, lett. d). Se, dunque, l’Autorità di Vigilanza è autorizzata ad intervenire sulla singola banca ogni qual volta la remunerazione variabile risulti insostenibile dal punto di vista patrimoniale, non si ravvede la necessità di prevedere ex ante un limite fisso e uguale per tutti, che prescinda dalla situazione patrimoniale dei singoli e che riduca significativamente l’autonomia dei boards e la flessibilità dei pacchetti remunerativi rispetto alle caratteristiche del singolo intermediario. Al fine di raggiungere gli obiettivi della disciplina, piuttosto che intervenire a priori sulla struttura e sul livello dei compensi, pare più efficace agire sugli aspetti della vigilanza prudenziale, come l’adeguatezza del capitale, i presidi organizzativi, il rafforzamento della funzione di risk management, conferendo ai supervisori il potere/dovere generale di monitorare e riesaminare le politiche di remunerazione con correttivi ex post quando la specifica situazione lo richieda.

7. Segue. Gli ulteriori elementi strutturali del compenso variabile. Le Disposizioni della Banca d’Italia, in sintonia con le norme europee, dettano specifiche previsioni riguardanti le modalità di determinazione e attribuzione della componente variabile del compenso che avvengono attraverso un procedimento scandito in più fasi. La prima fase coincide con l’elaborazione preliminare del disegno relativo al piano di remunerazione e incentivazione; segue la valutazione dei risultati di gestione ottenuti; si passa poi alla determinazione dell’ammontare complessivo della remunerazione variabile (bonus pool), da attribuire, corrispondere e differire; ed infine, si procede, se del caso, all’attivazione dei meccanismi di correzione per l’aggiustamento ex post dei compensi. Nella fase di determinazione del bouns pool, la componente variabile va parametrata a indicatori di performance, misurata al netto dei rischi in modo coerente con le misure utilizzate a fini gestionali dalla funzione

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di risk management (si tratta della c.d. fase di ex ante risk adjustment). L’ammontare, dunque, del compenso variabile è calcolato su risultati effettivi e duraturi e sulle prospettive di rischio dell’intermediario. I parametri o gli indicatori, anche di carattere qualitativo, a cui rapportare l’ammontare delle retribuzioni devono essere chiari e predeterminati, ben individuati, oggettivi e di immediata valutazione. Si vuole, in tal senso, evitare che le valutazioni delle performance avvengano sulla base di criteri discrezionali o addirittura arbitrari. In particolare, le retribuzioni incentivanti collegate alla performance aziendale devono essere coerenti con il quadro di riferimento per la determinazione della propensione al rischio (il c.d. Risk Appetite Framework - “RAF”), ovvero con il livello massimo di rischio che la banca può assumere, e con le politiche di governo e di gestione dei rischi. Le performance e i rischi vengono valutati nel corso della normale operatività aziendale e il periodo di valutazione (c.d. accrual period) è almeno annuale o, preferibilmente, pluriennale; esso tiene conto dei livelli delle risorse patrimoniali e della liquidità necessari a fronteggiare le attività intraprese. A conclusione dell’accrual period, il compenso variabile è determinato nel suo ammontare effettivo, ovvero nella misura che è possibile riconoscere al personale in ragione degli indicatori seguiti, purché esso sia in ogni caso sostenibile rispetto alla situazione finanziaria della banca e non debba limitare la sua capacità di mantenere o raggiungere un livello di patrimonializzazione adeguato ai rischi assunti. Avvenuto il riconoscimento della parte variabile della remunerazione, il personale ne acquista la titolarità, ma il pagamento effettivo può avvenire up-front (ovvero immediatamente dopo il processo di determinazione del corrispettivo) o essere differito nel tempo. Il differimento nel tempo della quota variabile del compenso è forse lo strumento più efficace per realizzare l’allineamento degli interessi del personale con quelli di lungo periodo della banca. Il periodo di differimento è tanto più lungo quanto più rilevante è il personale cui viene riconosciuto il compenso. Sulla parte di compenso effettivamente corrisposta e su quella solo riconosciuta (perché ancora soggetta al periodo di differimento) insistono una serie di meccanismi c.d. di ex post risk-adjustment. Si tratta di strumenti di correzione ex post che possono rettificare la valutazione attesa delle performance operata ex ante alla luce dei rischi effettivi assunti o conseguiti, e che possono altresì tener conto di comportamenti individuali non corretti. Queste misure permettono di pervenire ad una riduzione, anche significativa, o all’azzeramento, della remunerazione variabile stessa, in caso di risultati inferiori agli obiettivi prestabiliti o in caso di risultati del tutto negativi. Tali strumenti possono, come detto,

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essere attuati anche a fronte di comportamenti opportunistici, tendenti ad ottenere risultati di breve periodo, non coerenti con le prospettive di reddito della banca, nella convinzione di non poter essere chiamati a doverne rispondere in futuro. I principali strumenti utilizzati a questo scopo sono i meccanismi di malus e le c.d. claw-back clauses67. Gli strumenti di malus operano durante il periodo di differimento, prima che la retribuzione sia corrisposta, consentendo alla banca di ridurre unilateralmente il compenso variabile maturato dall’amministratore e ancora da erogare; esse quindi incidono sulla fase di maturazione della retribuzione differita. Le claw-back clauses sono clausole contrattuali che obbligano l’amministratore a restituire l’incentivo già corrisposto qualora abbia determinato o concorso a determinare: comportamenti da cui è derivata una perdita significativa per la banca; violazioni degli obblighi imposti dalla normativa prudenziale e dalle stesse disposizioni in materia di remunerazioni; violazioni di codici etici o di condotta applicabili alla banca, nei casi da questa stabiliti; comportamenti fraudolenti o di colpa grave a danno della banca. I meccanismi di malus sono applicati, oltre che nelle ipotesi appena citate, anche per tener conto della performance, al netto dei rischi effettivamente assunti o conseguiti, e dell’andamento della situazione patrimoniale e della liquidità. Ciascuna banca fissa nelle proprie politiche di remunerazione la durata minima del periodo nel quale trovano applicazione le clausole di claw back; tale periodo ha inizio dal pagamento della singola quota (up-front o differita) e, almeno con riferimento alla remunerazione del personale più rilevante, non può essere di durata inferiore a 5 anni. Al fine di evitare eventuali elusioni alla disciplina, le Disposizioni avvertono che una eventuale remunerazione volta a compensare il nuovo personale da eventuali contrazioni o azzeramenti di compensi (per effetto di meccanismi di malus o claw back) derivanti da precedenti impieghi diminuisce l’incentivo delle risorse a operare correttamente e rende meno stretto il collegamento dei compensi con la performance e i rischi. Per limitare questo effetto, la remunerazione concordata con la banca – quale nuovo datore di lavoro – non può tenere indenne il nuovo personale da tali contrazioni o azzeramenti, e – fermo restando il caso della remunerazione variabile garantita – è ovviamente soggetta a tutte le regole applicabili in base

67 Per un inquadramento sistematico delle claw back clauses, v. Rugolo, Compensi variabili, claw back clauses e regolamentazione del rapporto di amministrazione, in Riv. dir. soc., 2017, p. 385 ss.

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alle politiche di remunerazione e incentivazione della banca (es. limiti ai compensi; obblighi di differimento e retention; pagamento in strumenti finanziari; malus; claw back, etc.). Le disposizioni sin qui richiamate (in punto di determinazione, di riconoscimento, erogazione e aggiustamento ex post della parte variabile) costituiscono regole di principio, che si applicano a tutto il personale, indipendentemente dal tipo di banca (di minore, intermedia o maggiore grandezza). A queste si aggiungono, come visto, le regole di maggior dettaglio rivolte al personale più rilevante. Tra le stesse, rileva la regola per cui almeno il 50% della parte variabile del compenso deve essere corrisposta in strumenti finanziari, opportunamente bilanciati tra azioni, strumenti ad esse collegati o, per le banche non quotate, strumenti il cui valore riflette il valore economico della società, e, ove possibile, altri strumenti individuati nel regolamento delegato (UE) n. 527 del 12 marzo 2014. Tali misure, diversamente dagli emolumenti monetari, contribuiscono all’allineamento degli interessi e alla creazione di valore nel lungo periodo. Gli strumenti finanziari che fanno parte del pacchetto remunerativo, inoltre, sono soggetti a un divieto di vendita a terzi per un determinato periodo di tempo (il periodo di retention) che non può essere inferiore ad un anno. L’obiettivo della normativa è quello di rafforzare i meccanismi di allineamento della remunerazione variabile del personale più rilevante all’evoluzione del profilo tecnico della banca nel medio-lungo periodo. Nella medesima prospettiva si pone la regola di maggior dettaglio secondo cui la parte variabile della remunerazione per almeno il 40% dell’ammontare complessivo deve essere differita per almeno 3-5 anni, «in modo da tenere conto dell’andamento nel tempo dei rischi assunti dalla banca»68. Se invece la componente variabile è di importo particolarmente elevato, la percentuale da differire non può essere inferiore al 60%. Per i consiglieri esecutivi, il direttore generale, i condirettori generali, i vice direttori generali e altre figure analoghe, i responsabili delle principali aree di business, funzioni aziendali o aree geografiche, non-

68 Per importo di remunerazione variabile particolarmente elevato si intende il minore tra: i) il 25 per cento della remunerazione complessiva media degli high earners italiani, come risultante dal più recente rapporto pubblicato dall’EBA; ii) 10 volte la remunerazione complessiva media dei dipendenti della banca. Le banche indicano nelle proprie politiche di remunerazione il livello di remunerazione variabile che per esse rappresenta un importo particolarmente elevato.

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ché per coloro i quali riportano direttamente agli organi con funzione di supervisione strategica, gestione e controllo, la durata del periodo di differimento non è inferiore a 5 anni e più del 50% della parte differita è composta da strumenti finanziari. Specifiche disposizioni sono dedicate al delicato tema dei golden parachutes, ovvero ai pagamenti o altri benefici attribuiti al personale più rilevante in adempimento di patti stipulati in vista o in occasione della conclusione anticipata del rapporto di lavoro o della cessazione anticipata della carica, «quale che sia il titolo, la qualificazione giuridica e la motivazione economica». Come noto, si tratta di compensi particolarmente eterogenei dal punto di vista della giustificazione causale che dipende dalle diverse circostanze che sono all’origine della cessazione del rapporto tra società e amministratori (revoca senza giusta causa, dimissioni dell’amministratore, patto di non concorrenza, misura difensiva in caso di opa ostile, accordi transattivi). Di talché, essi possono avere natura retributiva, compensativa, afflittiva o indennitaria, ovvero, come rilevato, di vero e proprio spoil system societario69. In quest’ultimo senso, i benefici economici corrisposti in occasione della cessazione della carica rappresentano lo strumento che consente ai soci di assicurarsi la possibilità di revocare in ogni tempo o con la massima libertà gli amministratori non più graditi, e quindi di “comprare” le dimissioni dell’amministratore che la maggioranza vuole allontanare. L’attribuzione di un beneficio economico all’amministratore cessato ha infatti molto spesso la funzione di prevenire possibili liti con la società circa la sussistenza di una giusta causa di revoca o circa il quantum del risarcimento del danno. È indubbio, tuttavia, che questo tipo di compenso possa celare comportamenti opportunistici da parte degli amministratori e diventare strumento di estrazione di benefici privati, proprio perché queste attribuzioni possono non avere uno specifico collegamento con la prestazione lavorativa o con gli obiettivi di performance da raggiungere. Le Disposizioni della Banca d’Italia fissano il fondamentale principio per cui tali compensi rientrano nella struttura della remunerazione variabile e, in quanto tali, devono essere assoggettati a tutte le regole per la stessa previste, quindi collegati alla performance realizzata e ai rischi assunti dalla persona e dalla banca, in modo che non siano, come spesso testimoniato dagli avvenimenti di cronaca, sproporzionati rispet-

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In merito, Chiloiro, I «golden parachutes», tra ibridismo causale e «confusione», in Remunerazioni e manager. Uomini (d’oro) e no, cit., pp. 361 ss.

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to ai risultati conseguiti dai manager beneficiari70. A fronte del disposto contenuto nelle recenti linee guida dell’EBA, anche le Disposizioni di vigilanza chiariscono che tali pagamenti debbano essere inclusi per intero nel calcolo del bonus cap tra componente fissa e variabile della remunerazione; devono essere corrisposti in parte in strumenti finanziari assoggettati a un’adeguata politica di retention; e soggetti a tutti i meccanismi di correzione ex post. Le Disposizioni di vigilanza indicano le circostanze minime che le banche devono tenere in considerazione per il riconoscimento dei golden parachute (cc.dd. failure, identificati negli Orientamenti dell’EBA) nonché altri aspetti definiti alla luce della prassi di mercato italiana e dell’esperienza maturata in sede di supervisione. In questo senso, per assicurare il perseguimento delle finalità prudenziali della disciplina, le Disposizioni di vigilanza sono diventate nel tempo più dettagliate, tenendo conto al contempo dell’autonomia privata e delle norme di legge che regolano la conclusione del rapporto di lavoro. In ogni caso i criteri per la determinazione degli importi eventualmente da accordare a titolo di golden parachutes, i limiti e l’ammontare massimo sono rimessi alla determinazione dell’assemblea. Rientrano nella nozione di golden parachute anche: i) gli importi riconosciuti a titolo di patto di non concorrenza; ii) gli importi riconosciuti nell’ambito di un accordo per la composizione di una controversia attuale o potenziale, qualunque sia la sede in cui esso viene raggiunto. Tali erogazioni, per quanto assoggettate alla disciplina della remunerazione variabile, non rientrano nel calcolo del bonus cap71.

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Specificano le Disposizioni di vigilanza (nt. 15), a titolo esemplificativo, che i golden parachute devono essere: collegati a indicatori quali-quantitativi che riflettano risultati effettivi e duraturi; devono essere corrisposti in parte in strumenti finanziari assoggettati a un’adeguata politica di retention; suddivisi in una quota up-front e in una quota differita per un congruo periodo di tempo; devono essere soggetti a tutti i meccanismi di correzione ex post (es. malus e claw back). 71 Ad eccezione delle seguenti misure: i) con riferimento agli importi riconosciuti a titolo di patto di non concorrenza, per la parte che, per ciascun anno di durata del patto, eccede l’ultima annualità di remunerazione fissa (ad esempio, se il patto ha durata triennale, l’importo riconosciuto sulla base del patto va diviso in tre parti uguali e ciascuna di queste rientra nel calcolo del cap solo per la quota che eccede l’ultima annualità di remunerazione fissa); ii) riguardo agli importi riconosciuti in forza di un accordo tra la banca e il personale per la composizione di una controversia attuale o potenziale, solo se risultano non determinati sulla base di una formula definita ex ante nell’ambito della politica di remunerazione approvata dall’assemblea.

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In chiusura, la Banca d’Italia prevede precise ipotesi in cui la remunerazione non dovrebbe essere ripartita tra quota fissa e quota variabile. Si tratta dei casi riguardanti i consiglieri non esecutivi, il presidente dell’organo con funzioni di supervisione strategica, i componenti dell’organo di controllo e degli organi con funzioni aziendali di controllo. Per i primi, in ragione del ruolo di controllo rivestito e della natura dell’attività di monitoraggio svolta, sono da evitare meccanismi di incentivazione che possano minarne in qualche modo l’indipendenza di giudizio; ove presenti, essi dovrebbero rappresentare comunque una parte non significativa della remunerazione ed essere definiti nel rigoroso rispetto dei criteri indicati dalle stesse disposizioni in merito alla remunerazione variabile. Lo stesso vale per la remunerazione del presidente dell’organo con funzione di supervisione strategica, considerato che tale figura non svolge alcun ruolo esecutivo. Riguardo a quest’ultimo, la normativa di vigilanza precisa innanzitutto che la remunerazione deve essere coerente con il suo specifico ruolo di garanzia e di imparzialità; a questo scopo è previsto che il suo compenso sia determinato ex ante e in ogni caso in misura non superiore alla remunerazione fissa percepita dal vertice dell’organo con funzione di gestione (amministratore delegato, direttore generale, etc.), a meno che non via sia una clausola statutaria che facoltizzi l’assemblea a deliberare, su proposta dell’organo con funzione di supervisione, un compenso più alto, quindi autorizzando il superamento di detto limite. Tali soluzioni, invero, sono del tutto coerenti con quanto accade nelle società quotate. Una remunerazione di tipo variabile, legata ai risultati ottenuti, determinerebbe per questi soggetti, deputati a funzioni di controllo e supervisione, un evidente conflitto di interessi. Basti pensare che il Codice di Autodisciplina delle società quotate conferma che la remunerazione degli amministratori non esecutivi non è - se non per una parte non significativa - legata ai risultati economici conseguiti dall’emittente e gli amministratori non esecutivi non possono essere destinatari di piani di remunerazione basati su azioni, salvo motivata decisione dell’assemblea dei soci. Con un’unica disposizione dedicata all’organo di controllo, la Circolare prescrive che ai componenti di quest’organo deve essere del tutto preclusa ogni forma di remunerazione variabile. Come noto, anche al di fuori del settore bancario, non si registra la presenza di una disciplina organica delle remunerazioni spettanti all’organo di controllo, e

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segnatamente ai sindaci del sistema tradizionale72. Il tema tuttavia non è di poco conto considerate l’attività maggiormente impegnativa e le peculiari funzioni esercitate da quest’organo nella realtà delle imprese sottoposte a vigilanza pubblica, che richiedono adeguata professionalità, competenze e maggiore impegno in forza degli obiettivi della regolamentazione degli intermediari. Anche per quest’organo, si avverte la medesima necessità, vista per l’organo amministrativo, di definire piani di remunerazioni che tengano conto dell’effettivo ruolo svolto dai sindaci nella particolare struttura di governo, finanziaria e patrimoniale delle banche, non soltanto sotto il profilo meramente quantitativo del compenso, ma più ampiamente riguardo ad altri aspetti dei sistemi remunerativi come ai processi decisionali, alla struttura, alla valutazione dei benefici e dei rischi e all’informativa verso l’assemblea e il mercato. Il discorso sulla necessità di garantire l’imparzialità di questi soggetti, la loro autonomia di giudizio e l’efficacia dell’attività di monitoraggio da essi svolta deve fare i conti con la sempre più complessa e articolata attività di supervisione svolta anche dagli amministratori non esecutivi e dagli amministratori indipendenti ai quali si richiedono maggior tempo da profondere, specifiche competenze, limiti all’assunzione degli incarichi. Questa constatazione riporta a galla il problema dell’adeguatezza del compenso di questi soggetti rispetto agli incarichi svolti e la necessità, forse, di implementare per essi sistemi remunerativi ad hoc, anche per valorizzarne i profili reputazionali73. Un’ultima notazione riguarda la disciplina degli effetti in caso di violazione della regolamentazione ora analizzata sul piano strettamente civilistico, tralasciando il regime delle sanzioni amministrative irrogabili dall’Autorità di Vigilanza. Nel dettaglio, la disposizione recentemente introdotta nell’art. 53, co. 4-sexies, t.u.b. prevede la nullità di qualunque patto o clausola contrattuale non conforme alle disposizioni dettate in materia di sistemi di remunerazione e di incentivazione, comprese quelle contenute in atti dell’Unione Europea direttamente applicabili. Il regolatore precisa che trattasi di nullità parziale, limitata alle sole clausole difformi, che non inficia la validità dell’intero contratto e dispone altresì che le disposizioni contenute nelle clausole nulle siano sostituite di dirit-

72 In argomento, Rosa, La remunerazione dei sindaci nella governance delle s.p.a. vigilate: competenze, criteri, interessi, in Riv. soc., 2017, pp. 163 ss. 73 Affronta acutamente il problema Ventoruzzo, Amministratori indipendenti. Ma poveri, reperibile all’indirizzo internet www.lavoce.info.

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to, ove possibile, con «i parametri indicati nelle disposizioni suddette nei valori più prossimi alla pattuizione originaria». La disposizione sancisce il carattere di imperatività e inderogabilità delle norme regolamentari a tutela, da una parte, dell’intermediario, il quale vede garantita la propria stabilità economica e patrimoniale dal rischio di sistemi retributivi non conformi alle regole esaminate, tuttavia modificabili e sostituibili dai parametri regolamentari, anche in un’ottica di conservazione degli atti negoziali e di continuità dei rapporti di lavoro; da altra parte, l’imperatività delle norme è giustificata dal carattere pubblico degli interessi coinvolti nell’esercizio dell’attività bancaria74. Non può, tuttavia, non rilevarsi che la disposizione si presti a una non facile applicazione pratica per la difficoltà di individuare di volta in volta i parametri con cui sostituire le clausole nulle, posto che spesso, come si è visto, la normativa richiama clausole generali piuttosto che prescrizioni puntuali; analogamente non pare del tutto semplice l’individuazione e l’inserimento diretto nei contratti di prescrizioni discendenti da non meglio specificati atti europei75.

8. La remuneration governance delle banche. L’adeguatezza dei sistemi di remunerazione e incentivazione non dipende solo dalla struttura dei compensi che si è descritta, ma anche da altri determinanti fattori, quali il processo di elaborazione, approvazione e controllo della politica retributiva; il che significa individuare i compiti e le responsabilità che gli organi aziendali coinvolti assumono all’interno dell’organizzazione bancaria. La qualità del sistema di governo in materia di compensi favorisce indubbiamente il raggiungimento degli obiettivi della regolamentazione, attraverso una corretta articolazione delle funzioni e delle responsabilità degli organi sociali e un affidabile sistema di controlli interni76.

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Sottolinea come l’eterointegrazione del contratto assicuri un immediato ed effettivo enforcement della regolamentazione, Bentivegna, Un nuovo intervento sulla disciplina delle politiche di remunerazione e incentivazione nelle banche, in Riv. banc., 2016, p. 78. 75 In questo senso, Calandra Buonaura, L’influenza del diritto europeo sulla disciplina bancaria, Relazione a Orizzonti del diritto commerciale. Presentazione del tema del VII Convegno annuale dell’Associazione “L’influenza del diritto europeo sul diritto commerciale: valori, principi, interessi”, Roma, 10 luglio 2015, disponibile sul sito htpp:// orizzontideldiritto commerciale.it/atti-dei-convegni-associativi/2015. 76 In questi termini, D’Ambrosio - Perassi, Il governo societario, cit., p. 210.

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È noto, tuttavia, che il governo societario delle banche si caratterizza per i diversi profili di specialità che presenta rispetto al diritto societario comune, dove le regole di governo sono pressoché tutte finalizzate a dirimere i conflitti tra i soci e gli amministratori o tra la maggioranza azionaria e la minoranza77. In particolare, le norme di vigilanza operano in modo più o meno incisivo una compressione dell’autonomia statutaria, talvolta deviando dai modelli codicistici e dalle varianti presenti nel t.u.f., tanto da far parlare dell’emersione di una speciale gorvernance bancaria78. È anche vero, però, che la normativa bancaria settoriale ha svolto più volte una funzione “anticipatrice” di soluzioni poi adottate dalla disciplina generale delle società o ha costituito un modello per l’interpretazione e l’applicazione di quest’ultima79. Anche sul fronte specifico della governance dei compensi emergono queste caratteristiche, che portano a delineare un sistema autonomo e parzialmente differente rispetto a quello vigente per le società di diritto comune e per le società quotate; le norme infatti appaiono più rigide rispetto al regime codicistico, lasciando meno spazio a quell’autonomia

77 In questo senso Portale, La corporate governance delle società bancarie, in Riv. soc., 2016, p. 49. 78 Sul tema della governance bancaria tra normativa di vigilanza e diritto societario comune, Cera, Autonomia statutaria delle banche e vigilanza, Milano, 2001, pp. 5-13; Costi, Governo delle banche e potere normativo della Banca d’Italia, in Giur. comm., 2008, I, pp. 1270 ss.; Montalenti, Amministrazione e controllo nella società per azioni tra codice civile e ordinamento bancario, in Il governo delle banche, a cura di Principe, Milano, 2015, pp. 53 ss.; Id., La corporate governance bancaria oggi: profili generali, in La banca nel nuovo ordinamento europeo: luci e ombre, a cura di Montalenti e Notari, Milano, 2018, pp. 85 ss.; Calandra Buonaura, La Corporate governance della banche tra autonomia e regolamentazione, ibidem, pp. 167 ss.; Tusini Cottafavi - Capone, Diritto societario e disciplina del settore bancario e finanziario, in Le nuove S.p.A. Le società bancarie, cit., pp. 3 ss.; Capriglione, La governance bancaria tra interessi d’impresa e regole prudenziali (disciplina europea e specificità della normativa italiana), in La riforma societaria alla prova dei suoi primi dieci anni, a cura di De Angelis, Martina e Urbani, Padova, 2015, spec. pp. 91 ss.; Amorosino, La conformazione regolatoria della governance delle società bancarie da parte di Banca d’Italia, in Dir. banc., 2015, I, pp. 209 ss.; De Pra, Il nuovo governo societario delle banche, in Nuove leggi civ., 2015, pp. 525 ss.; Frigeni, La governance bancaria come risk governance: evoluzione della regolamentazione internazionale e trasposizione nell’ordinamento nazionale, in Regole e mercato, a cura di Mancini, Paciello, Santoro, Valensise, Torino, 2016, pp. 50 e ss.; 79 Come sostenuto da Calandra Buonaura, Il ruolo dell’organo di supervisione strategica e dell’organo di gestione nelle Disposizioni di Vigilanza sulla corporate governance e sui sistemi di controllo interno delle banche, in Banca, impresa, soc., 2015, p. 21.

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statutaria tanto valorizzata dalla riforma del diritto societario anche con riferimento alle remunerazioni degli amministratori. La determinazione della politica remunerativa avviene attraverso un processo negoziale tra organi sociali costituito da diversi passaggi procedurali, con il coinvolgimento di competenze specifiche: l’elaborazione complessiva della proposta in seno al consiglio di amministrazione, il parere del comitato remunerazioni, il controllo degli organi aziendali interessati, e l’approvazione finale da parte dei soci. L’intero procedimento porta così all’adozione di un atto finale da alcuni definito come “atto complesso”, pluristrutturato, imputabile sia al consiglio di amministrazione che all’assemblea80. La procedimentalizzazione dei meccanismi di decisione in materia di compensi e soprattutto la ripartizione delle competenze tra più organi societari riescono evidentemente a controbilanciare la discrezionalità degli amministratori, in particolare quelli esecutivi, nella determinazione dei compensi. Nulla di specifico è disposto dalla normativa secondaria per l’organo di controllo, al quale comunque spetta in via ordinaria di vigilare sull’osservanza delle norme di legge, regolamentari, statutarie, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e sull’adeguatezza e sul funzionamento dell’assetto organizzativo, in cui rientra a pieno titolo, anche se non espressamente nominata, la politica sulle remunerazioni. Occorre, altresì ricordare che all’organo di controllo permane lo specifico compito, assegnatogli dal codice civile e valevole per tutte le società azionarie, di esprimere il parere per la determinazione del compenso da attribuire agli amministratori investiti di particolari cariche. La verifica sul rispetto delle specifiche regole in materia di compensi è funzione che comunque spetta all’organo di controllo, anche in ragione del suo ruolo di referente ex art. 52 t.u.b. nei confronti dell’Autorità di Vigilanza, alla quale esso ha il dovere di segnalare le eventuali irregolarità nella gestione e le violazioni delle norme sull’attività bancaria, tra le quali non possono non includersi le norme sulle remunerazioni. Le disposizioni di settore emanate dall’Autorità di Vigilanza per le remunerazioni bancarie vanno opportunamente integrate e coordinate con le norme del t.u.f. e quelle dettate dalla Consob per le società bancarie quotate. Per quel che riguarda invece le disposizioni del codice civile, seppur di portata limitata, l’applicazione alle banche, ovvero a

80

Si esprimono in tal senso Rabitti, Spatola, Sub art. 123–ter, in Il Testo unico della finanza, a cura di Fratini, Gasparri, Torino, 2012, p. 1715.

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tutte le società bancarie, anche non quotate, deve essere saggiata compatibilmente con le soluzioni della normativa di settore di Banca d’Italia. La normativa del codice, come noto, ripartisce le competenze circa la determinazione delle remunerazioni tra l’assemblea e il consiglio di amministrazione, a seconda del modello di amministrazione e controllo prescelto. Come noto, le disposizioni emanate dalla Banca d’Italia non distinguono al loro interno tra i diversi modelli di amministrazione e controllo previsti dal codice civile per le s.p.a., ma si applicano ai tre sistemi societari in via trasversale, operando una distinzione funzionale dei compiti - di supervisione strategica, di gestione e di controllo - da declinare all’interno di ciascun modello per individuare in concreto gli organi a ciò preposti. Si ritiene che la scelta esprima un sostanziale giudizio di neutralità della normativa bancaria sul sistema che le banche possono scegliere. L’obiettivo che ci si prefigge è quello di assicurare una corretta e bilanciata negoziazione della remunerazione onde garantire che questa sia il frutto di un dialogo tra organi sociali, piuttosto che esaurirsi - in piena autoreferenzialità - in seno ai consigli di amministrazione. La ripartizione delle competenze tra assemblea e amministratori, tema cruciale del diritto societario comune, si giustifica alla luce di opposte esigenze. In primo luogo, il sistema retributivo fa parte del sistema di organizzazione della società e costituisce elemento fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi di gestione81, in questo senso esso costituisce un atto di gestione (a valenza organizzativa) che come tale compete al consiglio di amministrazione, almeno per i compensi spettanti agli amministratori esecutivi e ai dirigenti che sono in genere quelli più elevati e sui quali si riscontrano le maggiori criticità (soprattutto in relazione alla componente variabile). Gli amministratori, essendo i soggetti più indicati a valutare l’ampiezza e la difficoltà del compito inerente alla delega, sono in grado di meglio tradurne le ricadute in termini remunerativi. La determinazione delle remunerazioni, «in quanto leva imprenditoriale per indirizzare l’andamento gestionale della banca»82, non potrebbe non rientrare tra le competenze dell’organo gestorio, peraltro nelle società bancarie questa funzione dell’organo di supervisione strategica è ulteriormente giustificata alla luce della specifica competenza del me-

81 V. Campobasso, I compensi degli amministratori di società quotate: l’esperienza italiana, in Riv. soc., 2011, p. 708. 82 Così Marano, Venturi, La regolamentazione, cit., p. 259.

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desimo a stabilire gli obiettivi di rischio e gestire le politiche per il suo governo; non è da trascurare che spetta proprio a quest’organo l’approvazione del Risk Appetite Framework, ossia il quadro di riferimento che definisce la propensione al rischio, all’interno del quale si determinano le politiche di governo e gestione dei rischi. In secondo luogo, l’autodeterminazione del compenso comporta un evidente conflitto di interessi e permette agli amministratori di diventare giudici in causa propria, favorendo il rischio di retribuzioni sproporzionate e ingiustificate, lesive degli interessi dei soci; quest’ultimo aspetto milita evidentemente a favore del coinvolgimento dell’assemblea nel processo di definizione dei compensi. Tuttavia, i detrattori di questa competenza assembleare non mancano di rilevarne l’inopportunità e l’inutilità, tenuto conto dell’apatia che caratterizza l’atteggiamento dei soci, della scarsa competenza degli stessi in una materia ad elevato contenuto tecnico e della mancanza di incentivi a vigilare sul management e a scongiurare il rischio di comportamenti opportunistici. Nonostante tali controindicazioni, il nostro codice ha optato per un sistema “misto”, costituito da norme di natura dispositiva che lasciano un certo margine di manovra all’autonomia statutaria83.

83 Secondo il sistema delineato dal codice civile, l’assemblea ordinaria determina il compenso degli amministratori, se non è stabilito dallo statuto (art. 2364, co. 1, n. 3). Il primo comma dell’art. 2389 c.c. stabilisce che i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea. Invero, sul punto, la norma non è chiarissima nella sua formulazione letterale, ma secondo l’opinione prevalente è da intendersi nel senso che ove i componenti del comitato esecutivo sono nominati con deliberazione del consiglio di amministrazione, a quest’organo spetta pure la competenza a determinare il compenso «all’atto stesso della nomina». Alla competenza generale di cui al co. 1 dell’art. 2389 c.c., si affianca una competenza speciale, comma 3, in quanto spetta al consiglio di amministrazione la determinazione della remunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche, sentito il parere del collegio sindacale. Con la riforma del diritto societario, è stata prevista la possibilità di inserire nello statuto una clausola che assegni all’assemblea la facoltà di determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche. Da una lettura congiunta delle norme citate emerge come il legislatore abbia preferito non disciplinare in modo imperativo le competenze in ordine alle retribuzioni ma abbia preferito lasciare spazio all’autonomia dei soci. Questi potranno propendere, di volta in volta, o a favore di una competenza esclusiva del consiglio in ordine al compenso spettante agli amministratori con particolari cariche – ove lo statuto non contempli il plafond oppure quando l’assemblea rinunci ad avvalersene – o diversamente a favore di una posizione di maggior forza dell’assemblea, qualora quest’ultima stabilisca il limite massimo in conformità di un’apposita clausola statutaria. Quanto descritto vale per il sistema tradizionale e per i membri del consiglio

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Nella sistematica delle remunerazioni bancarie, viene confermata questa ripartizione. Da una parte, l’organo di supervisione strategica riveste un ruolo centrale essendo il primo responsabile della politica di remunerazione: esso elabora, sottopone all’assemblea e riesamina, con periodicità almeno annuale, la politica di remunerazione e incentivazione ed è responsabile della sua corretta attuazione (par. 2, sez. II, cap. 2, tit. IV, Circolare 285/2013). Tuttavia, il compito di assumere le decisioni in ordine alle remunerazioni delle funzioni delegate e del personale con funzioni dirigenziali è da imputarsi all’organo nella sua collegialità, che deve avvalersi del contributo di tutti i suoi componenti, divenendo la sede più congrua dove assumere questo tipo di decisioni che richiedono un confronto dialettico e un bilanciamento di opposti interessi, non altrimenti raggiungibili in assemblea. Il necessario coinvolgimento degli amministratori non esecutivi dovrebbe offrire una maggiore garanzia contro il rischio di decisioni assunte in conflitto di interessi, un conflitto, come visto “immanente” in capo agli esecutivi, competenti ex lege a decidere dei propri emolumenti. L’organo di supervisione strategica, inoltre, è coadiuvato nell’espletamento dei suoi compiti dalle funzioni aziendali competenti per materia (remunerazioni, gestione dei rischi, compliance, risorse umane, pianificazione strategica) affinché esse partecipino al processo di definizione delle politiche di remunerazione e incentivazione, con modalità tali da assicurarne un contributo efficace e preservare l’autonomia di giudizio soprattutto delle funzioni tenute a svolgere controlli ex post.

di amministrazione, nel caso in cui venga adottato il sistema monistico, stante il rinvio operato dall’art. 2409-noviesdecies c.c. Per le società che adottano il sistema dualistico, la competenza ad elaborare le proposte in materia di remunerazione e le relative politiche dovrebbe essere attribuita al consiglio di gestione, nel cui interno verrebbe costituito il comitato per le remunerazioni, mentre l’approvazione della politica di remunerazione dovrebbe spettare al consiglio di sorveglianza, in virtù della sua funzione di indirizzo strategico a carattere programmatico. Per le banche quotate, tuttavia, spetterà all’assemblea esprimere il voto consultivo sulla prima sezione della relazione sulle remunerazioni ex art. 123 ter t.u.f. Nel sistema tradizionale, l’assemblea esprime il voto non vincolante in occasione dell’approvazione del bilancio di esercizio, ciò non è possibile nel sistema duale, ove l’approvazione del bilancio è di competenza del consiglio di sorveglianza. Per espressa previsione delle Disposizioni di Vigilanza, l’assemblea delle banche quotate, che adottano il sistema dualistico, è chiamata anche a determinare la remunerazione per particolari cariche dei componenti del consiglio di sorveglianza.

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Da altra parte, spetta all’assemblea ordinaria, oltre a stabilire i compensi spettanti agli organi dalla stessa nominati, approvare: i) le politiche di remunerazione e incentivazione a favore dei componenti degli organi di supervisione strategica, di gestione, di controllo e di tutto il restante personale; ii) i piani di remunerazione basati su strumenti finanziari, analogamente a quanto avviene per le società quotate ai sensi dell’art. 114 bis T.U.F.84; iii) i criteri per la determinazione degli importi del compenso da eventualmente accordare in caso di conclusione anticipata del rapporto di lavoro o di cessazione anticipata dalla carica, ivi compresi i limiti fissati a detti importi in termini di annualità della remunerazione fissa e l’ammontare massimo che deriva dalla loro applicazione. A ciò va aggiunto, come visto, che, se lo statuto lo prevede, in sede di approvazione delle politiche di remunerazione e incentivazione, l’assemblea delibera sull’eventuale proposta di fissare un limite superiore al rapporto tra la componente variabile e quella fissa della remunerazione sino al 200%. 8.1. Il ruolo dell’assemblea: il say on pay nelle società bancarie. Il voto assembleare sulla politica remunerativa è senz’altro il tratto distintivo più rilevante della disciplina bancaria in punto di governance sui compensi, soprattutto rispetto alla disciplina delle società non finanziarie e, fino a poco tempo fa, delle società quotate. Per queste ultime il nostro sistema aveva adottato l’obbligo da parte del consiglio di amministrazione di sottoporre all’assemblea il remuneration report che, nella sua prima sezione dedicata alla politica di remunerazione, era soggetto al voto consultivo dei soci85. Voto divenuto vincolante a seguito dell’at-

84 L’intervento di soci nell’adozione/ pianificazione dei piani di stock options consente agli stessi di conoscere le caratteristiche del piano e soprattutto di valutare gli effetti che il piano può avere sulla situazione economica della società e sul valore delle azioni, cfr. Prestipino, Sub art. 114 bis, in Commentario T.U.F., a cura di Vella, Torino, 2012, p. 1173. 85 La seconda sezione della relazione sulla remunerazione, sulla quale non è previsto il voto dell’assemblea, fornisce, nominativamente per i componenti degli organi di amministrazione e di controllo, i direttori generali e in forma aggregata per i dirigenti con responsabilità strategiche: a) un’adeguata rappresentazione delle voci che compongono la remunerazione, compresi i trattamenti previsti in caso di cessazione dalla carica o di risoluzione del rapporto di lavoro, evidenziandone la coerenza con la politica della società in materia di remunerazione approvata nell’esercizio precedente; b) l’illustrazione, in maniera analitica, dei compensi corrisposti nell’esercizio di riferimento a qualsiasi

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tuazione nel nostro ordinamento della direttiva UE 2017/828 (c.d. SHRD II) con d.lgs. 10 maggio 2019, n. 49. L’assemblea nelle società bancarie, invece, vede accresciute già da prima le proprie competenze: essa, lungi dall’esprimere un mero “parere” sulla politica remunerativa, è titolare di una prerogativa decisoria ed è chiamata a manifestare la propria volontà sulle politiche di remunerazione attraverso una valutazione di tipo vincolante. Il regolatore bancario ha predisposto un sistema volto prioritariamente a favorire l’allineamento degli interessi tra soci e amministratori attraverso una negoziazione delle remunerazioni bilanciata, in modo che essa sia il frutto di un dialogo tra gli organi sociali, piuttosto che consumarsi all’interno dei consigli di amministrazione, con i conflitti di interesse che inevitabilmente l’autoreferenzialità determina. Funzionali a questo scopo, sono i profili di trasparenza che favoriscono l’esercizio su base informata dei diritti degli azionisti. La completezza e l’intellegibilità delle informazioni oggetto di disclosure favoriscono il monitoraggio degli azionisti e dei potenziali investitori; i due momenti, informativo da un lato, deliberativo dall’altro, seppur distinti, sono difatti tra loro funzionalmente collegati, posto che proprio grazie all’anticipata informazione, il socio è posto in condizione di partecipare consapevolmente alla votazione. Si tratta di presidi che permettono di ridurre quell’“apatia razionale” cui è soggetto il socio, di solito eccepita come ostacolo alla piena efficacia del say on pay. Le Disposizioni di vigilanza, in questo senso, precisano puntualmente che l’informativa sottoposta all’assemblea per l’approvazione mira a far comprendere: le ragioni, le finalità e le modalità di attuazione delle politiche di remunerazione, il controllo svolto sulle medesime, le caratteristiche relative alla struttura dei compensi, la loro coerenza rispetto agli indirizzi e agli obiettivi definiti, la conformità alla normativa applicabile, le eventuali modificazioni rispetto ai sistemi già approvati, l’evoluzione delle dinamiche retributive, anche rispetto al trend del settore, le principali informazioni sul processo di identificazione del personale.

titolo e in qualsiasi forma dalla società e da società controllate o collegate, segnalando le eventuali componenti dei suddetti compensi che sono riferibili ad attività svolte in esercizi precedenti a quello di riferimento ed evidenziando, altresì, i compensi da corrispondere in uno o più esercizi successivi a fronte dell’attività svolta nell’esercizio di riferimento, eventualmente indicando un valore di stima per le componenti non oggettivamente quantificabili nell’esercizio di riferimento.

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Alla luce di quanto detto, determinante appare l’esigenza di definire cosa la disciplina secondaria intenda per “politiche di remunerazione e incentivazione”; da questo dipende infatti la definizione della sfera di competenza dei soci e il margine di manovra spettante all’organo amministrativo. Sicuramente non spetta all’assemblea la determinazione dei singoli emolumenti spettanti agli amministratori e ai dirigenti che invece compete, come detto, all’organo di supervisione strategica. La politica di remunerazione, invece, dovrebbe illustrare, in termini generali, le linee programmatiche e di indirizzo, i criteri e le procedure che gli amministratori seguono nell’implementazione dei sistemi di remunerazione e incentivazione. In particolare, gli azionisti sono chiamati ad approvare: ex post, la coerenza complessiva in fase attuativa del sistema retributivo posto in essere dagli amministratori nel corso dell’esercizio precedente con le linee di politica previamente deliberate dall’assemblea; ed ex ante, le modalità e le metodologie della politiche da adottare nell’esercizio successivo; per cui in via prospettica, l’assemblea delibera le linee generali della politica che sarà attuata nel corso dell’esercizio successivo. L’atto contenente la politica, così, non è direttamente precettivo e provvisto di efficacia immediata: la politica deve trovare attuazione ad opera del management con determinazioni operative (attraverso, ad esempio, la stipulazione dei relativi contratti di lavoro), che mettano in atto le direttive generali tracciate dall’assemblea86.

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Si discute in merito alla natura della deliberazione assembleare richiesta dalla Disposizione di Vigilanza: il regolatore la definisce approvazione e pare che questa sia la qualificazione tecnica esatta, anche alla luce del diritto societario. Come noto, la natura giuridica di una deliberazione è rilevante nella misura in cui tende a «sviluppare vincoli variamente “determinativi” della condotta degli amministratori» (così Maugeri, Le deliberazioni assembleari consultive nella società per azioni, in Società, banche e crisi d’impresa, Liber amicorum Pietro Abbadessa, diretto da Campobasso, Cariello, Guerrera, Sciarrone Alibrandi, Torino, 2014, pp. 819 ss.), la cui discrezionalità è condizionata in misura diversa a seconda del tipo di pronuncia che viene in considerazione. In questa prospettiva, la deliberazione dei soci sulla politica di remunerazione è l’atto finale di una sequenza procedimentale che prende avvio con la proposta degli amministratori e che, in caso positivo, produce l’imputabilità dell’atto alla società con la votazione positiva dei soci. Gli amministratori non possono rimettere in discussione il contenuto dell’atto e modificarlo; una volta intervenuta l’approvazione, non possono che darvi esecuzione. E’ stato, peraltro, osservato che la delibera di approvazione della politica retributiva potrebbe presentare anche dei profili vagamente “autorizzativi”, nella misura in cui decide sulle linee programmatiche che gli amministratori dovranno seguire nell’elaborazione della politica da adottare. Tuttavia come segnala autorevole dottrina, in caso di delibera autorizzativa, gli amministratori restano liberi di dar corso o meno all’atto autorizzato

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Il passaggio assembleare delle politiche di remunerazione nelle società bancarie certamente ha costituito una novità, sia rispetto alla prospettiva di diritto societario comune, dove è assente, sia rispetto alle società quotate dove il voto era meramente consultivo. Il compito richiesto all’assemblea dalla normativa bancaria appare finalizzato a valutare se il sistema di remunerazione sia coerente con i principi della vigilanza prudenziale e quindi sia coerente rispetto alla sana e prudente gestione, in modo da evitare che esso comporti un’eccessiva e incontrollata assunzione di rischi, che è l’obbiettivo principale dell’intera disciplina delle remunerazioni nelle società bancarie. Lo si deduce dalla stessa Circolare che esplicita la ratio della scelta regolamentare: accrescere il grado di consapevolezza e il monitoraggio degli azionisti in merito ai costi complessivi, ai benefici e ai rischi del sistema di remunerazione e incentivazione prescelto. L’assemblea, approvando le politiche remunerative, assume su di sé la (cor)responsabilità della decisione e l’atto che sancisce l’adozione della politica è riconducibile tanto al consiglio di amministrazione quanto all’assemblea dei soci, la quale, diversamente esprimendo un voto negativo, esercita un vero e proprio potere di veto87. In tale contesto, i soci sono chiamati ad operare un controllo sull’operato degli amministratori, utile alla prevenzione dei più volte segnalati conflitti di interesse, ma soprattutto funzionale all’adozione di quelle cautele e misure ritenute indispensabili alla luce dell’attività svolta dalle imprese sottoposte a vigilanza pubblica88.

(si pensi alla delibera che autorizza l’acquisto di azioni proprie ex art. 2357 c.c.); cosa che evidentemente non è possibile per la politica di remunerazione, la quale una volta approvata, dovrà essere eseguita in forza di un obbligo giuridico che ne impone l’attuazione da parte degli amministratori, i quali, pur esercitando un certo margine di discrezionalità nelle scelte operative, devono mantenersi entro il perimetro tracciato dall’assemblea (v. P. Abbadessa, La competenza assembleare in materia di gestione di s.p.a., dal codice alla riforma, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2011, 12). Secondo Chiloiro, La remunerazione degli amministratori delle banche: profili di diritto societario, cit., p. 100, «sarebbe forse più giusto declinare il contenuto della decisione assembleare non tanto in un’approvazione o un’autorizzazione di un atto degli amministratori, quanto, più semplicemente, nella deliberazione di una linea di indirizzo alla quale l’operato degli amministratori dovrà essersi conformato e dovrà conformarsi in futuro». 87 In questi termini, Rabitti, Spatola, Sub art. 123–ter, cit., p. 1715. 88 Così Vitali, Miramonti, La remunerazione degli amministratori nelle società quotate tra equilibrio degli interessi in gioco e assetti proprietari, in Riv. dir. banc., 2014, spec. p. 10.

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Posto che sia questo il ruolo attribuito agli azionisti di società bancarie con l’approvazione della remuneration policy, ci si chiede se residui un margine di valutazione da parte dei soci in ordine al merito delle scelte effettuate o da effettuarsi da parte degli amministratori. In altri termini, occorre considerare se l’assemblea, dopo aver accertato che la politica di remunerazione è conforme alle prescrizioni della vigilanza prudenziale, è allineata ai risultati di gestione, agli interessi di lungo periodo della società e soprattutto è priva di rischi, possa sindacare le determinazioni degli amministratori in ordine, ad esempio, alla quantificazione del compenso, rifiutandosi di approvare compensi ritenuti di per sé troppo elevati. La norma regolamentare infatti richiama, anche se in termini piuttosto sommari, l’attenzione dei soci in ordine ai costi complessivi della politica. Dal punto di vista della vigilanza bancaria, il compenso sarà sproporzionato, se comporterà un’eccessiva assunzione di rischi; ma bisognerebbe capire se l’assemblea delle società bancarie abbia il potere di sindacare la remunerazione solo perché eccessivamente onerosa89. Il rapporto tra soci e amministratori si presta infatti ad essere inquadrato diversamente a seconda della prospettiva dalla quale lo si esamina, ovvero quella della vigilanza regolamentare e quella del diritto societario. A parere di chi scrive, il legislatore bancario ha confermato, in termini forse anche più chiari di quelli utilizzati nel codice, che la competenza a decidere sulle remunerazioni nelle banche spetta congiuntamente all’assemblea e all’organo di supervisione strategica, delimitandone le rispettive sfere di incidenza: mentre alla prima è affidato il compito di esprimersi su un atto programmatico e di indirizzo che descriva i principi e i criteri direttivi della politica, al secondo competono le scelte operative, come la quantificazione precisa dei compensi nei confronti dei singoli amministratori e dirigenti, analogamente a quanto disposto dall’art. 2389, co. 3, c.c. Certo, con riferimento a quest’ultima previsione, resta ferma, anche per le banche, la possibilità di inserire nello statuto una clausola che facoltizzi l’assemblea a fissare un plafond complessivo per tutte le remunerazioni, comprese quelle degli amministratori investiti di particolari cariche. Il regolatore bancario intravede nell’intervento dei soci un ulteriore presidio di controllo affinché il sistema di remunerazione non impedisca

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Il problema è affrontato diffusamente da Chiloiro, La remunerazione, cit., pp. 96-

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all’impresa bancaria di raggiungere risultati effettivi e duraturi. Al di là di queste valutazioni, sembrerebbe che il consiglio di amministrazione sia, in teoria, libero di articolare la proposta gestoria e soprattutto conservi una certa discrezionalità anche nell’attuazione concreta della politica, beninteso, entro i confini tracciati dal consenso assembleare. Tuttavia, occorre tenere in conto che la discrezionalità degli amministratori in questo tipo di scelte è non di poco limitata dalle prescrizioni tecniche vincolanti sulla struttura del compenso, prima fra tutte la previsione del cap sulla componente variabile della remunerazione. Inoltre, la proposta di elevare tale limite deve essere sottoposta all’approvazione dell’assemblea che delibera con maggioranze rafforzate, e, comunque, solo quando vi sia una previsione statutaria che lo consenta. Alla luce di questi elementi, non pare di poter affermare che i soci non entrino del tutto nel merito della proposta, almeno per ciò che riguarda la quantificazione dei compensi; peraltro le norme regolamentari non vincolano in alcun modo la discrezionalità dell’assemblea nel decidere se innalzare il cap, sempre che questo avvenga quando le condizioni patrimoniali della banca lo permettano, senza comportare rischi non tollerabili. Circa gli effetti di un eventuale diniego da parte dell’assemblea in merito all’approvazione della politica, è chiaro che un voto negativo dei soci impedirà agli amministratori di dare seguito alla proposta. L’assemblea potrà motivare il diniego e suggerire agli amministratori le modifiche da apportare, ma non potrà essa stessa modificare la proposta che deve necessariamente ripassare dall’organo di supervisione strategica, cui spetta di competenza. Un’ultima notazione riguarda l’influenza che la struttura proprietaria delle banche italiane può assumere rispetto al voto sulle politiche di remunerazione. C’è infatti da considerare che le banche del nostro Paese hanno un assetto societario altamente concentrato e in un simile contesto diventa difficile che gli azionisti esprimano il proprio dissenso rispetto a decisioni assunte da amministratori espressione diretta degli stessi soci di comando; più facilmente avviene che questi ultimi, in assemblea, si limitino a recepire o “ratificare” scelte concordate al di fuori del consesso assembleare. Tuttavia, il voto assembleare può essere utile a soddisfare le esigenze di tutela degli azionisti esterni, che non concorrendo nell’approvazione delle decisioni assembleari, sono messi in condizione di conoscere le pratiche di remunerazione e, se del caso, davanti a comportamenti opportunistici dei soci di controllo e degli amministratori,

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esprimere il loro dissenso attraverso l’esercizio dell’exit90. In un’indagine svolta dalla Consob, in merito ai risultati riscontrati nell’applicazione del meccanismo del voto consultivo sulle politiche di remunerazione da parte delle società quotate italiane91, è stato evidenziato che nelle imprese finanziarie, in cui il voto è vincolante, il dissenso degli azionisti è minore rispetto alle società in cui il voto è meramente consultivo. Questo avviene, presumibilmente, perché la vincolatività del voto in queste specifiche realtà riduce la libertà di espressione dei soci attraverso la votazione assembleare, mentre in caso di voto non vincolante, gli azionisti tendono a sentirsi più liberi di manifestare il proprio dissenso.

