Saggi
ISSN 1722-8360
di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
4/2016
Diritto della banca e del mercato finanziario
• Società bancarie e società di diritto comune • Sicaf • Sostegno finanziario infragruppo • Contratti derivati impliciti
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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2016, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Gian Domenico Comporti, Gianluca Guerrieri, Antonia Irace, Raffaele Lenzi, Stefano Pagliantini, Alessandro Palmieri, Andrea Perrone, Antonio Piras, Andrea Pisaneschi, Pietro Sirena, Onofrio Troiano, Francesco Vella.
Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria
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SOMMARIO 4/2016
PARTE PRIMA Saggi Una nuova “particolare operazione di credito”: il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato (art. 48-bis t.u.b.), di Giovanni Falcone Appunti sulle Sicaf. Profili societari, di Maria Lucia Passador Gli accordi di sostegno finanziario infragruppo nella crisi dei gruppi bancari, di Edgardo Ricciardiello
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Fatti e problemi della pratica Derivati impliciti, clausole “floor” e “zero floor” nei contratti bancari, di Alfonso Parziale
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Dibattiti Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli – Incontro di studio del 23 giugno 2016 presieduto da Vittorio Santoro, con interventi di Carlo Angelici, Giuseppe Ferri, Giuseppe Guizzi, Alessandro Nigro, Luigi Salamone, Mario Stella Richter
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Autori
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Indici dell’annata - Parte prima
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Indici dell’annata - Parte seconda
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Norme
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redazionali
PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ
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Una nuova “particolare operazione di credito”: il “finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato” (art. 48-bis t.u.b.) Sommario: 1. Premessa. – 2. La nuova tipologia di finanziamento ed il suo rapporto con l’impianto delle “particolari operazioni di credito” (Capo VI t.u.b.). – 3. L’ambito soggettivo di applicazione. – 4. La nozione di “finanziamento”. – 5. Il patto avente ad oggetto il trasferimento del diritto reale immobiliare e la sua funzione di garanzia. – 6. La nozione di “inadempimento”. – 7. Profili di opponibilità. – 8. La sottoposizione ad esecuzione forzata individuale o concorsuale del diritto reale immobiliare oggetto del patto. La “oscura” equiparazione del patto alla ipoteca “ai fini del concorso”.
1. Premessa. Il Capo VI del t.u.b., dedicato alle “particolari operazioni di credito”, ha visto recentemente arricchirsi il novero delle tipologie di finanziamento oggetto di disciplina, per effetto del c.d. “decreto Banche” (d.l. n. 59 del 2016, convertito in legge n. 119 del 2016), che ha introdotto un nuovo art. 48-bis, intitolato al “finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”. La scelta del legislatore si pone all’interesse dell’interprete non soltanto in relazione all’indagine sulle ragioni di politica legislativa che possono aver condotto alla redazione ed alla introduzione della nuova disciplina – ragioni tra le quali è da rinvenire senz’altro l’interesse a rendere più rapide le procedure di recupero del credito bancario e finanziario - ma, ancor prima, perché essa segna, rispetto alla “sistematica” delle “particolari operazioni di credito”, importanti tratti tanto di continuità che di discontinuità. Pare pertanto opportuno dedicare alcune riflessioni non soltanto al tema degli istituti sussunti nella predisposizione della nuova disciplina, ma anche – e preliminarmente – all’inquadramento della nuova fattispecie all’interno della “sistematica settoriale”.
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2. La nuova tipologia di finanziamento ed il suo rapporto con l’impianto delle “particolari operazioni di credito” (Capo VI t.u.b.). Tra i tratti di “discontinuità” rispetto al modello originario del Capo VI del t.u.b., quello rappresentativo di una maggiore frizione con lo spirito che aveva mosso il redattore del Testo Unico è rappresentato dalla stessa scelta di implementare il “catalogo” delle “particolari operazioni di credito”: non è inutile ricordare, al riguardo, che l’intento che a suo tempo mosse alla redazione del Capo VI era stato essenzialmente (o, almeno, dichiaratamente) quello di una drastica semplificazione, e, soprattutto, riduzione del novero di quelli che un tempo (e ancor oggi, nel linguaggio della tecnica bancaria) erano definiti “crediti speciali”1. La scelta franca per un modello di despecializzazione istituzionale, temporale ed operativa aveva infatti portato a ritenere che le deroghe rispetto ai modelli di “diritto comune” dovessero essere contenute nell’ambito di poche fattispecie, rispetto alle quali veniva, per di più, fornita una disciplina “a maglie larghe”, frutto di un’opera di coordinamento e razionalizzazione2 della congerie di pregresse e particolaristiche discipline (destinata, se mai, ad integrarsi con disposizioni di attuazione emanate dalle autorità creditizie). Di “specialità”, si disse, avrebbe potuto continuare a parlarsi unicamente con riferimento agli aspetti oggettivi delle operazioni disciplinate3 (tanto che la stessa scelta lessicale operata nel Testo Unico – “particolari operazioni di credito” e non già e non più “crediti speciali” – intendeva dare conto linguisticamente di tale nuovo e diverso assetto). Per tali motivi, lo stesso intendimento di inserire la disciplina del trasferimento di immobile sospensivamente condizionato all’interno delle “particolari operazioni di credito” non può non destare l’interrogativo in merito alle reali motivazioni che possano aver determinato il legislatore a regolare quella che sostanzialmente appare, da un punto di vista fun-
1 Sul punto Bonfatti, La disciplina dei crediti speciali nel “testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, in Giur. comm., 1994, I, pp. 1010-1054; Rispoli Farina, Prime riflessioni sulla riforma dei crediti speciali operata dal testo unico in materia bancaria e creditizia, in La nuova legge bancaria, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1995, pp. 163-195. 2 “Razionalizzazione” è infatti il concetto evocato nella Relazione al d.lgs. n. 385 del 1993 allo scopo di illustrare le modifiche introdotte nel comparto dei cc.dd. “crediti speciali”. 3 Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2012, p. 447 ss.
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zionale, (non una specifica forma di “finanziamento” ma, se mai) una garanzia (i cui connotati di “tipicità” o di “atipicità” dipendono dal grado di definizione che si intenda attribuire alla fattispecie, tenendo conto del fatto che lo stesso provvedimento usa il verbo “garantire” riferendolo alla funzione del patto di trasferimento) in una sedes materiae il cui contenuto, oltre a connotarsi per una ontologica “magmaticità”, resta caratterizzato, nell’opinione di chi scrive, dalla circostanza che, a dispetto della (più ideologicamente che fattualmente) dichiarata “despecializzazione”, le operazioni in discorso restavano – almeno fino all’ultima novella – appannaggio esclusivo degli intermediari bancari. La difficoltà concreta di individuare tali motivazioni appare tanto più rilevabile laddove si faccia mente alla circostanza che all’interno del medesimo d.l. n. 59 – e, precisamente, all’interno dell’art. 1 dello stesso – il legislatore ha inteso disciplinare una ulteriore forma di garanzia (il “pegno mobiliare non possessorio”), ma non ha, per converso, divisato di inserire (come invece per la tipologia di finanziamento ora in commento) le relative previsioni all’interno del medesimo Capo VI. Tale diversa scelta, ad una più approfondita analisi, resta obiettivamente giustificata da una circostanza immediatamente rilevabile dal testo del citato art. 1: il fatto, cioè, che non è previsto che il credito destinato ad essere garantito da un “pegno mobiliare non possessorio” debba essere stato concesso da banche o da intermediari finanziari. Ma, allora, se la motivazione della introduzione della disciplina del finanziamento garantito dal “trasferimento condizionato” all’interno del Capo VI deve considerarsi strettamente attinente alla “riserva” di tale tipologia di finanziamento a banche e intermediari finanziari, deve qui subito prendersi atto di un ulteriore (e, forse, il maggiore) tratto di “discontinuità” rispetto all’originario impianto della disciplina delle “particolari operazioni di credito”: quello legato alla individuazione dei soggetti erogatori.
3. L’ambito soggettivo di applicazione. È infatti previsto, quanto all’ambito soggettivo di applicazione del nuovo art. 48-bis t.u.b., che la norma trovi applicazione al «contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico ai sensi dell’art. 106». Viene quindi riconosciuta piena capacità operativa agli intermediari di cui all’art. 106 t.u.b. (cui, si ricordi, è riservato “l’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”) alla concessione di finanziamenti as-
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sistiti dalla “garanzia impropria” rappresentata dal “trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”. La previsione è di particolare momento, e ciò indipendentemente – si direbbe - dalla circostanza “storica” dell’essere tale esplicito riconoscimento concepito nella occasione contingente della disciplina di una nuova, specifica, “particolare operazione di credito”. È da rimarcare, infatti, come l’impianto del Testo Unico del 1993, nel mentre aveva riconosciuto (per la prima volta) la capacità operativa relativamente alle particolari operazioni di credito a tutte le banche, la aveva, peraltro, nel contempo, contestualmente limitata alle sole banche (fatta eccezione, per la circostanza - da un punto di vista sistematico marginale – della estensione della capacità a compiere operazioni di credito agevolato ai sensi dell’art. 47, ora contemplata dall’art. 110 t.u.b.): con ciò innescando dubbi in merito alla legittimità, finanche costituzionale, di una siffatta riserva4. Ci si potrebbe ora porre l’interrogativo se la previsione contenuta nell’art. 48-bis, co. 1, t.u.b. debba (o, per lo meno, possa) essere utilizzata ermeneuticamente nel senso di sottolineare la specificità della operazione in oggetto (e quindi di rimarcare ulteriormente la diversa capacità operativa tra banche ed intermediari finanziari, argomentando dal fatto che dove il legislatore ha voluto estendere detta capacità agli intermediari finanziari lo ha fatto espressamente, come nel caso in esame), oppure nel senso, diametralmente opposto, di offrire un argomento a favore di una interpretazione “evolutiva” – e costituzionalmente orientata – anche della disciplina delle altre operazioni disciplinate dal Capo VI. Le considerazioni già sinteticamente riportate sembrerebbero dare maggiore rilevanza a quest’ultima opzione interpretativa: e tuttavia ben potrebbe obiettarsi che, laddove questa fosse stata l’intenzione del legislatore, quest’ultimo avrebbe potuto, nel momento in cui “formalizzava” l’ingresso degli intermediari finanziari nel mercato dei “crediti speciali”, introdurre una specifica disposizione in tal senso. In realtà la fattispecie contemplata nell’art. 48-bis richiede uno specifico requisito soggettivo anche in capo al soggetto finanziato, che dovrà essere necessariamente un imprenditore. Tale requisito, emerge direttamente nella stessa rubrica (“finanziamento alle imprese”), oltre che in sede di nozione, dove si fa riferimento a un «contratto di finanziamento
4 Sul punto sia consentito fare riferimento a Falcone, Protezione del credito bancario e “particolari operazioni di credito”, Napoli, 2012, p. 257 ss.
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concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato»; il riferimento ritorna poi nella precisazione contenuta nel co. 1, ove si legge che l’immobile o il diritto immobiliare oggetto del patto deve essere di proprietà «dell’imprenditore o di un terzo», e nel co. 8, dove si fa riferimento al versamento all’imprenditore (che è indubitabilmente il debitore) della differenza tra il valore di stima dell’immobile e il credito rimasto inadempiuto. Emerge peraltro pure la circostanza che mentre il soggetto finanziato sarà necessariamente un “imprenditore” (non altrimenti declinato, di talché dovrebbe ammettersi la finanziabilità, a norma dell’art. 48-bis, di qualsiasi imprenditore), il titolare del diritto reale immobiliare oggetto del patto potrà: a) essere un terzo diverso dall’imprenditore, e b) essere egli medesimo un terzo che non rivesta la qualità di imprenditore (potendosi allora porre il problema della eventuale applicabilità della disciplina sui contratti tra professionisti e consumatori, di cui al d.lgs. n. 206 del 20055). Il riferimento alla natura imprenditoriale del soggetto finanziato non può dirsi elemento “caratteristico” dei finanziamenti disciplinati nel Capo VI: l’operazione disciplinata nell’art. 48-bis condivide tale specialità con quella oggetto dell’art. 46 (“Finanziamenti alle imprese: costituzione di privilegi”), ma non con le altre operazioni (neppure con quelle di credito agrario o peschereccio, dove si parla piuttosto di credito alla attività agricola o alla attività di pesca, senza fare riferimento allo statuto soggettivo del finanziato). La possibilità che la “garanzia” (in questo caso “impropria”) venga fornita da soggetto diverso dal soggetto finanziato è invece circostanza usuale nella disciplina delle “particolari operazioni di credito”: essa è, come appena ricordato, espressamente prevista nella disciplina del finanziamento a medio e lungo termine alle imprese (nel cui contesto
5 Come noto, la giurisprudenza riferendosi (più che al tema generale delle garanzie) alla fideiussione, ritiene che, in applicazione del principio di accessorietà, occorra fare riferimento alla natura della obbligazione garantita. In questa prospettiva, se la garanzia è prestata per una obbligazione contratta per finalità inerenti alla attività imprenditoriale o professionale, deve intendersi sottratta alla applicazione della disciplina consumeristica: recentemente Trib. Bari, 10 febbraio 2015, n. 528, in Banca dati Dejure. Ma occorre tenere presente anche quanto è andata elaborando la giurisprudenza in materia di composizione delle crisi da sovraindebitamento: in tale ambito si è piuttosto ritenuto che possa ritenersi consumatore chi contrae obbligazioni a favore di terzi, “ma senza riflessi diretti in un’attività d’impresa o professionale propria, salvo gli eventuali debiti di cui all’art. 7, co. 1, terzo periodo, l. n. 3/2012”: così Cass., 1 febbraio 2016, n. 1869, in Giust. civ. Mass., 2016.
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l’art. 46, co. 2 distingue tra “debitore” e “soggetto che ha concesso il privilegio”) ed è correntemente ammessa – pur nella assenza di uno specifico indice normativo – anche per le operazioni di credito fondiario6.
4. La nozione di “finanziamento”. Tratto di “continuità” del nuovo art. 48-bis rispetto alla pregressa disciplina delle “particolari operazioni di credito” è rappresentato, invece, dall’ormai consueto riferimento alla nozione di “finanziamento”: non dissimilmente da quanto si può affermare (e si è affermato) relativamente alle altre operazioni creditizie disciplinate all’interno del Capo VI, sembra doversi ammettere che il termine sia qui utilizzato in modo atecnico: in maniera tale, cioè, da ricomprendere all’interno dell’ambito di applicazione oggettivo della norma tutti i negozi riconducibili ad una “causa di credito”7. Non sussiste, infatti, all’interno della norma, alcun indice positivo per poter connotare più specificamente l’operazione: in particolare, non esiste alcun elemento che assimili la nozione di “finanziamento” con (o che la declini in) quella di “credito di scopo” (come invece in giurisprudenza8). Non sono specificati né la durata del finanziamento (che, quindi, potrà essere indifferentemente a breve, medio e lungo termine), né – oltre, beninteso, la “garanzia” rappresentata dal patto di trasferimento condizionato - la presenza di ulteriori garanzie (si apprende dal co. 4, per di più incidentalmente e per i soli contratti “pregressi” all’entrata in vigore della norma, che è possibile che il finanziamento sia assistito da una garanzia ipotecaria), né, tanto meno, determinazioni di importi massimi concedibili.
6 Tale possibilità era riconosciuta già nella disciplina del credito fondiario previgente al t.u.b.: per tutti Cass., 19 maggio 1977, n. 2068, in Banca, borsa, tit. cred., 1980, II, 19. 7 Sul punto, sia consentito rinviare a Falcone, Riflessioni sulla nozione di finanziamento negli artt. 38 e segg. del decreto legislativo n. 385 del 1993: il credito fondiario come contratto, in Dir. fall., 1999, I, p. 659 ss. 8 È infatti da ricordare che in giurisprudenza la nozione di “finanziamento” viene usualmente considerata come equivalente di quella di “mutuo di scopo legale” (e talora anche convenzionale); ex multis: Cass., 19 maggio 2003, n. 7773, in Giust. civ., Mass., 2003, 5. Per una ricostruzione analitica delle definizioni di finanziamento, Luminoso, Contratti tipici e atipici, Milano, 1995, 745-746; nonché, sul relativo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, Dinacci, Mutuo di scopo, in I contratti per il finanziamento dell’impresa, a cura di Dinacci e Pagliantini, Padova, 2010, pp. 99-163.
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A ben vedere, e come già accennato – similmente a quanto può dirsi con riguardo alla disciplina del finanziamento a medio-lungo termine alle imprese, contenuta nell’art. 46 – l’art. 48-bis non individua una forma di finanziamento, quanto essenzialmente una forma di “garanzia” (fosse pure in senso “improprio”): non è invero nella norma nulla che declini in qualche misura la nozione generica di “finanziamento” se non proprio – ed esclusivamente – il fatto che nel regolamento negoziale del contratto di credito sia contenuta la pattuizione, sospensivamente condizionata, del trasferimento del bene immobile. A connotare ulteriormente il rapporto tra contratto di credito e patto di trasferimento vi è la previsione per cui in tanto si potrà applicare la disciplina contenuta nell’art. 48-bis in quanto il patto di trasferimento sia previsto nel contratto di finanziamento originariamente. Infatti, la possibilità di inserire le pattuizioni inerenti il trasferimento in un contratto di finanziamento già stipulato è consentita unicamente «per i contratti in corso al momento dell’entrata in vigore della presente disposizione, per atto notarile, in sede di successiva modificazione delle condizioni contrattuali»9: dal che dovrebbe logicamente dedursi che contratti di finanziamento stipulati dopo l’entrata in vigore del decreto non potranno giovarsi della clausola di trasferimento se questa non sia stata originariamente prevista (rectius: non potranno giovarsi della disciplina contenuta nell’art. 48bis). Pertanto, un finanziamento ai sensi dell’art. 48-bis, a regime, potrà soltanto nascere con tale natura, non già diventarlo10. La possibilità di una modifica successiva è stata considerata criticamente in quanto, si afferma, celerebbe il pericolo che l’imprenditore subisca “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose” a causa della sua “posizione di subalternità”11. In questa prospettiva la previsione è stata ritenuta tale da
9 Secondo Spataro, Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato, in AA.VV., La riforma delle banche: primo commento alla legge n. 119/2016, Milanofiori Assago, 2016, p. 42, dovrà trattarsi di: «modificazioni sostanziali» (quali ad es. proroga delle scadenze o incremento dell’importo finanziato). 10 Non dissimilmente da come – per restare nell’ambito delle “particolari operazioni di credito” – un credito può soltanto “nascere” fondiario (in quanto assistito da una garanzia ipotecaria rispettosa dei parametri di cui all’art. 38, co. 2, t.u.b.) e non diventarlo successivamente (munendo, ad esempio, un credito già nato come chirografario di una ipoteca astrattamente idonea secondo i requisiti di legge). 11 Così Buongiorno e Notarangelo, L’articolo 48 bis t.u.b. Prime note a margine dell’introduzione del patto marciano nel nostro ordinamento, in dirittobancario. it, giugno 2016. Tali preoccupazioni sono state espresse anche dal CNDCEC, nelle
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ridurre la possibilità di rinegoziazione del finanziamento, finendo per essere considerata acceleratrice della crisi dell’impresa12. Tale pericolo è stato invece preventivamente scongiurato dal “coevo” legislatore del d.lgs. n. 72 del 2016 che – disciplinando una ipotesi di patto marciano all’interno della normativa in materia di credito residenziale ai consumatori - ha previsto espressamente che «il finanziatore non può condizionare la conclusione del contratto di credito alla sottoscrizione della clausola» (art. 120-quinquiesdecies, co. 4, lett. a) d.lgs. n. 385 del 1993). Queste considerazioni sono tali però da dover orientare l’interprete, ad avviso di chi scrive, proprio nel senso di considerare inderogabile il limite di rinegoziazione riferito soltanto ai contratti già stipulati prima della entrata in vigore della nuova disciplina (e non di considerare applicabile la disciplina anche ai contratti di finanziamento stipulati – senza la previsione del patto – dopo la sua entrata in vigore)13. È peraltro da evidenziare come la disciplina di questa particolare tipologia di finanziamento ben potrebbe (o dovrebbe) coniugarsi con quella di altre operazioni disciplinate nel Capo VI: si pensi, ad esempio, al caso di un finanziamento che risponda ai parametri oggettivi del credito fondiario, indicati nell’art. 38 t.u.b. (e si tenga presente che espressamente
Osservazioni e proposte al testo del Decreto Legge n. 59 presentato alla Commissione Finanze e tesoro del Senato. 12 Così nel Documento di osservazioni sul testo del d.l. n. 59 indirizzato da Rete Imprese Italia alla Commissione Finanze e tesoro del Senato 13 La questione della necessaria “originarietà” del patto di trasferimento non può non rievocare il dibattito in merito alla riferibilità del divieto di patto commissorio soltanto a quello “contestuale” al perfezionamento della garanzia (c.d. patto “in continenti”), ovvero anche quello stipulato successivamente a tale momento (c.d. patto “ex intervallo”): dibattito che ha trovato composizione con la previsione, contenuta nell’art. 2744 c.c., secondo cui «il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno». Anteriormente rispetto alla previsione codicistica, la giurisprudenza si riteneva in molti casi favorevole ad ammettere la liceità del patto “ex intervallo” (Cass., 27 gennaio 1931, in Foro it., 1931, I, 448 ss.), mentre in dottrina il dibattito era animato soprattutto dall’interrogativo in merito alla ipotizzabilità di “condizionamenti” delle scelte del debitore in un momento successivo alla concessione del prestito (condizionamenti che si ritenevano esclusi da parte di Vivante, Trattato di diritto commerciale, IV Milano, 1926, p. 282; ricorrenti, invece, da parte di Brugi, Patto commissorio ex intervallo, in Riv. dir. comm., 1917, II, p. 706). Una ampia ricostruzione del dibattito sul tema in: Carbone, Debitoris suffocatio e patto commissorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, p. 1087 ss.; Tirrito, Sale and lease back e divieto del patto commissorio: recenti sviluppi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, p. 1331 ss.
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l’art. 48-bis considera il caso in cui “il finanziamento sia già garantito da ipoteca”). A tale riguardo, occorrerà domandarsi, al ricorrere dei requisiti oggettivi di entrambe le fattispecie, quale sia la disciplina destinata a trovare applicazione nei casi in cui un medesimo evento trovi una sistemazione normativa diversa in ciascuna delle due discipline (è il caso, ad esempio, della definizione dei presupposti di “inadempimento”, dove la disciplina di cui al co. 5 dell’art. 48-bis risulta “autonoma” rispetto a quella di cui all’art. 40, co. 2, t.u.b. in materia di credito fondiario: sul punto v. infra). Su tale interrogativo potrebbe poi innestarsi il problema, ulteriore, della individuazione della disciplina applicabile nell’ipotesi in cui a concedere il finanziamento ai sensi dell’art. 48-bis sia un intermediario finanziario (il quale, invece – almeno stando a quanto previsto espressamente dall’art. 38 t.u.b. – potrebbe essere concesso unicamente da una banca): tale ultimo quesito, peraltro, alla luce delle considerazioni già svolte, dovrebbe risolversi nel senso del difetto di concorso di norme a causa di inapplicabilità, nel caso di specie, della disciplina sul fondiario.
5. Il patto avente ad oggetto il trasferimento del diritto reale immobiliare e la sua funzione di garanzia. Il “patto”, “accessorio” al finanziamento, che rende applicabile la disciplina dettata dall’articolo 48-bis è quello mediante il quale si costituisce una “garanzia” consistente nel «trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore (…)». Nel caso in cui il trasferimento sia pattuito a favore non di un creditore, ma di una società controllata o collegata, il patto assumerebbe civilisticamente le fattezze di un contratto a favore di terzo, dovendosi rinvenire l’interesse dello stipulante ex art. 1411, co. 1, c.c., proprio nel rapporto di controllo o di collegamento con la società terza14.
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Secondo Lamanna, “Decreto banche”: iper-tutela del credito e ritocchi telematici alla legge fallimentare, Milano, 2016, p. 32, la previsione costituirebbe «il punto socialmente più critico della nuova disciplina di questa garanzia, poiché mentre le banche, in quanto tali, non sono direttamente interessate ad acquisire (…) i beni immobili dell’impresa o di terzi
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Al riguardo occorre ricordare come la possibilità per la banca di rendersi cessionaria di immobili è contemplata nella regolamentazione della Banca d’Italia, e, in particolare, tanto nelle Istruzioni di vigilanza per le banche (Circolare n. 229 del 1999, Titolo IV, Cap. 10), quanto nelle Disposizioni di vigilanza per le banche (Circolare n. 285, Parte II, Cap. 2, Sez. III). Le prime, escludono, per le banche, la possibilità di «svolgere attività immobiliare di tipo meramente speculativo», ma consentono alle stesse di superare il limite quantitativo generale (secondo cui «l’ammontare complessivo degli investimenti in immobili e partecipazioni non può comunque eccedere il patrimonio») «solo quando ciò sia dovuto ad operazioni di acquisizione di immobili a tutela delle proprie ragioni di credito» (stabilendosi in questo caso che «l’eccedenza rispetto al limite generale costituisce requisito patrimoniale da includere nel calcolo del requisito patrimoniale minimo complessivo»). In ogni caso le medesime Istruzioni prescrivono che «considerata la loro origine, gli immobili della specie devono comunque essere smobilizzati quanto prima»15. Anche le Disposizioni di vigilanza per gli intermediari finanziari (Circolare n. 288 del 2015) prendono in considerazione l’acquisto di immobili per recupero crediti (considerando anzi la gestione di tali immobili come vera e propria attività “strumentale”: Titolo I, cap. 3, Sez. III): ma, non dissimilmente da quanto previsto per le banche, consentono la titolarità di questi immobili soltanto «in relazione al tempo strettamente necessario per effettuarne la cessione». Proprio la presenza di un regime particolarmente rigoroso e limitativo quanto alla possibilità, per una banca o per un intermediario finanziario, di acquisire immobili in sede di tutela dei propri crediti, rende ragione della previsione normativa in forza della quale l’acquirente potrà essere rappresentato anche da un soggetto non bancario e non finanziario, ma a questo collegato o controllato.
nel trasferimento condizionato posto a garanzia di finanziamenti, le società specializzate nel recupero delle partite deteriorate, costituite collateralmente ad hoc spesso proprio dalle banche, hanno come vocazione d’impresa proprio l’attivazione di ogni procedura utile a realizzare l’immediato rimborso dei finanziamenti e l’esproprio dei beni». 15 Quanto alle Disposizioni di vigilanza per le banche, queste, con riferimento agli «immobili acquisiti per recupero crediti», stabiliscono che «l’eccedenza rispetto al limite quantitativo generale all’acquisizione di immobili eventualmente determinata da operazioni di acquisizione di immobili a tutela delle ragioni di credito della banca costituisce per questa un requisito patrimoniale aggiuntivo a quelli previsti da altre disposizioni», richiamando sul punto le stesse disposizioni contenute nelle Istruzioni di Vigilanza.
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Il co. 2 dell’articolo aggiunge anche che «in caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l’eventuale differenza tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento», pur precisandosi che (co. 3) «il trasferimento non può essere convenuto in relazione ad immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario, del coniuge o di suoi parenti e affini entro il terzo grado». Il legislatore, si è già evidenziato, non utilizza il termine “garanzia”, ma, al contrario, fa riferimento alla funzione di “garantire” realizzata dal patto. Quest’ultimo è rappresentato da una delle possibili fattispecie di alienazione a scopo di garanzia16: figura spesso configurata in dottrina come “strumento di garanzia reale atipica” e la cui sorte è stata altrettanto spesso identificata nella nullità del negozio, sia alla luce dell’affermato principio di necessaria tassatività delle garanzie reali, sia come conseguenza della nullità del patto commissorio comminata dall’art. 2744 c.c. (la quale, benché espressamente riferita unicamente a negozi costitutivi di pegno o di ipoteca, viene generalmente riferita a tutte le fattispecie negoziali nelle quali al creditore venga attribuito il diritto di appropriarsi definitivamente di un bene del debitore o di un terzo, indipendentemente dalla stima del valore attuale del bene stesso17). L’utilizzo del verbo “garantire” non deve apparire del tutto singolare, non sussistendo, in realtà, sotto un profilo tecnico-giuridico, una nozione generale ed univoca del termine “garanzia”, attesa la marcata polisemia del termine. Invero, il “patto” disciplinato dall’art. 48-bis soddisfa sostanzialmente tutte le nozioni di “garanzia” variamente fatte proprie dagli interpreti: così, ad esempio, ben potrà il patto essere considerato alla stregua di un negozio volto a creare una «posizione giuridica di vantaggio finalizzata alla tutela dei diritti di credito»18; o come rafforzamento negoziale della tutela del credito il cui obiettivo è di rendere più probabile la realizzazione dello
16 Sul punto Anelli, L’alienazione in funzione di garanzia, Milano, 1996; Lascialfari, Le alienazioni a scopo di garanzia, Le garanzie rafforzate del credito, a cura di Cuffaro, Torino, 2000, p. 155; si veda anche Pisani, Alienazioni a scopo di garanzia, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XIX, Garanzie, a cura di Cendon, Torino, 2004, pp. 271-320 e Scarabino, Alienazioni a scopo di garanzia, in Le garanzie personali e reali, a cura di Cendon, Torino, 2006, p. 275 ss. 17 Bianca, Diritto civile, VII, Le garanzie reali. La prescrizione, Milano, 2012, pp. 275276. 18 Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 465.
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stesso19; o, ancor più in generale, come «mezzo destinato a rendere più sicuro il godimento di un diritto o l’adempimento di un obbligo»20, o come «tecnica di riduzione del rischio di credito prodotta dall’autonomia privata»21. Appare peraltro problematica, attesa la stessa “tipizzazione” normativa del collegamento tra finanziamento e patto di trasferimento condizionato, considerare quest’ultimo alla stregua di una “garanzia atipica” sembrando piuttosto accedere alla diversa categoria concettuale della “garanzia impropria” (ancorché quest’ultima espressione sia nella prassi riferita essenzialmente all’utilizzo in funzione di garanzia di istituti come la cessione del credito o il mandato22). La qualificabilità alla stregua di “garanzia” del patto potrebbe essere foriera di implicazioni in sede di revocatoria fallimentare: in linea di principio si dovrebbe considerare ricorrente la fattispecie della garanzia “contestuale” di cui all’art. 67, co. 2, l. fall.; peraltro, anche nel caso previsto, in via del tutto transitoria, di inserimento del patto in sede di modifica delle condizioni contrattuali del finanziamento stipulato prima della entrata in vigore del decreto, potrebbe intendersi ricorrere – essendo per l’appunto fattispecie eccezionale disciplinata proprio in considerazione della entrata in vigore del decreto – la medesima fattispecie23. Da ultimo, la circostanza che tale tipologia di “garanzia” venga specificamente disciplinata in quanto accessoria ad un finanziamento concedibile unicamente da ban-
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Garrido, Tratado de las preferencias del crédito, Madrid, 2000, p. 59; Fragali, voce Garanzia e diritti di garanzia, in Enc. dir, VXIII, Milano, 1969, pp. 453-455; Mastropaolo, I contratti autonomi di garanzia, Torino, 1989, p. 69. 20 Tucci, voce Garanzia, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1992, p. 581. 21 Guccione, I contratti di garanzia finanziaria, Milano, 2008, p. 3. Tale ultima nozione appare quella maggiormente vicina alla tecnica normativa propria delle disposizioni di vigilanza dettate in materia di c.d. “capital adequacy”, dove, il luogo del termine “garanzia”, si opta per il concetto di “protezione del credito”. 22 Sulla nozione di garanzia atipica, Maimeri, Le garanzie bancarie “improprie”, Torino, 2004, passim. 23 A. Didone e V. Didone, Il miniritocco del Decreto Legge n. 59 del 2016: qualche anticipazione del “Progetto Rordorf”, in Le riforme delle procedure concorsuali, a cura di A. Didone, II, Milano, 2016, p. 2149, ritengono invece che nell’ipotesi di stipula successiva dovrebbe intendersi ricorrere il caso previsto dall’art. 67, co. 1, l. fall. Non pare invece a chi scrive che sia invocabile in materia, in virtù della “equiparazione” del patto all’ipoteca di cui al co. 13-bis, la disciplina di “esenzione” da revocatoria prevista per il credito fondiario: non foss’altro perché quest’ultima tipologia di credito richiede la concorrenza non già di una qualsiasi ipoteca, sibbene di una ipoteca connotata dai caratteri richiesti dall’art. 38 t.u.b. (sembra invece ritenere applicabile la disciplina fondiaria Spataro, Finanziamento, cit., p. 58).
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che od intermediari finanziari, conferisce maggiore “solidità” agli sforzi ermeneutici intesi a configurare una categoria di “garanzia bancaria”, da intendersi nel senso restrittivo di fattispecie nella quale la presenza di una banca (o, in questo caso, anche di un intermediario finanziario), in qualità di soggetto “avvantaggiato”, determina una “deviazione” dal modello tipico di garanzia o addirittura costituisce un elemento essenziale della fattispecie stessa24. Quanto appena detto con la significativa variante della estensione del “vantaggio” non soltanto alle banche, ma anche, come già detto, agli intermediari finanziari. Il riconoscimento della validità del negozio traslativo descritto dall’art. 48-bis t.u.b., peraltro, non rappresenta una novità assoluta: né con riferimento alla evoluzione della interpretazione dell’art. 2744 c.c.; e neppure sotto il profilo delle diverse previsioni che, con riferimento a specifiche situazioni, sono state nel tempo adottate dal legislatore. Sotto il primo profilo, deve darsi ormai atto che, seppure con alcune voci critiche in dottrina, la giurisprudenza riconosce la non ricorrenza della fattispecie del patto commissorio25 (il cui divieto è fissato nell’art. 2744 e, con riferimento particolare alla disciplina dell’anticresi, nell’art. 1963 c.c.) – e, conseguentemente, esclude la nullità del negozio – in caso di patto marciano «che preveda, al momento dell’inadempimento, un procedimento tale da assicurare la stima imparziale del bene entro tempi certi»26; o, più in generale, laddove il trasferimento del bene non realizzi una “garanzia eccedente il credito” (tale per cui il patto potrà ammettersi laddove manchi la sproporzione, come accade quando il creditore, per acquisire il bene – oggetto di stima – è tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entità del credito)27. Il patto disci-
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Sulla possibilità di configurazione di una categoria di “garanzia bancaria”, Dolmetta, Garanzie bancarie, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, p. 513 ss. 25 Sul patto commissorio e sui “patti per ragioni di garanzia” si veda Mastropaolo, Divieto legale e nullità di patti per ragioni di garanzia, in I contratti di garanzia, a cura di Mastropaolo, II, Torino, 2006, p. 1799 ss. Sulla operatività del divieto di patto commissorio, anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali, si veda Rispoli, I nebulosi confini del divieto di patto commissorio, in Giust. civ., 2013, p. 697 ss. 26 Così Cass., 28 gennaio 2016, n. 1625, in Foro it., 2016, 2, I, 685, con nota di Brogi; in precedenza anche Cass., 9 maggio 2013, n. 10986, in Vita not., 2013, II, p. 719. Secondo Minniti, Patto marciano e “irragionevolezza” del disporre in funzione di garanzia, in Riv. dir. comm., 1997, p. 29 ss., sarebbe comunque non meritevole di tutela l’utilizzo del trasferimento di proprietà in funzione di garanzia. 27 Cass., 9 maggio 2013, n. 10986, in Vita not., 2013,2, 719; ma orientamenti della giurisprudenza nel senso di ritenere ammissibile il trasferimento della proprietà in caso
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plinato nell’art. 48-bis rientra pienamente nell’ambito di siffatti “argini” interpretativi, essendo previsto che il bene oggetto del trasferimento venga stimato e che il creditore versi al debitore la differenza tra il valore del bene trasferito ed il proprio credito (co. 6 e 7). Se quindi il “patto marciano” deve intendersi come alienazione in garanzia “caratterizzata dalla clausola della giusta stima”28, può allora legittimamente affermarsi che l’art. 48-bis descrive una particolare fenomenologia di detto patto29. Sotto il secondo profilo, un esplicito profilo di deroga all’art. 2744 c.c. era stato già introdotto dal legislatore attraverso il d.lgs. n. 170 del 2004, in materia di “contratti di garanzia finanziaria”, il cui art. 6, co. 2, espressamente dispone che «ai contratti di garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia, compresi i contratti di pronti contro termine, non si applica l’articolo 2744 del codice civile». Si trattava del resto di una previsione che, più che costituire una vera e propria deroga all’art. 2744, già rappresentava una fattispecie assimilabile a quelle considerate ammissibili dalla giurisprudenza, poiché la “vendita” o la “appropriazione” delle attività finanziarie oggetto di garanzia ivi vengono consentite soltanto “fino a concorrenza del valore dell’obbligazione finanziaria garantita” (art. 4, co. 1)30; né può sfuggire, del resto, una marcata e ancor più recente tendenza del legislatore a rafforzare il proprio interesse verso l’utilizzo del sistema delle alienazioni a scopo di garanzia: oltre che la disciplina in commento, ne è riprova quella, sostanzialmente coeva, contenuta nell’art. 120-quinquiesdecies del testo unico bancario, come introdotta dal d.lgs. n. 72 del
di inadempimento in presenza di un valore adeguato si riscontrano fin da Cass., 27 novembre 1951, n. 2696, in Foro it., 1952, I, p. 11 (con riferimento al caso del patto con il quale il mutuante acquista l’immobile dal mutuatario con facoltà di riscatto mediante restituzione della somma mutuata). Una ricostruzione degli orientamenti precedenti in tema di alienazioni a scopo di garanzia condizionate all’inadempimento dell’alienante/ debitore in Nardi, Appunti in tema di patto commissorio e violazione del principio di solidarietà, in Giust. civ., 2005, 9, p. 329 ss. 28 Bianca, Diritto civile, cit., p. 288. 29 In senso contrario Riccio, Speciale Decreto Banche – I dubbi di incostituzionalità dell’art. 2, in Ilfallimentarista, 7 luglio 2016. Secondo l’A. sussisterebbero profili di incostituzionalità nella disciplina in esame, da ricondursi in primo luogo alla circostanza che un rapporto di proporzionalità tra il valore del finanziamento e quello del bene oggetto del patto dovrebbe essere ravvisabile già al momento della stipula del contratto. 30 Secondo Bianca, Diritto civile, cit., p. 290, i contratti di garanzia finanziaria sono riconducibili allo schema del patto marciano. Per A. Didone e V. Didone, Il miniritocco, cit., p. 2150, il d.lgs. n. 170 del 2004 ha segnato una vera e propria «crisi del divieto di patto commissorio».
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2016 (in materia di “contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali”). Ancora sotto il profilo della struttura del patto, si è avanzata l’ipotesi che la previsione normativa costituisca (anche) una ipotesi di deroga al disposto dell’art. 1355 c.c., secondo cui «è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata ad una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o rispettivamente, da quella del debitore» (essendo l’avveramento rimesso sostanzialmente alla volontà o meno del debitore di pagare il suo debito)31: a tale ricostruzione potrebbe replicarsi che non potrebbe a buon diritto parlarsi di condizione meramente potestativa laddove la volontà dell’obbligato si riconnetta a interessi comunque inerenti al contratto cui quella condizione accede32 (come potrebbe essere quello del debitore ad impedire l’attivazione di meccanismi negoziali ed esecutivi di tutela del credito); senza contare che l’evento dedotto in condizione non sarebbe in questo caso una manifestazione di volontà del debitore, ma un suo comportamento.
6. La nozione di “inadempimento”. L’evento cui è sospensivamente condizionato il trasferimento della proprietà dell’immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprendi-
31 A. Didone e V. Didone, Il miniritocco, cit., p. 2151: i quali, peraltro, evidenziano anche la portata di pronunce della Suprema Corte (da ultimo Cass., 10 novembre 2015, n. 22951, in Giust. civ., Mass., 2015) nelle quali si è affermato il principio per cui non si ha nullità quando le parti abbiano previsto l’adempimento o l’inadempimento di una di essere quale evento condizionante l’efficacia del contratto in senso sospensivo o risolutivo. 32 Sul punto Cass., 21 maggio 2007, n. 11774, in Giust. civ., Mass., 2007, 5; Cass., 16 gennaio 2006, n. 728, in Giust. civ., Mass., 2006, 3; Cass., 20 giugno 2000, n. 8390, in Mass. Foro it., 2000. In particolare, secondo quest’ultima pronuncia, non è meramente potestativa la condizione in cui l’evento dedotto dipenda anche dal concorso di fattori estrinseci che possono influire sulla determinazione della volontà, pur se la relativa valutazione sia rimessa all’esclusivo apprezzamento dell’interessato. Secondo Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, p. 549, dovrebbe escludersi la ricorrenza di una clausola meramente potestativa in presenza di un interesse meritevole di tutela giuridica in capo alla parte da cui dipende l’avveramento della condizioni. Sul tema si veda Bonofiglio, La condizione meramente potestativa, in Giust. civ., 1997, 3, p. 125 ss., secondo cui «attraverso una condizione meramente potestativa la parte vuole riservarsi il potere di decidere non già di una propria azione, ma direttamente della sorte del contratto».
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tore o di un terzo è l’inadempimento del debitore. La definizione di inadempimento rilevante a tali fini è contenuta nel co. 5 dell’art. 48-bis, che stabilisce che «per gli effetti del presente articolo, si ha inadempimento quando il mancato pagamento si protrae per oltre nove mesi dalla scadenza di almeno tre rate, anche non consecutive, nel caso di obbligo di rimborso a rate mensili; o per oltre nove mesi dalla scadenza anche di una sola rata, quando il debitore è tenuto al rimborso rateale secondo termini di scadenza superiori al periodo mensile; ovvero, per oltre nove mesi, quando non è prevista la restituzione mediante pagamenti da effettuarsi in via rateale, dalla scadenza del rimborso previsto nel contratto di finanziamento»33. Viene poi precisato che «qualora alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate di cui al primo periodo il debitore abbia già rimborsato il finanziamento ricevuto in misura almeno pari all’85 per cento della quota capitale, il periodo di inadempimento di cui al medesimo primo periodo è elevato da nove a dodici mesi». Al di là della sicuramente impropria definizione, nel momento in cui si parla di un “mancato pagamento” che “si protrae” – mentre, se mai, a protrarsi potrebbe essere un “ritardato” pagamento – vale evidenziare che, nella tecnica di definizione dell’inadempimento, il legislatore si è senza dubbio ispirato (pur senza riprodurlo pedissequamente) al modello del “ritardato pagamento” sufficiente a consentire la risoluzione per inadempimento del contratto nella disciplina del credito fondiario. Anche con riferimento a tale prescrizione, peraltro, ci si potrebbe domandare se la previsione di una “soglia minima” al di sotto della quale non può parlarsi di inadempimento valga automaticamente a considerare quest’ultimo come “rilevante” ai fini realizzazione della condizione sospensiva. Al riguardo, però, mette conto di evidenziare che l’art. 40, co. 2, t.u.b. descrive una ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento, rispetto alla quale non sembra potersi eludere la successiva ed ulteriore valutazione della “importanza” del medesimo ai sensi dell’art. 1455: mentre analoga considerazione non risulterebbe pertinente nel contesto dell’art. 48-bis, nel quale, invero, non viene invocato un meccanismo risolutorio, differentemente da quanto il legislatore domestico ha previsto in fattispecie analoga in materia di “contratti di credito
33 Secondo Lamanna, “Decreto banche”, cit., p. 34, privilegiando una interpretazione a favore del debitore o comunque del terzo datore, si deve ritenere che il protrarsi dell’inadempimento per oltre nove mesi deve essere ininterrotto.
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ai consumatori relativi a beni immobili residenziali”, nel nuovo articolo 120-quinquiesdecies così come introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2016. In tale ultima disposizione sembra che, pur in caso di intervenuta stipulazione del patto marciano, il creditore resti comunque facultato a non fare luogo alla “appropriazione”, potendo invece determinarsi alla attivazione della espropriazione immobiliare (co. 6)34. La norma inoltre non getta luce sulla situazione che potrebbe determinarsi in caso di operatività di una delle fattispecie che legittimano il creditore ad invocare la decadenza dal beneficio del termine ai sensi dell’art. 1186 c.c.: in simile frangente, ferma la facoltà riconosciuta dalla norma codicistica al creditore, non sembra peraltro potersi ipotizzare un caso di attivabilità del patto, fermo restando che la sussistenza del patto trascritto consentirà al finanziatore, in caso di esecuzione sul diritto immobiliare oggetto del patto (promossa dallo stesso o da altro creditore) di ottenere un rango pari a quello ipotecario, in forza della espressa equiparazione compiuta nel comma 13-bis. L’evento che rappresenta la condizione sospensiva del patto non è invero individuato con espressioni univoche all’intero del disposto normativo: da un lato, infatti, si legge che tale evento è da intendersi come «l’inadempimento del debitore a norma del comma 5» (co. 1); successivamente, peraltro, si precisa che «la condizione sospensiva di inadempimento, verificatisi i presupposti di cui al comma 5, si considera avverata al momento della comunicazione al creditore del valore di stima di cui al comma 6 ovvero al momento dell’avvenuto versamento all’imprenditore della differenza di cui al comma 2, qualora il valore di stima sia superiore all’ammontare del debito inadempiuto, comprensivo di tutte le spese ed i costi del trasferimento». È infatti previsto che il creditore abbia l’onere di attivarsi, una volta che si sia realizzata la fattispecie di “inadempimento” così come descritta nel co. 5, notificando al debitore (o al “titolare del diritto reale immobiliare” qualora non coincida con il debitore) e a «coloro che hanno diritti derivanti da titolo iscritto o tra-
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Secondo Spataro, Finanziamento, cit., pp. 36-37, la risoluzione del contratto operata invocando un inadempimento “non qualificato” comporterebbe la caducazione del patto per venir meno del contratto principale. D’altra parte si può osservare come proprio la necessità di un inadempimento “qualificato” consenta di ipotizzare il caso di un patto stipulato (nelle residuali ipotesi in cui venga consentito dopo la stipula del contratto) in presenza di un inadempimento ancora “non qualificato”: non potrebbe in questo caso parlarsi di mancanza di causa dovuta al fatto della già intervenuta realizzazione della condizione (sul punto Cass., 21 gennaio 2016, n. 1075, in Giust. civ. Mass. 2016).
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scritto sull’immobile successivamente alla trascrizione del patto (…) una dichiarazione di volersi avvalere degli effetti del patto (…) precisando l’ammontare del credito per cui procede”35; intervenuto il decorso di sessanta giorni dalla notifica, è previsto che il creditore chieda “al presidente del tribunale del luogo nel quale si trova l’immobile la nomina di un perito per la stima, con relazione giurata, del diritto reale immobiliare oggetto del patto». Non sono previsti specifici requisiti soggettivi per il perito, se non il fatto che non potrà farsi luogo alla nomina di un perito quando egli versi in una delle condizioni che determinerebbero l’obbligo di astensione del giudice (stante l’espresso richiamo all’art. 51 c.p.c.); in questa prospettiva, il legislatore ha inteso, in sede di conversione del decreto legge n. 59, fare proprie le preoccupazioni (emerse con riguardo al testo originario del decreto) relative alla posizione di indipendenza del perito36, pur senza spingersi – come pure da alcuni auspicato anteriormente alla conversione in legge37 – al richiamo del regime delle responsabilità del consulente tecnico contenuto nell’art. 64 c.p.c. Quanto ai criteri che devono orientare l’attività di valutazione del perito, in sede di conversione del d.l. n. 59 si è precisato che il perito procede «in conformità ai criteri di cui all’art. 568 del codice di procedura civile». Oltre al richiamo ai criteri stabiliti dal codice di rito, si dispone anche, però, che «si applica l’art. 1349, primo comma, del codice civile», secondo cui «se la determinazione della prestazione dedotta in contratto è deferita a un terzo e non risulta che le parti vollero rimettersi al suo mero arbitrio, il terzo deve procedere con equo apprezzamento», aggiungendosi che «se manca la determinazione del terzo o se questa è manifestamente iniqua o erronea, la determinazione è fatta dal giudice». Orbene, il richiamo compiuto alla disciplina codicistica rischia di collidere con quanto stabilito all’interno dei co. 6 e 7 dell’art. 48-bis, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, per la circostanza che il riferimento all’equo apprezzamento rilevante ai sensi dell’art. 1349 c.c. mal si concilia con il criterio oggettivo del valore di mercato fatto pro-
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Secondo Spataro, Finanziamento, cit., p. 46, tale comunicazione comporterebbe automaticamente la decadenza del debitore dal beneficio del termine ex art. 1186 c.c. rispetto alle rate ancora non scadute. 36 Al riguardo si veda l’Audizione informale del 17 maggio 2016 dell’Associazione Nazionale Forense presso la Commissione Finanze e Tesoro del Senato. 37 Così nelle Osservazioni e proposte del CNDEC alla Commissione Finanze e tesoro del Senato, argomentando dal fatto che il perito è nominato dal giudice e quindi non opererebbe come mero “arbitratore”, sibbene come vero e proprio ausiliario del giudice.
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prio dall’art. 568 c.p.c., nella formulazione risultante dalla modifica operata dal d.l. n. 83 del 2015 (ed il cui richiamo nell’art. 48-bis è stato inserito, peraltro, in sede di conversione in legge del d.l. n. 59). In secondo luogo, con riferimento alla contestazione della valutazione effettuata dal perito, il richiamo codicistico sembrerebbe avere il valore di restringerne l’ambito ai soli casi di determinazione che risulti “iniqua” o “erronea” in modo manifesto. Sotto il primo aspetto, i profili di frizione potrebbero comunque essere temperati dalla considerazione che l’attività dell’arbitratore secondo il codice civile (quando non configurata dalle parti come “mero arbitrio”: art. 1349, co. 2), è ritenuta comunque ancorata ad un giudizio di tipo tecnico, avulso da discrezionalità di sorta38: di talché il richiamo in questo contesto della norma del codice di rito potrebbe essere riguardato come avente un valore piuttosto “conformativo” di quel giudizio tecnico39. Se mai, maggiori problemi genera il requisito del carattere manifesto dei “vizi” della determinazione dell’oggetto: infatti, non vi è necessaria correlazione tra la rilevanza del vizio ed il suo carattere manifesto, sicché in tal caso la posizione del finanziato potrebbe risultare pregiudicata da una valutazione del diritto immobiliare erronea, ma non manifestamente40. La valutazione viene operata in una sorta di “contraddittorio” con i soggetti interessati: è infatti previsto che «entro sessanta giorni dalla nomina, il perito comunica, ove possibile a mezzo di posta elettronica certificata, la relazione giurata di stima al debitore, e, se diverso, al titolare del diritto reale immobiliare, al creditore nonché a coloro che hanno
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Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, p. 904. Secondo Spataro, Finanziamento, cit., p. 48, il constrasto sarebbe solo “appartente”, in quanto il richiamo all’art. 1349, co. 1, c.c., in parallelo all’art. 568 c.p.c., «deve essere inteso nel senso di legittimare e dare conto dell’inevitabile componente soggettiva connaturata a ogni valutazione». 40 Secondo Lamanna, “Decreto banche”, cit., pp. 36-37, il richiamo all’art. 1349, co. 1, è «quantomeno ambiguo», rendendo non manifestamente infondato un dubbio di legittimità costituzionale della disposizione nel momento in cui consente «l’operare del patto marciano anche in presenza di una valutazione del bene o del diritto pattiziamente demandata ad un terzo arbitratore»; ciò a meno di non dare della disposizione una lettura «costituzionalmente orientata», nel senso, cioè, di ritenere che il rinvio all’articolo del codice sia da intendersi soltanto nel senso di implicare il potere delle parti di prevedere «(non già che un arbitratore di propria nomina ma) che il perito – che dovrebbe poi comunque essere nominato dal Presidente del Tribunale, e che dovrebbe avere requisiti di imparzialità – possa valutare il bene o il diritto oggetto della garanzia (solo) con equo apprezzamento (e non comunque con mero arbitrio)». 39
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diritti derivanti da titolo iscritto o trascritto sull’immobile». A seguito di tale comunicazione i destinatari possono, in un termine di dieci giorni, inviare “note” al perito, il quale, entro i successivi dieci giorni, «effettua una nuova comunicazione della relazione rendendo gli eventuali chiarimenti». Sembra di poter desumere dal tenore della norma che la nota non sia intesa unicamente a ottenere “chiarimenti” dal perito ma che, a seguito della stessa, il perito possa eventualmente rivedere anche il contenuto della sua valutazione, fermo restando, peraltro, il principio di una valutazione definitiva entro i dieci giorni dalla presentazione delle note. Resta peraltro poco chiaro (e, forse, poco logico) il motivo per cui, mentre la possibilità di presentare “note” è concessa alla platea di soggetti interessati individuata nel co. 6, il potere di vera e propria “contestazione” della stima sia rimesso, dal successivo co. 7, al solo debitore: probabilmente il disallineamento deve ascriversi alla circostanza che la comunicazione a soggetti ulteriori rispetto al debitore è stata prevista soltanto attraverso le modifiche apportate al comma 6 in sede di conversione del decreto (mentre il co. 7 è restato immutato). In ogni caso, la contestazione eventualmente sollevata dal debitore non comporterà la impossibilità per il creditore di avvalersi degli effetti del patto (si precisa, invece che, se mai, «l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare»): la scelta del legislatore appare molto drastica, non contemplando espressamente la possibilità di un intervento del giudice di tipo sospensivo41, che sembra peraltro da potersi comunque ipotizzare in sede cautelare. Per il regolamento contabile della differenza tra il valore di stima ed il credito rimasto inadempiuto il legislatore ha “presupposto” la presenza di un conto corrente bancario “senza spese” intestato al titolare del dirit-
41 In questo senso si esprimeva criticamente sul testo del d.l. n. 59 l’Unione Nazionale delle Camere Civili nelle Osservazioni sommarie all’art. 2 del Decreto Legge 3 maggio 2016 n. 59, evidenziando la necessità di una previsione espressa quanto al potere del giudice di sospendere, per gravi motivi, con o senza cauzione, gli effetti del patto, evidenziando il diverso e migliore trattamento del debitore in sede di esecuzione forzata, ove viene prevista la possibilità di una sospensione per opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 624 c.p.c. Secondo Riccio, Speciale Decreto Banche, cit., la previsione evidenzia un ulteriore profilo di incostituzionalità della disciplina in esame, ritenendo che il finanziatore dovrebbe invece poter conseguire la proprietà dell’immobile soltanto dopo un accertamento giurisdizionale (che, invece, con disparità di trattamento, è previsto quando sia già in corso l’esecuzione forzata). Il dubbio è condiviso da Lamanna, “Decreto banche”, cit., p. 38, che evidenzia come in tal modo «si intertizza l’eventuale fondatezza della contestazione».
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to reale immobiliare42 (di cui dovrà essere fatta menzione nel contratto di finanziamento: nei casi in cui è consentita l’introduzione del patto a fronte di finanziamenti pregressi, la previsione del conto sarà contenuta nell’atto di modifica). È singolare la circostanza che tale modalità non sia vista come eventuale o alternativa, quanto piuttosto come l’unica atta a consentire il regolamento della differenza: il che induce a ritenere che – con riferimento alla conclusione del contratto di conto corrente, funzionalmente collegato all’operazione di finanziamento – vengano meno – almeno per la banca finanziatrice, ove il titolare del diritto reale immobiliare intenda intrattenere il rapporto di conto corrente – i profili di piena autonomia negoziale quanto al perfezionamento del contratto stesso (ciò, evidentemente, non potrebbe sostenersi nel diverso caso in cui il finanziato intendesse perfezionare un contratto di conto corrente presso un soggetto diverso dal finanziatore – o già ivi lo intrattenesse al momento della concessione del finanziamento –, possibilità non esclusa dal testo del decreto, e che avrebbe comunque a necessariamente verificarsi ove il finanziamento venisse concesso non da una banca, sibbene da un intermediario finanziario ex art. 10643). È inoltre da prendere in considerazione non soltanto l’ipotesi – come visto espressamente contemplata dalla legge – nella quale il valore del bene risulti superiore all’ammontare del credito residuo, ma anche quella, contraria, in cui quest’ultimo risulti insufficiente a coprire l’importo delle pretese del finanziatore. In particolare, la legge non chiarisce se, per effetto dell’attivazione del patto, il creditore debba, a concorrenza del valore del diritto immobiliare trasferito, considerare estinte le sue pretese nei confronti del debitore. Non sembra che tale conclusione possa essere in alcun modo raggiunta sulla scorta della disciplina positiva: da un lato, la stessa equiparazione del patto ad una “garanzia” lascia intendere che, ferma la possibilità del creditore di avvantaggiarsene, non possa concepirsi una valenza satisfattiva del trasferimento, come se il titolo del trasferimento condizionato dell’immobile fosse riconducibile ad
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Infatti, per quanto la norma faccia espresso riferimento al solo «impenditore» – evidenzia giustamente Spataro, Finanziamento, cit., p. 50 – in caso di garanzia prestata da un tezo sarà a quest’ultimo che dovrà corrispondere la differenza. 43 In quest’ultimo caso, nota Lamanna, “Decreto banche”, cit., p. 33, sarà l’intermediario finanziario che dovrà accollarsi l’onere dell’apertura del conto presso una banca, e comunque implicherà un costo, dal momento che, evidenzia l’A., «la clausola senza spese è infatti da intendere solo a vantaggio del debitore e/o del terzo datore».
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una datio in solutum44; dall’altro lato, deve tenersi in considerazione il fatto che il patto può intercorrere non necessariamente con lo stesso debitore/finanziato, ma anche con un terzo: ciò che scinde ulteriormente la vicenda del bene da quella del credito. Ad ulteriore riprova, la circostanza che il legislatore del d.lgs. n. 72 del 2016 (di attuazione della direttiva 2014/17/UE, in materia di contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali) nell’introdurre una forma di “garanzia” analoga al “patto” di cui all’art. 48-bis, e volendo perseguire proprio l’obiettivo della estinzione del credito del finanziatore, ha dovuto precisare espressamente che il patto importa che «in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione dell’intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo» (art. 120-quinquiesdecies, co. 3., t.u.b.). Il silenzio del legislatore del decreto n. 59 sul punto deve dunque indurre a trarre, per il caso in esame, conclusioni opposte45. Sotto altro aspetto, non è neppure stabilito alcun divieto di attivare il patto quando il valore del diritto che ne costituisca l’oggetto superi quello del credito residuo per una ingente percentuale46: invero l’unico “correttivo” apportato dal legislatore in sede di conversione riguarda un allungamento del periodo di inadempimento necessario (da nove a dodici mesi)
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Era invece proprio questo l’auspicio manifestato da Confindustria nella Audizione Parlamentare del 17 maggio 2016 sul testo del d.l. n. 59 in corso di conversione, nella prospettiva di «conseguire quel ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco e in linea con quanto richiesto dal Parlamento in sede di recepimento della direttiva 2014/17/UE». 45 In senso contrario Ferretti, Prime riflessioni, cit., secondo il quale escludere l’effetto liberatorio del trasferimento comporterebbe l’insorgere di problemi di costituzionalità, proprio in considerazione del differente trattamento previsto nella disciplina del credito residenziale ai consumatori. Per Ambrosini, La rafforzata tutela dei creditori privilegiati nella l. n. 119/2016: il c.d. Patto Marciano, in Ilcaso.it del 25 agosto 2016, il silenzio del legislatore sul punto è fonte di una «perniciosa incertezza», riconoscendo che ad una soluzione esdebitatoria «non è del tutto agevole addivenire in via interpretativa», e che, anzi, la soluzione in senso non estintivo «appare la più coerente all’intentio legis e alla dichiarata funzione di garanzia dell’istituto». Esclude l’effetto esdebitatorio anche Spataro, op. cit., p. 54. 46 Anche tale preoccupazione era stata rappresentata da Confindustria nella audizione di cui alla nota che precede: l’Associazione paventava soprattutto che l’attivazione del patto in tali circostanze esponesse ad un rischio non accettabile di perdere un immobile eventualmente strumentale all’attività di impresa.
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nel caso in cui «alla data di scadenza della prima delle rate, anche non mensili, non pagate (…) il debitore abbia già rimborsato il finanziamento ricevuto in misura pari all’85 per cento della quota capitale» (co. 5).
7. Profili di opponibilità. Quanto ai profili di opponibilità del patto di trasferimento condizionato, dal contenuto dei commi 1, 5 e del 9 si evince che questo è oggetto di trascrizione (in particolare, è previsto che la nota di trascrizione debba indicare alcuni elementi costitutivi della nota di iscrizione ipotecaria di cui all’art. 2839, co. 2, c.c., specificamente indicati: l’importo della somma per la quale si effettua la trascrizione; gli interessi e le annualità che il credito produce; il tempo della esigibilità). La previsione risulta in linea con quanto previsto dall’art. 2659, co. 2., c.c., che implicitamente ammette che possano essere fatti oggetto di trascrizione atti sottoposti a condizione sospensiva (precisando unicamente che in questo caso «(…) se ne deve fare menzione nella nota di trascrizione»)47. Oltre agli effetti tipici della trascrizione, il comma 13-ter (inserito in sede di conversione in legge del d.l. n. 59) prevede che quest’ultima produca anche «gli effetti di cui all’art. 2855 del codice civile, avendo riguardo, in luogo del pignoramento, alla notificazione della dichiarazione di cui al comma 5». La previsione sembra riferirsi al caso in cui il diritto immobiliare oggetto del patto di trasferimento sospensivamente condizionato sia già in precedenza gravato da ipoteca (sembra di dovere intendere: a favore dello stesso soggetto acquirente), e regola perciò la misura del riconoscimento del grado ipotecario anche al credito per interessi. Ad avveramento della condizione, si procede ad una annotazione di cancellazione della condizione sospensiva. Questa previsione, invero, mostra tratti di frizione con la disciplina codicistica: giacché in quest’ultima l’avveramento della condizione sospensiva non è tecnicamente soggetto ad “annotazione” ai sensi dell’art. 2655 (il quale ultimo, infatti, prevede unicamente il caso della condizione risolutiva), ma (si ritiene autorevolmente48) ad una “cancellazione” (ai sensi dell’art. 2668, co. 3, c.c.) della indicazione della con-
47 Sul punto Mariconda, La trascrizione, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, XIX, Torino, 1985, p. 80. 48 Gazzoni, Manuale, cit., p. 940.
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dizione che sarà stata “menzionata” al momento della trascrizione ai sensi dell’art. 2659, co. 2, prima ricordato. Di tale circostanza sembra aver parzialmente preso atto il legislatore in sede di conversione del decreto n. 59, nel momento in cui ha precisato, nel co. 9, che l’annotazione di cancellazione della condizione sospensiva avviene «ai sensi dell’art. 2668, terzo comma del codice civile»: nondimeno esprimendosi in termini di “annotazione di cancellazione” (più correttamente, nel successivo co. 10, riferendosi al caso dell’avveramento della condizione nel corso di una procedura esecutiva, si parla di «annotamento ai fini della cancellazione della condizione»). Inoltre, allo scopo di pubblicizzare l’avveramento della condizione (onde procedere alla “annotazione di cancellazione”) è necessario che il creditore renda, “anche unilateralmente”, una dichiarazione all’interno di un “atto notarile di avveramento della condizione”. Tale dichiarazione, si precisa, dovrà essere resa a norma dell’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, ed in essa dovrà attestarsi anche «l’inadempimento del debitore (…) producendo altresì estratto autentico delle scritture contabili di cui all’articolo 2214 del codice civile». Anche in questo caso la previsione risulta in linea di sostanziale discontinuità con l’art. 2668, co. 3, c.c., a mente del quale «si deve cancellare l’indicazione della condizione (…) quando l’avveramento (…) della condizione (…) risulta da (…) dichiarazione, anche unilaterale, della parte, in danno della quale la condizione sospensiva si è verificata». La particolarità della previsione contenuta nell’art. 48-bis consiste, dunque, nel fatto che la dichiarazione non viene resa dall’alienante ma dall’acquirente: è verosimilmente questa la motivazione per la quale si prevede che la dichiarazione debba essere resa all’interno di un atto notarile, e con l’assunzione delle responsabilità previste dal dall’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000. La circostanza, inoltre, che il finanziatore dovrà produrre un estratto autentico delle scritture contabili assume rilievo nel momento in cui si faccia mente alla circostanza che il soggetto finanziato, come già evidenziato, è un imprenditore, rispetto al quale opererebbe il disposto dell’art. 2709 c.c. Tuttavia non può sfuggire la circostanza che, mentre il soggetto finanziato è da ritenersi necessariamente imprenditore, non altrettanto necessariamente può dirsi con riguardo al patto stipulato con un “terzo” titolare del diritto reale immobiliare. Ove, invece, l’obbligazione (“garantita”) di restituzione del soggetto finanziato risulti “estinta”, è previsto che, entro trenta giorni, il creditore provveda, mediante atto notarile,«a dare pubblicità nei registri immobiliari del mancato definitivo avveramento della condizione sospensiva». Della pubblicità di un mancato avveramento della condizione sospensiva, invero, non pare farsi cenno nell’art. 2668, co. 3, c.c.: tuttavia la dot-
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trina ha ritenuto che tale pubblicità sia possibile alla luce della espressione (invero ambigua), contenuta nella citata norma, di “mancanza della condizione” (che potrebbe far pensare sia ad una condizione sospensiva che ad una condizione risolutiva, se non fosse per la circostanza che la norma continua affermando che la pubblicità spetta alla parte in danno della quale “la condizione risolutiva è mancata”). In realtà anche in questo caso il legislatore ha operato una “scelta di campo” in un ambito in cui si confronta l’avviso di chi ritiene che il mancato avveramento della condizione sospensiva debba essere comunque annotato ai sensi dell’art. 2655 (ancorché non se ne faccia espressa menzione)49, e chi, al contrario, propende per la cancellazione dell’intero atto trascritto50. La norma pare comunque configurare il comportamento del finanziatore come obbligatorio.
8. La sottoposizione ad esecuzione forzata individuale o concorsuale del diritto reale immobiliare oggetto del patto. La “oscura” equiparazione del patto alla ipoteca “ai fini del concorso”. Regole particolari sono dettate per i casi in cui il diritto immobiliare oggetto del patto sia sottoposto ad esecuzione forzata per espropriazione o sottoposto ad esecuzione “esattoriale”; oppure per il caso in cui il titolare del diritto reale venga dichiarato fallito successivamente alla trascrizione del patto. Se il diritto reale, già fatto oggetto di patto precedentemente trascritto, viene sottoposto ad esecuzione forzata (le medesime disposizioni reggono “in quanto compatibili”, anche il caso della esecuzione esattoriale), si prevede che «l’accertamento dell’inadempimento del debitore è compiuto, su istanza del creditore, dal giudice dell’esecuzione», che vi provvede mediante ordinanza, mentre il valore di stima del diritto è determinato da un “esperto” nominato dal medesimo giudice51. Nella ordinanza con la quale compie
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Ferri e Zanelli, Della trascrizione, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, RomaBologna, 1995, p. 373; Cass., 17 dicembre 1991, n. 13589, in Giust. civ. Mass., 1991 (12). 50 Cass., 17 maggio 1974, n. 1468, in Giust. civ., 1974, I, 1748; in senso contrario Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, in Riv. dir. civ., 1991, I, p. 21. 51 Secondo Lamanna, “Decreto banche”, cit., p. 40, nel silenzio della norma dovrebbe ritenersi che in caso di procedura esecutiva il “patto” possa essere attivato solo a quando non si siano già prodotti gli effetti della aggiudicazione (anche provvisoria) e dell’assegnazione.
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l’accertamento dell’inadempimento, il giudice «fissa il termine entro il quale il creditore deve versare una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove vi siano, ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore a quello dell’istante ovvero pari all’eventuale differenza tra il valore di stima del bene e l’ammontare del debito inadempiuto». Sarà in questo caso proprio il giudice a dare atto dell’avveramento della condizione, a seguito dell’intervenuto versamento, con un proprio decreto, destinato ad essere annotato ai fini della cancellazione della condizione “menzionata” in sede di trascrizione del patto. La somma ricavata viene poi fatta oggetto di distribuzione secondo la disciplina dettata in tema di espropriazione immobiliare. La medesima disciplina (in quanto compatibile) determinerà l’attribuzione degli adempimenti facenti capo al giudice dell’esecuzione ed al giudice delegato (sentiti il curatore e il comitato dei creditori) - ma soltanto nel caso in cui il patto sia stato trascritto anteriormente alla dichiarazione di fallimento (deve intendersi: dalla iscrizione a Registro Imprese del provvedimento che dichiara il fallimento) – dietro richiesta del creditore, a patto che sia stato ammesso al passivo52. Resta da interrogarsi in merito al significato della previsione, introdotta in sede di conversione del decreto, nel co. 13-ter dell’art. 48-bis, secondo cui «ai fini del concorso tra i creditori, il patto a scopo di garanzia di cui al comma 1 è equiparato all’ipoteca». La previsione appare invero alquanto oscura: si è ritenuto che la precisazione sia essenzialmente finalizzata a stabilire un “limite” alla posizione del creditore “garantito” dal patto rispetto agli altri creditori. Si ritiene, cioè, che la norma sia intesa a fare in modo che la “attribuzione patrimoniale” del primo non ecceda quella che spetterebbe al titolare di un ipoteca sul medesimo immobile53. Appare arduo, ancorché suggestivo, ritenere che
52 Evidenziano criticamente l’estensione dell’applicazione della disciplina anche ai casi di procedimenti esecutivi o fallimentari (in quanto capace di ledere i diritti degli altri creditori, già insinuati o procedenti) Buongiorno e Notarangelo, L’articolo 48 bis T.U.B. Prime note a margine dell’introduzione del patto marciano nel nostro ordinamento, in dirittobancario.it, giugno 2016. 53 Tale sembra essere l’avviso di Ferretti, Prime riflessioni sulle modifiche apportate in sede di conversione alle norme volte ad accelerare il recupero dei crediti bancari contenute nel “Decreto banche”, in dirittobancario.it, argomentando dalla circostanza che il co. 4 prevede che «qualora il finanziamento sia già garantito da ipoteca, il trasferimento sospensivamente condizionato all’inadempimento, una volta trascritto, prevale sulle trascrizioni e iscrizioni eseguite successivamente all’iscrizione ipotecaria». Secondo l’A., tale disposizione contemplerebbe una sorta di “conversione” dell’ipoteca in trasferimento sospensivamente condizionato. Per Lamanna, “Decreto banche”, cit.,
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tale “equiparazione” possa fondarsi sulla efficacia, per così dire, “prenotativa” della iscrizione ipotecaria già presa in ipotesi di successiva trascrizione, a favore del creditore ipotecario, del patto di trasferimento sospensivamente condizionato: e questo per il fatto che tale previsione ha per oggetto una fattispecie puramente eventuale (la preesistenza di una ipoteca, di cui tra l’altro non è declinato neppure il grado) in una ipotesi “residuale” (patto successivo alla concessione del finanziamento e per di più limitato ai soli contratti in corso alla data di entrata in vigore della norma). In realtà la concreta ragione della oscurità della norma risiede nel richiamo alla nozione di “concorso dei creditori”: appare ben problematico estendere ad un negozio (ancorché utilizzato in funzione di garanzia) la valenza di una garanzia in senso sicuramente tecnico, come quella ipotecaria54. D’altra parte, alcune ipotesi di concorso (sia nel caso di esecuzione individuale che in quello di esecuzione concorsuale) sono già prese in considerazione e disciplinate nei commi da 10 a 12. Si può allora ipotizzare che il “concorso” a cui la norma fa riferimento sia quello che si verifica nell’ipotesi in cui il diritto immobiliare oggetto del patto sia fatto oggetto di una esecuzione individuale o concorsuale senza che si sia verificato l’inadempimento ai sensi del co. 5, oppure laddove, verificatosi l’inadempimento, il creditore decida di avvalersi degli ordinari mezzi esecutivi, anziché “attivare” il patto55.
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p. 39, in questo caso «la condizione a cui è subordinato l’operare del trasferimento ha una efficacia ultraretroattiva, poiché non retroagisce solo alla data della trascrizione del patto, ma alla data antecedente dell’iscrizione dell’ipoteca». 54 Anche sulla base di considerazioni analoghe, nelle Osservazioni e proposte del CNDCEC al testo del d.l. n. 59 si suggeriva, invece, il riconoscimento in capo al finanziatore di un privilegio speciale. 55 Tuttavia, nota Lamanna, “Decreto banche”, cit., pp. 40-41, anche nel caso di attivazione del patto l’equiparazione all’ipoteca avrebbe comunque una qualche valenza, «in quanto il calcolo degli accessori, che incide sulla quantificazione del debito il cui ammontare va detratto dal valore del bene, non può che farsi, in caso di procedura esecutiva in corso, secondo le regole del concorso».
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Appunti sulle Sicaf. Profili societari Sommario: 1. Codice civile ed atipizzazione delle società per azioni. – 2. La tripartita articolazione della gestione collettiva del risparmio: una articolazione tripartita. – 3. Società di investimento a capitale fisso (Sicaf). – 3.1. Sicaf, Sicav e società per azioni di diritto comune. – 3.2. Sicaf e le c.d. società di partecipazione finanziaria. – 3.3. Sicaf e capitale sociale. – 3.4. Sicaf, conferimenti, versamenti ed apporti patrimoniali. – 3.5. Sicaf e strumenti finanziari partecipativi. – 3.6. Sicaf ed azioni. – 3.7. Sicaf e governo societario. – 3.7.1. Sicaf autogestite e Sicaf eterogestite. – 3.7.2. Sicaf e società partecipate. – 3.8. Sicaf e scioglimento. – 3.9. Sicaf ed operazioni straordinarie: fusione e scissione. – 4. Rilievi conclusivi.
1. Codice civile ed atipizzazione delle società per azioni. Il Codice civile viene profondamente inciso, soprattutto alla luce delle più recenti innovazioni della normativa di cui alla parte seconda, titolo terzo del t.u.f., in materia di gestione collettiva del risparmio e delle ragioni imposte dalla prassi, di derivazione per lo più anglosassone, da una serie di rilevanti innovazioni nell’ambito delle società per azioni. Una incisione, questa, che prova la graduale, concreta e forte affermazione del principio substance over form, foriera di differenti ed autonome forme, sorte per ragioni e con modalità diverse1.
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Marchetti, Casi di atipizzazione delle società per azioni, Intervento tenuto in occasione della Giornata di aggiornamento di diritto commerciale, Università Bocconi, Milano, 19 dicembre 2014. Tra i vari benefici ottenibili, si segnala l’aspetto fiscale, evidente se si considera la realtà delle società di investimento immobiliare quotate (SIIQ), società per azioni dedite alla attività di locazione immobiliare, residenti nel territorio nazionale, in possesso di requisiti fissati sotto il profilo, tra gli altri, del rapporto tra immobili posseduti ed attivo patrimoniale. Introdotte e disciplinate dalla L. 27 dicembre 2006 n. 296 e dal d.m. 7 settembre 2007 n. 174, esse sono state profondamente incise dall’art. 20 del d.lgs. 12 settembre 2014 n. 133 (c.d. “Sblocca Italia”), che ha inteso apportare talune modifiche al fine di superare le rigidità normative che ne hanno
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Una incisione, questa, che riflette la elaborazione concreta di un apparato di novità normative che costituiscono una selva difficilissima, a tratti inestricabile, in cui forte è l’influenza dell’Unione Europea, spesso realizzatrice di tali arcipelaghi e coacervi di direttive e disposizioni di non facile recepimento in un ordinato e completo orizzonte normativo2. Oicr (organismi di investimento collettivo del risparmio), Sicav (società di investimento a capitale variabile), Sicaf (società di investimento a capitale fisso), Oicvm UE (organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, caratterizzati da una frequenza quindicinale dei rimborsi, ai sensi della direttiva 2009/65/ce), Fia (fondi di investimento alternativi,
rallentato l’implementazione, quali i requisiti partecipativi dei soci, la gestione degli investimenti e la – inizialmente difforme – normativa fiscale rispetto ai fondi immobiliari, così rendendo assolutamente neutra l’opzione tra i due strumenti. Esse sono sottoposte ad un regime speciale, che si sostanzia in modo particolare in una ritenuta pari al 20% sull’ammontare degli utili distribuiti ai partecipanti, nonché nell’esenzione da Irap ed Ires per quanto attiene al reddito d’impresa derivante da attività di locazione. Peraltro, al fine di godere del regime agevolato, risulta necessario optare irrevocabilmente per esso entro la fine del periodo di imposta antecedente a quello di riferimento per l’esenzione stessa. Cfr., Agenzia delle Entrate, Scheda informativa, consultabile all’indirizzo http:// www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Home/CosaDeviFare/Richiedere/ Regimi+Opzionali/Opzione+SIIQ+e+SIINQ/SIIQ+e+SIINQ+SchedaInfo/; F. Annunziata, UCITS, OICR, SGR, SIIQ, FIA, SICAF... guazzabuglio di sigle o disegno coerente?, intervento tenuto in occasione della Giornata di Aggiornamento di diritto commerciale, Univeristà bocconi, Milnao, 19 dicembre 2014; Dezza, Sorgente Res si prepara a diventare Siiq per approdare al listino, 8 dicembre 2014, consultabile all’indirizzo www.casa24. ilsole24ore.com; Lops, Le Siiq spingono l’immobiliare: comparto sugli scudi grazie alle semplificazioni dello Sblocca Italia, 4 dicembre 2014, consultabile all’indirizzo www.casa24.ilsole24ore.com; Giannantonio e Bighignoli, Decreto Sblocca-Italia: le modifiche al regime SIIQ, in Diritto Bancario, ottobre 2014, consultabile all’indirizzo www.dirittobancario.it; Grea e Schiavo, Il nuovo regime delle SIIQ: complementarietà o alternativa con i fondi immobiliari, in Diritto Bancario, ottobre 2014, consultabile all’indirizzo www.dirittobancario.it; Dezza, In Borsa attese dieci nuove Siiq nei prossimi anni, in Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2014, consultabile all’indirizzo www.casa24. ilsole24ore.com; Citarella, Le proposte di modifica al regime fiscale delle SIIQ nel DDL collegato alla Legge di Stabilità 2014, in Diritto Bancario, novembre 2013 consultabile all’indirizzo www.dirittobancario.it; in tema di SIP. Ludovici, SICAF sotto la lente: i nuovi fondi chiusi e le opportunità di mercato; Cassatella, Il decreto attuativo della finanziaria 2007 in materia di società di investimento immobiliare, in Giorn. dir. amm., 2008, p. 375 ss. e Pischetola, Conferimento di immobili in società di investimento immobiliare (SIIQ e SIINQ) e fiscalità indiretta, Studio Consiglio Nazionale del Notariato n. 982002/T, consultabile all’indirizzo www.notariato.it. 2 Marchetti, Casi, cit.
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ue o non ue), etf (exchange traded funds)3, Oicr master e feeder4, Sgr (società di gestione del risparmio), Gefia (gestori di fondi alternativi), EuVeVa Funds (European Venture Capital Funds, introdotti dal regolamento 345/2013), EuSEFs (European Social Entrepreneurship Funds, introdotti dal regolamento 346/2013) ed ELTIFs (European Long Term Investment Funds)5 rappresentano infatti i tasselli di un quadro com-
3 Appartenenti alla categoria degli Oicr di tipo indicizzato o a “gestione passiva”, nati al fine di soddisfare le concrete esigenze degli investitori istituzionali nonché di consentire agli investitori tanto i vantaggi della liquidità, flessibilità e quotazione in Borsa (caratterizzanti i titoli azionari) quanto quelli dell’accesso, diversificazione e regolamentazione (solitamente propri dei fondi comuni), essi – noti anche come Trackers – hanno origine agli inizi degli anni Novanta nel mercato mobiliare del Nord America, precisamente, canadese prima e statunitense poi. Le peculiarità che li caratterizzano implicano la necessità di talune esenzioni rispetto al regime normativo tradizionalmente previsto per i fondi comuni di investimento, rispetto ai quali si differenziano sia per modalità di emissione e di rimborso sia per modalità di negoziazione. Caratterizzati da maggiore efficienza fiscale, diversificazione del rischio (consentendo di investire in un gruppo di società e non solo, come accade per i titoli azionari, in un’unica società) e costi di gestione inferiori. Per un più ampio inquadramento si rinvia a Aa.Vv., Tutti gli strumenti del risparmio: dai titoli di Stato agli hedge fund, dalle azioni agli Etf, a cura di Liera, Il Sole 24 Ore, Milano, 2006; Mazzola e Fuso, Investire in ETF : la sfida ai fondi comuni e alle gestioni, Milano, 2004; Gastineau, Exchange Traded Funds. An Introduction, in The Journal of Portfolio Management, 2001, vol. 27, n. 3. 4 Sfameni e Giannelli, Diritto degli intermediari e dei mercati finanziari, Milano, 2013, 190 e Annunziata, UCITS, OICR, SGR, SIIQ, FIA, SICAF... guazzabuglio di sigle, cit., ove, sebbene in diverso contesto, l’A. rileva come «[l]a forma dell’Oicr, le sue caratteristiche si sono frammentate in una serie di tipi e sottotipi, frutto di scelte specifiche e particolari». 5 L’introduzione di una realtà ulteriore è dovuta, alla luce dei consideranda (in particolare, v. Consideranda n. 1-4) esposti nel documento del Consiglio dell’Unione Europea, n. 16386/14, datato 5 dicembre 2014 (“Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on European Long-term Investment Funds (ELTIFs) - Approval of the final compromise text”), ad una serie di considerazioni essenziali: «(1) Long-term finance is a crucial enabling tool for putting the European economy on a path of sustainable, smart and inclusive growth, in accordance with the Europe 2020 strategy, high employment and competitiveness for building tomorrow’s economy in a way that is less prone to systemic risks and is more resilient. European long-term investment funds (ELTIFs) provide finance to various infrastructure projects, unlisted companies or listed small and medium-sized enterprises (SMEs) of lasting duration that issue equity or debt instruments for which there is no readily identifiable buyer. By providing finance to such projects, ELTIFs contribute to the financing of the Union’s real economy and the implementation of its policies. (2) On the demand side, ELTIFs can provide a steady income stream for pension administrators, insurance companies, foundations, municipalities and other entities that face regular and recurrent liabilities and are seeking long-term returns within well- regulated structures.
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posito ed articolato, attuale e rilevante, complesso e – ciò nonostante – soggetto ad una espansione costante ed esponenziale6.