9. Considerazioni conclusive. La regolamentazione sulle remunerazioni degli esponenti bancari che si è fino a qui illustrata presenta delle importanti ricadute sul piano generale della tecnica normativa, degli interessi coinvolti nell’esercizio dell’impresa bancaria e della disciplina in materia di società quotate, anche alla luce dei recenti interventi sul tema da parte del legislatore europeo. Quanto al primo aspetto, si è visto che il carattere a tratti rigido e dettagliato della disciplina è sicuramente dipeso dalla necessità di un intervento emergenziale per reagire agli eccessi e alle disfunzioni emerse a seguito della crisi finanziaria. Allo stato, tuttavia si scorge nella normativa speciale dettata dalla Banca d’Italia il tentativo di realizzare un bilanciamento tra disposizioni vincolanti, soft law, autonomia delle singole istituzioni e vigilanza, in un contesto, quello delle retribuzioni, in cui la flessibilità è un valore da preservare a fronte della specificità delle singole istituzioni, della varietà dei modelli e della diversa taglia dimensionale e operativa degli enti creditizi92. Sul piano degli interessi da tutelare, il tema delle remunerazioni è uno degli ambiti dove risulta ben rappresentato quel coacervo di interes-

90 Lo mette in evidenza Bentivegna, La relazione sulle remunerazioni degli amministratori di società quotate ed il nuovo art. 123- ter T.U.F., in Riv. dir. imp., 2012, p. 295. 91 Belcredi – Bozzi – Ciavarella - Novembre, Say-on-pay in a context of concentrated ownership. Evidence from Italy, in Quaderni di finanza Consob, n. 76, febbraio 2014, consultabile sul sito www.consob.it. 92 V. Cera, Il buon governo delle banche tra autonomia private e vigilanze pubbliche, in Riv. soc., 2015, pp. 950 ss.

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si pubblici e privati che ruota introno all’impresa bancaria. Il problema del compenso dei managers si sposta, dalla dimensione interna degli assetti organizzativi e dei rapporti endosocietari, all’esterno, sul piano della vigilanza prudenziale, attese le sue ripercussioni sui profili patrimoniali e sui livelli di rischio della singola banca che inevitabilmente pongono esigenze di tutela di interessi terzi. La remunerazione non è più solo uno strumento per allineare gli interessi degli amministratori con quelli degli azionisti ma diventa uno dei meccanismi volti ad assicurare la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria. Nelle società bancarie, alla luce dei profili di specialità che si sono segnalati, si assiste ad una «perdita della centralità dell’interesse dei soci» nell’agire degli amministratori, posto che la sana e prudente gestione diviene una regola di comportamento e di giudizio93 o come efficacemente osservato «il nuovo paradigma per la concretizzazione dell’interesse sociale»94. La complessità degli interessi che ruota intorno all’impresa bancaria e che si impone agli amministratori nell’esercizio della funzione gestoria, oltre che ridimensionare le prerogative dei soci, determina una maggiore rigidità delle regole di governance, rispetto a quelle vigenti nelle società di diritto comune, e non solo rispetto ai sistemi di remunerazione e incentivazione. Gli interessi dei soci nella società bancaria, seppur recessivi rispetto al principio della sana e prudente gestione, non risultano tuttavia privi di considerazione e di tutela, lo si è sottolineato rispetto all’istituto del say on pay. Pur avendo presenti le osservazioni fatte in ordine ai limiti concreti che questo voto può avere rispetto allo specifico assetto proprietario della società, il coinvolgimento dei soci ha senz’altro il pregio di garantire, attraverso una maggiore trasparenza e informazione, non solo quantitativa ma anche qualitativa, una più consapevole partecipazione dei soci a decisioni che inevitabilmente li riguardano, in quanto “finanziatori” dell’impresa95. Ciò tuttavia non sembra essere incoerente con l’impianto teorico e sistematico del nostro codice che nell’art. 2389

93 Cfr. Angelici, Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli. Introduzione, in Dir. banc., 2016, p. 761. 94 In questi termini Guizzi, Appunti in tema di interesse sociale e governance nelle società bancarie, in Riv. soc., 2017, pp. 248-256, spec. p. 253. 95 Preferisce parlare di soci in termini di “finanziatori” piuttosto che di “proprietari” nelle società bancarie, Ferri, La posizione dei soci di società bancaria, ivi, 2016, p. 814.

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c.c,, come visto, ripartisce tale competenza tra soci e amministratori, peraltro con norme dal carattere dispositivo96. Con riferimento alle società quotate, come visto, il voto degli azionisti sulle politiche di remunerazione era di tipo solo consultivo, ma in realtà le ragioni di questa diversa scelta rispetto alle altre società vigilate non apparivano del tutto chiare, posto che anche per le quotate si presenta il problema della tutela di interessi diffusi e della necessità di una maggiore partecipazione dei soci. La soluzione, come detto, è stata rivista, portando il tema delle remunerazioni nuovamente alla ribalta anche al di fuori del settore bancario. In questa sede, ci si può solo limitare a segnalare che la Direttiva (UE) 2017/828, recepita con d.lgs. 10 maggio 2019, n. 49, riguardante l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti di società quotate (long-term shareholder engagement), introduce essenzialmente due importanti novità. Innanzitutto, il legislatore comunitario prevede il voto vincolante dell’assemblea dei soci sulla politica di remunerazione degli amministratori come regola di default, con la conseguenza che le società emittenti possono remunerare gli amministratori solo sulla base della politica approvata dagli azionisti (art. 9 bis)97. La direttiva, nondimeno, lascia la possibilità agli Stati membri di optare per un voto di natura consultiva, con l’importante precisazione che in caso di mancata approvazione della politica di remunerazione proposta da parte dell’assemblea, gli amministratori sono tenuti a sottoporre alla votazione degli azionisti una politica rivista in occasione della successiva assemblea generale. È immediatamente evidente l’intensificazione degli effetti di questo tipo di voto consultivo: c’è un obbligo giuridico di riesaminare la politiche alla luce dei rilievi sollevati in assemblea, anche qualora il voto da questa espresso non sia di tipo vincolante.

96 V. Bruno, Bianconi, Il voto assembleare sulle politiche di remunerazione degli amministratori: procedura, risultati, prospettive, in Riv. soc., 2014, p. 1302. 97 La direttiva precisa che qualora non sia stata approvata una politica di remunerazione e l’assemblea generale non approvi la politica proposta, la società può continuare a pagare agli amministratori una remunerazione conforme alle prassi vigenti e sottopone una politica rivista all’approvazione della successiva assemblea generale. Qualora esista una politica di remunerazione approvata e l’assemblea generale non approvi la nuova politica proposta, la società continua a pagare agli amministratori una remunerazione conforme alla politica esistente approvata e sottopone una politica rivista all’approvazione della successiva assemblea generale.

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La seconda novità, aspetto del tutto inedito, attiene alla relazione sulla remunerazione, ovvero al «documento che in forma chiara e comprensibile fornisce un quadro completo della remunerazione, compresi tutti i benefici in qualsiasi forma, riconosciuta o dovuta nel corso dell’ultimo esercizio ai singoli amministratori» (art. 9 ter). La direttiva dispone che gli Stati membri assicurino che l’assemblea abbia il diritto di esprimere un voto di natura consultiva su tale relazione con riferimento alla remunerazione dell’ultimo esercizio interessato e la società deve spiegare nella relazione successiva come ha tenuto conto del voto dell’assemblea. La direttiva, dunque, si muove nella prospettiva di un rafforzamento del say on pay, al fine di realizzare un maggior engagement dei soci su aspetti che hanno un’influenza rilevante sulla creazione di valore sostenibile nel medio-lungo termine e che contribuiscono a garantire una maggiore equità dei processi decisionali98. Per buona parte, la disciplina delle banche già contribuisce al raggiungimento di questi obiettivi e, pur nella consapevolezza delle sue specificità, ha, ancora una volta, fatto da “apripista” per soluzioni adottate al di fuori del suo specifico settore.

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Cfr. da ultimo, Bossetti, La corporate governance nell’Unione Europea: interventi di armonizzazione e best practices, Torino, 2017, p. 12.

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Conti di risparmio e direttiva UE sui servizi di pagamento Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Quinta sezione, sentenza 4 ottobre 2018, causa C-191/17; Pres. Levits, Rel. Vilaça; BundesKammer für Arbeiter und Angestellte (avv. Reicholf) c. ING-DiBa Diretktbank Austria (avv. Zahradnik) Contratti bancari – Servizi di pagamento – Conti di pagamento – Conti di risparmio – Conti di risparmio che consentono di effettuare operazioni di prelievo e pagamento solo attraverso altro conto di appoggio – Qualificabilità come conti di pagamento – Possibilità – Esclusione (Direttiva 2007/64/CE, Art. 4, Punto 14) I conti di risparmio che consentono di effettuare operazioni di versamento e di prelievo solo attraverso un altro conto corrente di appoggio non possono essere qualificati come conti di pagamento ai sensi e per gli effetti della direttiva 2007/64/CE sui servizi di pagamento. (1)

(Omissis) 1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 4, punto 14, della direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, che abroga la direttiva 97/5/CE (GU 2007, L 319, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva sui servizi di pagamento»). 2. Tale domanda è stata presentata nel contesto di una controversia tra la Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte (Camera federale degli

operai e degli impiegati), legittimata ad agire per far valere gli interessi dei consumatori, e la ING-DiBa Direktbank AustriaNiederlassung der INGDiBa AG (in prosieguo: la «ING-DiBa Direktbank Austria»), relativa alla liceità delle condizioni generali di contratto proposte da tale banca. Contesto normativo Diritto dell’Unione La direttiva sui servizi di pagamento 3. L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva sui servizi di pagamento dispone che «la (…) direttiva [in parola] si applica ai servizi di pagamento prestati nella Comunità».

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4. L’articolo 4 di tale direttiva dispone quanto segue: «Ai fini della presente direttiva, si intende per: (…) 3) “servizi di pagamento”: le attività commerciali elencate nell’allegato; (…) 5) “operazione di pagamento”: l’atto, disposto dal pagatore o dal beneficiario, di collocare, trasferire o ritirare fondi, indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra il pagatore [e] il beneficiario; (…) 14) “conto di pagamento”: un conto detenuto a nome di uno o più utenti di servizi di pagamento che è utilizzato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». (…)». 5. L’allegato di tale direttiva qualifica come «servizi di pagamento», segnatamente: «2. Servizi che permettono prelievi in contante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento. 3. Esecuzione di ordini di pagamento, incluso il trasferimento di fondi, su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utente o presso un altro prestatore di servizi di pagamento: – esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum, – esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi, – esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti». La direttiva sui conti di pagamento 6. Ai sensi del considerando 12 della direttiva 2014/92/UE del Parla-

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mento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base (GU 2014, L 257, p. 214; in prosieguo: la «direttiva sui conti di pagamento»): «Le disposizioni della presente direttiva concernenti la comparabilità delle spese e il trasferimento del conto di pagamento dovrebbero applicarsi a tutti i prestatori di servizi di pagamento, come definiti nella direttiva [sui servizi di pagamento]. (…) Tutte le disposizioni della presente direttiva dovrebbero riguardare i conti di pagamento mediante i quali i consumatori sono in grado di effettuare le seguenti operazioni: deposito di fondi e prelievo di contante, ed esecuzione e ricezione di operazioni di pagamento a favore di terzi e da questi ultimi, compresa l’esecuzione di bonifici. (…) [I] n linea di principio dovrebbero essere esclusi dall’ambito di applicazione della presente direttiva i conti quali i conti di risparmio. (…) Tuttavia, se tali conti venissero utilizzati per operazioni di pagamento ordinarie e comprendessero tutte le funzioni sopra elencate, essi rientrerebbero nell’ambito di applicazione della presente direttiva (…)». 7. Il considerando 14 di tale direttiva enuncia quanto segue: «Le definizioni contenute nella presente direttiva dovrebbero essere in linea, per quanto possibile, con quelle contenute in altri atti legislativi dell’Unione, in particolare con quelle contenute nella direttiva [sui servizi di pagamento]».


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8. L’articolo 1, paragrafo 6, della direttiva sui conti di pagamento prevede quanto segue: «La presente direttiva si applica ai conti di pagamento mediante i quali i consumatori sono in grado almeno di: a) depositare fondi su un conto di pagamento; b) prelevare contante da un conto di pagamento; c) eseguire e ricevere operazioni di pagamento, compresi i bonifici, a favore di terzi e da questi ultimi (…)». 9. L’articolo 2 della direttiva in parola stabilisce che: «Ai fini della presente direttiva, si intende per: (…) 3. “conto di pagamento” un conto detenuto in nome di uno o più consumatori usato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento; (…)». Il diritto austriaco 10. L’articolo 3 dello Zahlungsdienstegesetz (legge sui servizi di pagamento) (BGBl. I, 66/2009; in prosieguo: lo «ZaDiG»), così dispone: «Ai sensi della presente legge, si intende per: (…) 5 “operazione di pagamento”: l’atto, disposto dal pagatore o dal beneficiario, di collocare, trasferire o ritirare fondi, indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra il pagatore e il beneficiario; 6 “sistema di pagamento”: un sistema di trasferimento di fondi regolato da disposizioni formali e standardizzate e regole comuni per il trattamento, la compensazione o il regolamento di operazioni di pagamento; 7 “pagatore”: una persona titolare di un conto di pagamento, che dispo-

ne o autorizza l’ordine di pagamento a partire da detto conto di pagamento o, in mancanza di conto di pagamento, una persona che impartisce l’ordine di pagamento; 8 “beneficiario”: una persona che è il destinatario previsto dei fondi che sono stati oggetto di un’operazione di pagamento; (…) 10. “utente di servizi di pagamento”: una persona che si avvale di un servizio di pagamento in qualità di pagatore o di beneficiario o di entrambi; 11 “consumatore”: una persona fisica che, nei contratti di servizi di pagamento contemplati dalla presente legge, agisce per scopi estranei alla sua attività commerciale o professionale; (…) 13 “conto di pagamento” un conto detenuto a nome di uno o più utilizzatori di servizi di pagamento e utilizzato per l’esecuzione di operazioni di pagamento». 11. L’articolo 31 del Bankwesengesetz (legge sul settore bancario) (BGBl. 532/1993), nella sua versione pubblicata nel BGBl. I, 118/2016, prevede quanto segue: «1) I depositi a fini di risparmio sono fondi depositati presso istituti di credito non in vista del loro utilizzo nell’ambito di transazioni di pagamento, ma ai fini del loro collocamento. Essi, come tali, possono essere ritirati soltanto contro l’esibizione di specifici documenti (libretto di risparmio) (…)». Procedimento principale e questione pregiudiziale 12. La ING-DiBa Direktbank Austria propone conti di risparmio on-

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line a partire dai quali i suoi clienti possono effettuare, mediante un servizio bancario telematico, versamenti e prelievi. Detti bonifici devono sempre essere effettuati con l’intermediazione di conti di appoggio aperti a nome dei clienti stessi. Tali conti di appoggio sono conti correnti che detti clienti possono detenere anche in una banca diversa dalla ING-DiBa Direktbank Austria. Il giudice del rinvio precisa che i trasferimenti effettuati a partire dai conti di risparmio on-line o verso i medesimi non implicano il ricorso a un prestatore di servizi di pagamento. 13. I conti di risparmio on-line di cui trattasi sono conti disponibili a vista, cioè i clienti possono disporre delle somme versate su di essi in qualsiasi momento senza che ne derivi una ripercussione negativa sugli interessi prodotti. 14. La controversia principale attiene alle clausole che compaiono nelle condizioni generali di contratto utilizzate dalla ING-DiBa Direktbank Austria. Secondo la Camera federale degli operai e degli impiegati, alcune di queste clausole sono contrarie allo ZaDiG, che costituisce la trasposizione nel diritto interno della direttiva sui servizi di pagamento, e sono pertanto illecite. 15. L’Oberster Gerichtshof (Corte suprema, Austria), giudice del rinvio, ritiene che, per pronunciarsi sulla liceità di tali clausole, occorra previamente affrontare la questione dell’applicabilità dello ZaDiG. In detto contesto, tale giudice deve stabilire se i conti di risparmio on-line, del tipo proposto dalla ING-DiBa Direktbank Austria, debbano essere qualificati come «conti di pagamento» ai sensi di

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tale direttiva, e se, pertanto, essi rientrino nell’ambito d’applicazione di quest’ultima. 16. Il giudice del rinvio afferma segnatamente che la designazione con i termini «conto di risparmio» non consente di escludere detto conto dall’ambito d’applicazione della direttiva sui servizi di pagamento. Esso si chiede, tuttavia, se si possa ritenere che i conti di risparmio on-line, tenuto conto della loro destinazione, consistente nel deposito di risparmi, servano alla realizzazione di transazioni di pagamento. 17. Alla luce di tali considerazioni, l’Oberster Gerichtshof (Corte suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se l’articolo 4, punto 14, della direttiva [sui servizi di pagamento] debba essere interpretato nel senso che un conto di risparmio online, sul quale il singolo cliente (a cadenza giornaliera e praticamente senza l’intervento della banca) attraverso il servizio bancario telematico possa effettuare versamenti e prelievi su un conto di appoggio dal medesimo detenuto (un conto corrente in Austria), debba essere parimenti ricompreso nella nozione di “conto di pagamento” ricadendo, pertanto, nella sfera di applicazione della direttiva». Sulla questione pregiudiziale 18. Con la sua questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 4, punto 14, della direttiva sui servizi di pagamento debba essere interpretato nel senso che nella nozione di «conto di pagamento» rientra un conto di risparmio che permette di esigere a vista somme depositate e a partire del quale le operazioni di


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versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente denominato «conto di appoggio». 19. In limine, va indicato che, ai fini dell’interpretazione di una norma del diritto dell’Unione, si deve tener conto non soltanto della lettera della stessa, ma anche del suo contesto e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (sentenze del 2 settembre 2015, Surmačs, C127/14, EU:C:2015:522, punto 28, e del 16 novembre 2016, DHL Express (Austria), C2/15, EU:C:2016:880, punto 19). 20. Occorre quindi ricordare, in primo luogo, che l’articolo 4, punto 14, della direttiva sui servizi di pagamento definisce il conto di pagamento come «un conto detenuto a nome di uno o più utenti di servizi di pagamento che è utilizzato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». 21. L’operazione di pagamento è definita all’articolo 4, punto 5, di tale direttiva come «l’atto, disposto dal pagatore o dal beneficiario, di depositare, trasferire o ritirare fondi, indipendentemente da ogni obbligazione sottostante tra il pagatore e il beneficiario». 22. Secondo l’articolo 4, punto 3, di tale direttiva, per servizi di pagamento si intendono «le attività commerciali elencate nell’allegato» della medesima direttiva. In particolare, il punto 2 di tale allegato riporta che costituiscono servizi di pagamento i «servizi che permettono prelievi in contante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento». Del pari, il punto 3 di detto allegato ricomprende nei servizi di pagamento l’esecuzione di operazioni di pagamento, incluso il trasferimento di fondi su un conto di

pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utente o presso un altro prestatore di servizi di pagamento, il che include l’esecuzione di prelievi, di operazioni di pagamento mediante carta e i bonifici. 23. Come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 28, 30 e 36 delle sue conclusioni, il testo di tali disposizioni non consente di per sé di stabilire se la nozione di «conto di pagamento» includa o meno conti come quelli di cui trattasi nel procedimento principale, per i quali, al fine di realizzare un’operazione di pagamento, è necessaria una tappa intermedia che implica il trasferimento di fondi tra il conto di risparmio e il conto corrente dell’utente. 24. Alla luce di tale constatazione, occorre, in secondo luogo, esaminare il contesto normativo in cui la direttiva sui servizi di pagamento si inscrive. 25. A tal fine, va in particolare presa in considerazione la direttiva sui conti di pagamento. 26. Infatti, sebbene tale direttiva non sia direttamente applicabile alla controversia principale, nel suo considerando 12 si dichiara che essa deve essere applicata all’insieme dei prestatori di servizi di pagamento, ai sensi della direttiva sui servizi di pagamento. Al considerando 14 della direttiva sui conti di pagamento viene precisato anche che le definizioni che figurano in quest’ultima dovrebbero essere, nei limiti del possibile, allineate a quelle contenute in altri atti normativi dell’Unione, in particolare a quelle contenute nella direttiva sui servizi di pagamento. 27. Riguardo alla nozione di «conto di pagamento», va osservato anzitutto che la definizione prevista all’articolo

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2, punto 3, della direttiva sui conti di pagamento è quasi identica a quella che compare nell’articolo 4, punto 14, della direttiva sui servizi di pagamento. Infatti, come osservato dall’avvocato generale al paragrafo 54 delle sue conclusioni, l’unica differenza, attinente al fatto che il termine «consumatore» utilizzato nella prima di tali definizioni è sostituito dall’espressione «utente di servizi di pagamento» nella seconda di esse, traduce non una differenza sostanziale nella definizione di tale nozione, ma, piuttosto, una differenza nell’oggetto delle due direttive di cui trattasi. 28. Si deve poi sottolineare che nel considerando 12 della direttiva sui conti di pagamento viene in particolare dichiarato che i conti di risparmio sono esclusi dall’ambito d’applicazione di tale direttiva dato che non costituiscono conti di pagamento, a meno che non possano essere utilizzati per eseguire operazioni di pagamento a cadenza giornaliera. 29. In realtà, anche se i conti di risparmio non ricadono, in linea di principio, nella definizione della nozione di «conto di pagamento», tale esclusione non è tuttavia assoluta. Da tale considerando 12 deriva infatti, da un lato, che la semplice denominazione di un conto come «conto di risparmio» non è di per sé sufficiente ad escludere la qualificazione di «conto di pagamento» e, dall’altro, che il criterio determinante ai fini di quest’ultima qualificazione risiede nella capacità di eseguire operazioni di pagamento a cadenza giornaliera a partire da tale conto. 30. Al riguardo, occorre prendere in considerazione l’articolo 1, paragrafo 6, della direttiva sui conti di pagamento, che prevede che quest’ultima

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si applichi ai conti di pagamento che consentono ai consumatori di effettuare quanto meno le operazioni che consistono nel versamento di fondi su un conto di pagamento, nei prelievi in contante su un conto di pagamento e nell’eseguire e ricevere operazioni di pagamento, compresi i bonifici, a favore di terzi e da questi ultimi. 31. Ne deriva che la possibilità di effettuare a partire da un conto operazioni di pagamento a favore di terzi e da questi ultimi rappresenta un elemento costitutivo della nozione di «conto di pagamento». 32. Un conto a partire dal quale siffatte operazioni di pagamento non possono essere effettuate direttamente ma per l’effettuazione delle quali occorre avvalersi di un conto d’appoggio non può dunque essere considerato «conto di pagamento» ai sensi della direttiva sui conti di pagamento e, quindi, ai sensi della direttiva sui servizi di pagamento. 33. Dall’insieme delle considerazioni che precedono risulta che occorre risolvere la questione presentata nel senso che l’articolo 4, punto 14, della direttiva sui servizi di pagamento dev’essere interpretato nel senso che nella nozione di «conto di pagamento» non rientra il conto di risparmio che consente di esigere a vista somme depositate e a partire dal quale le operazioni di versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente. Sulle spese 34. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per


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presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara: L’articolo 4, punto 14, della direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/

CE e 2006/48/CE, che abroga la direttiva 97/5/CE, dev’essere interpretato nel senso che nella nozione di «conto di pagamento» non rientra il conto di risparmio che consente di esigere a vista somme depositate e a partire dal quale le operazioni di versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente. (Omissis)

(1) La vexata quaestio della qualificazione della fattispecie giuridica del “conto di pagamento” ai sensi e per gli effetti della diritto UE dei servizi di pagamento nel “mercato interno”.

1. La sentenza in epigrafe si presenta di particolare interesse al fine della corretta interpretazione e applicazione del diritto dei servizi di pagamento nel “mercato interno” dell’UE; questa infatti costituisce, tra l’altro, il primo caso in cui la Corte di Giustizia dell’Unione ha avuto modo di pronunciarsi con riguardo alla qualificazione giuridica di una delle fattispecie evidentemente fondamentali ed essenziali di tutto il corpus normativo in parola, ovvero sull’interpretazione della nozione di “conto di pagamento” ai sensi della Direttiva 2007/64/CE (c.d. PSD 1)1. Al riguardo giova premettere che benché la PSD 1 sia stata di recente abrogata e sostituita dalla Direttiva (UE) 2015/2366 (c.d. PSD 2)2, tuttavia

Direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, che abroga la direttiva 97/5/CE. 2 Direttiva (UE) 2015/2366 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, che modifica le direttive 2002/65/CE, 2009/110/CE e 2013/36/UE e il regolamento (UE) n. 1093/2010, e abroga la direttiva 2007/64/CE. In particolare, il relativo art. 114 dispone che la «direttiva 2007/64/ CE è abrogata a decorrere dal 13 gennaio 2018. I riferimenti alla direttiva abrogata si 1

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la PSD 2, pur apportando numerose e significative innovazioni al quadro normativo UE in materia di servizi di pagamento, non ha modificato la definizione di “conto di pagamento” a suo tempo già stabilita ai sensi dalla PSD 1, sicché gli approdi ermeneutici forniti dalla Corte di Giustizia nella sentenza in questione rimangono pienamente conferenti e applicabili anche nel contesto normativo vigente, come meglio specificato di seguito. Ciò posto, è innanzitutto da chiarire che la sentenza in esame ha avuto ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 t.f.u.e., dalla Corte suprema Austriaca (l’Oberster Gerichtshof - OGH) in merito alla interpretazione dell’art. 4, punto 14, della PSD 1, ai sensi del quale, ai fini della PSD 1 (e ora dell’art. 4, punto 12, della PSD 2) per «conto di pagamento» si intende: «un conto detenuto a nome di uno o più utenti di servizi di pagamento che è utilizzato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». In particolare tale domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata «nel contesto di una controversia tra la Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte (Camera federale degli operai e degli impiegati), legittimata ad agire per far valere gli interessi dei consumatori», e una banca austriaca «relativa alla liceità delle condizioni generali di contratto proposte da tale banca»3. Quanto al contenuto della questione pregiudiziale su cui la Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi, a questa è stato sostanzialmente chiesto se l’art. 4, punto 14, della PSD 1 «debba essere interpretato nel senso che nella nozione di “conto di pagamento” rientra un conto di risparmio che permette di esigere a vista somme depositate e a partire del quale le operazioni di versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente denominato “conto di appoggio”»4. In punto di fatto, tale questione interpretativa era sorta con riferimento ad una controversia nazionale relativa alla liceità di alcune clausole contrattuali predisposte da una banca austriaca con riguardo a dei conti di risparmio on-line «a partire dai quali i suoi clienti possono effettuare, mediante un servizio bancario telematico, versamenti e prelievi. Detti bonifici devono sempre essere effettuati con l’intermediazione di conti

intendono fatti alla presente direttiva e si leggono secondo la tavola di concordanza di cui all’allegato II della presente direttiva». 3 Cfr. punto n. 2 della sentenza. 4 Cfr. punto n. 18 della sentenza.

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Simone Mezzacapo

di appoggio aperti a nome dei clienti stessi. Tali conti di appoggio sono conti correnti che detti clienti possono detenere anche in una banca diversa»5. Al riguardo, il giudice del rinvio austriaco aveva altresì precisato che «i trasferimenti effettuati a partire dai conti di risparmio on-line o verso i medesimi non implicano il ricorso a un prestatore di servizi di pagamento»6. Inoltre i «conti di risparmio on-line di cui trattasi sono conti disponibili a vista, cioè i clienti possono disporre delle somme versate su di essi in qualsiasi momento senza che ne derivi una ripercussione negativa sugli interessi prodotti»7. Nella vicenda di cui alla causa il particolare tipo di “conto bancario” oggetto di esame era, in particolare, un conto tramite il quale un consumatore poteva effettuare autonomamente (i.e. senza alcun particolare coinvolgimento della banca di radicamento del conto) “depositi”/“versamenti” e “prelievi” a vista attraverso il “telebanking”. Tuttavia a tal fine i relativi trasferimenti di “fondi” dovevano essere in realtà effettuati dal medesimo consumatore solo e necessariamente attraverso un altro “conto” definito “conto di riferimento” (i.e. reference account) sempre intestato a suo nome (i.e. tramite bonifici) ed avente, quest’ultimo si, tutte le caratteristiche tipiche di un “conto corrente” bancario. Ciò premesso, ad avviso della Corte suprema austriaca per pronunciarsi sulla liceità di dette clausole, e decidere quindi la controversia nazionale, era pregiudizialmente necessario, tra l’altro, «stabilire se i conti di risparmio on-line, del tipo [in questione] debbano essere qualificati come “conti di pagamento” ai sensi [della PSD 1], e se, pertanto, essi rientrino nell’ambito d’applicazione di quest’ultima»8, considerando a tal fine in particolare «se si possa ritenere che i conti di risparmio on-line, tenuto conto della loro destinazione, consistente nel deposito di risparmi, servano alla realizzazione di transazioni di pagamento»9. Nel sospendere quindi il procedimento nazionale pendente dinanzi alla medesima Corte suprema, quest’ultima ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione la seguente questione pregiudiziale: «Se l’articolo 4, punto 14, della direttiva [PSD1, ora art. 4, punto 12, della PSD 2] debba essere interpretato nel senso che un conto di risparmio

Cfr. punto Cfr. punto 7 Cfr. punto 8 Cfr. punto 9 Cfr. punto 5 6

n. 12 n. 12 n. 13 n. 15 n. 16

della della della della della

sentenza. sentenza. sentenza. sentenza. sentenza.

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online, sul quale il singolo cliente (a cadenza giornaliera e praticamente senza l’intervento della banca) attraverso il servizio bancario telematico possa effettuare versamenti e prelievi su un conto di appoggio dal medesimo detenuto (un conto corrente in Austria), debba essere parimenti ricompreso nella nozione di “conto di pagamento” ricadendo, pertanto, nella sfera di applicazione della direttiva»10 PSD1, e quindi ora della PSD 2. 2. Al di là dei riflessi immediati e diretti per la soluzione della controversia concreta all’attenzione del giudice nazionale del rinvio, la questione pregiudiziale sottoposta all’esame della Corte di Giustizia si presenta, come detto, di particolare interesse per le sue implicazioni sistemiche in quanto attiene, in sostanza, all’individuazione degli elementi costitutivi e caratterizzanti della fattispecie giuridica del “conto di pagamento” ai sensi del diritto UE dei servizi di pagamento nel “mercato interno”. Tale fattispecie infatti, pur rappresentando un elemento core del corpus normativo in questione, è “affetta” invero da una certa (voluta) indeterminatezza, ovvero non univocità, in termini giuridici, ciò anche in conseguenza dell’approccio tipicamente “funzionale” utilizzato, anche in questo caso, nel diritto dell’UE verso gli aspetti strettamente definitori. È infatti frequente riscontrare che, secondo tale approccio, nell’ambito diritto dell’UE le definizioni giuridiche sono per lo più volte a individuare una certa fattispecie in relazione allo specifico scopo di una sua regolazione uniforme e non tanto invece a stabilirne una nozione univoca basata sull’individuazione statica dei relativi elementi strutturali (di tipo tecnico-naturalistico e/o normativo); ciò anche al fine di assicurare una sufficiente “neutralità” della fattispecie stessa rispetto alle diverse forme giuridiche che possono integrarla negli ordinamenti dei diversi Stati Membri. Emblematica in tal senso è ad esempio la nozione di “impresa” assunta a riferimento nell’ordinamento dell’UE11.

Cfr. punto n. 17 della sentenza. Sul punto, con specifico riferimento alla nozione di impresa, cfr. ex multis Castronovo - Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, Vol. III (Impresa Lavoro), Milano, 2007, p. 6; Di Via, L’impresa, in AA.VV., Trattato di diritto privato europeo, a cura di Lipari, II, Padova, 2003, p. 83; Cassottana - Nuzzo, Lezioni di diritto commerciale comunitario, Torino, 2006, p. 267; Pappalardo, Il diritto comunitario della concorrenza. Profili sostanziali, Torino, 2007, p. 54; Antonucci, La nozione di impresa nella giurisprudenza comunitaria ed italiana, in Consiglio di Stato, 2003, pp. 569 ss. 10 11

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Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, vale incidentalmente osservare che, ad esempio, il t.u.b. non reca una propria definizione espressa di “conto di pagamento”, nonostante diverse disposizioni del t.u.b. vi facciano riferimento, ma faccia essenzialmente rinvio alle definizioni contenute nelle misure legislative UE in materia. Ad esempio, ai fini delle “disposizioni particolari” da ultimo introdotte nel t.u.b. “relative ai conti di pagamento” (cfr. artt. 126-decies – 126-viciessexies), oltre alle definizioni ivi recate si applicano (giusto il rinvio di cui all’art. 126-decies, co. 4, t.u.b.) anche «le ulteriori definizioni di cui all’articolo 2 della direttiva 2014/92/UE» (in seguito: PAD)12. Sicché, per tale via e a tali fini, trova direttamente applicazione nell’ordinamento interno la definizione di “conto di pagamento” di cui all’art. 2, punto 3, della PAD, ai sensi del quale è considerato tale «un conto detenuto in nome di uno o più consumatori usato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». Per altro verso al comma 2 del medesimo art. 126-decies del t.u.b. è altresì stabilito che tali “disposizioni particolari” del t.u.b. “relative ai conti di pagamento” non si applicano a qualunque tipologia di “conto”, ma “solo” a quei «conti di pagamento offerti a o sottoscritti da consumatori» e che dal punto di vista oggettivo «consentono almeno l’esecuzione di tutte le seguenti operazioni: versamento di fondi; prelievo di contanti; esecuzione e ricezione di operazioni di pagamento». È evidente il riferimento alle medesime caratteristiche tipiche di un “conto di pagamento” quali risultano dalla relativa definizione di cui alla PAD. Un’ulteriore e parzialmente diversa nozione di “conto di pagamento” è inoltre rinvenibile nell’ambito delle norme generali sui “servizi di pagamento” recate dal d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, con il quale è stata recepita la PSD1 e da ultimo, mediante novella allo stesso D.lgs., la PSD 213. In particolare ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. l), del D.lgs. 11/2010 per

Direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base. 13 D.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, di attuazione della direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE, 2006/48/CE, e che abroga la direttiva 97/5/CE, come modificato dal Decreto Legislativo 15 dicembre 2017, n. 218 di recepimento della direttiva (UE) 2015/2366 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, che modifica le direttive 2002/65/CE, 2009/110/CE e 2013/36/UE e il regolamento (UE) n. 1093/2010, e abroga la direttiva 2007/64/CE, nonché adeguamento delle disposizioni interne al regolamento (UE) n. 751/2015 relativo alle commissioni interbancarie sulle operazioni di pagamento basate su carta. 12

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“conto di pagamento” s’intende «un conto intrattenuto presso un prestatore di servizi di pagamento da uno o più utenti di servizi di pagamento per l’esecuzione di operazioni di pagamento»14. Ne risulta che, fermo in ogni caso il principio della primazia del diritto dell’Unione, anche nell’ordinamento interno un “conto di pagamento” si qualifica, in punto di diritto, proprio per la sua “funzione” di essere un “conto” utilizzabile, tra l’altro, per la (diretta) “esecuzione di operazioni di pagamento”15, presentando così la relativa nozione un contenuto volutamente “aperto” idoneo a ricomprendere, ad esempio, tra le specie del relativo genus anche le forme tecniche e contrattuali del “conto corrente bancario” (di cui agli artt. 1852 e ss. c.c.), ovvero del conto corrente postale (di cui all’art. 1, comma 1º, lett. d), D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144), atteso che entrambi possono essere utilizzati, appunto, anche per l’esecuzione e il regolamento di “operazioni di pagamento” e la fruizione, più in generale, di “sevizi di pagamento”, oltre che per operazioni di deposito e/o di concessione di credito16. Ciò coerentemente alla suddetta impostazione funzionale per la quale contratti diversi ben possono rientrare, anche, nell’autonoma fattispecie giuridica del “conto di pagamento”, quale tipizzata a livello UE al fine dell’applicazione della relativa specifica disciplina armonizzata, focalizzata in primis sulla protezione degli utenti, senza con ciò escludere però la loro contestuale corrispondenza a fattispecie contrattuali differenti a livello di diritto nazionale17.

Come osservato, tra le principali innovazioni introdotte dal d.lgs. 11/2010 rispetto al quadro normativo previgente vi sono proprio quella della introduzione, per la prima volta, di una definizione giuridica del “conto di pagamento” e del «considerare fra i servizi di pagamento tutte le operazioni di gestione dello stesso», Marullo Reedtz, Commento sub art. 1, comma 1º, lett. b), l) e n), in AA.VV., La nuova disciplina dei servizi di pagamento, a cura di Mancini, Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano, Torino, 2011, p. 9. 15 Intendendosi per tali ogni «atto, disposto dal pagatore o per suo conto o dal beneficiario, di collocare, trasferire o ritirare fondi, indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra il pagatore e il beneficiario» (cfr. art. 4, n. 5, della PSD 2 e art. 1, co. 1, lett. c), del d.lgs. 11/2011). 16 In tal senso cfr. Santoro, I conti di pagamento degli Istituti di pagamento, in AA.VV., Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, a cura di Mancini e Perassi, Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, 2008, p. 28. 17 In generale al riguardo sia consentito il rinvio a Mezzacapo, La nuova disciplina nazionale dei “conti di pagamento” alla luce dell’armonizzazione attuata con la Payment Accounts Directive, in Banca, borsa, tit. cred., n. 6/2017, pp. 801 ss. 14

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Per altro verso, risulta altresì che nello stabilire quanto necessario al recepimento della PAD, non è stata esercitata in Italia l’opzione nazionale (pure consentita dall’art. 1, par. 6, della PAD stessa) di estendere l’applicazione, in tutto o in parte, delle norme nazionali di attuazione della PAD anche ad “altri” conti, quali ad esempio quelli offerti a soggetti che non siano “consumatori” oppure quelli con operatività più limitata (es. conti di risparmio e/o di mero regolamento, etc.). Dal punto di vista ermeneutico ciò indurrebbe a ritenere che, secondo con quanto indicato nel considerando n. 12 della PAD, «in linea di principio dovrebbero essere esclusi dall’ambito di applicazione [della PAD, e quindi anche delle norme che fanno riferimento alle relative definizioni] i conti quali i conti di risparmio, i conti di appoggio ad una carta di credito, che generalmente vengono alimentati al solo scopo di rimborsare un debito della carta di credito, i mutui a conto corrente o i conti di moneta elettronica», salvi tuttavia i casi in cui tali “diversi conti” siano invece anche «utilizzati per operazioni di pagamento ordinarie e comprendessero tutte le funzioni» tipiche di un vero e proprio “conto di pagamento” quali sopra elencate (i.e. «versamento di fondi», «prelievo di contanti» ed «esecuzione e ricezione di operazioni di pagamento»). 3. Posto quanto sopra, l’individuazione degli elementi caratterizzanti, in punto di diritto, della fattispecie regolamentare UE del “conto di pagamento” ai sensi della PSD 2 risulta essere un’operazione essenziale per determinare l’ambito di applicazione oggettivo – i.e. categorie di contratti di “conto” – della relativa disciplina UE, tra cui ad esempio rilevano quelle particolarmente innovative, e anche per questo controverse, disposizioni della PSD 2 sul c.d. diritto di accesso “esterno” ai “conti di pagamento” in caso di servizi di “disposizione di ordine di pagamento” (art. 66 della PSD 2) e/o alle informazioni sui “conti di pagamento” e all’utilizzo delle stesse in caso di “servizi di informazione sui conti” (cfr. art. 67 della PSD 2). Servizi questi che possono essere prestati da parte di due categorie di nuovi Prestatori di Servizi di Pagamento (PSP) ora regolamentati dalla PSD 2 e costituite rispettivamente da: a) i prestatori di servizi di «disposizione di ordine di pagamento» (c.d. Payment Initiation Services Providers - PISPs) di cui all’art. 4, punto 19 della PSD 218; b)

Tali PSPs prestano un servizio che consiste essenzialmente nel disporre, su richiesta e per conto di un utente del servizio stesso, un “ordine di pagamento” relativamente 18

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i prestatori di servizi di «informazione sui conti» (c.d. Account Information Service Providers – AISPs) di cui all’art. 4, punto 17 della PSD 219. Al riguardo rileva infatti che entrambi tali due nuovi servizi di pagamento si caratterizzano per il necessario collegamento, sia materiale sia giuridico, a dei “conti di pagamento” detenuti presso (uno o più) altri PSP (i.e. PSP diversi da quelli che prestano i servizi in parola), i quali nell’ambito del nuovo framework regolamentare di cui alla PSD2 sono ora definiti quali PSP di “radicamento del conto” e caratterizzati appunto per il fatto di essere quel PSP che «fornisce» o «amministra» un “conto di pagamento” per un pagatore (art. 4, punto 18), della PSD 2). La PSD 2 introduce quindi una serie di obblighi a carico dei PSP di “radicamento del conto” (di pagamento) strumentali a consentire il libero e agevole esercizio dei suddetti nuovi diritti introdotti dalla PSD 2 a favore dei titolari di conti di pagamento «di avvalersi di un prestatore di servizi di disposizione di ordine di pagamento per ottenere» servizi di disposizione di ordine di pagamento, oppure «di ricorrere a servizi che consentono l’accesso ai servizi di informazione sui conti», laddove il “conto di pagamento” in questione «sia accessibile online» (cfr. rispettivamente artt. 66 e 67 della PSD 2)20. Ne risulta che la qualificazione o no di un certo “conto” anche quale “conto di pagamento” determina ad esempio l’applicazione oppure no a carico del soggetto che «fornisce» o «amministra» il conto medesimo dell’obbligo, a condizione che tale conto sia altresì accessibile online, di consentire l’accesso al “conto” stesso e/o alle relative informazioni da parte di PISPs e AISPs, nonché di applicare tutte le nuove “misure di sicurezza” pure previste dalla PSD 2 in materia di meccanismi di «autenticazione forte del cliente» (c.d. Strong Customer Authentication – SCA) e di «standard aperti di comunicazione comuni e sicuri» (c.d. Common

a un “conto di pagamento” detenuto però dal cliente di tale servizio presso un altro PSP che appunto “fornisce” e “amministra” il conto di pagamento in questione. 19 Tali PSPs prestano un “servizio on-line” (ossia prestato in modalità Internet based) che consiste nella fornitura agli utenti di tale servizio di un’informativa “consolidata” con riguardo alle informazioni relative a conti di pagamento detenuti dagli utenti stessi presso uno o più altri PSPs presso cui sono “radicati” i conti in questione. 20 Al riguardo sia consentito in generale il rinvio a Mezzacapo, Competition policy issues in EU retail payment business: the new PSD 2 regulatory principle of open on-line access to information from “payment accounts” and associated “payment transactions”, in European Competition Law Review, Vol. 39, Issue 12, (2018), pp. 534-544.

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and Secure Open Standards of Communication – CSC) nell’ambito delle relative comunicazioni telematiche. 4. Per quanto riguarda quindi l’actio finium regundorum della nozione giuridica di “conto di pagamento” ai sensi e per gli effetti diritto dell’Unione in materia di servizi di pagamento nel mercato interno, dal punto di vista del diritto positivo risulta innanzitutto che ai sensi dell’art. 4 (14) della PSD 2 per «conto di pagamento» deve intendersi «un conto detenuto a nome di uno o più utilizzatori di servizi di pagamento utilizzato per l’esecuzione di operazioni di pagamento». Tale definizione riprende in modo praticamente pedissequo quella di “conto di pagamento” già contenuta nell’art. 2(5) del Regolamento (UE) n. 260/2012 del 14 marzo 2012 sui bonifici e sugli addebiti diretti in euro21, ai sensi del quale è tale «un conto detenuto in nome di uno o più utilizzatori di servizi di pagamento utilizzato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento conto di pagamento». La definizione di “conto di pagamento” di cui alla PSD2 è inoltre del tutto identica, nel suo portato normativo (giusta infatti la mera sostituzione del termine “utenti” con quello di “utilizzatori”), a quella precedentemente recata dall’art. 4(14) della PSD1 del 200722 (quale abrogata e sostituita dalla PSD 2), ai sensi della quale questo era definito come «un conto detenuto a nome di uno o più utenti di servizi di pagamento che è utilizzato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». Queste definizioni di “conto di pagamento” sono inoltre identiche (sempre in termini sostanziali e di portato normativo) alla definizione pure contenuta nell’art. 2 (3) della PAD del 2014, ai sensi e ai fini del quale è tale «un conto detenuto in nome di uno o più consumatori usato per l’esecuzione delle operazioni di pagamento». Anche in questo caso l’unica differenza riguarda il profilo soggettivo del riferimento alla nozione di “consumatore”, invece che a quella più generale di “utente” o “utilizzatore”, per indicare i possibili titolari del conto in questione. Differenza questa da ritenersi però meramente motivata dallo specifico am-

21 Regolamento (UE) n. 260/2012 del parlamento europeo e del consiglio del 14 marzo 2012 che stabilisce i requisiti tecnici e commerciali per i bonifici e gli addebiti diretti in euro e che modifica il regolamento (CE) n. 924/2009. 22 Direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 novembre 2007 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, che abroga la direttiva 97/5/CE.