While providing less liquidity than investments in transferable securities, ELTIFs can provide a steady income stream for individual investors that rely on the regular cash flow that an ELTIF can produce. ELTIFs can also offer good opportunities for capital appreciation over time for those investors not receiving a steady income stream. (3) Financing for projects, regarding transport infrastructure, sustainable energy generation or distribution, social infrastructure (housing or hospitals), the roll-out of new technologies and systems that reduce use of resources and energy or the further growth of SMEs, can be scarce. As the financial crisis has shown, complementing bank financing with a wider variety of financing sources that better mobilise capital markets could help tackle financing gaps. ELTIFs can play a crucial role in this respect, and also can mobilize capital by attracting third country investors. (3a) The focus of this Regulation is to boost European long-term investments in the real economy. Long- term investments in projects, undertakings and infrastructure in third countries can also bring capital to ELTIFs and thereby benefit the European economy. Therefore such investments should not be prevented. (3b) While individual investors may be interested in investing in an ELTIF, the illiquid nature of most investments in long-term projects precludes an ELTIF from offering regular redemptions to its investors. The commitment of the individual investor to an investment in such assets is by its nature made to the full term of the investment. ELTIFs should, consequently, be structured in principle so as not to offer regular redemptions before the end of life of the ELTIF. (4) In order to incentivize investors, in particular retail investors, who might not be willing to lock-up their capital for a long period of time, an ELTIF should be able to offer under certain conditions early redemption rights to its investors. Therefore, the ELTIF manager should be given discretion to decide whether to establish ELTIFs with or without redemption rights according to the ELTIF’s investment strategy. When a redemption rights regime is in place, those rights and their main features should be clearly predefined and disclosed in the rules or instruments of incorporation of the ELTIF». 6 D’Agostino, Evoluzione del quadro normative europeo sugli “strumenti di finanziamento della crescita”. Le sfide alla crisi tra tutela degli investitor ed efficienza dei mercati finanziari, in Finanziare l’Economia in tempo di crisi. Le risposte dei mercati, il ruolo degli intermediari, gli orientamenti delle autorità, interventi tenuti nell’ambito del seminario su L’industria bancaria verso gli anni 2020: rigenerazione manageriale in Castello dell’Oscano, a cura di Zadra, Masera, D’Agostino, Barbagallo, Quaderno n. 281 a cura dell’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa, Perugia, 2014, p. 57 ss., p. 60, e spec. p 66 ss. e tavv. 2-3-4, e Annunziata, UCITS, OICR, SGR, SIIQ, FIA, SICAF... guazzabuglio di sigle, cit. Per una panoramica sulla gestione collettiva del risparmio ed aspetti peculiari rilevano in particolare i seguenti contributi: Passador, La mano “visibile” del legislatore europeo: il risparmio gestito dalla AIFMD al TUF, in Contr. e impresa Europa, 2016, n. 1, pp. 99 ss., Caporale e Nicastro, I fondi immobiliari ad apporto: aspetti normativi, in I fondi immobiliari ad apporto specializzati, a cura di Cacciamani, Milano, 2012, p. 37 ss.; Gentili, Jannoni e Mastrangelo, Le Sicav: strumenti flessibili per la gestione del risparmio, Studi e tendenze, Roma, 2010; Gentili e Nava, I gestori del risparmio: Sgr, Sim, Sicav, fiduciarie,
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Una espansione, quella di cui si è detto, che necessariamente deve portare con sé anche una revisione del previgente sistema di definizioni, «con uno sforzo di complessiva razionalizzazione che, ancorché non del tutto compiuto, può ritenersi apprezzabile in direzione di una più chiara descrizione delle fattispecie rilevanti nella materia in esame»7.
banche specialistiche e reti di vendita, Roma, 2006; Moro Visconti e Gentili, Come valutare gli intermediari finanziari: Sim, SGR, fiduciarie, fondi chiusi e SICAV, hedge fund, fondi immobiliari, venture capital e private equity, holding, broker assicurativi, money transfer, securitization, Roma, 2005; Resti, Gli assetti del risparmio gestito e il comportamento dei global players, in Quaderni di ricerche, n. 26, a cura dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Einaudi, 2002; Nctm, Studio Legale Associato, Gli organismi d’investimento collettivo del risparmio: outsourcing, disciplina tributaria delle SGR e delle SICAV, il nuovo piano dei conti per i fondi comuni d’investimento, in Il Sole 24 Ore, Milano, 2002; Bernini, Obbligazioni indicizzate a fondi e SICAV, Studi e analisi finanziaria. 2001-2005, Working paper, Intesa Bci, Milano, 2001; Corrado, La disciplina del mercato mobiliare: dal diritto della borsa al testo unico della finanza, Padova, 2001; Assogestioni, La disciplina delle gestioni patrimoniali: SGR, fondi comuni e SICAV, Quaderni di documentazione e ricerca, n. 23, Banc., Roma, 2000; Annunziata, Gestione collettiva del risparmio e nuove tipologie di fondi comuni di investimento, in Riv. soc., 2000, p. 350 ss.; Sepe, Il risparmio gestito, Bari, 2000; Visentini, La gestione del fondo da parte delle SGR: inquadramento giuridico, in Assogestioni, Quaderni di documentazione e ricerca n. 23, Roma, 2000; Fabbri, Tendenze evolutive della regolamentazione del risparmio gestito in Europa, in Quaderni di ricerche n. 33, a cura dell’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Einaudi, 1999; Assogestioni, L’evoluzione del risparmio gestito nello sviluppo dei mercati finanziari, in Quaderni di documentazione e ricerca, Roma, 1996; Gandini, Partecipazione a fondi comuni di investimento e certificato cumulativo, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, p. 477 ss.; Antonucci, Le società d’investimento a capitale variabile, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, p. 99 ss., p. 115; Salanitro, Società per azioni e mercati finanziari, Milano; Angelici et al., Le società di investimento a capitale variabile: (commento al d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 84), a cura di Lener, in Quaderni di diritto commerciale europeo, n. 5, Torino, 1994. 7 Sandrelli, Raccolta di capitali e attività di investimento. Note sulla nozione di «organismo di investimento collettivo del risparmio» a seguito dell’attuazione della direttiva sui fondi alternativi, in Riv. soc., 2015, p. 367 ss., p. 394 e nt. 16. L’A. prosegue poi rilevando come «[p]er la verità, sul piano del coordinamento tra norme, il rischio di ricadere in un gioco non razionale di definizioni che si richiamano a vicenda non appare del tutto scongiurato», in quanto analizzando il concetto di “organismo di investimento collettivo del risparmio” e di “gestione collettiva del risparmio”, si deriva «la sensazione che la legge persista, in realtà, nell’alimentare un meccanismo di definizioni ancora parzialmente irrazionale».
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2. La tripartita articolazione della gestione collettiva del risparmio. Il presente lavoro – che intende anzitutto fornire una visione d’assieme sulla forma di gestione collettiva del risparmio di più recente introduzione nel contesto socio-economico del nostro Paese - superando il monopolio bancario in tal senso8 – tratta dunque i profili riguardanti le Sicaf. È chiaro come la direttiva, anziché regolare la gestione stessa, si focalizzi sulla disciplina dei soggetti che si occupano della gestione: una scelta connessa alla «esigenza di disciplinare un fenomeno che, come dimostrato dalle difficoltà finanziarie emerse in anni recenti, può contribuire a diffondere o amplificare i rischi sistemici sui mercati in ragione delle strategie utilizzate nella gestione dei fondi […] poiché sarebbe stato impossibile armonizzare tipi di organismi di investimento collettivo estremamente diversi per natura, oggetto dell’investimento e regole di funzionamento. [Peraltro, l]a descritta dicotomia tra disciplina del prodotto e regolamentazione del gestore ha impedito la formazione di un concetto comunitario di “gestione collettiva trasversale, che comprenda qualunque tipologia di organismo collettivo. Da qui la doppia autorizzazione richiesta dalla Aifmd»9. Sebbene dotate di tratti difformi, le forme di gestione del risparmio sono sottoposte alle medesime regole di comportamento, ai medesimi obblighi di correttezza, ai sensi dell’art. 40 t.u.f.: «a) operare con diligenza, correttezza e trasparenza nell’interesse dei partecipanti ai fondi; b) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti; c) adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti ai fondi»10. Ciascuna fattispecie oggetto di esame ricade appieno in almeno una delle realtà che si individuano nella essenziale bipartizione tra Oicr aperto e chiuso: da un lato,
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Per un approfondimento in linea generale, si rinvia a Lemma, Le società di gestione del risparmio, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2010, p. 674 ss. 9 Lener e Petronzio, La gestione collettiva del risparmio a quindici anni dal t.u.f., Paper presentato al convegno organizzato dall’Università Bocconi, A quindici anni da. T.u.f. Bilanci e prospettive, Milano, 13-14 giugno 2013, in Riv. dir. comm., 2014, p. 383 s., p. 388 s. e nt. 20-21. 10 Tali regole sono inoltre riprese dall’art. 48 del Regolamento Consob n. 11522, datato 1 luglio 1998, attuativo del d.lgs 24 febbraio 1998, n. 58, che analizza la questione in senso ancora più ampio.
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fondi comuni di investimento11 ovvero società di investimento a capitale variabile (Sicav, realtà nata nel 1992, sebbene oggi non esista nell’ordinamento nazionale nemmeno una realtà di diritto italiano sottoponibile ad analisi)12; dall’altro, fondi comuni di investimento ovvero società di investimento a capitale fisso (Sicaf)13. Rimanendo immutato il carattere riservato di tale servizio di gestione collettiva, la progressiva evoluzione normativa ha tuttavia dimostrato una apertura nei confronti di diversi soggetti abilitati a prestarlo: sebbene sottoposte a talune limitazioni, a tali realtà si aggiungono le società di gestione autorizzate in altri Stati Membri, ai sensi della Ucits IV14, nonché
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«La storia dei fondi comuni di investimento, così come quella di ogni altra istituzione bancaria, finanziaria e assicurativa, affonda le proprie radici nella notte dei tempi. L’idea di investire collettivamente per diversificare il rischio, assumere le migliori risorse professionali e sfruttare le economie di scala nel processo organizzativo non ha visto la luce negli Stati Uniti con la crisi del ‘29, come a volte si racconta. Laddove ha prosperato una classe media di commercianti e artigiani si trovano tracce di questa potente idea: unire i risparmi, affidarsi a investitori capaci e affrontare i rischi e le opportunità di un mondo incerto. (…) I fondi comuni di investimento rappresentano nei paesi avanzati l’istituzione per sua natura più democratica e più vicina alle esigenze del risparmiatore. Entrati ormai nella maturità per esperienza professionale, per dimensione degli attivi gestiti e per ruolo di sostegno alle imprese, possono guardare con orgoglio al contributo che hanno saputo dare allo sviluppo economico e civile dell’Italia. Ma, se ci stacchiamo dai capovolgimenti del breve termine e assumiamo, come è nel nostro codice genetico, in un’ottica di lunga durata, vediamo con chiarezza che il risparmio gestito non solo vanta una storia autorevole, ma è destinato a svolgere una funzione sempre più preminente nel nostro sistema economico», così Rota, Breve storia dei fondi comuni in Italia, 2014, cui si rinvia per una efficace overview sull’argomento, unitamente al contributo di Sfameni e Giannelli, Diritto degli intermediari, cit., p. 214 ss. 12 «Nell’attuale mercato domestico, le Sicav sono quasi assenti, essendo assolutamente prevalente il modello di gestione collettiva strutturato sul binomio Sgr-fondo», così in Lener e Petronzio, La gestione, cit., p. 385. 13 Passador, La mano, cit., p. 131 . 14 Tale possibilità era già stata tratteggiata nella direttiva 2001/107/CE (c.d. Direttiva gestore). Pur tuttavia, l’obbligo di costituzione e stabilimento sia dei fondi sia di società di gestione nello Stato Membro costituiva ostacolo invalicabile per la loro applicazione sino, appunto, all’intervento della Ucits IV. Cfr. D’Apice, Commento sub artt. 41 – 41bis del t.u.f., in Il Testo Unico della Finanza. Leggi commentate, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 632 ss. Il c.d. passaporto del gestore, che permette la gestione transfrontaliera all’interno dell’Unione di oicr armonizzati, può essere ottenuto anche da gestori che abbiano in uno Stato terzo la propria sede legale, così permettendo ad Aifm la gestione – dall’estero – di fondi italiani, siano essi Aifm europei o meno. V. Zetzsche, The Alternative Investment Funds, in International Banking and Finance Law Series, Amsterdam, 2012, XVI, p. 367 ss.; Luciano, La direttiva sui gestori di fondi di investimento alternativi, in Contr. e impr. Europa, 2011, p. 638 s., Guffanti, La Direttiva sui fondi
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i managers di fondi di investimento alternativi autorizzati tanto da Stati Membri quanto da Stati non appartenenti all’Unione. A dispetto delle innovazioni, il catalogo delle forme con cui la gestione collettiva del risparmio si può svolgere concretamente non è però variato e continua ad annoverare due forme di gestione “in monte”15: una forma contrattuale ed una statutaria, altresì nota come societaria, rispetto alla scelta della quale le direttive europee si pongono in senso neutrale. Ponendo mente alla prima forma, quella contrattuale, patrimonio dei soci e dei partecipanti al fondo non coincidono, sebbene quello del fondo – a propria volta suddiviso in quote ed oggetto di diritto di credito da parte dei partecipanti – non costituisca un patrimonio separato ai sensi della disciplina societaria e su di esso mai possano essere ammesse azioni dei creditori della sgr chiamata a gestire quello od altri fondi16.
alternativi: prime considerazioni, in Le società, 2011, p. 1182 ss., p. 1192 s. 15 «[S]i deve al progetto De Gregorio di riforma della disciplina delle società commerciali (del 1965) il primo tentativo italiano di definire, in termini normativi, l’attività caratteristica delle società di investimento” dedite all’impegno “in monte” dei capitali raccolti presso un pubblico di azionisti-risparmiatori. La questione si ripropose nei decenni successivi lungo l’articolato percorso di costruzione della disciplina del risparmio gestito in Italia. E, al di fuori del contesto della gestione collettiva, il problema di definire il contenuto delle attività di investimento soggette a vigilanza affiorò – anche se in termini parzialmente diversi – nel dibattito sui servizi “parabancari”, allorché si trattava di individuare le caratteristiche dell’attività di “assunzione di partecipazioni nei confronti del pubblico (…) rispetto alla attività di investimento tipica delle holding (…)», v. Sandrelli, Raccolta, cit., p. 416 s. e nt. 78-79. 16 Pare essenziale ricordare, in argomento, come il fondo non sia dotato per se di personalità giuridica ad opinione di autorevole dottrina, giurisprudenza di legittimità e merito. Cfr., sul punto, rispettivamente, Ferro-Luzzi, Un problema di metodo: la natura giuridica dei fondi comuni di investimento (a proposito di Cass. 15 luglio 2010, n. 16605), in Riv. soc., 2012, p. 751 ss. e De Paoli, Schirru e Tonini, La vexata quaestio della soggettività dei Fondi comuni di investimento immobiliare: evoluzione giurisprudenziale e riflessi operativi, in FederNotizie, 2014, IV, p. 12 ss., p. 23 s.; Cass., 15 luglio 2010, n. 16605, in Giur. comm., 2011, II, 1128, con nota di Scano e Ghigi; in Foro it., 2011, I, 1853, con nota di Pellegatta; in Le società, 2011, 46, con nota di Brutti; in Giur. it., 2011, 331, con nota di Boggio; in Contr., 2011, 27, con nota di Lamorgese; in Resp. civ., 2011, 124, con nota di Fantetti; in Giur. it., 2011, 1550 (m), con nota di Rizzuti; in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, 417, con nota di Lemma, Gentiloni Silveri; in Società, 2011, 1057, con nota di Sansone; in Foro pad., 2012, I, 171, con nota di Colaiori; in Riv. not., 2011, 1421 ed in Rep. Foro it., 2011, Intermediazione e consulenza finanziaria [3655], n. 105; e Cass., 20 maggio 2013, n. 12187, in Riv. not., 2013, 744; in Rep. Foro it., 2013, Intermediazione e consulenza finanziaria [3655], n. 109; e con nota di Treccani, in Osservatorio del diritto commerciale, 24 giugno 2013; Trib. Roma, 20 maggio 2014, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 10595 - 16 giugno 2014, consultabile all’indirizzo www.ilcaso.it, con
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Volgendo invece lo sguardo alla seconda realtà, societaria, essa è utilizzata tanto dalle Sicav quanto dalle Sicaf. «Non potranno pertanto più residuare, al di fuori di questi due modelli, spazi liberi di movimento per “veicoli” societari di diritto comune, posto che gli stessi fenomeni dei c.d. family office o delle società di partecipazione finanziaria non sono neppure, di per loro, riconducibili al fenomeno della gestione collettiva del risparmio e, pertanto, non costituiscono propriamente una deroga alla disciplina applicabile […]»17. In relazione alle Sicav, patrimonio e capitale non sono tra loro distinti, il capitale è variabile, mentre il patrimonio è suddivisibile in comparti, emettendo differenti categorie di azioni riferibili a ciascuno, sebbene sottoposte a regime speciale. Per quanto attiene alle Sicaf, il patrimonio è suddivisibile anch’esso in comparti, secondo le medesime modalità appena riferite in materia di Sicav, tuttavia paiono porsi limiti alla creazione di categorie diverse di azioni per le Sicaf non riservate e regole specifiche per apporti e conferimenti, così distinguendo Sicaf riservate o meno18. Tra le due è possibile cogliere peraltro una differenza di fattispecie ed una differenza di disciplina. Da un lato, mentre le Sicav costituiscono la modalità di costituzione di un Oicr aperto (ai sensi della lett. i), co. 1, art. 1 t.u.f.), le Sicaf costituiscono la modalità di costituzione di un Oicr chiuso (ai sensi della lett. i-bis), co. 1, art. 1 t.u.f.). Il fatto che le Sicav siano un Oicr aperto presenta un riverbero proprio sul capitale sociale, stante il fatto che apertis verbis esse derogano in toto rispetto alla disci-
nota di Annunziata, Il fondo comune di investimento. Patrimonio separato e soggettività, consultabile all’indirizzo www.acfirm.it/; Trib. Milano, 3 ottobre 2013, in Giur. it., 2014, 1664; Trib. Milano, 30 maggio 2012, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 10675, 26 giugno 2014, consultabile all’indirizzo www.ilcaso.it; Trib. Milano, 29 marzo 2012, in Il Caso. it, Sez. Giurisprudenza, 10501, 04 giugno 2014, consultabile all’indirizzo www.ilcaso.it; Trib. Varese, 21 novembre 2011, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 9568, 14 ottobre 2013, consultabile all’indirizzo www.ilcaso.it. 17 Carrière, La riformulazione della riserva di attività alla gestione collettiva del risparmio e le SICAF: luci e ombre, in Riv. soc., 2014, p. 449 ss., p. 468 s. L’A., in virtù di tale asserzione, solleva una ulteriore, futura, problematica istanza: «si porrà allora il tema della trasformazione (in senso atecnico) delle “generiche” società di investimento o investment companies in Sicaf, tramite un’opera di adeguamento degli statuti sociali alle rigide previsioni oggi previste dalla nuova normativa, oltreché delle strutture organizzative e delle condotte questo risulti applicato al peculiare fenomeno economico in esame, di natura eminentemente gestoria e non, invece, di tipo classicamente imprenditoriale». 18 Annunziata, UCITS, cit.
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plina codicistica in materia di s.p.a., dalle norme in tema di aumento o riduzione di capitale rispetto a quelle sulle perdite ovvero sulle riserve, inter alia, a titolo di esempio, l’investimento promesso dai soci non funge anche da soglia al di sotto del quale la società non può distribuire ricchezza. Al contrario, la Sicaf mantiene la forma di una normale società per azioni, senza alterazione alcuna rispetto alla disciplina tradizionale del capitale sociale. Dall’altro, la raccolta19 nelle Sicaf può avvenire anche mediante strumenti finanziari partecipativi20. Si giunge così, alla luce del tratteggiato contesto, senza pretesa di completezza, ad esaminare i profili societari essenziali che caratterizzano le Sicaf, rivoluzionarie in quanto introducono l’elemento del voto capitario in una società a capitale non variabile.
3. Società di investimento a capitale fisso (Sicaf). Nel recepire la direttiva 2011/61/UE, il legislatore ha provveduto a colmare lacune, a ridefinire nozioni, a riformulare definizioni rilevanti “in maniera tecnicamente ben più corretta ed efficace”, a chiudere “varchi di ambiguità ermeneutica” e puntualizzare regolamentazione e vigilanza. “Secondariamente e conseguentemente”, esso ha inteso disciplinare nel nostro ordinamento le Sicaf, mediante uno «schema operativo positivamente autorizzato e disciplinato, compatibile (…) con lo svolgimento dell’attività sinora svolta da c.d. società di investimento o investment companies, schema operativo nel quale tali veicoli di private equity dovrebbero a breve “trasformarsi” (…)»21.
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Con essa si intende, propriamente, «una iniziativa, una attività di richiesta di fondi, non episodica ma stabile ed organizzata», come rileva Marchetti, Introduzione alla disciplina delle attività finanziarie della raccolta del risparmio tra il pubblico, in Attività finanziaria e raccolta del risparmio. Profili notarili, Atti della giornata di studio tenutasi in Milano il 26 ottobre 1996, Milano, 1998, p. 14. 20 A livello teorico si rileva dunque l’opportunità di suddividere in fase di “raccolta” e di “impiego” da parte degli Oicr, v. Sandrelli, Raccolta, cit., spec. par. 4 e 6 rispettivamente. 21 Carrière, Il difficile coordinamento della disciplina societaria primaria della SICAF con la disciplina societaria della società per azioni di diritto comune e della SICAV: proposta per una ricomposizione ermeneutica del quadro normativo della gestione collettiva del risparmio ad opera della normativa secondaria demandata a Banca d’Italia, Risposta alla Consultazione Pubblica: «iii) “Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio” della Banca d’Italia e disciplina del depositario (autorizzazione, compiti, obblighi e responsabilità)», 8 agosto 2014, consultabile all’indirizzo https://www.
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Definita al primo comma, lett. i-bis), art. 1 t.u.f., la società per azioni a capitale fisso con sede legale e direzione generale in Italia «avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante offerta di proprie azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi» ha facoltà di gestire il proprio patrimonio direttamente, ovvero affidandolo in gestione ad un soggetto esterno, chiamato a gestirlo collettivamente e rispettando le esigenze di standardizzazione sottese all’oggetto sociale esclusivo. Tuttavia, è opportuno precisare come una gestione in monte così delineata importi conseguenze contrastanti rispetto alla applicazione di regole codicistiche che consentono di creare categorie di azioni attributive di diritti patrimoniali diversi ai relativi possessori22 anche alle Sicaf, come la Relazione illustrativa prevede. Si assiste così ad una mutazione generica della gestione collettiva del risparmio, da un modello gestorio ad un modello imprenditoriale, capace di incrementare il patrimonio gestito e la sua redditività facendo ricorso alla leva finanziaria. In primis rileva l’estensione – più ampia rispetto al passato – della nozione di gestione collettiva del risparmio, concetto che a livello nazionale23 implica anzitutto il compimento di un servizio mediante «la gestione di oicr24 e dei relativi rischi», come precisa la lett. n), co. 1, art.
bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/consultazioni/2014/gestione-collettivarisparmio/commenti-ricevuti/CBA.pdf, p. 1. 22 Magliulo, Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova s.p.a., Milano, 2004, p. 79 ss. 23 Al contrario, a livello comunitario, «non sussiste […] un’analoga nozione di gestione collettiva, che permetta di subordinare l’esercizio dell’attività di gestione di organismi di investimento collettivo al rilascio di un’unica autorizzazione, a prescindere dal fatto che i fondi gestiti siano conformi alla direttiva Ucits IV. Questa circostanza deriva principalmente dal fatto che, mentre la direttiva originaria del 1985 ha avuto fin dalla sua introduzione e ha ancora oggi il primario scopo di armonizzare le regole sugli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) di tipo diverso da quello chiuso, destinati al pubblico indistinto, la AIFMD è incentrata sulla disciplina dei soggetti che esercitano l’attività di gestione di fondi alternativi, essendo nata dall’esigenza di disciplinare un fenomeno che, come mostrato dalle difficoltà finanziarie emerse in anni recenti, può contribuire a diffondere o amplificare i rischi sistemici sui mercati in ragione delle strategie utilizzate nella gestione di fondi liberamente regolamentati a livello nazionale. Il legislatore comunitario ha perciò disciplinato i gestori (in particolare, in punto di autorizzazione, funzionamento e trasparenza) e non (almeno nelle intenzioni) i fondi, poiché sarebbe stato impossibile armonizzare tipi di organismi di investimento collettivo estremamente diversi per natura, oggetto dell’investimento e regole di funzionamento», in Lener e Petronzio, La gestione, cit., p. 383 s., p. 387 s. 24 Il concetto risulta esplicato alla lett. k) del medesimo articolo, ove si definisce l’organismo di investimento collettivo del risparmio come una realtà «il cui patrimonio è
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1 t.u.f. Si tratta, dunque, di un servizio il cui oggetto esclusivo consiste nell’«investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni e di altri strumenti finanziari partecipativi» in virtù della esplicita (già citata) asserzione di cui alla lett. i-bis), co. 1, art. 1, t.u.f.25 Peraltro, nella disciplina secondaria vengono attratte attività di raccolta del risparmio con l’emissione ed offerta di quote od azioni, gestita in monte nell’interesse degli investitori, in autonomia26 rispetto ai medesimi, e di investimento del risparmio in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, a patto che anche queste ultime non risultino escluse ex art. 32-quater t.u.f. Si configurerebbero sicuramente come Sicaf, e non semplici società per azioni di diritto comune, le società in cui i gestori di fondi non armonizzati perseguano una politica di investimento predefinita, precisa, dettagliata27, vincolante in capo al gestore, dotata di connotati di “finanziarietà”, anche nell’ipotesi in cui oggetto dell’investimento siano attività reali, e al contempo detengano un patrimonio almeno pari a 500 milioni di Euro – ridotto a 100 milioni nella eventualità in cui gli oicr si avvalgano di leva finanziaria e rimborsino le quote prima di cinque anni dalla loro emissione (art. 3 direttiva). Cruciale è dunque, a tal fine,
raccolto tra una pluralità di investitori mediante emissione ed offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata». 25 Essa asserisce infatti che la Sicaf è, a tutti gli effetti, «un Oicr chiuso costituito in forma di società per azioni a capitale fisso con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni e di strumenti finanziari partecipativi». 26 Ardizzone, Il rapporto soci “gestori” e soci “investitori” nelle Sicaf, in Riv. soc. 2016, in corso di pubblicazione, spec. par. 2. 27 «Sul contenuto minimo della politica di investimento, gli Orientamenti dell’ESMA forniscono alcune esemplificazioni, poi riprese anche in sede nazionale, tra cui la definizione di strategie di investimento, di categorie di asset, di aree geografiche di investimento, (…) [che, in verità,] costituiscono indicatori dell’esistenza di una politica di investimento (…), ma non ne sono tutti elementi necessari. (…) Naturalmente, una definizione così “minimale” della politica di investimento non esclude che la miglior prassi di settore richieda al gestore uno sforzo superiore in termini di elaborazione ed accuratezza del contenuto del programma, così da renderlo maggiormente intellegibile agli investitori e indurne una maggiore consapevolezza della policy di gestione adottate. Ciò, tuttavia, non incide sulla questione della configurabilità (o meno) di una politica di investimento, ma attiene semmai al rispetto di standard di di adeguatezza organizzativa e di correttezza operativa cui il gestore di un Oicr è tenuto nei confronti della clientela», v. Sandrelli, Raccolta, cit., p. 423 s. e nt. 98.
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l’esatta definizione del primo requisito, che passa attraverso l’analisi delle disposizioni statutarie e parasociali, nonché degli accordi formali di investimento ed integrativi, sino a contemplare persino comportamenti fattuali concreti. Invero, «[l]’orientarsi dei prodotti finanziari verso l’investimento in attività reali (immobili, opere d’arte, ecc.) rende difficile tracciare una linea di distinzione netta, la quale finisce per essere ricavata da indizi esogeni (ad esempio: presenza di limiti di investimento; criteri di diversificazione delle attività; limiti di leva finanziaria; frequenza di movimentazione del portafoglio), anziché endogeni (i.e., la natura dell’attività)»28. Rilevano, dunque, a tal fine, gli intenti di lucro eventualmente generati dai disinvestimenti rispetto a società controllate o partecipate, come pure l’intenzione di porre in essere alcuni piani aziendali a (lungo?) termine29, volti ad incrementare il valore delle partecipazioni nell’ambito di sinergie imprenditoriali in orizzonti di lungo periodo e comportanti dunque l’intervento ed il voto in assemblee ordinarie, straordinarie o speciali, ossia, amplius, l’esercizio di diritti sociali. Al contrario, non paiono ricadere nella sfera di interesse le mere immobilizzazioni finanziarie in bilancio ovvero le plusvalenze realizzate con riguardo ad azioni, quote di partecipazioni in società od enti, deducibili rispetto all’imponibile fiscale in presenza di determinati requisiti. Una considerazione, questa, non immediata, dotata di complessità notevole ed intrinseca; la quale, ove i dubbi non fossero del tutto dipanati, renderebbe necessaria la valutazione della esimente di cui all’art. 32-quater, co. 2, lett. d), t.u.f. La raccolta di capitali si rivolge al pubblico, da intendersi lato sensu, senza differenziarne quindi «il livello di professionalità e “sofisticazione” dei destinatari della raccolta ed è, più radicalmente, irrilevante che il
28 Annunziata, UCITS, cit., il quale ha puntualmente rilevato la problematicità della connotazione finanziaria della politica di investimento soprattutto nell’ipotesi di società immobiliare ed anche la varietà delle possibili forme che essa può assumere ai fini della vincolatività rispetto al gestore. 29 Il punto, caratterizzato nella prassi da un ampio risvolto, appare tuttavia fortemente dubbio: per un verso, la nozione di Oicr e l’art. 32-quater t.u.f. fanno riferimento ad investimenti di lungo periodo, per altro verso immaginare una proiezione temporale di lungo corso applicata a fondi e Sicaf produrrebbe un impatto di notevole portata. Quanto ai primi, tale prospettiva sarebbe inimmaginabile, quanto alle seconde, invece, ciò comporterebbe il superamento dell’idea che il modello (contrattuale o societario) scelto sia equivalente, nonché a trascurare le ineluttabili implicazioni strutturali dei molteplici comparti.
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promotore della raccolta sia in grado di individuare a priori le caratteristiche della clientela»30. Essa è dunque aperta ad una “pluralità di investitori”, cifra distintiva dell’intera disciplina del risparmio gestito, che lo differenzia infatti rispetto al servizio di gestione individuale di portafogli. Può però risultare dubbio se l’espressione corrisponda sia al caso in cui vi siano più soggetti giuridici, e dunque una «pluralità effettiva (e non solo “formale”) di investitori», sia al caso in cui vi sia un solo soggetto, avente però «natura per così dire “esponenziale”, rappresentando gli interessi di una pluralità di investitori diversi»31. Al pari delle Sicav e di talune realtà straniere, anche in relazione alle Sicaf è possibile assistere, ai sensi dell’art. 38 t.u.f., ad una scissione tra il soggetto istitutore dell’organismo di investimento collettivo ed il soggetto gestore dello stesso: le società possono infatti assumere la gestione diretta del proprio intero patrimonio, ovvero avvalersi di un gestore esterno. Alternativamente, come previsto all’art. 33 t.u.f. e senza con questo essere private della responsabilità derivante dall’operato dei gestori delegati32, esse possono delegare specifiche funzioni, in senso conforme agli obblighi cui sono tenuti stanti le disposizioni di cui all’art. 6, co. 2-bis33, alle condizioni stabilite dall’art. 20, co. 1, della direttiva Aifm34.
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Sandrelli, Raccolta, cit., p. 399 e nt. 32. Nella normativa, Banca d’Italia, Regolamento Gestione Collettiva Risparmio, Titolo I, Capitolo I e, in dottrina, Sandrelli, Raccolta, cit., p. 410 ss. 32 Del resto esso non deve in alcun modo essere trasformato in una letter box entity, come ribadisce il comma terzo, art. 20, della direttiva AIFM. 33 «La Banca d’Italia e la Consob disciplinano congiuntamente mediante regolamento, con riferimento alla prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché alla gestione collettiva del risparmio, gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di: a) governo societario, requisiti generali di organizzazione, sistemi di remunerazione e di incentivazione; b) continuità dell’attività; c) organizzazione amministrativa e contabile, compresa l’istituzione della funzione di cui alla lettera e); d) procedure, anche di controllo interno, per la corretta e trasparente prestazione dei servizi di investimento e delle attività di investimento nonché della gestione collettiva del risparmio; e) controllo della conformità alle norme; f) gestione del rischio dell’impresa; g) audit interno; h) responsabilità dell’alta dirigenza; i) trattamento dei reclami; j) operazioni personali; k) esternalizzazione di funzioni operative essenziali o importanti o di servizi o attività; l) gestione dei conflitti di interesse, potenzialmente pregiudizievoli per i clienti; m) conservazione delle registrazioni; n) procedure anche di controllo interno, per la percezione o corresponsione di incentivi». 34 Precisamente, ai fini della delega, che non può in alcun modo essere conferita a depositari o soggetti in conflitto di interessi, bensì a soggetti dotati di particolari qualità, 31
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L’ambito di operatività dei gestori italiani viene definito a partire dall’art. 41 t.u.f., capo rubricato “Operatività transfrontaliera dei gestori”, rendendo così lecita l’operatività transfrontaliera diretta, o mediante succursali, o in libera prestazione dei servizi dei gestori italiani; nonché consentendo alle società di gestione basata in uno Stato Membro l’istituzione e la gestione di un Oicvm di diritto italiano, come pure di qualsiasi altro Stato Membro. Considerazioni affini si possono compiere anche quanto all’operatività dei gestori di fondi alternativi che abbiano come base uno Stato Membro (art. 41-ter t.u.f.), mentre regimi autorizzativi speciali e ad hoc sono dovuti nel caso in cui essi non abbiano come base uno Stato Membro (art. 41-quater t.u.f., in particolare al comma quarto). Infatti, sentita la Consob, si rende necessario l’intervento di Banca d’Italia, ai fini di stabilire: «a) le condizioni e la procedura per il rilascio dell’autorizzazione di cui al comma 1; b) le norme di attuazione delle disposizioni dell’UE concernenti le condizioni e le procedure che i GEFIA non UE autorizzati in Italia rispettano per operare in via transfrontaliera negli Stati dell’UE in conformità alle previsioni della direttiva 2011/61/UE e delle relative disposizioni attuative, fermo restando quanto previsto dal capo II-ter». 3.1. Sicaf, Sicav e società per azioni di diritto comune. Il legame tra Sicaf e Sicav – accennato in chiusura del terzo paragrafo – non è però, a ben vedere, tanto forte nella realtà delle cose35. Infatti, ben più ampio è il divario tra dette società di investimento rispetto a quello intercorrente tra Sicaf e società per azioni36. Vera e propria società per azioni, che si occupa dello svolgimento dell’Oicr in forma chiusa, essa presenta profili di sicuro interesse37. Operanti previa autorizzazione amministrativa della Banca d’Italia, sentita la Consob, al pari delle Sicav, le Sicaf nascono essenzialmente
debbono sussistere ragioni oggettive, autorizzazioni od approvazioni antecedenti per parte delle Autorità, cooperazioni proficue tra le medesime e garanzie ai fini della vigilanza. 35 V. anche Renzulli, La disciplina sui gestori di fondi di investimento alternativi, in Nuove leggi civ., 2015, p. 346 ss., spec. p. 382 ss. 36 Lener, Il modello della Sicaf. Punti di contatto e differenze con il modello della SICAV, Intervento in occasione del convegno “Sicaf sotto la lente: i nuovi fondi chiusi e le nuove opportunità di mercato”, a cura di Assogestioni, Milano, 16 ottobre 2014 e Notari, Le SICAF quotate: fattispecie, Intevento tenuto in occasione della Giornata di aggiornamento di diritto commerciale, Università Bocconi, Milano, 19 dicembre 2014. 37 Carrière, La riformulazione, cit., p. 449 ss.
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dalla opportunità di prevedere anche in Italia una forma di gestione collettiva del risparmio ampiamente diffusa all’estero, soprattutto in Paesi in cui si concentra una parte rilevante dell’industria europea, quali il Lussemburgo. La riforma in parola inserisce gli articoli da 35-bis a 35-undecies relativi alle sezioni II e III del capo I-bis. Nello schema di decreto le differenze tra Sicaf e Sicav sono limitate e la disciplina delle Sicaf mira ad un allineamento tra i regimi di vigilanza cui sono soggette, rispettivamente, le Sicaf e le Sgr con i relativi fondi chiusi, tenuto conto delle diverse caratteristiche strutturali di tali veicoli; nonché ad una notevolissima flessibilità di utilizzo, anche alla luce delle prassi di mercato circa la strutturazione degli schemi di investimento di natura societaria. Da un lato, le due forme societarie risultano analoghe per quanto attiene alle modalità autorizzatorie, peraltro prodromiche alla costituzione; alla ripartizione in “al portatore” o “nominative” (la detenzione di azioni al portatore potrebbe presentare conseguenze amplissime, così escludendo gli investitori dalla governance sociale38); alla facoltà che viene lasciata all’amministratore di scegliere il tipo di azioni da sottoscrivere, entro i limiti statutari fissati per l’emissione di azioni nominative; all’oggetto esclusivo l’investimento di patrimonio collettivo, temperato dalla possibilità di svolgimento delle attività connesse e strumentali previa autorizzazione di Banca d’Italia; al divieto di prestare servizi diversi dalla gestione collettiva del risparmio (alle Sgr è permesso di svolgere anche attività di gestione di portafogli, istituzione e gestione di fondi); alla facoltà di delegare a soggetti abilitati allo svolgimento dell’attività, nonché di designare a soggetti esterni, al momento della costituzione – una realtà che vede la Sicaf in guisa di mera promotrice dell’attività39. Dall’altro, la rimodulata nozione di “gestione collettiva del risparmio”, l’autentico significato della dicotomia che presenta la lett. d) dell’art. 32-quater, co. 2, gli aspetti inerenti al capitale, alle azioni ed ai diritti di voto meritano nel contesto de quo particolare rilievo. La disciplina delle Sicaf e delle Sicav pare «per un verso frutto di una incomprensione di fondo delle opzioni concettuali» caratterizzanti la realtà delle Sicaf «che si risolvono in una curiosa eterogenesi dei fini e, per altro verso, rischiano
38 Di qui, la considerazione tale per cui, ragionevolmente, a livello economico, non tutti gli strumenti della Sicaf di cui si è detto saranno implementati, 39 V., anche Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2014, p. 214.
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di avere ricadute travolgenti nel modello di riferimento, nonostante il legislatore si sia premurato di chiarire che, come già segnalato, “le differenze tra Sicaf e Sicav sono limitate”(!)»40. Rispetto alle società per azioni di diritto comune le Sicaf hanno come oggetto sociale esclusivo il c.d. “investimento collettivo del patrimonio”, raccolto ai fini del rispetto della riserva di legge, desumendo la politica di investimento dalla presenza di fattori quali la trasposizione di detta politica in documenti od accordi vincolanti per tutti i partecipanti, che integrino il regolamento o lo statuto dell’Oicr, ovvero la definizione delle sue linee generali al più contestualmente all’assunzione di un vincolo a conferire il capitale da parte degli investitori. Essa, vincolante per l’investitore, precisa altresì le strategie di investimento da seguire, le categorie di attività in cui l’Oicr intende investire ed i vincoli sulla allocazione degli investimenti, i limiti ed i profili di rischio, nonché la loro diversificazione, come pure il terzo professionalmente investito si affida in gestione il risparmio. In relazione alla disciplina della Sicaf viene naturalmente a mancare la corrispondenza, caratterizzante invece le Sicav, tra capitale e patrimonio netto, prima facie atta a garantire flessibilità ed a permettere apporti patrimoniali difformi rispetto al versamento di azioni, in un’ottica di modificabilità rispetto a quello che i documenti di consultazione hanno definito “il modello rigido di finanziamento della Sicaf proposto dalle nuove norme”: «gli schemi di investimento di natura societaria prevedono [infatti] di regola una struttura patrimoniale articolata in un capitale di entità ridotta e in una o più riserve di capitale in cui sono contabilizzati i versamenti degli investitori (per la parte degli impegni finanziari che supera il valore nominale delle rispettive azioni)»41. A ben vedere, però, il venir meno della coincidenza tra capitale e patrimonio è da ritenersi, nei fatti, persino più onerosa, ristabilendo la regolamentazione codicistica del capitale sociale e, precisamente, una serie di vincoli particolari a tutela dei creditori sociali che insistono rispetto alle molteplici aliquote in cui il patrimonio netto è strutturato. Il legislatore, intervenendo sull’impianto normativo del t.u.f. senza riportare la Grundnorm tale per cui il capitale della società deve essere uguale al patrimonio netto della socie-
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Carrière, La riformulazione, cit., p. 473 s. Carrière, Il difficile coordinamento, cit., ove l’A. ravvisa come detta espressione rinvenibile nella Relazione Illustrativa costituisca invero una criptica e programmatica affermazione. 41
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tà, ha quindi operato conformemente alle indicazioni programmatiche, «in accoglimento (acritico) delle voci che provenivano dal mercato»42. Non solo. In relazione a detta disciplina viene a mancare il divieto di emissione di categorie speciali di azioni, attributive di diritti patrimoniali diversi ai relativi possessori. Ne consegue la piena applicabilità alle Sicaf della disciplina codicistica ex art. 2348, co. 2 e 3, c.c. Parimenti, detta disciplina non rinnova il divieto a versare in più soluzioni la somma di denaro riferita alle azioni sottoscritte43, «a seguito dell’impegno dell’azionista ad effettuare il versamento a richiesta della Sicaf stessa in base alle esigenze di investimento», ai sensi della lett. e), co. 4, art. 35-quinquies, t.u.f. Da ultimo, rileva sottolineare come, mentre il divieto di emissione di obbligazioni vale tanto per le Sicav quanto per le Sicaf, tale divieto non risulta estendibile agli strumenti finanziari partecipativi per le Sicaf. Una previsione che non si pone in linea con la disciplina della direttiva, che compie riferimento in senso generale all’emissione di “quote od azioni” da parte dei fondi alternativi di investimento, e che dunque palesa la propria “eccentricità” rispetto al “modello storicizzato ed unico della gestione collettiva del risparmio”44. 3.2. Sicaf e le c.d. società di partecipazione finanziaria. «La ricostruzione generale delle forme con cui si presenta l’attività di investimento deve fare i conti con alcune fattispecie (potremmo dire “di confine”, ma piuttosto diffuse sul mercato) nelle quali non è sempre agevole distinguere tra attività di investimento rilevanti per il t.u.f. e attività di investimento collegate a schemi imprenditoriali di tipo differente. Un’area “di confine” […] è rappresentata dalle società che investono, in via prevalente, in partecipazioni societarie», la cui collocazione richiede invece un “supplemento di indagine”45. Ulteriore problematicità è data dalla distinzione tra Sicaf e le società di partecipazione finanziaria – non perfettamente sovrapponibili alle c.d. holding di partecipazione46 – problematicità che assume una eco
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Carrière, Il difficile coordinamento, cit., p. 7 s. Ampiamente in Angelici et al., Le società di investimento, cit., p. 41 ss. 44 Carrière, La riformulazione, cit., p. 478. 45 Sandrelli, Raccolta, cit., p. 430 ss. 46 La posizione è condivisa da Sandrelli, Raccolta, cit., p. 433. Contra, Carrière, La riformulazione, cit., spec. p. 468, il quale ritiene le società di partecipazione «fattispecie 43
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ancora più ampia con riferimento alle società quotate, la cui soluzione fornirebbe una risposta al seguente quesito: se le investment companies annoverate nell’elenco del Mercato telematico degli investment vehicles (miv)47 possano o meno diventare Sicaf. L’art. 32-quater, co. 2, lett. d), t.u.f. esclude infatti dalla riserva «società di partecipazione finanziaria, intese come società che detengono partecipazioni in una o più imprese, con lo scopo di realizzare strategie imprenditoriali per contribuire all’aumento del valore nel lungo termine delle stesse, attraverso l’esercizio del controllo, dell’influenza notevole o dei diritti derivanti da partecipazioni e che: 1) operano per proprio conto e le cui azioni sono ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato dell’Unione Europea; oppure 2) non sono costituite con lo scopo principale di generare utili per i propri investitori mediante disinvestimenti delle partecipazioni nelle società controllate, sottoposte a influenza notevole o partecipate, come comprovato dal loro bilancio e da altri documenti societari»48. Ne risulta un trattamento differenziato – a fortiori stante la congiunzione disgiuntiva “oppure” – per le società quotate (di cui al punto 1) e non quotate (di cui al punto 2), una distinzione tuttavia non agevolissima sulla base del dettato normativo. Comprendere appieno il significato della locuzione “operano per proprio conto”, tenendo a mente tanto il generale monito che impone alle società quotate in primis di tutelare l’interesse degli azionisti quanto la necessità di discernere tale questione dalla semplice articolazione interna alla società, rappresenterebbe la soluzione autentica del problema in questione. Trattasi però di un vero
sostanzialmente riconducibile alla “vecchia” holding statica di partecipazione ai sensi del previgente art. 113 t.u.b.», contrapposta a quella dinamica ex art. 106 t.u.b. 47 L’elenco è consultabile, aggiornato, all’indirizzo www.borsaitaliana.it. Tale mercato, «operativo dal maggio 2009, è un mercato regolamentato dedicato ai veicoli di investimento nel quale sono quotati oltre alle investment companies, i fondi chiusi (mobiliari e immobiliari), sia le Real Estate Investment Companies (REIC), gli Special Purpose Acquisition Companies (SPAC)», così in Carrière, La riformulazione, cit., spec. p. 465 e nt. 43. V., ampiamente, I mercati degli Investment Vehicles gestiti da Borsa Italiana e i nuovi AIFMD, Intervento in occasione del convegno “Sicaf sotto la lente: i nuovi fondi chiusi e le nuove opportunità di mercato”, a cura di Assogestioni, Milano, 16 ottobre 2014 e, con riguardo alle SPAC, Fumagalli, Lo sviluppo della SPAC (Special Purpose Acquisition Company) in Italia. Un nuovo modo di fare private equity e di quotare le imprese in Borsa, Milano, 2014. 48 Sia consentito rinviare alla riflessione sul profilo temporale dell’investimento, v. supra, nt. 27.
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busillis, in quanto soltanto le c.d. management companies possono con certezza essere considerate come società non operanti per conto proprio. Pensando alle operazioni quotate sul Miv, potrebbero essere utilizzati a tal fine i prospetti di quotazione elaborati dai promotori. Laddove essi indicassero unicamente il loro track record, la loro capacità di gestire somme investite, e percentuali di investimento minime, si tratterebbe di un fenomeno di gestione in monte di investimenti altrui. Diversamente, qualora avessero a raccogliere investimenti per la gestione in borsa e gli imprenditori svolgano in proprio e per proprio conto una attività caratteristica, parrebbe logico ritenere tale comportamento una gestione “per proprio conto”. 3.3. Sicaf e capitale sociale. Come accennato, la cifra distintiva il veicolo d’investimento societario in oggetto è il principio di fissità del capitale49, potendo infatti i soci richiedere il rimborso delle azioni secondo una scansione difforme rispetto a quella delle Sicav, al ricorrere di scadenze predeterminate, ovvero di peculiari eventi sociali, ai sensi delle previsioni statutarie che ne statuiscano modalità e frequenza. Focalizzando l’attenzione sulle Sicaf, la disciplina del capitale (art. 35-quinquies t.u.f.) è identica a quella delle società per azioni, con l’unica eccezione dell’artt. 2349, 2350 (co. 2 e 3), 2353 e delle disposizioni comprese tra l’art. 2447-bis ed il 2447-decies c.c., connesse al tema dei patrimoni destinati, le quali già costituiscono una sezione topograficamente autonoma rispetto alla disciplina del capitale sociale. Non risulta dunque assolutamente alterata la salvaguardia degli interessi dei terzi, la solidità della nozione di capitale, «strumento di disciplina economicofinanziaria del rapporto tra società e creditori sociali, volta a dettare un insieme di nome a tutela dell’effettività e della salvaguardia della consistenza patrimoniale della società»50. Quanto all’ammontare del capitale sociale minimo iniziale, interamente versato, esso deve risultare almeno pari ad un milione di euro, al fine di ottenere l’autorizzazione ad operare, secondo quanto stabilito dal
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Per tutti, Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Riv. soc., 1991, I, p. 11 ss., ove ampia è la notazione bibliografica. 50 Da ultimo, v. Munari, Impresa e capitale sociale nel diritto della crisi, Torino, 2014, p. 62.
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Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio: una cifra nettamente superiore a quella che fissa in 300.000 euro la soglia minima riferita ai gestori di fondi di investimento alternativi internamente gestiti. Al di sotto di tale soglia, e tuttavia al di sopra dei 125.000 euro (art. 9 Aifmd), possono comunque operare le c.d. Sicaf “sotto soglia”, riservate agli investitori professionali che gestiscano al contempo attività particolari (i) al di sotto dei 100 milioni di euro, ivi comprese quelle eventualmente acquisite mediante leva finanziaria; (ii) al di sotto dei 500 milioni di euro, ove non ricorrano alla leva e prevedano il diritto al rimborso delle quote o azioni per i partecipanti sia rimborsabile trascorsi almeno cinque anni dalla data di investimento iniziale in ciascun FIA (art. 3 Aifmd)51. «D’altra parte, l’adozione di un “regime semplificato” contribuirebbe a promuovere l’accesso sul mercato di intermediari di ridotte dimensioni quali quelli operanti in prevalenza nei settori del private equity e del venture capital»52. 3.4. Sicaf, conferimenti, versamenti ed apporti patrimoniali. Per quanto inerente a conferimenti e versamenti (art. 35-bis, co. 4, t.u.f.), la disciplina delle Sicaf non pone particolari questioni, bensì sostanzialmente conferma che i conferimenti possano essere sia in denaro sia in natura. A ben vedere, però, il prospettato conferimento in natura non pare allinearsi perfettamente con l’attività svolta dalle Sicaf (ossia l’investimento dei risparmi degli investitori), che potrebbero quindi potenzialmente compiere una “indebita ingerenza”53 rispetto alla composizione del patrimonio, in modo particolare ove l’attività svolta abbia natura immobiliare. A livello statutario è consentito prevedere la possibilità di effettuare in più soluzioni i successivi versamenti relativi alle azioni sottoscritte, laddove le esigenze della società e dell’investimento lo richiedano. Sebbene non sia manifesta la ragione tale per cui il socio, quando è chiamato a sottoscrivere il capitale in denaro, sia tenuto a «versare solo il venticinque percento del capitale ma l’intero sovrapprezzo, come se la società fosse meno garantita per il versamento in denaro del sovrapprezzo e non
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Banca d’Italia, Recepimento della direttiva AIFM. Relazione sull’analisi d’impatto, giugno 2014, consultabile all’indirizzo www.consob.it, p. 5 ss. 52 Ibidem, a p. 8. 53 Carrière, La riformulazione, cit., p. 457.
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per il versamento, pure in denaro, del capitale»54, il legislatore ha inteso concedere «nel caso di Sicaf riservata e fermo restando quanto previsto dall’art. 35-bis, co. 4, la possibilità di effettuare i versamenti relativi alle azioni sottoscritte in più soluzioni, a seguito dell’impegno dell’azionista a effettuare il versamento a richiesta della Sicaf stessa in base alle esigenze di investimento»55, così derogando – inspiegabilmente soltanto per le Sicaf riservate – ai limiti che la disciplina comune del diritto societario fissa in relazione ai conferimenti ed al sovrapprezzo. In senso perfettamente conforme al diritto azionario comune, a differenza di quanto accade con riferimento Sicav, non è imposto che: (i) le azioni siano interamente liberate al momento della costituzione, a patto che i soci fondatori abbiano effettivamente versato il capitale iniziale entro 30 giorni dal rilascio delle azioni; (ii) ove le Sicaf assumano la fattispecie di Sicaf non riservate56, coloro che abbiano trasferito azioni non liberate versino l’ammontare dei versamenti ancora dovuti in solido con gli acquirenti entro tre anni dall’annotazione del trasferimento nel libro soci, come previsto dall’art. 2356 c.c. Inoltre, intendendo facilitare la creazione di un mercato secondario per le azioni delle Sicaf non riservate, il legislatore ha inteso ritenere non applicabile l’art. 2356 c.c. e dunque non reputare il soggetto alienante obbligato in solido con l’acquirente per più di tre anni in ragione dei versamenti ancora dovuti. Il legislatore tuttavia permette sia di attribuire agli investitori l’obbligo di dilazionare il conferimento o versare un sovrapprezzo sia di effettuare apporti patrimoniali, come precisato: «[d]i regola, gli impegni finanziari degli investitori sono versati alla società di investimento – in forza di un contratto tra la società stessa e gli investitori che disciplina
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Platania, I conferimenti nelle s.p.a., Milano, 2011, p. 9. Camera dei Deputati, Recepimento della direttiva 2011/61/UE sui gestori di fondi di investimento alternativi. Schema di d.lgs. n. 55, n. 45, 17 dicembre 2013, 56 La disciplina delle Sicaf riservate: lo statuto può prevedere l’effettuazione di versamenti in più tranches in ragione di fondate esigenze di investimento, ai sensi del co. 4, lett. e), art. 35-quinquies t.u.f. Probabilmente, tale peculiarità che caratterizza e differenzia la Sicaf riservata deve leggersi anche in luce della specificità propria del settore in cui esse operano. Ne consegue che tale disposizione debba intendersi come una possibilità alternativa, in deroga rispetto alle disposizioni del diritto comune, per dare spazio a programmi di commitment scaglionati nel tempo, v. Notari, Profili di diritto societario delle Sicaf, Intervento in occasione del convegno “Sicaf sotto la lente: i nuovi fondi chiusi e le nuove opportunità di mercato”, a cura di Assogestioni, Milano, 16 ottobre 2014. 55
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l’intero schema (l’equivalente, insieme allo statuto, del regolamento dei fondi gestiti da Sgr) – sotto forma di apporti patrimoniali (versamenti in conto capitale) che non richiedono l’emissione di nuove azioni. Ciò semplifica le formalità di versamento e distribuzione, consente di mantenere ferma nel tempo la struttura azionaria pianificata (che deve soddisfare requisiti di legge relativi al rapporto tra azioni a voto pieno e azioni a voto limitato) e aiuta ad evitare complicazioni nella gestione di quei versamenti che non possono avvenire pro quota (es. versamenti perequativi degli investitori che aderiscono allo schema di investimento dopo il primo closing) o che provengono da soggetti diversi dagli investitori (ad esempio gli obblighi di clawback dei soci che percepiscono il carried interest)»57. Detti apporti, che trovano ragion d’essere in un accordo collegato al contratto sociale, rilevano quindi a livello societario, in quanto costituenti parametro per il calcolo degli utili. Tuttavia, quale unica conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo in esso contenuto si assiste ad una diminuzione dei diritti tanto amministrativi quanto patrimoniali delle azioni, ad una «ibridazione del modello Sicaf (fino allora a snaturare l’essenza di veicolo gestorio “in monte” e a svuotare conseguentemente e per buona parte il senso della “riserva” appena ristabilita?)»58. 3.5. Sicaf e strumenti finanziari partecipativi. Il riportato art. 1, co. 1, lett. 1-bis) permette l’emissione di strumenti finanziari partecipativi (SFP)59, contrastante con le citate istanze di uniformità e standardizzazione nell’ambito della gestione collettiva del risparmio, che implica una diversificazione di diritti e profili di rischio degli investitori. Esso rappresenta l’esempio mirabile delle deviazioni normative rispetto al modello delle Sicav, che troverebbe giustificazione solo nel caso in cui la Sicaf avesse ad oggetto esclusivo attività immobiliare o di private equity, Essendo però la Sicaf una società interamente dedicata ad attività di puro investimento, la presenza e l’utilizzo di sfp sarebbe prospettabile unica-
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Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital, Risposta alla consultazione pubblica avviata dal Dipartimento del Tesoro sulle norme per l’attuazione della direttiva 2011/61/UE, sui gestori di fondi di investimento alternativi (AIFMD), e per l’applicazione del regolamento (UE) n. 345/2013 relativo ai fondi europei per il venture capital (EuVECA) e del regolamento (UE) n. 346/2013 relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF), 26 luglio 2013, consultabile all’indirizzo www.dt.tesoro.it, p. 6. 58 Carrière, La riformulazione, cit., p. 477. 59 Ampiamente in Magliulo, Le categorie, cit., p. 27 ss.
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mente nel contesto di investimento, che Banca d’Italia non reputa compatibile con il requisito legale di esclusività dell’oggetto sociale, aventi una natura più articolata, relazionale, che pone in connessione “negoziale” una vasta schiera di soggetti («per i fondi immobiliari, venditori ed acquirenti, ma anche locatari e talora locatori, fornitori, costruttori, appaltatori, gestori, manutentori, società di property e facility management, società di leasing, periti, agenti, assicuratori, consulenti, banche e finanziatori»60): natura immobiliare61. Di qui, non si può che ritenere possibile l’emissione di sfp quale mera integrazione della forma di partecipazione all’attività di investimento della società, per sua natura modulabile a seconda delle esigenze sociali. Pare quindi inevitabile ritenere come a detti SFP sia possibile ricorrere soltanto in una circostanza, come già accennato nella più recente dottrina: «solo nel caso in cui sia offerto ad ogni investitore, a fronte dell’investimento (e proporzionalmente ad esso), il medesimo mix di strumenti finanziari partecipativi emessi (azioni, azioni speciali, azioni di risparmio e/o strumenti finanziari partecipativi)»62. 3.6. Sicaf ed azioni. Spostando la lente sulla disciplina azionaria, evidente è l’elasticità di cui il legislatore ha dotato tale realtà societaria. Sebbene le Sicaf non possano emettere obbligazioni (ex art. 35-quin-
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Carrière, Il difficile coordinamento, cit., p. 12. La peculiarità delle Sicaf che operano in contesto immobiliare sono evidenziate anche in AIFI, Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, 19 gennaio 2015, consultabile all’indirizzo: «Con riferimento alle Sicaf, è stato osservato che le deviazioni normative rispetto al modello delle Sicav (essenzialmente, il carattere “fisso” del capitale, quale garanzia tipica dei creditori dell’impresa) troverebbero giustificazione solo nel caso in cui la Sicaf avesse a oggetto esclusivo attività immobiliare o di private equity, e ciò, sul presupposto che in questo caso si tratta non di mera attività gestoria ma imprenditoriale, con le tradizionali esigenze di tutela del credito commerciale e con la possibilità di disciplinare gli apporti non come mera attività d’“investimento”, ma di “finanziamento” di un’attività imprenditoriale. Ciò posto, è stato chiesto di: i) prevedere che il modello della Sicaf sia esclusivamente riservato a quei veicoli societari a capitale fisso che statutariamente prevedono come oggetto sociale esclusivo lo svolgimento di attività immobiliare o di private equity; ii) in subordine, prevedere che lo statuto delle Sicaf che non svolgano in via esclusiva attività immobiliare o di private equity - ferma restando la possibilità di creare più comparti di investimento - non possa prevedere: a) la creazione di categorie di azioni fornite di diritti diversi anche con riguardo all’incidenza delle perdite; b) la possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi», p. 6. 62 Carrière, La riformulazione, cit., p. 478. 61
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quies, co. 6, t.u.f.), né azioni di godimento (normate dall’art. 2353 c.c.), né azioni correlate, quale logica conseguenza della citata deroga alla disciplina codicistica in tema di patrimoni destinati (ai sensi del comma secondo e terzo dell’art. 2350 del c.c.), il legislatore sancisce che esse hanno facoltà di emettere azioni di categorie diverse o azioni di risparmio, come pure di acquistare azioni proprie entro i (permissivi e fluttuanti) limiti codicistici63. Anzitutto, il comma secondo dell’art. 35-quinquies t.u.f. permette che le azioni delle Sicaf siano “nominative” o “al portatore”64, ai sensi dello statuto, differenziantisi nei termini del regime di circolazione ovvero del voto. Le prime, statutariamente limitabili o sottoponibili a vincoli di trasferibilità, conformemente alla normativa propria del sistema azionario comune, sono portatrici di diritto di voto in ragione della razione di capitale che rappresentano; le seconde, ispirate alle Sicav, sono invece attributive di un voto capitario in corrispondenza di ogni singolo socio in una società a capitale non variabile. La legge non precisa la possibilità di convertire le azioni da una tipologia all’altra65, ciò si deduce però agevolmente dal sistema. Decisivo, a dimostrazione di ciò, è il rilievo che le azioni al portatore non sono portatrici di privilegi con carattere patrimoniale, né di diritti di voto, ma unicamente di vantaggi nei termini di circolazione azionaria. Appare quindi non corretto l’utilizzo del termine “categoria” di cui all’art. 35-quinques, co. 2, t.u.f.
63 L’acquisto di azioni proprie può «dar luogo sotto il profilo patrimoniale ad una riduzione del capitale reale senza l’osservanza della relativa disciplina (art. 2445) e per di più attuata in modo surrettizio, dato che il capitale sociale nominale resta invariato [e] (…) tuttavia costituire anche una proficua forma di investimento delle eccedenze patrimoniali disponibili della società. Inoltre, se la società è quotata in borsa, l’acquisto e la vendita di azioni proprie è un mezzo per stabilizzare le quotazioni e neutralizzare eventuali manovre speculative. Da qui un atteggiamento meno drastico del legislatore. Eccezion fatta per le Sicav (art. 3-quater, 8°comma, t.u.f.), l’acquisto di azioni proprie non è vietato in modo assoluto. L’operazione è consentita, ma la società deve rispettare le condizioni fissate dall’art 2357 (recentemente modificato dal d.lgs. 142/2008, in attuazione della direttiva 2006/68/CE, e dal d.l. 5/2009, convertito con legge 33/2009)», così G.F. Campobasso, Manuale di diritto commerciale, vol. 2, Diritto delle società, Torino, 2015, p. 241 s. 64 Ardizzone, Il rapporto, cit., spec. par. 4. 65 Laddove, nella letteratura, si utilizzi il termine “categoria” non v’è dubbio però che esso si debba intendere in senso atecnico, come puntualizzato in Zampella, Art. 45, Capitale e Azioni, in Testo Unico della Finanza, Tomo I, Intermediari e mercati, diretto da G.F. Campobasso, Torino, 2002, p. 395 ss., spec. p. 401, ove l’A. rinvia alle opinioni di Lener ed Angelici, compatti sul punto.
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Un trade off, questo, che al momento della decisione inerente al tipo di strumenti da emettere comporta una serie di considerazioni: da un lato, rilievi aventi carattere fiscale; dall’altro, riflessioni sistematiche, nel rispetto degli eventuali limiti statuari all’emissione di azioni nominative. La regola del regime di nominatività obbligatoria imposta con riferimento alle società di investimento a capitale fisso non rappresenta però l’unica eccezione. Nel più ampio panorama societario, infatti, tanto l’ipotesi di azioni di risparmio quanto quelle delle società di investimento a capitale variabile apertis verbis ammettono l’emissione di azioni “al portatore”66. Indagandone la ratio, pare ragionevole affermare che ciò intende dare evidenza della distinzione tra “soci-gestori”, i quali sottoscrivono azioni nominative ed assumono un ruolo in senso decisionale nella gestione sociale che determina i risultati quantitativi dell’investimento, e “sociinvestitori”, i quali sottoscrivono azioni al portatore (che attribuiscono “un solo voto per ogni socio indipendentemente dal numero di azioni di tale categoria possedute”) ed esauriscono il proprio interesse nel mero investimento finanziario67. Il co. 4, lett. b), del medesimo articolo ammette che particolari vincoli possano essere apposti alla trasferibilità delle azioni nominative sia in senso limitativo sia in senso esclusivo, con l’intento di stabilizzazione della compagine azionaria, se viene vietato interamente il trasferimento delle azioni per al più cinque anni dal momento in cui la società viene costituita (o in cui la clausola di intrasferibilità è introdotta nello statuto sociale o in un accordo parasociale68). Stante l’esplicita menzione
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G.F. Campobasso, Manuale, cit., p. 224 ss. e nt. 71: «In precedenza le azioni al portatore erano state ripristinate con leggi regionali in alcune regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige), per le società aventi sede nei rispettivi territori e al fine di favorire le iniziative economiche locali. Queste deroghe alla nominatività obbligatoria sono tuttavia cessate con la riforma tributaria del 1974 (art. 74, d.p.r. 600/1973), che ha imposto la conversione in titoli nominativi anche delle azioni al portatore precedentemente emesse nelle regioni a statuto speciale». 67 Zampella, Art. 45, cit., spec. p. 400 s. ove l’A. richiama l’opinione conforme di Salanitro, in Società per azioni mercati finanziari, Milano, 2000, p. 225. 68 L’inserimento nel primo ovvero nel secondo contesto sarebbe poi, a propria volta, foriero di conseguenze non irrilevanti, per le quali sia consentito rinviare a Pavone La Rosa, I patti parasociali nella nuova disciplina delle società per azioni, in Scritti in onore di V. Buonocore, vol. III, Milano, 2005, p. 3364 ss.; Costi, I patti parasociali ed il “collegamento negoziale”, in Giur. comm., 2004, I, p. 200 ss.; Semino, I patti parasociali hanno efficacia reale?, in Le società, 2004, p. 1265 ss.; Oppo, Patti parasociali, in Commentario al Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, vol. II, p. 1129 ss.; Oppo, Le convenzioni parasociali tra diritto
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dell’art. 2355-bis c.c. nella già citata Relazione illustrativa, appare indubbia la possibilità di condizionare la trasferibilità di dette azioni anche mediante clausole di gradimento, clausole atte a limitare la partecipazione alle attività di investimento da parte di quei possibili investitori in possesso dei requisiti e delle condizioni che garantiscano assenza di rischi per la compagine sociale già esistente ovvero per l’attività esercitata. Detto gradimento, esercitato dal Consiglio di Amministrazione, deve preferibilmente ancorarsi a condizioni di carattere oggettivo, prestabilite nei documenti sociali. L’articolo in esame non esclude la possibile applicazione della disciplina in tema di categorie di azioni, al contrario, anche alle Sicaf “devono potersi applicare” il secondo ed il terzo comma dell’art. 2348 c.c., secondo i quali, rispettivamente, si possono «creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie»69 e «[t]utte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti», laddove «la diversificazione delle posizioni dei soci (…) [si fondi] sul dato astratto ed impersonale dell’entità e della categoria delle azioni possedute […]»70. Se, per un verso, le azioni debbono innegabilmente avere uguale valore e conferire uguali diritti ai loro possessori, per l’altro, ciò non può indurre a trarre la semplicistica conclusione tale per cui è essenziale mantenere costantemente la c.d. parità di trattamento tra i soci in quanto, palesemente, il possesso di un numero di azioni atte a garantirne il controllo in seno all’assemblea sostanzia una situazione in cui i diritti
delle obbligazioni e diritto delle società, in Riv. dir. civ., 1987, p. 517 ss. e Provinciali, Contratti sociali e parasociali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, II, p. 1218. 69 Sul punto, v. par. 4.2, Relazione Ministeriale: «[oltre ad] una serie di modifiche di carattere tecnico, essenzialmente intese a risolvere i dubbi interpretativi manifestatisi nella prassi (…) si è affermat[a] espressamente (…) la libertà dell’autonomia statutaria nel determinare e articolare il contenuto dei diritti conferiti dalle categorie di azioni. In tal modo viene perseguito l’obiettivo di ampliare gli strumenti disponibili alle società per attingere a fonti di finanziamento e viene dato ampio spazio alla creatività degli operatori nell’elaborazione di forme adeguate alla situazione dii mercato». 70 Boggiali e Ruotolo, Categorie di azioni e nomina di componente del C.d.A., Quesito di Impresa n. 36-2015/I, Notiziario del Consiglio Nazionale del Notariato del 18 marzo 2015, i quali rinviano a Notari, Le categorie speciali di azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. I, Torino, 2007, p. 613 ss.
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che detto possesso porta con sé superano quelli di cui gli altri soci sono titolari71. Pertanto pare chiaro potersi asserire la liceità di differenziazione tra categorie, di cui ciascuna società può liberamente determinare il contenuto, in forza del principio di atipicità che le caratterizza72, con particolare riguardo ai diritti amministrativi e patrimoniali di seguito approfonditi, mentre entro la medesima categoria tutte le azioni debbono conferire i medesimi diritti. In altre parole, «[l]e azioni conferiscono ai loro possessori uguali diritti (art. 2348, primo comma, c.c.) (…). Esse, in tal modo, assolvono la loro funzione fondamentale che è quella di servire da unità di misura per la determinazione quantitativa dei diritti del socio (...). D’altra parte questa esigenza di uguaglianza dei diritti si pone essenzialmente con riferimento alle azioni che attribuiscono gli stessi diritti. La medesima non impedisce invece che si creino in una stessa società categorie di azioni tra loro diverse, per modo che le azioni di ciascuna categoria siano fornite di diritti particolari; e non impedisce che la società determini liberamente il contenuto delle azioni delle varie categorie (art. 2348, secondo e terzo comma, c.c.)73». Detto strumento, come già sottolineato da taluni studiosi74, non si pone però in perfetta continuità con la c.d. “gestione in monte” e le istanze di “uniformità e standardizzazione” di cui si è detto (infra, v. 3.4.), in quanto esso pone differenziazioni importanti, tra le altre, in tema di diritti amministrativi e patrimoniali. Quanto ai primi, l’art. 2351 c.c., il quale consente di creare azioni senza diritto di voto, o con diritto di voto limitato entro il limite della metà del capitale sociale, trova applicazione anche alle Sicaf. In tal modo si realizza l’attribuzione di una autonomia operativa ai soci-gestori75, consen-
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Magliulo, Le categorie, cit., p. 3 ss. e, nuovamente, p. 75 ss. Detto principio, riconosciuto in forza della citata previsione dell’art. 2348, co. 2, c.c., «è frutto della mutata filosofia economica che ha ispirato il legislatore, tesa al riconoscimento di una più estesa autonomia statutaria ed alla massima valorizzazione del mercato», in Galgano, Il nuovo diritto societario, Padova, 2003, p. 128. Esso, ad esempio, ha permesso, tra gli altri, il «superamento della tradizionale impostazione restrittiva che tendeva ad escludere, nel previgente sistema azionario, la legittimità della creazione di categorie azionarie dotate del diritto di nominare uno o più componenti degli organi sociali (Mignoli, Le assemblee speciali, Milano, 1960, p. 114 ss.)», così in Boggiali e A. Ruotolo, Categorie, cit. 73 Ferri, op. cit., p. 276. 74 Carrière, La riformulazione, cit., p. 477. 75 Ampiamente, circa il principio di autonomia e l’eventuale c.d. “apatia razionale” degli investitori, v. Erede, Sandrelli, Attivismo dei soci e investimento short-term: note 72
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tendo loro di incidere sulla nomina della maggioranza dei membri del Consiglio di amministrazione, nonché l’attribuzione di un ruolo minore ai soci-investitori, rendendo così possibile la selezione dei componenti della minoranza consiliare. I soci di minoranza, tuttavia, non possono vedersi attribuire un controllo ingiustificatamente esteso76, non allineato rispetto alla lettura sistematica dell’art. 2351 e dell’art. 2449 c.c., onde evitare, peraltro, un deprezzamento della partecipazione azionaria77. Al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito, ovvero rendere i soci-gestori perfettamente autonomi, anche a fronte di un conferimento complessivo inferiore, a parità di diritti patrimoniali, da rapportarsi all’apporto effettuato e non al valore nominale delle sottoscrizioni78, le categorie di azioni si rivelano estremamente utili: da un lato, i soci-gestori potrebbero sottoscrivere la metà del capitale sociale più una azione; dall’altro, i soci investitori potrebbero sottoscrivere la porzione residua e versare il sovrapprezzo.
critiche sul ruolo degli investitori professionali a margine del dibattito europeo sulla corporate governance, in Riv. soc., 2013, p. 931 ss. Nell’ottica di una dialettica efficace tra i due nuclei, quello dei soci-gestori e dei soci-investitori, pare opportuno suggerire l’attribuzione contrattuale di speciali diritti informativi, da garantirsi su richiesta o, comunque, periodicamente, similmente a quanto accade nel mercato diffuso. Peraltro, oltre ad eventuali previsioni statutarie o parasociali che attribuiscano – non senza il vulnus connesso alla durata ed efficacia delle stesse – a taluni il diritto a ricevere informazioni con particolare frequenza, sulla scorta di quanto illustrato in tema di categorie di azioni, tale diritto si potrebbe persino attribuire ad una categoria. 76 Cagnasso, Diritto societario e governance degli organismi partecipati, in Nuovo dir. soc., 2010, n. 17, p. 7 ss. 77 La riflessione è stata oggetto, con riferimento all’investimento in società per azioni partecipate dallo Stato od enti pubblici, (Cotto, in Le società, 2009, p. 912), di studio per parte di ampia dottrina e di una pronuncia della Corte di giustizia del 6 dicembre 2009, cause riunite C-463/0 4 e 464/04 (Ferrari, La golden share nella governance delle imprese locali di servizi, Nota a sentenza della Corte di giustizia della Comunità europea (prima sezione), 6 dicembre 2007, cause riunite C-463/04 e C-464/04, Federconsumatori e altri ed Associazione Azionariato Diffuso dell’AEM s.p.a. e altri c. Comune di Milano, in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, 2008, 884 ss.), a propria volta fonte di una modifica ex comma primo, articolo 13, l. 25 febbraio 2008, n. 34. 78 Per realizzare il meccanismo in parola, e dunque riconoscere agli investitori un rendimento superiore in ragione dei versamenti a sovraprezzo, si richiede però la c.d. “riserva di sovrapprezzo targata” (Spolidoro) ed il versamento integrale del sovraprezzo, contestualmente alla sottoscrizione delle azioni. Ne deriva l’inapplicabilità di tale strumento a quelle situazioni in cui l’articolarsi della operazione richiede l’apporto nel momento esatto in cui esso sia richiamato dai gestori.
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Quanto ai secondi, le c.d. categorie di azioni permettono a ciascuna società di rispondere adeguatamente a necessità differenti degli investitori secondo una logica funzionale alla ripartizione del c.d. carried interest (o performance fee)79 tra i soci-gestori. Quest’ultimo risulta infatti realizzabile, anche computando sia gli apporti a sovrapprezzo ed i versamenti in conto capitale effettuati dai soci-investitori sia le distribuzioni effettuate dalla società a partire dall’inizio dell’investimento sino a quel
79 Esso rappresenta «il più rilevante strumento di allineamento di interessi. Il riconoscere infatti una percentuale, normalmente pari al 20% della plusvalenza realizzata, al gestore comporta naturalmente che quest’ultimo si ponga come obiettivo primario la massimizzazione della plusvalenza da realizzare. Con l’evolvere dell’industria, il carried interest non è stato più ritenuto, in quanto tale, sufficiente a garantire l’obiettivo dell’allineamento degli interessi e pertanto è stato rimodulato secondo strutture differenti, subordinandolo al raggiungimento di un rendimento minimo e posticipandolo nel tempo. La prassi in uso al momento è che il carried interest venga riconosciuto al gestore solo al superamento di una determinata soglia di rendimento minimo detta hurdle rate, normalmente compresa tra il 6% e l’8%, variabile in funzione della congiuntura del mercato finanziario e che sia versato solo dopo che gli investitori abbiano ricevuto l’intero importo versato oltre al suddetto rendimento minimo e non per ogni singolo deal come avveniva precedentemente. L’obiettivo dei gestori dovrebbe, pertanto, essere non solo quello di conseguire una plusvalenza in termini assoluti, ma anche di realizzare un buon tasso di rendimento composto su base annua (IRR). Non vi è ancora, per contro, una prassi consolidata relativamente al meccanismo del cosiddetto “catch-up”, ossia il meccanismo di calcolo del carried interest non appena superata la soglia dell’hurdle rate. Alcuni regolamenti di fondi prevedono che il carried interest venga corrisposto solo sulla parte eccedente l’hurdle rate, alcuni che, una volta superato l’hurdle rate, il carried interest venga calcolato su tutta la plusvalenza realizzata, altri che vi sia un meccanismo di catch-up, strutturato con differenti velocità di recupero, tale per cui oltre la soglia di rendimento minimo il carried interest vada gradualmente ad essere applicato su tutta la plusvalenza. Ulteriore particolarità è rappresentata dal meccanismo previsto di vesting del carried interest per i singoli beneficiari. Tale aspetto viene normalmente analizzato solo dagli investitori più sofisticati ed è finalizzato a verificare che il carried interest sia effettivamente attribuito a chi abbia contribuito, per un periodo significativo, alla creazione di valore e non a chi vi abbia partecipato attivamente solo per un periodo di tempo limitato. Infatti se il vesting, ossia il sistema per il quale si matura il diritto a percepire il carried interest al momento della distribuzione dello stesso, è attribuito su un periodo troppo breve o addirittura indipendentemente dal tempo di permanenza nella gestione del fondo, ci si espone al rischio che alcuni membri del team, una volta raggiunto il periodo concordato, possano trovare conveniente abbandonare il team essendosi garantiti la propria quota di carried interest», così in AIFI, Commissione Rapporti con gli Investitori Istituzionali, L’investimento in un fondo di private equity: guida al processo di selezione e due diligence, ottobre 2012, consultabile all’indirizzo www.aifi.it, p. 21 s.
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momento80, soprattutto grazie ad alcune categorie di azioni con diritti patrimoniali particolari. Nel momento in cui si possono costituire categorie di azioni differenti, si pone quindi un problema ulteriore e sicuramente rilevante: la norma che vieta l’applicazione dell’art. 2376 c.c., ai sensi del quale «[s] e esistono diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata». Trattandosi invero di un principio generale, la disapplicazione legale del medesimo desta perplessità. Nulla impedisce infatti che tra i diritti della categoria si ponga quello di dover autorizzare delibere che pregiudichino la categoria stessa, così comportando una limitazione convenzionale, non legale. Da ultimo, prevendo la lett. e) del co. 4 dell’art. 35-quinquies t.u.f. la facoltà statutaria di sancire «l’esistenza di più comparti d’investimento per ognuno dei quali può essere ammessa una particolare categoria di azioni; in tal caso sono stabiliti i criteri di ripartizione delle spese generali tra i vari comparti», la Sicaf appare strutturabile in guisa di un veicolo societario unitario, flessibile ed internamente articolabile in una serie di comparti di investimento, di parti segregate del patrimonio sociale (c.d. patrimonio autonomo), corrispondenti a differenti frazioni dell’intero capitale (v. anche art. 35-bis, co. 6, t.u.f.), che non minano però l’unitarietà di governance, controllo e gestione81, fermo restando l’obbligo di depositare ed affidare la custodia di strumenti finanziari e liquidità ad una banca depositaria82. Naturalmente, il singolo comparto influirà sull’intero veicolo in costanza di liquidazione, momento in corrispondenza del quale la liquidazione della parte comporterà ineluttabilmente la liquidazione della Sicaf. Il comma successivo precisa poi che alle Sicaf non si applichino il secondo e terzo comma dell’art. 2350 c.c., in tema di azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività in un dato settore. Per dette azioni è infatti lo statuto a fissare i criteri di individuazione dei costi e dei ricavi imputabili al settore, oltre al fatto che i dividendi debbono essere versati nei limiti degli utili derivanti dal bilancio sociale.
80 Tale meccanismo si differenzia invece da quello tipico delle azioni di risparmio, in cui la distribuzione degli utili dell’esercizio precedente è totalmente irrelata rispetto a quello in corso. 81 Gentili, Jannoni e. Mastrangelo, op. cit., p. 23. 82 Bilotti, La gestione collettiva, in Manuale di diritto del mercato finanziario, a cura di Amorosino, Milano, 2008, p. 16.
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Quanto detto richiama sicuramente al lettore la disciplina dei patrimoni destinati83, la cui inapplicabilità alle Sicaf è però chiarita sin dal primo comma dell’art. 35-quinquies t.u.f. 3.7. Sicaf e governo societario. L’art. 7 del Regolamento Congiunto Banca d’Italia-Consob, che regola l’organizzazione amministrativa e contabile degli intermediari finanziari, richiede anche ai veicoli societari a capitale fisso di ripartire i compiti tra i differenti organi assicurando bilanciamento dei poteri e costruttiva dialettica, adottando cautele preventive ed assicurando una composizione organica bilanciata ed efficace. Si tratta di comportamenti accorti, che richiamano la necessità per parte delle Sicaf di dotarsi di una serie di norme a tutela della corretta e trasparente prestazione dei servizi, della sana e prudente gestione, della stabilità patrimoniale, del contenimento del rischio derivante dall’attività. Venendo ora agli organi principali, l’Assemblea delle Sicaf, tenendo a mente il principio di cui all’art. 2380-bis c.c., si occupa di un efficace monitoraggio degli investitori sulla attività dei gestori nominando almeno un componente del Consiglio di amministrazione, nonché della fissazione dei loro emolumenti, innegabilmente connessi ai rendimenti che i soci-gestori84 riescono a raggiungere.