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bito di applicazione e oggetto delle disposizioni di cui alla PAD, queste riguardano infatti specificamente i diritti dei consumatori nella materia disciplinata dalla PAD stessa e non la disciplina generale dei servizi di pagamento. Infine tali definizioni di “conto di pagamento” risultano altresì del tutto equivalenti, sempre in punto di relativo portato normativo, alla definizione di “conto di pagamento” pure recata dall’art. 2(22) del Regolamento UE del 2015 sulle Commissioni Interbancarie23, ai sensi del quale, ai fini del Regolamento stesso, per “conto di pagamento” s’intende «un conto detenuto a nome di uno o più utenti di servizi di pagamento utilizzato per l’esecuzione di operazioni di pagamento, anche tramite un conto specifico per la moneta elettronica, secondo la definizione di cui all’articolo 2, punto 2, della direttiva 2009/110/CE del Parlamento europeo e del Consiglio». Tale definizione si distingue in pratica dalle precedenti giusto per l’espresso riferimento alla esecuzione di operazioni di pagamento anche tramite ai conti di “moneta elettronica” quale definita dalla pertinente Direttiva UE in materia de 200924. Dall’analisi di tale quadro normativo si ricava che la fattispecie regolamentare del “conto di pagamento” è caratterizzata dell’elemento essenziale che il “conto” in questione deve essere utilizzabile per la diretta esecuzione di “operazioni di pagamento”, ossia per «versare», «trasferire» o «prelevare» «fondi», indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra pagatore e beneficiario dei «fondi» stessi. Elemento centrale della fattispecie nell’ambito e ai fini del quadro giuridico di cui alla PSD 2 risulta essere quindi a sua volta la nozione di «fondi», espressione questa con la quale – in quest’ambito e a questi fini – si fa riferimento in modo tassativo a: «banconote e monete»; «moneta scritturale»; «moneta elettronica», quale definita quest’ultima all’art. 2, punto 2), della Direttiva 2009/110/CE (cfr. art. 4 (25) della PSD2 e art. 1, co. 1, lett. m), del D.lgs. 11/2010). Tale ulteriore indicazione risulta particolarmente importante perché contribuisce a risolvere i possibili dubbi interpretativi circa la natura o

23 Regolamento (UE) 2015/751 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2015 relativo alle commissioni interbancarie sulle operazioni di pagamento basate su carta. 24 Direttiva 2009/110/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009 concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica, che modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e che abroga la direttiva 2000/46/CE

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no di “conto di pagamento” di determinati “conti” o “contratti” a fronte della segnalata elevata capacità espansiva, e del contenuto in un certo senso (volutamente) “aperto”, della fattispecie “conto di pagamento” avuta presente dalla PSD2. La nozione UE di “conto di pagamento” infatti se, da un lato, ha il pregio di assicurare la “neutralità” e “trasversalità” della fattispecie stessa rispetto alle diverse forme giuridiche e contrattuali che possono integrarla nei diversi Stati Membri, nonché nello stesso ordinamento italiano, dall’altro, determina però un rischio di overinclusiveness rispetto a fattispecie invece estranee per contenuto, ratio, funzioni e obiettivi alla materia della disciplina uniforme UE dei servizi di pagamento in senso stretto. Alla luce di tali indicazioni, risulta quindi – ad esempio – non controverso che rientrino, come detto, nella definizione di “conti di pagamento” ai fini e per gli effetti della PSD2 i cc.dd. “conto correte bancario” disciplinato dal codice civile italiano e “conto corrente postale” disciplinato d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, nei limiti e nella misura in cui questi appunto assolvono tipicamente anche alla funzione di essere utilizzabili per l’esecuzione di “operazioni di pagamento”, in aggiunta a quelle pure loro proprie di deposito e/o di concessione di credito. Per contro, giusto il suddetto necessario riferimento ad “operazioni di pagamento” che abbiano ad oggetti «fondi», parrebbe invece che debbano ritenersi estranee – in punto di diritto – alla fattispecie del “conto di pagamento” ai sensi della PSD2 tutte quelle tipologie di “conti” la cui amministrazione e/o “movimentazione” non determina, tra l’altro, l’esecuzione di operazioni aventi direttamente ad oggetto «banconote e monete», «moneta scritturale» e/o «moneta elettronica». Il fatto che tra le condizioni necessarie per aversi un “conto di pagamento” vi è quella che nel “conto” stesso debbano poter essere “depositati” ovvero “registrati” dei “fondi” della clientela si ricava ed è ulteriormente confermata, tra l’altro, anche dal contenuto delle disposizioni dirette a garantire una piena separazione e distinzione, a tutti gli effetti, tra tali “fondi” e il patrimonio del PSP di “radicamento dei conti” stessi, anche al fine di tutelare il diritto alla restituzione dei “fondi” in questione (cfr. art. 10 della PSD 2)25. In sede di recepimento della PSD2, nell’or-

25 In particolare ai sensi del relativo paragrafo 1 è stabilito che «Gli Stati membri o le autorità competenti richiedono agli istituti di pagamento che prestano i servizi di pagamento di cui ai punti da 1 a 6 dell’allegato I di tutelare tutti i fondi ricevuti dagli utenti di servizi di pagamento ovvero tramite un altro prestatore di servizi di pagamento per

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dinamento nazionale è stato ad esempio a tal fine stabilito che ai «fini dell’applicazione della disciplina della liquidazione coatta amministrativa i titolari dei conti di pagamento sono equiparati ai clienti aventi diritto alla restituzione di strumenti finanziari» (cfr. co. 3 dell’art. 114-duodecies, t.u.b.). Tale disposizione è evidentemente e strutturalmente incompatibile con la sua applicazione ad altri tipi di “conti” utilizzati, ad esempio, al solo e diverso fine di registrare mere scritturazioni contabili relative ai rapporti di debito/credito tra due o più soggetti, conti in cui non sono quindi “depositati”, né “registrati” dei “fondi” dei titolari dei “conti” stessi, né questi ultimi possono essere utilizzati per movimentare direttamente, trasferire e/o prelevare “fondi”. Altra caratteristica distintiva del “conto di pagamento” di cui alla PSD2 appare essere costituita dal fatto che il saldo del “conto di pagamento” è per definizione prontamente disponibile da parte del titolare, oltretutto in conformità agli specifici e stringenti termini stabiliti dalla PSD2 stessa (a livello nazionale cfr. artt. 20, 22 e 23 del D.lgs. 11/2010), aspetto questo ulteriormente utile a distingue i “conti di pagamento” da fattispecie simili. In particolare, benché il saldo di qualsiasi “conto di pagamento” sia da considerarsi «disponibile nello stesso senso in cui il concetto è presupposto dall’art. 1852 c.c. [a ben vedere, specie nel caso di “conti di pagamento” in essere presso soggetti diversi dalle banche] non si tratta di una disponibilità generalizzata, bensì di una disponibilità limitata,

l’esecuzione di operazioni di pagamento, secondo una delle modalità seguenti: a) i fondi non sono mai confusi con i fondi di una qualsiasi persona fisica o giuridica diversa dagli utenti di servizi di pagamento per conto dei quali i fondi sono detenuti e, se sono detenuti dall’istituto di pagamento e non ancora consegnati al beneficiario o trasferiti ad un altro prestatore di servizi di pagamento entro la prima giornata operativa successiva al giorno in cui i fondi sono stati ricevuti, sono depositati su un conto distinto di un ente creditizio o investiti in attività sicure, liquide e a basso rischio quali definite dalle competenti autorità dello Stato membro di origine; e sono isolati conformemente al diritto nazionale nell’interesse degli utenti di servizi di pagamento dalle richieste di pagamento di altri creditori dell’istituto di pagamento, in particolare in caso di insolvenza; b) i fondi sono coperti da una polizza assicurativa o da qualche altra garanzia comparabile, ottenuta da un’impresa di assicurazione o da un ente creditizio non appartenente allo stesso gruppo cui appartiene l’istituto di pagamento, per un importo equivalente a quello che sarebbe stato segregato in mancanza della polizza assicurativa o di altra garanzia comparabile, pagabile qualora l’istituto di pagamento non sia in grado di assolvere i suoi obblighi finanziari».

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con esclusione, dunque, dell’utilizzabilità del saldo» secondo altre modalità (es. per l’emissione di assegni bancari)26. 5. Posto quindi il sopra rilevato carattere “aperto”, prettamente “funzionale” e non rigidamente determinato della fattispecie “conto di pagamento” risultante dall’analisi del diritto positivo dell’Unione, la citata sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 4.10.2018 nella Causa C‑191/17 (unitamente alle pertinenti conclusioni presentate dall’Avvocato generale e largamente condivise dalla Corte) si segnala per il fatto di contenere i primi riferimenti ermeneutici di elaborazione giurisprudenziale in merito alla qualificazione di determinati contratti o “conti” quali “conti di pagamento” ai sensi della PSD1/PSD2. Innanzitutto, in linea con la consolidata giurisprudenza della stessa Corte, e come pure correttamente rilevato dall’Avvocato generale, risulta ribadito il principio che al fine di risolvere le questioni interpretative del diritto UE è sempre necessario considerare non solo la lettera di una disposizione (in questo caso quella recante la definizione di “conto di pagamento” di cui alla PSD1, ora PSD2), ma anche il suo contesto e gli obbiettivi perseguiti dall’insieme di norme di cui tale disposizione fa parte27. Al riguardo è stata altresì preliminarmente confermata dalla Corte, nonché invero da parte del giudice austriaco del rinvio, la regola ermeneutica generale che il mero nomen iuris utilizzato dalle parti per qualificare un determinato contratto e/o “conto” non è di per sé determinante per stabilire se questo costituisca oppure no un «conto di pagamento» ai sensi della PSD 1/PSD2, essendo piuttosto a tal fine necessario considerare le caratteristiche particolari del “conto” in questione, che comprendono anche le sue funzioni e i suoi obiettivi. Quale criterio decisivo per stabilire se un certo “conto” sia anche da considerare come un «conto di pagamento» ai sensi della PSD1/PSD2 è stato quindi indicato quello di verificare se tale conto implichi una par-

26 Santoro, I conti di pagamento degli Istituti di pagamento, in AA.VV., Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, a cura di Mancini e Perassi, Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, 2008, p. 33. 27 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 22.

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tecipazione diretta nelle “operazioni di pagamento” con terzi28. In base a tale criterio un “conto bancario” come quello oggetto della causa in questione non è stato ritenuto quindi da considerare come un «conto di pagamento» ai sensi della PSD 1/PSD2 essendo i trasferimenti di “fondi” da e verso terzi effettuati sempre e necessariamente attraverso la “movimentazione” di un “conto di riferimento” (i.e. reference account) collegato, il quale aveva invece indubbiamente tutte le caratteristiche tipiche di un “conto di pagamento”. Ciò posto per quanto riguarda l’analisi del dato testuale e l’interpretazione letterale della nozione di “conto di pagamento” ai sensi dell’art. 4(14) della PSD1 (ora art. 4(12) della PSD2) è emerso anche in questa sede che in effetti la relativa definizione normativa è evidentemente generica e non elenca caratteristiche specifiche che i conti della specie devono avere, né specifiche tipologie di “conti” che possono essere certamente considerati come rientranti in tale nozione29. Pertanto la sola interpretazione letterale dell’art. 4(14) della PSD1 non è da sola sufficiente a fornire sempre una risposta univoca in ordine alla questione se un certo “conto” sia da considerarsi come un «conto di pagamento» ai sensi e per gli effetti della PSD 1, rendendo quindi necessario integrare la stessa con altri criteri interpretativi. Dalla definizioni di cui all’art. 4(14) della PSD1 è ad esempio chiaramente ricavabile un elemento oggettivo e/o teleologico della fattispecie ivi definita, costituito questo dal fatto che sono da qualificare come “conti di pagamento” solo quei “conti” che possono essere utilizzati per la esecuzione di «operazioni di pagamento». A sua volta l’art. 4 (5) della PSD1 definisce, con formulazione tuttavia «anch’essa ambigua se considerata isolatamente»30, una «operazione di pagamento» come «l’atto, disposto dal pagatore o dal beneficiario, di collocare, trasferire o ritirare fondi, indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti tra il pagatore e il beneficiario».

28 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 24. 29 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 25. 30 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 30.

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Di converso, l’art. 3 della PSD 1 elenca inoltre delle categorie di operazioni di pagamento e di servizi cui la PSD 1 non si applica. Tuttavia come, correttamente specificato anche dall’Avvocato Generale, giusta anche l’indicazione di cui al considerando n. 6 della PSD1, tale elenco di esclusioni è da intendersi come non esaustivo, sicché ben possono esistere “conti” che per le loro caratteristiche rimangono comunque esclusi dall’ambito di applicazione della PSD 131. Pare così, in ogni caso, potersi ricavare al riguardo un principio di fondo secondo cui, in definitiva, ogni interpretazione e applicazione delle norme di cui alla PSD 1/PSD 2 deve essere fatta, nel dubbio, in senso restrittivo, ciò considerati altresì i limiti e i pesi imposti dal rispetto delle norme stesse, anche alla libertà d’impresa e alla autonomia privata. Procedendo quindi ad integrare l’interpretazione letterale della nozione in questione avendo riguardo (sempre in conformità alla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di interpretazione del diritto dell’Unione) al contesto in cui si colloca la nozione di “conto di pagamento”, non solo con riferimento alle altre disposizioni della stessa PSD 1, ma anche di altre misure legislative dell’Unione collegate o connesse in maniera determinante alla PSD 1 (es. in quanto contengono riferimenti incrociati – diretti o indiretti – alla relativa nozione di “conto di pagamento” o comunque relative ai “servizi di pagamento”), risulterebbe ulteriormente supportata, anche ad avviso dell’Avvocato Generale, la conclusione che non ogni tipo di “conto” rientra in quanto tale nella nozione di «conto di pagamento» ai sensi della PSD132.

31 Come osservato infatti «l’articolo 3 della direttiva 2007/64, intitolato “Esclusione dall’ambito di applicazione”, indica che detta direttiva non si applica a 15 categorie di operazioni di pagamento e di servizi ivi elencate, e che il conto diretto di risparmio online in questione non rientra espressamente in alcuna di queste. Non ritengo però che tale disposizione sia esaustiva con riferimento ai conti che possono essere esclusi dall’ambito di applicazione di tale direttiva. Ciò è avvalorato dal considerando 6 della direttiva 2007/64, che afferma che “non è opportuno che tale quadro giuridico [per i servizi di pagamento] si applichi senza restrizioni. La sua applicazione dovrebbe essere limitata ai prestatori di servizi di pagamento la cui attività principale consista nella prestazione di servizi di pagamento agli utenti di tali servizi”», Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 30. 32 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 45.

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In tale prospettiva risulta infatti innanzitutto che già le altre disposizioni della PSD 1 connesse a quella recante la definizione di “conto di pagamento” indicano chiaramente che la possibilità di effettuare e ricevere (direttamente) pagamenti a e da terzi, ossia di traferire direttamente “fondi” da e verso terzi, costituisce elemento essenziale affinché un determinato “conto” possa essere qualificato come un «conto di pagamento» ai sensi della PSD 1. Alcune disposizioni della PSD 1 relative ai “conti di pagamento” evidenziano ulteriormente che la relativa nozione ha come presupposto logico-giuridico la possibilità che il denaro sia addebitato o accreditato sul “conto di pagamento” stesso al fine del suo diretto trasferimento a favore o da parte di terzi. Questo si riflette anche su talune disposizioni della PSD1 finalizzate a garantire la sicurezza del “conto di pagamento” proprio in conseguenza della sua strutturale caratteristica di rendere possibile l’esecuzione di “operazioni di pagamento” direttamente con terzi, come ad esempio quelle relative alla restituzione di “denaro” sul “conto di pagamento” in caso di operazioni di pagamento non autorizzate, non eseguite o eseguite in modo non corretto. Per quanto riguarda poi le diverse “misure connesse” alla PSD1, all’interno del quadro legislativo dell’Unione sui servizi di pagamento, da tener in considerazione al fine dell’interpretazione della nozione di “conto di pagamento” di cui all’art. 4(14) della PSD1, quella ritenuta “fondamentale” è sta individuata nella PAD33. Al riguardo la PAD indica espressamente al suo considerando 12 che tutte le disposizioni della PAD stessa «dovrebbero riguardare i conti di pagamento mediante i quali i consumatori sono in grado di effettuare le seguenti operazioni: deposito di fondi e prelievo di contante, ed esecuzione e ricezione di operazioni di pagamento a favore di terzi e da questi ultimi, compresa l’esecuzione di bonifici. Di conseguenza, dovrebbero essere esclusi i conti con funzioni più limitate». Per altro verso, ai sensi del relativo art. 1(6) i “conti di pagamento” rientranti nel suo campo di applicazione devono consentire almeno di poter: 1) depositare fondi su un conto di pagamento; 2) prelevare contante da tale conto; 3) eseguire e ricevere operazioni di pagamento, compresi i bonifici, a favore di terzi e da questi ultimi. Inoltre, il considerando 14 della PAD chiarisce

33 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punto 53.

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che le «definizioni contenute nella [PAD] dovrebbero essere in linea, per quanto possibile, con quelle contenute in altri atti legislativi dell’Unione, in particolare con quelle contenute nella [PSD 1] e nel regolamento (UE) n. 260/2012». Alla luce di tali riferimenti, ne consegue quindi che ai sensi dell’diritto UE tipologie di “conti” caratterizzati da «funzioni più limitate» rispetto a quelle del prototipo regolamentare del “conto di pagamento” di cui alla PAD e alla PSD1/PSD2 sono da considerare come strutturalmente e ontologicamente estranee all’ambito di applicazione delle disposizioni della PAD, della PSD1 e, ora, della PSD2 che hanno ad oggetto “conti di pagamento”, come ad esempio nel caso di “conti” che non consentano ai relativi titolari di eseguire e ricevere “operazioni di pagamento” da e verso i terzi, aventi ad oggetto «banconote e monete», «moneta scritturale» o «moneta elettronica» (cfr. art. 4 (25) della PSD2). Anche avuto riguardo agli obiettivi generali della disciplina armonizzata UE di cui alla PSD1/PSD2, e segnatamente a quelli della «istituzione di un mercato unico dei servizi di pagamento» e della protezione dei «consumatori in quanto destinatari dei servizi di pagamento», non appare in contrasto con tali obiettivi una interpretazione della nozione di «conto di pagamento» di cui all’art. 4(14) della PSD1 secondo cui sono estranei alla stessa tutte quelle fattispecie di “conti” con funzionalità limitate, anche laddove quest’ultimi siano collegati o connessi con “conti di pagamento” veri e propri, ovvero “appoggiati” a “conti di pagamento”, al fine del vero e proprio trasferimento di “fondi” 34. Considerato infatti che in questi casi il “conto” collegato, connesso o “di appoggio” tramite cui sono effettuati i trasferimenti di “fondi” con terzi ha tutte la caratteristiche e funzioni di un “conto di pagamento” ai sensi del diritto UE, soggetto in quanto tale alla relativa disciplina come aggiornata dalla PSD 2, i suddetti obbiettivi risultano pienamente assicurati e non vulnerati anche nel caso di esclusione dalla nozione di “conti di pagamento” di tutti questi “conti” collegati ma con funzionalità più limitate, col vantaggio di evitare al contempo in questo modo fenomeni di sovraregolazione, aberatio legis, sproporzionata applicazione, ovvero non necessaria moltiplicazione di oneri regolamentari anche a casi non previsti.

34 Cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale Evgeni Tanchev presentate il 19 giugno 2018, Causa C‑191/17, Bundeskammer für Arbeiter und Angestellte contro ING-DiBa Direktbank Austria Niederlassung der ING-DiBa AG, Punti 59 e 60.

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6. Tali considerazioni risultano sostanzialmente coerenti e in linea con quanto statuito dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza del 4.10.2018 pronunciata nella Causa C-191/17 in merito alla domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 4(14) della PSD 1. È dato infatti evidenziare innanzitutto che in questa sede la Corte ha stabilito che tale disposizione della PSD 1 dev’essere interpretata «nel senso che nella nozione di “conto di pagamento” non rientra [la fattispecie costituita da una tipologia di “conto” quale, ad esempio, un] conto di risparmio che consente di esigere a vista somme depositate e a partire dal quale le operazioni di versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente» diverso dal “conto” in questione35. A tal fine la Corte ha confermato che, in linea con quanto sopra esposto, la semplice analisi testuale dell’art. 4(14) della PSD1 e delle altre analoghe definizioni di “conto di pagamento” contenute in diverse norme UE «non consente di per sé di stabilire se la nozione di “conto di pagamento” includa o meno conti come quelli di cui trattasi [nella causa in esame], per i quali, al fine di realizzare un’operazione di pagamento, è necessaria una tappa intermedia che implica il trasferimento di fondi tra [un conto del tipo di quello oggetto della causa] e il conto corrente dell’utente»36 come previsto appunto nella fattispecie concreta di cui era causa. Anche ad avviso della Corte in questi casi è pertanto necessario ricorrere all’ulteriore criterio interpretativo basato sull’esame del «contesto normativo» in cui la PSD 1 stessa «si inscrive», prendendo a tal fine in considerazione in primis le disposizioni della PAD e tra queste innanzitutto la definizione di “conto di pagamento” di cui al relativo art. 2, punto 3, la quale risulta invero «quasi identica» a quella di cui all’art. 4(14) della PSD1, fatta salva la sola e non sostanziale differenza dell’utilizzo nella PAD del termine «consumatore» in luogo della espressione «utente di servizi di pagamento»37. Una differenza questa motivata, come detto, dalla natura prettamente “proconsumeristica” delle disposizione della PAD e da quella invece di disciplina generale della materia delle disposizioni della PSD 1. Ciò posto è valorizzato al riguardo il fatto che la PAD nell’escludere testualmente dal proprio ambito di applicazione i “conti di risparmio”

Cfr. punto 33 della sentenza. Cfr. punto 23 della sentenza. 37 Cfr. punti 25 – 27 della sentenza. 35 36

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chiarisce, nei relativi considerando, che tale esclusione non è assoluta e generale, ma è motivata dal (e subordinata al) fatto che questi tipicamente «non costituiscono conti di pagamento» in quanto, almeno di norma, non sono utilizzabili per eseguire «operazioni di pagamento ordinarie», ovvero per la (diretta) esecuzione a valere sui “conti” stessi di, almeno, tutte le seguenti operazioni: i) deposito di fondi; ii) prelievo di contante; iii) esecuzione e ricezione di operazioni di pagamento, compresi i bonifici, a favore di terzi e da questi ultimi. In particolare quest’ultimo criterio è quello che la Corte di Giustizia ritiene essere, almeno allo stato, il “criterio determinante” ai fini della qualificazione o no di un “conto” quale “conto di pagamento” ai sensi del diritto dell’UE in materia di servizi di pagamento; ad avviso della stessa la qualifica di “conto di pagamento” dipenderebbe infatti – in ultima istanza – dalla «capacità di eseguire operazioni di pagamento a cadenza giornaliera a partire da tale conto»38. Al riguardo la Corte ha nell’occasione più precisamente statuito che, da un lato, «la possibilità di effettuare a partire da un conto operazioni di pagamento a favore di terzi e da questi ultimi rappresenta un elemento costitutivo della nozione di “conto di pagamento”»39, dall’altro, «un conto a partire dal quale siffatte operazioni di pagamento non possono essere effettuate direttamente ma per l’effettuazione delle quali occorre avvalersi di un conto d’appoggio non può dunque essere considerato “conto di pagamento” ai sensi della direttiva sui conti di pagamento [ossia della PAD] e, quindi, ai sensi della direttiva sui servizi di pagamento»40 di cui alla PSD 1, e ora alla PSD2. Pertanto, con specifico riferimento alla questione pregiudiziale sottoposta alla sua attenzione, la Corte ha concluso che l’art. 4, punto 14, della PSD1 «dev’essere interpretato nel senso che nella nozione di “conto di pagamento” non rientra il conto di risparmio che consente di esigere a vista somme depositate e a partire dal quale le operazioni di versamento e di prelievo possono essere effettuate soltanto attraverso un conto corrente».

Cfr. punto 29 della sentenza. Cfr. punto 31 della sentenza. 40 Cfr. punto 32 della sentenza. 38 39

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7. Alla luce del suddetto quadro normativo e dell’arresto giurisprudenziale della Corte di Giustizia in merito all’interpretazione da darsi della nozione di “conto di pagamento” di cui all’articolo 4, punto 14, della PSD 1 (quale poi attualmente trasfusa nel vigente art. 4 (12) della PSD2), risulta quindi doversi affermare che, in punto di diritto, la nozione di “conto di pagamento” di cui alla PSD1 e ora alla PSD2 deve essere interpretata nel senso che la stessa non include quelle, diverse, tipologie di “conti” su cui non possono essere direttamente depositati/registrati “fondi”, da cui non è possibile direttamente ritirare “fondi” o che non sono direttamente utilizzabili per effettuare trasferimenti di “fondi” da e verso terzi. Ne consegue che tali diverse tipologie di “conti” non rientrano quindi neanche nel campo di applicazione della disciplina di cui alla PSD1, ora PSD2, e quindi alle stesse tra l’altro non si applicano neanche le innovative e disruptive disposizioni della PSD 2 sul “diritto di accesso” ai conti di pagamento e alle informazioni sui conti stessi in relazione all’utilizzo di servizi di “disposizione di ordine di pagamento” (art. 66 della PSD 2) e/o di “informazione sui conti” (art. 67 della PSD 2). Per quanto riguarda le implicazioni nell’ordinamento nazionale, può dunque per altro verso desumersi che ove si volesse addivenire invece ad un tale risultato sarebbe necessaria una coerente modifica delle norme di riferimento, nel senso dell’ampliamento espresso del relativo ambito di applicazione oggettivo anche a “conti” che non hanno, quindi, le caratteristiche proprie dei “conti di pagamento” ai sensi della PAD e della PSD2 nei termini sopra individuati. L’applicazione delle disposizioni della PSD2 sui “conti di pagamento” anche a tipologie di “conti” privi in linea di principio di tutte le relative caratteristiche non sembrerebbe infatti possibile “solo” in via interpretativa, ciò anche in considerazione dei significativi oneri e obblighi regolamentari, verso i clienti e verso terzi, previsti dalla PSD 2 a carico dei PSP presso cui sono “radicati” i “conti di pagamento”. D’altronde, come pure sopra accennato, la stessa PAD stabilisce che gli Stati membri possono decidere di applicare, in tutto o in parte, le disposizioni della PAD anche ad altri “conti” diversi dai “conti di pagamento” cui fa riferimento la PAD stessa (cfr. art. 1, paragrafo 6, della PAD), rafforzando così la suddetta conclusione che un’eventuale estensione a figure simili della relativa fattispecie UE, ovvero un ampliamento dell’ambito di applicazione oggettivo della relativa disciplina, dovrebbe trovare il suo fondamento su una norma giuridica espressa, che nel nostro ordinamento dovrebbe essere inoltre collocata preferibilmente in

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una fonte di rango primario, giusto anche il disposto degli artt. 23 e 41 della Costituzione. Con riferimento a tale ultimo aspetto vale ad esempio osservare che, al di là dei sopra riferiti nuovi obblighi di cui agli artt. 66 e 67 della PSD 2 in materia di accesso ai conti di pagamento e alle relative informazioni, tra le conseguenze della qualificazione di un certo contratto o “conto” quale “conto di pagamento” ai sensi del diritto UE dei servizi di pagamento vi è, tra le varie, anche quella che – ai sensi dell’art. 16 della PAD e dell’art. 126-noviesdecies del t.u.b. – i PSP abilitati ad offrire servizi a valere su un “conto di pagamento” sono altresì tenuti – limitatamente ai servizi di pagamento che essi offrono ai consumatori – a offrire anche un “conto di pagamento” denominato in euro con caratteristiche di base (c.d. “conto di base”), a tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza, nei casi e secondo le modalità previste dalla legge41.

Simone Mezzacapo

41 Anche sul punto sia consentito il rinvio a Mezzacapo, La nuova disciplina nazionale dei “conti di pagamento” alla luce dell’armonizzazione attuata con la Payment Accounts Directive, in Banca, borsa, tit. cred., n. 6/2017, pp. 822 ss.

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DIBATTITI

Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza Il 21 giugno 2019 presso la Facoltà di Economia de La Sapienza Università di Roma si è tenuto un incontro di studio, organizzato dalla rivista, dal Ce.di.b. e dal Master in Diritto della crisi delle imprese sul tema «Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza». All’incontro, presieduto dal prof. Alessandro Nigro, professore ordinario fuori ruolo della Sapienza Università di Roma, sono intervenuti il prof. Sido Bonfatti, professore ordinario nell’Università di Modena e Reggio Emilia, il prof. Giovanni Falcone, professore straordinario a tempo determinato nell’Università telematica Pegaso, il prof. Sabino Fortunato, professore ordinario nell’Università di Roma Tre, il prof. Fabrizio Maimeri, professore ordinario nell’Università G. Marconi di Roma, il prof. Maurizio Sciuto, professore ordinario nell’Università di Macerata, il prof. Daniele Vattermoli, professore ordinario ne La Sapienza Università di Roma e Direttore del Master in Diritto della crisi delle imprese. Ne pubblichiamo gli atti.

Introduzione Alessandro Nigro Mi piace aprire il discorso ricordando che questo incontro è il nono di una serie che si è andata dipanando dal 2010. Personalmente, sono molto soddisfatto dell’andamento di questa iniziativa, che ha assunto nel tempo quella serialità, quella cadenza periodica che ci si prefiggeva, ma che sembrava un obiettivo molto difficile da raggiungere. Preliminarmente debbo, come al solito, ringraziare – anche a nome della Rivista e del Centro Studi – tutti coloro che hanno reso possibile, anche quest’anno, realizzare l’iniziativa. Innanzi tutto, la Casa Editrice

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Dibattiti

Pacini, il cui apporto è stato come sempre fondamentale; poi, il Dipartimento, che ci ospita in questa magnifica aula; ancora, gli amici che hanno aiutato nell’organizzazione. Ringraziamenti vanno ovviamente ai colleghi ed amici che hanno accettato di intervenire come relatori, alcuni già venuti in tale veste in precedenti occasioni, altri al loro, diciamo così, “esordio”. Ringraziamenti, infine, debbono andare a chi è presente all’incontro, avendo affrontato magari il fastidio di un viaggio – mi riferisco agli amici di Siena – e tutti, comunque, il disagio della calura. Come di consueto, la mia introduzione si limiterà ad una breve presentazione del tema. Il tema di quest’anno era, dico subito, praticamente obbligato: la Rivista, e quindi i nostri incontri, si sono sistematicamente occupati dei rapporti fra le banche e le procedure di composizione e soluzione delle crisi di impresa. Nel febbraio di quest’anno – a conclusione di un percorso particolarmente accidentato – ha visto la luce il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che ha interamente ridisegnato la disciplina, possiamo dire di diritto comune, delle procedure di composizione e soluzione delle crisi, una disciplina che – come quella anteriore – tocca in più punti i rapporti fra quelle procedure e le banche. Anche a volerlo, dunque, non avremmo potuto esimerci dal farne oggetto di specifica attenzione. Questa volta mi occuperò io delle considerazioni conclusive: quindi evito, per ora di entrare nel merito del tema, sia in generale e sia nei profili specifici, per non sovrappormi indebitamente ai relatori. Solo due notazioni preliminari mi sembrano opportune. La prima è che gli argomenti oggetto delle relazioni non esauriscono i profili di disciplina concernenti le banche: toccano quelli, almeno a nostro avviso, più importanti e significativi, ma non tutti. Sicuramente non tutti quelli, diciamo così, impliciti, ma neppure tutti quelli espliciti. Mi riferisco, per fare un esempio, all’art. 49, riguardante la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, che al co. 3, lett. f), prevede che il tribunale, con quella sentenza, autorizzi il curatore «ad acquisire la documentazione contabile in possesso delle banche e degli altri intermediari finanziari relativa ai rapporti con l’impresa debitrice, anche se estinti». La ristrettezza del tempo a disposizione ha costretto a fare delle scelte. La seconda notazione è che la nostra aspirazione è quella, al solito, di dare, con questo incontro, un contributo di chiarezza. Naturalmente, non c’è alcuna presunzione di arrivare a soluzioni definitive, ma ci sembra importante in ogni caso che si faccia uno sforzo di pervenire se non altro ad indicare delle possibili linee ricostruttive, delle prospettive di soluzione dei problemi. Dato il livello dei relatori credo che non ci siano dubbi sui risultati.

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Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Relazione introduttiva Sido Bonfatti Sommario: 1 – Premessa. Il Codice della Crisi di imprese e dell’Insolvenza e le Banche – 2. Segue. Il Codice della Crisi delle Imprese e il “Codice” della crisi delle banche. – 3. Le segnalazioni delle banche nel quadro delle misure di “allerta”. – 4. I finanziamenti prededucibili. A) Le fattispecie. – 5. Segue. B) “La permanenza della prededuzione”. – 6. Nuove forme di garanzia e Codice della Crisi. – 7. Accordi di Ristrutturazione Speciali e Convenzione di Moratoria. – 8. La responsabilità da finanziamento.

1. Premessa. Il Codice della Crisi di imprese e dell’Insolvenza e le Banche. Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’insolvenza (“c.c.i.”) non riguarda le banche in modo diretto. Esse, infatti, in buona parte vi sono sottratte. Per lo meno, sono sottratte a quei procedimenti che sono qualificabili “procedure concorsuali”, stante il principio (impeditivo) enunciato nell’art. 80, co. 6, t.u.b.: quindi, al fallimento (domani: “liquidazione giudiziale”); al Concordato preventivo; alla liquidazione coatta amministrativa (per come disciplinata nel c.c.i.). Le banche potrebbero essere interessate direttamente soltanto dal Piano Attestato di Risanamento, della cui esclusione dal novero delle “procedure concorsuali” nessuno dubita. È invece dubbio che possano essere interessate direttamente dall’istituto dell’Accordo di Ristrutturazione di cui ali artt. 182-bis ss. l.fall. Nel passato ciò è stato ritenuto concepibile1, ma oggi è da dubitare che lo sarebbe, alla luce del recente orientamento giurisprudenziale2 che non si condivide3 -, secondo il quale gli Accordi di Ristrutturazione sarebbero qualificabili “Procedure concorsuali”.

1

Alludo al c.d. “caso Delta”, che ha investito un gruppo bancario e finanziario, la cui situazione di crisi è stata composta per l’appunto attraverso la conclusione e successiva omologazione di un “Accordo” ex art. 182-bis l.fall.: Trib. Bologna, 17 novembre 2011, in www.ilcaso.it, , Sez. Giurisprudenza, 6716 - pubb. 12/12/2011. 2 V. per tutte Cass., 12 aprile 2018, n. 9087. 3 Piani attestati, Accordi di ristrutturazione e crediti prededucibii, in Dir. banc., 2018, II, p. 166; Estraneità degli Accordi di ristrutturazione alla “sfera della concorsualità”, in materia di prededuzione, in www.ilcaso.it, settembre 2018; I “cerchi concentrici” della concorsualità e la prededuzione dei crediti (“o dentro o fuori”?), in www.ilcaso.it, giugno 2018; Ancora sulla natura giuridica degli “Accordi di Ristrutturazione”, in www. ilcaso.it, febbraio 2018; La natura giuridica dei “Piani di Risanamento Attestati” e degli “Accordi di Ristrutturazione”, in www.ilcaso.it, gennaio 2018; e in Dir. banc., 2018, I,

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Dibattiti

Ciononostante, l’interesse delle banche per il c.c.i. (e viceversa) è ugualmente massimo: per la semplice ragione che il sostegno finanziario alle imprese, nel nostro Paese, è ancora largamente affidato al credito bancario, con la conseguenza che le situazioni di “crisi” delle une sono destinate a produrre effetti di rilievo sulle altre; e che l’atteggiamento delle banche nei confronti delle imprese in difficoltà condiziona in modo determinante la percentuale di probabilità di successo del tentativo di superamento della “crisi” da parte di queste ultime. Per tale ragione gli organizzatori dell’Incontro di Studio odierno meritano tutti i nostri complimenti per l’assoluto interesse dell’argomento prescelto. 2. Segue. Il Codice della Crisi delle Imprese e il “Codice” della crisi delle banche. Anche sotto un altro profilo la considerazione della disciplina introdotta dal c.c.i. presenta un marcato interesse anche per le imprese bancarie. Si tratta infatti di valutare se dalla nuova disciplina delle situazioni di crisi delle imprese “di diritto comune” possano ricavarsi innovazioni applicabili anche alle imprese “di diritto speciale” (nel nostro caso: le imprese bancarie), ed in quale misura. Il contrappasso tra disciplina delle crisi delle imprese di diritto comune e disciplina delle crisi delle banche rappresenta ormai un fenomeno noto e ripetuto. Talora è l’ammodernamento della seconda che influisce sulla evoluzione della prima (non avremmo forse mai avuto, nel 2005, la disciplina della “cessione…di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco” di cui all’art. 105, co. 5, l.fall., se precedentemente non fosse stata introdotta dalla disciplina delle crisi delle banche, nel 1993, la legittimazione del Commissario Liquidatore a «cedere… i beni e rapporti giuridici individuabili in blocco» appartenenti alla banca assoggettata a liquidazione nella amministrativa – art. 90, co. 2, t.u.b.) Altre volte sono le innovazioni apportate alla “legge fallimentare” che condizionano la evoluzione della disciplina delle situazioni di crisi delle banche: e la approvazione del c.c.i. può rappresentare un esempio di questo secondo fenomeno.

p. 175; La natura giuridica degli accordi di ristrutturazione, in Riv. dir. banc., Gennaio 2018.

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Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Si è già fatto cenno alla ritenuta applicabilità dell’istituto del “Piano Attestato di Risanamento” anche alle banche: donde l’interesse di queste ultime per le modificazioni apportate all’istituto da parte del c.c.i. Nello stesso modo, si è richiamata l’attenzione sul dubbio se l’istituto dello “Accordo di Ristrutturazione” sia (ancora) applicabile alle imprese bancarie: ovvio essendo che, in ipotesi di risposta positiva, le innovazioni apportate allo stesso rappresenterebbero un corrispondente motivo di interesse anche per le banche. Per il resto, è da escludere, a mio avviso, che sia applicabile alle banche la disciplina funzionale a favorire, come si dice, la “emersione precoce” delle situazioni di crisi (economico-finanziaria), introdotto dal c.c.i., stante la (pre)vigenza di una disciplina di diritto speciale volta a soddisfare (in modo indubbiamente più incisivo) la medesima esigenza per l’impresa di natura bancaria. Ed alla stessa conclusione deve pervenirsi, a mio avviso, per ciò che concerne la nuova disciplina della crisi del “gruppo” societario, alla quale la legislazione bancaria ha provveduto in tempi più risalenti, ed in modi più incisivi – gli istituti dello “Accordo di gruppo” (art. 69-duodecies t.u.b.), e del “Piano di Risoluzione di Gruppo” (art. 8 d.lgs n. 180/2015), non si ritengono peraltro esportabili nel campo della disciplina delle situazioni di crisi delle imprese di diritto comune. 3. Le segnalazioni delle banche nel quadro delle misure di “allerta”. Una delle più rilevanti innovazioni di cui è portatore il c.c.i. è rappresentata dalla introduzione e disciplina di talune misure di “allerta”, funzionali a perseguire l’obiettivo di quella che abbiamo già denominata “emersione precoce” delle situazioni di crisi. In particolare è stato imposto agli Organi di Controllo societario lo «obbligo di segnalazione» della «esistenza di fondati indizi della crisi» (art. 14, co. 1, c.c.i.): e tra le “fonti” degli indizi in questione è stata prevista l’iniziativa delle banche (e degli altri intermediari finanziari di cui all’art. 106 t.u.b.), le quali devono dare “notizia” (anche) a detti Organi di Controllo societari (se esistenti) delle «variazioni o revisioni o revoche degli affidamenti», nel momento in cui lo comunicano al cliente (cioè la società sulla quale quegli Organi esercitano una funzione di controllo) – art. 14, co. 4, c.c.i. In questo modo, la “notizia” della banca all’Organo di Controllo societario può costituire la fonte di una “segnalazione” da parte dello stesso Organo Amministrativo.

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Dibattiti

L’innovazione è destinata a suscitare diversi quesiti teorici, e ad originare altrettanti problemi pratici. I principali dubbi di carattere generale – che saranno affrontati, insieme ad altri, dalla Relazione del Prof. Falcone – riguardano il contenuto della “notizia” ed il presupposto del relativo obbligo. In via preliminare, infatti, si dovrà stabilire se l’obbligo informativo sia assolto con l’inoltro all’Organo di Controllo della “notizia” che al “cliente” – cioè al suo Organo Amministrativo – è stata inoltrata la comunicazione di una “variazione (o revisione, o revoca) degli affidamenti” in essere, senza dettagliarne i contenuti – posto che l’Organo di Controllo, così preallertato, ne può chiedere copia all’Organo di Amministrazione – ; oppure se l’Organo di Controllo debba ricevere una copia (integrale) della “comunicazione” inoltrata all’Organo di Amministrazione, contenente – quindi – il dettaglio circostanziato della misura adottata dalla banca. Sempre in via preliminare occorrerà stabilire se la “notizia”, da comunicare obbligatoriamente all’Organo di Controllo, postuli la preesistenza di un “affidamento” (come parrebbe, dal momento che si può “variare”, “revisionare” o “revocare” qualcosa, soltanto se questa cosa già sussisteva); oppure si estenda alla comunicazione (all’Organo Amministrativo) del diniego della concessione di un affidamento richiesto – che non viene né “variato”, né “revisionato”, né “revocato”, in quanto mai concesso. Il dubbio è alimentato dalla circostanza che il diniego di un affidamento richiesto costituisce di norma un segnale di “allerta” particolarmente significativo. Quanto alle problematiche di carattere più operativo, quelle che vengono alla mente per prime sono le seguenti: 1) Destinatari della “notizia”: direi i membri del Collegio sindacale. Non il revisore o la società di revisione. Certamente anche gli Amministratori, se non altro perché l’obbligo sorge «nel momento in cui» le «variazioni» in questione sono comunicate «al cliente». Da ciò dovrebbe ricavarsi la conclusione che nelle fattispecie nelle quali la banca non ritenga di dovere comunicare una determinata “notizia” al “cliente” – cioè all’Organo Amministrativo –; ovvero – direi – decida comunque di non farlo; neppure scatti l’obbligo di informare l’Organo di Controllo; 2) Presupposti della “notiziazione”: sono presupposti dell’obbligo di “notizia” le «variazioni, revisioni o revoche» degli «affidamenti»: e ciascuno dei termini utilizzati per esprimere questa regola origina dubbi interpretativi più o meno marcati.

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2.A) «affidamenti»: si devono intendere per tali, a mio parere, tutte le linee di credito che possono interessare il sostegno finanziario dell’attività di impresa, a prescindere dalla forma che possano assumere. Quindi, tanto per fare un esempio, tanto i fidi “di cassa” quanto i fidi “di firma”; tanto le linee di credito “semplici”, quanto quelle “rotative”. 2.B) «variazioni»: dovrebbero essere rappresentate da qualsiasi mutamento concernente uno dei fattori di cui è composta una linea di credito: durata; importo; garanzie; eccetera. 2.C) «revisione»: dovrebbe essere rappresentata dalla semplice riconsiderazione (anche periodica o routinaria) della linea di credito, anche se non accompagnata da interventi di alcun genere (ma comunque di per se stessa espressiva di una conferma della linea di credito, laddove alla “revisione” non si accompagni una “variazione” - supra -, ovvero una “revoca” – infra. A tale proposito una delle incertezze operative più ricorrenti sarà quella relativa alla ricomprensione o meno nell’ambito di applicazione di questo obbligo informativo delle “revisioni” del c.d. “rating interno”, cioè della valutazione sintetica attribuita all’impresa con riguardo alla maggiore o minore consistenza del suo “merito creditizio”. 2.D) «revoca»: dovrebbe essere rappresentata da qualsiasi intervento comportante la cessazione degli effetti della linea di credito interessata, conseguita attraverso la adozione degli istituti contrattuali funzionali a produrre tale risultato in relazione alla natura giuridica del negozio produttivo della linea di credito (ad es.: risoluzione – ovvero “decadenza del beneficio del termine” – per gli “affidamenti” a scadenza fissa; recesso per gli “affidamenti” a tempo indeterminato). Occorre poi considerare quale siano gli effetti attribuibili alla “notizia” inoltrata dalla banca all’Organo di Controllo societario. Dal punto di vista del destinatario della “notizia”, non pare che ciò possa essere considerato produttivo di un obbligo di “segnalazione” ex art. 14, co. 1, c.c.i.: la “segnalazione” si renderà necessaria nei limiti in cui dalla semplice “notizia” l’Organo di Controllo ricavi le sussistenze di «fondati indizi della crisi» 4.

4 Anche la “notizia” della drastica revoca degli affidamenti potrà non destare la preoccupazione che deve essere sottesa ad una “segnalazione” all’Organo Amministrativo, laddove si tratti di rapporti creditizi marginali, ovvero l’Organo di Controllo sia già stato informato della sostituzione della banca interessata con altro Istituto di credito.

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Dal punto di vista del fornitore della “notizia” – la banca –, vanno considerati gli effetti previsti dall’art. 12, co. 3, c.c.i., per le ipotesi di «attuazione della procedura di allerta da parte dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15». Tra questi effetti, infatti, è ricompreso anche il “divieto” della «revoca degli affidamenti bancari concessi», che peraltro è, come visto, uno dei possibili presupposti per l’insorgenza dell’obbligo di “comunicazione”. La situazione che si viene così a creare, apparentemente complicata, può a mio avviso essere risolta agevolmente precisando che: (i) la “notizia” della banca all’Organo di Controllo societario non costituisce (o non costituisce necessariamente) una «attivazione della procedura di allerta»: se non altro perché le «variazioni» degli «affidamenti» possono anche essere in senso incrementativo; e le «revisioni» possano anche sfociare in una conferma piena del sostegno finanziario all’impresa; (ii) in ogni caso, l’art. 12, co. 3, c.c.i. non introduce propriamente un “divieto” di «revoca degli affidamenti bancari concessi», in conseguenza della «attuazione della procedura di allerta». La norma afferma che tale circostanza «non costitui(sce) causa… di revoca degli affidamenti», tanto è vero che vengono dichiarati «nulli i patti contrari». Il significato della disposizione in commento, allora, parrebbe quello di togliere effetto alle clausole contrattuali che deducessero l’apertura di una procedura di allerta come contenuto di una clausola risolutiva espressa: ma non dovrebbe estendersi ad impedire l’adozione del provvedimento di “revoca” (rectius: “risoluzione”, ovvero “recesso”, secondo i casi) dei contratti di affidamento bancario, in presenza di diverse cause di scioglimento del contratto. Per ciò che concerne infine i possibili profili di responsabilità connessi alla previsione normativa in commento, mentre la comunicazione di una “notizia” all’Organo di Controllo, in ipotesi superflua (perché estranea al perimetro considerato dalla norma), difficilmente esporrebbe la banca a responsabilità verso chicchessia – visto che l’Organo di Controllo societario potrebbe e dovrebbe comunque avere una visione completa della gestione dell’impresa sociale –; una ingiustificabile omissione della “notizia” potrebbe esporre la banca ad una responsabilità risarcitoria corrispondente a quella conseguente all’omissione, da parte

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dell’Organo di Controllo societario, di una «segnalazione» ex art. 14, co. 1, c.c.i., che fosse risultata invece dovuta5. Le due fattispecie potrebbero anche presentarsi, in taluni casi concreti, collegate tra di loro: nel senso che alla contestazione di avere omesso la «segnalazione» all’Organo di Amministrazione di un «fondato indizio della crisi» di origine bancaria (per es.: la revoca di tutti gli affidamenti da parte della banca principale), ai sensi dell’art. 14, co. 1, c.c.i., l’Organo di Controllo potrebbe obiettare di non essere stato in grado di provvedere a causa della omissione da parte della banca interessata della “notizia” di cui al co. 4 della stessa norma. 4. I finanziamenti prededucibili. A) Le fattispecie. La materia dei finanziamenti prededucibili propone due principali problemi: (i) i presupposti, verificandosi i quali i crediti derivanti da un finanziamento (bancario) devono essere collocati in prededuzione; e (ii) la sede nella quale la prededuzione, attribuibile in astratto ad un credito derivante da un finanziamento perché in possesso dei requisiti di legge, possa essere fatta valere in concreto nel concorso con gli altri creditori. Il nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza risolve il primo problema in modo analogo a quello con il quale esso risulta risolto nell’attuale legge fallimentare (quindi, senza chiarire i non pochi dubbi che oggi caratterizzano questa disciplina); e dà una risposta al secondo – che oggi non è preso in considerazione dal diritto fallimentare positivo – in modo oggettivamente chiaro, anche se forse semplicistico. Sotto il primo profilo, viene riproposto lo schema (oggi declinato nell’art. 111, co. 2, l.fall) secondo il quale sono prededucibili: (i) «i crediti legalmente sorti durante le procedure concorsuali…» (art. 6, co. 1, lett. d) c.c.i.); e (ii) «i crediti così espressamente qualificati dalla legge» (art. 6, co.1, c.c.i.). Anche per ciò che concerne i finanziamenti (bancari) viene confermato l’impianto (oggi originato dagli artt. 182-quater e 182-quinquies l. fall.) che ne disciplina i presupposti di prededucibilità tanto con riguar-

5 In argomento v. Benazzo, Il codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. dir. soc., 2019, pp. 274 ss.

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do agli “Accordi di Ristrutturazione” quanto con riguardo al Concordato preventivo, attraverso la introduzione di disposizioni normative specifiche - cfr. artt. 99, 101 (e 102) c.c.i. Ciò fa sì che non rilevi, a tale proposito, la circostanza se l’Accordo di Ristrutturazione sia o non sia qualificabile “procedura concorsuale”. A prescindere da ciò, infatti, la prededucibilità dei crediti derivanti da “finanziamenti” è condizionata dalla presenza o meno dei presupposti specifici previsti da norme particolari (gli artt. 99, 101 e 102 domani; gli artt. 182-quater e 102-quinquies e 167 oggi), ed a nulla rileva la circostanza se, in mancanza di essi, opererebbe o non opererebbe il principio generale (qui però assorbito dalle disposizioni speciali ricordate) della prededucibilità conseguente alla “inerenza” ad una “procedura concorsuale”6. Fissato (cioè, riprodotto) tale impianto, il c.c.i. ripropone altresì l’imposizione dell’attuale legge fallimentare, che per il Piano Attestato di Risanamento prevede nessuna fattispecie di collocabilità in prededuzione, né per principio generale (non essendo dubbio che al “Piano” debba essere negata la natura di “procedura concorsuale”, così escludendo l’applicabilità tanto dell’art. 111 l. fall. oggi, quanto all’art. 6 c.c.i. domani); né sulla base di disposizioni speciali (che mancano totalmente)7.