83 In argomento, inter alia, Santagata, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare in Il codice civile. Comm., fondato da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, 2014; Pescatore, La funzione di garanzia dei patrimoni destinati, Milano, 2008 e Bartalena, I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Riv. dir. comm., 2003, I, p. 83 ss. 84 Essi sono tenuti peraltro a rispettare le indicazioni comportamentali dettagliate ai sensi dell’art. 35-decies t.u.f.: «Le Sgr, le Sicav e le Sicaf che gestiscono i propri patrimoni: a) operano con diligenza, correttezza e trasparenza nel miglior interesse degli Oicr gestiti, dei relativi partecipanti e dell’integrità del mercato; b) si organizzano in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti e, in situazioni di conflitto, agiscono in modo da assicurare comunque un equo trattamento degli Oicr gestiti; c) adottano misure idonee a salvaguardare i diritti dei partecipanti agli Oicr gestiti e dispongono di adeguate risorse e procedure idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi; d) assicurano la parità di trattamento nei confronti di tutti i partecipanti a uno stesso Oicr gestito nel rispetto delle condizioni stabilite dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, in conformità al diritto dell’Unione Europea. In relazione ai FIA riservati, trattamenti preferenziali nei confronti di uno o più investitori o categorie di investitori sono consentiti nel rispetto della direttiva 2011/61/UE e delle relative disposizioni attuative; e) provvedono, nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei diritti di voto inerenti agli strumenti finanziari di pertinenza degli Oicr gestiti, salvo
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Il Consiglio di amministrazione delle Sicaf, composto da soggetti che agiscano con onestà, integrità ed indipendenza, dotati di professionalità, onorabilità ed indipendenza riconosciute ed accertate85, deve presentare due essenziali funzioni: da un lato, di supervisione strategica, che presta attenzione ad obiettivi, strategie sociali, politiche di investimento, rischi e ripartizione di compiti e responsabilità, e, dall’altro, di gestione delle politiche aziendali, delle funzioni e dei flussi informativi, come richiesto a livello nazionale e comunitario (Regolamento delegato (UE) n. 231/2013 della Commissione, del 19 dicembre 2012, che integra la direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda deroghe, condizioni generali di esercizio, depositari, leva finanziaria, trasparenza e sorveglianza). Parallelamente, il Collegio sindacale è tenuto a funzioni di controllo circa la gestione dei profili di rischio, l’adeguatezza e l’efficacia delle misure esistenti al fine di porre rimedio ad eventuali carenze e la revisione interna (art. 62, Regolamento delegato). Una simile attenzione ai profili di rischio è dovuta in quanto pare applicabile anche alle Sicaf la considerazione per cui «il conferimento (…) non avviene con una primaria diretta connotazione di investimento consapevole in un’attività imprenditoriale a rischio, quanto come forma di affidamento di risparmio inconsapevole per una gestione tecnica capace di minimizzarne il rischio»86. La Sicaf che, nel complesso, è dunque tenuta ad operare un efficace monitoraggio, prevalentemente assembleare,87 raccogliendo informazio-
diversa disposizione di legge». Appare evidente come gli investitori intreccino infatti con i soci gestori un rapporto di fiducia, in quanto la gestione collettiva del risparmio si configura alla stregua di una amministrazione fiduciaria, v. Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., Torino, 2012, p. 330. 85 Detti requisiti, precisati nel Regolamento delegato della Commissione europea del 19 dicembre 2012, n. 231/2013, debbono essere posseduti a pena di decadenza dagli amministratori, da dichiararsi entro 30 giorno dalla loro nomina o dalla conoscenza del difetto sopravvenuto e comunicata alla Banca d’Italia da parte dell’organo deputato alla supervisione strategica. 86 Marchetti, Appunti sulle SICAV, in Riv. soc., 1992, p. 731 ss., p. 732. 87 «Tuttavia, nel caso di partecipazioni consistenti e detenute nel medio-lungo periodo, non è da escludersi la legittimità (e, forse, doverosità) di uno scambio informale, noto nella prassi angloamericana, con i membri degli organi di amministrazione e controllo (eventualmente quelli nominati su candidatura e voto dell’investitore istituzionale), al fine di operare, con riferimento alla gestione delle società partecipate rilevanti, un monitoraggio più intenso rispetto a quello garantito a livello assembleare, fermo restando il divieto di abuso delle informazioni privilegiate posto dall’art. 184 t.u.f. (c.d. insider trading), nonché il rispetto degli
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ni sulla gestione e verificando la loro conformità rispetto alla natura, alle dimensioni dell’impresa ed agli interessi cui è finalizzata88, non tuttavia un controllo su singoli atti e soggetti, «accompagnato da una sanzione comminatoria e, cioè, dal potere di impedire l’atto (o l’attività) o di revocarlo o, comunque, di porsi come elemento lato sensu condizionante la fattispecie controllata»89 90. 3.7.1. Sicaf autogestite v. Sicaf eterogestite. Quanto riferito vale tuttavia per le società in cui l’affidatario della gestione patrimoniale è la società medesima (c.d. Sicaf autogestite) e, dunque, non estendibile de plano ai casi in cui l’affidatario sia, ad esempio, una società di gestione del risparmio. In tale contesto, che somiglia in linea generale al rapporto di “delega istituzionale”91 intercorrente tra sgr promotrice e di gestione ante direttiva Aifm, la società che si occupa della gestione assume decisioni in merito alla struttura organizzativa. Le Sicaf c.d. eterogestite92 vengono invece normate sulla base dell’art. 38 t.u.f., che ne impone – oltre ovviamente all’indicazione del soggetto gestore ed alla relativa dichiarazione di accettazione dell’incarico, ai fini della autorizzazione alla costituzione – l’assunzione della forma di società per azioni nel rispetto della disciplina applicabile, la definizione dell’oggetto sociale esclusivo di cui si è trattato in precedenza, la presenza di una sede legale e direzione generale in Italia, un capitale sociale
obblighi di informazione stabiliti dall’art. 114 t.u.f. (c.d. internal dealing)», così Bordiga, Partecipazione degli investitori istituzionali alla s.p.a. e doveri fiduciari, in Riv. soc., 2013, p. 202 ss., p. 212. Ove, poi, il monitoraggio evidenziasse eventi incisivi rispetto al valore sociale, la società è tenuta a porre in essere (re)azioni attive, come insegna la c.d. Wall Street Rule. 88 Preite, Investitori istituzionali e riforma dei diritti delle società per azioni, in Riv. soc., 1993, p. 519 ss. 89 Bordiga, Partecipazione, cit., p. 210 s. 90 Ferro-Luzzi, Per una nazionalizzazione del concetto di controllo, in I controlli societari. Molte regole, nessun sistema, a cura di Bianchini e Di Noia, Milano, 2010, p. 115 ss., ove l’A. invita ad una lettura del controllo che abbia riguardo della “rilevanza giuridica dell’agire imprenditoriale”. 91 Gentili, Jannoni e Mastrangelo, op. cit., p. 132. 92 L’articolo, al comma primo, lett. g), precisa che «la stipula di un accordo tra il gestore, se diverso da una Sgr, e il depositario assicura a quest’ultimo la disponibilità delle informazioni necessarie per lo svolgimento delle proprie funzioni, secondo quanto previsto nell’art. 41-bis, comma 2-bis».
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minimo almeno pari a quello stabilito da Banca d’Italia, come pure che i soggetti che svolgano funzioni di amministrazione, direzione e controllo siano idonei secondo quanto previsto dall’art. 1393 ed i titolari delle partecipazioni ex art. 15 posseggano requisiti di onorabilità e soddisfino i criteri stabiliti ex art. 14 e non ricorrono le condizioni per l’adozione del divieto ex art. 15, co. 294. Le società designate, autorizzate a prestare servizi di gestione collettiva del risparmio, anche aventi sede legale e direzione generale in uno Stato membro (non necessariamente in Italia) e sottoposte a giurisdizione estera, sono tuttavia sottoposte alla vigilanza di Banca d’Italia. Le Sicaf possono quindi «delegare a soggetti terzi specifiche funzioni inerenti alla prestazione dei servizi (…). La delega è effettuata con modalità tali da evitare lo svuotamento di attività della società stessa ed è esercitata nel rispetto delle disposizioni in materia di esternalizzazione di funzioni previste in attuazione dell’art. 6, comma 2-bis, ferma restando la responsabilità della Sgr, della Sicav e della Sicaf nei confronti degli investitori per l’operato dei soggetti delegati», ai sensi dell’art. 33, comma quarto. Tali delegati, ai quali viene affidato il compito di cui si è detto per ragioni quali l’ottimizzazione delle funzioni e dei processi imprenditoriali, il risparmio di costi, le conoscenze possedute in tema di amministrazione, mercato, investimento e trading (v. Regolamento Delegato (UE) n. 231/2013, art. 76), non privano però i gestori della facoltà di operare sui medesimi mercati oggetto di delega. Al contrario, essa non può in alcun modo comportare uno “svuotamento”, che presuppone un controllo effettivo e costante, con facoltà di revoca ad effetto immediato, che non vede venir meno la responsabilità della Sicaf dinanzi ai sociinvestitori ed ai terzi. Ne deriva un sistema (i) di sicuro interesse sotto il profilo strutturale per quanto riguarda l’intero settore dell’industria del risparmio gestito e (ii) di indiscutibile flessibilità operativa, alla luce dell’ammontare di capitale minimo richiesto ai fini autorizzatori (pari ad Euro 50.000), della mancata necessità di presentare programmi di attività all’organo di vigilanza sempre ai fini autorizzatori e della somiglianza rispetto ai fondi comuni di investimento, da intendersi come patrimonio separato95.
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La lett. d) è stata così sostituita dall’art. 4, d.lgs. n. 72 del 12 maggio 2015. La lett. e) è stata così emendata dall’art. 4, d.lgs. n. 72 del 12 maggio 2015. 95 Gentili, Le SICAV eterogestite di diritto italiano: una nuova opportunità?, in Banc., 2006, n. 4, p. 43 ss. 94
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3.7.2. Sicaf e società partecipate. Principio cardinale della disciplina delle Sicaf è espresso sia all’art. 17, Regolamento Delegato (UE) n. 231/2013, ove si specifica che il Gefia è tenuto a prevenire situazioni di abuso che potrebbero mettere in pericolo “la stabilità e l’integrità del mercato”, sia alla lett. a), comma primo, art. 35-decies tu.f., ove si precisa come le Sicaf debbano operare “nel migliore interesse degli oicr gestiti, dei relativi partecipanti e dell’integrità del mercato”. Da esso, e in particolare dal duplice richiamo alla “integrità del mercato”, si trae la necessità di indagare gli interessi delle società partecipate e degli investitori, di cui la Sicaf si dà carico, i quali presentano prima facie profili di non divergenza. «Volendo aderire alla qualificazione dell’interesse sociale in termini di interesse comune a tutti i soci, fra quest’ultimo e quello degli investitori istituzionali c’è, quanto meno in superficie, una relazione di identità: entrambi mirano alla massimizzazione del valore e della redditività delle partecipazioni e, dunque, dell’investimento della società»96. Laddove la Sicaf apporti tanto competenze professionali strategiche quanto finanziamenti economici, così investendo in quote di minoranza del capitale di rischio dell’impresa (per lo più non quotata) con attività di private equity, si realizzerà una situazione peculiare. In altre parole, infatti, la Sicaf in tale circostanza investirà nella figura dell’imprenditore, nelle sue competenze e capacità. Necessariamente, lo statuto sociale deve presentare talune accortezze e cautele, che si sostanziano in clausole di lock-up, earn-out o di exit97 o in piani di stock option atte ad incentivare l’imprenditore98, che favoriscano un governo societario efficace ed informato in modo appropriato ed adeguato, che stabilizzino l’azionariato sociale, che prevedano la presenza della Sicaf in seno al Consiglio di amministrazione ed all’Assemblea, ad esempio con diritto di veto su deliberazioni-chiave. Risulta inoltre preferibile precisare ex ante le modalità di comportamento in caso di disinvestimento, operando l’investimento delle Sicaf per lo più in un orizzonte short term: deve essere enforceble, realizzabile in un orizzonte temporale definito (seppur non
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Tedeschi, Potere di orientamento dei soci nelle società per azioni, Milano, 2005, p. 226. D.J. Cooke, Private Equity: Law and Practice, Londra, 2015, p. 289. 98 Così, ampiamente, AIFI, Private equity e corporate governance delle imprese, a cura della Commissione Corporate Governance 2005, consultabile all’indirizzo www.aifi.it. 97
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eccessivamente oneroso sul programmato business plan della società) e quantificabile al valore di mercato, senza margini di soggettività. Le Sicaf rappresentano quindi una opportunità di investimento peculiare cui il mercato potrà fare ricorso, anche alla luce della facoltà di emettere ulteriori strumenti finanziari partecipativi, di particolare utilità per far fronte alle istanze che il mondo private equity, per se, pone. 3.8. Sicaf e scioglimento. Le vicende estintive connesse alle Sicaf presentano un chiaro richiamo alla disciplina tradizionale delle società per azioni e, dunque, si ritiene che ad esse siano applicabili tutte le ipotesi di scioglimento elencate all’art. 2483, co. 1, c.c. Ad esse si aggiunge l’ipotesi di decadenza della autorizzazione, trascorso un anno dal rilascio della autorizzazione alla costituzione e dal mancato avvio effettivo della attività, ovvero interrotta per più di sei mesi l’attività medesima (con conseguente cancellazione dall’albo), rispettivamente ai sensi dell’art. 35-bis t.u.f. e del Regolamento Banca d’Italia del 14 maggio 2005. L’art. 35-bis t.u.f. afferma anzitutto l’applicabilità delle cause, “di stretta interpretazione”99,che producono lo scioglimento ex art. 2484 c.c. anche alle società di investimento a capitale fisso, di cui vengono analizzate, di seguito, le peculiarità degne di nota in relazione a ciascuna100. La previsione codicistica, rimasta inalterata rispetto «all’omologo e precedente dettato normativo di cui all’art. 2448 c.c.»101, rafforza poi i mezzi di comunicazione con cui diffondere l’informativa inerente agli atti che danno impulso e che concludono la procedura di liquidazione e prevede la sospensione dell’emissione durante tale periodo. A partire dal comma terzo, esso rinvia alla disciplina in tema di nomina, revoca e sostituzione dei liquidatori già prevista per le Sicav, precisando però che per quanto attiene alle Sicaf essa è inderogabilmente di competenza dell’assemblea straordinaria102.
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Esposito, La fase dello scioglimento, in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, a cura di Fimmanò, Milano, 2011, p. 23. 100 Per quanto attiene alle società di capitali, guida validissima è offerta da G.F. Campobasso, Manuale, cit., p. 537 ss. e Traversa, Le cause di scioglimento, cit., p. 43 ss. 101 Esposito, La fase, cit., p. 23 e nt. 34, ove l’A. rinvia tanto alla Relazione alla Riforma quanto a Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle società per azioni, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, vol. VII, t. III, Torino, 1997, p. 247 ss. 102 Picardi, Art. 48. Scioglimento e liquidazione, Capitale e Azioni, in Testo Unico della Finanza, Vol. *, Intermediari e mercati, diretto da G.F. Campobasso, Torino, 2002, p. 420 ss., p. 424 s.
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Naturalmente, è assolutamente plausibile l’ipotesi di scioglimento fisiologico e “naturale”103, in corrispondenza del decorso del termine di durata indicato in statuto, prorogabile tuttavia prima della scadenza con delibera della assemblea straordinaria, termine che deve tuttavia essere correttamente parametrato alla natura ed allo svolgimento continuativo della attività che costituisce l’oggetto sociale: la gestione del risparmio raccolto, unicamente realizzabile «prevedendosi una scadenza molto lunga nel tempo»104. Meno immediata è invece la concreta individuazione del momento in cui, trattandosi di attività sostanzialmente non esauribile105, si realizzi il “conseguimento dell’oggetto sociale”106 o si possa sancire la “sopravve-
103 Lener, SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile), in Dig. disc. priv., sez. comm., IV, Torino, 1996, p. 409 e Id., Le società di investimento a capitale variabile, in Tratt. soc. per az.,, diretto da Colombo e Portale, vol. X, Torino, 1993, p. 178. 104 In tema di Sicav (ma, come asserito, la considerazione è estendibile), v. Ghisalberti e Navarra, Art. 48. Scioglimento e liquidazione volontaria, in Il testo unico della finanza, a cura di Fratini e Gasparri, tomo I, Torino, 2012, p. 681 ss., p. 684. Si ripropongono, nel medesimo senso, anche le riflessioni relative formulate in Picardi, Art. 48, cit., p. 422: «Se infatti è possibile la fissazione nello statuto di un termine di durata, decorso il quale il consiglio di amministrazione delibera lo scioglimento della società, dovrà comunque trattarsi di un periodo di tempo sufficientemente lungo ed adeguato alla natura dell’attività di un organismo di investimento collettivo, che presuppone una gestione continuativa del risparmio accolto (Cfr. Banca d’Italia, Istr. vig. per gli Oicvm, parte II, all. C). La particolare natura dell’attività esercitata e l’attribuzione agli azionisti risparmiatori del diritto di recesso inducono anzi a ritenere ammissibile – in difformità da una contraria opinione in tema di società per azioni – la previsione (…) di una scadenza molto distante nel tempo». 105 Marchetti, Appunti, cit., p. 748. 106 Detto obiettivo si può ritenere “conseguito” nell’ordinamento spagnolo, ai sensi della Ley 46/1984, del 26 dicembre, “reguladora de las Instituciones de Inversión Colectiva”, e precisamente all’art. 15, comma terzo, lettera d), che definisce le caratteristiche essenziali delle Sociedades de Inversion Mobiliaria de Capital: «En la escritura de constitución de la Sociedad y en sus Estatutos, además de los requisitos establecidos en el articulo 11 de la Ley de Régimen Jurídico de las Sociedades Anónimas y los que resulten de esta Ley, se expresarán: a) La denominación de la Sociedad, en la que deberá figurar necesariamente la indicación de Sociedad de Inversión Mobiliaria de capital variable, en siglas ‘SIMCAV’. b) El objeto social, circunscrito exclusivamente a las actividades enumeradas en el artículo 2. de esta Ley. c) El capital inicial, que no podrá ser inferior al mínimo establecido en el articulo 9. de esta Ley. d) El capital estatutario máximo, expresando el número de acciones en que esté dividido y el valor nominal de las mismas. e) El compromiso de cumplir cuantos requisitos le sean exigidos para la admisión y permanencia de sus acciones en la cotización oficial. f) La designación de un Depositario autorizado».
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nuta impossibilità di conseguirlo”107. Si considerino poi la c.d. “impossibilità di funzionamento” e la “continua inattività dell’assemblea”: esse si debbono intendere quali ostacoli che non rendono possibile adottare delibere fondamentali per il funzionamento della società, che si verificano laddove «la paralisi dell’organo assembleare – per assenteismo degli azionisti o per contrasti che impediscono la formazione delle prescritte maggioranze – precluda l’adozione delle delibere necessarie per il funzionamento della società (…)»108. Conseguentemente alla “riduzione del capitale al di sotto del minimo legale” per perdite, la società può attuare provvedimenti “salvifici” (ad esempio, aumentando il capitale in misura almeno pari al minimo legale), senza però poter trasformare la società in un tipo societario per il quale sia richiesto un minimo legale di ammontare inferiore109. In tal caso si realizzerebbe infatti una violazione di quanto prescritto all’art. 35-novies t.u.f., co. 1, seconda frase («Le Sicav che hanno la forma di FIA e le Sicaf non possono trasformarsi in un organismo diverso da un Oicr italiano»). Ulteriore ipotesi di scioglimento è rappresentata dalla delibera assembleare in seguito al recesso di uno o più soci ex art. 2437-quater c.c., alla impossibilità di rimborsare le relative azioni senza riduzione del capitale sociale ed alla opposizione dei creditori alla riduzione ex art. 2473 c.c. In senso più generale, l’assemblea può deliberare lo scioglimento anticipato della società, in base ad una deliberazione che è da intendersi
Del pari, si può ritenere “conseguito” nell’ordinamento francese, in base al comma terzo dell’Art. 178 (abrogato il 21 settembre 2000), Loi n°66-537 du 24 juillet 1966 sur les sociétés commerciales, ai sensi del quale «1. Le capital social est augmenté, soit par émission d’actions nouvelles, soit par majoration du montant nominal des actions existantes. 2. Les actions nouvelles sont libérées, soit en numéraire, soit par compensation avec des créances liquides et exigibles sur la société, soit par incorporation de réserves, bénéfices ou primes d’émission, soit par apport en nature, soit par conversion d’obligations. 3. L’augmentation du capital par majoration du montant nominal des actions n’est décidée qu’avec le consentement unanime des actionnaires, à moins qu’elle ne soit réalisée par incorporation de réserves, bénéfices ou primes d’émission». 107 Recine e Sciotti, Art. 48, Scioglimento e liquidazione volontaria, in Commentario al t.u.f., a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, I, p. 485. 108 G.F. Campobasso, Manuale, cit., p. 538, e nt. 3. 109 La considerazione trova corrispondenza perfetta nelle annotazioni in tema di Sicav, in Picardi, Art. 48, cit., p. 422.
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in guisa di una delibera modificativa dello statuto sociale110, se ciò non contrasta con il controllo della Banca d’Italia e gli adempimenti relativi111. Da ultimo, laddove la previsione di scioglimento sia espressamente prevista dall’atto costitutivo o dallo statuto, l’estinzione si verifica con le modalità che detti articoli fissano sia per quanto riguarda la competenza a deciderle o accertarle per quanto concerne sia l’iter con cui effettuare gli adempimenti pubblicitari, i quali, rispetto al passato, assumono però una valenza nuova e determinante: «l’efficacia meramente dichiarativa di cui alla precedente normativa sembra lasciare il posto all’efficacia costitutiva della pubblicità, in ordine alla giuridica decorrenza degli effetti dello scioglimento»112. Si consideri parimenti che, secondo le regole pubblicitarie contemplate all’art. 2484, terzo e quarto comma, c.c., oltre ad essere rese note con le modalità previste per la pubblicazione del valore patrimoniale della società ai sensi dello statuto, le vicende quali dichiarazioni dell’organo amministrativo di accertamento delle cause estintive (ovvero deliberazioni assembleari nel caso di scioglimento anticipato per volontà dell’organo stesso) debbono essere comunicate entro dieci giorni dall’iscrizione nel Registro delle imprese a Banca d’Italia e trasmesse a Consob113. In caso di inosservanza, oltre alla configurazione di una responsabilità in capo agli amministratori, lo scioglimento non risulta opponibile ai terzi. Il secondo comma dell’art. 35-octies precisa inoltre che emissione e rimborso delle azioni sono “sospesi”, «nel caso previsto dall’art. 2484, primo comma, numero 6), del codice civile, dalla data di assunzione della delibera, nei casi previsti dall’art. 2484 c.c. e, per le Sicav, dal comma 1 del presente articolo, dal momento dell’assunzione della delibera del consiglio di amministrazione ovvero dal momento
110 Picardi, Art. 48, cit., p. 423 e Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, vol. VII, t. II, Torino, 1997, p. 324. 111 Quanto all’interrogativo circa il contrasto con limiti esterni di carattere pubblicistico, nel caso in cui la delibera, non fondata su circostanze oggettive, si ponga in contrasto rispetto al dritto dei dipendenti alla conservazione del posto di lavoro e sia quindi nulla per condotta antisindacale del datore di lavoro, v. Weigmann, La liquidazione della società davanti al giudice del lavoro, Milano, 1985. 112 Fimmanò, Accertamento, cit., p. 93 ss., spec. p. 121 ss. 113 Detto regime particolarmente oneroso non si estende al decreto emesso dal tribunale a seguito dell’inadempimento degli amministratori ai propri compiti, ai sensi dell’art. 2485, come in dottrina Cavanna, Fondi comuni di investimento e SICAV, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, vol. 16, I, Torino, 2008, nt. 364.
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dell’iscrizione presso il registro delle imprese del decreto del presidente del tribunale. La delibera del consiglio di amministrazione è trasmessa anche alla Consob nel medesimo termine». La disposizione sicuramente preserva la stabilità del mercato e realizza la par condicio tra azionisti114, tuttavia essa appare superflua in quanto il generale obbligo di compiere operazioni “ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale” in attesa di farne consegna ai liquidatori, ex art. 2486 c.c., comprende anche il divieto di emissione di nuove azioni115. Il terzo comma, nel richiamare l’art. 2487 c.c., ammette che i liquidatori vengano nominati con decreto del tribunale su istanza di singoli soci, di amministratori o, ove l’assemblea non deliberi o non sia costituita da amministratori, di sindaci e che essi vengano revocati dall’organo assembleare, da Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 97 t.u.b.116, o dal tribunale, su istanza di soci, sindaci o pubblico ministero, ove sussista giusta causa117. Il quarto comma precisa come le operazioni di liquidazione dell’attivo debbano essere condotte “nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla Banca d’Italia”, Autorità con funzione di salvaguardia del sistema e della stabilità dei mercati, «mai nella direzione “coattiva” della liquidazione della società»118. L’Autorità di Vigilanza è chiamata a dirigere la procedura e gli adempimenti ad essa connessi, a fronte della «innegabile soppressione della discrezionalità dei liquidatori e (…) dell’assemblea dei soci nel-
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Marchetti, Appunti, cit., p. 748. G.F. Campobasso, Manuale, cit., p. 540. 116 L’articolo, rubricato “Sostituzione degli organi della liquidazione ordinaria”, recita: «1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 80, se la procedura di liquidazione di una banca secondo le norme ordinarie non si svolge con regolarità o con speditezza, la Banca d’Italia può disporre la sostituzione dei liquidatori, nonché dei membri degli organi di sorveglianza. 2. Il provvedimento di sostituzione è pubblicato secondo le modalità previste dall’articolo 81, comma 2. 3. La sostituzione degli organi liquidatori non comporta il mutamento della procedura di liquidazione». Ampiamente, sul ruolo di Banca d’Italia, v. Ghisalberti e Navarra, Art. 48., cit., p. 681 ss., p. 686. 117 «È orientamento ormai consolidato che il tribunale può disporre la nomina dei liquidatori anche quando vi sia controversia fra i soci circa l’esistenza di una causa di scioglimento della società, pronunciandosi in via incidentale sulla questione. Il decreto del tribunale costituisce atto di volontaria giurisdizione e può essere rimosso con giudizio ordinario di accertamento dell’insussistenza della causa di scioglimento: così superando l’orientamento che riteneva il decreto suscettibile di ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost.», G.F. Campobasso, Manuale, cit., p. 542, nt. 13. 118 Ghisalberti e Navarra, Art. 45, cit., p. 685, ove l’A. rinvia nuovamente a Picardi, Art. 48, cit. p. 426. 115
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la fase estrema della gestione dell’affare societario»119, e quelli successivi richiedono che il bilancio di liquidazione venga sottoposto al giudizio del soggetto incaricato della revisione legale dei conti120, per poi essere pubblicato nei quotidiani che già lo statuto menziona121, e che sulla base di quanto in esso contenuto vengano rimborsate ai liquidatori le azioni da essi detenute. Una volta ripartito l’attivo, conformemente alle decisioni dei liquidatori e con la collaborazione della banca depositaria122, che di fatto detiene gli strumenti finanziari e le disponibilità liquide della società, quest’ultima viene cancellata sia dal Registro delle Imprese123 sia, ça va sans dire, dall’albo tenuto presso Banca d’Italia124. «Con la cancellazione dal registro delle imprese, la società è definitivamente cessata, la persona giuridica è estinta (…), e i creditori che eventualmente siano rimasti insoddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento sia dipeso da loro colpa, e in ogni caso nei confronti dei soci fino a concorrenza delle somme riscosse
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Picardi, Art. 48, cit. p. 425. Ampiamente, v. Esposito, I bilanci, cit., p. 393 ss. 121 Si rileva come la data di pubblicazione costituisca il dies a quo del termine (trimestrale) entro cui i soci possono proporre opposizione al tribunale, che non viene dunque calcolata dalla data di iscrizione della delibera presso il competente Registro delle Imprese. Nel sistema delle società di capitali, invece, «gli effetti dello scioglimento si producono a partire dalla data dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con la quale gli amministratori accertano che una causa di scioglimento si è verificata, ovvero, nel caso di scioglimento volontario, di quella della relativa deliberazione», così in Ferri, op. cit., p. 405. Si sottolinea inoltre come tale scioglimento reagisca sulla «organizzazione sociale, modificandone lo scopo e limitando il potere degli organi: proprio per ciò si richiede anzi che la circostanza che si tratti di società in liquidazione sia espressamente indicata non solo, come è previsto in via generale per tutte le società commerciali, negli atti e nella corrispondenza (art. 2250, quarto comma, c.c.), ma anche nella denominazione sociale (art. 2487-bis, secondo comma, c.c.)», p. 404 s. 122 Artale, Art. 38. Banca depositaria, in Il testo unico della finanza, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 585 ss. 123 Presso detto Registro, si ricorda, debbono essere depositati e conservati per dieci anni i libri sociali, che rimangono dunque a disposizione per chiunque intenda consultarli, ai sensi dell’art. 2495, co. 1, e 2496 c.c. 124 V., sebbene riferito alle Sicav, Marchetti, Appunti, cit., ove si legge: «[l]a approvazione del bilancio finale di liquidazione naturalmente comporta, con la cancellazione dal registro delle imprese, anche la cancellazione dall’albo», p. 749. Similmente, Picardi, Art. 48, cit. p. 427, ove l’A. afferma che «sebbene manchi nel testo unico una previsione analoga a quella recata dall’art. 11, co. 6, ultima parte, d.lg. 84/1992 [la procedura liquidativa si chiude con la cancellazione anche] dall’apposito albo tenuto dalla Banca d’Italia». 120
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sulla base del bilancio finale di liquidazione. (…). Deve ritenersi perciò definitivamente superata la tendenza giurisprudenziale soprattutto diffusa nel vigore del sistema originario del codice, secondo la quale non vi sarebbe estinzione della società fin quando vi siano rapporti da definire, con la conseguenza di ammettere, quando risultassero nuove passività o nuove attività, non soltanto la riapertura della liquidazione, su istanza degli interessati, ma anche la dichiarazione di fallimento della società cancellata entro l’anno successivo alla estinzione dell’ultima passività. La stessa legge precisa ora, per quanto concerne quest’ultimo aspetto, che il termine annuale di cui all’art. 10 l. fall. decorre dalla cancellazione della società dal registro delle imprese (…) (e v. già C. Cost., sent., 21 luglio 2000, n. 319). Dopo la cancellazione, non è possibile una reviviscenza della società e una riapertura del procedimento di liquidazione né per il caso di sopravvenienze passive né per quello di sopravvenienze attive»125. 3.9. Sicaf ed operazioni straordinarie: fusione e scissione. Rubricata “Fusione e scissione di organismi di investimento del risparmio”, la Sezione V del t.u.f., ove si rinviene l’art. 40-bis t.u.f., provvede a normare la fusione e scissione di oicr, permettendo la realizzazione di quelle concentrazioni disciplinate nell’ordinamento civilistico (ovvero la c.d. fusione in senso stretto e per incorporazione, non invece quella mediante trasferimento del patrimonio netto) nel rispetto dell’iter dettagliato al comma quarto dell’articolo in esame. Le Sicaf coinvolte in operazioni di fusione o scissione applicano, in quanto compatibili, i principi codicistici (art. 2501-ter c.c.) e quelli contenuti nel Regolamento Banca d’Italia (Titolo V, Capitolo I, Sezione II). Il progetto di fusione o scissione deve essere redatto sulla base del Regolamento della Banca d’Italia, altresì chiamata ad autorizzarne anche eventuali modifiche deliberate dall’organo assembleare, a patto che esso non leda i diritti dei soci o dei terzi (art. 2502, co. 2, c.c.)126. Nel caso in
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Ferri, op. cit., p. 409. V. anche Fimmanò e Angiolini, La fase dell’estinzione, cit., p. 425 ss. 126 La portata della modifica che l’organo assembleare può compiere è stata oggetto di disamina per parte del Consiglio Notarile del Triveneto, che ha elaborato nel settembre 2008 una massima del seguente tenore: «L.D.9 Modifiche al progetto di fusione apportabili con decisione unanime dei soci. La decisione dei soci in ordine alla fusione può apportare al progetto anche modifiche che incidano sui diritti dei soli soci (e
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cui intervengano modifiche di rilievo, il Regolamento della Banca d’Italia dispone che si debba nuovamente redigere un documento di informazione e che le relazioni richieste dai commi primo e secondo debbano essere nuovamente elaborate. Esso deve riportare i soggetti coinvolti, le condizioni previste a fini della costituzione della Sicaf (i quali debbono essere in possesso anche della società risultante dall’operazione straordinaria posta in essere), la descrizione dell’operazione, le ragioni economiche di tale comportamento, l’impatto del medesimo sugli investitori, i criteri di valutazione di attività e passività, i criteri per il calcolo del rapporto di cambio, calibrate rispetto alla data in cui il medesimo si realizzerà concretamente, le norme applicabili ai trasferimenti delle attività ed allo scambio tra le azioni, nonché la c.d. data di efficacia dell’operazione. Ne deriva, da un lato, la non rilevanza della relazione degli amministratori ex art. 2501-quinquies c.c., in quanto la sua funzione illustrativa è integralmente sostituita dal progetto di fusione o scissione e, dall’altro, la ridimensionata applicazione della relazione degli esperti richiesta ex art. 2501-sexies c.c.127, già ritenuta rinunciabile con il con-
non dei terzi), a condizione che tale decisione venga approvata con il consenso di tutti i soci rappresentanti l’intero capitale sociale di ciascuna delle società partecipanti alla fusione ed a condizione che di dette modifiche ne sia stata fatta menzione nell’ordine del giorno contenuto nell’avviso di convocazione, ovvero, in mancanza di tale menzione, a condizione che l’assemblea dei soci sia riunita in forma totalitaria. Stante quanto sopra si ritiene che i soci possano all’unanimità apportare le seguenti variazioni al progetto: modificare le clausole dello statuto della società incorporante o della società risultante dalla fusione; modificare il rapporto di cambio, aumentando anche il capitale sociale della società risultante dalla fusione o della società incorporante; modificare le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote della società risultante dalla fusione o della società incorporante; modificare la data dalla quale le azioni o le quote assegnande in concambio parteciperanno agli utili; modificare la data dalla quale le operazioni delle società partecipanti alla fusione sono imputate a bilancio della società che risulta dalla fusione o della società incorporante; modificare il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di soci; modificare la data di efficacia fiscale della fusione. Per converso i soci non possono in sede di decisione di approvazione del progetto di fusione, nemmeno all’unanimità, apportare modifiche che incidano sui diritti di terzi, quali ad esempio: diminuire il capitale sociale della società risultante dalla fusione o della società incorporante (nemmeno se ciò derivi da una modifica del rapporto di cambio); modificare il trattamento dei possessori di titoli diversi dalle azioni; modificare il trattamento eventualmente riservato agli amministratori delle società partecipanti alla fusione, salvo che tale modifica venga approvata all’unanimità da tutti gli amministratori interessati», in Aa.Vv., Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, Milano, 2015, p. 415 ss. 127 Si precisa che essa «è volta a soddisfare esclusivamente le esigenze informative
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senso oltre che dei soci anche dei portatori di altri strumenti finanziari che danno diritto di voto, in quanto posta nell’esclusivo loro interesse, «e non nell’interesse dei creditori sociali o dei creditori particolari dei soci e neppure a tutela della intangibilità del capitale»128. Peraltro, come propone il Regolamento della Banca d’Italia, è sostituibile nel contesto di una fusione di Sicaf dalla relazione del depositario o revisore legale, in quanto essa si focalizza unicamente sulla congruità o meno del criterio di calcolo129. Il progetto, frutto delle trattative intercorse e “momento centrale e più significativo dell’intero procedimento di fusione”130, è valutato da Banca d’Italia entro venti giorni dalla ricezione della comunicazione e, successivamente, la società può fornire ai soci le informazioni richieste. L’autorizzazione viene rilasciata - in presenza (i) della relazione di conformità rispetto alla normativa in materia di gestione collettiva del risparmio dei depositari dei patrimoni coinvolti e (ii) della relazione che attesti la correttezza dei criteri di valutazione delle attività e passività degli organi coinvolti nell’operazione, del metodo con cui è stato fissato il rapporto di cambio e del livello del medesimo per parte della banca depositaria o del soggetto che si occupa della revisione legale dei conti – laddove i fondi coinvolti nella operazione straordinaria siano parte della medesima categoria, le loro politiche di investimento siano compatibili, come pure «i documenti di informazione siano redatti secondo schemi riconosciuti dalla Banca d’Italia e (…) l’operazione non sia qualificabile come fusione comunitaria»131.
dei soci (e, più in generale, dei possessori di strumenti finanziari dotati di diritto di voto): si comprende pertanto che l’eventuale parere negativo degli esperti in ordine alla congruità del rapporto di cambio non vale di per sé ad impedire ai soci di decidere comunque la fusione, così come si comprende la ragione per la quale la legge ne escluda la necessità, in presenza del consenso di tutti i soci (e di tutti i possessori di strumenti che attribuiscono il diritto d voto)», in G. Ferri, op. cit., p. 475. 128 Consiglio Notarile di Milano, Massime notarili in materia societaria, Milano, 2014, v. spec. Massima 26, Esonero dall’obbligo di far redigere la relazione degli esperti nella fusione, 22 marzo 2004; Massima 25, Esonero dall’obbligo di far redigere la relazione degli esperti nella scissione, 22 marzo 2004; già ante riforma, Massima III, Rinuncia alla relazione degli esperti sulla congruità del rapporto di cambio in caso di fusione e scissione (art. 2501-quinquies c.c.), 6 febbraio 2001. 129 Bianchi, La congruità del rapporto di cambio nella fusione, in Il Sole 24 Ore, 2002, spec. p. 12. 130 Campobasso, Manuale, cit., p. 647. 131 Mangione, Art. 50-ter. Fusione e scissione di Oicr, in Il testo unico della finanza, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 709 ss., p. 711 e nt. 4.
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Quindi, sentita la Consob, il Regolamento di Banca d’Italia disciplina «a) la procedura di autorizzazione e le relative condizioni; b) l’individuazione della data di efficacia dell’operazione e i criteri di imputazione dei costi dell’operazione; c) l’informativa da rendere ai partecipanti; d) le forme ammesse per le fusioni e le scissioni; e) l’oggetto delle attestazioni di conformità e della relazione previste dai commi 1 e 2; f) i diritti dei partecipanti»132. Tra essi, rilevo primario assume il documento informativo: accuratamente elaborato, il documento deve infatti consentire agli investitori – cui viene consegnato almeno trenta giorni prima del termine ultimo per esercitare i propri diritti di riacquisto, rimborso o conversione delle azioni o quote – di meditare sulla loro posizione e giungere ad una valutazione informata e consapevole dell’impatto della fusione, al fine di esercitare i propri diritti fino a cinque giorni prima della data fissata per il calcolo del rapporto di cambio, come da progetto di fusione o scissione. Ad essi è data facoltà di richiedere relazione attestante la correttezza del calcolo del livello effettivo di concambio133 e, più in generale, dei criteri e metodi valutativi adottati. In conclusione, rileva tuttavia come, in deroga al regolamento Banca d’Italia, le Sicaf autogestite, delle cui peculiarità si è già avuto modo di parlare al precedente paragrafo 3.4.6.1, possono addebitare i costi dell’operazione straordinaria posta in essere alla società, riportandoli nel documento di informazione.
4. Rilievi conclusivi. La composita disciplina tratteggiata, caratterizzata da un accumularsi di disposizioni eterogenee e complesse, stratificatesi nel tempo e per molti aspetti lacunosi, necessita sicuramente di una non semplice riorganizzazione. Infatti, le sempre più ampie frontiere dei mercati finanziari non circoscrivono né la ricerca ed il proliferare di “particolarismi” della regolamentazione (es. EuVeCa, sopra-sotto soglia, ecc.), né tantomeno il progressivo ampliamento delle attività riservate e della vigilanza sulla gestione collettiva134. Al contempo, molteplici rimangono le zone opache tra attività vigi-
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Ampiamente, per ciascuno dei momenti elencati, v. Mangione, Art. 50-ter., cit., p. 709 ss., p. 711 ss. 133 L’esatta definizione della locuzione è precisata in Mangione, Art. 50-ter., cit., p. 713. 134 Annunziata, UCITS, cit.
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late o meno, ora lasciate alla discrezionale interpretazione dell’interprete, rispetto alla quale incidono con chiaro intento limitativo della stessa sia il ricorso al principio di proporzionalità ed ai limiti dimensionali, come emerge dal caso italiano dei cc.dd. sotto soglia, sia l’attività di guidelines Dell’Esma, quanto le diverse autorità, come accaduto nel caso delle Siiq135. Prima della riforma del diritto societario, utile riferimento era rappresentato dalla massima IX, “Attività “finanziarie” riservate e requisiti previsti dalla legge (artt. 14 ss. e 106 ss. t.u.b.; artt. 18 ss., 33 ss. e 43 ss. t.u.f.)”, elaborata dalla Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano e datata 3 luglio 2001, contenente uno schema riassuntivo in subiecta materia, di seguito riproposto nella sua versione aggiornata: a) Società finanziarie (art. 106 ss. t.u.b.). Oggetto. - Lo svolgimento delle attività finanziarie “nei confronti del pubblico” (la definizione di esercizio nei confronti del pubblico è contenuta nel d.m. Tesoro 6 luglio 1994) è riservata agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco tenuto dall’UIC (Ufficio Italiano Cambi), oggi sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia. L’oggetto deve essere esclusivo. Si rinvia all’art. 106 t.u.b. per considerazioni sulle attività finanziarie in senso proprio. Gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 possono inoltre (nei casi previsti e regolati dalla Banca d’Italia) svolgere servizi di investimento. Lo svolgimento di attività finanziarie in via prevalente, ma non nei confronti del pubblico, al contrario, non richiede requisiti minimi strutturali; pertanto attività quali quella di “holding” o di finanziaria di gruppo possono essere introdotte nell’oggetto liberamente. Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata o società cooperativa. Capitale. - Il capitale deve essere non inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni o al maggior importo determinato ai sensi del quarto comma, lett. b). b) Società di intermediazione mobiliare - Sim (art. 18 ss. t.u.f.). Oggetto. - Attività esclusiva e riservata (salva la competenza concorrente delle banche e quei pochi servizi di investimento che possono essere prestati dalle sgr o dagli intermediari finanziari iscritti nella sezione speciale dell’art. 107) è l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei
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R. Costi, Il mercato, cit., p. 204 s.