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Non solo. La scelta di affidare la disciplina della prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti (bancari) a norme speciali che ne dettano i presupposti, “assorbe” altresì la disciplina che sarebbe altrimenti ricavabile dai principi generali dettati in materia di: (i) ordinaria/straordinaria amministrazione; e (ii) effetti sui contratti pendenti. Così che, in mancanza di taluni dei presupposti specifici di cui agli artt. 182-quater e 182-quiquies (e 167) l. fall. oggi (e di cui agli artt. 99, 101 e 102 c.c.i. domani), a nulla rileverebbe la circostanza: (i) che l’atto di utilizzo di un affidamento rientri tra gli atti di ordinaria amministrazione (come sono state spesso qualificate, in giurisprudenza, le anticipazioni di portafoglio nell’ambito di un “castelletto” ritornato utilizzabile per lo “scarico” derivante dal pagamento delle fatture o delle ricevute bancarie precedentemente anticipate); nè (ii) che il contratto di finanziamento rientri tra i “contratti pendenti” destinati a proseguire nonostante l’omologazione di un Accordo di Ristrutturazione o di un Concordato preventivo (in continuità aziendale). 7 In tal modo si riproduce l’anomalia sistematica che oggi caratterizza tale disciplina. Infatti, in presenza di un “Piano” ex art. 67, co. 3, lett d) l.fall. (domani: ex art. 56 c.c.i.), i crediti derivanti da due identici interventi di sostegno finanziario all’impresa (poniamo: due finanziamenti bancari) sono destinati a sorti contrapposte, secondo che vengano prontamente rimborsati, ovvero che rimangano pendenti. Nel primo caso, infatti, la sorte è positiva, perché in caso di sopravvenuto fallimento, il pagamento conseguito dalla banca non è soggetto a revocatoria (cfr. art. 67, co. 3, lett. d) l.fall); nel secondo caso,

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Tutto ciò fa sì che la disciplina della prededucibilità dei crediti derivanti da finanziamenti (bancari) sia declinabile, nel nuovo c.c.i., in termini molto simili a quelli desumibili dall’attuale legge fallimentare, nel senso che: a).non ricorrono fattispecie di finanziamenti prededucibili nel contesto del “Piano Attestato di Risanamento”; b) .i finanziamenti concessi nel contesto di un Accordo di Ristrutturazione o di un Concordato preventivo sono prededucibili alla condizione che presentino determinati presupposti specifici (comuni tanto all’Accordo quanto al Concordato); c) . tali presupposti variano (in termini sostanzialmente analoghi a quelli odierni) in relazione alla fase del procedimento nella quale i finanziamenti vengono erogati. Saranno così ancora declinabili i: 1).“Finanziamenti Ponte”, funzionali «all’apertura…di tali procedure» (art. 99, co. 1, c.c.i.; art. 182-quater, co. 2, l.fall.). I crediti relativi saranno prededucibili alla condizione di essere: (i) “attestati”, nonché (ii) “autorizzati” dal Tribunale fallimentare8;

invece, la sorte è negativa, perché al credito fatto valere nel fallimento consecutivo non è riconosciuta la prededuzione. Ciò spinge il finanziatore dell’imprenditore che ha perfezionato un “Piano Attestato” a pretendere il rimborso del finanziamento il prima possibile (per evitare il rischio di concorrere nel fallimento consecutivo con gli altri creditori, senza essere ad essi preferito): che è esattamente il contrario di quello che favorirebbe l’esito positivo del “Piano”. 8 A differenza di quanto previsto dall’art. 182-quater, co. 2, l.fall., anche i “finanziamenti-ponte” dovranno essere autorizzati dal Tribunale (previa “attestazione” della loro funzionalità alla migliore soddisfazione dei creditori), sostituendosi tale disciplina a quella attuale, che prescinde da una autorizzazione giudiziale preventiva , e richiede invece una “ratifica” giudiziale nel contesto del provvedimento di ammissione al Concordato preventivo ovvero di omologazione dell’Accordo. Tale modifica non è condivisibile. L’introduzione di una fattispecie soggetta ad autorizzazione giudiziale preventiva anche per i “finanziamenti-ponte” può essere condivisa, ma essa avrebbe dovuto aggiungersi alla odierna disciplina, non sostituirla. Sarebbe allora stato possibile – come lo è oggi – concedere “finanziamenti-ponte” in una fase nella quale l’autorizzazione giudiziale preventiva non è possibile – perché, per esempio, non è ancora ultimato il “Piano” sotteso alla necessaria “Attestazione” che deve accompagnare l’istanza di autorizzazione ad assumere il finanziamento – , e tuttavia il finanziatore confida che in sede di ammissione al Concordato, ovvero di omologazione dell’Accordo, sussisteranno i presupposti per la “ratifica” del suo operato, e la concessione (a posteriori) della prededuzione.

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2) .“Finanziamenti Interinali Attestati”, concessi dopo il deposito della domanda di Concordato o della Istanza di omologazione dello Accordo, in presenza della abituale “Attestazione” dell’Esperto indipendente, subordinatamente all’autorizzazione giudiziale; 3).“Finanziamenti Interinali Urgenti”, concessi nella stessa fase, ed ugualmente soggetti ad autorizzazione giudiziale, ma privi della “Attestazione” dell’Esperto indipendente, stante la «urgenza di provvedere per evitare un danno grave ed irreparabile all’attività aziendale». 4).“Finanziamenti in corso di Procedura” – concernenti il Concordato Preventivo: art. 94, co. 2, c.c.i. – 9, come oggi soggetti all’autorizzazione del Giudice Delegato (art. 167 l.fall.). 5).“Finanziamenti in esecuzione del “Piano” (sotteso all’Accordo di Ristrutturazione ovvero al Concordato Preventivo), oggi disciplinati dall’art. 182-quater, co. 1, l.fall., che non richiedono la presenza di presupposti ulteriori alla strumentalità del finanziamento rispetto alla esecuzione del “Piano”; laddove l’art. 101, co. 1, c.c.i., richiede che il “Piano” sia incentrato sulla “continuità aziendale” ed i finanziamenti risultino “espressamente previsti” nello stesso. Diversamente dall’attuale disciplina, quella dei “finanziamenti prededucibili” nel nuovo Codice regola espressamente l’ipotesi della erogazione di finanziamenti in un contesto fraudolento: e, in presenza di «dati falsi»; di omissione di informazioni rilevanti; di commissione da parte del debitore di «altri atti in frode di creditori», esclude la prededucibilità dei relativi crediti, se «il curatore dimostra che i soggetti che hanno erogato i finanziamenti», alla data dell’erogazione, conoscevano le circostanze “anomale” precisate10.

9 La disposizione che disciplina –inter alia – i “mutui” in corso di Concordato, in termini analoghi a quelli dettati dall’odierno art. 167, co. 2, l.fall., è seguita dalla previsione secondo la quale «l’autorizzazione può essere concessa prima dell’omologazione se l’atto è funzionale al soddisfacimento dei creditori». Il significato della precisazione è incomprensibile, giacché gli atti ai quali essa si rivolge sono quelli compiuti «dalla data di presentazione della domanda di accesso al Concordato preventivo e fino alla omologazione» (art. 94, co. 1, c.c.i.), quindi sempre (e solo) «prima dell’omologazione»! 10 Va notato che tale disciplina diverge altresì da quanto era stato previsto nel Progetto di legge che ha immediatamente preceduto il testo poi fatto oggetto del Decreto legislativo n. 14/2019. Nel c.d. “Progetto Rordorf”, infatti, era previsto (art. 106) che le anomalie descritte fossero idonee ad escludere la prededucibilità dei finanziamenti in questione allorché «si [potesse] presumere, sulla base dell’ordinaria diligenza, la conoscenza di detta circostanza da parte dei soggetti che hanno erogato i finanziamenti stessi».

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Una ulteriore innovazione in materia, rispetto all’attuale disciplina dei “finanziamenti prededucibili”, si registra a proposito della previsione di “scostamenti” dei dati economico-finanziari man mano evidenziati dalla continuazione dell’attività di impresa, rispetto ai cc.dd. “dati di Piano”. Secondo quanto previsto dall’art. 106, co. 2, lett. b), del Progetto di legge poi confluito nel D.lgs. n. 14/2019 – c.d. “progetto Rordorf” -, i crediti derivanti da finanziamenti pur astrattamente idonei a conferire loro il carattere della prededucibilità, ne sarebbero stati privati allorché nel corso dell’esecuzione del “Piano”, sotteso all’Accordo di Ristrutturazione ovvero alla Proposta Concordataria, si fossero verificati «scostamenti tra i dati di piano e i dati consuntivati tali da rendere, sulla base di una valutazione da riferire all’epoca, il predetto Piano manifestatamente inattuabile». Tale previsione rivestiva (rectius: avrebbe rivestito) una grande importanza, perché avrebbe consentito di “gestire” un fenomeno tanto frequente quanto preoccupante: l’intervento di “scostamenti” tra quanto previsto nel “Piano” e quanto effettivamente realizzato nel corso della sua esecuzione. L’introduzione della norma ricordata, infatti, avrebbe consentito di potere continuare a fare affidamento sulla operatività della prededuzione originariamente attribuibile al finanziamento erogato all’impresa, ogniqualvolta una Attestazione integrativa dell’esperto indipendente - magari depositata per la pubblicazione al Registro delle Imprese – avesse accertato la mancanza di “scostamenti” rilevanti (cioè tali da indurre alla valutazione presa in considerazione dall’art. 106 del “Progetto Rordorf” come preclusiva del riconoscimento della prededuzione nel fallimento consecutivo). Una traccia di ciò è rimasta nella (sola) disciplina dello Accordo di Ristrutturazione: per il quale l’art. 58 c.c.i. prevede che «qualora dopo l’omologazione si rendano necessarie modifiche sostanziali del Piano» – anche, se non solo, in conseguenza degli “scostamenti” registrati –, l’imprenditore vi apporti le modifiche necessarie; consegua un «rinnovo dell’Attestazione»; pubblichi il nuovo “Piano” e la nuova “Attestazione” nel Registro delle Imprese; e ne dia notizia ai creditori. In caso di mancata opposizione dei creditori entro i successivi 30 giorni, ovvero in caso di rigetto delle eventuali opposizioni (si deve intendere che) l’Accordo continuerà a produrre gli effetti che gli sono propri (compresa la collo-

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cazione in prededuzione dei finanziamenti concessi all’imprenditore), nonostante gli “scostamenti” registrati11. 5. Segue. B) “La permanenza della prededuzione”. Sotto il secondo dei profili enunciati in apertura («la sede nella quale la prededuzione, attribuita in astratto...»), il nuovo c.c.i. intende introdurre una innovazione tanto rilevante, quanto delicata: l’affermazione cioè del principio secondo il quale «la prededucibilità permane anche nell’ambito delle successive procedure esecutive o concorsuali» (art. 6, co. 2, c.c.i.). La portata dell’innovazione pare difficilmente discutibile: il richiamo alle procedure “esecutive” in alternativa (“o”) a quelle “concorsuali”, fa pensare alla volontà di “mantenere” la collocazione prededucibile dei crediti sorti con tale natura nell’ Accordo di Ristrutturazione o nel Concordato preventivo anche all’interno del concorso che si sviluppasse nel contesto (non di un Concordato; di un “fallimento”; di una l.c.a.; di una Amministrazione Straordinaria consecutiva, bensì anche) di un procedimento di esecuzione forzata individuale. La portata del dettato legislativo sembra anche volere escludere la rilevanza della sussistenza o meno di un rapporto di “consecutività” tra il procedimento nel quale è sorto il credito (originariamente) prededucibile, ed il procedimento esecutivo (individuale o collettivo) nel quale si provvede al suo soddisfacimento, in concorso con gli altri creditori (“vecchi” o nuovi che siano) dell’imprenditore-debitore: e ciò nonostan-

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Come detto, la norma richiamata è dettata nel contesto della disciplina dell’Accordo di Ristrutturazione, e non è riprodotta nel contesto di quella del Concordato preventivo. Una sua applicazione estensiva parrebbe a prima vista ipotizzabile, nonostante la differenza di struttura dei due procedimenti: al postutto, infatti, la legittimazione all’opposizione di cui all’art. 58 c.c.i. è concessa anche ai creditori (già) “aderenti” all’Accordo (se non proprio solo a loro, essendo i non aderenti, presumibilmente, già stati soddisfatti), per cui nulla parrebbe ostare ad una estensione della disciplina anche ai creditori (aderenti o non aderenti che siano stati) al Concordato. Nel frattempo la prassi ha individuato degli strumenti sostitutivi per la “neutralizzazione” degli effetti degli “scostamenti” rispetto ai “dati di piano”, rappresentati dalla previsione nella Proposta concordataria dell’obbligo dell’imprenditore di inserire e mantenere nell’Organo di Controllo societario un membro designato dal Commissario Giudiziale, al fine di garantire un presidio sulla gestione dell’impresa idoneo a fare scattare, ove necessario, le iniziative “repressive” del Commissario Giudiziale di cui all’art. 185, co. 1, l. fall., ed all’art. 186-bis, co. 7, l. fall. (e domani dell’art. 118, co. 1, c.c.i.).

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te che la Relazione al testo del decreto legislativo approvato in data 12 gennaio 2019, con il numero 14, lasci presumere l’intento contrario12. Ove tale conclusione fosse condivisa (con soddisfazione o meno che sia), si dovrebbe altresì prendere atto della emersione di profili problematici che avrebbero richiesto di essere a loro volta disciplinati. Per un verso, infatti, sarebbe parso opportuno creare gli strumenti necessari (forse una informativa obbligatoria in sede di Nota Integrativa al bilancio di esercizio?) per consentire ai creditori successivi di rendersi conto di quanta parte dell’indebitamento pregresso dell’impresa avesse acquisito, e mantenuto, il carattere prededucibile (fenomeno, questo, che produce un effetto economico equivalente a quello di una perdita del patrimonio responsabile dell’impresa per equivalente importo). Per un altro, poi, sarebbe parso opportuno precisare se la prededucibilità “ereditata” (o “protratta”) sarebbe comunque stata destinata a cedere ai creditori concorrenti privilegiati muniti di pegno od ipoteca (cfr. art. 111-bis, co. 2, l. fall. e art. 222, co. 2 c.c.i.) – con il rischio, quindi, di incapienza per effetto di atti costitutivi di garanzie reali posti in essere successivamente alla nascita del credito prededucibile -; oppure avrebbe avuto l’attitudine a prevalere anche sui crediti muniti di pegno od ipoteca, laddove sorti successivamente. Più in generale, infine, sarebbe stato opportuno affrontare e disciplinare il problema della “permeabilità” e “confondibilità”, o meno, del patrimonio “destinato” al soddisfacimento dei creditori controparti dello “Accordo”, ovvero destinatari della Proposta concordataria, con il patrimonio (attività e passività) formatosi successivamente, specie nella prospettiva della continuazione dell’attività di impresa. Per tali ragioni – o anche per tali regioni -, l’argomento affidato al Porf. Vattermoli si presenta tanto interessante quanto sfidante 6. Nuove forme di garanzia e Codice della Crisi. Nonostante le legittime aspettative per un intervento normativo su forme innovative di garanzia che suggerirebbero l’adozione di una disciplina “integrata” – a partire dal c.d. “pegno non possessorio” e dal c.d.

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A proposito del principio “innovativo” riportato nel testo, la Relazione illustrativa dell’art. 6 del decreto legislativo di attuazione della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155, afferma che «restano ferme le regole già vigenti riguardanti la prededucibilità dei crediti sorti durante le procedure concorsuali e la sua persistenza nelle procedure successivamente aperte».

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“patto marciano” –, il nuovo c.c.i. presenta (art. 385 ss. c.c.i.), in argomento, un solo intervento di rilievo, dedicato all’ammodernamento della disciplina delle «garanzie a tutela degli acquirenti degli immobili da costruire» (ma non escludo che il Prof. Maimeri si soffermi anche sugli istituti “dimenticati” dal Riformatore). Trattasi essenzialmente della modificazione, da parte degli artt. 385 – 388 c.c.i., della disciplina già riferibile agli artt. 3, 4, 5 e 6 del d. lgs. n. 122/2005, che nell’intento di ricercare una maggiore tutela per gli acquirenti di “immobili da costruire”, rischia di rendere problematico l’ottenimento della prestazione di tali garanzie da parte delle imprese del settore. In via preliminare la legittimazione a prestare le garanzie de quibus viene ristretta alle banche ed alle Compagnie assicurative, escludendo gli altri «intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107» t.u.b. In secondo luogo la fideiussione diviene escutibile anche nell’ipotesi nella quale il notaio incaricato della predisposizione dell’atto di trasferimento dell’immobile abbia attestato che il costruttore non ha rilasciato la polizza assicurativa indennitaria decennale a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile (omissione, questa, che produce altresì «la nullità del contratto che può essere fatta valere solo dall’acquirente»). La struttura della garanzia, che rimane fedele al modello civilistico della fideiussione e non pare potere essere predisposta secondo i caratteri del “contratto autonomo di garanzia” – anche per quel che preciserò in appresso –, rischia di essere percepita dalla banca come una “gabbia” dalla quale risulti difficile liberarsi, nonostante, ad esempio, un progressivo aggravamento del rischio – connesso all’insorgenza di una situazione di “crisi” del costruttore garantito –. Al peggioramento delle condizioni del debitore (che è il costruttore) non pare che sussistano i presupposti perché la banca possa “uscire dal rischio”. La risoluzione per inadempimento dell’obbligo di pagamento della commissione dovuta dal costruttore (o del premio assicurativo, in caso di prestazione di una Polizza assicurativa), è vietata per legge (art. 3, co. 5, d. lgs. n. 122/2005); né si ritengono sussistenti i presupposti per un recesso dal contratto di fideiussione, vista la funzione di garanzia assolta nei confronti del beneficiario. La banca fideiubente rischia pertanto di rimanere “prigioniera” di una garanzia prestata in favore di un soggetto – l’acquirente dell’immobile da costruire – che potrebbe ritardarne l’escussione sino al momento nel quale la crisi del costruttore sia divenuta irreversibile.

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Né è possibile ipotizzare che la banca possa rendere meno vincolante l’obbligazione di garanzia assunta, rafforzando gli impegni assunti dal costruttore nel contratto di finanziamento (“credito di firma”), funzionale al successivo rilascio della fideiussione da parte della banca. Si tratterebbe per esempio di intervenire, rendendolo più efficace, sull’istituto del “rilievo” del fideiussore (art. 1953 c.c.), che consente a costui di agire nei confronti del debitore principale perché questi “gli procuri la liberazione”. Questo risultato potrebbe non essere gradito al creditore garantito (l’acquirente): ed è pertanto da dubitare che sarà consentito che sia perseguito, allorché sarà stato adempiuto l’obbligo, introdotto dall’art. 385, co. 1, lett. d) c.c.i. (che aggiunge un co. 7-bis all’art. 3 d. lgs. n. 122/2005) di «[determinare] il modello standard della fideiussione», cioè di predisporre un testo standardizzato che dovrà essere necessariamente adottato dagli Istituti che presteranno questa garanzia. 7. Accordi di Ristrutturazione Speciali e Convenzione di Moratoria. 7.1. Il nuovo c.c.i. riprende la disciplina della Convenzione di Moratoria (oggi regolata dai commi 5, 6, 7 e 8 dell’art. 182-septies l. fall.) e dell’Accordo di Ristrutturazione c.d. “interbancario” (disciplinato dai restanti commi della norma richiamata), per estenderne la applicazione a tutti i creditori dell’imprenditore interessato, anziché – come avviene oggi – ai soli intermediari bancari e finanziari. Per il resto, la disciplina di questi istituti non pare registrare particolari innovazioni (ma per verificare la condividibilità di tale conclusione dobbiamo attendere la Relazione del Prof. Sciuto), se si fa eccezione per: (i).la esigenza, per la Convenzione di Moratoria, di una Attestazione “rafforzata”, in quanto estesa dalla sola «omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici tra i creditori interessati dalla moratoria» alla «veridicità dei dati aziendali, [e] l’idoneità della Convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi, anche in relazione alle possibili soluzioni della stessa…»; e (ii).la esigenza che l’Accordo di Ristrutturazione (che intenda vedersi applicata la disciplina degli Accordi «ad efficacia estesa») presenti un «carattere non liquidatorio» (a meno che i creditori siano rappresentati da banche ed intermediari finanziari). Nel limitarsi a riprendere l’attuale disciplina dei due Istituti, salve le particolarità segnalate, il nuovo c.c.i. perde l’occasione per chiarire alcuni profili controversi che caratterizzano l’attuale disciplina: primo tra i quali, la individuazione del “perimetro” di estendibilità ai creditori non aderenti delle obbligazioni assunte dai creditori aderenti appartenenti ad

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una categoria omogenea, in misura tale da produrre l’effetto vincolante degli impegni assunti. Per ciò che concerne le banche, la discussione verte sulla portata da attribuire al principio (affermato già oggi, e riprodotto nel c.c.i. – art. 61 –), secondo il quale «in nessun caso… ai creditori ai quali è stato esteso l’Accordo possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti»: principio che, secondo alcuni interpreti – con i quali non mi trovo d’accordo – consentirebbe pur tuttavia all’Accordo de quo di imporre alle banche non aderenti l’obbligo di consentire la continuazione dell’utilizzo degli affidamenti in essere, nei limiti della riduzione registrata dallo stesso nel corso del tempo (per es. in conseguenza dello “scarico” del rischio di “castelletto” a seguito del pagamento dei crediti commerciali originariamente anticipati). Neppure sono risolti i dubbi – che personalmente sarei propenso a risolvere in senso positivo – se: gli aderenti “coatti” (perché resi tali dal meccanismo di estensione della volontà dei creditori titolari del 75% delle passività di una Categoria omogenea anche ai titolari del restante 25%) possano essere computati ai fini del raggiungimento della necessaria percentuale complessiva (60%), commisurata all’indebitamento totale dell’impresa; gli aderenti “coatti” siano sottratti all’obbligo del pagamento integrale e (pressoché) tempestivo dei creditori non aderenti (essendo i primi qualificabili “aderenti”, anche se in virtù di un meccanismo maggioritario). 7.2. Presenta invece carattere innovativo l’istituto degli Accordi di Ristrutturazione “agevolati” (art. 60 c.c.i.). Trattasi di quegli Accordi di Ristrutturazione nell’ambito dei quali l’imprenditore: (i) non proponga la moratoria normalmente disposta per i creditori non aderenti (120 giorni dall’omologa ovvero, se successiva, dalla scadenza); e (ii) non abbia richiesto e rinunci a richiedere «misure protettive temporanee», come quelle connesse alla presentazione della c.d. “istanza di sospensione”. In presenza di tali presupposti, «la percentuale [necessaria perché l’Accordo produca gli effetti tipici dell’istituto] è ridotta alla metà»: cioè al 30% delle passività dell’impresa. La percentuale si abbassa dunque ad un livello tale, che normalmente è conseguito anche nelle ipotesi nelle quali ricorrano le condizioni

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per stipulare un “Piano Attestato di Risanamento”: e si può immaginare che in molte fattispecie l’imprenditore in grado di superare la crisi con la collaborazione di un numero sia pure limitato di creditori, le cui pretese superino peraltro l’indicata soglia del 30%, accetterà di integrare il “Piano” con la previsione della sua sottoposizione ad omologa, trasformandolo così in un “Piano Attestato Omologato”. 8. La responsabilità da finanziamento. Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza non pare apportare elementi nuovi alla discussione sulla configurabilità di una responsabilità delle banche per “concessione abusiva di crediti”, ovvero – all’incontrario – per “revoca brutale del fido”. I possibili rischi penali nella concessione del credito – o nel “ritiro” dello stesso – sembrano pertanto doversi misurare con gli orientamenti giurisprudenziali che già conosciamo. Fa eccezione la previsione di cui all’art. 68, co. 2, c.c.i., sia pure riconducibile al tema della “responsabilità da finanziamento” in termini un po’ generici – ma vedremo cosa ce ne dirà il Prof. Fortunato -. La norma afferma che «il creditore che ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento [del consumatore] o il suo aggravamento o che ha violato i principi di cui all’articolo 124-bis del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, non può presentare opposizione o reclamo in sede di omologa [del Piano di Ristrutturazione dei debiti del Consumatore], anche se dissenziente, né far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore». La portata della innovazione non è chiara, perché parrebbe consentire al debitore di prevedere arbitrariamente un trattamento punitivo per la banca creditrice, senza che questa possa dolersene in sede di opposizione all’omologazione – quando, beninteso, fosse ritenuta colpevole della situazione di indebitamento del consumatore o del suo aggravamento -. Per converso, non si comprende se tale “sanzione” abbia carattere assorbente della responsabilità risarcitoria della banca eventualmente collegabile alle condotte presupposte dalla norma, ovvero se tale asserita responsabilità possa essere fatta valere secondo le regole generali. Lo stesso deve dirsi per quanto concerne il disposto dell’art. 80, co. 4, c.c.i., che riproduce la norma commentata nel contesto della omologazione del “Concordato Minore”.

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Il ruolo delle banche e degli intermediari finanziari nelle procedure di allerta e di composizione assistita delle crisi. Giovanni Falcone Sommario: 1. Premessa. – 2. L’obbligo di “dare notizia” agli organi di controllo societari: fondamento e responsabilità – 2.1. Il contenuto oggettivo dell’obbligo di “dare notizia” – 3. Gli effetti della attivazione della procedura di allerta e di quella di composizione assistita della crisi sui contratti bancari.

1. Premessa. L’introduzione di “strumenti di allerta” - declinati come “obblighi di segnalazione” da parte di soggetti “qualificati”, e caratterizzati dallo scopo di consentire una “tempestiva rilevazione degli indizi di crisi d’impresa” e la “sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione” - costituisce uno dei tratti maggiormente innovativi della riforma della materia concorsuale operata dal d.lgs. n. 14 del 2019 (“Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”)1. L’opportunità della introduzione di tale tipologia di strumenti all’interno del sistema concorsuale è da tempo dibattuta2: ma soltanto con il “Codice” (d’ora in poi “c.c.i.”) il legislatore italiano si è determinato ad una scelta particolarmente impegnativa e delicata, rispetto alla quale i giudizi di opportunità non possono ormai che essere rimessi ad una valutazione in termini di efficacia e di efficienza dell’istituto una volta entrato “a regime”3. Tra i molteplici motivi di interesse suscitati dalla introduzione degli strumenti di allerta, vi è quello sollecitato dalla “singolare” previsione di

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Sul percorso che ha condotto alla introduzione delle misure di allerta e sulla loro attuale configurazione, anche alla luce dei contenuti della Direttiva (UE) 2019/1023, v. Vella, L’allerta nel codice della crisi e dell’insolvenza alla luce della Direttiva (UE) 2019/1023, in Crisi d’impresa e insolvenza, 24 luglio 2019. Si vedano anche Ferro, Allerta e composizione assistita della crisi nel D.Lgs. n. 14/2019: le istituzioni della concorsualità preventiva, in Il fallimento, 2019, pp. 419 ss.; e Guiotto, I sistemi di allerta e l’emersione tempestiva della crisi, ivi, 2019, pp. 409 ss. 2 In particolare, l’introduzione di strumenti similari era stata ipotizzata nei lavori della c.d. “Commissione Trevisanato”, all’inizio del corrente secolo. 3 Anche la disciplina degli istituti di allerta, è destinata ad entrare in vigore, ex art. 389, co. 1, c.c.i., decorsi diciotto mesi dalla data della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

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un ruolo delle banche e degli intermediari finanziari di cui all’art. 106 t.u.b., che sono infatti, in qualche misura, coinvolti nel procedimento di attivazione degli strumenti di allerta predisposti per l’impresa la cui attività riveli “fondati indizi della crisi” (art. 14, co. 1, c.c.i.). Più precisamente, un coinvolgimento “attivo” di banche ed intermediari finanziari è previsto dall’art. 14, co. 4, c.c.i., che attribuisce a tali soggetti un obbligo informativo nei confronti degli “organi di controllo societari” avente ad oggetto vicende relative agli “affidamenti” concessi; nello stesso tempo, però, l’attivazione delle procedure di allerta o di composizione assistita della crisi riverbera (secondo la disciplina contenuta nell’art. 12, co. 3, c.c.i.) i propri effetti sui contratti già conclusi tra la banca e l’impresa debitrice (e, in particolare, sugli “affidamenti bancari”). Mette conto, pertanto, di esaminare partitamente tali due distinti “versanti”. 2. L’obbligo di “dare notizia” agli organi di controllo societari: fondamento e responsabilità. Il già ricordato art. 14, co. 4, c.c.i. dispone che «le banche e gli altri intermediari finanziari di cui all’articolo 106 del testo unico bancario, nel momento in cui comunicano al cliente variazioni o revisioni o revoche degli affidamenti, ne danno notizia anche agli organi di controllo societari, se esistenti». Tale adempimento – di cui invero mancano tracce nell’ambito dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella legge delega4, ed il cui inserimento pare da porsi verosimilmente in relazione con le vicende che hanno portato alla progressiva (quanto tormentata) for-

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All’interno della legge n. 155 del 2017, infatti, non è ravvisabile alcun riferimento a banche o intermediari finanziari nella attivazione degli strumenti di allerta. La legge si limita ad evidenziare la necessità di «porre a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione, ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni, l’obbligo di avvisare immediatamente l’organo amministrativo della società dell’esistenza di fondati indizi della crisi (…)». Con riguardo al ruolo giocato dagli organi di controllo societari nelle procedure di allerta (ed in una prospettiva aziendalistica), v. Bernardi e Talone, a cura di, Sistemi di allerta interna. Il monitoraggio continuativo del presupposto di continuità aziendale e la segnalazione tempestiva dello stato di crisi da parte degli organi di vigilanza e controllo societario, in Quaderni SAV, n. 71, Milano, 2017. Si veda al riguardo anche Quagli e Panizza, Il sistema di allerta, in Crisi d’impresa e insolvenza, 21 maggio 2019. Riflessioni sulla procedura di allerta quale risultante dal “disegno” contenuto nella legge delega in Spolidoro, Procedure d’allerta, poteri individuali degli amministratori non delegati e altre considerazioni sulla composizione anticipata della crisi, in Riv. soc., 2018, (1), pp. 171 ss.

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mazione del testo definitivo della Direttiva (UE) 2019/1023, sui quadri di ristrutturazione preventiva5 – sembra da doversi porre immediatamente in relazione con l’obbligo, che fa capo all’organo di controllo, di “segnalare immediatamente” la “esistenza di fondati indizi della crisi” all’organo amministrativo. Sembra, cioè, doversi attribuire all’obbligo informativo dell’intermediario una sorta di funzione “ancillare” rispetto all’obbligo di segnalazione facente capo all’organo di controllo (declinato nelle previsioni contenute nei precedenti commi dell’art. 14 c.c.i.), nel senso che la comunicazione di tali informazioni all’organo di controllo è intesa a rendere più agevole a quest’ultimo la stessa individuazione di eventuali indizi di crisi6, e, conseguentemente, il puntuale adempimento del proprio obbligo di segnalazione7. Nondimeno, è da evidenziare che l’obbligo di comunicazione di banche ed intermediari è rivolto unicamente all’organo di controllo, e non

5 Mentre la Direttiva (UE) 2019/1023 (“riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza”)”) era ancora allo stato di “proposta” (presentata nel 2016) erano stati a loro volta proposti emendamenti da parte del Consiglio e dal Parlamento europeo; tra questi, un emendamento relativo all’art. 3 prevedeva che tra gli strumenti di “early warning” avrebbero potuto annoverarsi «regular reporting or information obligations for third parties, such as accountants, tax and social securty authorities or certain types of creditors such as banks». Peraltro, il “final compromise” raggiunto con la Commissione e risultante dal testo del 17 dicembre 2018, già non conteneva più questo esplicito riferimento, che infatti non compare neppure nel testo dell’art. 3 della (versione finale della) Direttiva, il cui punto 2 prevede ora che «gli strumenti di allerta precoce possono includere quanto segue: a) meccanismi di allerta nel momento in cui il debitore non abbia effettuato determinati tipi di pagamento; b) servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche o private; c) incentivi a norma del diritto nazionale rivolti a terzi in possesso di informazioni rilevanti sul debitore, come i contabili e le autorità fiscali e di sicurezza sociale, affinché segnalino al debitore gli andamenti negativi». 6 In questa prospettiva anche S. Teti, Procedure di allerta, Torino, 2018, p. 32. Secondo Vella, L’allerta, cit., p. 10, la previsione dell’obbligo per banche e intermediari finanziari trova fondamento nella finalità di «superare eventuali carenze di comunicazione interna tra gli organi societari, e comunque” in quella di “stipulare la massima tempestività nell’attivazione del meccanismo bifasico di allerta (dapprima) interna e (poi) esterna». 7 E’ da ricordare che, secondo quanto previsto nel co. 1 dell’art. 14, «gli organi di controllo societari, il revisore contabile e la società di revisione, ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni, hanno l’obbligo di (…) segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi».

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anche alle altre funzioni (revisore contabile, società di revisione) cui pure è attribuito un autonomo obbligo di segnalazione. Tale circostanza trova una possibile spiegazione nella constatazione che, nell’ambito della revisione legale dei conti, le notizie in merito alle vicende degli “affidamenti” potranno più agevolmente essere acquisite in modo “attivo”, alla luce di quanto previsto dall’art. 14 del d. lgs. n. 39 del 20108. L’obbligo attribuito a banche e intermediari finanziari di dare notizia agli organi di controllo societari (se esistenti) di “variazioni o revisioni o revoche degli affidamenti” è apparentemente sprovvisto di sanzione per il caso della sua inosservanza9: ma occorre comunque domandarsi se e quali profili di responsabilità dell’intermediario possano individuarsi, proprio alla luce della considerazione, già svolta, per cui caratteristica principale dell’obbligo di segnalazione è la sua “strumentalità” rispetto all’obbligo di segnalazione da parte dell’organo di controllo. A differenza della inosservanza dell’obbligo di “comunicazione” (facente capo a banche e ad intermediari finanziari), quella dell’obbligo di “segnalazione” facente capo all’organo di controllo è, invece, esplicitamente sanzionata dalla norma, dal momento che la mancata tempestiva segnalazione può comportare una responsabilità solidale «per le conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o azioni successivamente poste in essere» dall’organo amministrativo «che non siano conseguenza diretta delle decisioni assunte prima della segnalazione». Si tratta di una responsabilità, quest’ultima, che pare possibile ricondurre all’ambito presidiato dall’art. 2407, co. 2, c.c., che rende, a sua volta, i sindaci solidamente responsabili con gli amministratori per i fatti o le omissioni di questi, «quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica»: l’obbligo di segnalazione, infatti, per effetto della previsione contenuta nel c.c.i., viene “integrato” agli obblighi inerenti alla carica.

8 Nell’ambito della revisione legale dei conti, infatti, il citato art. 14 ricompendia la verifica «nel corso dell’esercizio» della «regolare tenuta della contabilità sociale» e della «corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili»; senza contare che al revisore è riconosciuto il diritto di «ottenere dagli amministratori documenti e notizie utili all’attività di revisione legale» e di «procedere ad accertamenti, controlli ed esame di atti di atti e documentazione». Sul punto Miotto, La funzione di revisione legale: intersezione fra disciplina dell’attività e dei soggetti, in Riv. soc., 2018, pp. 433 ss. 9 Lo rileva Guiotto, I sistemi, cit., p. 417, il quale evidenzia al riguardo che “inaspettate revoche o riduzioni di linee di credito” potrebbero essere considerate “indizi della crisi”.

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Per banche e intermediari finanziari, invece, come già ricordato, nessuna sanzione appare prevista, fosse pure indirettamente, per il caso di omissione dell’obbligo di “dare notizia”. Occorre peraltro domandarsi se tale eventuale omissione non possa comunque, in alcuni casi, coinvolgere l’intermediario nella responsabilità dell’organo di controllo (laddove, beninteso, quest’ultima sussista): detta eventualità potrebbe in astratto ipotizzarsi laddove l’apprezzamento di “fondati indizi di crisi” non avrebbe potuto essere effettuato dall’organo di controllo se non attraverso le notizie relative alle vicende degli affidamenti comunicate dall’intermediario. A tale riguardo si potrebbe prefigurare una responsabilità aquiliana dell’intermediario nell’inadempimento (contrattuale) dell’organo di controllo – ciò peraltro dovendo pur presupporre una consapevolezza, in capo all’intermediario, del danno arrecato per effetto di una comunicazione omessa o non veritiera; ovvero, senza necessità di ricorrere alla categoria del dolo, si potrebbe ipotizzare una responsabilità della banca per “lesione del diritto di credito” sul presupposto che l’omissione della comunicazione, ritardando l’attivazione degli strumenti di allerta, abbia avuto una efficienza causale nell’aggravamento della crisi, ledendo, in ultima analisi, la possibilità di soddisfacimento da parte degli altri creditori. Infine, in una ulteriore possibile ricostruzione, alla luce della strumentalità dell’obbligo di “dare notizia” rispetto a quello di “segnalazione”, neppure potrà escludersi che la violazione dell’obbligo di informativa possa rivelarsi, ancorché mediatamente, come fonte di danno per l’impresa, in applicazione del criterio del c.d. “rischio specifico”10: ciò sulla scorta della constatazione che se l’omissione dell’obbligo di comunicazione comporta un apprezzabile aggravamento del rischio del verificarsi di un evento (in ipotesi: l’aggravamento dello stato di crisi) nella misura in cui l’organo di controllo venisse per ciò stesso privato, nel caso concreto, di un parametro di giudizio essenziale ai fini della rilevazione di “fondati indizi di crisi” - l’omissione dell’intermediario cessa di configurarsi come “occasione” del danno per qualificarsi più propriamente come “causa” del medesimo. La responsabilità dell’intermediario, così come appena ipotizzata e tratteggiata, soltanto apparentemente, peraltro, troverebbe assonanze con il paradigma della responsabilità da concessione abusiva di credito11: e ciò sia perché, nel caso ipotizzato, la responsabilità dell’inter-

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Sul punto Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2012, pp. 145 ss. Sulla quale Nigro, La responsbilità delle banche nell’erogazione del credito alle


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mediario per omissione della comunicazione riverbererebbe (sempre, e non eventualmente) un possibile pregiudizio sulla generalità dei creditori, dal momento che si porrebbe come lesivo in modo indifferenziato della garanzia patrimoniale generica rappresentata dal patrimonio della società; e sia perché parrebbe francamente arduo ipotizzare (come invece si opina, talora, con riguardo alla concessione abusiva di credito) un concorso della banca nell’inadempimento dell’obbligo di segnalazione facente capo all’organo di controllo, sulla base della assorbente considerazione che diverso è l’oggetto degli obblighi facenti capo, rispettivamente, agli intermediari e all’organo di controllo (“dare notizia” di vicende relative al rapporto di affidamento, da un lato; “segnalazione” di “fondati indizi di crisi”, dall’altro)12. 2.1. Il contenuto oggettivo dell’obbligo di “dare notizia”. Pervenendo ora al contenuto oggettivo dell’obbligo di comunicazione facente capo a banche ed intermediari, questo – si ripete ancora - consiste nel dare notizia “anche agli organi di controllo societari, se esistenti”, delle “variazioni o revisioni o revoche degli affidamenti”, nel momento in cui queste sono comunicate al cliente. La previsione non appare scevra da serie ambiguità lessicali, riposanti essenzialmente nel riferimento al concetto di “affidamento” che, nella prassi bancaria, appare riferibile a figure negoziali quali l’apertura di credito o a contratti di credito caratterizzati, quanto al loro funzionamento, da una clausola di rotatività13. Che sia questo il significato della nozione recepito dal legisla-

imprese “in crisi”, in Giur. comm., 2011, I, pp. 305 ss. 12 Sui confini della responsabilità da concessione abusiva di credito, da ultimo Inzitari e Depetris, Abusiva concessione di credito, legittimazione del curatore, danno alla massa ed al soggetto finanziato, in Dir. fall., 2018, I, pp. 1035-1081; in tema anche Vitiello, Il ruolo delle banche nell’aggravamento e nella soluzione della crisi d’impresa, in Questione giustizia, 2017, (3), pp. 193-203. In giurisprudenza, recentemente Cass., 14 maggio 2018, n. 11696, in Dir. fall., 2018, II, pp. 1167 ss., con nota di Fava, Danno da abusiva concessione di credito e presupposto soggettivo del terzo creditore: una problematica ricostruzione delle tutele. 13 Spinelli – Gentile, Diritto bancario, Padova, 1991, p. 236. Una ampia ricognizione della nozione di “fido bancario” e della pluralità di connotazioni semantiche alla stessa attribuibili o attribuite nell’importante lavoro di Morera, Il fido bancario, Milano, 1998, il quale, peraltro, evidenzia come spesso l’equiparazione dell’affidamento alla apertura di credito venga effettuata “confusivamente”. La sostanziale “ambiguità” del concetto di “affidamento” è rilevata anche da Fauceglia, I contratti bancari, Torino, 2005, pp. 232234.

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tore appare suggerito anche dalla circostanza che vi sono riferite vicende quali la “revoca” o la “riduzione” che difficilmente si attaglierebbero a contratti di credito diversi (primi fra tutti i contratti riconducibili alla forma tecnica del mutuo): soltanto facendo perno su una interpretazione estensiva fondata sulla ratio della norma si può pervenire ad applicare la norma anche ad altri contratti di credito (e quindi a ritenere, ad esempio, che l’organo di controllo vada informato anche di vicende quali la risoluzione o decadenza dal beneficio del termine di un mutuo). Pure particolarmente arduo appare ipotizzare la applicazione della norma in ipotesi di “revisione” (che è vicenda riguardante adempimenti interni di natura amministrativa del finanziatore, e non vicenda contrattuale); così come invece appare “sovrabbondante” comunicare all’organo di controllo l’eventuale aumento di linee di credito (in quanto ricompreso nel concetto di “variazioni”), e non la sola riduzione. Non appare invece previsto un obbligo di comunicazione relativamente a linee di credito mai perfezionate, ma oggetto di richiesta da parte della società e di successivo diniego da parte dell’intermediario: la circostanza appare invero singolare, considerando che quella appena ricordata è una eventualità che potrebbe disvelarsi come fortemente “sintomatica” nella prospettiva della ricerca di “fondati indizi di crisi”. Quanto alle modalità concrete della comunicazione, per quanto lo schema prefigurato dall’art. 14, co. 4, c.c.i., sembri fare riferimento a due comunicazioni distinte (quella con la quale viene comunicata al “cliente” la vicenda relativa all’affidamento; quella con la quale viene data notizia all’organo di controllo dell’invio di tale comunicazione), sembra comunque ipotizzabile anche la prassi di inviare la medesima comunicazione al “cliente” societario e, per conoscenza, al suo organo di controllo. 3. Gli effetti della attivazione della procedura di allerta e di quella di composizione assistita della crisi sui contratti bancari. In merito agli effetti sui contratti bancari in corso della attivazione della procedura di allerta e di quella di composizione assistita della crisi, dispone il comma terzo dell’art. 12 c.c.i., prevedendo che «l’attivazione della procedura di allerta da parte dei soggetti di cui agli articoli 14 e 15, nonché la presentazione da parte del debitore dell’istanza di composizione assistita della crisi di cui all’articolo 16, comma 1, non costituiscono causa di risoluzione dei contratti pendenti, anche se stipulati con le pubbliche amministrazioni, né di revoca degli affidamenti bancari concessi. Sono nulli i patti contrari».

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Molti sono i problemi ermeneutici sollevati dalla disposizione appena ricordata, che, ancora una volta, paiono piuttosto riposare sulle incertezze lessicali del legislatore. Si pensi, in primo luogo, alla circostanza che vengono evocati gli “affidamenti bancari concessi”: con il che ci si deve domandare se l’impossibilità di procedere a “revoca degli affidamenti” possa riguardare anche le linee di credito concesse da intermediari finanziari di cui all’art. 106 t.u.b. (domanda tanto più lecita se si pensa che gli intermediari finanziari sono invece espressamente coinvolti nell’obbligo di comunicazione all’organo di controllo delle vicende degli “affidamenti”). Sempre con riferimento alla interpretazione “statica” della norma, è da evidenziare che il riferimento alla nozione di contratti “pendenti” resta non accompagnato da una apposita definizione (come invece accade nell’art. 97 c.c.i. per il concordato preventivo e nell’art. 172 per la liquidazione giudiziale), sicché l’interprete deve domandarsi se al riguardo si intenda o meno recepita una nozione di contratto pendente analoga a quella prevista per le procedure appena citate. Quanto invece alla concreta operatività della previsione, ci si deve chiedere se – con riferimento alla attivazione delle procedure di allerta – la ipotesi della previsione all’interno del regolamento contrattuale di tale attivazione come causa di revoca della affidamento possa essere realisticamente configurabile: e ciò per la constatazione che la banca non potrebbe avere conoscenza di detta attivazione perché - a differenza di quanto accade nel procedimento di composizione assistita della crisi, che comporta il possibile contatto con i creditori, quella attivazione - la procedura dovrebbe invece restare confinata al rapporto endosocietario tra organo di controllo e organo amministrativo o a quello esterno con i creditori pubblici qualificati. Il riferimento, in questo caso, alla mera nozione di “affidamento” non sembra creare (come invece accade con riferimento alla norma contenuta nell’art. 14, sopra ricordata) difficoltà operative, dal momento che, in questo contesto, si fa riferimento anche, più in generale, alla “risoluzione” dei contratti: il che comporta la possibilità di ricomprendere nell’ambito oggettivo della disposizione anche i contratti di credito riconducibili alla forma tecnica del mutuo. Resta poi dubbio il concreto valore della previsione della nullità di eventuali patti contrari: sarebbero, cioè, nulli i patti che individuassero nella attivazione di una procedura di allerta o di una composizione assistita della crisi il presupposto oggettivo di una clausola risolutiva espressa, o una causa di recesso, o una ipotesi di inadempimento. A ben vedere, però, tale previsione non sembra poter escludere che, laddove la situazione sostanziale in cui versi l’impresa possa essere dalla banca diversamente apprezzata (cioè venga considerata oggettivamente,

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indipendentemente dalla circostanza che sulla base di essa sia stata, ad esempio, attivata una procedura di allerta: evento, che, tra l’altro, si ripete, la banca neppure dovrebbe ordinariamente conoscere), quella stessa situazione oggettiva possa essere individuata contrattualmente come fondamento della risoluzione o come causa di recesso. Se mai, una concreta “guarentigia” per l’impresa potrebbe piuttosto essere rappresentata dal principio contenuto nell’art. 4, co. 3, c.c.i., secondo cui «i creditori hanno il dovere, in particolare, di collaborare lealmente con il debitore» e «con i soggetti preposti alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi (…)»: quindi non la introduzione di formali clausole limitative della facoltà di risoluzione o di recesso, ma un giudizio in termini di buona fede oggettiva del comportamento della banca che le applichi in maniera eventualmente strumentale14. Se, dunque – stante la “riservatezza” che deve contraddistinguere l’avvio di procedure di allerta – l’ambito operativo concretamente ipotizzabile per la norma in esame appare ridursi a quello dell’avvio delle procedure di composizione assistita della crisi (di cui la banca, in quanto creditore, ben può venire a conoscenza, ancorché la procedura si svolga «in modo riservato e confidenziale dinanzi all’OCRI»: art. 12, co 2 c.c.i.): per effetto della disposizione, allora, i contratti pendenti proseguiranno regolarmente, e potranno avere termine nei casi previsti dalla legge e dal contratto stesso, salva l’eventualità che si pervenga ad una loro rinegoziazione, che dovrà rivestire la forma dell’accordo di cui all’art. 19, co. 4, c.c.i.). È da chiedersi, però, se tra il momento di accesso alla procedura di composizione assistita della crisi e quello dell’eventuale accordo i contratti bancari di affidamento possano o meno essere oggetto delle «misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso», che, ai sensi dell’art. 20 c.c.i., il debitore che abbia fatto istanza di soluzione concordata può richiedere dopo essere stato ascoltato dal collegio dell’OCRI. Si tratta, infatti, di misure caratterizzate da una marcata “atipicità”15: di talché si potrebbe finanche ipotizzare che le stesse

14 Sul dovere di lealtà dei creditori si veda Novarese – Bertuzzi, Appunti in tema di dovere di lealtà dei creditori nel nuovo Codice della crisi, in dirittobancario.it, giugno 2019. 15 Al riguardo Ferro, Allerta, cit., p. 431, preferisce esprimersi in termini di “modularità”, evidenziando che, relativamente al loro contenuto, le misure sono «adattabili in relazione all’utilità protettiva, probabilmente proponibili nel loro dettaglio dallo stesso debitore».

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possano consistere in inibitorie di facoltà negoziali della banca (come, ad esempio, la stessa facoltà di risolvere il contratto). Ove ciò non fosse, l’ingresso del debitore nella procedura di composizione assistita non modifica la posizione dell’intermediario, né la operatività del contratto: ove si pervenisse ad un accordo, il rapporto contrattuale resterà regolato nei termini previsti dall’accordo stesso; ove all’accordo, viceversa, non dovesse pervenirsi, non sembra che la protezione assicurata dall’art. 12, co. 3, c.c.i. possa ancora essere invocata. In quest’ultimo caso, allora, l’intermediario potrà liberamente fare uso delle proprie facoltà contrattuali ed eventualmente porre termine al rapporto; in mancanza, l’eventuale prosecuzione del rapporto stesso resterà condizionata dalla procedura che dovesse fare seguito (accordo di ristrutturazione, concordato preventivo, liquidazione giudiziale).

I “finanziamenti prededucibili” nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza Daniele Vattermoli Sommario: 1. Premessa e delimitazione del campo di indagine. – 2. Le novità apportate dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. – 3. Le questioni irrisolte. – 4. Considerazioni conclusive.

1. Premessa e delimitazione del campo di indagine. In questa relazione mi occuperò dei finanziamenti erogati dalle banche alle imprese in difficoltà economica, ammesse ad una delle procedure di composizione della crisi disciplinate dal nuovo codice della crisi e dell’insolvenza (d’ora in avanti, Codice): in particolare, di quei finanziamenti che generano un credito da restituzione assistito dalla prededuzione1. Visto il tempo a disposizione, mi concentrerò solo sulle novità apportate dal Codice rispetto alla disciplina vigente.

1 Restano fuori dalla trattazione i finanziamenti erogati nell’ambito degli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento – piani che, ai sensi dell’art. 56, co. 2, lett. d) del Codice, debbono tra l’altro indicare, appunto, gli eventuali apporti di nuova finanza – atteso che, in caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, le operazioni connesse ai finanziamenti erogati in esecuzione di tali piani godono dell’esenzione dalla revocatoria, ex art. 166, co. 3, lett. d), ma ai relativi crediti da restituzione non è attribuita la “condizione” di prededucibile.