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servizi di investimento, come qualificati dall’art. 1, co. 5, t.u.f. o successivamente individuati dal Ministro del Tesoro ai sensi dell’art. 18 t.u.f. Le Sim possono inoltre prestare: - i servizi accessori, come definiti nell’art. 1, co. 6, t.u.f.; - altre attività finanziarie; - attività connesse e strumentali. Esse dunque svolgono attività di negoziazione titoli per conto terzi (brokerage), collocamento dei titoli senza garanzia (selling), negoziazione titoli per conto proprio (dealing), collocamento dei titoli con garanzia (underwriting), gestione dei portafogli finanziari, raccolta e trasferimento di ordini di acquisto e vendita, Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni. Denominazione. - Deve comprendere le parole “società di intermediazione mobiliare”, (eventualmente anche in sigla Sim), in analogia con quanto si ritiene per l’indicazione della forma giuridica di società per azioni ai sensi dell’art. 2326 c.c. Sede legale. - Deve essere situata in Italia. Capitale. - Il capitale minimo delle sim è stabilito dalla Banca d’Italia anche in funzione dei singoli servizi di investimento che la sim viene autorizzata a svolgere; attualmente il capitale minimo è stabilito nel Regolamento in materia di intermediari del mercato mobiliare (adottato dalla Banca d’Italia con provvedimento del 4 agosto 2000 e modificato con provvedimenti Banca d’Italia del 24 ottobre 2007, del 29 ottobre 2007, del 27 febbraio 2008 e provvedimento congiunto Banca d’Italia/ Consob del 29 ottobre 2007, Titolo II, Capo, I, art. 4, in «- 120.000 euro per le sim che intendono prestare esclusivamente il servizio di consulenza in materia di investimenti a condizione che: 1. non detengano, neanche in via temporanea, disponibilità liquide e strumenti finanziari di pertinenza della clientela; 2. non assumano rischi in proprio; - 385.000 euro per le sim che intendono prestare, anche congiuntamente, i servizi di: a) collocamento di strumenti finanziari senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; b) gestione di portafogli; c) ricezione e trasmissione di ordini; a condizione che: tali limitazioni devono essere espressamente previste nello statuto delle sim. Il medesimo importo è richiesto anche qualora tali sim prestino il servizio di consulenza in materia di investimenti; - 1 milione di euro per le sim che intendono prestare, anche congiuntamente, i servizi: a) previsti nei punti I) e II), in mancanza delle condizioni ivi indicate; b) di sottoscrizione e/o collocamento di strumenti finanziari con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente; c) di negoziazione per conto proprio; d) di esecuzione
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di ordini per conto dei clienti; e) di gestione di sistemi multilaterali di negoziazione». Pertanto occorrerà verificare che il capitale minimo deliberato sia sufficiente per svolgere i servizi di investimento previsti nell’oggetto ed in particolare, permanendo le attuali indicazioni della Banca d’Italia, nel caso in cui il capitale sia inferiore all’importo che consente lo svolgimento di tutti i servizi di investimento, che l’oggetto sia limitato ai servizi consentiti. c) Società di gestione del risparmio Sgr (art. 33 ss. t.u.f.). Oggetto. - Attività esclusiva e riservata è la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, come definito dall’art. 1, co. 1, lett. n, t.u.f. Le Sgr possono inoltre: - prestare il servizio su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi; - istituire e gestire fondi pensione; - svolgere attività connesse e strumentali stabilite dalla Banca d’Italia, sentita la Consob (attualmente specificate nel provvedimento in data 1 luglio 1998); - prestare il servizio di investimento di cui all’art. 1, co. 5, lett. d, t.u.f., ai sensi dell’art. 19 t.u.f. Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni. Denominazione. - Deve comprendere le parole “società di gestione del risparmio”, eventualmente, come detto anche per le Sim, anche in sigla (Sgr) in analogia con quanto si ritiene per l’indicazione della forma giuridica di società per azioni ai sensi dell’art. 2326 c.c. Sede legale. - Deve essere situata in Italia. Capitale. - Il capitale minimo delle Sgr è stabilito dalla Banca d’Italia. Attualmente il capitale minimo è stabilito nel Provvedimento della Banca d’Italia in data 1 luglio 1998 in euro 1.000.000. d) Banche (artt. 10 ss. t.u.b.). Oggetto. - L’attività bancaria propriamente detta e riservata alle banche è costituita dalla raccolta di risparmio tra il pubblico (definita come “l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma”) e dall’esercizio del credito; le banche possono inoltre effettuare: (i) ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna; (ii) le attività connesse o strumentali; (iii) i servizi di investimento, ai sensi dell’art. 19 t.u.f. L’oggetto deve essere esclusivo, come si desume dal co. 3 dell’art. 10 t.u.b., che elenca in modo tassativo le attività esercitabili oltre all’attività bancaria propriamente detta. Sede legale. - Deve essere situata in Italia, come specificato nella circolare della Banca d’Italia di cui infra.
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Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni o di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata. Capitale. - Il capitale minimo delle banche è stabilito dalla Banca d’Italia. Attualmente in 6,3 milioni di euro per s.p.a. e banche popolari e in 2 milioni di euro per banche di credito cooperativo (circolare 21 aprile 1999, n. 229 e successivi aggiornamenti). e) Società di investimento per azioni a capitale variabile Sicav (art. 35-bis ss. t.u.f.). Oggetto. - Attività esclusiva deve essere “l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante offerta al pubblico delle proprie azioni” (art. 1, lett. i); le Sicav possono inoltre svolgere attività connesse e strumentali indicate dalla Banca d’Italia, sentita la Consob. Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni. Denominazione. - Deve contenere l’indicazione di società di investimento per azioni a capitale variabile o la sigla Sicav. Sede legale. - Deve essere situata in Italia. Capitale. - Il capitale minimo delle Sicav è stabilito dalla Banca d’Italia. Attualmente il capitale minimo è stabilito nel Provvedimento della Banca d’Italia in data 1 luglio 1998 in euro 1.000.000. Lo statuto deve inoltre indicare “le modalità di determinazione del valore delle azioni e del prezzo di emissione e di rimborso nonché la periodicità con cui le azioni Sicav possono essere emesse e rimborsate”. f) Società di investimento per azioni a capitale fisso Sicaf (art. 35-bis ss. t.u.f.). Oggetto. - Attività esclusiva deve essere “l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante offerta al pubblico delle proprie azioni”; le Sicaf possono inoltre svolgere attività connesse e strumentali indicate dalla Banca d’Italia, sentita la Consob. Forma giuridica. - Deve essere quella di società per azioni. Denominazione. - Deve contenere l’indicazione di società di investimento per azioni a capitale fisso o la sigla Sicaf. Sede legale. - Deve essere situata in Italia. Capitale. - Il capitale minimo delle Sicaf è stabilito dalla Banca d’Italia. Attualmente il capitale minimo è stabilito nel Provvedimento della Banca d’Italia in data 1 luglio 1998 in euro 1.000.000. Lo statuto deve inoltre indicare “le modalità di determinazione del valore delle azioni e del prezzo di emissione e di rimborso nonché la periodicità con cui le azioni Sicav possono essere emesse e rimborsate”. (Regolamento).
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Gli accordi di sostegno finanziario infragruppo nella crisi dei gruppi bancari Sommario: 1. Introduzione: il finanziamento privato della crisi degli enti creditizi. – 2. I finanziamenti inter company ed esercizio dell’attività di direzione e coordinamento. – 3. Sostegno finanziario e crisi d’impresa. – 4. Il sostegno finanziario infragruppo nella BRRD. – 5. Le Guidelines emanate dall’EBA. – 6. La Legislative guide on insolvency dell’UNCITRAL. – 7. I nuovi confini dell’interesse di gruppo nella BRRD. – 8. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione: il finanziamento privato della crisi degli enti creditizi. I rischi sistemici conseguenti all’apertura di procedure concorsuali che riguardano soggetti operanti su scala transnazionale nel settore creditizio hanno posto la necessità di adozione di una disciplina armonizzata, funzionale alla prevenzione e risoluzione delle crisi bancarie1. Il percorso che ha condotto al varo della Unione Bancaria europea2 prende spunto dal massivo intervento della Commissione europea, costretta nel periodo della crisi dei debiti sovrani, innescata dai fallimenti dei gruppi bancari americani nel periodo 2007-2009 e, propagatasi all’Europa continentale, ad autorizzare l’impiego di aiuti di Stato3.
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Sui lavori preparatori della Direttiva v. Schilling, Bank Resolution Regimes in Europe I – Recovery and Resolution Planning, Early Intervention, in www.ssrn.com, 2012; Binder, Resolution Planning and Structural Bank Reform Within the Banking Union, in www. ssrn.com, 2015. 2 v. Boccuzzi, L’unione bancaria europea, Roma, 2015, p. 15 ss. ivi ampi riferimenti al percorso di riforma europeo. 3 v. Haentjens, Bank Recovery and Resolution: An Overview of International Initiatives, in International Law Review, 3/2014, p. 255. Gli aiuti alle banche dell’Unione nel 2012 rappresentano il 40% del PIL complessivo ed hanno comportato un sensibile incremento del debito pubblico dei Paesi dell’area che, nel 2013, è arrivato a 250 miliardi di euro.
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La Direttiva 2014/59/UE (Bank Recovery and Resolution Directive in seguito semplicemente “BRRD” o la “Direttiva”) pone quale obiettivo principale quello di istituire un quadro comune ed armonizzato di regole per la soluzione delle crisi di enti creditizi e delle imprese di investimento aventi natura transfrontaliera. Essa costituisce un pilastro fondamentale dell’Unione Bancaria Europea, basata sul superamento dei sistemi di vigilanza tradizionali e, a vantaggio di un meccanismo di vigilanza unico (Single Supervisory Mechanism – SSM)4 facente capo alla BCE, in collaborazione con le ESAs (European Supervisory Authorities) e le autorità di vigilanza nazionali, un sistema unico di soluzione delle crisi (Single Resolution Mechanism) con la previsione di un Fondo Unico di Risoluzione (Single Resolution Fund) ed un sistema unico di garanzia dei depositi5. La nuova articolazione “costituzionale”6 della vigilanza bancaria si basa sulla tecnicizzazione delle regole da adottare a livello europeo, per prevenire ed affrontare le situazioni di crisi secondo il single rulebook redatto dall’EBA (European Bank Authority istituita con Regolamento UE N. 1093/2010) alla quale viene attribuita anche una importante funzione di orientamento tecnico normativo7.
4 Istituito con Regolamento UE n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013, pubblicato su Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 29 ottobre 2013 L 287/63 al fine di consentire un efficace e solido controllo dell’intero gruppo bancario e della sua solidità complessiva e per ridurre il rischio che diverse interpretazioni e decisioni contraddittorie a livello del singolo ente possano creare le condizioni della propagazione della crisi. 5 L’armonizzazione delle procedure preventive e si risoluzione delle crisi bancarie costituisce il punto di approdo di un lungo percorso che ha portato alla radicale modifica dell’assetto “costituzionale” della vigilanza sugli enti creditizi e finanziari, passando da un sistema decentrato che poggiava sulle autorità di vigilanza nazionali ad una vigilanza europea v. Santoro, Prevenzione e “risoluzione” della crisi delle banche, articolo consultabile sul sito http://www.regolazionedeimercati.it/sites/default/files/Santoro%20 SRM.pdf. 6 v. Spina & Bikoula, Dal bail-out al bail-in, La BRRD e il quadro di prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi nell’Unione Bancaria, Roma, 2015, p. 26 ss. 7 V. Brozzetti, Concentrazione bancaria: da mito ad incubo?, Pisa, 2011, p. 81, ove con ampi riferimenti all’istituzione del sistema europeo di vigilanza e supervisione attraverso le European Supervisor Authorities nel settore finanziario, bancario ed assicurativo. Nel nuovo contesto di vigilanza europeo l’EBA (European Banking Authority a cui è devoluta la funzione regolamentare ad opera del Regolamento n. 1022/2013) ha il compito di stilare regole tecniche comuni in campo bancario (c.d. rulebook), di dirimere i contrasti tra le autorità nazionali e di coordinamento. L’EBA ha il compito di coordinare i collegi dei supervisori sui gruppi bancari europei in prospettiva di monitoraggio della crisi.
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L’intento disvelato è quello di potenziare, sotto la supervisione del SSM, le misure di prevenzione8 della crisi degli istituti di credito e finanziari, relegando l’intervento pubblico (bail out) attraverso gli aiuti di Stato ad “estrema ratio”9 ed incentivando, di converso, l’utilizzo di risorse private da parte di azionisti e creditori. Gli accordi di sostegno finanziario infra gruppo appartengono alle misure di preparazione (della soluzione della crisi) e costituiscono uno dei capisaldi della disciplina europea che segna il passaggio dagli aiuti di Stato (Bail out) a misure drastiche di ridimensionamento dei diritti degli azionisti e dei creditori (Bail-in), alla possibilità di decidere la dismissione dell’impresa bancaria o di suoi rami, per evitare la propagazione del contagio10. Al centro della disciplina comunitaria sono posti i gruppi bancari. In presenza di una organizzazione di gruppo11 operante a livello transfrontaliero, soggetta a discipline del diritto societario e concorsuale diverse, la necessità di rapida soluzione e prevenzione della crisi può essere messa a repentaglio dalla specialità degli ordinamenti di appartenenza degli enti coinvolti12. Le società appartenenti all’area di consolidamento di un gruppo tran-
8 V. Boccuzzi, Towards a New Framework for Banking Crisis Management. The International Debate and the Italian Model, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, novembre 2011, p. 15 ss., il quale definisce la crisi bancaria come «una profonda alterazione delle condizioni economiche, finanziarie e patrimoniali della banca, che richiede interventi appropriati e tempestivi volti a rimuoverne le cause reali e a minimizzare i suoi negativi effetti sui depositanti e sugli altri stakeholders rilevanti». 9 Si rinvia a Framewok Regulation: Regulation (Ei) n.48/2014 entrato in vigore il 15 maggio 2014 con il Supervisor Manual che stabilisce la ripartizione di ruoli e funzioni tra la BCE attraverso il SSM e le autorità nazionali secondo un criterio di maggiore accentramento per i gruppi bancari maggiormente significativi (totale assets superiore a 30 mld di euro). 10 Il FSB ha emanato nel 2011 i Key Attributes for resolution regimes (KAs), ovvero i principi che presiedono alla risoluzione delle crisi bancarie che poggiano sulla preferenza tout court dell’utilizzo di risorse private per finanziare i piani di risoluzione e prevenzione. 11 Si rinvia a Galanti, I gruppi nella Proposta di Direttiva sul nuovo quadro di risanamento e di risoluzione delle crisi bancarie, in Dir. banc., 2013, p. 654 ss. 12 Cfr. Granata, Operazioni di sostegno nell’ambito dei gruppi bancari: prospettive di una disciplina europea, in RDS, 2012, p. 616 ss., il quale evidenzia come la mancanza di una procedura armonizzata di soluzione delle crisi bancarie costituisca fattore di accelerazione delle insolvenze attraverso la creazione, per effetto di normative restrittive, di “trappole di liquidità” (liquidity traps).
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sfrontaliero sono soggette all’applicazione di discipline normative divergenti (host country regulation)13 rispetto a quelle della capogruppo, con evidenti complicazioni in caso di crisi o dissesto, alla luce della disomogeneità dei diritti nazionali e del differente approccio alla materia della crisi14. Ma l’insolvenza di una entità affiliata può influire rapidamente sulla solvibilità del gruppo sino a provocare rischi sistemici15. L’esigenza di perseguimento della “stabilità del gruppo nel suo complesso” e del favor verso soluzioni private della crisi16 sembra condurre, nelle intenzioni del legislatore comunitario, all’affermazione di un mutamento di prospettiva della direzione e coordinamento. La direzione e coordinamento si emancipa da fenomeno disciplinato esclusivamente nel suo momento patologico di riconduzione sul piano del rimedio risarcitorio della responsabilità della holding per divenire strumento di programmazione della gestione della possibile futura crisi, attraverso l’apporto di elementi dell’attivo patrimoniale da parte di società appartenenti allo stesso gruppo anche “al di fuori delle condizioni di mercato” per il perseguimento della stabilità del gruppo nel suo complesso. Il vantaggio compensativo della società erogante assistenza, seppure affermato come elemento imprescindibile della legittimità del sostegno finanziario, come si vedrà, può così essere svincolato da una dimensione indennitaria individuale e reso funzionale al perseguimento di un “interesse pubblico” alla stabilità economica. In tal senso non appare irrilevante la decisione del legislatore italiano, in sede di recepimento della Direttiva, di derogare tout court al regime delle azioni recocatorie ordinare e fallimentari nonché alla disciplina sulle parti correlate, a voler affermare la supremazia dell’interesse di gruppo (e quello pubblicistico al suo salvataggio) rispetto alla monade azionaria.
13 Cfr. Babis, EU Recovery and Resolution Framework: Financial assistance between banking group members, Legal Studies Research Papers series, paper no. 15/2012, articolo disponibile sul sito http://www.law.cam.ac.uk/ssrn/. La mancanza di una disciplina armonizzata ha favorito condotte opportunistiche e protettive da parte degli Stati membri che, pur di evitare il contagio, hanno imposto misure restrittive al sostegno finanziario attraverso il congelamento degli attivi (ring fancing); v. anche Cetin, The EU Proposal for Bank Recovery and Resolution, in www.ssrn.com, 2013. 14 Cfr. Brunetto, Amministrazione straordinaria, in Commento al t.u.b., a cura di Costa, Torino, 2013, p. 1050. 15 V. Considerando n. 11. 16 V. Thole, Bank Crisis Management and Resolution, in www.ssrn.com, 2014, il quale evidenzia il trend normativo verso l’adozione di misure preventive della crisi.
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Edgardo Ricciardiello
Cosicché le nuove regole, per quanto appaiano sovversive del diritto societario e concorsuale, seppure limitatamente all’istituto in esame, risultano coerenti con l’impostazione data dal legislatore comunitario volta a richiedere un sacrificio ai soci ed ai creditori sociali in presenza di situazioni di crisi ed evitare il contagio del fallimento delle banche sistematicamente rilevanti e le conseguenti ripercussioni sui debiti pubblici.
2. I finanziamenti inter company ed esercizio dell’attività di direzione e coordinamento. I gruppi societari sono, come è noto, modelli organizzativi caratterizzati dalla contrapposizione tra esigenza di unitarietà strategico-economica ed autonomia patrimoniale delle società appartenenti17. Il “dilemma” dei gruppi vive tradizionalmente nella contraddizione tra la concezione economica del gruppo, quale impresa unitaria organizzata secondo un insieme di società eterodirette, e la visione giuridica che presuppone una relazione tra soggetti distinti ma legati da un rapporto di controllo18. L’obiettivo di consolidamento delle decisioni è perseguito attraverso l’attività di direzione e coordinamento (c.d. direzione unitaria) che consente ad entità soggettivamente distinte di operare su base centralizzata o consolidata. La direzione e coordinamento costituisce la manifestazione tipica delle aggregazioni di gruppo19 che si pone sul piano della eterodirezione,
17 Cfr. ex plurimis Montalenti, I gruppi di società, in Tratt. dir. comm., diretto Cottino, Padova, 2010, p. 1029 ss.; Di Majo, La responsabilità per l’attività di direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I, p. 661; Pavone La Rosa, Nuovi profili della disciplina dei gruppi societari, in Riv. soc., 2003, p. 766 ss.; Scognamiglio, Poteri e doveri degli amministratori nei gruppi di società dopo la riforma del 2003, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, a cura di Scognamiglio, Milano, 2003, p. 202 ss. 18 Sul carattere plurimo e non unitario delle imprese di gruppo soggette però ad un coordinamento comune v. Scognamiglio, Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di imprese, Torino, 1996, p. 59; Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2003, p. 507. 19 Cfr. Montalenti, Il diritto societario a dieci anni dalla riforma: bilanci, prospettive, proposte di restyling, in Giur. comm., 2014, p. 1068, il quale evidenzia come la direzione e coordinamento non coincida con il controllo potendosi solo presumere la prima in presenza del secondo. v. anche sul tema Pavone La Rosa, Le società controllate. I gruppi,
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ovvero del potere di un soggetto esterno di influire sulle decisioni di un altro indipendente dal primo e, dallo stesso, formalmente autonomo20. Negli ordinamenti che hanno rinunciato a fornire una definizione di gruppo l’attenzione si è focalizzata sulle conseguenze della aggregazione e del suo manifestarsi come “dimensione fattuale”21. Il legislatore è così intervenuto nel disciplinare le conseguenze di un fenomeno non definito ma del tutto rilevante, sanzionandone le manifestazioni negative sul piano della responsabilità e del risarcimento del danno22. L’attività di direzione e coordinamento, del resto, nella prassi assolve a diverse funzioni che dipendono dalle possibili varianti impresse dalla autonomia contrattuale ai rapporti tra la holding e le società soggette alla sua influenza23, sul presupposto, tuttavia, che si tratti di attività stabile e non relegata a singoli atti sporadici e che tale attività abbia funzione di indirizzo sulle “scelte strategiche ed operative di carattere finanziario industriale e commerciale24, riducendo la sovranità delle società eterodirette25.
in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, 1991, p. 596; Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 2002, p. 297. 20 Tale potere, per una parte della dottrina è riconducibile alla mera rilevanza “fattuale” del fenomeno v. Galgano & Genghini, Il nuovo diritto societario, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, vol. XXIX t. 1, 3, Padova, 2006, p. 309. In prevalenza tende viceversa ad attribuirsi rilevanza al modello organizzativo. Cfr. Scognamiglio, “Clausole generali”, principio di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 583, la quale parla apertamente di un deficit regolatorio riguardo al fenomeno dei gruppi individuando nella direzione e coordinamento una attività che seppure ipoteticamente non riconducibile ad un negozio o atto giuridico postula un fondamento organizzativo (in particolare nt. 9). 21 In tal senso Ferro-Luzzi & Marchetti, Riflessioni sul gruppo creditizio, in Giur. comm., 1994, I, p. 419; Montalenti, I gruppi, cit., p. 1047, il quale argomenta de jure condito sulla base della rilevanza della direzione e coordinamento contrattuale. 22 Cfr. Valzer, Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, a cura di Abbadessa e Portale, t. 3, Torino, 2007, 3, p. 834 ss.; v. Tombari, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in Giur. comm., 2004, I, p. 66. 23 Sulla rilevanza e legittimità dei regolamenti contrattuali di gruppo v. Lamandini, Il gruppo cooperativo paritetico “semplice” e “qualificato” (bancario), Prime riflessioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, cit., p. 1103 ss. 24 v. Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Riv. soc., 2007, p. 317 ss.; Id., Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, p. 710, il quale avverte però che eterodirezione non significa spoliazione del potere gestorio delle società eterodirette. 25 Mignoli, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in Contr. e impr., 1986, p. 799.
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La riforma del diritto societario del 2003, sulla spinta di istanze di ordine concorsuale dovute all’impossibilità di riconoscere il fallimento in estensione nell’ambito di società diverse da quelle personali (art. 147 l.fall.), è intervenuta a disciplinare le conseguenze della direzione e coordinamento abusiva di cui agli artt. 2497 e ss. c.c., senza definire i gruppi, bensì introducendo le fattispecie di responsabilità della holding ai sensi dell’art. 2497 c.c.26 Il legislatore della riforma, assumendo come legittima (seppure non disciplinandola) l’attività di direzione e coordinamento ne ha individuato i tratti patologici27, riconducendola sul piano della violazione del dovere generale di corretta gestione societaria ed imprenditoriale. La disciplina della riforma, pur ponendosi sul pian sanzionatorio della direzione e coordinamento abusiva, pare emanciparsi da un approccio interpretativo volto a reprimere l’utilizzo degli schermi societari di soggetti interposti nella gestione di impresa ai fini dell’estensione del fallimento, ponendosi, piuttosto, sul piano della responsabilità da gestione28. In tal modo, la direzione e coordinamento viene ricondotta all’attività gestoria del management della holding per incanalarla all’interno dei canoni di corretta gestione che deve permeare l’attività degli amministratori29. Una delle manifestazioni tipiche della direzione e coordinamento, quale “attività di indirizzo operativo e strategico”, è il sostegno finanziario infra gruppo: tanto è che i finanziamenti infragruppo costituiscono elemento presuntivo dell’esercizio concreto dell’attività di direzione e
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Sul tema v. ampiamente Di Majo, I gruppi di società, Responsabilità e profili concorsuali, Milano, 2012. 27 Enfatizza la funzione preventiva della disciplina Caruso, Inizio e cessazione della direzione e coordinamento e recesso del socio, Torino, 2012, p. 43. 28 Cfr. Galgano, Qual è l’oggetto sociale della holding?, in Contr. e impr, 1986, p. 327; Id., L’oggetto sociale della holding è l’esercizio mediato ed indiretto dell’impresa di gruppo, in Contr. e impr., 1990, p. 401. Contra, Cottino, Diritto Commerciale, 2, Padova, 1994, p. 786; Miola, Le garanzie infragruppo, Torino, 1993, p. 52 ss.; Vella, La società holding, Milano, 1993, p. 135 ss.; Scognamiglio, Autonomia, cit., p. 50 ss.; Rondinone, Gruppi di imprese tra diritto comune e diritto speciale, Milano, 1999, p. 828; Dacco’, Alcune osservazioni in tema di estraneità all’oggetto sociale nei gruppi di società, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, I, p. 76 ss. 29 Cfr. sempre Scognamiglio, Clausole, cit., p. 588. Seguendo tale impostazione, l’enunciazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria applicata al gruppo pone solo una “connotazione dimensionale del dovere generale di corretta gestione del management” con la conseguenza che agli amministratori non può essere precluso di perseguire l’interesse di gruppo quale “punto di equilibrio” o sintesi tra l’interesse della controllante e delle controllate.
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coordinamento, quale attività che provoca la perdita di indipendenza economica e discrezionalità operativa delle società eterodirette30. In linea generale, l’assistenza finanziaria può espletarsi con modalità variegate che spaziano dalla vera e propria concessione di finanziamenti (a titolo di debito), dall’iniezione di liquidità a titolo di equity, alla prestazione di servizi, alla dazione di garanzie. L’assistenza finanziaria, sul piano della efficienza economica, presuppone la gestione accentrata di risorse su base consolidata di gruppo per la migliore allocazione delle medesime e la promozione di una strategia unitaria di impresa31. La centralizzazione delle funzioni in capo alla capogruppo consente di diversificare le fonti di approvigionamento delle risorse finanziarie attraverso flussi verticali (upstream o downstream) o orizzontali, nonché la stessa allocazione delle risorse da alcune entità del gruppo a favore di altre, evitando di ricorrere al finanziamento esterno32. L’assistenza finanziaria riduce, così, gli oneri finanziari che dovrebbero essere assunti in caso di ricorso al capitale di terzi, facendo beneficiare tutte le società del gruppo. L’accentramento delle funzioni in capo alla holding rende più efficiente lo svolgimento delle attività delle società controllate, sia a livello di allocazione delle risorse (capitale) sia per l’assunzione di strategie su larga scala33. Nei gruppi si verifica, così, una circolazione di liquidità interna tale da creare un vero “internal market” (intendendosi la circolazione di attivo o esposizione tra soggetti correlati) i cui benefici sono ampiamente enfatizzati in letteratura34.
30 Sul punto v. ampiamente Balp, Finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento, in Commentario alla riforma delle società, a cura di Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2012, p. 287 ss.; Miola, Le garanzie intragruppo, Torino, 1993, p. 4 ss.; Tombari, I gruppi di società, in, Le nuove s.p.a., diretto da Cagnasso e Panzani, Bologna, 2010, p. 1780. 31 V. Goodhart, Multiple Regulators and Resolutions in Douglas Evanoff and George Kaufman (eds), Systemic Financial Crises: Resolving Large Bank Insolvencies, Singapore, 2005, p. 266; Gleeson, Bank Resolution and Bail-ins in the Context of Bank Groups, 2012, in 6 Law and Financial Markets Review, p. 61-67. V, altresì, Joint Forum, Report on IntraGroup Support Measures, 2012, disponibile sul sito www.bis.org/publ/joint28.pdf. 32 Sull’efficienza dell’accentramento del potere decisionale in capo alla controllante v. De Haas & I. V. Lelyveld, Internal Capital Markets and Lending by Multinational Bank Subsidiaries, 2010, in 19 Journal of Financial Intermediation 1-25. 33 V. Report on intra-group support measures, 2012, www.bis.org/publ/joint28.pdf . 34 Per un dibattito sul tema v. Navaretti, Calzolari, Pozzolo & Levi, Multinational
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3. Sostegno finanziario e crisi d’impresa. È indubitabile che il sostegno finanziario inter company può essere erogato in ogni momento della vita delle società, rispondendo all’archetipo contrattuale dell’organizzazione di gruppo data dalla autonomia delle parti. Tuttavia, esso assume particolare importanza in relazione alla situazione di crisi35. Per tale ragione l’attenzione degli studiosi si è di recente focalizzata sullo studio dei finanziamenti inter companies in situazioni di crisi, al fine di valutarne la efficienza36 ma anche i rischi37 che possono conseguire al contagio della società in bonis ed alla stabilità stessa del gruppo. In epoca di crisi, l’esistenza di un internal capital market può favorire la stabilità del gruppo ed è per tale ragione che la Commissione Europea da alcuni anni si pone, quale obiettivo, l’abbattimento degli ostacoli alle transazioni infra gruppo, sul presupposto che le normative nazionali pongano troppi vincoli sia sul piano societario che concorsuale38. Il sostegno finanziario in tempo di crisi rileva, altresì, sul piano patologico dell’estrazione dei benefici privati di controllo39 da parte della società controllante che, disponendo di informazioni sulla condizione patrimoniale e finanziaria del gruppo e delle società eterodirette, potrebbe assumere condotte azzardate (moral hazard) o indurre il management
Banking in Europe - Financial Stability and Regulatory Implications: Lessons from the Financial Crisis, 2010, 25, Economic Policy, p. 703. 35 È sempre di grande attualità il pensiero di Libonati, Il gruppo insolvente, Firenze, Nardini, 1981. Per una completa ricostruzione del dibattito in materia e con ampi riferimenti di diritto comparato v. più di recente Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi, in Società, Banche e Crisi d’Impresa, Liber Amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, p. 2695 ss. 36 Babis, EU Recovery and Resolution Framework: Financial Assistance between Banking Group Members, in Legal Studies Research Papers series, paper no. 15/2012, articolo disponibile sul sito www.law.cam.ac.uk/ssrn. 37 v. Allen, Gu & Kowalewski, Corporate Governance and Intra-Group Transactions in European Bank Holding Companies During the Crisis, Working paper 2001, in http:// fic.wharton.upenn.edu/fic/papers/11/11-35.pdf. 38 V. DBB Law for the European Commission, Study on the feasibility of reducing obstacles to the transfer of assets within a cross border banking group during a financial crisis - Final report, 2010, consultabile sul sito http://ec.europa.eu/internal_market/bank/ docs/windingup/2008/final_report20091218_en.pdf. 39 V., ex plurimis, Enriques, Gruppi piramidali, operazioni intragruppo e tutela degli azionisti eterni: appunti per un’analisi economica, in Giur. comm., 1997, I, p. 709 ss.; Id., Il conflitto di interesse degli amministratori di società per azioni, Milano, 2000, p. 19 ss.
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delle società controllate a fare illegittimo affidamento sul sostegno finanziario della controllante per porre in essere operazioni pregiudizievoli degli interessi dei creditori e degli azionisti. Viene, del resto, omesso ogni profilo in merito all’atteggiarsi del sostegno finanziario sul piano dei doveri degli amministratori per il perseguimento dell’interesse di gruppo, e persino i contenuti della direzione e coordinamento sfumano sul piano della cogenza o meno di un sostegno nell’ambito dell’impresa di gruppo40. Difetta, in sostanza, una qualsiasi riconduzione del fenomeno alla corporate governance societaria. Nell’impostazione data dal t.u.b., il sostegno finanziario di cui all’istituto in esame, ancor prima del recepimento della Direttiva, diviene parte imprescindibile ed attuativa della vigilanza prudenziale esercitata dalla Banca d’Italia attraverso la capogruppo41. Per le società bancarie il sostegno finanziario assume notoriamente maggiore pregnanza in quanto costituisce strumento di perseguimento della stabilità del gruppo imposta dal t.u.b. Esso gioca un ruolo rilevante ai fini del mantenimento dei requisiti di vigilanza prudenziale che impongono alle società (individualmente o su base consolidata - v. infra) di rispettare i requisiti di capitale e grandi esposizioni stabiliti dagli accordi di Basilea III confluiti nella recente CRD4 (2013/36/UE) e nel CRR (Regolamento n. 575/2013). La lettura dei principi enunciati nella Direttiva CRDIV (e del regolamento 575/2013) in materia di requisiti di patrimonio di vigilanza e grandi esposizioni sembra confermare che nell’approccio del legislatore europeo la direzione unitaria bancaria viene individuata come possibile zona di esenzione dei requisiti su base soggettiva individuale per favorire il sostegno finanziario in caso di stress. In particolare, viene affermato il principio secondo il quale «le autorità competenti dovrebbero essere in grado di esentare singoli enti dall’applicazione del requisito in materia di liquidità
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In argomento v. Abriani, La responsabilità nelle crisi dei gruppi, in Nuovo dir. soc., 2012, 1, 93 ss. 41 Il tema è affrontato diffusamente in dottrina; v. Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Milano, 2010; Troiano, Tipologie soggettive bancarie e organizzazione di gruppo, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2010, p. 553 ss.; Irace, Commento all’art. 59 t.u.b., in Testo Unico Bancario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, Milano, 2010, p. 534 ss.; Brozzetti, Concentrazione bancaria: da mito ad incubo? Il ruolo della regolamentazione rispetto alla forma del gruppo, 2011, Pisa, p. 81; Brozzetti, Ruolo delle attività di vigilanza nella gestione e prevenzione della crisi dei gruppi appartenenti al mercato finanziario, in A.G.E., 2010, 2, p. 439 ss.
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e sottoporli a requisiti consolidati per consentire una gestione centralizzata della liquidità a livello di gruppo o sottogruppo da parte degli enti». La deroga ai requisiti di vigilanza prudenziale individuale è ammessa dalla direttiva 2013/36/UE ed in particolare dal regolamento 575/2013 del 26 giugno 2013 (art. 8 lett. b) a cui rinvia BRRD, allorché «l’ente impresa madre su base consolidata o l’ente filiazione su base subconsolidata controlla e sorveglia costantemente le posizioni di liquidità di tutti gli enti all’interno del gruppo o del sottogruppo oggetto di deroga ed assicura un sufficiente livello di liquidità per la totalità di tali enti». L’assistenza finanziaria viene, poi, espressamente demandata ad accordi contrattuali che «secondo modalità ritenute soddisfacenti dalle autorità competenti, prevedono la libera circolazione di fondi tra gli stessi enti per consentire loro di soddisfare le obbligazioni singole o congiunte quando giungono a scadenza» (art. 8, lett. c) regolamento). In materia di large exposures è prevista dal regolamento la possibilità di derogare ai parametri previsti in caso di esposizioni verso società appartenenti allo stesso gruppo (art. 400 c. 2 lett. c) CRR) e le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia (Circolare 285/2013 parte iv. 6.13), allineandosi alle normative europee, stabiliscono espressamente che «il gruppo deve assicurare il mantenimento nel tempo di riserve adeguate (comprese le attività utilizzabili come garanzia) presso tutte le unità, in modo da tenere conto di eventuali vincoli di natura normativa. A tale scopo la capogruppo e le singole controllate, in particolare quelle estere, si dotano di procedure finalizzate a minimizzare eventuali difficoltà di carattere legale od operativo che possano limitare la pronta trasferibilità infragruppo di fondi o di “collateral”». Viene in sostanza affermato il principio di solidarietà finanziaria (art. 325 comma 2 lett. b) CRR). La disciplina prudenziale e sulle grandi esposizioni appare ancor più esplicita laddove all’art. 325 CRR viene espressa la possibilità, ai fini dell’applicazione dei requisiti prudenziali su base consolidata, di «utilizzare le posizioni detenute in un ente o impresa per compensare le posizioni detenute in un altro ente o in un’altra impresa». L’impianto normativo delineato pare pertanto portare alla conclusione che l’assoggettamento alla vigilanza prudenziale della Banca d’Italia favorisca le condizioni di un sostegno finanziario inter companies che, a certe condizioni, può ritenersi non solo possibile ma persino cogente42.
42 Sul carattere cogente della direzione e coordinamento bancaria v. Brozzetti, Concentrazione, cit., p. 67.
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A fronte di un sistema normativo così delineato si pone la domanda se una tale forma di sostegno sia non solo rimessa alla autonomia contrattuale delle parti ma assuma persino carattere cogente in presenza di una situazione di dissesto che imporrebbe agli organi di gestione di accedere agli strumenti di soluzione della crisi individuati dal legislatore43. Sul punto va rilevato come l’applicazione congiunta dell’ordinamento bancario al regime codicistico in materia di gruppi societari (ed, in particolare la disciplina in materia di sana e prudente gestione e di correttezza amministrativa), non agevoli una risposta precisa poiché, come è noto, la disciplina in materia di abuso di direzione e coordinamento, unitamente a quella prevista dalla legge fallimentare in materia di bancarotta per distrazione, pongono serie restrizioni al sostegno finanziario in epoca di crisi. La stessa disciplina speciale prevista dal t.u.b. in tema di amministrazione straordinaria e liquidazione coatta, sino al recepimento della Direttiva ad opera dei Decreti legislativi 16 novembre 2015, nn. 180 e 181, non risolveva il problema dell’atteggiarsi della direzione e coordinamento nella crisi, limitandosi a prevedere forme di gestione “procedurale unitarie” nel rispetto della autonomia patrimoniale delle società del gruppo44. Ed anche le soluzioni “privatistiche” alla crisi dei gruppi sono state sino ad oggi ostacolate in sede interpretativa, sul presupposto della indissolubilità dell’autonomia patrimoniale delle società del gruppo e del pericolo insito nella “fusione” delle masse patrimoniali45. Ma di converso non è mancata la voce di autorevole dottrina che pone in evidenza l’importanza di una valutazione complessiva dello stato di “salute” del gruppo da parte degli amministratori della controllante e delle ripercus-
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Per l’accentuazione dei doveri degli amministratori in presenza di un’organizzazione di gruppo v. Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi di società, in Studi in onore di Pietro Abbadessa, Torino, 2014, 3, il quale parla di accentuazione e specificazione dei doveri degli amministratori in caso di organizzazione di gruppo, p. 218 ss 44 Sugli strumenti di soluzione della crisi delle banche ante riforma v. Nigro, Disciplina delle crisi, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., 2003, p. 1122 ss., il quale enfatizza la funzione dell’amministrazione straordinaria come strumento di risanamento anziché di soluzione della crisi; Id. Disciplina delle crisi, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., 2010, p. 620 ss.; Capriglione, Commento all’art. 70 t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, Padova, 2012, p. 867 ss. 45 V. Garcea, La rilevanza del gruppo nelle gestioni negoziate della crisi di impresa, in Riv. soc., 2012, p. 943 ss.
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sioni in caso di mancanza di un intervento di sostegno alla luce della cogenza dei flussi informativi provenienti dalle controllate46. Tale conclusione sembrerebbe suffragata a seguito della introduzione delle “procedure di risoluzione” della crisi per effetto del d.lgs. n. 180/2015 che pone l’assistenza finanziaria infra gruppo quale principale elemento di rimozione degli impedimenti alla “risolvibilità” degli enti (art. 16) e che, come si dirà, nel contesto della disciplina “bail in” ammette deroghe consistenti al diritto societario dei gruppi che vanno ad incidere non solo sulla gestione unitaria della crisi ma dell’utilizzo di elementi patrimoniali appartenenti ad entità del gruppo in funzione di sostegno della stabilità del gruppo nel suo insieme, attuandosi “di fatto” una osmosi di elementi patrimoniali a sostegno della crisi47. Come rileva autorevole dottrina48 non si tratta di una novità assoluta essendone enfatizzati gli elementi positivi soprattutto nell’ambito degli strumenti di soluzione della crisi attualmente esistenti. Si contrappongono così due regimi opposti: quello codicistico, a contenuto sanzionatorio dell’attività di direzione e coordinamento abusiva, che presuppone l’insolvenza o la lesività della direzione come elemento della fattispecie che poggia sull’obbligazione risarcitoria da fatto illecito causativo di danno; e quello speciale bancario, dettato dal t.u.b. e dalle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia e dalle Direttive comunitarie sui requisiti di capitalizzazione e di patrimonio di vigilanza che sembra configurare un sistema di norme che, a certe condizioni, impone un dovere degli amministratori delle società capogruppo ad intervenire a sostegno delle società eterodirette.
46 Cfr. Santagata, Concordato preventivo “di gruppo” e teoria dei “vantaggi compensativi”, in Riv. dir. impr., 2, 2015, p. 216 ss. 47 Il nuovo sistema delle crisi bancarie recepisce l’istituto della risoluzione che costituisce procedura intermedia tra l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta e che si basa sull’obiettivo di conservazione della continuità aziendale attraverso la stabilità finanziaria, il contenimento degli oneri a carico delle finanze pubbliche e la tutela dei depositanti. Ai fini della risolvibilità degli enti l’art. 16 del d.lgs. n. 180/2015 stabilisce che la Banca d’Italia può ordinare ad una banca di modificare o adottare accordi di finanziamento infragruppo o elaborare contratti di servizio, infragruppo o con terzi per la prestazione di funzioni essenziali. 48 V. Abriani & Panzani, Crisi e insolvenza nei gruppi di società, in Nuovo dir. soc., 2015, p. 42 ss.