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In linea generale può dirsi che il Codice, così come la legge fallimentare rimodellata a partire dalla riforma del 2005-2007, punta molto, almeno sulla carta, sulla salvaguardia della continuità aziendale dell’impresa in difficoltà: i meccanismi di allerta e di prevenzione; il rafforzamento degli strumenti negoziali di soluzione della crisi; il palese disfavore mostrato nei confronti delle procedure liquidative, rappresentano altrettanti indici che testimoniano in maniera netta la scelta in tal senso operata dal legislatore del 2019. Naturalmente, quella segnalata è un’opzione di fondo, si direbbe un’aspirazione del legislatore, che nel presente intervento assumo come un dato di fatto: non entro cioè nel merito delle singole scelte e, dunque, non valuto quanto quella aspirazione si sia tradotta in diritto positivo; per far questo occorrerebbe un tempo ed uno spazio che in questa sede non ho. Mi limito così a registrare il trend ed a rilevare che se è alla tutela della continuità aziendale che il sistema tende, un passaggio obbligato diventa allora quello di delineare una cornice di riferimento che disciplini le fonti, la tipologia e le coperture del fresh money, elemento indispensabile, com’è ben noto, per far uscire l’impresa dalla situazione di financial distress, rappresentando il volano per il compimento di nuovi progetti imprenditoriali altrimenti irrealizzabili. Anzi, proprio la disciplina del fresh money può rappresentare un valido banco di prova per testare l’efficacia e l’efficienza del sistema che, come si è detto, fa perno sulla salvaguardia della continuità aziendale. Sempre in linea generale, è altrettanto noto che l’incentivo e la “protezione”, sul piano civilistico, del fresh money avviene essenzialmente, nel nostro come in altri ordinamenti, attraverso due meccanismi: quello della esenzione dall’azione revocatoria delle operazioni (costituzione di garanzie; pagamenti; ecc.) connesse al finanziamento erogato; e quello, che qui più immediatamente interessa, del riconoscimento al credito da finanziamento della condizione di credito prededucibile. Meccanismi che, seppure da diverse angolazioni, reagiscono sulla massa attiva destinata al soddisfacimento dei creditori concorsuali e, dunque, potenzialmente assai pericolosi per questi ultimi. Di qui la necessità, per il legislatore, di individuare pesi e contrappesi che consentano di mantenere il sistema in una condizione di equilibrio tra le istanze del finanziatore che assume il rischio di concedere credito ad una impresa in crisi e quelle dei creditori anteriori a non vedere traslato su di essi tale rischio, peggiorando la loro posizione di partenza.

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Per concludere queste brevi premesse, va infine osservato come l’importanza del fresh money e dei meccanismi di protezione del credito di restituzione dello stesso emerga in tutti i testi, tanto di hard quanto di soft law, sovranazionali. Mi limito a citare i più importanti: la Guida Legislativa Uncitral sul regime di Insolvenza del 20042 e la nuovissima Direttiva UE n. 2019/1023, del 26 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, che all’art. 17.4 espressamente stabilisce che «Gli Stati possono prevedere che i concessori (sic!) di nuovi finanziamenti o di finanziamenti temporanei (interinali) abbiano il diritto di ottenere il pagamento in via prioritaria nell’ambito di successive procedure di insolvenza, rispetto agli altri creditori che altrimenti avrebbero crediti di grado superiore o uguale»3.

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Uncitral, Legislative Guide on Insolvency Law, New York, 2005, pp. 118 ss. In particolare, la Guida, evidenziando l’importanza della c.d. post-commencement finance ai fini del (tentativo di) risanamento dell’impresa in difficoltà, suggerisce ai legislatori nazionali di dotarsi di norme che accordino una causa di prelazione al credito nascente dai finanziamenti erogati per far fronte alle esigenze dell’impresa ammessa alla procedura di risanamento o di insolvenza (Rec. n. 64: «The insolvency law should establish the priority that may be accorded to post-commencement finance, ensuring at least the payment of the post-commencement finance provider ahead of ordinary unsecured creditors, including those unsecured creditors with administrative priority»); senza tuttavia che ciò ridondi in pregiudizio dei diritti dei creditori concorsuali che vantano una garanzia reale sui beni del debitore (Rec. n. 66: «The law should specify that a security interest over the assets of the estate to secure post-commencement finance does not have priority ahead of any existing security interest over the same assets unless the insolvency representative obtains the agreement of the existing secured creditor(s) or follows the procedure in recommendation 67»), salvo che ricorrano determinate circostanze (Rec. n. 67: «The insolvency law should specify that, where the existing secured creditor does not agree, the court may authorize the creation of a security interest having priority over pre-existing security interests provided specified conditions are satisfied, including: (a) The existing secured creditor was given the opportunity to be heard by the court; (b) The debtor can prove that it cannot obtain the finance in any other way; and (c) The interests of the existing secured creditor will be protected»). 3 Leggermente diverso è il tenore del Considerando n. 68, nel quale, dopo aver evidenziato l’importanza di proteggere dall’azione revocatoria gli atti connessi alle operazioni di finanziamento, viene aggiunto che «Tuttavia, per incoraggiare i nuovi prestatori ad assumere il rischio maggiore di investire in un debitore sano che versa in difficoltà finanziarie, potrebbero essere necessari ulteriori incentivi, ad esempio dare a tali finanziamenti la priorità almeno sui crediti non garantiti nelle successive procedure di insolvenza» (chiara, sul punto, l’influenza della citata Raccomandazione n. 64 della Guida Legislativa Uncitral).

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2. Le novità apportate dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. A. Il Codice dedica ai c.d. “finanziamenti prededucibili” – l’espressione, com’è evidente, è del tutto atecnica, non essendo il finanziamento ad essere prededucibile, ma, come detto, il credito da restituzione delle somme erogate – gli articoli 99, 101 e 102, riproponendo solo in parte la scansione tipologica della attuale legge fallimentare. Più in particolare, vengono riprodotte le norme sui finanziamenti c.d. interinali e sui finanziamenti in esecuzione, che nel Codice sono contenute negli articoli, rispettivamente, 99 e 101; nonché la norma sui finanziamentisoci (art. 102), che rimane sostanzialmente immutata rispetto all’attuale art. 182-quater, co. 3. Scompare invece, almeno formalmente, la tipologia dei c.d. finanziamenti-ponte, nella legge fallimentare disciplinati dall’182-quater, co. 2, sui quali tornerò in un secondo momento. B. Premesso il quadro normativo generale, è ora possibile procedere ad illustrare le differenze esistenti tra il Codice e l’attuale legge fallimentare, limitando l’attenzione, come anticipato, ai finanziamenti interinali e a quelli in esecuzione nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione. a) Con riferimento ai finanziamenti erogati in esecuzione di un piano di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione, le maggiori novità introdotte dall’art. 101 del Codice rispetto all’attuale art. 182-quater, co. 1 l.fall. sembrerebbero essere le seguenti. Nel Codice, in primo luogo, la prededuzione è espressamente condizionata alla continuità aziendale: ciò significa che ipotetici finanziamenti erogati in esecuzione di un accordo di ristrutturazione che non preveda la continuità aziendale o di un concordato preventivo a contenuto liquidatorio non potranno godere della prededuzione. Il problema qui potrebbe porsi – ma francamente non credo che possa coinvolgere il ceto bancario – per quei soggetti che finanziano il debitore che presenta un concordato liquidatorio, qualora la liquidazione presupponga un’attività di ripristino, ad esempio, dei beni immobili o dei macchinari dell’impresa: se, per qualsivoglia motivo, il concordato dovesse essere successivamente annullato o risolto, il credito vantato dal finanziatore non potrebbe godere della prededuzione. In secondo luogo, il Codice specifica – anche se, in realtà, non sembrava che vi fossero dubbi in proposito, pur in mancanza di una norma

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espressa – che tra i finanziamenti in qualsiasi forma effettuati, rientra anche la concessione di garanzie4. Ancora, scompare la precisazione che la prededuzione è da intendersi ai sensi e per gli effetti dell’art. 111 (in futuro, art. 221 Codice), generando così il dubbio sul concreto ambito di operatività della prededuzione: sul punto si tornerà subito appresso. Quel che più colpisce, nella nuova disciplina, è tuttavia la precarietà del “beneficio” della prededuzione, che secondo quanto stabilito dal co. 2 dell’art. 101 viene meno «quando il piano di concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti risulta, sulla base di una valutazione da riferirsi al momento del deposito, basato su dati falsi o sull’omissione di informazioni rilevanti o il debitore ha compiuto atti in frode ai creditori e il curatore dimostra che i soggetti che hanno erogato i finanziamenti, alla data dell’erogazione, conoscevano tali circostanze». Il vizio che rende instabile la priorità nel soddisfacimento può dunque annidarsi nel piano, oppure essere conseguenza del comportamento del debitore non direttamente ricollegabile al piano medesimo: in entrambe le ipotesi è necessario che vi sia (almeno) la consapevolezza del finanziatore. La possibilità che la prededuzione venga successivamente meno potrebbe rappresentare un reale ostacolo alla concessione di nuovi finanziamenti, mettendo così a rischio il buon esito delle operazioni di risanamento; e ciò specialmente qualora dovesse giungersi ad interpretare la norma nel senso che sarebbe sufficiente, ai fini della revoca appunto, anche la mera conoscibilità, secondo il criterio di ragionevolezza, del comportamento contra legem del debitore. La lettera della legge non chiarisce, poi, cosa succeda nell’ipotesi in cui all’accordo di ristrutturazione segua il concordato preventivo. In tale

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In argomento v., altresì, il Considerando n. 66 della Direttiva n. 2019/1023, cit., nel quale si legge: «Il successo del piano di ristrutturazione spesso dipende dal fatto che l’assistenza finanziaria è erogata al debitore per sostenere, in primo luogo, l’operatività dell’impresa durante le trattative di ristrutturazione e, in secondo luogo, l’attuazione del piano di ristrutturazione dopo l’omologazione. L’assistenza finanziaria dovrebbe essere intesa in senso lato, compreso nel senso di erogare denaro o garanzie personali e di fornire giacenze, inventari, materie prime e servizi, ad esempio concedendo al debitore un termine di rimborso più lungo. I finanziamenti temporanei e i nuovi finanziamenti dovrebbero pertanto essere esclusi dalle azioni revocatorie volte a dichiararli nulli, annullabili o inopponibili in quanto atti pregiudizievoli alla massa dei creditori nell’ambito di successive procedure di insolvenza».

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caso, premesso che la preferenza nel soddisfacimento dovrebbe valere anche nella procedura concordataria, si pone il problema di chi possa far valere ed eventualmente come la regola sulla precarietà, sempre che possa ritenersi esistente uno spazio per l’ammissione al concordato del debitore che si sia “macchiato” di uno degli atti di cui al co. 2 dell’art. 101. b) È però, con riferimento ai finanziamenti interinali che si registrano le maggiori differenze rispetto alla disciplina attuale. In primo luogo, anche l’art. 99, co. 1 àncora la prededuzione dei finanziamenti interinali alla continuazione dell’attività aziendale. In secondo luogo, l’art. 99, co. 3 generalizza la regola, oggi contenuta nell’art. 182-quinquies, co. 3, per i finanziamenti urgenti, ossia quelli per i quali non è richiesta l’attestazione del professionista. Nella richiesta di autorizzazione, infatti, il debitore deve sempre specificare la destinazione dei finanziamenti, che il debitore non è in grado di reperirli altrimenti e indicare le ragioni per cui l’assenza di tali finanziamenti determinerebbe grave pregiudizio per l’attività aziendale o per il prosieguo della procedura. Se a ciò si aggiunge che non è stata replicata la norma (oggi contenuta nell’art. 182-quinquies, co. 2) che prevede che l’autorizzazione può riguardare anche finanziamenti individuati soltanto per tipologia ed entità e non ancora oggetto di trattative, ben può dirsi che, sul punto, la disciplina introdotta dal Codice sia più cauta dell’attuale. Di segno opposto, però, è la valutazione in ordine ai c.d. finanziamenti interinali urgenti. A differenza di quanto accade nella vigenza della legge fallimentare, infatti, nella nuova disciplina l’autorizzazione per tali finanziamenti può essere richiesta non solo in caso di domanda incompleta di concordato (o di concordato in bianco); né è limitata ai finanziamenti necessari alla copertura dei costi sostenuti nel torno di tempo intercorrente tra la presentazione della domanda e lo spirare del termine per la presentazione della proposta e del piano. La richiesta di autorizzazione del finanziamento “urgente” può invero intervenire in un momento qualsiasi della procedura: la conseguenza non è di poco momento, perché mentre la richiesta “non urgente” deve essere accompagnata dalla relazione del professionista che attesta, tra l’altro, che il finanziamento è funzionale alla migliore soddisfazione dei creditori; per quelli “urgenti” la verifica del tribunale sembrerebbe doversi limitare – almeno stando al dato testuale della norma – all’esigenza di evitare un danno grave ed irreparabile dell’attività aziendale (art. 99, co. 3, ult. periodo). Anche per i finanziamenti interinali vale, infine, quella che potrebbe definirsi la “clausola di salvaguardia”, che esclude la prededuzione

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nella successiva procedura di liquidazione in caso di comportamenti fraudolenti del debitore, di cui il finanziatore era a conoscenza (art. 99, co. 6). 3. Le questioni irrisolte. Non tutte le questioni che ruotano intorno ai “finanziamenti prededucibili” possono dirsi superate dal nuovo Codice, la cui entrata in vigore, anzi e all’opposto, sembra destinata a generarne di nuove. a) La prima questione concerne la sorte dei crediti per i finanziamenti-ponte. Come si diceva, nel Codice non è riprodotta la norma di cui all’attuale art. 182-quater, co. 2; d’altra parte, il nuovo art. 221 del Codice, che andrà a sostituire l’art. 111 l.fall., non contiene più alcuna definizione generale dei crediti prededucibili, mentre l’art. 6, co. 1 si limita a stabilire che sono prededucibili quelli così qualificati dalla legge (oltre ad una serie puntuale di altre ipotesi, sulle quali si tornerà). Scompare così il riferimento ai crediti sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali, di cui, appunto, all’art. 111, co. 2 l.fall. Tutto lascia dunque intendere che per la prededucibilità dei crediti erogati in funzione della presentazione del ricorso per l’accesso alle procedure di composizione negoziata della crisi non vi sia spazio alcuno. E, più in particolare, che spazio non vi sia per gli eventuali finanziamenti a tal fine erogati dalle banche; e ciò a differenza dei crediti, ugualmente funzionali all’accesso a tali procedure, vantati dai professionisti che intervengono nella predisposizione e nella presentazione della domanda, della proposta e del piano, che invece, ai sensi dell’art. 6, co. 1 lett. b) e c), godono, seppure nella misura del 75% del credito accertato, della prededuzione. È quasi banale osservare come la scelta di non proteggere o di non incentivare la finanza-ponte – in uno con quella di consentire l’accesso alle procedure di composizione negoziata della crisi anche agli imprenditori insolventi –, rappresentando un grave ostacolo alla salvaguardia della continuità aziendale si ponga, in ultima analisi, in perfetta antitesi con l’obiettivo di fondo, di cui si è detto in apertura, dell’intera riforma. b) La seconda questione concerne l’applicabilità della disciplina qui sinteticamente richiamata alle ipotesi di concordato in continuità indiretta (anche, eventualmente, sulla base di una proposta concorrente) o di accordo che preveda la cessione dei complessi produttivi in esercizio ad un terzo. Il problema sorge qualora la cessionaria del patrimonio dell’impresa in crisi dovesse a sua volta essere assoggettata a liquidazione giudiziale, ponendosi il quesito circa la possibilità di far valere la

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prededuzione del credito per il finanziamento erogato in esecuzione del concordato o dell’accordo anche in quella procedura. La questione è molto delicata, ma, a mio avviso, la risposta al quesito posto deve essere negativa. La prededuzione, in generale, non rappresenta una qualità intrinseca del credito, come tale oggetto di “circolazione” congiuntamente al medesimo, dovendo di contro ad essa riconoscersi una valenza esclusivamente processuale. L’autorizzazione del tribunale, con il conseguente vaglio implicito degli interessi dei creditori che essa presuppone, viene concessa facendo riferimento al patrimonio del soggetto ammesso alla procedura di concordato o di omologazione degli accordi. Diversamente opinando, si consentirebbe alla banca finanziatrice di sottrarsi al concorso sostanziale con i creditori di un’altra società, rispetto a quella ammessa alla prima procedura concorsuale; creditori che non soltanto non erano stati presi in considerazione ai fini del rilascio dell’autorizzazione e della relazione del professionista, ma che non hanno neanche avuto modo di esprimersi sul piano medesimo. Né a diversa conclusione potrebbe giungersi argomentando dal nuovo art. 6, co. 2 Codice, ai sensi del quale «La prededucibilità permane anche nell’ambito delle successive procedure esecutive o concorsuali», perché è evidente che il riferimento contenuto nella norma alle successive procedure esecutive o concorsuali è a quelle eventualmente disposte nei confronti del medesimo debitore. c) Proprio la disposizione da ultimo menzionata introduce il problema, più generale ma che ovviamente rileva anche ai nostri fini, del modo di operare della prededuzione. Sul punto, occorre premettere che di prededuzione in senso stretto può (dovrebbe) parlarsi solo nell’ambito di una procedura di stampo liquidatorio. Essa, invero, opera sul sistema di graduazione dei crediti, realizzando la separazione di una parte dell’attivo liquido che sarebbe destinato al soddisfacimento dei creditori concorrenti, che viene utilizzata per soddisfare, appunto, il prededucibile. Così, sempre sul piano teorico, mentre il rango del credito entra in giuoco per risolvere il conflitto generato dal concorso sostanziale in atto tra i creditori; la prededuzione opera a monte di detto conflitto, sottraendo il titolare del credito prededucibile dal concorso sostanziale con gli altri creditori concorrenti. Ciò significa che in procedure diverse dalla liquidazione giudiziale non si può (potrebbe), tecnicamente, parlare di crediti prededucibili, neanche qualora il trattamento loro riservato si ponga su di un piano di stretta analogia con quello riservato a questi ultimi: in tale ipotesi si dovrebbe parlare, più correttamente, di crediti extraconcorsuali.

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Se quanto precede è vero, l’art. 98 Codice (rubricato “Prededuzione nel concordato preventivo”), ai sensi del quale «I crediti prededucibili sono soddisfatti durante la procedura alla scadenza prevista dalla legge o dal contratto», dovrebbe essere interpretato nel senso che tutti i crediti che nella eventuale procedura di liquidazione giudiziale godrebbero della prededuzione (indipendentemente dal fatto che siano sorti nell’ambito di una precedente procedura di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti o del concordato medesimo) sono soddisfatti, all’interno della procedura di concordato preventivo, come crediti extraconcorsuali, i cui titolari, cioè e detto in altro modo, non sono destinatari della proposta. Soluzione che discende dal principio generalissimo secondo cui il concordato non può rappresentare, per il creditore (qualunque creditore), una soluzione peggiorativa rispetto all’alternativa data dalla apertura della liquidazione giudiziale. Cosicché se un credito in quest’ultima procedura deve essere soddisfatto per intero e alla scadenza, a fortiori ciò deve avvenire nell’ambito della procedura concordataria (5). d) Altra questione generata dall’introduzione del Codice riguarda l’applicabilità di tale disciplina al concordato minore. La disciplina specifica dedicata a tale procedura non contempla norme ad hoc sui finanziamenti prededucibili. Tuttavia, l’art. 74, co. 4 Codice stabilisce che «Per quanto non previsto dalla presente sezione, si applicano le disposizioni del capo III del presente titolo in quanto compatibili». Malgrado la snellezza delle forme e la maggiore semplificazione dei passaggi procedurali, non sembra che le disposizioni contenute negli articoli 99 e 101 presentino elementi o tratti di incompatibili con la natura, la funzione e la struttura del concordato minore. Peraltro, che la disciplina dei finanziamenti prededucibili sia in linea di principio compatibile con le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento è reso evidente da ciò, che gli articoli 99 e 101, riferendosi genericamente ai finanziamenti erogati nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, trovano sicuramente applicazione anche qualora a tale procedura acceda un’impresa agricola. Se così è, allora non dovreb-

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La stessa Legislative Guide on Insolvency Law dell’Uncitral, trattando della postcommencement finance, raccomanda che «The insolvency law should specify that where reorganization proceedings are converted to liquidation, any priority accorded to postcommencement finance in the reorganization should continue to be recognized in the liquidation» (Rec. n. 68).

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bero esservi ostacoli a considerare applicabile tale disciplina anche in ipotesi di concordato minore delle imprese agricole e, a cascata, delle imprese commerciali di minori dimensioni e, perché no, del professionista che voglia continuare la propria attività professionale. 4. Considerazioni conclusive. In sintesi, può dirsi che la disciplina del Codice sui c.d. “finanziamenti prededucibili” si discosta solo in parte da quella attuale, immutato essendo il risultato di fondo che si vuole conseguire (la tutela della continuità aziendale) e lo strumento per raggiungerlo (la prededuzione). Nel complesso, tuttavia, si nota una maggiore rigidità nel riconoscimento del beneficio della prededuzione, la cui tenuta, anche quando inizialmente riconosciuta, potrebbe in un secondo momento venire meno. La mancanza, infine, della protezione per la finanza-ponte può determinare un grave ostacolo al raggiungimento di quell’obiettivo, anche perché è più che probabile, considerando la nostra cultura imprenditoriale, che l’accesso alle procedure di composizione negoziata della crisi venga richiesta da imprese già in stato di insolvenza.

Nuove forme di garanzia e Codice della crisi Fabrizio Maimeri La scelta dell’argomento di questo intervento è preordinata a verificare – sia pure in prima lettura di norme non ancora applicabili – quale sia stato l’orientamento del legislatore delegato in ordine alla sorte, in sede di stesura del codice della crisi d’impresa, delle molte innovazioni in tema di garanzie registratesi in questi ultimi anni nell’ambito delle regole stabilite per alcune operazioni di finanziamento introdotte nel nostro ordinamento. L’argomento presentava una qualche novità e quindi è stato condiviso dagli organizzatori di questo incontro. In effetti molte delle operazioni cui ci si riferisce hanno incidenza sul regime delle garanzie, circostanza che, pur muovendosi nell’ambito delle procedure singolari, possono avere una loro eco in quelle concorsuali e quindi essere oggetto di una qualche attenzione in quella sede. 1. Seguendo un criterio espositivo cronologico, si ricorda che l’art. 11-quaterdecies della legge n. 248/2005 aveva introdotto il c.d. “prestito vitalizio ipotecario”, articolo, profondamente modificato dalla legge 2

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aprile 2015, n. 441, il quale consente alle banche (e agli intermediari bancari vigilati ex art. 106 t.u.b.) di concedere finanziamenti a medio e lungo termine, con capitalizzazione annuale di interessi e di spese (eccezione al divieto di anatocismo che si aggiunge a quella di cui all’art. 120, co. 2, t.u.b., relativa alle operazioni in conto corrente, e che, priva di oggettiva motivazione, è probabilmente frutto di un difetto di coordinamento), riservato a persone fisiche con età superiore a sessanta anni compiuti2, il cui rimborso integrale in unica soluzione può essere richiesto al momento della morte del soggetto finanziato ovvero qualora vengano trasferiti, in tutto o in parte, la proprietà o alti diritti reali o di godimento o si compiano atti che ne riducano significativamente il valore. È fatta salva la modalità del finanziato di concordare, al momento della stipulazione del contratto, modalità di rimborso graduale3.

1 Tanto che si è parlato di un «istituto nato due volte»: Bulgarelli, La disciplina del prestito vitalizio ipotecario, in www.ilcaso.it, 22 aprile 2015, p 1. 2 Per questo motivo l’istituto è stato ricondotto all’ambito del “gerodiritto”, cioè «a quegli strumenti negoziali adoperati da un soggetto di una certa età che, per migliorare la propria qualità della vita, investe la ricchezza accumulata nel corso degli anni per ottenere dei vantaggi, come l’erogazione di credito, o allo scopo di ricevere assistenza». Una definizione così generica è imposta dalla diversità degli strumenti tra loro, sia in relazione alla fonte da cui essi derivano (legislativa, giurisprudenziale o dottrinale, sia guardando alle finalità perseguite dal soggetto (ottenere credito o assistenza, e, in relazione a quest’ultima, le diverse modalità in cui essa può esplicarsi): Franco, Alle origini del prestito vitalizio ipotecario: il Gerodiritto, in www.dirittobancario.it, 26 ottobre 2016. 3 Ma in tal caso, recita il co. 12-bis dell’art. 11-quaterdecies, sulla quota di interessi e di spese concordata «non si applica la capitalizzazione annuale degli interessi». Insomma, la capitalizzazione annuale si applica nel calcolare il prestito vitalizio ma se per il prestito viene previsto un graduale rimborso durante la vita del mutuatario, allora la capitalizzazione non si applica. Un trattamento un po’ singolare (si capitalizza quando il debito deve essere pagato dagli eredi, non si capitalizza se lo paga il mutuatario) di cui sfugge la ragione ma che in ogni caso aggiunge all’eccezione prevista al divieto di capitalizzazione di cui all’art. 120, co. 2, t.u.b. (la capitalizzazione nei conti correnti) quella del prestito ipotecario vitalizio non rimborsabile. «La possibilità, riconosciuta in capo all’istituto bancario, di disporre in via automatica la capitalizzazione annuale degli interessi costituisce una vera e propria lex specialis rispetto a quanto previsto dal secondo comma dell’art. 120 t.u.b. e, senza dubbio, determina quale conseguenza inevitabile un rilevante aggravamento della posizione economica del soggetto finanziato. A seguito delle modifiche operate nel 2015, in tema di prestito vitalizio ipotecario non trova quindi applicazione il divieto di anatocismo quale regola generale ma, al contrario, viene prevista in via automatica la capitalizzazione annuale degli interessi e delle spese, salvo una espressa eventuale deroga pattizia. Ci si trova pertanto di fronte ad una vera e propria inversione del rapporto regola - eccezione rispetto

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Il finanziamento è garantito da ipoteca di primo grado su immobili residenziali; qualora esso non sia integralmente rimborsato entro dodici mesi dal decesso del mutuatario, il finanziatore vende l’immobile a un valore pari a quello di mercato, determinato da un perito indipendente incaricato dal finanziatore, utilizzando le somme ricavate dalla vendita per estinguere il credito vantato in dipendenza del finanziamento stesso. Trascorsi ulteriori dodici mesi senza che sia stata perfezionata la vendita, tale valore viene decurtato del 15 per cento ogni dodici mesi successivi fino al perfezionamento della vendita dell’immobile. In alternativa, l’erede può provvedere alla vendita in accordo col finanziatore, purché essa si perfezioni entro dodici mesi dal conferimento dell’incarico di vendita4. Le eventuali somme residue, ricavate dalla vendita e non portate ad estinzione del credito, sono riconosciute al soggetto finanziato o ai suoi aventi causa. Il mutuatario riceve soldi che utilizza per gli ultimi anni della sua vita e, di solito, non restituirà, trasferendo il debito agli eredi; gli eredi potranno pagare e mantenere il bene ipotecato, ovvero promuovere insieme alla banca la vendita, ovvero ancora attendere la vendita dell’immobile, con l’intesa che il ricavato estingue in ogni caso il credito della banca e l’eventuale residuo spetta agli eredi medesimi5.

a quanto disposto dall’art. 1283 c.c.: ai commi 12 e 12-bis dell’art. 11-quaterdecies viene difatti prevista in “via ordinaria” la capitalizzazione degli interessi corrispettivi, la quale viene esclusa solo ed unicamente nell’ipotesi di espressa pattuizione contraria»: Bezzi, Nota a Trib. Roma, 13 luglio 2017, in www.Letteralegale.info, 18 settembre 2017. 4 A tutela dell’acquirente «è previsto che le domande giudiziali di cui all’art. 1652, comma 1, nn. 7) e 8) c.c., trascritte successivamente alla trascrizione dell’acquisto, siano inopponibili nei confronti dell’acquirente. La norma, dunque, stabilisce che non hanno effetto le domande giudiziali volte a (i) contestare il fondamento di un acquisto a causa di morte di un diritto reale immobiliare; (ii) ottenere la riduzione della donazione e delle disposizioni testamentarie per lesione di legittima»: Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Il prestito vitalizio ipotecario: inquadramento civilistico e tributario, in www.fondazionenazionalecommercialisti.it, 30 giugno 2015. 5 Il legislatore non ha previsto espressamente che il finanziatore (o altra società appartenente alla sua “cerchia”, si pensi alle società controllate o collegate) non possa acquistare il bene: «benché l’istituto del prestito vitalizio sia orsa disciplinato per legge e se ne debba pertanto ritenere l’indiscutibile legittimità, ed oltretutto preveda anche la determinazione del prezzo della vendita ad opera di un terzo, che potrebbe già di per sé escludere la possibilità di un conflitto di interessi, una previsione in tal senso sarebbe tuttavia oltremodo opportuna nell’ottica di allontanare dalla figura ogni sospetto ai frode al patto commissorio e ipotesi d’annullabilità»: Bulgarelli, La disciplina, cit., pp 8-9.

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Posto che si tratta di uno strumento nato con finalità assistenziali, alla stregua di quanto avvenuto in altri Paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia; che l’abitazione vi svolge una duplice funzione: «da un lato soddisfa le esigenze abitative del titolare, dall’altro costituisce lo strumento per ottenere credito al fine di soddisfare le proprie esigenze di vita»6; che si tratta di uno strumento originale, «se non altro per il fatto che l’età avanzata rappresenta un incentivo per il finanziatore, in quanto prefigura una più breve durata del prestito, con riduzione dei rischi sia di un incremento dei tassi di interesse che di decremento del valore dell’immobile offerto in garanzia»7; che secondo alcuni commentatori l’ipoteca qui non svolgerebbe la sua naturale funzione di garanzia, quanto piuttosto quella di rendere opponibile ai terzi la legittimazione a vendere l’immobile, attribuita ex lege al finanziatore8; interessa in questa sede ribadire l’affermazione del patto marciano, con l’obbligo del creditore di restituire al debitore quanto eventualmente incassato dalla vendita del bene in misura maggiore a quella rappresentata dal proprio credito, e prendere atto del tentativo di evitare le lungaggini di una vendita forzata del bene ipotecato secondo le regole pubblicistiche: la garanzia per il creditore dovrebbe essere assicurata dall’intervento del perito indipendente, sebbene scelto dal finanziatore9. Del pari interessa

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Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1-2017/C: Recenti riforme in tema di garanzie del credito bancario, in www.notariato.it, pp. 3-4. 7 Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1-2017/C: Recenti riforme, cit., p. 5. «Il contratto di prestito vitalizio ipotecario è un negozio giuridico tipico caratterizzato, a differenza del credito fondiario, dalla determinabilità soltanto ex post della durata effettiva del contratto, rispetto al momento della stipulazione. Esso è, inoltre, contraddistinto da un’alea particolare legata non solo all’incertezza della durata del contratto ma anche alla necessità di fare affidamento sul pagamento da parte degli eredi, o, in alternativa, sul solo valore di realizzo dell’immobile. Deve quindi ritenersi giustificata l’esclusione della figura in questione, ai fini delle determinazioni del tasso soglia ex l. 106/96, dalla categoria dei “Mutui”, dovendo essere invece correttamente inserito in quella “Altri finanziamenti”, non essendo previsto il pagamento di rate comprensive di capitali e interessi»: Trib. Roma, 13 luglio 2017. 8 Chianale, L’inutilità dell’ipoteca nel “prestito vecchietti”, in Notariato, 2016, p. 358. 9 «La tendenza del legislatore, dunque, ad ammettere forme di patto marciano è nel segno di inquadrare il divieto di cui all’art. 2744 c.c. come norma la cui ratio è da rinvenire nell’esigenza di tutela della parte debole del rapporto obbligatorio, esposta al rischio di approfitta mento da parte del creditore: la stima compiuta dal terzo consente di scongiurare tale eventualità, giacché la banca non potrà che rivalersi nei limiti della portata del suo credito»: Rizzi, I nuovi strumenti contrattuali contro la crisi economica: il c.d. rent to buy e il prestito vitalizio ipotecario, in www.salvisjuribus.it, 15 maggio 2018.

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cogliere la diffusione e il successo dello strumento di garanzia e, più in generale, dell’operazione. Sotto quest’ultimo profilo, sebbene i provvedimenti attuativi siano stati emanati, a differenza di quanto accade per il pegno senza spossessamento10, questa operazione di finanziamento non è considerata particolarmente vantaggiosa dalle banche11. A parte infatti le notazioni in tema di prevedibile “brevità” dell’ammortamento rispetto ai mutui ordinari e il conseguente contenimento nel tempo della permanenza dei rischi, vi è da contrapporre la mancata percezione delle rate; la circostanza che il rientro è limitato a quanto incassato in sede di vendita del bene, realizzandosi un effetto esdebitativo degli eredi («l’importo del debito residuo non può superare il ricavato della vendita dell’immobile al netto delle spese sostenute», recita il co. 2-quater); l’alea in sede di escussione, attesi gli imprevedibili rapporti con gli aventi causa del de cuius e in ogni caso il tempo che deve trascorrere prima di poter agire, sia pure in via privatistica ma non per questo più fruttuosa, in un periodo di mercato immobiliare cedente; la connessa alea derivante dai rapporti fra l’ipoteca accesa a fronte del mutuo e gli altri creditori, certo meglio disciplinati nella novella normativa ma non chiaramente definiti. Tutto ciò porta all’applicazione di tassi di interesse non convenienti per i mutuatari, anche se forse qualcosa potrebbe cambiare12.

10 Cfr. il decreto del Ministro dello sviluppo economico, del 22 dicembre 2015, n. 226, “Regolamento recante norme in materia di disciplina del prestito vitalizio ipotecario, ai sensi dell’art. 11-quaterdecies, comma 12-quinquies, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, conv. dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge 2 aprile 2015, n. 44”. 11 Per un’analisi concreta ed esemplificativa dell’operazione di finanziamento in esame cfr. la nota redazionale Il prestito vitalizio ipotecario (con esempio concreto), apparsa in www.diritto.it, 17 novembre 2016 12 In un articolo apparso il 21 maggio 2015 su www.lavoce.info, R. Lungarella si soffermava su Prestito vitalizio ipotecario: perché lo chiedono in pochi, osservando che «dall’esame del foglio informativo dell’unico prodotto offerto, per ora, dal mercato (…), il Pvi risulta molto oneroso e poco efficace, salvo che il beneficiario non abbia un’età molto avanzata». Più recentemente però, in occasione del passaggio del pacchetto di un intermediario specializzato nel settore ad altro intermediario – di per sé operazione che segna un interesse concreto al fenomeno -, Padovan, Prestito ipotecario vitalizio: un mercato pronto al decollo, in www.bancaforte.it, 14 febbraio 2018 affermava che si è di fronte a un mercato potenziale che vale oltre 2 miliardi di euro e che ha tutti i presupposti per poter decollare: «una domanda elevata di credito da parte delle persone più anziane che oggi rimane spesso insoddisfatta, nonostante l’importante patrimonio immobiliare; una regolamentazione riformata recentemente in accordo con ABI e con le Associazioni

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In questo quadro, ai fini che qui interessano, risaltano i seguenti profili: a).la vendita diretta del bene ipotecato, sulla base di un valore stimato da un esperto indicato dall’intermediario procedente; b).l’effetto esdebitativo della vendita, nel senso che oltre quanto ottenuto dalla escussione “privata” dell’ipoteca, l’intermediario non può chiedere altro agli eredi, qualora l’importo ottenuto fosse inferiore al credito reclamato; c).si applica il patto marciano, atteso che nell’ipotesi opposta a quella di cui alla lettera precedente, il surplus deve essere reso dall’intermediario all’erede. 2. Quella sorta di autotutela prevista per l’ipoteca a fronte di un prestito vitalizio si ripete in caso di inadempimento qualificato del consumatore in un contratto di credito immobiliare: ove il tutto sia previsto in una clausola contrattuale e si sia in presenza di un mancato versamento per diciotto rate mensili, o il bene viene consegnato alla banca13, ovvero

dei consumatori (legge 44 del 2015, con i decreti attuativi pubblicati nel marzo 2016); alcune banche – tra cui i 2 più grandi gruppi italiani - che hanno già iniziato ad offrire il prodotto; un mercato europeo di riferimento, quello della Gran Bretagna, in continua crescita e che nell’ultimo anno ha raggiunto i 3 miliardi di sterline di erogato, con un balzo del 50% in soli 12 mesi». Rimane tuttavia condivisibile la domanda, in grado di azzerare le prospettive più rosee: «saprà il sistema giuridico italiano accogliere con favore queste innovazioni normative, adattandole ai nostri dettami costituzionali? O l’istituto rimarrà inutilizzato, così come successe al momento del suo ingresso? Il progresso (giuridico), in un senso o nell’altro, è anche questo»: Rombolà, Prestito vitalizio ipotecario: un’ingombrante eredità per le future generazioni, in www.altalex.com, 5 aprile 2016. 13 È legge la norma che trasferisce alla banca l’immobile dopo 18 mensilità non pagate è il titolo con il quale il Consiglio nazionale del notariato – con nota consultabile in www.notariato.it – rendeva noto, il 1° luglio 2016, l’introduzione dell’art. 120-quinquiesdecies t.u.b., precisando che (p. 3) - «con una procedura singolarmente identica a quella prevista dalla normativa sul prestito vitalizio ipotecario [ma forse un po’ di uniformità di procedure per casi identici non guasta], potendosi ormai definire una tendenza legislativa – la riforma va incontro alle richieste provenienti dal mondo bancario, consentendo all’istituto finanziatore, in caso di inadempimento del soggetto finanziato, di “saltare” le lungaggini giudiziarie della procedura esecutiva immobiliare, e di gestire privatamente il recupero del proprio credito, acquistando direttamente la proprietà del bene o vendendolo sul mercato come se fosse cosa propria». In chiave più segnatamente consumeristica, si è rilevato che «la tutela accordata al consumatore sembra arretrare, per consentire un avanzamento della posizione dell’intermediario. In ipotesi di inadempimento. Infatti, mentre nella disciplina del credito ai consumatori del capo II la tutela degli interessi dell’intermediario si compendia

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questa, previa perizia redatta da un tecnico nominato di comune accordo tra le parti (o, in difetto di accordo, dal presidente del tribunale territorialmente competente)14, può procedere alla vendita del bene in sede negoziale e quindi al di fuori di un’esecuzione immobiliare ex art. 555 ss. c.p.c.: così l’art. 120-quinquiesdecies t.u.b. (introdotto in esito al recepimento della direttiva 2014/17/UE, operato con il d.lgs. n. 72/2016)15. Il vantaggio ulteriore che deriva al consumatore dalla previsione di una clausola siffatta è che la consegna del bene alla banca ovvero il ricavato della vendita inferiore al debito comporta l’estinzione dell’intero debito. Va da sé che, «se il valore dell’immobile come stimato dal perito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è superiore al debito residuo, il consumatore ha diritto all’eccedenza»: l’affermazione del patto marciano

essenzialmente nella valutazione. Allo stesso rimessa, in ordine al merito creditizio del cliente, cui procede nella fase precontrattuale e che gli consente di compiere scelte ampiamente discrezionali in ordine all’opportunità di concedere credito – giacché mai il cliente potrà vantare un diritto al credito – nel capo I-bis, con l’introduzione della disciplina trasfusa nell’art. 120-quinquiesdecies, la posizione dell’intermediario viene ulteriormente rafforzata; a questo viene riconosciuta non solo la tutela preventiva di cui all’art. 120-undecies tub [valutazione del merito creditizio], ma gli viene anche consentito di soddisfarsi coattivamente sul bene immobile, in maniera autonoma, privando il già debole consumatore anche delle garanzie offerte dal processo esecutivo giudiziario», consumatore che, «con estrema facilità, può venire spogliato dall’intermediario del bene che aveva acquistato»: Albanese, Prime riflessioni sull’art. 120-quinquiesdecies tub nella prospettiva dell’equilibrio del rapporto tra intermediario e cliente, in www. dirittodelrisparmio.it, 22 dicembre 2018. 14 «Si tratta all’evidenza di una disciplina più garantista rispetto a quella dettata per il prestito vitalizio ipotecario (I.P.V.) che si limita invece a stabilire che il suo valore di mercato sia determinato da un perito indipendente incaricato dal finanziatore»: Bulgarelli, Contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali: ecco le novità, in www.altalex.com, 14 luglio 2016. Su questa tipologia di mutui cfr. Ferretti, A. Santoro, Prime osservazioni sul decreto legislativo di recepimento della direttiva mutui, in www.dirittobancario.it, maggio 2016; Civale, La nuova disciplina del credito immobiliare ai consumatori, ivi, novembre 2016. 15 «In questo modo si evita di far necessariamente ricorso a procedure esecutive giudiziali che si dimostrano molto lunghe e complesse. Riducendo pertanto il rischio e i costi esecutivi gravanti sul finanziatore in caso di inadempimento del debitore. Tale semplificazione, nell’intenzione del legislatore delegato e del legislatore comunitario,. Dovrebbe contribuire ad ampliare la disponibilità del credito da parte delle banche, migliorando inoltre le condizioni di prestito, a vantaggio dei debitori»: Angelelli, Il divieto di patto commissorio e il nuovo art. 120-quinquiesdecies tub (inadempimento del consumatore), in www.diritto.it, 13 novembre 2017. Il confronto di questa posizione con quelle richiamate in una precedente nota rende ragione di come una stessa disposizione possa essere ricondotta a policy legislative assolutamente distanti, se non opposte.

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torna a scandire la continuità fra molte delle fattispecie di nuova introduzione da parte del legislatore. Anche a questo proposito è agevole rilevare come assai di rado la clausola prefigurata dal legislatore è inserita dalle banche, le quali preferiscono avviarsi verso l’ordinaria escussione di cui all’art. 40, co. 2 t.u.b., e alla quale può procedersi quando il ritardato pagamento «si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive»: sette volte (come del resto prevedeva anche la direttiva comunitaria) contro diciotto e l’esdebitazione conseguente del mutuatario sono elementi in grado di dissuadere la banca dall’introduzione della clausola proposta dal legislatore e che non sono compensati dall’affrancamento dal regime dell’esecuzione immobiliare. Affrancamento che senz’altro semplifica la vendita, ma è ovviamente impotente contro il drastico calo delle valutazioni immobiliari che è ha reso sempre meno efficaci le garanzie ipotecarie. Sembra quindi aver sbagliato i conti con la realtà la prescrizione di cui al co. 4 lett. a) dell’art. 125-quinquiesdecies tub, secondo la quale «il finanziatore non può condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola» (enfasi aggiunta) e che ovviamente prefigurava un interesse diffuso da parte delle banche all’introduzione della clausola, con qualunque mezzo. In questo quadro, ai fini che qui interessano, risaltano i seguenti profili: a) .l’acquisizione dell’immobile ipotecato da parte dell’intermediario, ovvero la vendita diretta dello stesso, sulla base di un valore stimato da un esperto nominato d’intesa fra le parti coinvolte ovvero, in caso di dissenso, indicato dal presidente del tribunale competente; b).l’ipotesi di cui alla lettera precedente può scattare se è prevista in una clausola del contratto di affidamento e se l’inadempimento è qualificato nel senso che si tratta di almeno 18 rate insolute. Ove sussistano i presupposti di cui alle lett. a) e b), gli eredi vengono sdebitati nel senso che a loro non può essere richiesto nulla oltre quanto riscosso dalla banca in sede di vendita “privata” del bene ipotecato; c).si applica il patto marciano, atteso che nell’ipotesi opposta a quella di cui alla lettera precedente, il surplus deve essere reso dall’intermediario all’erede. 3. L’art. 2 del d.l. n. 59/2016, conv. in legge n. 119/2016 (quella che ha dettato il regime del pegno non possessorio, di cui si discorrerà in

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appresso) ha introdotto nel testo unico bancario l’art. 48-bis16, a tenor del quale il contratto di affidamento concluso tra un imprenditore e una banca può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore, della proprietà di un immobile dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore (co. 1). Si sottolinea la vocazione imprenditoriale dell’istituto, tanto che «il trasferimento non può essere convenuto in relazione a immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti o affini entro il terzo grado» (co. 3). Si ha inadempimento qualificato del mutuatario nelle ipotesi di cui al co. 5, fra le quali la prima è che il mancato pagamento si protragga per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate mensili. Al verificarsi dell’inadempimento, «il creditore è tenuto a notificare al debitore (…) una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto». Decorsi sessanta giorni dalla notifica, il creditore chiede al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l’immobile la nomina di un perito per la stima, con relazione giurata; tale relazione è consegnata entro sessanta giorni dalla nomina (co. 6). L’eventuale contestazione della stima da parte del debitore non impedisce al creditore di procedere nell’applicazione del patto, perché l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare (co.7). La condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al co. 5, si considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al co. 6; il contratto di finanziamento «contiene l’espressa previsione di un apposito conto corrente bancario dove accreditare l’importo pari alla differenza tra il valore di stima e l’ammontare del debito inadempiuto» (co. 8): anche qui, in coerenza con la specificità della situazione, l’affermarsi del patto marciano diviene espressa previsione normativa. Dunque: «diversamente dal patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c., nel patto marciano 1) non vi è sproporzione tra l’ammontare del debito e il valore del bene dato in garanzia, dal momento che 2) quest’ultimo è oggetto di stima, e 3) si prevede l’obbligo per il creditore di restituire

16 Leo, D.l. 59/2016: La cessione dei beni in garanzia nel contratto di finanziamento tra banche e imprenditori (nuovo art. 48-bis t.u.b.), in www.abbruscatonotaio.com, 2 giugno 2016.

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al debitore l’importo eccedente l’entità del credito garantito»17. A differenza quindi delle fattispecie sopra esaminate, non è previsto alcun effetto esdebitativo automatico per il cliente, né appaiono convincenti i tentativi per pervenire a una diversa soluzione18: «la mancata previsione di un effetto esdebitativo del trasferimento del bene rispetto all’obbligazione garantita, nel contesto del finanziamento alle imprese di cui all’art. 48bis t.u.b., [è] frutto di una scelta legislativa consapevole e non di una lacuna da colmare in via interpretativa»19. In tal modo, l’esdebitazione diverrebbe una delle condizioni alle quali il finanziamento in questione si stipula, possibilità consentita all’autonomia negoziale delle parti. In questo senso si muove l’Accordo per il credito e la valorizzazione delle nuove figure di garanzia, concluso il 12 febbraio 2018 fra ABI e Confindustria e riferito a tutte le nuove fattispecie di garanzia e, segnatamente, al pegno non possessorio e le operazioni di cui all’art. 48-bis t.u.b. A quest’ultimo riguardo e riferendosi proprio al tema della esdebitazione, nel § 3.3.1. dell’Accordo (“Previsioni volte a rafforzare la piena operatività della nuova garanzia”) è auspicato che «l’attivazione della clausola che preveda il trasferimento, sospensivamente condizionato, di un bene immobile e, quindi, l’acquisto da parte della banca della proprietà dello stesso, possa comportare – se espressamente convenuto – l’integrale estinzione del debito dell’impresa e, quindi, l’effetto liberatorio per la stessa». In questo quadro, ai fini che qui interessano, risaltano i seguenti profili: a).ove si realizzi un inadempimento qualificato dell’imprenditore che fa scattare il patto integrante la condizione sospensiva, l’acquisizione dell’immobile ipotecato da parte dell’intermediario, ovvero la vendita diretta dello stesso, sulla base di un valore stimato da un esperto nominato d’intesa fra le parti coinvolte ovvero, in caso di dissenso, indicato dal presidente del tribunale competente;

17 Natale, Recenti tentativi di tipizzazione del patto marciano, in www.dirittobancario. it, 3/2018, p. 2. Cfr. altresì Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 157-2017/T: Trasferimenti immobiliari a scopo di garanzia nelle recenti riforme del credito bancario: interferenze fiscali. 18 Vedili ben descritti, e altrettanto puntualmente rigettati, in Natale, Recenti tentativi, cit., pp. 16 ss., alla cui bibliografia si rinvia. 19 Natale, Recenti tentativi, cit., p. 20.

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b).l’ipotesi di cui alla lettera precedente, pur realizzandosi nei modi di cui si è detto, non produce effetti esdebitativi automatici in capo al debitore; c).si applica il patto marciano, atteso che nell’ipotesi opposta a quella di cui alla lettera precedente, il surplus deve essere reso dall’intermediario all’affidato. 4. Le figure di garanzia finora esaminate20 hanno come tratto comune, pur nella diversità degli istituti e dei soggetti cui si riferiscono, il rinvio al patto marciano, anche se il legislatore «ha adottato una serie di discipline differenziate di cui spesso non risulta facile comprendere le ragioni e soprattutto assai arduo individuare una organicità sistematica che possa orientare l’interprete»21. Sul punto assai lucida è l’analisi compiuta nel menzionato documento del Consiglio Nazionale del Notariato, dove si sottolinea come, oltre ad aver utilizzato un istituto positivo che la giurisprudenza ha da tempo ammesso nel confronto con il persistente divieto di patto commissorio, è stata inserita una serie di limitazioni e contrappesi necessari per l’ammissibilità di siffatta struttura autosatisfattiva: «si tratta in alcuni casi di un patto marciano nella sua versione paradigmatica, in cui il creditore acquista, a seguito dell’inadempimento, la proprietà della cosa, mentre in altri, in particolare nel pvi [prestito vitalizio ipotecario], è prevista la variante in cui al creditore è consentito di alienare a terzi il bene, al fine di soddisfarsi sul ricavato»22. Tuttavia, nel pvi il creditore è legittimato ad alienare il bene del debitore ma non può acquistarlo direttamente; nel finanziamento all’imprenditore di cui all’art. 48-bis t.u.b. invece può acquistare il bene ma non alienarlo a terzi; nel mutuo immobiliare a consumatore il creditore, attraverso l’introduzione di clausole pattizie può sia acquistare il bene sia alienarlo a terzi per soddisfarsi sul ricavato. Ne emerge che la caratterizzazione comune del patto marciano si sostanzia in due elementi necessariamente ricorrenti: (i) la restituzione del supero al debitore; (ii) la determinazione del valore del bene aggiornata ad un momento successivo all’inadempimento ed affidata a un soggetto (più o meno) indipendente. Quanto all’esdebita-

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Sui quali cfr. la monografia di D’Amico, Pagliantini, Piraino, I nuovi marciani, Torino, 2017, nonché il contributo di Luminoso, Patto marciano e sottotipi, in Riv. dir. civ., 2017, I, p. 1398. 21 Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1-2017/C: Recenti riforme, cit., pp. 2-3. 22 Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 1-2017/C: Recenti riforme, cit., p. 37.

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zione, si è già detto che essa funziona automaticamente per il pvi e per i mutui immobiliari a consumatori, mentre non così accade nell’operazione di cui all’art. 48-bis t.u.b., circostanza che peraltro si spiega con la diversa natura dei soggetti coinvolti rispetto alle altre due fattispecie. Si è altresì discusso se le discipline richiamate siano sufficienti a delineare gli estremi univoci di un patto marciano che possa essere adottato come garanzia atipica anche in fattispecie diverse: «in questo senso si sostiene che l’articolato sistema prodotto dagli statuti speciali non esclude né limita l’autonomia dei contraenti nel disegnare figure atipiche di garanzia, ma in ogni caso l’autonomia incontra il preesistente limite della rilevanza qualificata dell’inadempimento e dell’inderogabilità del formalismo procedimentale (…). Un argomento che sembrerebbe escludere l’effetto configurativo della normativa speciale sul marciano di diritto comune sta nella sussistenza di una pluralità di statuti normativi, con la conseguenza che resterebbe comunque incerto il paradigma orientativo da assumere; se cioè occorre riferirsi, pur con tutte le sue asperità interpretativa, al marciano dell’art. 120-quinquiesdecies t.u.b., riferito all’are consumeristica, ovvero al regolamento dell’art. 48-bis t.u.b., che tuttavia opera nell’ambito dei finanziamenti all’impresa»23. Una situazione dunque nient’affatto chiara, per la quale forse era giustificato illudersi che nel codice della crisi d’impresa si rintracciasse qualche riferimento utile a risolverla, oltretutto nella consapevolezza della sempre più labile distinzione fra consumatore, piccola e grande impresa a fini concorsuali. 5. Accanto alle garanzie finora illustrate, si è configurato recentemente il c.d. “pegno senza spossessamento”. Si tratta di un istituto volto a superare il requisito dello spossessamento del costituente, di origine romanistica, fondamentale nel pegno ordinario, con ciò consentendo all’imprenditore di costituire in garanzia beni dell’impresa continuando a usarne nel ciclo produttivo, così convertendo il pegno in garanzia, appunto, d’impresa. Fino ad oggi infatti il pegno in concreto aveva ad oggetto per lo più strumenti finanziari, disegnando così un percorso parallelo e indipendente alla filiera produttiva propria dell’imprenditore. Il pegno senza spossessamento importa nell’ordinamento nazionale la c.d. “garanzia fluttuante”, ovvero la anglosassone floating charge, nella

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Consiglio Nazionale

del

Notariato, Studio n. 1-2017/C: Recenti riforme, cit., p. 42.

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quale allo spossessamento si sostituisce, a fini pubblicitari, l’iscrizione del vincolo in un registro ad hoc24. L’art. 1 del d.l. 3 maggio 2016, n. 59, conv. nella legge n. 119/2016, stabilisce che gli imprenditori iscritti nel registro delle imprese possono costituire un pegno non possessorio – a garanzia dei crediti inerenti l’esercizio dell’impresa – avente ad oggetto beni mobili, anche immateriali, destinati all’esercizio dell’impresa, a esclusione dei beni mobili registrati; «ove non sia diversamente disposto nel contratto, il debitore o il terzo concedente il pegno è autorizzato a trasformare o alienare (…), o comunque a disporre dei beni gravati da pegno. In tal caso il pegno si trasferisce, rispettivamente, al prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una nuova garanzia» (co. 2)25; il pegno in parola ha effetto verso i terzi

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Gabrielli, Danese, Le garanzie sui beni dell’impresa: profili della floating charge nel diritto inglese, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, I, p. 633; Galanti, Garanzia non possessoria e controllo della crisi di impresa: la floating charge e l’administrative receivership, in Quaderni ricerca giur. Banca d’Italia, fasc. 51, Roma, 2000; Messuti, La floating charge, in Notariato, 2003, p. 530; e i contributi raccolti in Economia e dir. del terziario, 2005, fasc. 1. 25 Si manifesta così «la scelta del legislatore di positivizzare le figure di pegno anomalo» e di far emergere «una confluenza delle figure di pegno cd. anomalo nel pegno mobiliare non possessorio che si atteggia come garanzia “cangiante e versatile” che consente di superare “gli inconvenienti” connessi alla necessaria perdita da parte del debitore del possesso dei beni oggetto di garanzia»: Olisterno, La consacrazione normativa dei pegni cd. anomali: il pegno mobiliare non possessorio del d.l. 59/2016 convertito con modifiche in l. 119/2016, in www.iurisprudentia.it, ottobre 2016. Un meccanismo che si iscrive nell’evoluzione di una garanzia pur reale ma flessibile si riscontra nell’art. 46 t.u.b., a tenor del quale la concessione di finanziamenti a medio lungo termine da parte di banche alle imprese può essere garantita da privilegio speciale su beni mobili, comunque destinati all’esercizio dell’impresa, non iscritti nei pubblici registri, avente ad oggetto: (i) impianti e opere esistenti e futuri, concessioni e beni strumentali; (ii) materie prime, prodotti in corso di lavorazione, scorte, prodotti finiti, frutti, bestiame e merci; (iii) beni comunque acquistati con il finanziamento concesso; (iv) crediti, anche futuri, derivanti alla vendita dei beni indicati nei punti precedenti; l’opponibilità ai terzi si realizza con la trascrizione del privilegio nel registro di cui all’art. 2524, comma 2, c.c. Anche questa tipologia di garanzia è tarata sulle esigenze dell’impresa. Sui precedenti risalenti di questa norma e la sua funzione oggi cfr. Tucci, Commento all’art. 46 t.u.b., in Commentario al testo unico delle leggio in materia bancaria e creditizia4, diretto da Capriglione, Padova, 2018, vol. I, p. 46, il quale precisa subito che tale disposizione, dal 1993 ad oggi, «non ha dato luogo ad alcuna casistica giurisprudenziale in senso proprio». Adde Cesareo, La garanzia mobiliare accordata dall’art. 46 del t.u.b. in materia di finanziamenti alle imprese, in Annali univ. Bari,

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«esclusivamente con la iscrizione in un registro informatizzato costituito presso l’Agenzia delle entrate e denominato “registro dei pegni non possessori”» (co. 4). Articolata è la fase dell’escussione, giacché, al determinarsi di un evento che la inneschi, il creditore – previa intimazione notificata a mezzo di posta elettronica al debitore e all’eventuale terzo concedente – può procedere: a) alla vendita dei beni oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita; b) alla escussione o cessione dei crediti pignorati fino a concorrenza della somma garantita; c) ove previsto nel contratto, alla locazione del bene oggetto di pegno imputando i canoni al soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita; d) ove previsto nel contratto, all’appropriazione dei beni oggetto del pegno fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto preveda anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene oggetto di pegno e dell’obbligazione garantita (co. 7). Il debitore e l’eventuale terzo concedente hanno diritto di proporre opposizione entro cinque giorni dall’intimazione notificata con ricorso al giudice (ai sensi del libro IV, capo III-bis “Del procedimento sommario di cognizione”, artt. 702-bis – 702-quater c.p.c.) che, ove concorrano gravi motivi e su istanza dell’opponente può, con provvedimento d’urgenza, inibire al creditore di procedere (co. 7-bis). La sommaria descrizione del pegno mobiliare non possessorio, se per un verso conferma l’ambito imprenditoriale della sua applicazione, per l’altro mostra di insistere sulla circostanza che il creditore procedente debba limitarsi a trattenere per sé esclusivamente le somme dovute, replicando l’affermazione del patto marciano come antidoto al patto commissorio. Non si hanno possibilità di verificare profili applicativi dell’istituto atteso che, come accennato, non sono state emanate le disposizioni attuative del Ministro dell’economia, di concerto con quello della Giustizia, in ordine al registro informatizzato, segnale non confortante riguardo all’effettiva volontà del regulator di rendere utilizzabile

2017, p. 113.

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un istituto sistematicamente invece assai rilevante26, tanto che esso «non è ancora nato, ma fa già molto parlare di sé»27. 6. Orbene, riguardo a quest’ultima tipologia di garanzia innovativa – che pure di patto marciano parla e quindi di nuovo induce l’illusione di una disciplina nel codice della crisi – l’aspettativa di una regolamentazione ad hoc nel predetto codice è assicurata dalla stessa legge delega (n. 155/2017), il cui art. 11 è rubricato “Garanzie non possessorie”28 e

26 Né particolarmente incoraggianti sono le conclusioni dello studio “T6 (2017), Patto Marciano o “Marziano”? – alcuni spunti critici circa l’applicabilità pratica del nuovo strumento legislativo di garanzia, Associazione Tavolo di Studio sulle Esecuzioni Italiane (T.S.E.I.), n. 4-17, 9 marzo 2017”, in cui si perviene, a proposito della normativa in commento, alla seguente valutazione: «dopo esserci addentrati a fondo nella materia, pur con tutti i limiti espressi in premessa, si può infatti sostenere che se l’intento della decretazione governativa era quello di introdurre nuove forme di escussione dei beni, di accelerare i tempi della giustizia, ma anche aumentare il ricavato, o comunque evitare il deprezzamento, tipico delle vendite di immobili in asta giudiziaria, l’efficacia della norma così come oggi impostata, è tutta da dimostrare» (p. 85). 27 Così Campobasso, Il pegno non possessorio. «Pegno», ma non troppo, in Nuove leggi civ. comm., 2018, pp. 703 ss. Senza alcuna pretesa di completezza, cfr. i contributi di Ferretti, Prime osservazioni sulle disposizioni del “Decreto banche” volte ad accelerare il recupero dei crediti bancari, in www.dirittobancario.it, 9 maggio 2016; Nania, Il pegno non possessorio: un’altra anomalia?, ivi, maggio 2016; Albarani, Notarangelo, Il pegno mobiliare non possessorio: riflessioni sulla nuova garanzia, ivi, 5 dicembre 2016; Brogi, D.l. 59/2016: prime annotazioni sul pegno mobiliare non possessorio, in www. quotidianogiuridico.it, 6 maggio 2016; S. Ambrosini, Il pegno non possessorio ex lege n. 119/2016, in www.ilcaso.it, 3 ottobre 2016; Barillà, Pegno non possessorio e patto marciano: dalla tutela statica del credito alle nuove forme di garanzia, in Giur. comm., 2017, I, p. 583; Gabrielli, Pegno «non possessorio» e teoria delle garanzie mobiliari, in Riv. dir. comm., 2017, II, p. 241; Murino, Prime considerazioni sul c.d. pegno non possessorio, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, I, p. 231; Marino, Il pegno non possessorio quale strumento funzionale all’autotutela satisfattiva del creditore: profili evolutivi, www.ilcaso.it, 15 dicembre 2018. 28 Si riporta per comodità di consultazione il testo dell’articolo menzionato: «1. Nell’esercizio della delega di cui all’art. 1, per la disciplina del sistema delle garanzie reali mobiliari, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) regolamentare una forma di garanzia mobiliare senza spossessamento, avente ad oggetto beni, materiali o immateriali, anche futuri, determinati o determinabili, fatta salva la specifica indicazione dell’ammontare massimo garantito, eventualmente utilizzabile anche a garanzia di crediti diversi o ulteriori rispetto a quelli originariamente individuati, disciplinandone i requisiti, ivi compresa la necessità della forma scritta, e le modalità di costituzione, anche mediante iscrizione in apposito registro informatizzato, nonché le regole di opponibilità ai terzi e il concorso con gli altri creditori muniti di cause di prelazione;

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contiene i criteri per l’esercizio della delega da parte del Governo sul punto. Anzi, i punti della delega toccavano proprio i problemi su cui ci si è fin qui brevemente soffermati: la regolamentazione della fattispecie per la costituzione di un pegno senza spossessamento; la previsione degli elementi necessari per l’opponibilità ai terzi, ovvero per ottenere la prelazione; i criteri per l’utilizzabilità, da parte del costituente, di disporre dei beni pignorati, perdurante il vincolo; la possibilità di un’escussione stragiudiziale della garanzia, nel rispetto del patto marciano; coordinare gli effetti di questo istituto con le altre garanzie, anche nell’ottica della tutela del debitore consumatore.

b) regolamentare forme, contenuto, requisiti ed effetti dell’iscrizione nel registro informatizzato, direttamente accessibile per via telematica secondo modalità che salvaguardino la protezione dei dati, al fine di consentire le operazioni di consultazione, iscrizione, annotazione, modifica, rinnovo ed estinzione delle garanzie, nonché la regolazione del concorso conseguente all’eventualità di plurime annotazioni; subordinare le operazioni di consultazione, iscrizione, modifica, annotazione e rinnovo al pagamento di un importo in denaro, determinato anche in via regolamentare, in modo da assicurare la copertura delle spese di gestione del registro; c) stabilire che, salvo diverso accordo delle parti, il soggetto costituente la garanzia abbia la facoltà di utilizzare, nel rispetto dei principi di buona fede e di correttezza e in ogni caso nel rispetto della destinazione economica, i beni oggetto di garanzia, anche nell’esercizio della propria attività economica, estendendo in tale caso la prelazione dai beni originari a quelli che risulteranno all’esito degli atti di disposizione, senza effetto novativo per la garanzia originariamente concessa, fatta salva la possibilità per il creditore di promuovere azioni conservative o inibitorie nel caso di abuso del costituente; d) consentire al creditore di escutere stragiudizialmente la garanzia anche in deroga al divieto del patto commissorio, a condizione che il valore dei beni sia determinato in maniera oggettiva, fatto salvo l’obbligo di restituire immediatamente al debitore, o ad altri creditori, l’eventuale eccedenza tra il valore di realizzo o assegnazione e l’importo del credito; e) prevedere forme di pubblicità e di controllo giurisdizionale dell’esecuzione stragiudiziale di cui alla lett. d), regolare i rapporti tra la stessa e le procedure esecutive forzate e concorsuali, adottare misure di protezione del debitore consumatore, nonché forme di tutela dei terzi che abbiano contrattato con il debitore non spossessato ovvero abbiano acquistato in buona fede diritti sul bene mobile oggetto del pegno, curando in ogni caso il coordinamento della nuova disciplina con le disposizioni normative vigenti. 2. Per l’attuazione delle disposizioni di cui al comma 1, lett. a), è autorizzata la spesa di euro 150.000 per l’anno 2017. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2017-2019, nell’ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2017, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della giustizia».

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Ecco allora che la verifica di come avesse il legislatore interpretato le nuove garanzia nell’ambito del codice della crisi sembrava una ricerca interessante. Senonché un simile interesse è rimasto inappagato, essendo assenti nel codice riferimenti utili per rispondere alle domande che si erano costruite. Di qui la necessaria rielaborazione dell’approccio. Poiché si è toccato con mano la discordanza fra legge di delega e principio delegato, si è pensato di verificare le incoerenze fra il codice della crisi e documenti preparatori e coevi, dalla legge delega alla relazione. Il lungo e tortuoso iter di elaborazione della stesura finale del codice rende quasi inevitabile qualche distonia fra questa e lavori intermedi ma, come si vedrà, si tratta talora di robuste divergenze di impostazione. 7. In questo obbligatorio rinnovamento dell’approccio, si è avuta presente la fase della liquidazione giudiziale dei beni, per la quale si nota con maggior chiarezza il trascorrere delle “idee guida” delle varie fasi legislative. La legge del 1942 era connotata in senso pubblicistico, il giudice assumeva la figura di guida del procedimento, con ampi poteri e rispetto a lui il curatore svolgeva un ruolo meramente esecutivo volto alla concreta amministrazione del patrimonio fallimentare; si parlava di rapporto gerarchico fra i due ovvero, più convincentemente, di rapporto funzionale, nel senso appunto di attribuire scelte gestionali al primo e conseguente attività di attuazione al secondo; i creditori e il loro comitato non avevano praticamente alcun coinvolgimento effettivo nella procedura. Con la riforma all’approccio pubblicistico si sostituisce un approccio privatistico, con un potenziamento del comitato dei creditori e del curatore, a scapito dei poteri attribuiti al tribunale e, soprattutto, al giudice delegato. È stato giustamente rilevato29 che l’icastica ricognizione di tutto ciò sta nella diversa formulazione degli artt. 25, comma 1 e 31, co. 1, l.fall.30.

29

Della Santina, Prime riflessioni sulla liquidazione giudiziale dei beni nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: ritorno al passato?, in www.ilcaso.it, 20 giugno 2019, p. 3. 30 Nell’art. 25, co. 1, l. fall., l’espressione «il giudice delegato dirige le operazioni del fallimento, vigila l’opera del curatore» è sostituita con «il giudice delegato esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura». Nell’art. 31, comma 1, l. fall., l’espressione «il curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato» è sostituita con «il curatore ha l’amministrazione del

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L’impronta della riforma avrebbe dovuto essere confermata nel Codice: la “Relazione illustrativa ai decreti delegati in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”31 precisa infatti: a) in riferimento all’attuale art. 123 “Poteri del giudice delegato”, che al giudice delegato «sono attribuite, in continuità con l’attuale impostazione [quella della riforma], non più funzioni di direzione della procedura, ma di vigilanza e di controllo sulla regolarità della stessa» (enfasi aggiunta); b) in riferimento all’attuale art. 128 “Gestione della procedura”, che tale articolo «ribadisce la netta distinzione di ruolo tra i vari organi della procedura già prevista dall’attuale disciplina, assegnando al solo curatore l’amministrazione del patrimonio compreso nella liquidazione e prevedendo, per contro, che tutte le attività compiute dal medesimo nell’ambito delle sue funzioni siano soggette alla vigilanza del curatore e del comitato dei creditori». Siffatta impostazione risulta peraltro disattesa proprio in sede di liquidazione giudiziale, dove il ruolo fra i due soggetti ora indicati si inverte fortemente. In assenza di indicazioni contrarie nella legge delega e con una relazione che afferma quanto riportato, l’art. 216, co. 2 del codice prevede che «le vendite e gli altri atti di liquidazione posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione sono effettuati dal curatore (…), con le modalità stabilite con ordinanza dal giudice delegato»; il comma successivo dispone che «il giudice delegato può disporre che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili». Con evidente stravolgimento di impostazione e in contraddizione con quanto sopra riportato, ancora la relazione, nel commento all’attuale art. 216 del codice, avverte che «il giudice delegato, nella prospettiva della riforma, è destinato ad acquistare, dunque, un ruolo centrale poiché a lui è affidata la determinazione delle modalità di liquidazione dei beni, attualmente rimesse alle scelte del curatore»: «la continuità dell’attuale impostazione» sembra davvero dimenticata32.

patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite». 31 Consultabile sull’“Osservatorio sulle crisi di impresa”, www.osservatorio-oci.org. 32 «Non rinvenendosi nella relazione di accompagnamento spiegazioni circa le ragioni di una siffatta scelta del legislatore, non può che ipotizzarsi una presa d’atto del fatto che – nella maggior parte degli ufficio giudiziari – i curatori si attengono, nella

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Fra l’altro, questo capovolgimento di impostazione si inserisce in un meccanismo procedurale assai complesso. Il programma di liquidazione, cui fa riferimento l’art. 216 del codice, «è suddiviso in sezioni in cui sono indicati separatamente criteri e modalità della liquidazione dei beni immobili, della liquidazione degli altri beni e della riscossione dei crediti, con indicazione dei costi e dei presumibili tempi di realizzo», con attribuzione della relativa competenza al curatore (così l’art. 213, co. 3, del codice). Le scelte di costui sono sottoposte per l’approvazione al comitato dei creditori e dopo all’approvazione in sede di autorizzazione dei singoli atti. «Gli atti di liquidazione, di cui parla il comma 2 dell’art. 216, sono dunque atti che, ex art. 213, comma 7 del codice33, unitariamente hanno già superato il vaglio del giudice delegato, singolarmente sono già stati autorizzati sempre dal giudice delegato e rispetto ai quali rimane difficile intravedere un ulteriore spazio di intervento giudiziale, che non assuma il carattere autoritativo, che stabilisca modalità di vendita diverse da quelle recepite nel programma di liquidazione»34. E proprio il su riportato co. 3 dell’art. 216 depone verso una modifica d’imperio delle modalità di vendita, con un rovesciamento della prospettiva della riforma che, all’art. 107 l. fall., disponeva che «il curatore può prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati

determinazione delle modalità di vendita in sede di programma di liquidazione, alle indicazioni di massima fornite dalle sezioni fallimentari tramite linee guida ovvero tramite prassi e ciò non solo perché nella maggior parte dei fallimenti il Giudice delegato approva il programma di liquidazione in sostituzione del comitato dei creditori (e, quindi, ne esercita anche le prerogative di proposte di modifica del programma che, di fatto, si sostanzia in un potere conformativo), ma anche perché le vendite rimangono uno dei nodi più delicati delle procedure per i rischi di interferenze illecite e di conflitti, di tal che è apparso maggiormente garantista – anche per il curatore – il ricorso a modalità di liquidazione secondo codice di procedura civile (e quindi con la possibilità di disporre di chiare previsioni di legge per disciplinare eventuali problematiche e incidenti che spesso insorgono nell’ambito della procedura) con sostanziale scarso ricorso, quindi, per la liquidazione di mobili e immobili a reali modalità “atipiche” di liquidazione»: Lamanna, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, III, Milano (“il civilista”), 2019, p. 112. Come si dirà in calce a queste note, non si discute su quale soluzione sia migliore, ma sulla scarsa linearità con la quale è stata raggiunta quella di cui al codice. 33 «7. Il programma è trasmesso al giudice delegato che ne autorizza la sottoposizione al comitato dei creditori per l’approvazione. Il giudice delegato autorizza i singoli atti liquidatori in quanto conformi al programma approvato». 34 Della Santina, Prime riflessioni, cit., p. 12.

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vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili»: al curatore viene sostituito il giudice delegato, in perfetta «discontinuità» con il passato regime. «Stando così le cose, e pare difficile allo stato ipotizzare una diversa chiave di lettura, se cioè l’art. 216 del codice rende il giudice delegato protagonista nella scelta delle modalità di vendita dei beni a scapito del ruolo del curatore – che per l’art. 213 del codice rimane invece l’autore esclusivo delle medesime scelte recepite nel programma di liquidazione – è arduo (se non impossibile) non ravvisare l’esistenza di una profonda dicotomia non solo tra l’art. 216 e l’art. 213, ma più in generale tra l’art. 216 e l’intera disciplina che nel codice regola ruoli e funzioni degli organi della procedura»35. E il rilievo qui posto in luce è tutt’altro che isolato: la nuova disciplina della liquidazione giudiziale contiene, tra le altre, «importanti modifiche inerenti il ruolo del curatore, la cui funzione (…) sembra, però, fare ritorno alla disciplina antecedente la riforma del 2006, essendo caratterizzata più che da un ampliamento dei poteri gestionali, da un aumento delle responsabilità e degli obblighi e da un correlato potenziamento del potere di vigilanza e controllo esercitato dal giudice delegato sull’operato del curatore»36. Per altro ma convergente profilo, si è posto in evidenza che molte novità contenute nel codice confermano l’ipotesi che «la c.d. riforma della crisi di impresa costituisca una vera e propria “controriforma”, ossia, sotto vari aspetti, un ritorno all’impianto originario della legge fallimentare del 1942»37. Non è certamente questa la sede per accertare se l’impostazione seguita dagli articoli del codice sia preferibile o meno a quella che (almeno una parte del) la Relazione faceva intendere: si vuol solo mettere in luce come la stesura del codice abbia risentito di un’evidente confusione negli estensori e che alcune scelte di fondo appaiano o poco meditate o segno di bruschi cambiamenti di orientamento, con il risultato di un “ritorno al passato” non si sa quanto meditato ed effettivamente voluto.

35

Della Santina, Prime riflessioni, cit., p. 13. Fantozzi, L’evoluzione del ruolo del curatore dal fallimento alla liquidazione giudiziale, in Osservatorio sulle crisi di impresa, www.osservatorio-oci.org, novembre 2018, p. 2. Sui poteri del curatore, sia pure in un’ottica diversa da quella di cui al testo, cfr. Bortoluzzi, Il curatore fallimentare: doveri e responsabilità fra presente futuro, in Osservatorio sulle crisi di impresa, www.osservatorio-oci.org, ottobre 2018. 37 Parisi, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: riforma o controriforma?, in Osservatorio sulle crisi di impresa, www.osservatorio-oci.org, giugno 2019, p. 7. 36

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In ogni caso, a questo punto, che non si sia parlato di nuove garanzie (su cui un ritorno al passato era davvero difficile) e che un criterio di delega sia stato del tutto pretermesso sorprende meno di quanto non possa apparire a prima lettura.

Gli accordi di ristrutturazione speciali e convenzioni di moratoria Maurizio Sciuto 1. Vorrei ringraziare innanzitutto Daniele Vattermoli e la Rivista per il prestigioso invito, e il Presidente, prof. Nigro, per avermi appena introdotto come fra i più esperti della materia degli accordi di ristrutturazione dei debiti (qui di seguito: “ARD”). Confesso, tuttavia, che gli ultimi interventi legislativi che oggi discutiamo hanno accresciuto le mie, già preesistenti, incertezze sul tema. Fra i punti meno incerti, comunque, pare di poter dire che il legislatore del Codice della crisi e dell’insolvenza (qui di seguito: il “Codice”) ha riposto una buona dose di fiducia nelle potenzialità dello strumento degli ARD, espandendone le possibilità di applicazione sino a farlo primeggiare – se volessimo simulare una sorta di gara concorrenziale – rispetto agli altri strumenti di regolazione della crisi offerti dalla nuova disciplina concorsuale. Ciò, in particolare, a causa del fatto che gli ARD regolati dal Codice, oltre a potersi basare su un piano di continuità aziendale, potrebbero perseguire anche (fatta eccezione per la variante ad “efficacia estesa” quando si trovi a regolare un’esposizione che per la maggior parte non coinvolga intermediari finanziari) una possibile finalità liquidatoria, anche senza dover assicurare percentuali minime di soddisfazione dei creditori e senza il gravoso onere di apportare nuova finanza, come invece previsto per il concordato preventivo quando rivolto ad una finalità liquidatoria. Considerato allora come, ad oggi, i riscontri empirici attestino come la modalità di regolazione concordata dell’insolvenza più utilizzata sia proprio quella del concordato preventivo liquidatorio - da domani però assai meno agevolmente utilizzabile per i limiti appena ricordati - potrebbe allora azzardarsi il pronostico che la diffusa tendenza a perseguire quelle stesse finalità potrà, in futuro, incanalarsi nel più scorrevole alveo degli ARD. In questo quadro generale, il tema affidatomi è quello degli ARD “speciali” e delle convenzioni di moratoria.

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Entrambi andrebbero riferiti, nella l.fall., alle fattispecie previste dall’art. 182-septies, relativa esclusivamente ad accordi che coinvolgano intermediari finanziari titolari di oltre la metà dei crediti verso l’impresa proponente. Nel Codice, tuttavia, come si va a vedere, le varianti di ADR definibili “speciali” sono più articolate, secondo un’architettura complessiva dell’istituto che è mio obiettivo - nel breve tempo ora a disposizione - chiarire in luogo dei molti altri profili problematici che pure potrebbero indagarsi. 2. Quella con banche ed intermediari finanziari è una variante degli ARD che nell’esperienza finora registratasi ha mostrato un discreto successo. Non è facile, peraltro, giudicare se questo possa dirsi il frutto dall’intrinseca funzionalità dei meccanismi giuridici che governano un tale modello di regolazione della crisi, oppure dipenda solo dal fatto che il coinvolgimento di intermediari finanziari è capace di immettere nelle trattative una dose di professionalità e razionalità che può incrementare le probabilità di una loro conclusione positiva, rispetto a trattative condotte con una congerie di creditori frastagliati e meno addestrati a soppesare la convenienza della proposta. Di tale modello “ad efficacia estesa”, comunque, il Codice ha progettato una notevole espansione: se ne affranca l’utilizzo, infatti, dal necessario presupposto di un’esposizione debitoria concentrata per oltre la metà con intermediari finanziari (ipotesi, questa, che peraltro non resta indifferente, venendo resa poi oggetto di una norma ad hoc). Una tale innovazione si colloca però all’interno di un nuovo disegno complessivo dell’istituto degli ARD che rende più complicato, rispetto al quadro legislativo tuttora vigente, individuare il coordinamento e la gerarchia delle norme. Nella vigente legge fallimentare, infatti, il rapporto fra genus e species risulta articolato secondo una “catena” abbastanza corta: a monte, la disciplina generale degli ARD, dettata dall’art. 182-bis, l.fall.; a valle, gli ARD con intermediari finanziari, quali oggetto di una disciplina che espressamente si proclama come “integrativa” di quella prevista dall’art. 182-bis, l.fall. Il disegno, quindi, è piuttosto chiaro: due cerchi concentrici nei quali i lineamenti della figura generale vanno rispettati sino a dove, appunto, si entra in un’area che ne consente espressamente una deroga; consistente a sua volta - potrebbe dirsi in via generale – nell’inoculare nel modello generale un principio di concorsualità che quel modello, tutto fondato sulla (relativa) intangibilità dei creditori estranei, invece non avrebbe. Non v’è modo ora di confrontarsi concettualmente su

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che cosa significhi esattamente concorsualità e le diverse definizioni che se ne possono fornire. Ma se si prescinde da alcune letture a dire il vero piuttosto generiche se non banalizzanti (come quelle proposte da ultimo dalla Corte di Cassazione, pur al fine di applicare talune norme forse appropriate al caso concreto deciso), che rischiano di fare della concorsualità la “notte in cui tutte le vacche sono nere”, si dovrebbe riconoscere che essa sia riconoscibile (almeno in misura apprezzabile, per chi volesse ipotizzarne una graduabilità solo quantitativa) solo in quelle procedure che manifestano la capacità di imporre il “trattamento” accettato dalla maggioranza anche alla minoranza dissenziente; e non, invece, in quelle procedure che mantengano (ed anzi si caratterizzino proprio per il fatto di basarsi su) una netta separazione fra creditori aderenti e creditori estranei, secondo il criterio discretivo del consenso individuale. Del resto, è proprio il superamento di tale criterio che, storicamente, si pone all’origine delle procedure concorsuali di natura concordataria, quali alternativa agli strumenti di diritto (privato) comune. 3. Ricordato tutto ciò, può dirsi allora che l’architettura normativa dei nuovi ARD si complica rispetto al quadro normativo vigente, innanzitutto perché, all’interno del nuovo perimetro tracciato dal Codice, si possono individuare quattro diverse figure di ARD, in luogo delle due presenti nella legge fallimentare. (i) Vi sono innanzitutto gli ARD che potremmo definire “semplici” (art. 57 del Codice) e che ripetono, pur con significative precisazioni, il modello descritto dall’art. 182-bis, l.fall. (ii) V’è poi una prima variante, rappresentata dagli ARD “agevolati”, per i quali la percentuale minima di adesioni viene dimidiata (art. 60 del Codice). E ciò, come noto, a condizione che il proponente rinunci a chiedere, come pure sarebbe sua facoltà, misure protettive temporanee (rette appunto dal principio della domanda) ed ogni moratoria per il pagamento dei creditori estranei alla scadenza originaria. (iii) Si osserva poi una terza figura - di cui dev’essere però chiarito il rapporto con le prime due - che è quella degli ARD “ad efficacia estesa” (art. 61 del Codice). Questa è certamente la figura più interessante, proponendo - come poc’anzi accennato - la generalizzazione di un modello fino ad oggi riservato soltanto agli ARD con intermediari finanziari e che espressamente si pone in deroga ai principi di relatività del contratto (artt. 1372 e 1411 c.c.), consentendo di parificare la soddisfazione concorsuale pattuita con gli aderenti a quella che sarà riservata a coloro che non abbiamo aderito, se gli uni e gli altri

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appartengano ad una “categoria” omogenea per posizioni giuridiche ed interessi economici. Questo effetto - ricordo in termini approssimativi - può conseguirsi a condizione che sussista (a) un sufficiente livello di “trasparenza” (coinvolgimento nelle trattative, informativa sulla documentazione inerente alla proposta) anche nei confronti dei non aderenti appartenenti alla categoria interessata; (b) un’adesione dei creditori inseriti nella categoria pari almeno al 75%; (c) una maggior convenienza, per i creditori non aderenti inseriti nella categoria, di quanto proposto nell’accordo rispetto al risultato che si potrebbe conseguire da una liquidazione giudiziale (e non rispetto a qualsiasi alternativa concretamente praticabile, come prevede un po’ troppo genericamente l’art. 182-septies, co. 4, lett. c, a l.fall.). Il limite significativo che, tuttavia, incontra questa figura di ARD ad efficacia estesa (dunque oramai utilizzabile quali che siano i creditori interessati), è dato dal doversi essi fondare su di un piano orientato dalla continuità aziendale, dal cui ricavato trarre in misura significativa o prevalente la soddisfazione dei creditori. Essi non possono perseguire, quindi, una finalità meramente liquidatoria. (iv) Il quarto esemplare che conclude questa “carrellata”, si trova relegato in fondo a tutta la disciplina, collocato all’interno (e per la precisione in coda) dell’articolo dedicato agli ARD ad efficacia estesa, ed è quello degli ARD (ad efficacia estesa) “con banche ed intermediari finanziari” (art. 61, ultimo comma, Codice). Si tratta, dunque, di una figura che non si è ritenuto di potere, o volere, dissolvere all’interno della disciplina degli ARD “ad efficacia estesa”. 4. Orbene, quale sia il rapporto fra le quattro figure di ARD esaminate non è chiaramente definito dal Codice. Eppure è importante stabilirlo, poiché serve anche a comprendere quali siano – a seconda che si individui un rapporto di gerarchia o almeno di concentricità fra le rispettive discipline, anziché di reciproca autonomia - quali regole risultino, si potrebbe dire “a cascata”, applicabili o meno alle diverse varianti. A questo riguardo - e partendo per così dire dal basso - pare innanzitutto che gli ARD con intermediari finanziari debbano intendersi come una figura degli ARD ad efficacia estesa, e in particolare come una loro sottospecie. Non che questo sia così scontato. Se ci si limitasse ad una lettura del solo enunciato normativo che se ne occupa, e cioè l’ultimo comma dell’articolo 61 del Codice, si potrebbe infatti anche immaginare un’autonomia di tale disciplina rispetto a quella prevista dai precedenti

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commi dell’art. 61, ai quali non viene fatto alcun rinvio o collegamento. Tuttavia, la collocazione all’interno di un unico articolo, rubricato “accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa”, non rende plausibile ritenere che ad essi non siano tendenzialmente applicabili tutte le altre previsioni contenute nell’art. 61. La previsione di un comma ad hoc, allora, rivela come la sua unica portata precettiva sia quella di consentire un’eccezione alla disciplina della più ampia figura di riferimento: e cioè quella - niente affatto trascurabile per quanto dicevo all’inizio sulle prospettive di successo dello strumento - che gli ARD con intermediari finanziari potrebbero anche non basarsi (come invece tutti gli altri ARD ad efficacia estesa) su di un piano che preveda una continuità aziendale. Essi, dunque, potranno anche essere rivolti verso una finalità meramente liquidatoria, e pertanto assommare il doppio “vantaggio”: di potere da una parte rappresentare uno strumento di regolazione concordata della crisi fruibile, a tale scopo, a condizioni più agevoli di quelle prescritte per un concordato preventivo liquidatorio; ma di poter d’altra parte far leva, a differenza degli ARD “semplici” o “agevolati”, sulla possibilità di imporre il trattamento offerto alla maggioranza della categoria anche alla minoranza dei creditori non aderenti. 5. Ci si può chiedere a questo punto - salendo di livello - quale sia il rapporto fra gli ARD ad “efficacia estesa” e gli ARD “semplici” ed “agevolati”. Il Codice, sul punto, risulta meno perspicuo dell’attuale 182 septies, l.fall., che dichiaratamente si pone come norma “integrativa” della disciplina generale. L’art. 61 del Codice, invece, si limita a dire più genericamente che tutte le norme “di cui alla presente sezione”, cioè quella dedicata in generale a tutti gli ARD, si applicano anche agli accordi ad efficacia estesa. Questo dovrebbe orientare a sostenere, innanzitutto, che per quanto riguarda le percentuali di adesione minime affinché l’accordo possa essere omologato, e quindi dispiegare i suoi effetti legali – e cioè il limite del 60% dei crediti o del 30% per gli ARD agevolati – dovrà essere rispettato anche per gli ARD ad efficacia estesa. Con l’unica variante (che tuttavia non rappresenta un criterio alternativo al rispetto di quelle percentuali complessive) che fra i creditori sollecitati ad aderire a tali accordi, verranno isolati dei gruppi individuati per “categorie” omogenee. La scelta del termine “categoria” - piuttosto che quello di “classe”, nel senso oramai stabilmente attestatosi in seno alla disciplina del concordato preventivo per designare un gruppo di creditori omogenei - ha

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un senso specifico per gli ARD: dal momento che per questi ultimi non si tratta tanto di suddividere la totalità dei creditori in gruppi destinatari di trattamenti differenziati (come pare inevitabile se si intenda procedere ad una classificazione, peraltro non obbligatoria neppure secondo il Codice, argomentando a contrario dall’art. 85, co. 5); bensì di collocare, o meno, alcuni o anche tutti creditori, all’interno di gruppi caratterizzati da omogeneità giuridica ed economica (le “categorie”), solamente se nei loro confronti si intenda far valere la regola per cui il trattamento proposto ed accettato da almeno il 75% degli appartenenti a ciascuna categoria dovrà applicarsi anche alla minoranza non aderente. Resta però aperta la possibilità che alcuni creditori potrebbero anche non trovare alcuna collocazione all’interno delle categorie previste: con allora la persistente applicabilità, nei loro confronti, della regola, tipica degli ARD, per cui ai non aderenti dovrà assicurarsi una soddisfazione integrale. Ciò che del resto è dato notare già con riferimento agli ARD con intermediari finanziari attualmente regolati dall’art. 182-septies, l.fall., che prevedono al contempo “categorie” di intermediari finanziari, fermi i diritti dei creditori diversi. Il ricorso alle categorie, però, non toglie che le regole sulle percentuali minime di adesione (60% o 30%) previste per gli ARD - semplici o agevolati che siano, e di cui allora gli ARD ad efficacia estesa devono ritenersi una variante – dovranno continuare, come tendenzialmente tutto il resto della loro disciplina, a ritenersi applicabili. Con il risultato che il creditore dissenziente all’interno di una categoria, per quanto costretto ad accettare, in caso di omologazione dell’ARD, il trattamento accettato dalla maggioranza della categoria cui appartiene, non per questo cesserà di essere considerato come “non aderente” ai fini del raggiungimento della percentuale complessiva dei crediti necessaria alla omologazione dell’ARD. Insomma, per il creditore dissenziente all’interno di una categoria che per oltre il 75% si sia espressa a favore - e pur costretto a subire il trattamento propostogli nell’accordo - non potrà valere alcun “effetto leva” per il quale egli dovrebbe considerarsi come “aderente”. Tanto, in effetti, era previsto nel disegno di legge, con previsione che però è stata espunta dal testo definitivo del Codice; e tanto, del resto, deve ritenersi che valga anche per diritto vigente, per l’intermediario finanziario che non aderisca agli ARD disciplinati dall’art. 182-septies, l.fall., pur se la sua categoria si sia espressa a favore per oltre il 75%; e tanto, ancora, trova conferma, ad esempio, nella disciplina delle misure protettive temporanee (art. 54 del Codice), lì dove si ha cura di precisare espressamente (pur con una certa imprecisione, su cui ora

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soprassiedo) che l’attestazione del professionista che accerti che sono in corso trattative con almeno il 60% dei creditori si applica anche agli ARD ad efficacia estesa – segno dunque che tale percentuale andrà inderogabilmente rispettata anche per questi ultimi. Del resto, anche per le classi nel concordato preventivo vale una regola analoga: il dissenziente nella classe aderente, subisce il trattamento da questa accettato, ma non concorre al raggiungimento della maggioranza necessaria all’approvazione della proposta. La applicabilità delle regole generali degli ARD, semplici o agevolati che siano, anche a quelli ad “efficacia estesa” (solo ulteriormente connotati, dunque, solo dal regime aggiuntivo delle “categorie”), consente allora di considerare questi ultimi come una species dei primi, nella complessiva architettura dell’istituto. E allora di prendere atto come gli ARD ad efficacia estesa – potendo appartenere tanto al genus degli ARD semplici che a quella, per così dire equiordinata, degli ARD agevolati (ove ne ricorrano i diversi presupposti) - diventano capaci di assommare tutti i possibili vantaggi che consentono di pervenire all’omologazione dell’accordo. Significa, cioè, che oltre a poter imporre ai creditori non aderenti inseriti in una categoria il trattamento che quest’ultima abbia accettato per oltre il 75%, potrà conseguirsi, loro malgrado, un’omologazione dell’accordo anche sulla base di un’adesione di tanti creditori (siano o meno inseriti nelle categorie) che rappresentino il solo 30%. E ciò – può aggiungersi – con l’ulteriore vantaggio, in termini di favor per il raggiungimento delle necessarie percentuali di aderenti, rappresentato dalla norma (art. 48, co. 4, del Codice) che considera, in questo caso, a tutti gli effetti come “aderente” (e quindi da computarsi nelle percentuali previste per gli ADR semplici o agevolati) l’amministrazione finanziaria anche se non abbia espresso il suo consenso alla proposta, purché la proposta si riveli per essa preferibile alla alternativa liquidatoria. E se poi l’ADR ad efficacia estesa si configurerà secondo quella sua sottospecie prevista e disciplinata dall’art. 61, ultimo comma, del Codice – cioè con intermediari finanziari - esso potrà per di più perseguire anche una finalità liquidatoria. 6. Può farsi allora, a mo’ di consuntivo, una simulazione. Immaginando un ARD ad efficacia estesa con intermediari finanziari (art. 61, ult. co., Codice), e pertanto anche con finalità liquidatoria, nel quale si registri l’approvazione della categoria (o delle categorie, che potrebbero variare in funzione del tipo di crediti finanziari: forma tecnica, garantiti e non, etc.) in cui vengano inseriti tali creditori qua-

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lificati (ciò che presuppone che l’esposizione debitoria complessiva verso questi ultimi sia superiore al 50%) si avrebbe che già su questo fronte si sarebbe registrata una percentuale di “aderenti” superiore al 37,5% (il 75% del 50%+ un euro). Dunque, se ricorressero le ulteriori condizioni di un ARD agevolato, la percentuale minima per l’omologazione (30%) sarebbe già ampiamente superata. Se invece si trattasse di dover raggiungere la percentuale minima di aderenti del 60%, avvalendosi eventualmente anche della possibilità di considerare come implicitamente aderente l’amministrazione finanziaria, non mancherebbe davvero molto a raggiungere quella percentuale. Con la possibilità poi, in entrambi i casi, che una volta raggiunte quelle percentuali (e reso pertanto, salvo altro, omologabile l’ARD), ai creditori non aderenti, anche non finanziari, potranno imporsi le condizioni accettate dagli altri creditori aderenti della stessa categoria per oltre il 75%. Emerge così come – per l’omologazione di un ARD ad efficacia estesa con intermediari finanziari, che potrebbe avere anche finalità liquidatorie – possano risultare sufficienti percentuali (anche ampiamente minoritarie, come il 30%) vertiginosamente più basse della maggioranza (tendenzialmente doppia, per valore e classi) previste per l’approvazione di un concordato preventivo; il quale d’altra parte, se volesse perseguire quella finalità liquidatoria, richiederebbe l’adempimento di ulteriori ed onerose condizioni. E senza dimenticare, a tale riguardo, che la possibilità di configurare un ARD ad efficacia estesa secondo la sua sottospecie “con intermediari finanziari”, non dipende necessariamente da una situazione debitoria fatalmente predeterminata che pertanto, date certe condizioni di partenza, resterebbe irraggiungibile. Al contrario, ben si potrebbe “costruire” una tale condizione di accessibilità, se solo alcuni crediti commerciali vengano appositamente acquistati da alcuni intermediari finanziari, sino alla misura necessaria a rendere complessivamente maggioritaria l’esposizione debitoria verso il loro ceto. 7. Con riferimento alle condizioni, invero abbastanza propizie, per pervenire all’omologazione di ARD ad efficacia estesa con intermediari finanziari – come tale capaci di contemplare al contempo categorie di intermediari finanziari ma anche, in quanto si tratta pur sempre di un ARD ad efficacia estesa, categorie di creditori non finanziari (quantitativamente inferiori) – pare poi opportuno evidenziare un nuovo profilo che si può cogliere all’interno della disciplina dettata dal Codice

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rispetto a quella, pur nell’invarianza testuale, ricavabile dalla legge fallimentare. Al riguardo, tanto l’art. 61, ult. co., del Codice, quanto l’art. 182-septies, co. 1, l.fall., dispongono che in caso di ARD con banche ed intermediari finanziari “restano fermi i diritti dei creditori diversi da banche ed intermediari finanziari”. Tuttavia il medesimo enunciato normativo, nei due diversi contesti, muta di portata. Nella più semplice architettura della l.fall., infatti, la salvezza dei creditori non finanziari vuol dire, semplicemente, che essi saranno soggetti alla disciplina degli ARD semplici, che è l’unico altro “sovraordinato” modello di ARD previsto: e quindi che se essi non aderiranno all’accordo, dovranno essere necessariamente soddisfatti integralmente. Nella più complessa architettura del Codice, invece, la salvezza della posizione dei creditori diversi rispetto a quelli finanziari, in un ARD con intermediari finanziari, andrà riferita a tutte le figure di portata via via più generale, compresa allora quella degli ARD ad efficacia estesa, di cui come visto quelli con intermediari finanziari devono intendersi una sottospecie (regolata all’ultimo comma del medesimo articolo 61). Questo comporta, allora, che i creditori non finanziari, in un ARD con intermediari finanziari, potrebbero a loro volta essere inseriti in ulteriori categorie di creditori (non finanziari); e come tali, allora, subire la regola, comune a qualsiasi altro ARD con efficacia estesa, di sottostare al trattamento approvato dalla categoria nella quale siano inseriti, anche se non vi abbiano aderito (e quindi diversamente da quanto comporterebbe oggi la disposizione dell’art. 182 septies, l.fall., nei loro confronti). Resta fermo invece, come sopra ricordato, che se essi non saranno inseriti in alcuna categoria (trattandosi di mera facoltà, non obbligo del proponente), il loro statuto di creditori “non aderenti” andrà individuato in quello previsto in via generale dagli ARD (semplici o agevolati): con la necessità, quindi, di una loro soddisfazione integrale (come comporta già oggi l’art. 182 septies, primo comma, l. fall., nei loro confronti). 8. Vengo in ultimo alle convenzioni di moratoria. Nel Codice, esse vengono previste e disciplinate in un autonomo articolo (art. 62), in termini non particolarmente innovativi rispetto alla vigente disciplina recata dall’art. 182-septies, co. 5 e 6, l.fall., eppure apprezzabili per intervenire su alcuni profili lasciati un po’ in ombra da quest’ultima. Mi limito dunque, qui di seguito, a tali aspetti di contorno.

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(a) Il primo, certamente, è una maggiore chiarezza della norma nello stabilire, oltre alla finalità delle convenzioni (“disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi”), il loro possibile contenuto. Questo, si chiarisce ora, potrà avere portata meramente dilatoria, di rinuncia agli atti o di sospensione di azioni esecutive, senza però in alcun modo poter prevedere effetti remissori o di rinuncia da parte degli intermediari coinvolti. Il che, in effetti, è coerente con il nomen juris di “moratoria”, e con la stessa natura di uno strumento che, in effetti, salvo che intervenga opposizione resta sottratto a qualsiasi omologazione giudiziaria che ridefinisca il debito. (b) Un secondo profilo consiste poi nell’aver chiarito in che cosa dovrebbe consistere la “convenienza” di una convenzione. E cioè non (come già previsto attraverso un incongruo rinvio del co. 6 al co. 4, terzo periodo, dell’art. 182 septies, l.fall.) nella “soddisfazione dei creditori in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”: ciò che, per le convenzioni di moratoria - incapaci di alterare la misura del credito e che comunque non promettono, di per sé, alcuna soddisfazione - rappresenta un termine di paragone improprio, se non incommensurabile. Il termine di confronto, nel Codice, è piuttosto individuato nelle “concrete prospettive” che - all’esito della convenzione, e cioè del periodo di moratoria – quegli stessi creditori potranno avere di essere soddisfatti – in ragione di una qualche recuperata solvibilità del debitore in bonis - in una misura che non sia inferiore di quella che si ritrarrebbe da una liquidazione giudiziale. (c) Del resto, e venendo al terzo profilo che si voleva segnalare – quello relativo alla opposizione alle convenzioni - va preliminarmente ricordato in quali “prospettive” si dovrebbe realizzare la “convenienza” delle convenzioni ora considerate. La regola fondamentale delle convenzioni previste dall’art. 182-septies, l.fall., ed ora dall’art. 62 del Codice, è quella per cui un’adesione di oltre il 75% dei creditori finanziari vincolerà la parte minoritaria (non tanto ad accettare una soddisfazione inferiore, come negli ADR, quanto) a sottostare temporaneamente alla stessa moratoria convenuta dal debitore con la maggioranza. Si tratta di una regola che intende ovviare all’inconveniente, che emerge dall’esperienza dei cd. scheme of arrangements noti anche al di fuori dei confini nazionali, per cui taluni intermediari potrebbero orientarsi, per inerzia o per finalità in senso lato parassitarie, a tenersi fuori dalle trattative o a lasciare, comunque, che siano altri intermediari a sospendere le proprie azioni e pretese; sennonché, di fronte a un tale atteggiamento, neppure i creditori intenzionati a concedere una moratoria sarebbero più disposti a rinviare

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l’esazione del loro credito, se quella stessa moratoria non si imponesse anche a tutti gli altri; giacché questi ultimi, non aderendo, troverebbero la strada spianata per soddisfarsi per via esecutiva a discapito di chi resti in attesa. Dunque, l’unico modo per poter arrivare ad un accordo è quello di una moratoria globale, che seppure accettata da alcuni, si imponga a tutti – come appunto dispone la legge. Se questo è il gioco degli interessi, allora, diviene delicato anche il profilo delle eventuali opposizioni alla convenzione. Attualmente, l’art. 182-septies, co. 6, l.fall., prevede che gli intermediari che si oppongano giudizialmente alle convenzioni possano ottenere che l’accordo “non produca effetto nei loro confronti”. Questo parrebbe comportare che l’accoglimento dell’opposizione non comporterebbe (come per l’opposizione avverso l’omologazione di un concordato o di un accordo di ristrutturazione) la decadenza di tutti gli effetti dell’accordo; ma solo che la moratoria, convenuta con altri, non impegnerà qual creditore che abbia proposto vittoriosamente la sua opposizione, così però frustrando le finalità tipiche dell’istituto come poc’anzi descritte. L’art. 62 del Codice, invece, non ripete l’enunciato contenuto nell’art. 182-septies, l.fall., appena citato; tuttavia, in luogo di esso, non dice nulla di preciso. L’art. 62 dice semplicemente, infatti, che gli intermediari possono proporre opposizione avanti al tribunale (entro trenta giorni dalla comunicazione della relativa proposta ricevuta dal proponente). La domanda diventa, allora: l’accoglimento dell’opposizione determinerà il venir meno di qualsiasi effetto della convenzione, oppure solo dei suoi effetti legali, e cioè dell’estensione della portata della convenzione agli intermediari coinvolti nella categoria ma non aderenti, fermo restando però l’impegno assunto dagli aderenti? Già questo stesso dubbio, che in effetti non viene dissipato dall’art. 62 del Codice, lascia allora pronosticare, o comunque raccomandare – per le già evidenziate ragioni “commerciali” alla base dell’istituto ora considerato (e cioè che nessuna banca siede ad un tavolo per rinunciare ai propri termini, se le altre non sono pronte a farlo a loro volta e negli stessi termini) – che una convenzione di moratoria dovrebbe quantomeno, per cautela, prevedere che le banche aderenti condizioneranno la propria adesione alla mancata opposizione da parte delle altre, o quantomeno al mancato accoglimento dell’opposizione.