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4. Il sostegno finanziario infragruppo nella BRRD. Nel contesto degli strumenti di intervento previsti dalla Direttiva si possono distinguere: (i) misure preparatorie e di prevenzione; (ii) misure di intervento precoce; (iii) misure di risoluzione, secondo un approccio di tipo proporzionale alla gravità della situazione49. Gli accordi di sostegno finanziario rientrano tra le misure preparatorie della crisi, volte a dare stabilità al gruppo nell’ipotesi in cui si verifichino situazioni di dissesto. Alla stessa stregua dei recovery plans o piani di risanamento, gli accordi di sostegno finanziario costituiscono strumenti di natura privatistica o negoziale che non hanno natura contingente, ossia non sono volti a fronteggiare un risanamento imminente (contingency plan), ma costituiscono misure ex ante di tipo programmatico in prevenzione di una futura ed ipotetica crisi (living wills approach)50 in modo che le banche siano preparate in tali evenienze. Il legislatore europeo prende le mosse dalla considerazione per cui il sostegno finanziario è attualmente limitato da una serie di disposizioni contenute nel diritto nazionale di alcuni Stati membri che mirano a tutelare i creditori e azionisti di ciascuna entità ma che non tengono conto dell’interdipendenza delle entità dello stesso gruppo e del rischio sistemico che può derivare dalla mancanza di assistenza reciproca precoce51. I fattori che ostacolano o condizionano l’assistenza finanziaria risiedono nelle normative nazionali che tutelano i soci ed i creditori sociali
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Si rinvia a Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri - Atti del convegno tenutosi a Roma il 16 settembre 2013, Quaderni di Ricerca Giuridica, n. 75, 2014, p. 155, il quale individua come centrale nell’impianto della Direttiva le c.d. misure di risoluzione. L’Autore sottolinea come la traduzione italiana del termine resolution – risoluzione non faccia riferimento ad un istituto concorsuale di soluzione della crisi che preserva i beni aziendali quanto un insieme di “attrezzi” messi a disposizione delle Autorità per assicurare la continuità delle funzioni aziendali. Mentre gli strumenti di risoluzione potrebbero condurre al trasferimento di assets non preservando il complesso aziendale gli strumenti di recovery sarebbero funzionali a superare la crisi. Quindi la risoluzione sarebbe uno strumento di soluzione della crisi sistemica ma non necessariamente dell’ente interessato. 50 Parlano di vere volontà testamentarie della banca al fine di enfatizzare la programmazione futura della crisi Spina & Bikoula, Dal Bail-out al bail-in, cit., p. 58. 51 V. Basel Committee on Banking Supervision, Joint Forum - Study on the feasibility of reducing obstacles to transfer of assets within a cross border banking group during a financial crisis, February 2008, reperibile sul sito http://ec.europa.eu/internal_market/ bank/docs/windingup/200908/final_report20091218_en.pdf .
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e che temono il propagarsi della crisi infra gruppo, inibendo ab origine qualsiasi tipo di sostegno. Sul piano della crisi di impresa di gruppo, l’approccio dei legislatori nazionali appare repressivo di condotte di reciproco sostegno che possono aggravare la crisi e creare le condizioni del contagio, potendosi configurare, come nell’ordinamento italiano, persino ipotesi di reato (bancarotta per distrazione o preferenziale ex art. 216 l.fall. e ss.). L’art. 19, co. 4, della Direttiva prevede l’obbligo per gli Stati membri di rimuovere a livello di diritto nazionale eventuali impedimenti giuridici alle operazioni di sostegno finanziario infragruppo, lasciando la possibilità agli Stati membri di optare per limitazioni solo con riferimento a quegli ordinamenti che recepiscono la Direttiva 2013/36/UE, in materia di vigilanza prudenziale, o che prescrivono la separazione di parti del gruppo o delle attività svolte all’interno del gruppo per ragioni di stabilità finanziaria. Al contempo, il legislatore europeo, consapevole dei vincoli e delle limitazioni alle operazioni che involgono un sacrificio patrimoniale da parte di entità formalmente distinte, si prefigge di individuare le condizioni alle quali è possibile trasferire il sostegno finanziario tra entità del gruppo transfrontaliero, nell’intento di garantire la stabilità finanziaria del “gruppo nel suo complesso” senza mettere a repentaglio la liquidità o la solvibilità dell’entità del gruppo che fornisce il sostegno. Viene così favorito l’intervento privato preventivo, non solo rispetto al ricorso a forme di sostegno di tipo pubblico, ma anche con riferimento a procedure concorsuali che portano alla disgregazione del valore unitario dell’impresa52 e della continuità aziendale (going concern)53.
52 A margine dei lavori preparatori alla Direttiva v. Lamandini, La proposta di direttiva sulla gestione delle crisi bancarie e i contratti di assistenza finanziaria intragruppo: qualche considerazione di diritto societario, in Società, Banche e Crisi d’Impresa, Liber Amicorum Pietro Abbadessa, cit., p. 2644 ss., il quale pone in evidenza come per la prima volta il legislatore si sia premurato di tipizzare il fenomeno dell’assistenza finanziaria infra gruppo e che tale scelta denoti una impostazione destinata ad influenzare non solo il diritto finanziario e bancario ma la disciplina tutta di diritto societario dei gruppi; v. anche Bonfatti, Le procedure di prevenzione e di regolazione delle situazioni di “crisi” delle banche nella prospettiva della integrazione comunitaria, in Crisi d’impresa e fallimento, 13 novembre 2013, p. 15 ss. 53 La liquidazione coatta, seppure sia sempre possibile anche nell’ambito delle procedure di risoluzione introdotte dalla Direttiva e recepite con d.lgs. n. 180/2015, costituisce rimedio estremo da adottarsi solo nel caso in cui le altre misure previste non consentano di garantire la continuità delle funzioni essenziali della banca, il contenimento dei costi a carico delle finanze pubbliche ed alla tutela dei depositanti (art. 21).
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L’art. 19 della Direttiva stabilisce che gli Stati membri devono prevedere che un’impresa bancaria madre in uno Stato membro, un ente impresa madre nella UE ovvero un ente di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettere c) e d) o le relative filiazioni di altri Stati membri o Paesi terzi che sono enti o enti finanziati oggetto della vigilanza su base consolidata dell’impresa madre possano concludere un accordo per fornire sostegno finanziario a un’altra parte dell’accordo che rientri nei presupposti dell’intervento precoce ai sensi dell’art. 27. A differenza delle procedure di risoluzione e di liquidazione coatta che presuppongono una situazione di dissesto patrimoniale e finanziario grave (o la sua prossimità), gli accordi di sostegno finanziario infragruppo appartengono alle misure c.d. preparatorie in quanto esse si collocano in via anticipata rispetto alla emersione del dissesto e come misure di protocollo o programmazione in caso di futuro “stress” (art. 19, co. 3, lett. a).54 Presupposto oggettivo di ammissibilità di tali accordi, è che si realizzino per una delle società interessate all’accordo (in futuro e non nell’imminenza dell’accordo, ai sensi dell’art. 69-duodecies, co. 6. t.u.b.) i presupposti dell’intervento precoce, ovvero che si verifichi un deterioramento particolarmente significativo della banca o del gruppo (art. 69-duodecies, t.u.b.). Tali accordi non possono quindi essere stipulati quando già ricorrono i presupposti dell’intervento precoce; ovvero quando risultano già violate le disposizioni sul patrimonio di vigilanza e sulle grandi esposizioni; ovvero quando si prevede la violazione di tali requisiti anche a causa di un rapido deterioramento della situazione della banca o del gruppo ovvero in caso di gravi violazioni di disposizioni legislative regolamentari e statutarie o gravi irregolarità nella amministrazione ovvero quando il deterioramento della situazione della banca o del gruppo bancario sia particolarmente significativo (art. 69-octiesdecies, t.u.b.). Gli accordi di sostegno finanziario sono definiti all’art. 19, co. 5, lett. b) come gli accordi che prevedono un sostegno finanziario sotto forma di prestito, prestazione di garanzie, fornitura di attività da utilizzare come garanzie reali o qualsiasi combinazione di queste forme di sostegno
54 In realtà, occorre rilevare che il discrimen ai fini dell’applicazione della disciplina delle crisi bancarie è labile dal momento che gli istituti introdotti dalla Direttiva sembrano assimilare la crisi al dissesto o alla sua prossimità, imponendo, secondo un climax ascendente, misure progressive di tutela che vanno dalla mera programmazione di un dissesto futuro (recovery plans) alla sua gestione (resolution plans).
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finanziario da attuarsi in una o più operazioni anche tra il beneficiario ed un terzo. Oltre alle forme tipizzate deve ritenersi che siano ammesse anche altre modalità di assistenza finanziaria da sottoporre al placet delle autorità di vigilanza55. La Direttiva non disciplina le relazioni c.d. “business as usual” ma solo quelle che vengono poste in essere in situazione di stress finanziario o di perdite inaspettate56, ammettendosi implicitamente il sostegno finanziario al di fuori degli accordi preventivi ivi disciplinati che non godranno, tuttavia, delle esenzioni previste dalla disciplina. La Direttiva, infatti, non subordina ai fini della legittimità del sostegno finanziario infragruppo la stipulazione di accordi preventivi quali quelli che si analizzano in questa sede (art. 19, co. 3), potendo tale decisione essere assunta “caso per caso” anche in assenza di un accordo quadro: a conferma dell’apertura da parte del legislatore europeo verso forme di assistenza finanziaria ad hoc. Rispetto alla logica compensativa “individuale”, che connota le legislazioni nazionali, caratterizzate dalla necessità di programmazione di un vantaggio riferito alla singola società che presta assistenza, la Direttiva, seppure affermi a livello di principio la necessità di programmazione del vantaggio compensativo, apre a forme di sostegno che possono spostare il baricentro degli interessi al punto da non richiedere una remunerazione secondo criteri di mercato, perseguendosi l’interesse pubblico alla stabilità dei gruppi creditizi. Va così delineandosi un modello non solo di ordine procedurale ma anche sostanziale che ammette il sacrificio dei creditori di alcune società a favore di altre mediante l’utilizzo di elementi dell’attivo a sostegno della stabilità della società eterodiretta e del gruppo nel suo complesso utilizzando in maniera “osmotica” elementi dell’attivo patrimoniale di società formalmente esterne, pur senza addivenire alla confusione delle masse patrimoniali57. Il sostegno finanziario è infatti esentato sul piano della responsabilità degli organi interni e del regime delle azioni reovocatorie (v. infra).
55 Nella prassi si hanno: prestiti subordinati, lettere di credito, garanzie apporti a capitale di rischio, obbligazioni, bond swaps, letter of confort. ecc. 56 Cfr. Basel Committee on banking supervision, Report on intra-group support measures, February 2012, p. 4 ss. 57 In argomento v. Vattermoli, Gruppi insolventi e “consolidamento di patrimoni” (substantive consolidation), in Riv. dir. soc., 2010, p. 596 ss.
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L’art. 23 della Direttiva, nel fissare le condizioni per il sostegno finanziario di gruppo, stabilisce alla lett. b) che la fornitura di sostegno finanziario «mira a preservare o ripristinare la stabilità finanziaria del gruppo nel suo complesso o di una delle entità del gruppo ed è nell’interesse dell’entità del gruppo che fornisce il sostegno». Da ciò si evincono due considerazioni di fondo: la prima è che il perseguimento dell’interesse di gruppo soddisfa l’interesse sociale della società che presta assistenza finanziaria; la seconda è che il perseguimento dell’interesse alla stabilità del gruppo nel suo insieme può legittimamente comportare un disallineamento tra contenuto economico dell’assistenza e corrispettivo. Infatti, seppure le parti si determinino liberamente nella sottoscrizione dell’accordo, è prevista la possibilità, per il «perseguimento del miglior interesse di ciascuna», che siano previsti vantaggi «diretti o indiretti a favore di una parte a motivo del sostegno finanziario» ed il corrispettivo della fornitura del sostegno può tener conto delle «informazioni in possesso della parte che fornisce l’assistenza e che derivano dall’appartenenza al medesimo gruppo della parte che riceve il sostegno e che non sono disponibili sul mercato»58.
5. Le Guidelines emanate dall’EBA. La Direttiva rimanda poi all’EBA per l’elaborazione di progetti di norme tecniche di regolamentazione che sono state effettivamente emanate in data 9 luglio 201559. Appare interessante rilevare come anche l’Autorità regolamentare europea ponga quale presupposto dell’assistenza finanziaria infra gruppo «the direct and indirect overall benefts for the group as a whole» e consideri il rischio di default del gruppo nel suo insieme quale elemento di valutazione essenziale ai fini della legittimazione di tali forme di sostegno. Vale a dire che il sacrificio di elementi dell’attivo dell’entità che pone assistenza è ammesso anche in condizioni di palese disequilibrio se in gioco è la stabilità del gruppo nel suo insieme. Sul punto appare importante ricordare che, alla stregua dei recovery plan, le autorità di vigilanza hanno un potere di influire sul contenuto dell’accordo anche in
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Stessa impostazione dell’art. 69-duodecies, comma 5, lett. c). V. EBA, Guidelines Specifyng the conditions for group financial support, EBA/ GL/2015/17. V. in particolare Title II, p. 10 ss. 59
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funzione delle «misure di rimozione degli impedimenti alla risolvibilità degli enti» (art. 16, d.lgs. n. 180/2015). In conformità alla delega attribuita dalla Direttiva, ai sensi dell’art. 23 co. 2, l’EBA ha elaborato le RTS (Regulatory Technical Standards) e delle linee guida per stabilire le condizioni alle quali le entità del gruppo bancario possono fornire sostegno finanziario60. Le Guidelines emanate dall’EBA stabiliscono a riguardo che le autorità competenti della entità che eroga il sostegno devono analizzare e valutare i benefici diretti ed indiretti per il gruppo nella sua interezza che risultano dal supporto finanziario erogato nonché la valutazione del rischio complessivo in merito alla posizione finanziaria di gruppo che scaturirebbe a livello di gruppo in caso di mancato sostegno finanziario. Inoltre, deve essere valutato il rischio di insolvenza della entità ricevente nonché l’impatto che avrebbe il default della società ricevente sull’intero gruppo. Vale a dire che la prognosi postuma effettuata dal management non riguarda solo le ricadute negative sulla società erogante ma anche l’impatto dell’omissione di intervento a favore delle società del gruppo e del gruppo nella sua interezza. Una prima rilevante deroga rispetto alla governance delle società di capitali anche di tipo bancario si ha con riguardo alla efficacia degli accordi di finanziamento, la cui validità ed efficacia è subordinata al placet dell’autorità di vigilanza su base consolidata la quale, a norma dell’art. 20, può vietare la conclusione del progetto di accordo se ritiene che esso non risponda alle condizioni per il sostegno finanziario indicate all’art. 23. Poiché le organizzazioni di gruppo transfrontaliero sono soggette a diverse autorità di vigilanza viene stabilito a livello di principio dall’art. 20, co. 5, che esse devono adoperarsi al massimo per giungere ad una decisione congiunta anche con l’ausilio dell’EBA a cui, a norma dell’art. 31 del Regolamento UE n. 1093/2010, è attribuito un ruolo di assistenza alle autorità nazionali competenti61.
60 V. EBA/GL/2015/17, July 9 2015, in www.eba.eu.com. L’EBA afferma quale principio cardine sui cui si incentra tutta la disciplina quello del perseguimento della stabilità finanziaria del gruppo nella sua interezza. 61 A norma dell’art. 31 Reg. n. 1093/2010 l’EBA esercita una funzione di coordinamento generale tra le autorità competenti, in particolare nei casi in cui gli sviluppi negativi potrebbero compromettere il regolare funzionamento e l’integrità dei mercati finanziari o la stabilità del sistema finanziario nell’Unione. L’Autorità promuove la risposta coordinata dell’Unione, in particolare: facilitando lo scambio di informazioni tra le autorità competenti; determinando la portata e, ove possibile e appropriato, verificando
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Aspetto importante della procedura di autorizzazione risiede nel meccanismo di avocazione della decisione da parte della autorità di vigilanza consolidata qualora le autorità competenti delle altre parti interessate non si siano pronunciate in modo congiunto nel termine di quattro mesi. L’iter procedurale si chiude con l’invio da parte delle autorità competenti dell’accordo di finanziamento alle autorità di risoluzione (art. 20, co. 7). L’approvazione dell’accordo di finanziamento è rimessa all’assemblea straordinaria dei soci con la precisazione che tale decisione non è vincolante per i soci dissenzienti (art. 21) escludendosi, tuttavia, il diritto di recesso dei soci, con la conseguenza che anche le minoranze saranno vincolate all’accordo seppure esso possa di fatto modificare anche in modo sensibile le condizioni di rischio del proprio investimento. Solo dopo il placet dell’autorità di vigilanza, il progetto dell’accordo è rimesso alla votazione delle assemblee straordinarie delle società aderenti (art. 69-quaterdecies t.u.b.) che possono, comunque, revocare il proprio consenso, a meno che non siano sopraggiunti i presupposti dell’intervento precoce in capo ad una o più società aderenti all’accordo (revoca che diviene efficace solo a seguito della predisposizione di un piano di risoluzione individuale o di gruppo che tenga conto delle mutate circostanze ed in ogni caso decorsi 12 mesi dalla revoca). Unitamente alla delibera di assemblea straordinaria viene richiesto dalla norma il parere dei componenti indipendenti dell’organo amministrativo “sull’interesse della società ad aderirvi e sulla convenienza e sulla correttezza sostanziale delle relative condizioni”. L’entità del gruppo che fornisce sostegno finanziario deve rispettare alla data in cui eroga il sostegno i requisiti prudenziali e sulle grandi esposizioni (large exposures) previsti dalla Direttiva 2013/36/UE e dal Regolamento n. 575/2013. La competenza in merito alla decisione di fornire sostengo finanziario è rimessa all’organo di amministrazione dell’entità del gruppo che
l’affidabilità delle informazioni che dovrebbero essere messe a disposizione di tutte le autorità competenti interessate; fatto salvo l’articolo 19, svolgendo una mediazione non vincolante su richiesta delle autorità competenti o di propria iniziativa; informando senza indugio il CERS di ogni potenziale situazione di emergenza; adottando tutte le misure opportune in caso di sviluppi che possano compromettere il funzionamento dei mercati finanziari, al fine di facilitare il coordinamento delle misure adottate dalle pertinenti autorità competenti; centralizzando le informazioni ricevute, a norma degli articoli 21 e 35, dalle autorità competenti in conseguenza degli obblighi regolamentari di informativa a carico degli istituti attivi in più di uno Stato membro.
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fornisce il sostegno. La decisione, a norma dell’art. 24 della Direttiva è motivata ed indica l’obiettivo prefissato nonché il rispetto delle condizioni di cui all’art. 23. Una volta assunta la decisione l’organo amministrativo notifica tale decisione all’autorità competente del proprio Stato e se diversa anche a quella su base consolidata. Tale decisione è altresì notificata all’EBA.
6. La Legislative guide on insolvency dell’UNCITRAL. La nozione di assistenza finanziaria fornita dalla Direttiva, seppure più restrittiva sul piano della fattispecie di quella fornita dalla Legislative Guide On Insolvency Law Part. Three 2010)62, riflette senz’altro un approccio innovativo alla materia della crisi dei gruppi che non rifugge del tutto dal gruppo quale entità unitaria sul piano procedurale e, per certi aspetti, anche sostanziale63. Sul piano procedurale, la Direttiva non crea distinzione tra procedura primaria e secondaria (come accade invece per le società diverse dagli enti creditizi v. Regolamento n. 1341/2000 e Regolamento n. 848/2015 sulle insolvenze transfrontaliere) bensì adotta un approccio “universale”
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V. paragrafo 76: «Intra-group transactions may represent a range of different activities, including: trading between group members; channelling of profits upwards from one group member to a parent; loans from one member to another to support continued trading by the borrowing member; asset transfers and guarantees between group members; payments by one group member to a creditor of a related group member; or a guarantee or mortgage given by one group member to support a loan by an external lender to another groupmember. A group may have the practice of putting all available money and assets in the group to the best commercial use in the interests of the group as a whole, as opposed to the interests or benefit of the group member to which they belong. This might include sweeping cash from some group members into the financing group member». 63 Si rinvia a Mazzoni, Cross-border insolvency of multinational groups of companies:proposals for an European approach in the light of the Uncitral approach, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, Insolvency and Cross-border Groups: UNCITRAL Reccommendations for a European Perspective?, n. 69/2011, 15 ss. L’Autore evidenzia la riluttanza degli ordinamenti a trattare la materia della crisi dei gruppi in una prospettiva unitaria ed i limiti dei progetti avanzati caratterizzati dalla trasposizione ai gruppi dei principi dell’impresa societaria individuale. Il lavoro del Working Group V della Commissione ha portato all’emanazione della Part. III dell’UNCITRAL Legislative Guide nel 2010 che costituisce punto di rifermento nel cambiamento globale nell’approccio alla crisi dei gruppi.
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alla soluzione della crisi dei gruppi tale da giustificare la gestione unitaria procedurale attraverso la cooperazione di più autorità di vigilanza transnazionali (joint application commencement approach). Il modello di soft law proposto dall’UNCITRAL, con riguardo alla crisi dei gruppi societari, manifesta apertura verso il gruppo integrato (single enterprise approach) al fine di meglio tutelare i creditori sociali e le minoranze azionarie, in presenza di una situazione di dissesto. Tra gli strumenti privilegiati dal si pone, senz’altro, la partecipazione di soggetti solvibili alla soluzione delle crisi di altre entità del gruppo che, viceversa, si trovano in situazione di stress. All’interno dei gruppi il “dovere di soccorso” sul piano finanziario della società controllante viene enfatizzato in funzione della migliore attuazione dei piani di salvataggio, considerando che «preservation of going concern value by the continued operation of the business will ultimately provide benefit to those creditors» (n. 63 Legislative guide). Sul piano sostanziale, la Direttiva, relegando all’autonomia negoziale il contenuto dell’accordo di sostegno finanziario, seppure entro la cornice dei principi dettati a livello di normativa, ammette espressamente la possibilità di considerare derogabili da parte degli ordinamenti nazionali le discipline in materia di conflitti di interessi, di parti correlate e di revocatoria, ammettendo che, sul piano degli atti estranei all’oggetto sociale e dei conflitti di interessi, non si possa individuare un disvalore giuridico nell’utilizzo di assets di una società del gruppo per il salvataggio di un’altra. Anzi il “vantaggio compensativo” viene rapportato all’interesse di gruppo e non sul piano individuale accentuandosi, a seconda del grado di interazione tra le varie componenti, la responsabilità della società esercente direzione e coordinamento. Il gruppo non viene individuato come momento patologico della integrazione (rectius: avocazione) abusiva dei centri decisionali ma diviene lo strumento preferito attraverso la direzione unitaria della soluzione privata della crisi che poggia sul livello o grado di integrazione delle sue varie componenti. Le transazioni che vengono effettuate, in ossequio agli accordi di sostegno finanziario, divengono secondo le raccomandazioni UNCITRAL, «normal ordinary course business transactions», del tutto scriminate sul piano concorsuale e della responsabilità degli organi sociali. L’intervento della società in bonis diviene così non solo possibile ma cogente, sul presupposto che la correttezza dell’attività di direzione e coordinamento poggi sulla idoneità della dotazione patrimoniale delle società eterodirette le quali non possono essere lasciate al proprio destino.
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Allo stesso modo la situazione di “correlazione” esistente tra le entità del gruppo non viene sanzionata ma considerata un elemento di favore per scrutinare, con anticipazione rispetto all’insolvenza irrimediabile, la condizione patrimoniale e finanziaria delle società del gruppo. La Direttiva, pertanto, pur non rinnegando la autonomia patrimoniale delle società appartenenti al gruppo, seguendo le indicazioni UNCITRAL, ammette la creazione di accordi contrattuali infra gruppo la cui esecuzione presuppone il trasferimento di assets in funzione della soluzione della crisi in deroga ai principi di diritto concorsuale e societario, sottraendo tali transazioni alle azioni revocatorie, come si trattasse di atti che concernono lo stesso soggetto giuridico (n. 107). Diversamente dalle indicazioni date dal modello di soft law, non viene, invece, attribuito al credito della società che presta assistenza alcun grado antergato o privilegiato, pur essendo espressamente derogato il regime di postergazione di cui all’art. 2497-quinquies c.c.
7. I nuovi confini dell’interesse di gruppo nella BRRD. La dottrina più autorevole individua nell’interesse di gruppo la finalità dell’impresa collocata nell’ambito di una organizzazione sociale ampliata in cui è possibile identificare più livelli di tutela: quello della società controllante, quello delle controllate e quello di insieme64. Nel tessuto della Direttiva l’esigenza di stabilizzazione finanziaria del gruppo nel suo complesso sembra, dunque, condurre alla affermazione di un interesse pubblico alla stabilità dei gruppi creditizi che può determinare il sacrificio delle singole compagini societarie appartenenti al gruppo65. La dottrina, seppure nella cornice della autonomia patrimoniale delle società del gruppo, proprio in ossequio ad una lettura evolutiva dei doveri di corretta gestione imprenditoriale e societaria previsti dall’art. 2497 c.c. ammette che il perseguimento dell’interesse di gruppo non equivalga necessariamente alla sommatoria degli interessi sociali delle
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V. Montalenti, Conflitto di interesse nei gruppi di società e teoria dei vantaggi compensativi, in Giur. comm., 1995, I, p. 710 ss., il quale parla apertamente dell’esistenza dell’interesse di gruppo che si affianca a quello della controllante e delle società controllate e che l’influenza dominante implica la legittimazione della controllante a «porre in essere atti e fatti idonei ad indirizzare la società dominata lungo direttrici eteronome». 65 Cfr. Granata, Operazioni, cit., p. 625.
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singole società quanto all’affermazione di un ruolo di coordinamento della capogruppo66. Di converso, uscendo dalla dimensione puramente fattuale del gruppo, si è teorizzato come il dettato dell’art. 2497, co. 1, c.c., nella parte in cui esclude la responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del «risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette», non abbia il significato ad esso attribuito nel senso di precludere la stessa esistenza della direzione e coordinamento quale perseguimento di un interesse terzo bensì quello di negare lo stesso disvalore giuridico della condotta67. Nel contesto della Direttiva la prospettiva muta radicalmente in quanto si passa da una visione che ravvisa nella eterodirezione un pregiudizio che può essere scriminato in presenza del “vantaggio compensativo” di tipo inter-soggettivo (i.e. tra società autonome e distinte)68 ad un’altra che individua nella dimensione consolidata il raccordo con il sacrificio patrimoniale di alcune società a favore di altre69. Seguendo tale impostazione il centro di interessi si sposta dal piano soggettivo della persona giuridica a quello del “centro di interessi” che può essere collocato in una dimensione oggettiva esterna legata al tipo di investimento-finanziamento70. La disciplina in materia di direzione e coordinamento dettata dagli artt. 2497 c.c. e ss. è inequivoca nell’attribuire prevalenza alla tutela dei creditori delle società controllate e ad affermare i confini di legittimità della direzione e coordinamento. Pilastro della disciplina è la programmazione della direzione unitaria attraverso la predeterminazione del “vantaggio compensativo” per le società eterodirette, a voler riaffermare l’autonomia soggettiva (scontata), il perseguimento di un interesse so-
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V. Maugeri, Interesse sociale, interesse dei soci e interesse del gruppo, in Giur. comm., 2012, p. 66 – il quale ritiene che già la disciplina del 2497 non solo legittimi la direzione unitaria ma che propugni una preponderanza dell’interesse di gruppo non quale sommatoria dell’interesse delle società eterodirette quanto l’interesse della holding ad influire sul piano organizzativo e della governance sulle società eterodirette per estrarne un vantaggio sul piano imprenditoriale (i.e. dell’attività). 67 Cfr. Scognamiglio, “Clausole generali”, cit., p. 16. 68 Cfr. sempre Montalenti, Conflitto, cit. 69 Cfr. sempre Maugeri, Interesse, cit., p. 66 ss. 70 V. sul punto Stanca, Profili del conflitto di interessi nei gruppi: categorie di finanziatori e teoria dei vantaggi compensativi, in Riv. dir. banc., 2014, p. 10 ss.
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ciale non compatibile con un sacrificio esterno (anch’essa affermazione scontata) e la scriminante del risarcimento del danno. Nel diritto bancario dei gruppi il vantaggio compensativo – nel contesto degli accordi di sostegno finanziario infra gruppo - viene trasformato: le esigenze di “stabilità del gruppo” portano all’individuazione di un ruolo di direzione unitaria della capogruppo che non solo viene ammesso e tipizzato a priori quale trait d’union tra l’Autorità di Vigilanza e le società del gruppo ma che è funzionale al perseguimento di un interesse complessivo del gruppo e che implica scelte che possono compromettere l’indipendenza anche finanziaria delle società71 e la remunerazione del sacrificio della società eterodiretta72. Il potere di coordinamento della capogruppo non appare, peraltro, limitato all’attuazione delle istruzioni di vigilanza, dal momento che il contenimento dei rischi presuppone una programmazione e direzione vincolante della capogruppo verso le società eterodirette secondo programmi contrattuali di ben più ampia portata73 e che presuppone una perdita di autonomia sostanziale delle società eterodierette74. La lettura dei principi enunciati nella Direttiva CRDIV (e del Regolamento 575/2013) con riferimento all’istituto in esame sembra confermare che nell’approccio del legislatore europeo la direzione unitaria bancaria viene individuata come possibile zona di esenzione dei requisiti su base soggettiva individuale per favorire il sostegno finanziario in caso di stress75. In particolare, viene affermato il principio secondo il quale «le autorità competenti dovrebbero essere in grado di esentare singoli enti dall’applicazione del requisito in materia di liquidità e sottoporli a requisiti consolidati per consentire una gestione centralizzata della liquidità a livello di gruppo o sottogruppo da parte degli enti».
71 V. Pennisi, Attività di direzione e poteri della capogruppo nei gruppi bancari, Torino, 1997, p. 67 ss. 72 Così Tombari, Società cooperative e gruppi di imprese (gruppo cooperativo paritetico e gruppo cooperativo eterogeneo), in Giur. comm. 2007, 6, p. 742. 73 Sull’importanza degli accordi quadro finanziari nel diritto dei gruppi bancari v. Spadafora - Scarpa, Direzione e coordinamento delle società di capitali: interesse e responsabilità, in Riv. dir. banc., 2015, p. 6. 74 Calandra Buonaura, L’impresa e i gruppi bancari, in La banca l’impresa e i contratti, a cura di Calandra Buonaura, Perassi, Silvetti, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, vol. VI, Padova, 2001, p. 175. 75 V. Considerando n. 77 della Direttiva 2013/36/UE che consente di derogare ai requisiti di copertura della liquidità su base individuale in caso di fabbisogno di liquidità di altra componente del gruppo.
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La deroga ai requisiti di vigilanza prudenziale individuale è ammessa dalla Direttiva 2013/36/UE ed in particolare dal Regolamento 575/2013 (art. 8 lett. b) allorché «l’ente impresa madre su base consolidata o l’ente filiazione su base subconsolidata controlla e sorveglia costantemente le posizioni di liquidità di tutti gli enti all’interno del gruppo o del sottogruppo oggetto di deroga ed assicura un sufficiente livello di liquidità per la totalità di tali enti». L’assistenza finanziaria viene, poi, espressamente demandata ad accordi contrattuali che «secondo modalità ritenute soddisfacenti dalle autorità competenti, prevedono la libera circolazione di fondi tra gli stessi enti per consentire loro di soddisfare le obbligazioni singole o congiunte quando giungono a scadenza» (art. 8, lett. c) del Regolamento). In materia di large exposures è prevista dal Regolamento la possibilità di derogare ai parametri previsti in caso di esposizioni verso società appartenenti allo stesso gruppo (art. 400 CRR) e le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia, allineandosi alle normative europee, stabiliscono espressamente che «il gruppo deve assicurare il mantenimento nel tempo di riserve adeguate (comprese le attività utilizzabili come garanzia) presso tutte le unità, in modo da tenere conto di eventuali vincoli di natura normativa. A tale scopo la capogruppo e le singole controllate, in particolare quelle estere, si dotano di procedure finalizzate a minimizzare eventuali difficoltà di carattere legale od operativo che possano limitare la pronta trasferibilità infragruppo di fondi o di “collateral”» 76. La disciplina prudenziale e sulle grandi esposizioni appare ancor più esplicita laddove all’art. 325 del RRC viene espressa la possibilità ai fini dell’applicazione dei requisiti prudenziali su base consolidata di «utilizzare le posizioni detenute in un ente o impresa per compensare le posizioni detenute in un altro ente o in un’altra impresa». La considerazione che l’esigenza di stabilizzazione finanziaria dell’entità appartenente al gruppo non possa prescindere dallo stato di salute del gruppo comporta una riqualificazione anche sul piano dei doveri degli amministratori di azione diligente orientata alla prevenzione del
76 Cfr. Istruzioni di vigilanza della banca d’italia di cui alla circolare 285 del 17 dicembre 2013, aggiornata al 13 ottobre 2015. Ma si vedano anche le Disposizioni di vigilanza in materia di “Poteri di direzione e coordinamento della capogruppo di un gruppo bancario nei confronti delle società di gestione del risparmio appartenenti al gruppo”, 2009 in cui si fa ampio riferimento al potere-dovere di assegnazione delle risorse necessarie per svolgere in modo efficiente i servizi di gestione nell’ambito degli obiettivi del gruppo.
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dissesto attraverso tutti gli strumenti disponibili77. Il sostegno finanziario non solo appare imposto dalla disciplina di settore prudenziale ma costituisce strumento giuridico di allerta, omesso il quale può configurarsi una responsabilità per azione contraria ai principi di diligenza78. Viene così riconsiderata la visione dell’interesse di gruppo di portata economico generale e non solo di ordine contrattuale79 volta ad affermare, nel contesto dell’indissolubile autonomia patrimoniale delle società e dell’impossibilità di un consolidamento sostanziale delle masse, di ottenere zone di esenzione ai fini della legittimazione dell’utilizzo di elementi dell’attivo in funzione del salvataggio di società appartenenti all’area di consolidamento.
8. Considerazioni conclusive. All’indomani della riforma della legge fallimentare del 2005 è stata valorizzata la possibilità di demandare la gestione e soluzione delle crisi di impresa all’autonomia privata. In tale direzione si è posto il legislatore nel riconoscimento di strumenti per la soluzione negoziata della crisi quali il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. In questo contesto, si è affermato che l’interesse di gruppo potrebbe realizzarsi nella gestione della crisi di impresa sulla base della soluzione negoziale prescelta dalle parti80. Vale a dire che, pur riconoscendosi la
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Il tema è affrontato con anticipazione rispetto ad alcune soluzioni adottate in sede di Direttiva da Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi, in Società, Banche e Crisi d’Impresa, Liber Amicorum Pietro Abbadessa, Torino, 2014, p. 2695 ss., in cui l’Autore individua le deroghe al principio one company one insolvency one proceeding ivi con ampi riferimenti. 78 Sussiste un ampio filone interpretativo che ravvisa nell’assistenza finanziaria infragruppo l’adempimento di un dovere generale di corretta gestione che obbligherebbe gli amministratori a prevenire e scongiurare la crisi v. Montalenti, La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, p. 820 ss.; Miola, Riflessioni sui doveri degli amministratori in prossimità dell’insolvenza, in Studi in onore di Umberto Belviso, I, Bari, 2011, p. 820 ss. 79 Sulla maggiore connotazione istituzionalistica nel senso del perseguimento da parte del legislatore del 2003 di un interesse più ampio rispetto a quello dei soci v. Scognamiglio, Clausole generali, principio di diritto e disciplina dei gruppi di società, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 589 ss., spec. nt. 13. 80 Racugno, Concordato preventivo, in Tratt. dir. fall., diretto da Buonocore e Bassi, vol. 3, Padova, 2010, p. 503.
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mancanza di una disciplina che, nel contesto della crisi, persegua l’interesse di gruppo, sarebbe possibile ammettere soluzioni concordate idonee non solo a riconoscere l’interesse di gruppo ma anche a tutelare i creditori esterni. Tale approccio eliminerebbe le ambiguità dovute all’utilizzo spesso forzato di altri istituti volti ugualmente a sopperire alla mancanza di una disciplina concorsuale del coordinamento tra imprese (società di fatto, fallimento in estensione di holding personale ecc.)81. Nel contesto degli strumenti di soluzione negoziata della crisi, gli accordi di sostegno finanziario introdotti dalla BRRD presenterebbero similitudini proprio con gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall. che sono caratterizzati dalla assenza di concorsualità e dalla vincolatività solo per le parti aderenti all’accordo82. Nonostante queste premesse ed il favor del legislatore della riforma fallimentare verso forme di sostegno dell’impresa in crisi83 attraverso
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V. Fimmanò, Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori delle società abusate, in Riv. not., 2012, p. 267. 82 Cfr. Inzitari, La disciplina della crisi nel Testo Unico Bancario, in Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri -Atti del convegno tenutosi a Roma il 16 settembre 2013, Quaderni di Ricerca Giuridica, n. 75, 2014, p. 126. Secondo l’Autore l’accordo per la ristrutturazione dei debiti 182-bis potrebbe prevedere l’assunzione da parte della controllante dell’obbligo di pagare alcune categorie di debiti della controllata o di far fronte alle spese di funzionamento, come pure potrebbe prevedere l’obbligo per la holding (di settore o per l’intero gruppo) di riversare alla sua controllante, i flussi pecuniari provenienti dalla vendita o comunque dalla liquidazione delle società operative, a loro volta controllate dalle holding di settore. La posizione di tali società peraltro può variare a seconda che esse partecipino o meno quali aderenti all’accordo di ristrutturazione. L’interesse a tale partecipazione, come parte, dell’accordo, potrebbe essere giustificata dall’interesse di gruppo ed in particolare dall’interesse affinché altre società che del gruppo fanno parte possano superare o comunque razionalmente regolare lo stato di crisi. Tale partecipazione sarebbe quindi dettata non dal fine di regolare con gli altri creditori il proprio stato di crisi attuale, bensì lo stato di crisi del gruppo anche se esso si è manifestato solo in una o alcune e comunque non in tutte le società del gruppo. Va osservato che lo stato di crisi dell’intero gruppo o di parte di esso, costituisce comunque tanto da parte dei creditori che delle società debitrici, un forte elemento catalizzatore per una considerazione delle diverse società che compongono il gruppo come di una realtà del tutto unitaria, con la conseguenza di considerare le risorse patrimoniali ed operative delle singole società potenzialmente al servizio delle esigenze di risanamento del gruppo, complessivamente considerato come una realtà del tutto unitaria. 83 Brizzi, Finanziamento dell’impresa in crisi e doveri gestori, in L’Impresa e il diritto commerciale: Innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore della crisi, Atti del Convegno di Orizzonti del Diritto Commerciale, Roma, 21-22 febbraio 2015, in www. orrizontideldirittocommerciale.it.
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l’applicazione del regime di prededuzione dei finanziamenti (182-quater l.fall.)84 ovvero sulla sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione (182-sexies l.fall.)85, tuttavia, le interpretazioni della giurisprudenza della S.C. sono apparse restrittive laddove si è esclusa, di recente, la rilevanza del gruppo ai fini della procedura di concordato, precludendosi di addivenire ad una soluzione negoziata che comportasse la sovrapposizione di masse attive, sull’assunto della insuperabilità dell’autonomia patrimoniale delle società del gruppo86. Del resto, anche negli ordinamenti giuridici che incoraggiano soluzioni contrattuali delle crisi si ravvisa la tendenza ad introdurre norme mandatory idonee a supplire alla imperfezione della autonomia negoziale privata nonché a salvaguardia di interessi non disponibili87. I timori del contagio infra gruppo avevano già spinto il legislatore a limitare le forme di coordinamento sul piano squisitamente procedurale. Nell’ambito della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi la rilevanza sostanziale del gruppo, del resto, cede il passo a favore del riequilibrio delle masse patrimoniali: si afferma, infatti, all’interno della disciplina di riferimento il principio della tutela della par condicio creditorum e trovano applicazione le norme in tema di revocatoria fallimentare per gli atti infra gruppo (art. 91, d.lg. n. 270/1999) oltre alla disciplina generale dell’art. 2497 c.c. di cui si è detto.