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Codice della Crisi e responsabilità di creditore e finanziatore nella valutazione del “merito creditizio” Sabino Fortunato Sommario: 1. La valutazione del “merito creditizio” nella relazione dell’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) all’accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore e al concordato minore dei non-consumatori. Le sanzioni endoprocedimentali. – 2. L’obbligo di comportamento a carico del creditore in generale nel rapporto di credito con il consumatore. – 3. L’obbligo di comportamento del finanziatore nella valutazione del merito creditizio del consumatore. – 4. L’obbligo di comportamento del finanziatore nei confronti del non-consumatore (professionista/ imprenditore). – 5. La sanzione endoprocedimentale. Dubbi di legittimità costituzionale per violazione del diritto di difesa. – 6. Il problema della sanzione sostanziale sul piano civilistico. – 7. Imprenditore, assetti organizzativi e valutazione del merito creditizio.

1. La valutazione del “merito creditizio” nella relazione dell’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) all’accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore e al concordato minore dei non-consumatori. Le sanzioni endoprocedimentali. Il Codice della Crisi, nel disciplinare il ruolo dell’Organismo di Composizione della Crisi nel caso di ricorso del consumatore alla procedura di “ristrutturazione dei debiti” (artt. 67 ss.), dispone che «l’OCC, nella sua relazione, deve indicare anche se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del debitore, valutato in relazione al suo reddito disponibile, dedotto l’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita» (art. 68, co. 3, c.c.i.)1. La relazione dell’OCC è destinata ad accompagnare la “proposta” del piano di ristrutturazione dei debiti che il debitore consumatore avanza

1 «A tal fine – prosegue la norma – si ritiene idonea una quantificazione non inferiore all’ammontare dell’assegno sociale moltiplicato per un parametro corrispondente al numero dei componenti il nucleo familiare della scala di equivalenza dell’ISEE di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 5 dicembre 2013, n. 159». La disposizione dà attuazione al principio direttivo sancito nell’art. 9 lett. e) della legge delega n. 155/2017: «prevedere che nella relazione dell’organismo di cui all’articolo 9, comma 3-bis, della legge 27 gennaio 2012, n. 3, sia indicato se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del richiedente, valutato in relazione al suo reddito disponibile, dedotto l’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita».

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ai propri creditori e che tramite l’OCC viene presentata al Tribunale competente2, ai fini del giudizio omologatorio. Ai creditori è consentito far pervenire, ancor prima della omologazione, osservazioni sul piano presentato, di cui l’OCC tiene conto per riferire al Giudice, proponendo eventuali modifiche al piano che dovesse ritenere necessarie (art. 70, co. 3, c.c.i.). Le dette osservazioni possono avere ad oggetto anche la contestazione della convenienza economica della proposta, ma in tal caso il Tribunale applica il principio del cram down, omologando comunque il piano ove ritenga che il credito dell’opponente possa essere soddisfatto dall’esecuzione del piano in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria (art. 70, co. 9, c.c.i.). E ovviamente, avverso la sentenza di omologazione è ammessa “impugnazione” mediante ricorso alla Corte d’appello anche da parte del creditore dissenziente3. Senonché l’art. 69, co. 2, c.c.i. introduce una sorta di sanzione endoprocedimentale a carico del creditore, ove ricorrano condizioni che la norma sembra prospettare come alternative ed equivalenti: (i) il creditore «ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento»; oppure (ii) il creditore «ha violato i principi di cui all’articolo 124-bis del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385» (relativi alla valutazione del merito creditizio da parte del finanziatore). La sanzione si traduce nella perdita di legittimazione del creditore a «presentare opposizione o reclamo in sede di omologa, anche se dissenziente» o a «far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore»4. Un meccanismo analogo è poi riproposto dal Codice della Crisi anche nell’ambito della procedura del “concordato minore”5, la cui discipli-

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In composizione monocratica: art. 67, co. 6, c.c.i. Cfr. art. 70, co. 8, e art. 51 c.c.i. Il «dissenso», in questo caso è evidentemente da interpretarsi non come voto contrario espresso in sede di votazione ma come dissenso espresso in sede di omologazione, considerato che l’accordo di ristrutturazione del consumatore non è sottoposto alla votazione dei creditori. 4 Anche in questo caso la norma dà attuazione al principio sancito nella legge delega n. 155/2017 all’art. 9 lett. l): «prevedere misure sanzionatorie, eventualmente di natura processuale con riguardo ai poteri di impugnativa e di opposizione, a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito all’aggravamento della situazione di indebitamento». 5 Il concordato minore è inserito nel Capo II del Titolo IV del c.c.i., unitamente alla “ristrutturazione dei debiti del consumatore”, sotto l’unitaria rubrica del Capo “Procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento”. Noto che qui il termine “crisi” è utilizzato non nella sua accezione specifica, precisata dall’art. 2, co. 1, lett. a (richiamata 3

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na peraltro non trova applicazione al consumatore ma agli altri debitori previsti dall’art. 2, co. 1, lett. c) del Codice: e cioè al professionista, all’imprenditore minore, all’imprenditore agricolo, alle start-up innovative, e ad ogni altro debitore non assoggettabile a liquidazione giudiziale, liquidazione coatta o altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza. Si tratta di soggetti che svolgono a tutta evidenza attività professionale o imprenditoriale. Pure in questo caso l’OCC è chiamato a redigere una relazione sulla proposta e sul piano del concordato minore, che fra l’altro «deve indicare anche se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del debitore»6. La differenza di formulazione, rispetto all’analoga disposizione prevista per il caso del consumatore, sta nell’assenza di ogni precisazione sui criteri di valutazione del merito creditizio del sovvenuto, laddove per il consumatore si ha riguardo al “reddito disponibile”, dedotto l’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita, deduzione che sembra doversi commisurare all’ammontare dell’assegno sociale moltiplicato per il parametro ISEE corrispondente al numero dei componenti il nucleo familiare. Ma pure differente è la formulazione della sanzione indiretta endoprocedimentale che colpisce il creditore-finanziatore, il cui presupposto è tuttavia limitato alla “colpevole determinazione” dell’altrui sovraindebitamento o suo aggravamento e non parrebbe estendersi anche alla violazione dei principi sulla valutazione del merito creditizio del debitore professionista/imprenditore. Il “concordato minore”, a somiglianza del fratello “maggiore”, viene disciplinato nella duplice forma di concordato in continuità – «quando consente di proseguire l’attività imprenditoriale o professionale» – (art. 74, co. 1) e di concordato liquidatorio – purchè con «apporto di risor-

alla lett. c) nella nozione di “sovraindebitamento” che comprende crisi e insolvenza), ma nella sua accezione generica, laddove probabilmente “crisi da sovraindebitamento” sta sia per il presupposto oggettivo di crisi sia per quello di insolvenza, posto che tanto la “ristrutturazione dei debiti del consumatore” quanto il “concordato minore” sono utilizzabili dal “consumatore sovraindebitato” (art. 67) ovvero dal “debitore … in stato di sovraindebitamento”, e dunque secondo l’ampia accezione che assume la nozione di sovraindebitamento alla citata lett. c) dell’art. 2, co. 1, c.c.i. Sarebbe opportuno modificare la rubrica (come le analoghe espressioni, utilizzate per es. all’art. 65) per ricondurre ad omogeneità la terminologia adottata, parlandosi semmai di “procedure di composizione del sovraindebitamento” tout court. 6 Art. 76, co. 3, c.c.i.

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se esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori» – (art. 74, co. 2) ed è soggetto all’approvazione dei creditori (anche con il meccanismo del silenzio-assenso), i quali potranno far pervenire all’OCC «la dichiarazione di adesione o di mancata adesione alla proposta di concordato», ma anche «le eventuali contestazioni»7. E tuttavia, per un inspiegabile esprit de geometrie (tutt’altro che sorretto da corrispondente esprit de finesse), il legislatore riprende parzialmente la formulazione sanzionatoria adottata nel caso della omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore, sancendo che «il creditore che ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento, non può presentare opposizione o reclamo in sede di omologa, anche se dissenziente, né far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore» (art. 80, co. 4). En passant, la qualificazione del creditore come “dissenziente” ha qui molto più senso che non nella disciplina dell’accordo di ristrutturazione, posto che nel concordato minore i creditori esprimono con il voto il loro consenso o dissenso, mentre nell’altro istituto subiscono d’ufficio la decisione omologatoria del Tribunale. Al di là dei problemi di coordinamento e di editing delle disposizioni, problemi che pervadono in più parti il Codice della Crisi8, preme subito evidenziare che anche in questa occasione il legislatore non affronta direttamente la questione dell’eventuale responsabilità civile del creditore o del finanziatore per “finanziamento abusivo o insostenibile” erogato al debitore ora consumatore e ora professionista/imprenditore, limitandosi a sancire per un verso obblighi di comportamento che fanno capo al creditore genericamente inteso o in via più specifica al finanziatore e per altro verso “sanzioni indirette” al ricorrere della violazione di tali obblighi. Peraltro, v’è da chiedersi se sia davvero giustificata la sia pur parziale assimilazione di debitore-consumatore e di debitore-imprenditore/ professionista nel farne derivare analoghe sanzioni in capo al creditore “responsabile” del sovraindebitamento o del relativo aggravamento. E per quale ragione, poi, un tale apparato sanzionatorio non viene neppure enunciato nella disciplina della liquidazione controllata del patrimonio tanto del consumatore quanto degli altri debitori professioni-

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Art. 78, co. 2, lett. c). E su cui non sarebbe inutile un intervento chiarificatore in sede di decreto correttivo, prima che la disciplina entri complessivamente in vigore. 8

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sti/imprenditori? Anche la liquidazione controllata è procedura concorsuale che presuppone il sovraindebitamento; eppure alcuna sanzione di carattere endoprocedimentale è disposta a carico del creditore o finanziatore “abusivo”. Un ulteriore quesito, non disgiunto dalle problematiche sollevate dalla preliminare “valutazione del merito creditizio” degli imprenditori, si pone con particolare riferimento alla responsabilità del finanziatore nella erogazione del credito alla impresa in crisi, in connessione agli obblighi organizzativi enunciati ora in generale, per qualsiasi imprenditore “che operi in forma societaria o collettiva”, nel novellato art. 2086 c.c. (art. 375 c.c.i.) e poi ripetuto in termini martellanti in tutti i tipi societari (art. 377 c.c.i. con riguardo agli artt. 2257, 2380-bis e 2475 c.c.), obblighi declinati come «dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale…». Il quesito che in ambienti bancari è stato sollevato, con una buona dose di preoccupazione, è se a tali assetti si debba fare riferimento da parte del finanziatore nella concessione di credito quale elemento necessario della valutazione del merito creditizio del sovvenuto e con quali effetti9. Il riferimento al “merito creditizio” del finanziato torna in sede di esdebitazione da sovraindebitamento con riguardo al “debitore persona fisica meritevole” ma “incapiente”, senza che peraltro si precisi in questo caso che debba necessariamente trattarsi di “consumatore”. È richiesto che la esdebitazione venga accompagnata da una relazione dell’OCC che deve fra l’altro, ancora una volta, «indicare anche se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del debitore, valutato in relazione al suo reddito disponibile, dedotto l’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita», al quale scopo si ritiene idonea una quantificazione pari all’assegno sociale aumentato della metà e moltiplicato per un parametro ISEE considerato il numero dei componenti il nucleo familiare10.

9 L’art. 14 lett. b) della legge delega n. 155/2017 prevede l’introduzione di un «dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale…». 10 Art. 283, co. 1 e 5, c.c.i. Segnalo che ai fini della esdebitazione da sovraindebitamento della persona fisica incapiente si riprendono i criteri utilizzati per il consumatore nell’accordo di ristrutturazione ai fini della valutazione del merito creditizio, facendo deduzione dal reddito disponibile di quanto precisato all’art. 68, co. 3, c.c.i. Senonché

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Il che evidenzia, a mio avviso, la possibile ambivalenza della relazione dell’OCC sul punto concernente la valutazione del merito creditizio compiuta o meno dal finanziatore: essa può fondare un giudizio positivo a vantaggio del debitore11, ma potrebbe anche segnalare un comportamento non diligente del finanziatore. Ma prima di compiere una valutazione complessiva del quadro legislativo in tema di sovraindebitamento, cerchiamo di fornire una interpretazione più compiuta di precetto e sanzione come enucleati a carico del creditore in generale o del finanziatore più specificatamente. 2. L’obbligo di comportamento a carico del creditore in generale nel rapporto di credito con il consumatore. Va premesso che la disciplina del sovraindebitamento del consumatore si muove in una logica di tutela della posizione del contraente debole, che ormai da tempo connota gli interventi comunitari in materia e le conseguenti applicazioni negli Stati membri. In questa direzione occorre differenziare la portata di precetto e sanzione concernenti gli accordi di ristrutturazione dei debiti del consumatore da quella di pre-

mentre per il consumatore la deduzione si limita all’ “assegno sociale”, poi moltiplicato per il noto parametro, per l’esdebitazione del debitore incapiente la deduzione è pari all’ “assegno sociale aumentato della metà”, quindi moltiplicato per il noto parametro! E nel co. 2 dell’art. 283 si precisa che la “valutazione di rilevanza” delle utilità sopravvenute entro i quattro anni dal decreto di esdebitazione va compiuta diminuendo dette utilità sia di quanto appena precisato sia delle “spese di produzione del reddito”! 11 E v. in questa direzione Trib. Napoli Nord, III sez. civ., 16-18 maggio 2018, ove si osserva che «la valutazione del merito creditizio da parte di operatori professionali quali gli enti finanziatori è elemento idoneo a rafforzare a monte l’affidamento del consumatore nella idoneità del proprio reddito a far fronte alle rate del finanziamento, ed a valle il giudizio del Tribunale in ordine alla colpevolezza dell’indebitamento», nella valutazione del presupposto della meritevolezza del consumatore ai sensi dell’art. 12bis, co. 3, l. n. 3/2012. Del resto l’art. 69, co. 1, c.c.i. considera condizione soggettiva ostativa all’accesso all’accordo di ristrutturazione dei debiti, fra le altre, la circostanza che il consumatore abbia «determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode», sì che la valutazione sul suo merito creditizio può costituire elemento da considerare nella relazione dell’OCC anche ai fini della indicazione della «diligenza impiegata dal debitore nell’assumere le obbligazioni» (art. 68, co. 2, lett. a c.c.i.). Analoga indicazione è richiesta nella relazione dell’OCC per il debitore non consumatore (professionista/imprenditore) da ammettere al concordato minore, ma qui l’inammissibilità della domanda di concordato minore consegue, fra l’altro, ove «risultino commessi atti diretti a frodare le ragioni dei creditori» (art. 76, co. 2, lett. a in combinato disposto con l’art. 77 c.c.i.

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cetto e sanzione concernenti i concordati minori con i professionisti e imprenditori non soggetti a liquidazione giudiziale12. Quanto ai primi l’ambito soggettivo di applicazione del precetto e della conseguente sanzione endoprocedimentale sembra investire alternativamente “qualsiasi creditore” che abbia «colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento» e poi – in termini più specifici – il creditore “finanziatore” (benché non espressamente nominato come tale) che abbia violato “i principi” sulla valutazione del merito creditizio nella erogazione di credito al consumatore ai sensi dell’art. 124-bis t.u.b. (ma suppongo anche “i principi” disciplinati dall’art. 120-undecies per la valutazione del merito creditizio nel credito immobiliare ai consumatori13).

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Alla necessità di tenere distinte le problematiche sulla responsabilità del finanziatore a seconda che investano il credito al consumatore ovvero il credito all’imprenditore si rifaceva già Stanghellini, Il credito “irresponsabile” alle imprese e ai privati: profili generali e tecniche di tutela, in Società, 2007, pp. 395 ss. Il n. 4/2007 di Società raccoglie gli atti del Convegno di Alba del 18 novembre 2006 dedicato a “Il ‘credito responsabile’: dal credito all’impresa al credito al consumo”, con relazioni premonitrici dei successivi sviluppi della materia (si vedano in particolare i contributi di Nigro, Pagni, Inzitari dedicate fondamentalmente alla concessione abusiva di credito, nonché quello di Panzani sulla esdebitazione). 13 Trattasi a mio avviso di difetto di coordinamento, poiché l’art. 120-undecies del t.u.b., dettato con l’art. 1, co. 2, d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72 in attuazione dell’art. 18 della direttiva 2014/17/UE sul credito immobiliare ai consumatori – c.d. Mortgage Credit Directive – riprende il modello dell’art. 124-bis t.u.b., inserito in precedenza dall’art. 1 d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141 in attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori. L’art. 124-bis, più stringatamente, dispone: «1. Prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore valuta il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente. 2. Se le parti convengono di modificare l’importo totale del credito dopo la conclusione del contratto di credito, il finanziatore aggiorna le informazioni finanziarie di cui dispone riguardo al consumatore e valuta il merito creditizio del medesimo prima di procedere ad un aumento significativo dell’importo totale del credito. 3. La Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, detta disposizioni attuative del presente articolo». L’art. 120-undecies, più estesamente e anche più rigorosamente, ribadisce: «1. Prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore svolge una valutazione approfondita del merito creditizio del consumatore, tenendo conto dei fattori pertinenti per verificare le prospettive di adempimento da parte del consumatore degli obblighi stabiliti dal contratto di credito. La valutazione del merito creditizio è effettuata sulla base delle informazioni sulla situazione economica e finanziaria

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Con riguardo alla posizione del generico creditore, sia esso finanziatore o fornitore di merci o ad altro titolo, il comportamento rilevante non è puntualmente identificato, ma è genericamente definito avendo riguardo ai suoi effetti causativi, un po’ come accade nel modello codicistico dell’art. 1227 c.c. che disciplina il “concorso del fatto colposo del creditore”. Qui la condotta del creditore deve essere tale da tradur-

del consumatore necessarie, sufficienti e proporzionate e opportunamente verificate. 2. Le informazioni di cui al comma 1 comprendono quelle fornite dal consumatore anche mediante l’intermediario del credito; il finanziatore può chiedere chiarimenti al consumatore sulle informazioni ricevute, se necessario per consentire la valutazione del merito creditizio. 3. Il finanziatore non risolve il contratto di credito concluso con il consumatore né vi apporta modifiche svantaggiose per il consumatore, ai sensi dell’articolo 118, in ragione del fatto che la valutazione del merito creditizio è stata condotta scorrettamente o che le informazioni fornite dal consumatore prima della conclusione del contratto di credito ai sensi del comma 1 erano incomplete, salvo che il consumatore abbia intenzionalmente omesso di fornire tali informazioni o abbia fornito informazioni false. 4. Prima di procedere a un aumento significativo dell’importo totale del credito dopo la conclusione del contratto di credito, il finanziatore svolge una nuova valutazione del merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni aggiornate, a meno che il credito supplementare fosse previsto e incluso nella valutazione del merito creditizio originaria. 5. Quando la domanda di credito è respinta, il finanziatore informa il consumatore senza indugio del rifiuto e, se del caso, del fatto che la decisione è basata sul trattamento automatico di dati. 6. Il presente articolo non pregiudica l’applicazione del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. 7. Si applica quanto stabilito ai sensi dell’articolo 125. 8. I finanziatori elaborano e documentano la propria politica di offerta di contratti di credito, che include l’elencazione dei tipi di diritti e beni su cui può vertere l’ipoteca. 9. La Banca d’Italia detta disposizioni attuative del presente articolo». Sulla evoluzione della disciplina di tutela del consumatore nella concessione di credito al medesimo, dalla direttiva 2008/48/CE (contratti di credito dei consumatori) attuata con il d.lgs. n. 141/2010 alla direttiva 2014/17/UE (contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali o anche detta direttiva mutui) attuata con il d.lgs. n. 72/2016 v. l’interessante saggio di Pellecchia, L’obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore: spunti di riflessione per un nuovo modo di guardare alla “contrattazione con l’insolvente”, in Nuove leggi civ., 2014, pp. 1088 ss.; nonché Francisetti Brolin, L’art. 124-bis del t.u.b. e gli incerti riflessi civilistici del c.d. «merito creditizio» nel credito al consumo: dalla culpa in contrahendo ai vizi del volere, in Contr. e impr. Europa, 2014, pp. 541 ss.; ID., Ancora sul c.d. “merito creditizio” nel credito al consumo. Chiose a margine di una recente decisione comunitaria, Ibidem, 2015, pp. 357 ss. Segnalo sin d’ora la formulazione più rigorosa dell’art. 120-undecies che probabilmente trova giustificazione nella specificità della circostanza che il finanziamento si accompagna all’ipoteca sull’immobile residenziale del consumatore.

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si in una iniziativa determinativa dell’indebitamento (direi meglio: del sovraindebitamento) o del suo aggravarsi, nel senso che il processo causale che ha indotto il consumatore all’indebitamento insostenibile o al suo aggravamento deve essere addebitabile (imputabile) al creditore medesimo, che ha agito nella consapevolezza (in questo senso “colpevolmente”) di caricare il consumatore di una situazione debitoria dallo stesso non sostenibile. È evidente che una attiva partecipazione del consumatore nell’indurre il creditore alla erogazione del credito, tacendo circostanze o addirittura alterandole/falsificandole per offrire una situazione patrimoniale e finanziaria anche prospetticamente sostenibile, impedirebbe che si configuri un nesso causale esclusivo (determinativo, e non puramente “concorrente”) fra il comportamento/iniziativa del creditore e il sovraindebitamento/aggravamento della situazione del consumatore. Insomma, nella instaurazione del rapporto creditizio il creditore deve aver svolto un ruolo causalmente determinante e deve essersi rappresentato (o avrebbe dovuto rappresentarsi con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza) il futuro stato di crisi, lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, se non addirittura l’insolvenza medesima. Più che di “induzione all’inadempimento” (istituto che peraltro allude al comportamento di un terzo che si intromette fra debitore e creditore nella fase esecutiva del rapporto obbligatorio), si tratterebbe di una “induzione alla assunzione di obbligazioni” che il creditore sa o avrebbe dovuto sapere insostenibili per il debitore. Nel costruire un tale obbligo di comportamento in capo al generico creditore nei confronti del consumatore (cioè di un contraente «persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigiana o professionale eventualmente svolta» - art. 2, co. 1, lett. e -), occorrerebbe che il generico creditore sia investito nella fase precontrattuale delle trattative di un dovere di assumere adeguate informazioni patrimoniali, economiche e finanziarie sul proprio debitore. Tale dovere varrebbe ad imporre, tuttavia, ad un generico creditore una sorta di verifica del merito creditizio del debitore-consumatore, circostanza che mi pare inesigibile a chi non svolga in via professionale attività di finanziamento. Peraltro non troverebbe adeguata giustificazione la distinzione fra il precetto imposto al creditore in generale nella prima parte dell’art. 69, co. 2, e il precetto desumibile dalla seconda parte della disposizione che rinvia espressamente alla verifica del merito creditizio disciplinata dal t.u.b., ove quest’ultima dovesse già ritenersi imposta a carico di ogni creditore in forza del precetto recato dalla prima parte. Né troverebbe adeguata giustificazione la mancata riproduzione di

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quella seconda parte nel precetto che investe il creditore nei confronti del debitore/imprenditore-professionista sovraindebitato nell’ambito del concordato minore (art. 80, co. 4), su cui si tornerà in seguito. Insomma un obbligo di valutazione del merito creditizio si impone al finanziatore professionale nei confronti del debitore-consumatore, ma non anche al generico creditore (per il quale semmai si tratterà di un “onere” a tutela del proprio patrimonio). L’obbligo di comportamento del generico creditore verso il consumatore può trarre origine a mio avviso non già da un dovere precontrattuale di assunzione di informazioni sulla situazione patrimoniale economica e finanziaria del consumatore, ma da indici che la situazione di fatto - nota al creditore nella fase delle trattative - avrebbero dovuto consentirgli di comprendere, anche con l’uso della ordinaria diligenza, segnalando insomma la presenza di difficoltà economico-finanziarie che rendevano prospetticamente probabile l’insolvenza del consumatore. In questa ipotesi dovrebbe incombere al debitore l’onere probatorio relativo alla presenza di indici nella fase precontrattuale che avrebbero dovuto indurre il creditore a prefigurarsi lo stato di sovraindebitamento del consumatore. Ma non è chi non veda la difficoltà di una tale prova. 3. L’obbligo di comportamento del finanziatore nella valutazione del merito creditizio del consumatore. Ben differente è la situazione del creditore-finanziatore professionale, per il quale l’obbligo precontrattuale sembra porsi in termini più specifici, salvo pur sempre a definire la portata degli effetti sanzionatori della violazione di tale obbligo. Qui il rinvio espresso ai “principi” dell’art. 124-bis del t.u.b. evoca un preciso dovere pre-contrattuale gravante sul finanziatore come soggetto professionale abilitato alla erogazione di credito al consumo. La norma dispone infatti che «prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore valuta il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente» (co. 1). E inoltre, anche nella fase esecutiva, «se le parti convengono di modificare l’importo totale del credito dopo la conclusione del contratto di credito, il finanziatore aggiorna le informazioni finanziarie di cui dispone riguardo al consumatore e valuta il merito creditizio del medesimo prima

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di procedere ad un aumento significativo dell’importo totale del credito» (co. 2)14. Insomma per il finanziatore non si guarda solo alla circostanza che egli abbia colpevolmente determinato l’indebitamento o il suo aggravamento, ma che abbia ancor prima effettuato o meno correttamente (e a prescindere dall’apporto causativo al sovraindebitamento) una valutazione adeguata del merito creditizio nella fase precedente all’instaurazione del rapporto creditizio o nella fase precedente al significativo incremento del credito erogato. L’obbligo di comportamento del finanziatore rinvia ad uno specifico dovere di diligenza professionale che si esprime in «un’attenta verifica della capacità dei consumatori di adempiere agli obblighi stabiliti dal contratto di credito». E a tal fine vengono recepiti (in sede di disposizioni attuative delle norme primarie: artt. 124-bis e 120-undecies t.u.b.) gli orientamenti dell’ABE (Autorità Bancaria Europea) in materia di valutazione del merito creditizio, i quali prevedono che i creditori15, prima della conclusione di un contratto di credito, debbano svolgere una valutazione approfondita del merito creditizio dei consumatori al fine di verificarne la capacità – attuale e prospettica – di adempiere ai propri obblighi contrattuali. Per far ciò i creditori tengono conto, tra l’altro, della capacità reddituale del consumatore; dei fattori che riducono, o potrebbero in prospettiva ridurre, la capacità dei consumatori di adempiere agli obblighi derivanti dal contratto di credito; degli ulteriori impegni di pagamento già assunti dal consumatore. In base a quanto previsto dagli orientamenti emanati dall’ABE, i creditori devono inoltre dotarsi di procedure idonee per svolgere la valutazione del merito creditizio del consumatore, mantenendole periodicamente aggiornate (e devono conservare la documentazione concernente il credito per un periodo almeno pari alla durata del rapporto contrattuale). L’obbligo di comportamento del “finanziatore” (termine che ha una accezione tecnica nel t.u.b. e nella disciplina dei contratti di credito ai consumatori) si traduce – com’è evidente – in obblighi organizzativi, in sostanza nell’obbligo su cui si esplica altresì la vigilanza regolamentare

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Ma vedi, in termini analoghi e più rigorosi, l’art. 120-undecies del t.u.b. citato alla nt. 13 che precede. 15 Vedili trasfusi nelle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia: Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 - Disposizioni di vigilanza per le banche - e Circolare n. 288 del 3 aprile 2015 - Disposizioni di vigilanza per gli intermediari finanziari - .

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(ed ispettiva) della Banca d’Italia in funzione della “sana e prudente gestione” dei soggetti vigilati e relativamente – fra l’altro – a «l’organizzazione amministrativa e contabile, i controlli interni» di banche, altri intermediari finanziari e capogruppi bancari e finanziari16. Senonché a carico del finanziatore professionale il legislatore sembra imporre non solo un obbligo organizzativo in funzione della vigilanza di Banca d’Italia ma anche un “obbligo di protezione” a favore del consumatore, istituzionalmente elevato a contraente debole sin dalla fase delle trattative. Quest’obbligo di protezione si carica comunque delle incertezze e oscillazioni che hanno contrassegnato il tentativo comunitario di passaggio, nella tutela (anche preventiva) del consumatore in materia di concessione del credito, dall’approccio cd. responsible borrowing, basato sulla responsabilizzazione del debitore ponendo «l’accento sulle regole di trasparenza contrattuale e sull’incremento delle informazioni da fornire al consumatore affinché possa effettuare una scelta consapevole», all’approccio c.d. responsible lending, basato invece sulla responsabilizzazione del creditore-finanziatore, imponendogli di «selezionare le richieste di finanziamento, eventualmente precludendo l’accesso al credito a soggetti già indebitati o ad alto rischio di insolvenza»17. Quest’ultimo approccio, benché trovi la sua manifestazione nell’obbligo di preventiva valutazione del merito creditizio del consumatore, non giunge sino al punto di farne conseguire un divieto a carico del finanziatore di erogazione del credito “insostenibile”. Anzi la dottrina ha rilevato che, sia rispetto all’art. 124-bis (per il credito al consumo) sia rispetto all’art. 120-undecies (per il credito immobiliare al consumo), il legislatore nulla ha specificato sulle conseguenze civilistiche della sua eventuale inosservanza, né questa lacuna – si afferma da alcuni – può essere colmata dalla direttiva 2014/17/UE attuata con il d.lgs. n. 72/2016, perché in sede comunitaria si è preferito lasciare agli Stati membri di sanzionare eventualmente tale inosservanza18. La conseguenza che se

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Cfr. artt. 53, 67 e 108 t.u.b., nonché 109 t.u.b. che richiama il 108 per i gruppi finanziari, e il 114-quaterdecies per gli istituti di pagamento. 17 Così Pellecchia, L’obbligo di verifica, cit., p. 1092. 18 Nell’ordinamento francese, ad esempio, l’inosservanza dell’obbligo precontrattuale di verifica della solvibilità del consumatore è sanzionata con la decadenza del diritto del creditore agli interessi, interpretata dalla Court de Cassation nel senso che resterebbero dovuti solo gli interessi al tasso legale e non quelli convenzionali. Su tale previsione normativa è intervenuta la Corte di Giustizia Europea con la sentenza resa nella causa n. C565/12, stabilendo che essa non si pone in contrasto con le direttive comunitarie. Non

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ne trae da molti Autori è che si deve ritenere che «in mancanza di un esplicito divieto di concessione del credito il contratto di finanziamento stipulato in violazione dell’art. 120-undecies sia senz’altro valido»19 così come, ovviamente, anche il contratto di credito al consumatore in violazione dell’art. 124-bis. Ma sul punto si tornerà più oltre. 4. L’obbligo di comportamento del finanziatore nei confronti del nonconsumatore (professionista/imprenditore). La valutazione del merito creditizio dovrebbe investire non solo il finanziato-consumatore, ma anche il finanziato-imprenditore o il finanziato-professionista. Tuttavia, di un obbligo specifico del finanziatore verso i non-consumatori quanto alla valutazione del merito creditizio non v’è menzione nella disciplina del concordato minore. È sì previsto che la relazione dell’OCC anche in questo caso – come per gli accordi di ristrutturazione del consumatore – «deve indicare anche se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del debitore» (art. 76, co. 3, c.c.i.); ma – a differenza della ipotesi degli accordi suddetti – la sanzione endoprocedimentale non si estende espressamente alla violazione dei principi inerenti la

risulterebbero, invece, previsioni sanzionatorie negli ordinamenti di altri Stati membri dell’Unione e comunque mancano espresse sanzioni nel nostro ordinamento. Su questi aspetti rinvio a gli AA. citati nella nt. 13 che precede. 19 Rossi, Il nuovo D.Lgs. 21 aprile 2016 n. 72, c’è davvero aria di cambiamenti in materia di mutui bancari?, in Contr. e impr., 2016, pp. 1493 ss. in particolare nt. 12 p. 1509; e già Piepoli, Sovraindebitamento e credito responsabile, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, pp. 38 ss. (alla p. 60). Secondo questa impostazione, anche le disposizioni attuative di vigilanza (richieste dal co. 3 art. 124-bis t.u.b.) confermerebbero che si tratta di disciplina riguardante la vigilanza prudenziale sulle banche ed il contenimento dei rischi nella concessione del credito, tanto più necessario nelle operazioni a mediolungo termine, ove, nel corso degli anni, possono variare, anche in modo significativo, sia la situazione economico-patrimoniale dei mutuatari, sia il valore degli immobili ab initio presi in garanzia di un mutuo. Tutta la materia insomma atterrebbe alla “sana e prudente gestione” degli intermediari bancari e finanziari. Analogamente dovrebbe dirsi per l’eventuale inosservanza della norma di comportamento degli intermediari relativa alla valutazione degli immobili presi in garanzia del credito ai consumatori per l’acquisto di immobili residenziali; anche qui il legislatore nulla dice sulle conseguenze della sua eventuale inosservanza, ed allora dovrebbe essere ovvia la conclusione che, se non è affetto da nullità il contratto non preceduto dalla verifica del merito creditizio del consumatore voluta dall’art. 120-undecies, nemmeno può esserlo il contratto non preceduto da un’adeguata valutazione dei beni immobili secondo il disposto dell’art. 120-duodecies.

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valutazione del merito creditizio, ma colpisce genericamente «il creditore che ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento» (art. 80, co. 4, c.c.i.). Sembra allora doversi desumere che nei confronti dei non consumatori la valutazione del merito creditizio, che pure corrisponde alla diligenza professionale del buon finanziatore, non si traduce in un obbligo nei confronti del finanziato non-consumatore, restando semmai un onere per l’intermediario finanziario ed una incombenza che si riflette sulla “sana e prudente gestione” dell’intermediario. Semmai il Codice della Crisi solleva un ulteriore quesito con particolare riferimento alla responsabilità del finanziatore nella erogazione del credito alla impresa in crisi, in connessione agli obblighi organizzativi enunciati ora in generale, per qualsiasi imprenditore “che operi in forma societaria o collettiva”, nel novellato art. 2086 c.c. (art. 375 c.c.i.) e poi ripetuto, come già si anticipava, in termini martellanti in tutti i tipi societari (art. 377 c.c.i. con riguardo agli artt. 2257, 2380-bis e 2475 c.c.). Le disposizioni, infatti, impongono all’imprenditore il «dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale…». Il quesito che in ambienti bancari è stato sollevato, con una buona dose di preoccupazione, è se a tali assetti si debba fare riferimento da parte del finanziatore nella concessione di credito quale elemento necessario della valutazione del merito creditizio del sovvenuto e con quali effetti20. A me pare, comunque, che la responsabilità del finanziatore verso il debitore-consumatore sia ben differente rispetto a quella del finanziatore verso il debitore-imprenditore. E la circostanza merita di essere chiarita. 5. La sanzione endoprocedimentale. Dubbi di legittimità costituzionale per violazione del diritto di difesa. Prima di entrare nel merito di tali profili, torniamo per un attimo alla portata della sanzione endoprocedimentale introdotta dal Codice della

20 L’art. 14 lett. b) della legge delega n. 155/2017 prevede l’introduzione di un «dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale…». Su tali modifiche codicistiche introdotte dal Codice della crisi mi permetto di rinviare a Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, di prossima pubblicazione in Riv. soc.

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crisi. Essa è concepita in termini di limitazione al diritto di interloquire nel corso della procedura che si svolge dinanzi all’OCC e al Tribunale. Distinguiamo l’ipotesi della ristrutturazione dei debiti del consumatore da quella del concordato minore del professionista/imprenditore. A. Nel caso di ristrutturazione dei debiti con il consumatore la disposizione è recata dall’art. 69, co. 2, c.c.i. La norma dà attuazione al principio sancito nella legge delega all’art. 9 lett. l), secondo cui il Governo è delegato a «prevedere misure sanzionatorie, eventualmente di natura processuale con riguardo ai poteri di impugnativa e di opposizione, a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito all’aggravamento della situazione di indebitamento». A dire il vero non è chiaro se il creditore o il finanziatore “responsabili” della violazione degli indicati obblighi di comportamento mantengano la legittimazione a “presentare osservazioni” entro i venti giorni successivi alla comunicazione della proposta e del piano (art. 70, co. 3). Mi parrebbe che, trattandosi di disposizione limitativa di diritti, essa debba interpretarsi in senso stretto e non possa essere oggetto di interpretazione estensiva o analogica. La sanzione è infatti concepita, sulla scia ancora una volta non proprio coordinata con il principio direttivo, come difetto di legittimazione «a presentare opposizione o reclamo in sede di omologa, anche se dissenziente» e «a far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore». Si è optato, dunque, per una sanzione “di natura processuale”, benché l’editing della norma attuativa faccia riferimento per un verso alla “opposizione” (del tutto conforme al principio direttivo) che è destinata a svolgersi durante la procedura di omologazione e per altro verso (con una “o” che dovrebbe avere valore congiuntivo e non certo alternativo) al “reclamo” (laddove più correttamente il principio direttivo parla di “impugnativa”), che forse andrebbe interpretato come “impugnazione” della sentenza di omologazione, in conformità appunto al principio direttivo e all’art. 70, co. 8, essendo il reclamo più propriamente previsto quale mezzo di impugnazione avverso il decreto di diniego della omologazione (art. 70, co. 10 e 12). Ma è sanzione legittima, benché riconducibile al principio direttivo della legge delega? O siamo di fronte ad una evidente violazione dell’art. 24 Cost., secondo cui «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi» (co. 1), donde la conseguenza per cui «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (co. 2)? B. Ulteriore interrogativo pone l’art. 80, co. 4, dettato per il concordato minore del professionista/imprenditore, poiché – nonostante anche in tal caso la relazione dell’OCC debba riferire «se il soggetto finanziatore,

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ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del debitore» (art. 76, co. 3 c.c.i.) – la sanzione endoprocessuale scatta solo nella ipotesi in cui «il creditore (…) ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento» e non anche per violazione dei principi dettati in materia di valutazione del merito creditizio del debitore. Sembra, insomma di cogliere una valenza esclusivamente interna e pubblicistica (ai fini della sana e prudente gestione dell’intermediario) di quella valutazione nei confronti del debitore non consumatore, per essere sanzionato esclusivamente il comportamento di fatto del finanziatore che “colpevolmente” abbia “determinato” il sovraindebitamento o il suo aggravamento. Colpa non di per sé riconducibile alla mera omissione o inadeguata valutazione del merito creditizio ma fondata su elementi fattuali decisamente più gravi e determinativi di quegli eventi “dannosi” per il debitore. 6. Il problema della sanzione sostanziale sul piano civilistico. La verità è che a monte resta irrisolto il problema della sanzione di tipo sostanziale, e non meramente procedimentale, conseguente alla violazione degli obblighi di comportamento gravanti sul creditore o sul finanziatore nella fase di instaurazione e poi di esecuzione del rapporto creditizio: egli conserva o no il suo diritto di credito? Per quanto si voglia discutere in termini di validità o meno del contratto di credito, di determinazione causale e di concorso al sovraindebitamento da parte del creditore, e al di là delle ipotesi penalmente rilevanti in tema di reato di usura, non mi pare che sia consentito escludere ogni diritto alla restituzione del credito erogato. Si è a tal proposito parlato, in termini generali, di un divieto legale del finanziatore di contrarre in presenza di situazioni finanziarie non solide, ovvero di un divieto di concludere contratti che non siano sostenibili in relazione alle capacità reddituali del potenziale debitore. La fonte di tali divieti andrebbe rinvenuta non tanto nell’art. 124-bis o nell’art. 120-undecies t.u.b., quanto nel quinto comma dell’art. 124 t.u.b., da cui si fa discendere la sussistenza in capo al finanziatore professionale dell’obbligo di prestare un più complesso servizio che può definirsi di assistenza/consulenza del debitore. Il citato art. 124, infatti, dopo aver dettato obblighi informativi precontrattuali a carico del finan-

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ziatore o dell’intermediario del credito21, dispone che essi forniscono al consumatore «chiarimenti adeguati, in modo che questi possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze e alla sua situazione finanziaria, eventualmente illustrando le informazioni precontrattuali che devono essere fornite ai sensi dei commi 1 e 2, le caratteristiche essenziali dei prodotti proposti e gli effetti specifici che possono avere sul consumatore, incluse le conseguenze del mancato pagamento». Tuttavia – com’è stato correttamente osservato – un vero e proprio obbligo di consulenza era previsto semmai nell’art. 6 della proposta di direttiva del 2008, modificato nella versione definitiva in una generica previsione di “chiarimenti adeguati” diretti a ribaltare comunque sul consumatore la responsabilità della scelta finale22. Peraltro va ribadito che le disposizioni citate da un lato sono dettate in materia di credito ai consumatori e non paiono agevolmente generalizzabili nei confronti del credito concesso ai non consumatori (professionisti/imprenditori); dall’altro lato che il legislatore non si occupa in alcun modo dei rimedi sostanziali cui ricorrere nel caso in cui venga concesso credito in violazione dell’art. 124-bis o 120-undecies o anche dell’art. 124, neppure sotto il profilo delle conseguenze cosiddette pub-

21 Ai sensi dell’art. 124, co. 1, 2 e 4 il finanziatore o l’intermediario del credito sono tenuti a fornire al consumatore, prima della conclusione del contratto, «le informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, al fine di prendere una decisione informata e consapevole in merito alla conclusione di un contratto di credito», il tutto mediante un modulo denominato “informazioni europee di base sul credito ai consumatori” ed eventualmente con un documento distinto allegato contenente “informazioni aggiuntive”; su richiesta del consumatore forniscono anche una bozza del contratto. 22 Cfr. Pellecchia, L’obbligo di verifica, cit., pp. 1099 s., ma anche p. 1106 nt. 62, 63 e 64, ove si evidenziano diverse possibili interpretazioni delle condotte richieste dopo la valutazione ex art. 124-bis t.u.b., dal dovere di astensione dal finanziamento, alla informazione personalizzata all’avviso sui rischi nell’ottica di una reciproca cooperazione necessaria nella fase precontrattuale. Ma nel senso di una responsabilizzazione del solo debitore v. Trib. Pistoia, sez. fall., 28 febbraio 2014, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, pp. 543 ss. con nota critica di Pellecchia. Analogamente Trib. Napoli, 12 ottobre 20016, in Giur. it., 2017, 7, pp. 1569 ss. con nota di Bocchini, il quale si pone il problema della eventuale responsabilità del finanziatore, ma in termini classici di tutela dei terzi creditori del consumatore per “concessione abusiva del credito” piuttosto che di diretta tutela del sovvenuto. Sul piano della tutela del consumatore finanziato v. invece Trib. Macerata, 24 maggio 2018, con nota di Salerno, La violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio: effetti (anche) civilistici, in Nuove leggi civ., 2018, I, pp. 1423 ss. Il Tribunale parla di «un vero e proprio diritto soggettivo alla valutazione» del proprio merito creditizio in capo al consumatore.

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blicistiche, consistenti nell’irrogazione di sanzioni da parte delle autorità di vigilanza per il danno arrecato al sistema creditizio. Né sembra corretto partire dalla coda, incidendo sul diritto di difesa, piuttosto che sul diritto sostanziale. Le tesi meno invasive rispetto al rapporto finanziatore/sovvenuto escludono ogni responsabilità sul piano civilistico, ravvisando soltanto una violazione del principio di sana e prudente gestione, sanzionabile da parte dell’Autorità di vigilanza23. Altre tesi ipotizzano l’annullamento del contratto per vizio del consenso, purchè si riesca a dare prova della sussistenza dei presupposti dell’errore o del dolo; in tal senso si è anche pronunciato l’Arbitro Bancario Finanziario, il quale ha ritenuto possibile chiedere ed ottenere l’annullamento del contratto ex art. 1439 c.c., qualora si riesca a dimostrare il raggiro o l’errore indotto da parte del finanziatore ai danni del cliente24. Altre opinioni configurano una responsabilità di tipo risarcitorio per violazione del principio di buona fede e correttezza ex art. 1337 c.c. nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (responsabilità precontrattuale). Anche tale soluzione ha ricevuto l’avallo dell’Arbitro Bancario Finanziario il quale, in molte decisioni, ha affermato che l’erogazione del credito, anche se non può mai configurarsi come un obbligo in capo alla banca, debba pur sempre avvenire nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza, oltre che degli specifici parametri che informano l’attività bancaria25. Ma allora si pone solo una questione di danno risarcibile quale conseguenza immediata, diretta e prevedibile del comportamento del finanziatore, ex art. 1223 c.c.26. Il che tuttavia non può automaticamente tra-

23 Oltre agli AA. citati in nt. 19 che precede v. Modica, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, Jovene, 2012, pp. 279 ss.; Maffeis, Molteplicità delle forme e pluralità di statuti del credito bancario nel mercato globale e nella società plurale, in Nuove leggi civ., 2012, pp. 730 ss. 24 Collegio di Milano, decisioni n. 107 del 17 maggio 2011 e n. 936 del 29 marzo 2012. Ma v. anche in questa direzione la proposta interpretativa di Azadi, Valutazione del merito creditizio, adeguatezza delle sanzioni e tutela microeconomica dei consumatori, in Giur. it., 2015, 2, pp. 285 ss. a commento di Corte Giust. Eur., sez. IV, 27 marzo 2014, n. 565. L’A. ricorda che viene invece esclusa da dottrina e giurisprudenza la nullità del contratto di finanziamento ex art. 1418, co. 1, c.c. per violazione delle regole di comportamento da parte del creditore contraente. 25 In tal senso si veda Collegio di Roma, decisioni n. 437 del 26 maggio 2010, n. 300 del 02 febbraio 2012, n. 2625 del 30 luglio 2012, n. 289 del 14 gennaio 2013. 26 In questo senso Trib. Macerata, 24 maggio 2018, con nota di Salerno già citata

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dursi nel totale esonero del debitore dall’obbligo di restituire le somme in conseguenza della condotta tenuta dal finanziatore, in quanto in tal caso il mancato rimborso assumerebbe quasi la natura di una sanzione per il comportamento poco avveduto della banca (non è pensabile che l’incapacità del consumatore di far fronte alle proprie obbligazioni sia riconducibile esclusivamente alla condotta del finanziatore). Peraltro, si fa osservare che lo stesso mutuatario, a fronte della concessione del credito, ha comunque la possibilità di conseguire immediatamente un vantaggio, derivante dalla disponibilità di somme di denaro prima non presenti nel suo patrimonio, somme che potrebbe anche impiegare per ripianare i debiti pregressi ed acquisire merito creditizio. Stante ciò, qualora la banca, dopo aver concesso immeritatamente il credito, decida di agire in via giudiziale per il recupero coattivo di esso, il consumatore convenuto potrà eccepire che la mancata restituzione è dipesa anche dalla condotta negligente della banca; a quel punto spetterà al giudice investito della questione il compito di valutare il complessivo iter che ha portato all’erogazione del credito, analizzando le condotte in concreto tenute da entrambe le parti onde valutarne le rispettive responsabilità. E ciò sempre che il cliente consumatore sia un soggetto che abbia operato nel rispetto del principio di correttezza, senza che al medesimo possa imputarsi alcuna condotta fraudolenta per mezzo della quale abbia potuto alterare l’esito dell’istruttoria condotta dal finanziatore. Ma allora, com’è possibile risolvere queste complesse problematiche attraverso la sottrazione del diritto di difesa? O il rimedio concorsuale, quale è pur sempre l’accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore, non solo attenua il diritto di credito ma modifica l’oggetto stesso del petitum che si sposterebbe verso la definizione/soluzione del sovraindebitamento complessivamente considerato? Ma la tutela costituzionale non investe anche gli interessi legittimi?

alla nt. 22 che precede: «La violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio previsto dalla disciplina del credito ai consumatori, oltre che in una prospettiva di sana e prudente gestione, rileva sul piano anche civilistico. In mancanza della dimostrazione che la violazione abbia inciso in modo essenziale sul consenso del consumatore, con effetti invalidatori, la violazione dell’obbligo comporta per il finanziatore di dover risarcire la perdita patrimoniale provocata dalla propria indebita condotta».

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7. Imprenditore, assetti organizzativi e valutazione del merito creditizio. Un’ultima notazione va fatta con riguardo alla responsabilità del finanziatore nei confronti non del consumatore sovvenuto, ma nei confronti dell’impresa in crisi. Gli argomenti utilizzati quando si discute di credito al consumo, sono evidentemente molto spuntati quando si discute di credito all’impresa. E il tema è già fin troppo noto perché ci si possa trattenere in questa sede. Il consumatore è contraente debole su cui si appuntano vari rimedi preventivi e successivi. L’imprenditore è soggetto organizzato che opera con professionalità e si colloca sotto questo profilo in situazione pariordinata con quella del finanziatore. Ma certo anche nei confronti dell’imprenditore il finanziatore professionale è tenuto alla valutazione del merito creditizio. Si tratta di un obbligo precontrattuale che il finanziatore assume nei confronti dello stesso imprenditore? O di un onere il cui mancato o erroneo assolvimento si riflette solo sulla “sana e prudente gestione” del finanziatore? Le disposizioni che si sono ricordate a proposito del concordato minore sembrano avvalorare questa seconda impostazione, posto che la violazione dei principi in materia di valutazione del merito creditizio non viene richiamata in via specifica quanto al comportamento del creditore determinativo del sovraindebitamento o del relativo aggravamento. Né ritengo si possano trarre ulteriori argomentazioni dalle recenti disposizioni che configurano doveri gestori e di controllo sugli adeguati assetti organizzativi dell’imprenditore anche ai fini della tempestiva rilevazione degli indici di crisi. Il finanziatore deve farsi carico di una specifica indagine di tali assetti e della loro congruità nel compiere la valutazione del merito creditizio dell’imprenditore? Francamente mi sembra un onere eccessivo e troppo invasivo nei confronti dello stesso imprenditore sovvenuto. Il finanziatore, d’altronde, dovrebbe fondare la propria valutazione sulle dichiarazioni dello stesso sovvenuto, il che dovrebbe attenuare se non eliminare un coinvolgimento in termini di responsabilità verso lo stesso imprenditore per inadeguata o erronea valutazione del suo merito creditizio.

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Considerazioni conclusive Alessandro Nigro 1. Abbiamo ascoltato interventi di altissimo livello che ci hanno fornito – come era del resto prevedibile, data la qualità dei relatori – una ricca messe di indicazioni e di spunti. Mi guarderò bene, ovviamente, dal ripercorrere gli itinerari che sono stati così efficacemente tracciati da chi mi ha preceduto. Mi limiterò a qualche considerazione di carattere generalissimo. 2. Partirei da una domanda che gli spagnoli qualificherebbero come “basica”: nel nuovo quadro disegnato dalla legge delega del 2017, prima, e, poi, dal Codice della crisi, quale posizione compete, o è fatta, alle banche? Mi permetto di ricordare che personalmente mi posi esattamente la stessa domanda in relazione alla riforma del 2005/2007: la risposta che ritenni di dare allora fu che, nel quadro di quella riforma, le banche si collocavano come protagoniste particolari delle procedure concorsuali, in quanto destinatarie di un regime di netto favore, se non di vero e proprio privilegio. Del resto, tutti ancora oggi ricorderanno, credo, che proprio l’esigenza di, o l’aspirazione a, rendere più facili e meno conflittuali i rapporti fra banche e procedure concorsuali costituì una potente molla per avviare il processo che poi condusse a quella riforma. L’espressione più nitida del netto favor per le banche si trovava ovviamente nella disciplina della revocatoria fallimentare, oggetto di modifiche ed integrazioni dichiaratamente volte a depotenziare tale strumento, sia in generale (e penso alla drastica riduzione del periodo sospetto per la revocatoria degli atti a titolo oneroso) e sia nello specifico dei rapporti con le banche (penso al ventaglio delle nuove figure di esenzione, una sola delle quali riguardante specificamente le banche, ma quasi tutte, in realtà, volte a tenere indenni in particolare le banche dal rischio di revocatorie). Ma anche su altri terreni si doveva registrare un preciso favor. Veniva in considerazione così, innanzi tutto, la nuova disciplina dei crediti prededucibili, con la previsione della preferenza non solo per i crediti sorti in funzione delle procedure concorsuali ma anche per quelli sorti in occasione di tali procedure: quella previsione era formulata anch’essa in termini generali, ma era stata chiaramente pensata, anche qui, soprattutto in funzione della protezione dei crediti accordati dalle banche nell’ambito del concordato preventivo.

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Veniva in considerazione, poi, la nuova dislocazione dei poteri nella gestione della procedura fallimentare. Il ruolo preminente riconosciuto in principio ai creditori si traduceva infatti in un ruolo preminente dei creditori, per un verso, forti in termini di ammontare dei crediti e, per altro verso, in grado di assicurare una presenza, nella procedura, assidua e competente. E le banche ovviamente erano, come sono, l’uno e l’altro. Sotto tutti gli aspetti fin qui considerati sembrava dunque aver ragione chi aveva definito la riforma del 2005/2007 addirittura come “bancocentrica”. Una connotazione che è rimasta anche nell’evoluzione successiva della normativa: l’ultimo episodio di “bancocentrismo” è stato quello dell’introduzione, nel 2016, delle nuove figure del pegno mobiliare non possessorio e del patto marciano. 3. A questo punto: si può o si deve dare analoga risposta alla domanda iniziale anche nel quadro della riforma del 2019? Credo che un’analisi complessiva della nuova disciplina porti a dover dare una risposta diversa, o quanto meno più articolata. E questa diversità ha una sua specifica ragione. La riforma del 2005/2007 ruotava intorno ad una idea centrale: quella che è stata sintetizzata, da me e da altri, con il termine “privatizzazione”. Un corollario di questa idea è stata, proprio, l’attribuzione di un ruolo centrale e privilegiato ai creditori forti, e fra questi in particolare alle banche. E ciò non perché le si volesse puramente e semplicemente favorire, ma con l’obiettivo – almeno a me è sembrato di poter sostenere – di incentivarle, in tal modo, ad un loro più consistente impegno, da un lato, nell’assistenza finanziaria alle imprese in difficoltà vuoi consentendo la prosecuzione dell’attività, vuoi contribuendo ai piani o accordi di risanamento; e, dall’altro, nella gestione delle procedure fallimentari e anche nella conclusione delle stesse con strumenti compositivi. Nulla di tutto questo è riproponibile nel nuovo quadro offerto dalla l. delega del 2017 e dal Codice della crisi del 2019. Questa nuova disciplina – costituita in notevole parte dalla semplice riscrittura di intere porzioni della l.fall. – si caratterizza – come è stato notato da molti – per l’assenza, alla sua base, di una idea forte (qualcuno ha parlato di una “riforma senza anima”): essa si concreta essenzialmente in interventi puntuali, non sempre coordinati fra di loro e comunque non riconducibili a linee univoche. E questo, per ciò che qui interessa, si è tradotto, per quanto riguarda la posizione fatta alle banche, in un regime abbastanza composito e variegato, che vede sovrapporsi ed intrecciarsi profili di favore e di disfavore.

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Scendendo nel dettaglio. a. Alcuni dei profili che concorrevano a comporre il regime di favore di cui ho detto prima sono rimasti immutati nella nuova disciplina. Così è per le figure di esenzione dalla revocatoria fallimentare, oggi concorsuale, dove anzi si deve registrare un rafforzamento del favor: mi riferisco alle figure connesse all’attuazione di piani, procedure o accordi volti al “risanamento” dell’impresa, per le quali l’esenzione è stata espressamente estesa alla revocatoria ordinaria. Così è per la prededucibilità dei crediti sorti in occasione di procedure concorsuali: prededucibilità che è stata anzi potenziata. A questo proposito, ricordo che una delle tendenze che caratterizzano la riforma è quella a considerare certe regole particolari esistenti come espressione di principi generali e, quindi, ad estenderle ben al di là dei limiti originari e talvolta ad estremizzarle. Le manifestazioni di questa tendenza sono numerosissime: fra queste vi è proprio la estremizzazione del connotato della prededucibilità, che viene conformato, dall’art. 6, co. 2, del Codice come una sorta di privilegio destinato ad assistere il credito in tutte le sedi esecutive. Così è per il ruolo preminente tuttora riconosciuto, in linea generale, ai creditori forti. Così è per le garanzie non possessorie, delle quali la l. delega, all’art. 11, si è esplicitamente occupata, dettando anche apposite previsioni: questo – mi permetto di notare – in stridente contraddizione con le linee guida della stessa l. delega che comprendevano sia la riduzione dei privilegi, sia soprattutto l’esclusione dell’operatività, nella liquidazione giudiziale, delle esecuzioni speciali (si v. l’art. 7, co. 4, lett. a)). Il Codice, peraltro, non ha attuato l’art. 11, né è in qualche modo intervenuto sul tema. b. Per altri profili, invece, si deve registrare un indebolimento, per così dire, del favor. Ho accennato prima al depotenziamento della revocatoria fallimentare derivante dal dimezzamento del periodo sospetto, disposto dal legislatore del 2006, con riferimento alla revocatoria degli atti a titolo oneroso, un dimezzamento che riduceva drasticamente gli spazi operativi per la revoca degli atti ordinari di gestione e in particolare dei pagamenti. Il legislatore del 2019 è intervenuto sul punto con una misura sostanzialmente di segno contrario. Attuando un preciso criterio di delega (art. 7, co. 4, lett. b), ha infatti disposto che l’inizio del periodo sospetto debba collegarsi, non più alla data della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, bensì alla data del deposito della domanda a cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale: in sostanza, da un lato, il periodo

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sospetto non è più “intaccato” dal lasso di tempo occorrente per l’istruttoria preliquidazione e, dall’altro, esso periodo si allunga del suddetto lasso di tempo. Con un doppio vantaggio, che può risultare decisamente consistente, considerato che – stando alle statistiche pubblicate – la durata media di tale istruttoria può variare, a seconda dei tribunali, da un minimo di tre mesi ad un massimo di più di sei mesi. La misura di cui stiamo parlando riguarda tutte le ipotesi di revocatoria, anche quella degli atti a titolo gratuito: ma la sua incidenza, in proporzione, è ovviamente maggiore per le ipotesi rispetto alle quali la legge prevede un periodo sospetto assai ristretto. Sotto questo aspetto, si può dire allora, che si è in presenza di un seppur parziale ripotenziamento della revocatoria fallimentare. Passando alla prededucibilità, di cui si è occupato egregiamente Vattermoli, merita di essere segnalata l’eliminazione, dal novero dei finanziamenti prededucibili, dei finanziamenti in funzione della presentazione della domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione (previsti dall’art. 182-quater l.fall.). Nel Codice i soli crediti “in funzione” prededucibili sono i crediti professionali (art. 6, lett. b) e c)). Per quanto riguarda il ruolo dei creditori nella liquidazione giudiziale, va considerata la modifica apportata alla disciplina relativa alla formazione e approvazione del programma di liquidazione. La legge fallimentare, dopo aver stabilito che detto programma è da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori (art. 104-ter, co. 1), precisa (al co. 5) che il comitato «può proporre al curatore modifiche al programma presentato»: si tratta di una previsione importante che rafforza il ruolo di compartecipazione gestoria spettante al comitato. Il Codice, all’art. 213, ha soppresso la previsione della facoltà del comitato di proporre modifiche del programma, una soppressione giustificata, nella relazione illustrativa, da ciò che quella facoltà avrebbe costituito un «fattore di complicazione della programmazione della liquidazione». Dal punto di vista pratico, per la verità, non cambia molto, posto che il comitato ben potrebbe condizionare l’approvazione del programma presentato dal curatore a certe modifiche. La soppressione in questione, però, è ovviamente espressiva della scarsa volontà del legislatore di incentivare i creditori, e in particolare i creditori forti, a assumere un ruolo più attivo nelle procedure liquidative. c. Certamente entra a comporre il panorama del regime al quale si trovano sottoposte le banche nel nuovo Codice della crisi la disciplina degli accordi ad efficacia estesa speciale e delle convenzioni di moratoria, di cui si è occupato Sciuto. Si tratta di una disciplina particolare – già

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presente nella l. fall. – di cui non è facile definire la “valenza”, in termini di favor o no per le banche: sicuramente non la si può considerare di favore dal punto di vista della banca “costretta” ad aderire ad un accordo o convenzione non voluti; la valutazione potrebbe essere diversa ove si muova dal punto di vista della categoria. d. Completano il panorama del regime a cui si trovano sottoposte le banche nel nuovo Codice due ordini di previsioni totalmente nuove rispetto alla l.fall.: - da un lato, quelle contenute, rispettivamente, nelle lett. e) ed l) dell’art, 9 della l. delega, da cui sono “scaturiti” rispettivamente gli art. 68 e 76 del Codice e 69, co. 2 e 80 co. 4 sempre del Codice; - dall’altro, quelle contenute rispettivamente nell’art. 14, ult. co. e 49, co. 3, lett. f) del Codice. d1. Cominciamo dalle prime. Ne ha trattato ampiamente Sabino Fortunato, i cui rilievi condivido pienamente. Mi limito soltanto a sottolineare, innanzi tutto, che la normativa in questione è a dir poco confusa: in particolare, non è chiaro quale sia esattamente il rapporto fra le previsioni relative alla indicazione in ordine al comportamento tenuto dal finanziatore e quelle relative alla “penalizzazione” del creditore che abbia aggravato il dissesto del debitore. E a sottolineare, in secondo luogo, che qui si è in presenza di nuovo della tendenza a considerare certe regole particolari esistenti come espressione di principi generali e, quindi, ad estenderle ben al di là dei limiti originari e talvolta ad estremizzarle: in questo caso si è proceduto alla generalizzazione, con riferimento a tutti i debitori che possono accedere alle procedure di sovraindebitamento, dell’obbligo del finanziatore di non concedere il finanziamento ove la valutazione del merito creditizio sia negativa, un obbligo che era finora rimasto rigorosamente circoscritto all’ambito del credito al consumo. Non vorrei che qualcuno, procedendo sulla linea della generalizzazione, arrivasse ad estendere questo obbligo, e tutte le relative conseguenze, a tutti i finanziatori in tutte le procedure compositive. d2. Passo alle seconde. Dell’art. 14 ult. co. ci ha parlato Giovanni Falcone, le cui osservazioni condivido. Mi preme soltanto evidenziare, innanzi tutto, che sia l’art. 14 sia l’art. 1 49 non trovano alcun “supporto” nella legge delega: il che fa emergere qualche dubbio di legittimità costituzionale.

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Il quale ultimo, come ricordato nell’introduzione, prevede, al co. 3, lett f), che nella

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In secondo luogo, che in entrambe le disposizioni le banche entrano in gioco non come creditori ma come mere e direi “brute” fonti di informazioni. In terzo luogo, entrambe le disposizioni sono chiara manifestazione di una idea tanto precisa quanto profondamente sbagliata: che le banche, in quanto tali, siano “funzionalizzabili” a finalità informative nell’interesse delle procedure di soluzione delle crisi allo stesso modo in cui sono funzionalizzabili l’INPS o l’Agenzia delle entrate. È vero che, oggi, per effetto delle normative che le regolano, le banche sono divenute soggetti “intrisi” di pubblicità: ma questo non toglie che esse siano e restino soggetti giuridicamente privati. Del resto, le disposizioni del c.p.c. richiamate dall’art. 49 e in conformità delle quali dovrebbe disporre il tribunale, riguardano le banche dati delle pubbliche amministrazioni e le banche certamente non sono tali. Aggiungo, con specifico riferimento all’art. 49, che la previsione di una specifica autorizzazione per acquisire informazioni relative ai rapporti bancari pregressi è assolutamente inutile, in relazione a quanto prevede, e da tempo, l’art. 119, co. 4, del testo unico bancario che legittima di per sé il curatore della procedura aperta a carico di un cliente o ex cliente di una banca ad ottenere tutta la documentazione inerente alle operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni. 4. Trova a questo punto conferma, credo, la mia affermazione secondo cui, nel nuovo Codice, la posizione fatta alle banche è retta da un regime abbastanza composito e variegato, che vede sovrapporsi ed intrecciarsi profili di favore e di disfavore. Non posso ovviamente prevedere se il nostro legislatore, nel futuro ma inevitabile, decreto correttivo riterrà di “ritoccare” anche questo regime. Mi auguro soltanto che lo faccia, in ipotesi, sulla base di idee chiare. Purtroppo ai nostri tempi la chiarezza di idee non è moneta corrente presso i nostri conditores legum.

sentenza di apertura della liquidazione giudiziale il tribunale autorizzi il curatore «ad acquisire la documentazione contabile in possesso delle banche e degli altri intermediari finanziari relativa ai rapporti con l’impresa debitrice, anche se estinti».

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AUTORI

Sandro Amorosino, prof. ord. fuori ruolo di Diritto dell’economia nell’Università Sapienza di Roma Marco Arato, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Genova Federica Boncristiano, dottore di ricerca nell’Università di Foggia Sido Bonfatti, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Modena e Reggio Emilia Antonella Brozzetti, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Siena Ciro G. Corvese, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Siena Federico Onnis Cugia, prof. a contratto nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Lorenzo De Angelis, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Pierluigi De Biasi, avvocato in Milano Nicola De luca, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università della Campania L. Vanvitelli Massimo Fabiani, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università del Molise Giovanni Falcone, prof. straord. di Diritto dell’economia nell’Università telematica Pegaso di Roma Sabino Fortunato, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Roma Tre Giovanni Maria Fumarola, dottore in Giurisprudenza Gianluca Greco, prof. a contratto nell’Università Statale di Milano Lucia Lopez, ricercatore nell’Università dell’Insubria Fabrizio Maimeri, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università telematica G. Marconi di Roma Roberto Marcelli, consulente in materia bancaria e finanziaria, presidente Assoctu Giuliana Martina, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Bernardo Massella Ducci Teri, avvocato in Roma Simone Mezzacapo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Perugia Umberto Morera, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università di Roma Tor Vergata Alessandro Nigro, prof. ord. fuori ruolo di Diritto commerciale nell’Università Sapienza di Roma Maria-Teresa Paracampo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Bari

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Anton Giulio Pastore, consulente in materia bancaria e finanziaria Brunella Russo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Messina Giuseppe Scassellati Sforzolini, avvocato in Roma Maurizio Sciuto, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Macerata Amedeo Valente, consulente in materia bancaria e finanziaria Daniele Vattermoli, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Sapienza di Roma

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INDICI DELL’ANNATA PARTE PRIMA SAGGI Amorosino Sandro, Effettività della tutela, giurisdizione ordinaria e ruolo del giudice amministrativo in tema di sanzioni di Banca d’Italia pag. Arato Marco, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il codice della crisi e dell’insolvenza » Boncristiano Federica, Autorità private e mercati finanziari: il caso dei portali di equity crowdfunding » Corvese Ciro, Trasferimento di servizi di pagamento legati ai conti di pagamento e tutela del consumatore » De Biasi Pierluigi, Note sull’attualità della querelle tra banca-impresa e banca-funzione » De Luca Nicola, Sgr e fondi comuni, tra soggetto e oggetto. Appunti sulla legittimazione processuale » Fabiani Massimo, Per la chiarezza delle idee su compensazione e postergazione » Greco Gianluca, One size fits all, il cannone e la mosca » Lopez Lucia, Politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche: problemi, regole europee e applicazione nazionale » Marcelli Roberto, Pastore Anton Giulio, Valente Amedeo, L’ammortamento alla francese. Matematica e diritto: quando la scienza viene piegata a negar se stessa » Morera Umberto, Consulenza finanziaria e robo-advisor: profili cognitivi » Onnis Cugia Federico, La garanzia dello Stato per le operazioni di cartolarizzazione di crediti classificati come sofferenze. Profili civilistici e giuseconomici » Paracampo Maria-Teresa, FinTech tra algoritmi, trasparenza e algo-governance » Russo Brunella, La data protection nel settore bancario: gli adempimenti di privacy in termini di compliance al regolamento » Vattermoli Daniele, Gli insovency protocols nelle operazioni di ristrutturazione del gruppo di imprese in crisi »

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Indici dell’annata

DIBATTITI Le banche nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – Incontro di studio del 21 giugno 2019 presieduto da Alessandro Nigro, con interventi di Sido Bonfatti, Giovanni Falcone, Sabino Fortunato, Fabrizio Maimeri, Maurizio Sciuto, Daniele Vattermoli

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COMMENTI Amorosino Sandro, La commissione europea e la concezione strumentale di “mandato pubblico” (a proposito del “caso FITD/Tercas”) Fumarola Giovanni Maria, L’affaire Carige ovvero della sterilizzazione del voto. Questioni intorno alle partecipazioni rilevanti (non autorizzate) in banche Martina Giuliana, Il diritto del socio di banche cooperative al rimborso delle azioni nella sentenza della Corte Costituzionale del 15 maggio 2018, n. 99: una questione non ancora sopita Mezzacapo Simone, La vexata quaestio della qualificazione della fattispecie giuridica del “conto di pagamento” ai sensi e per gli effetti del diritto UE sui servizi di pagamento nel mercato interno Scassellati Sforzolini Giuseppe, Massella Ducci-Teri Bernardo, Sezioni Unite, usura, CMS e principio di omogeneità. Risolta anche la querelle su usura e interessi moratori?

INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Banche Banche – Amministrazione straordinaria – Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi – Interventi facoltativi di sostegno – Aiuti di Stato incompatibili – Configurabilità – Esclusione Banche – Partecipazioni – Soci che posseggono una quota del capitale sociale pari o superiore al 10 per cento – Patto parasociale per la nomina dei membri del c.d.a. – Influenza notevole – Necessità dell’autorizzazione della Autorità di Vigilanza – Sussiste

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Indici dell’annata

Banche – Partecipazioni – Soci che posseggono una quota del capitale sociale pari o superiore al 10 per cento – Patto parasociale per la nomina dei membri del c.d.a. – Mancanza della autorizzazione della Autorità di Vigilanza – Inibizione dei diritti di voto – Applicazione proporzionale nei confronti di tutti i pasciscenti per la quota superiore al 10 per cento Banche – Partecipazioni – Soci che posseggono una quota del capitale sociale inferiore al 10 per cento – Patto parasociale per la nomina dei membri del c.d.a. – Accertamento in concreto dell’esistenza di una influenza notevole – Impossibilità in sede di procedimento ex art. 700 c.p.c. Contratti bancari Contratti Bancari – Servizi di pagamento – Conti di pagamento – Conti di risparmio – Conti di risparmio che consentono di effettuare operazioni di prelievo e pagamento solo attraverso altro conto di appoggio – Qualificabilità come conti di pagamento – Possibilità – Esclusione. Contratti bancari – Usura – Commissione di massimo scoperto – Rilevanza – Tasso soglia – Comparabilità – Principio di simmetria – Sussistenza Credito e risparmio Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto con l’art. 77 Cost. – Non fondatezza Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto con gli art. 41, 42 e 117, co. 1 (in relazione al Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione EDU) Cost. – Non fondatezza Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto gli art. 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost. – Non fondatezza

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INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI 2018 Corte Giust. UE, 4 ottobre 2018, C. Cost., 15 maggio 2018, n. 99 Cass., S.U., 20 giugno 2018, n. 16303 Trib. Genova, 19 settembre 2018

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Indici dell’annata

2019 Trib. UE, 19 marzo 2019

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MITI E REALTÀ Aforismi

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



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Le Convenzioni di moratoria D. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155 (Omissis) Art. 62 Convenzione di moratoria 1. La convenzione di moratoria conclusa tra un imprenditore, anche non commerciale, e i suoi creditori, diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi e avente ad oggetto la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile, è efficace anche nei confronti dei creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria. 2. Ai fini di cui al comma 1 occorre che: a) tutti i creditori appartenenti alla categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative o siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sulla convenzione e i suoi effetti; b) i crediti dei creditori aderenti appartenenti alla categoria rappresentino il settantacinque per cento di tutti i creditori appartenenti alla categoria, fermo restando che un creditore può essere titolare di crediti inseriti in più di una categoria; c) vi siano concrete prospettive che i creditori della medesima categoria non aderenti, cui vengono estesi gli effetti della convenzione, possano risultare soddisfatti all’esito della stessa in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale; d) un professionista indipendente, abbia attestato la veridicità dei dati aziendali, l’idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi, e la ricorrenza delle condizioni di cui alla lettera c). 3. In nessun caso, per effetto della convenzione, ai creditori della medesima categoria non aderenti possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazio-

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Legislazione

ni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti. Non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati. 4. La convenzione va comunicata, insieme alla relazione del professionista indicato al comma 2, lettera d), ai creditori non aderenti mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o presso il domicilio digitale. 5. Entro trenta giorni dalla comunicazione può essere proposta opposizione avanti al tribunale. 6. Il tribunale decide sulle opposizioni in camera di consiglio con sentenza. 7. Contro la sentenza che pronuncia sulle opposizioni è ammesso reclamo ai sensi dell’articolo 51. (Omissis)

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Marco Arato

La convenzione di moratoria nel Codice della crisi

1. L’art. 62 del Codice riprende l’art. 182-septies, co. 5, l.fall. con alcune importanti modifiche. In primo luogo la norma dà applicazione all’art. 5 co. 1 della legge delega che prevede l’ampliamento dei soggetti cui la convenzione di moratoria possa essere coattivamente estesa in modo da non comprendervi solo le banche, ma qualunque creditore. Simmetricamente a quanto disposto dall’art. 61 del Codice che sostanzialmente estende il disposto dell’attuale art. 182-septies l.fall. a qualunque categoria di creditori, il co. 1 dell’art. 62 prevede che la convenzione di moratoria possa essere conclusa «tra un imprenditore, anche commerciale, e i suoi creditori», sia «diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi» e abbia ad oggetto «la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito». 2. Il nuovo testo merita alcune precisazioni e considerazioni: a. la convenzione di moratoria può essere conclusa con un debitore che non necessariamente deve svolgere attività commerciale. Ciò significa che anche l’imprenditore agricolo può accedere alla convenzione di moratoria così come all’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 del Codice). Si segnala però che l’accesso all’accordo di ristrutturazione (possibile e forse naturale esito della convenzione di moratoria) è consentito a un imprenditore (anche non commerciale) che non rientri nella categoria dell’imprenditore minore (v. art. 2 co. 1 lett. d, che riguarda gli imprenditori “sotto soglia” mantenendone inalterate le dimensioni attualmente in vigore). Quindi, l’imprenditore agricolo (che, a seguito del – forse illegittimo – mancato recepimento del chiaro disposto dell’art. 2.1. lett. (e) della legge delega, continua a non fallire) può accedere in ogni caso alla convenzione di moratoria. Può invece accedere all’accordo di ristrutturazione solo se è sopra soglia. L’accordo di ristrutturazione per l’imprenditore agricolo sopra soglia si aggiunge quindi al concordato minore (art. 74 ss.), e alla liquidazione controllata del sovraindebitato (art. 268 ss.), che costituiscono le procedure di sovraindebitamento previste per qualunque imprenditore agricolo. Invece, l’imprenditore agricolo sotto soglia (a differenza dell’imprenditore agricolo sopra soglia) potrà accedere solo alle procedure di sovraindebitamento.

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Legislazione

Venendo alla convenzione di moratoria, va segnalato che ad essa può accedere l’imprenditore commerciale e non commerciale (e cioè agricolo) anche se minore, e cioè sotto soglia. La differenza di trattamento tra accesso all’accordo di ristrutturazione (solo ad imprenditori sopra soglia) e accesso alla convenzione di moratoria (ammesso per qualunque imprenditore) ha la finalità di consentire all’imprenditore sotto soglia (che può accedere solo alle procedure di sovraindebitamento) di dotarsi di uno strumento protettivo nel corso delle negoziazioni con i creditori. Come è noto le misure protettive nel concordato minore sono previste solo dopo l’ammissione (art. 78 co. 2 lett. d). In altre parole, per gli imprenditori sotto soglia la convenzione di moratoria potrebbe essere uno strumento in qualche modo assimilabile al concordato con riserva previsto per gli imprenditori commerciali sopra soglia. b. Sicuramente, anche in futuro il concordato con riserva (artt. 39 co. 3 e 44 co. 1 del Codice) continuerà a porsi in forte concorrenza rispetto alla convenzione di moratoria. Tuttavia in futuro le misure protettive (il cui contenuto può in parte sovrapporsi con quello della convenzione di moratoria) non saranno più automatiche (a differenza dell’attuale concordato con riserva) e non solo dovranno essere concesse dal giudice, ma potranno avere una durata massima di dodici mesi e non più illimitata fino al termine della procedura. Si consideri che (i) la convenzione di moratoria anche ad efficacia estesa non richiede l’intervento obbligatorio del giudice ma solo in caso di contestazioni da parte di creditori cui si intende estenderla e (ii) che la durata della moratoria non è predeterminata e può eccedere anche il termine annuale. Sotto questo profilo la convenzione di moratoria ad efficacia estesa potrebbe essere anche più interessante rispetto alle misure protettive. c. La convenzione di moratoria è concessa solo all’imprenditore in crisi e non a quello insolvente. L’art. 62, co. 1, afferma infatti che la convenzione di moratoria è «diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi». Viceversa, da un lato, l’accordo di ristrutturazione è offerto anche all’imprenditore insolvente (art. 57), e, dall’altro lato, l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (l’attuale 182-septies l.fall.) è previsto solo per accordi che non abbiano un contenuto liquidatorio, e quindi anche per situazioni di insolvenza reversibile. Vi sono delle sottili distinzioni applicative tra convenzione di moratoria e accordo di ristrutturazione (soprattutto ad efficacia estesa) che non consentono di sovrapporre la convenzione di moratoria come una normale anticipazione rispetto all’accordo di ristrutturazione e, in par-

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ticolare, a quello ad efficacia estesa (come invece avviene per l’attuale 182-septies). Le considerazioni appena svolte consentono di attribuire una autonomia applicativa alla convenzione di moratoria, quale strumento temporaneo offerto in vista, ad esempio, di un piano di risanamento ex art. 56 (l’attuale piano ex art. 67, co. 3, lett. d, l.fall.). Addirittura, la convenzione di moratoria potrebbe rappresentare una reintroduzione della vecchia amministrazione controllata riveduta e corretta. Nulla vieta, ad esempio, di ipotizzare una convenzione di moratoria esecutiva di un piano di risanamento (e non solo propedeutica ad un piano di risanamento). 3. Come già detto, la convenzione di moratoria può prevedere una dilazione nelle scadenze dei crediti per capitale e interessi, la rinuncia agli atti giudiziari (tra i quali potrebbe ad esempio rientrare la rinuncia ad ipoteche giudiziali), la sospensione di azioni esecutive o cautelari con il solo limite che la moratoria non potrà prevedere rinunce a crediti. Se il debitore raggiunge un accordo di moratoria avente il contenuto appena descritto con il 75% dei creditori appartenenti ad una determinata categoria omogenea, può estenderlo a tutti i creditori appartenenti a tale categoria, a condizione che: a. «tutti i creditori appartenenti alla categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative o siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e abbiano ricevuto complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sulla convenzione e i suoi effetti». Rispetto all’attuale testo dell’art. 182-septies, co. 5, vi sono alcune modifiche. In primo luogo, si richiede che i creditori non aderenti siano stati informati delle trattative o siano stati messi in condizione di parteciparvi, mentre nell’attuale testo la congiunzione è “e”. La modifica della congiunzione da “e” a “o” significa che non necessariamente i creditori devono essere stati informati fin dall’inizio delle trattative volte alla stipula della convenzione. E’ sufficiente che a un certo momento, nel corso della negoziazione (e comunque prima del raggiungimento di un accordo con alcuni creditori) tutti i creditori siano informati della volontà del debitore di pervenire ad una convenzione di moratoria. La buona fede nelle trattative, espressamente richiesta dalla norma, riguarda sia il debitore che deve consentire a tutti i creditori di prendere parte alle trattative, sia i creditori che, se decidono di partecipare alle trattative, devono assumere un atteggiamento di leale collaborazione o anche di leale contrapposizione, esponendo però in modo chiaro la propria posizione. Se qualche creditore si disinteressa della trattativa, il

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Legislazione

debitore, una volta raggiunto l’accordo di moratoria, glielo comunica e lo invita, se il creditore ritiene, ad aderirvi, mettendogli a disposizione tutte le informazioni rilevanti al fine di poter esprimere un consenso informato. Occorre chiedersi se la circostanza che la convenzione di moratoria possa riguardare tutti i creditori imponga un’informativa a tutti i creditori o solo a quelli ai quali si chiede la moratoria. Non vi è dubbio che devono essere informati solo i creditori interessati dalla moratoria (v. art. 62, co. 2, lett. a). Una seconda modifica rispetto all’attuale norma riguarda il contenuto delle informazioni da darsi ai creditori: non solo quelle riguardanti il contenuto dell’accordo ma anche «complete e aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore». Il che significa che il debitore deve fornire ai creditori o il bilancio di esercizio, se recente, o una situazione ad hoc da redigersi nelle forme del bilancio e una relazione degli amministratori. La nuova norma sembra riecheggiare la fattispecie esaminata da Trib. Napoli, 30 novembre 20161, allorché a fronte delle doglianze di un creditore che lamentava il mancato deposito del bilancio dal quale sarebbe emersa la perdita del capitale sociale, aveva affermato che il comportamento del debitore non era censurabile purché venga fornito al creditore un quadro aggiornato sulla sua situazione patrimoniale economica e finanziaria. b. La categoria dei creditori ai quali viene proposta la convenzione di moratoria sia stata correttamente formata. L’art. 62 non menziona in alcun modo i criteri per individuare la categoria dei creditori, ma si può trarre un utile riferimento dall’art. 61 (accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa) che consente di estendere l’accordo a creditori «che appartengano alla medesima categoria, individuata tenuto conto dell’omogeneità di situazione giuridica e di interessi economici». In sostanza i criteri di formazione della categoria corrispondono a quelli previsti per la formazione delle classi nel concordato preventivo. Si segnala però che l’art. 85 del Codice, dopo aver previsto al co. 3, lett. c, la possibilità che il piano di concordato preveda la «eventuale suddivisione dei creditori in classi», non menziona più l’attuale criterio della «posizione giuridica e interessi economici omogenei» (art 160, co. 1, l.fall.). L’art. 85, in applicazione della legge delega indica però, i casi in

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In Il fallimento, 2017, 841, con nota di Aiello (unica decisione edita sulla convenzione di moratoria).

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cui la formazione delle classi è obbligatoria, e cioè: (i) creditori titolari di crediti previdenziali o fiscali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento; (ii) creditori titolari di garanzie prestate da terzi; (iii) creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro. La mancata menzione dell’omogeneità di posizione giuridica e di interessi economici nel nuovo concordato preventivo significa che il debitore può creare classi differenziate anche tra soggetti che si trovino nella medesima posizione giuridica ed economica. L’unico limite è rappresentato dal divieto di alterare l’ordine dei privilegi. Sicuramente questa modalità di formazione delle classi non può essere seguita nell’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa che parla espressamente di categorie di creditori da individuarsi «tenuto conto dell’omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici» (art. 61 co.1). È ben vero che l’art. 62 del Codice sulla convenzione di moratoria parla semplicemente di «categorie» senza menzionare i criteri di formazione, ma, come già detto, la vicinanza con l’art. 61 induce a trasporre la previsione dell’art. 61 anche all’art. 62. Ai sensi dell’art. 85 del Codice, una categoria di creditori potrà quindi essere rappresentata dai creditori privilegiati incapienti, un’altra dai creditori beneficiari di garanzie di terzi, un’altra ancora dai creditori che verranno soddisfatti con utilità diverse dal denaro. Va però detto che in occasione della stipula della convenzione di moratoria è probabile che non si conoscano ancora i creditori privilegiati incapienti e quelli che verranno soddisfatti con beni diversi dal denaro. Inoltre, per la formazione delle categorie si potrà fare riferimento all’esperienza maturata in occasione del concordato preventivo e quindi si potranno suddividere i creditori in fornitori strategici e no, banche e altri creditori finanziari, ecc. Non c’è un limite al dettaglio nella suddivisione per categorie, basta che si basi su elementi oggettivi che la giustifichino e su un’applicazione in buona fede delle regole di formazione dei contratti. Ciò significa, ad esempio, che all’interno dei creditori finanziari si potrà distinguere tra creditori a breve o a medio lungo, o tra creditori di firma. Sicuramente necessaria sarà la distinzione tra soggetti garantiti con garanzia capiente e soggetti non garantiti2. La distinzione tra categorie di creditori deve essere una sorta di “vestito su misura” da costruirsi di volta in volta su

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Trib. Napoli, 30 novembre 2016, cit.

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basi oggettive che giustifichino il classamento. Ad esempio, non tutti i creditori garantiti sono necessariamente sullo stesso piano: occorre distinguere tra garanti capienti o no. Ugualmente, tra banche con credito a breve occorre distinguere tra credito a breve in bianco e credito autoliquidante (e tra questi occorre distinguere tra autoliquidante “genuino” e autoliquidante “sulla carta”). Insomma, non si possono dare ricette valide per ogni situazione; in questi casi il rinvio alla buona fede (soprattutto del debitore, ma anche del creditore) è necessario. Ad esempio, non si potranno creare maliziosamente categorie volte esclusivamente al raggiungimento della percentuale del 75% di aderenti. Occorre chiedersi se ai fini della stipula della convenzione di moratoria il classamento sia obbligatorio. A differenza dell’art. 85 del Codice, che per il concordato individua alcuni limitati casi di classamento obbligatorio, nulla si dice di esplicito, ma la circostanza che: (i) L’estensione dell’accordo di ristrutturazione o della convenzione di moratoria possa avvenire nei confronti di creditori appartenenti «alla medesima categoria, individuata tenuto conto dell’omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici» (ii) L’intervento del giudice per valutare la legittimità o meno dell’estensione dell’accordo o della convenzione sia solo eventuale, e cioè solo in caso di opposizione da parte di un creditore contrario all’estensione (iii) L’opposizione del creditore ragionevolmente riguarderà l’illegittima formazione delle classi3 induce a ritenere che il debitore, pur non essendo obbligato alla formazione delle classi, dovrà porre molta attenzione ai soggetti cui vuole estendere l’accordo perché tali soggetti potrebbero proprio contestare il (mancato) classamento. In altre parole, il classamento nell’accordo ad efficacia estesa e nella convenzione di moratoria è di fatto obbligatorio4. c. «Un professionista indipendente abbia attestato la veridicità dei dati aziendali, l’idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi» e … «i creditori della medesima categoria non aderenti cui vengono estesi gli effetti della convenzione possano risultare

3 O almeno così è stato nell’unico precedente in termini relativo alla convenzione di moratoria: Trib. Napoli 30 novembre 2016, cit., e così è stato negli unici due precedenti editi in termini relativi all’art. 182-septies: Trib. Milano, 11 febbraio 2016, in www.ilcaso. it e Trib. Forlì, 5 maggio 2016, in Giur. Comm., 2016, II, 1276. 4 Nello stesso senso v. Ranalli, La convezione di moratoria di cui all’art. 182 septies l.f., in Il Fallimento, 2016, p. 889.

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soddisfatti all’esito della stessa in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale». Rispetto all’attuale art. 182-septies, co. 5, l.fall. il compito del professionista attestatore viene esteso e modificato. Attualmente il professionista deve attestare «l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati alla moratoria». In caso di contestazioni il tribunale deve verificare non solo la regolarità formale dell’estensione (sotto il profilo della posizione giuridica e interessi economici delle categorie, della percentuale di adesioni e del coinvolgimento dei creditori nelle trattative), ma anche che la soddisfazione del creditore, in caso di estensione dell’accordo, avvenga «in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili». Ciò significa che nell’attestazione il professionista deve farsi carico anche degli elementi che, in caso di contestazione, verrebbero esaminati dal tribunale. Nel nuovo testo la novità consiste in primo luogo nel fatto che il professionista deve attestare la veridicità dei dati aziendali (come avviene per tutte le altre attestazioni, comprese quelle previste per l’accordo di ristrutturazione anche ad efficacia estesa) e quindi dovrà porre in essere tutte le verifiche/circolarizzazioni normalmente previste per tutte le attestazioni. Inoltre, a differenza del passato, il professionista deve esplicitamente attestare anche la convenienza della moratoria rispetto alla liquidazione giudiziale. L’attuale art. 182-septies, l.fall. parla invece di controllo del tribunale rispetto «alle alternative concretamente praticabili». Il nuovo e diverso testo di legge sembra ora escludere il concordato preventivo come alternativa che il tribunale deve valutare rispetto all’accordo. E la modifica ha un senso, posto che il concordato è una procedura nella disponibilità del solo debitore e la proposta di concordato può essere articolata dal debitore nelle forme più varie e neppure astrattamente prevedibili da parte del tribunale. Viceversa, la liquidazione giudiziale non è nella disponibilità del solo debitore e, soprattutto, ha uno scontato esito liquidatorio, per cui è facilmente confrontabile da parte del tribunale. Piuttosto, se è chiaro il raffronto accordo/liquidazione giudiziale, meno chiaro è il confronto tra una misura temporanea come la convenzione di moratoria e la liquidazione giudiziale. La convenzione di moratoria esclude, infatti, pagamenti (eventualmente anche per interessi) nel corso della moratoria stessa e quindi, come tale, è sicuramente peggiore di una procedura alternativa anche liquidatoria che necessariamente prevederà dei pagamenti. Né si può pretendere (perché non previsto dalle norme) che il debitore in occasione della moratoria illustri già il piano che intenderà presentare, anche se nei fatti il debitore dovrà abbozzare

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Legislazione

ai creditori le proprie future intenzioni che, però, potrebbero non trovare ancora un esplicito riflesso nel testo della convenzione di moratoria. Non si può propendere per una interpretazione sostanzialmente abrogativa di tale previsione5 anche perché rispetto all’art. 182-septies in cui nella stessa norma si trattava sia dell’accordo con intermediari sia della moratoria, ora il Codice dedica una norma esplicita alla convenzione di moratoria che prevede espressamente il confronto rispetto alla liquidazione giudiziale. Nel vigore del 182-septies, l.fall. sono state espresse due opzioni interpretative nei fatti conciliabili tra loro e anche integrabili che ancora adesso possono essere riproposte. Secondo una prima opinione il confronto va fatto in termini di risorse disponibili per i creditori in caso di liquidazione attuale rispetto a una liquidazione differita al momento della scadenza della moratoria. In sostanza il tribunale, per ammettere la moratoria, deve verificare che il sacrificio provvisorio imposto al creditore estraneo sia compensato dalle maggiori utilità per i creditori che possono derivare dall’esecuzione dell’accordo. Con l’accordo si elimina il rischio della discontinuità aziendale che si manifesta nel differenziale tra il valore del complesso aziendale in funzionamento e il valore di liquidazione atomistico6. A tale criterio di valutazione potrebbe aggiungersene un secondo di natura più qualitativa che quantitativa, consistente nell’accertamento del fatto che la moratoria può procurare ai creditori un vantaggio sotto il profilo della legittimità e stabilità del futuro pagamento alla luce del mantenimento della continuità aziendale reso possibile proprio dalla moratoria, rispetto ad un pagamento che sarebbe reso revocabile a causa dell’insostenibilità dell’esborso che, ove effettuato, condurrebbe l’impresa all’insolvenza o alla liquidazione giudiziale7. Nell’unico caso esaminato dalla giurisprudenza, Trib. Napoli 30.11.2016, cit., il tribunale ha accolto l’opposizione del debitore perché in quel caso la moratoria avrebbe penalizzato la banca creditrice ipotecaria su un bene (nave) capiente che al termine della moratoria, a causa

5 Come in passato aveva fatto Aiello, Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzioni di moratoria, in Codice del fallimento a cura di Ambrosini Trapuzzano, 2017. 6 In questi termini Ranalli, La convenzione, cit., pp. 895 ss. e Fabiani, La convenzione di moratoria diretta a disciplinare in via provvisoria gli effetti della crisi, in Il Fallimento, 2015, p. 1277. 7 Aiello, in Il Fallimento, 2017, p. 856.

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dell’andamento negativo del mercato, sarebbe divenuto incapiente, senza che la banca avesse ricevuto la contropartita. d. Non venga imposto ai creditori non aderenti «l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti» (art. 62, co. 3). La norma riprende integralmente e letteralmente l’attuale art. 182-septies, co. 7, allorché la moratoria poteva riguardare solo banche e altri creditori finanziari. Tant’è vero che il testo di allora era stato pensato proprio per le banche. Nella nuova formulazione della moratoria, destinata a tutti i creditori, occorre interpretare il contenuto del co. 3 dell’art. 62 come riferito a tutti i creditori. Occorre prima di tutto chiedersi cosa significa l’affermazione che non si possono estendere agli aderenti coatti «l’esecuzione di nuove prestazioni». Ci si riferisce a nuove prestazioni diverse da quelle previste in contratti esistenti o a nuove prestazioni tout court? Ritengo che la risposta debba restringere l’ambito della norma solo a nuove prestazioni non previste in contratti di durata esistenti. In altre parole, ben può il debitore chiedere una moratoria sul pagamento del pregresso e nel contempo la prosecuzione di forniture/appalti in corso. Questa interpretazione è conforme a quella che è stata data sulla base dell’attuale art. 182-septies ai contratti pendenti nel settore bancario, laddove, con riferimento alle linee autoliquidanti, si era ritenuto di estendere ai creditori non aderenti il mantenimento delle linee autoliquidanti nei limiti dell’utilizzato (e non dell’accordato), anche perché altrimenti la moratoria perderebbe di significato8. D’altronde, lo stesso co. 3 dell’art. 62 afferma che «non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati» e quindi conferma che il mantenimento della situazione esistente non è una nuova prestazione. Se per i leasing la prosecuzione del contratto, con congelamento dei debiti pregressi, non costituisce nuova prestazione, la stessa regola dovrebbe applicarsi anche per la linea di credito autoliquidante nei limiti dell’utilizzato. O, ancora, ritengo che la moratoria possa prevedere una esclusione pattizia del pactum de compensando (diffuso nei contratti bancari) e che

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Così Ranalli, La convenzione, cit., e Fabiani, La convenzione, cit.

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Legislazione

tale previsione possa essere estesa coattivamente in quanto non rappresenta una nuova postazione ma la rinuncia ad un diritto. In conclusione, è indubbio che sia l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa, sia la convenzione di moratoria rappresentino strumenti di applicazione pratica abbastanza complicata (come è confermato dalla scarsissima casistica giurisprudenziale verificatasi nel vigore dell’art. 182-septies l.fall.). Tuttavia, la loro presenza costituisce un sicuro deterrente rispetto a comportamenti opportunistici. E questo solo fatto è sufficiente per valutarli positivamente a prescindere dalla loro futura diffusione.

Marco Arato

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Indici dell’annata

PARTE SECONDA LEGISLAZIONE Procedura di allerta e banche – D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155, art. 14 pag. Obblighi e responsabilità della banca e dell’intermediario finanziario nelle procedure di allerta e di composizione assistita della » crisi, di Giovanni Falcone Convenzione di moratoria – D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre » 2017, n. 155, art. 62 » La Convenzione di moratoria nel Codice della crisi, di Marco Arato

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DOCUMENTI E INFORMAZIONI Non Performing Loans – Banca Centrale Europea: Addendum del marzo 2018 alle linee guida della BCE per le banche sui crediti deteriorati (NPL): aspettative di vigilanza in merito agli accantonamenti prudenziali per le esposizioni deteriorate Le regole contabili degli NPL, di Lorenzo De Angelis Crisi bancarie e proposte della Commissione europea – Relazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio sull’applicazione e sulla revisione della direttiva 2014/59/ UE (direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche) e del regolamento (UE) n. 806/2014 (regolamento sul meccanismo di risoluzione unico), Bruxelles, 30.4.2019, COM(2019) 213 Il punto della Commissione europea sul quadro normativo applicabile in caso di crisi bancarie: qualche annotazione per la prossima legislatura, di Antonella Brozzetti

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NORME REDAZIONALI

a. I contributi proposti per la pubblicazione (saggi, note a sentenza, ecc.) debbono essere inviati, in formato elettronico (word), al Direttore responsabile prof. avv. Alessandro Nigro al seguente indirizzo email alessandro.nigro@tiscali.it È indispensabile l’indicazione nella prima pagina (in alto a destra) dell’indirizzo email, per l’invio delle bozze. b. I contributi proposti per la pubblicazione sono preventivamente vagliati dalla Direzione. Quelli che superano tale vaglio vengono trasmessi, in forma anonima, ad uno dei componenti della apposita struttura di revisione, coordinata dal prof. Daniele Vattermoli. Il revisore rimette al coordinatore la sua relazione che, in forma anonima, è trasmessa al Direttore il quale, se la relazione è positiva, autorizza la pubblicazione del contributo.

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto

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Norme redazionali

corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. … 4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio

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c.c. c.comm.


Norme redazionali

Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall. legge cambiaria l.camb. testo unico t.u. testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) t.u.b. testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58) t.u.f. 2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc.

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Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm.

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Norme redazionali

Rivista della cooperazione Rivista delle società Rivista del diritto commerciale Rivista del notariato Rivista di diritto civile Rivista di diritto internazionale Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto pubblico Rivista di diritto societario Rivista giuridica sarda Rivista italiana del leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Vita notarile 4. Commentari, trattati

Riv. coop. Riv. soc. Riv. dir. comm. Riv. not. Riv. dir. civ. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. RDS Riv. giur. sarda Riv. it. leasing Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.

Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

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CODICE ETICO

La rivista Diritto della banca e del mercato finanziario è una rivista scientifica peer-reviewed che si ispira al codice etico delle pubblicazioni elaborato da COPE, Committee on Publication Ethics, Best Practice Guidelines for Journal Editors. (http://publicationethics.org/resources/guidelines)

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria

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