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Cfr. Briolini, I finanziamenti alle società in crisi dopo la legge n. 134/2012, in Università G. D’Annunzio, n. 4/2013. 85 Miola, Attività, cit. p. 2747. 86 V. Cass., 13 ottobre 2015, n. 20559, in tal senso v. anche Cass., 12 giugno 2015, n. 12254. V. in dottrina Santagata, Sulla ristrutturazione del gruppo mediante costituzione di una società in nome collettivo funzionale al concordato preventivo, in Dir fall., n. 2015, p. 639 ss. 87 Bebchuk, A new approach to Corporate Reorganizations, 101 Harvard Law Review, 1988, p. 775; Rasmussen, Debtor’s Choice: A Menu Approach to Corporate Bankruptcy, 71 Tex L. Rev., 51, 1992, p. 117; Schwartz, A Contract Theory Approach to Business Bankruptcy, 107 Yale Law Journal, 1807, 1998, pp. 1850-1851; v. anche Manganelli, The Evolution of the Italian and U.S. Bankruptcy Systems. A Comparative Analysis, in Journal of Business and Technology Law, 2010. Cfr. Bertan & Arnold, Displacing the debtors in possession. The Requisites for and advantages of the Appointment of a Trustee in Chapter 11 proceedings, in Marquette Law Review, 1984. Per un rafforzamento delle regole mandatory v. Warren & Westbrook, Contracting Out of Bankruptcy: An Empirical Intervention, in Harvard Law Review, 2005, p. 1198 ss.; Block Lieb, The Logic and Limits of Contractual Bankruptcy, in University of Illinois Law Review, 2001, 2, pp. 504-508. Ci si permette di rinviare anche a Ricciardiello, Il ruolo del commissario giudiziale nell’era del “fallimento del contrattualismo concorsuale”, in Giur. comm., 2015, I, p. 720 ss.
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Anche il t.u.b. all’art. 99 in materia di liquidazione coatta di società di gruppo attribuisce espressamente ai commissari la legittimazione all’esperimento dell’azione revocatoria. La stessa disciplina dell’art. 2497-quinquies in materia di postergazione dei finanziamenti infragruppo costituisce un elemento di contrasto all’affermazione dell’interesse di gruppo in quanto induce la controllante, in tempo di crisi, a non intervenire a sostegno della controllata, presumendo che tale sostegno aggravi, piuttosto che contribuire a risolvere, la crisi e venga, pertanto, posta la “sanzione” della postergazione, a denotare la necessità di un intervento sul capitale e non a titolo di finanziamento redimibile88. Dalla mancata applicazione del regime di postergazione potrebbero, di converso, ricavarsi indicazioni importanti. L’attribuzione di un grado antergato al credito (se non persino con il riconoscimento del regime della prededuzione, come suggerito dall’Insolvency Guide Uncitral) conseguente alla erogazione del sostegno se, da una parte, costituirebbe un incentivo al sostegno infra gruppo a favore dei soci e creditori sociali della società erogante, dall’altra, contribuirebbe ad affermare la autonomia patrimoniale delle società di gruppo. L’approccio del legislatore italiano in sede di recepimento della Direttiva con il d. d.lgs. 16 novembre 2015, n. 181 è andato nella direzione della non applicabilità tout court della postergazione ai finanziamenti infra gruppo, essendo esclusa dall’art. 69-septiesdecies, t.u.b. l’applicazione degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. Tale scelta appare coerente con l’impostazione data dal legislatore europeo, nel senso di incoraggiare il sostegno finanziario senza sacrificio per gli azionisti ed i creditori sociali della società erogante, sul presupposto che il sostegno finanziario venga programmato ed erogato
88 In argomento anche con posizioni contrastanti riguardo alla applicabilità del regime di postergazione nei finanziamenti upstream v. Maugeri, I finanziamenti “anomali” endogruppo, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, p. 726 ss.; Id., Finanziamenti anomali dei soci e tutela del patrimonio delle società di capitali, Milano, 2005, p. 238 ss.; Benedetti, La disciplina dei finanziamenti up-stream della società eterodiretta alla capogruppo in situazione di difficoltà finanziaria, in Riv. soc., 2014, p. 747; Baccetti, Postergazione dei finanziamenti e tipi sociali, in Giur. comm., 2012, I, p. 804 ss.; Abriani, Finanziamenti anomali dei soci e regole di corretto finanziamento nella società a responsabilità limitata, in Il diritto delle società oggi, innovazioni e persistenze, Studi in onore di Giuseppe Zanarone, a cura di Benazzo, Cera, Patriarca, Torino, 2011, p. 337. Si rinvia, altresì, a Prestipino, Diritto al rimborso e postergazione nella disciplina dei finanziamenti dei soci, Milano, 2015.
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ad un soggetto che non è ancora in situazione di squilibrio patrimonialefinanziario ai sensi dell’art. 2467 c.c. e che, all’attualità dell’accordo di sostegno, non presenta nemmeno i presupposti dell’intervento precoce di cui all’art. 69-octiesdecies, t.u.b. In sede attuativa il legislatore italiano non ha attribuito, alla stessa stregua degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex artt. 182-quater e 182-quinquies, l.fall., il regime di prededuzione (come invece previsto nella Legislative Guide UNICTRAL n. 70). Eppure il sostegno finanziario infra gruppo nelle crisi bancarie assurgerebbe, alla stressa stregua del finanziamento interinale, a strumento funzionale al superamento della crisi basato sui medesimi presupposti, sussistendo persino l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza che, alla stregua del tribunale, sarebbe idonea a consacrarne i presupposti di legittimità89. La soluzione adottata in sede di recepimento della Direttiva dal legislatore italiano sembra tener conto del fatto che gli accordi di sostegno finanziario non costituiscono, alla stregua dei crediti prededucibili di cui all’art. 111 l.fall., crediti sorti in occasione o in funzione di una procedura concorsuale. Per quanto concerne il conflitto di interessi, il legislatore italiano ha assunto una posizione di compromesso, ritenendo non incompatibile con il sostegno finanziario infra gruppo la disciplina codicistica sugli interessi degli amministratori (art. 2391 c.c.). Tale scelta appare coerente con la necessità di autorizzazione assembleare degli accordi di sostegno finanziario che dovrebbe ridurre le ipotesi concrete di applicazione della norma. Risulta, viceversa, non applicabile la disciplina in materia di operazioni con parti correlate di cui all’art. 2391-bis c.c. (v. art. 69-septiesdecies, t.u.b.)90 essendo prevalsa la preoccupazione di favorire il ricorso al sostegno finanziario senza ingessarlo con gli obblighi procedurali stabiliti
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Sulla ratio del regime di prededuzione nell’ambito della finanza interinale all’impresa in crisi v. Santoro, I finanziamenti interinali “urgenti” nel preconcordato e nel preaccordo di ristrutturazione, 2016, in corso di pubblicazione. 90 Precursore della necessità di una deroga alla disciplina sui conflitti di interessi in caso di gruppi di società è Mignoli, L’interesse sociale, in Riv. soc., 1958, p. 741. Gli Autori che ammettono l’operatività dell’art. 2391 c.c. quali Ventoruzzo, Commento all’art. 2391 c.c., in Amministratori, a cura di Ghezzi, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Milano, 2005, p. 2391 ss. e Tombari, Il conflitto di interessi degli amministratori in una società per azioni appartenente ad un gruppo. Prime considerazioni alla luce della riforma del diritto societario, in www. notarlex.it, escludono, tuttavia, che l’interesse di gruppo costituisca interesse extrasociale.
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dalla disciplina sulle parti correlate91 che mal si presterebbe alla rapida risolubilità degli enti creditizi. Appaiono invece di particolare interesse, infine, le deroghe al regime delle azioni revocatorie ordinarie e fallimentari di recente introduzione. In particolare, l’art. 69-septiesdecies t.u.b. stabilisce che non sono applicabili alla conclusione degli accordi di sostegno finanziario nonché alle prestazioni eseguite in loro esecuzione gli artt. 64, 65, 66, 67 e 216, comma 1, n. 1 e 217 l.fall., a voler affermare l’adesione ad un modello di soluzione unitaria della crisi dei gruppi che non concerne solo l’aspetto meramente procedurale di cooperazione tra diverse autorità, ma che riguarda proprio il coinvolgimento sostanziale degli elementi dell’attivo del gruppo in funzione del salvataggio. Le transazioni intra gruppo sono così trattate alla stregua di “atti interni” e non come negozi intersoggettivi suscettibili di ledere la par condicio creditorum dell’entità che presta assistenza. Appare significativa, peraltro, la non applicabilità alle transazioni infra gruppo del regime di inefficacia degli atti a titolo gratuito previsto dall’art. 64 l.fall., a conferma del carattere disponibile del “vantaggio compensativo infra gruppo” non solo per effetto della autonomia delle parti ma soprattutto nel caso in cui gli accordi di sostegno finanziario vengano utilizzati come misure di risoluzione della crisi emanate dalla autorità di risoluzione. Un aspetto che non è stato trattato dal legislatore europeo e neppure in sede di recepimento attiene all’impatto della disciplina sui finanziamenti infra gruppo sulla responsabilità per violazione dei principi di corretta gestione. Non si comprende, infatti, se le norme di corporate governance introdotte siano idonee a configurare esenzione da responsabilità degli amministratori (safe harbour) in caso di insolvenza successiva delle società interessate all’accordo di sostegno. Alcuni indizi in tal senso potrebbero cogliersi sulla base de regime delle autorizzazioni, prima dell’autorità di vigilanza, poi dell’assemblea straordinaria. Tuttavia, permane nel tessuto della disciplina (art. 69-quaterdecies, co. 2, t.u.b.) l’obbligo di motivazione dell’organo di gestione al quale potrà sempre imputarsi, quantomeno da parte dei creditori sociali, la violazione delle regole di buon governo societario anche ai fini della programmazione della crisi di impresa di gruppo.
91 Cfr. sempre Lamandini, La proposta, cit., p. 2651, il quale de jure condendo poneva il problema della compatibilità della disciplina in materia di operazioni con parti correlate.
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L’esigenza di soluzione della c.d. crisi di gruppo, sembra quindi approdare verso una esigenza di unitarietà92 che conduce ad una rivisitazione delle ratio che avevano ispirato le procedure di crisi sino ad oggi conosciute93, anteponendo, sul piano sostanziale, l’interesse pubblico rispetto alla par condicio creditorum.
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92 V. Vattermoli, Gruppi insolventi e consolidamento di patrimoni “substantive consolidation”, in Riv. dir. soc. 2010, p. 586 ss. L’articolazione del gruppo transfrontaliero pone, in caso di crisi, questioni procedurali e sostanziali assai rilevanti in quanto taluni ordinamenti tendono a proteggere secondo un approccio universale all’insolvenza i propri interessi anche al di fuori dei confini territoriali (universality approach) mentre, di converso, altri sistemi giuridici secondo una approccio territoriale (territoriality approach) tendono a tutelare solo gli interessi all’interno dell’host country a prescindere dalle connessioni transfrontaliere. 93 Cfr. Thole, Bank Crisis Management and Resolution, in www.ssrn.com, 2014. Nel tessuto della Direttiva si ravvisa un superamento dell’approccio del legislatore europeo che aveva caratterizzato la regolamentazione delle insolvenze transfrontaliere non bancarie. Infatti, non si attribuisce il potere ad una autorità amministrativa (o giudiziaria) principale alla quale si applica la lex concursus ma viene fissata una normativa omogenea applicabile direttamente agli Stati membri che prevede la collaborazione obbligatoria delle autorità nazionali per la soluzione e prevenzione unitaria della crisi. V. ampiamente sul tema Vattermoli, Gruppi Multinazionali insolventi, in Riv. dir. comm., 2013, p. 1 ss.
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Derivati impliciti, clausole “floor” e “zero floor” nei contratti bancari Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il problema della determinazione convenzionale del tasso di interesse e la soluzione della clausola floor. – 3. La teoria del derivato implicito e la sua applicabilità alle clausole floor. – 3.1 Il rapporto tra contratti derivati e contratti di credito: finanziamenti sintetici e derivati incorporati. – 3.2 La definizione di “embedded derivative” contenuta nel principio contabile IAS 39. – 3.3 Il derivato implicito e la disciplina dell’intermediazione finanziaria. – 4. Interpretazione delle clausole floor: la tesi del derivato implicito. – 4.1. Difetto di trasparenza e vessatorietà della clausola floor nei rapporti con i consumatori. – 5. Alcune notazioni relative alla clausola zero floor nei contratti bancari. – 5.1 Lo zero floor applicato alla componente variabile del tasso di interesse. – 5.2 La clausola zero floor applicata al tasso di interesse globalmente determinato; la questione del tasso di interesse “negativo” nei contratti di finanziamento. – 6. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione. La repentina discesa dei valori di alcuni parametri finanziari relativi ad operazioni praticate sul mercato interbancario (Eonia per le scadenze c.d. overnight, Euribor e Libor per scadenze più dilatate1), addirittura nel campo dei valori negativi, ha portato all’attenzione del dibattio dot-
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L’Euribor (acronimo di Euro Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in euro) è una famiglia di tassi di riferimento, calcolati giornalmente, che rappresentano il tasso di interesse medio al quale all’interno del sistema interbancario vengono offerti depositi a termine all’interno dell’Unione Monetaria Europea. Il Libor (acronimo di London Inter Bank Offered Rate) indica un diverso paniere di tassi di riferimento, che indicano il tasso medio al quale le banche ottengono denaro a breve termine in cinque principali valute. Per ciascun tasso sono previste diverse scadenze (da overnight sino a 12 mesi). Eonia (Euro Overnight index average) indica la media ponderata dei tassi c.d. overnight rilevati sulle operazioni di finanziamento non garantite, concluse sul mercato interbancario.
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Fatti e problemi della pratica
trinale e giurisprudenziale alcune questioni relative alle clausole c.d. floor, ovvero le pattuizioni che introducono un valore minimo di tasso di interesse applicabile, generalmente impiegate nei contratti di credito. Tali previsioni non costituiscono, in effetti, una novità nel nostro ordinamento ma l’attuale depressione dei tassi di mercato ha comportato un rinnovato interesse al riguardo2. Mentre l’opinione tradizionale ha però inquadrato questi elementi del negozio tra le pattuizioni con funzione creditizia, ben diverso è il tentativo – prospettato da alcuni lavori in dottrina ed oggetto di alcune questioni poste al vaglio dell’Arbitro Bancario e Finanziario, di valorizzarne la componente aleatoria nel contesto del contratto principale in cui la clausola si trova. È la tesi del derivato implicito o incorporato (embedded derivative nella sua espressione in lingua inglese). L’indagine in questa materia è ancora in una fase germinale. L’idea di componente derivativa sembra, infatti, trarre la sua origine da alcune previsioni di matrice contabile e, conseguentemente, traslare siffatto concetto nel campo della qualificazione giuridica del negozio pone non poche questioni. Da qui, sorge la necessità di tentare una ricostruzione delle differenti fattispecie per ricondurre ad unità (ove possibile) la materia, e valutare l’applicabilità di questa tesi alla casistica relativa alle clausole floor.
2. Il problema della determinazione convenzionale del tasso di interesse e la soluzione della clausola floor. L’opportunità di inserire nel contratto un floor si pone con ogni evidenza quando il valore del tasso di interesse applicabile al rapporto è
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L’esistenza di “minimi irriducibili” nelle clausole di determinazione dei tassi di interessi è infatti conosciuta da tempo nella pratica commerciale ed è stata oggetto di analisi giurisprudenziale più o meno recente Si pensi a titolo di esempio al caso esaminato da ABF Roma, 6 marzo 2015, n. 1758, in arbitrobancariofinanziario.it, che fa riferimento ad un mutuo dotato di clausola floor risalente all’entrata in vigore della Legge 108/1996. In questi giudizi, però, la componente floor è stata esaminata principalmente dal punto di vista della compatibilità con le norme (di natura civile e penale) in tema di usura, con riguardo alla sua capacità di influenzare la determinazione del tasso di interessi. La presenza di un floor divenuto più elevato rispetto al tasso soglia tempo per tempo applicabile avrebbe, infatti, astrattamente comportato la corresponsione di un interesse più alto di quello in quel momento consentito dalla legge.
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ancorato ad un parametro esogeno, che può quindi oscillare sia in aumento che in diminuzione. In linea generale, infatti, l’ordinamento consente alle parti di determinare per iscritto3 tale valore per relationem, purché l’individuazione non sia rimessa al mero arbitrio delle parti o di un terzo e che l’oggetto del contratto possegga tutte le caratteristiche individuate dall’articolo 1346 c.c.4. L’oscillazione del parametro esterno determina, pertanto, la variabilità del tasso di interesse, e ne definisce il valore al tempo individuato dai contraenti5. Nei rapporti di finanziamento con le banche e le altre istituzioni del mercato del credito, il riferimento ai tassi del mercato interbancario consente di ottenere una possibile indicazione circa il costo della provvista, rappresentando in un dato momento la remunerazione che la banca otterrebbe depositando il denaro presso la banca centrale o, alterna-
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Si ricorda che la pattuizione relativa agli interessi deve inoltre rispettare la forma scritta per la previsione di interessi superiori al tasso legale, come indicato dall’articolo 1284 c.c.; il requisito di forma è ritenuto necessario ad substantiam: cfr. Cass., 14 gennaio 1997, n. 280; Cass., 18 maggio 1996, n. 4605 e, da ultimo Cass., 11 febbraio 2014, n. 3017, in iusexplorer.it. V. anche Scozzafava, Gli interessi dei capitali, Milano, 2001, p. 174. È pure utile ricordare che la pattuizione è ritenuta valida anche se il riferimento viene effettuato per relationem ad elementi contrattuali che non indichino in cifre la misura del tasso d’interesse pattuito ma che indichino i criteri prestabiliti ed elementi estrinseci al documento negoziale, obiettivamente individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale di interesse senza lasciarlo all’arbitrio del creditore (cfr. in tema di contratto di mutuo fondiario Cass., 25 giugno 1994, n. 6113, in iusexplorer.it), fermi restando ovviamente i requisiti di trasparenza previsti per i contratti bancari. Con riferimento a questi ultimi, l’articolo 117, co. 4, t.u.b. espressamente prevede che tali contratti debbano riportare per iscritto la previsione relativa ai tassi di interesse. 4 Dovrà essere quindi lecito, possibile, determinato o quantomeno determinabile: la clausola di interessi deve avere un contenuto assolutamente univoco e determinato, e quindi indicare puntualmente la misura del tasso di interesse, ovvero specificare i precisi criteri la cui applicazione consenta, seppure per relationem, un’inequivoca ricostruzione del tasso d’interesse convenuto. In difetto di tale puntuale indicazione, la clausola inerente agli interessi convenzionali è viziata da nullità assoluta, rilevabile d’ufficio; cfr. Cass., 2 febbraio 2007, n. 2317. In argomento v. anche il recente Trib. Milano 30 ottobre 2013, in expartecreditoris.it. V. anche Fausti, Il mutuo, in Tratt. dir. civ. C.N.N., Napoli, 2004, p. 124 ss. 5 Non va confuso in tal senso il momento di rilevazione ed il c.d. periodo di interessi dal divisore inserito in molti contratti, che può avere a riferimento un anno di 360 giorni (anno commerciale) o 365 (anno solare). In arg. Di Biase, Il problema della legittimità dei mutui a tasso variabile Euribor: tra illecito antitrust e indeterminatezza dell’oggetto del contratto, in Nuove leggi civ. comm., 2013, p. 1.
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tivamente, impiegando lo stesso sul mercato primario: l’indicizzazione consente dunque all’operatore di proteggersi dal rischio dell’aumento del costo della moneta6. Generalmente inoltre, nei contratti di credito alla componente variabile (i.e., l’indicatore di riferimento) può accompagnarsi un valore fisso, detto spread o margine, il quale esprime i risultati di valutazioni attinenti il merito di credito del soggetto finanziatore7. Può dunque rilevarsi come ciò che gergalmente è detto “tasso variabile” sia il risultato di un’operazione matematica, in cui vengono sommati più addendi8. A titolo di esempio, quindi, l’interesse concordato applicabile ad un determinato contratto è dato dalla somma del parametro finanziario prescelto e del margine stabilito (e.g., Euribor + 2%). In questa situazione, le parti possono individuare delle strategie per gestire il rischio legato all’oscillazione del tasso di interesse, che può variare in aumento (sino a raggiungere soglie illecite) oppure in diminuzione (verso campi prossimi o inferiori allo zero). Le questioni legate all’eccessivo aumento del tasso di interesse applicabile non sono oggetto di questo lavoro, e sono state storicamente tra
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Ciò ovviamente in linea generale e con qualche precisazione; infatti, non è detto che le scadenze di raccolta della banca siano allineate a quelle degli impieghi e dunque potrebbe verificarsi un disallineamento con una possibile perdita per l’intermediario. Ovviamente, la banca accetta il rischio che il parametro di riferimento diminuisca e, con esso, diminuisca il tasso del finanziamento concesso, con ciò verificandosi un “mancato guadagno”. In tal senso cfr. Sciarrone Alibrandi & Mucciarone, La pluralità delle normative di ius variandi nel t.u.b.: sistema e fratture, in Ius variandi bancario, a cura di Dolmetta e Sciarrone Alibrandi, Milano, 2012, p. 100 ss. Cfr. anche Fogliani, Tassi negativi, deflazione ed effetti collaterali della grande crisi: le distorsioni del c.d. “financial upside down world” esaminate dal lato tecnico, in dirittobancario.it. 7 Le considerazioni che seguono prendono in esame, per comodità di illustrazione, il modello di clausola contrattuale più diffuso nella prassi. Ovviamente, però, le stesse potranno applicarsi, mutatis mutandis, in tutti i casi in cui si faccia riferimento ad una determinazione del tasso di interessi che dia come risultato un valore negativo: si pensi ad esempio ad una clausola di determinazione dell’interesse senza spread – abbastanza frequente in taluni rapporti come, ad esempio, i finanziamenti effettuati dai soci in favore delle società da essi partecipate – ovvero a clausole di interesse costruite facendo riferimento ad altri indici o con differenti metodi di calcolo. Cfr. Fausti, Il mutuo, cit. p. 124. 8 Nella pratica sono ovviamente possibili strutture più complesse, in particolare con variazione del margine in relazione alla posizione economico-patrimoniale del debitore (c.d. step-up o margin-ratchet). Cfr. AA.VV., Contratti di finanziamento bancario, di investimento, assicurativi e derivati, Milano, 2012, p. 23 ss.; Campbell & Weaver, Syndacated Lending, Practice and Documentation6, Londra, 2013, p. 379.
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le più dibattute per i profili collegati al tema dell’usura ed in particolare della c.d. usura sopravvenuta9: una possibile soluzione al problema è stata l’adozione di c.d. clausole di salvaguardia, sulle quali è tutt’oggi in corso un dibattito dottrinale e giurisprudenziale10. Specularmente, dubbi interpretativi rilevanti possono porsi con riferimento alla diminuzione del valore del parametro finanziario. Nei rapporti di credito, la componente variabile del tasso di interesse può, infatti, diminuire, sino alla rilevazione di un tasso di interesse nominale “negativo”11. Facendo riferimento alla struttura caratteristica della clausola di interessi sopra richiamata (componente variabile + spread), possono distinguersi i seguenti casi: a) rilevazione di un parametro variabile relativo negativo ma non in grado di erodere il margine (e.g., Euribor pari a – 0,2 %, margine pari ad 1 %); e b) rilevazione di un parametro variabile relativo negativo, per un valore in grado di erodere il margine; oppure, in alternativa, assenza di
9 Nei contratti di durata, si è generalmente posto il problema del superamento del “tasso soglia”, successivamente quindi al momento in cui gli interessi sono pattuiti. Per usura “sopravvenuta” deve cioè intendersi il caso in cui il tasso effettivo globale che, al momento della conclusione del contratto, non superi il tasso-soglia usura ma che, successivamente, ecceda il tasso-soglia vigente in un dato successivo trimestre. È controverso quale sia l’effetto del superamento del tasso soglia: in argomento, ex multis, cfr. Carriero, Credito, interessi, usura: tra contratto e mercato, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, I, p. 93 ss.; Salanitro, Usura e interessi moratori: ratio legis e disapplicazione del tasso soglia, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, I, p. 747 ss. 10 La clausola di salvaguardia è la pattuizione che stabilisce che la misura degli interessi da corrispondersi ai sensi del contratto (generalmente includendo gli interessi di mora) non possa mai superare il tasso soglia dell’usura tempo per tempo applicabile. Il tema è collegato alle note questioni in tema di usura “sopravvenuta” nei contratti di durata e l’efficacia di queste clausole è tutt’ora sotto scrutinio (in senso favorevole cfr. Trib. Padova, 13 gennaio 2016 e Trib. Napoli, 4 giugno 2014, entrambe in ilcaso. it; in senso contrario Trib. Bari, 14 dicembre 2015, in Contr., 5, 2016, 455, con nota di Sangiovanni, Interessi di mora e clausole di salvaguardia contro il rischio usura). 11 Per completezza, occorre accennare brevemente alla differenza tra tassi di interessi nominali e tassi di interesse reali. Con estrema semplificazione, può dirsi che il tasso di interesse nominale è quello effettivamente impiegato per calcolare gli interessi dovuti, concordato tra le parti o applicabile per legge. Il tasso di interesse reale invece è invece il tasso di interesse reale al netto del tasso di inflazione: si tratta cioè di un valore che tiene conto del fatto che, andando avanti nel tempo, in una situazione di inflazione il denaro perde potere di acquisto (cioè il denaro al tempo t acquista più beni che al tempo t+1). Cfr. Samuelson & Nordhaus, Economia20 (ed. it. a cura di Bollino), Milano, 2014, p. 425 ss.; Liebermann & Hall, Principi di economia3 (ed. it.), Firenze, 2010, p. 481 ss.
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un margine concordato (e.g., Euribor pari a -0,2 %; margine pari a 0,1 % o non stabilito). La configurazione di tassi di interessi “negativi” può non essere originariamente prevista dalle parti e derivare dalla modalità di determinazione dell’oggetto del contratto; in tal caso, occorrerà premurarsi di individuare i possibili rimedi per superare lo stato di impasse12. Non sembra inoltre impossibile ipotizzare il caso in cui le parti espressamente convengano ab origine l’applicazione di un tasso di interesse “negativo” al rapporto, ovvero stabiliscano la corresponsione di interessi percepiti dalla parte che normalmente tenuta al pagamento: un caso esemplificativo è proprio quello di alcune operazioni di banca centrale, relative al finanziamento degli intermediari bancari, ma ancora si può pensare, ad esempio, a rapporti di conto corrente bancario in cui venga imposta la corresponsione di un tasso di interesse debitore al depositante13. Se le parti intendono superare la situazione di incertezza derivante dall’applicazione di tassi negativi può optarsi, nel corso delle negoziazioni relative al contratto14, per l’inserimento di una clausola di limita-
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V. infra. Il tema non è privo di aspetti controversi e di incerta ricostruzione, tra cui l’effettiva compatibilità tra il rapporto costruito dalle parti ed il tipo contrattuale prescelto e l’inserimento di componenti aleatorie all’interno dello schema negoziale adottato dalle parti. A titolo di esempio: un contratto “di finanziamento” con tassi di interesse negativo presenta evidenti punti di contatto con la figura del deposito oneroso irregolare di denaro, remunerato dal depositante che in questo caso, paradossalmente, sarebbe la banca. Che dire invece di un contratto di deposito bancario in cui il cliente depositante è tenuto a corrispondere un “interesse” in favore della banca depositaria? I dubbi precedentemente espressi si ritroverebbero “a parti invertite”. Un contratto di finanziamento potrebbe inoltre nascere con tassi positivi e prevede un’espressa accettazione circa l’applicabilità di tassi negativi: in questo caso si può ipotizzare l’esistente di una componente aleatoria (al riguardo v. infra). La materia non è stata ancora compiutamente affrontata in dottrina e in giurisprudenza: in argomento, cfr. i primissimi spunti di Maffeis, La causa di finanziamento esclude la sopravvenienza di c.d. tassi negativi e richiede la sostituzione, convenzionale o giudiziale, del parametro esterno divenuto durevolmente negativo, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 17, 2016; e Civale, Clausole floor nei contratti mutuo e di leasing: prime riflessioni, in giustiziacivile.com; Id., Euribor negativo, interessi e clausole floor: prime riflessioni, in dirittobancario.it. 14 Ovvero tali clausole potranno essere riportate nei moduli e formulari predisposti dagli operatori, come nel caso tipico della contrattualistica bancaria. Peraltro, è utile ricordare che proprio l’inserimento di una soglia minima floor nei contratti di diversi operatori bancari abbia dato luogo ad un’indagine dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato volta ad accertare la presenza di una possibile intesa restrittiva della concorrenza nella determinazione di tali tassi applicabili ai mutui fondiari (cfr. provv. 13
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zione verso il basso del tasso di interesse, la quale è denominata floor. Attraverso la fissazione di un floor, le parti stabiliscono un valore minimo percentuale, non superabile in diminuzione, alla rilevazione del parametro esterno che determina tutto o parte del valore dell’interesse15. Non trattandosi di una clausola tipizzata ma rimessa alla libera disponibilità delle parti, la stessa può assumere forme diverse. In ogni caso, il nucleo minimo della pattuizione prevede che le parti introducano una limitazione verso il basso all’oscillazione di un valore, sia esso il tasso di interesse globalmente considerato ovvero la sua sola componente variabile. Il floor può essere fissato per qualsiasi valore del campo lecito (i.e., da zero alla soglia usura) e consente di mantenere in ogni momento una redditività minima dell’operazione di finanziamento16. Nella pratica si è poi diffusa la presenza di clausole c.d. zero floor, ai sensi delle quali, a seconda dei casi, il tasso di interesse globalmente applicabile al rapporto oppure la sola componente variabile non sono mai inferiore al valore “zero”17. Incidentalmente, si può segnalare che tutti gli esempi sopra indicati muovono dall’assunto che il valore negativo del parametro variabile eroda il valore dello spread, fino a condurlo al valore floor oppure a zero. Sotto il profilo della determinazione dell’oggetto del contratto, infatti, nulla vieta che il calcolo in base al quale il tasso venga determinato preveda una componente di segno negativo, purché univocamente determinabile18.
nn. 24897 del 7 maggio 2014 e 25272), conclusasi con l’irrogazione di sanzioni nei confronti di alcuni istituti di credito, allorché le condotte di tali soggetti «consistenti nel coordinamento delle politiche commerciali anche attraverso lo scambio di informazioni sensibili con l’obiettivo di limitare il confronto competitivo tra le Parti nel mercato degli impieghi alle famiglie consumatrici nella provincia di Bolzano, costituiscono un’intesa restrittiva della concorrenza in violazione dell’articolo 2 della legge 287/90» (cfr. provv. n. 25822 del 24 febbraio 2016, in Bollettino settimanale n. 6, 7 marzo 2016, in agcm.it). 15 Cfr. ad es. la definizione contenuta in Trib. Ferrara, 16 dicembre 2015, in expartecreditoris.it, una delle ultime sentenze di merito ad affrontare il tema della clausola floor all’interno dei contratti di mutuo. 16 Cfr. Sartori, Sulla clausola floor nei contratti di mutuo, in Contr. impr., 3, 2015, p. 712. V. anche ABF Napoli, 1 febbraio 2012, n. 305, in arbitrobancariofinanziario.it, secondo cui la clausola floor persegue «un interesse senz’altro meritevole di tutela […] soddisfacendo anche quell’esigenza di sana e prudente gestione e di remuneratività degli impieghi che è alla base dello speciale statuto normativo dell’impresa bancaria». Concorde anche ABF Roma, 13 dicembre 2011, n. 2688, in arbitrobancariofinanziario.it. 17 Il tema è oggetto di specifica analisi infra. 18 Esemplificando, nel caso in cui l’indicatore variabile sia di segno negativo ma
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Di conseguenza, ove non sia espressamente previsto diversamente19, si deve ritenere che il valore negativo della componente variabile possa ridurre il margine, fino ad annullarlo. Non sembra quindi sostenibile, alla luce dei requisiti formali richiesti per le clausole di interesse20, argomentare l’esistenza di un possibile floor implicito nei contratti che non prevedano espressamente una soglia verso il basso21. Da ultimo, per completezza, si ricorderà che alla clausola floor può contrapporsi una clausola che limiti l’oscillazione del tasso di interesse verso l’alto: si tratta del c.d. cap. Insieme le due previsioni formano il
inferiore al margine, il valore espresso dal calcolo matematico del tasso di interesse restituirà un valore positivo: dunque un valore possibile del tasso di interesse, che potrà essere impiegato dalle parti per determinare l’importo da corrispondere. Nel caso in cui il rapporto sia inferiore, il risultato sarà comunque zero; il risultato resterebbe comunque ammissibile con riferimento ad un contratto generalmente produttivo di interessi, mentre potrebbe costituire oggetto di maggiore indagine qualora il contratto resti durevolmente improduttivo di frutti civili (v. infra). 19 In tal senso, senza voler tornare all’imponente produzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di ius variandi, sembra utile citare alcune sentenze dell’Arbitro Bancario Finanziario proprio in materia di inserimento surrettizio di clausole floor. In particolare, cfr. ABF Milano, 1 aprile 2010, n. 181, ed ABF Milano, 20 aprile 2010, n. 254-10, entrambe in arbitrobancariofinanziario.it, con riferimento ad mutui in cui è stato inserito unilateralmente un tasso floor sulla base di un non meglio precisato «principio di naturale onerosità dei mutui»; 20 Cfr. articoli 1284, co. 3 e 117, co. 4 del t.u.b. (cfr. nt. 3). 21 Ciò implica, quindi, che non possano desumersi possibili “floor impliciti” che fermino il valore variabile a zero. In tal senso depone anche una recente comunicazione della Banca d’Italia del 5 febbraio 2015, «Parametri di indicizzazione dei finanziamenti con valori negativi: trasparenza delle condizioni contrattuali e correttezza nei rapporti con la clientela”: “Da alcune segnalazioni pervenute sono emerse ipotesi in cui gli intermediari hanno neutralizzato l’erosione dello spread derivante dal sopravvenuto valore negativo del parametro, attribuendo a quest’ultimo valore pari a zero. Ciò ha determinato l’applicazione di tassi di interesse non allineati con le rispettive previsioni contrattuali […] gli intermediari dovranno: a) attenersi a uno scrupoloso rispetto della normativa di trasparenza e correttezza e alla rigorosa applicazione delle condizioni pattuite con la clientela. In particolare, gli intermediari dovranno astenersi dall’applicare di fatto clausole di c.d. “tasso minimo” (“floor clause”) non pubblicizzate e non incluse nella pertinente documentazione di trasparenza e nella modulistica contrattuale». A tal riguardo, anche il Ministero dell’economia e delle finanze, con Circolare n. 5619 del 21 marzo 2016 (pubblicata in G.U. n. 70 del 24 marzo 2016), basata sul parere espresso dall’Avvocatura Generale dello Stato con nota del 3 dicembre 2015, ha chiarito che, in relazione al caso di tasso di interesse negativo, «per il mutuante il massimo rischio è quello della gratuità del contratto», con ciò presupponendo la sottrazione tra elemento variabile negativo e spread. In tal senso confronta anche Morera & Sciuto, Due questioni in tema di tassi di riferimento “negativi”, in associazionepreite.it, p. 2.
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c.d. collar: si tratta di una nomenclatura proveniente dal grande mondo dei contratti derivati22.
3. La teoria del derivato implicito e la sua applicabilità alle clausole floor. 3.1. Il rapporto tra contratti derivati e contratti di credito: finanziamenti sintetici e derivati incorporati. Dopo aver succintamente descritto le principali caratteristiche delle clausole floor, occorrerà inquadrare le questioni relative ai “derivati impliciti” per poi valutarne l’applicabilità al caso specifico. In linea di massima, la tesi si configura come un nuovo e più recente filone della più generale discussione in materia di contratti derivati, che ha costituito negli ultimi anni uno dei settori di maggiore interesse dell’analisi dottrinale e giurisprudenziale23. La sottoscrizione di tali contratti, come noto, costituisce una forma di investimento da parte del sottoscrittore in strumenti finanziari (della tipologia detta “over the counter”) e, necessariamente, determina l’applicazione del sistema di norme in materia di intermediazione finanziaria, graduate a seconda dei casi in funzione del soggetto contraente24.
22 Sulla base delle possibili combinazioni, quindi, le parti potranno convenire: (a) di non inserire alcuna clausola, di modo che il tasso di interesse possa variare liberamente verso l’alto ed il basso; (b) la sola clausola floor, con una limitazione verso il basso del tasso di interesse; (c) la sola clausola cap, con una limitazione verso l’alto del tasso di interesse; (d) clausole floor e cap insieme, ovvero una formula collar che consente di mantenere l’oscillazione del tasso di interesse entro una banda determinata. Sulla necessità di bilanciare una clausola floor con un cap, v. infra. 23 La produzione dottrinale al riguardo è praticamente illimitata; per una visione antologica dei principali orientamenti giurisprudenziali si rimanda a Franzoni, La responsabilità nell’intermediazione finanziaria, in Danno e resp., 2014, 8-9, p. 785 e Sangiovanni, Il contratto di intermediazione finanziaria, in Obbl. e contr. 2011, 11, p. 770; Girino, Sviluppi giurisprudenziali in materia di derivati over the counter, in Banca, borsa, tit. cred., 6, 2011, p. 794 ss. 24 Il riferimento è ovviamente (ma non solo) alle peculiari regole relative ai doveri di comportamento degli intermediari, di cui agli articoli 21 ss. del Testo unico della finanza ed, attualmente, del Regolamento Consob 16190 del 2007. In argomento, cfr. solo come punto di partenza Lener & Lucantoni, Commento sub art. 21, in Il Testo Unico della Finanza, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, I, p. 375; Gobbo, Commento sub art. 21, in Commentario t.u.f., a cura di Vella, Torino, 2012, I, p. 257; Costi, Il
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Un terreno di fecondo interscambio di idee e posizioni è poi, in particolare, quello relativo alle operazioni in derivati connesse alle operazioni di finanziamento, che costituisce, nella pratica, uno dei settori in cui il contenzioso ha conosciuto lo sviluppo più impetuoso. Il rapporto di credito, per sua stessa natura, presenta taluni rischi di natura finanziaria, che i contratti derivati si prestano teoricamente a gestire25: oltre ai temi relativi alla fluttuazione del tasso di interesse, già descritti sommariamente sopra26, si pensi ad esempio alle questioni relative al tema della valuta relativa all’operazione, ed al c.d. rischio di cambio che ne consegue27. In tutte le ipotesi sopra richiamate, può essere attuata una struttura ricomprendente la sottoscrizione di più negozi e, nello specifico, la sottoscrizione di contratti derivati a margine del rapporto “principale”, con lo scopo di regolare e gestire i flussi finanziari generati da quest’ultimo28.
mercato mobiliare9, Torino, 2014, p. 139; Fratini, Diritto dei Mercati Finanziari, Bari, 2013, p. 161, Lener & Lucantoni, Regole di condotta nella negoziazione degli strumenti finanziari complessi: disclosure in merito agli elementi strutturali o sterilizzazione, sul piano funzionale, del rischio come elemento tipologico e/o normativo, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, 4, p. 369; Lucantoni, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, I contratti del Mercato Finanziario2, a cura di Lener e Gabrielli, Torino, I, 2011, p. 239; Perrone, Regole di comportamento e tutele degli investitori, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 537; Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità, in Contr., 2008, 3, p. 221; Cian, Gli obblighi informativi degli intermediari, in Nuove leggi civ., 2009, 6, p. 1197. 25 Va segnalato che i contratti derivati nascono, almeno nell’intenzione, come contratti destinati allo scopo di copertura di un rischio (hedging). Non si entra in questa sede nel dibattito relativo al rapporto tra finalità del contratto (gestione del rischio, speculazione, arbitraggio), rilevanza dei motivi e causa dello stesso. In argomento, per un’analisi delle principali questioni, cfr. Pagliantini, I derivati tra meritevolezza dell’interesse ed effettività della tutela: quid noctis, in Europa dir. priv., 2, 2015, p. 383. 26 In relazione ai quali, l’ingegneria finanziaria può correre in aiuto per evitare che il tasso di interessi divenga nel tempo eccessivamente elevato rispetto ai valori di mercato o per trasformare un meno prevedibile tasso variabile in un tasso fisso. Cfr. Girino, i derivati “impliciti”, virtù e vizi della scomposizione, in Riv. dir. banc., dirittobancario. it, 31, 2016, p. 4. 27 Per “rischio di cambio” si intende di seguito il rischio legato ad una variazione del rapporto di cambio tra due valute, che incide sul valore di un bene espresso in una valuta estera. Sul punto, v. più diffusamente infra. 28 Si noti peraltro come l’operazione configurerebbe un caso di collegamento negoziale; cfr. al riguardo Trib. Brindisi, 29 gennaio 2013; Tribunale Torino (ord.), 18 aprile 2014, entrambe in ilcaso.it, secondo cui la stipula contestuale del contratto di swap e dei contratti di mutuo integra un indice sintomatico del collegamento tra i due negozi.
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Ferma restando l’astratta utilità del ricorso a tali strumenti, sono (purtroppo) note le distorsioni collegate all’uso improprio degli stessi, all’aumento del costo del credito a carico del cliente attraverso la maschera data dalla sottoscrizione di più contratti collegati29, nonché all’inserimento, più o meno surrettizio, all’interno del rapporto tra le parti, di elementi di rischio caratterizzati da intrinseca aleatorietà. Queste premesse consentono di meglio contestualizzare la posizione di chi, all’interno delle previsioni contenute all’interno di un unico documento contrattuale, ravvisi l’esistenza di meccaniche economiche proprie dei contratti derivati e tenti di “decodificarne” il significato, per comprendere se in aggiunta allo schema negoziale di cui è nota la qualificazione giuridica30, possa valorizzarsi un’ulteriore componente di specie derivativa, riunita in una sorta di “accorpamento”31. Sembra, infatti, piuttosto complesso individuare con nettezza i confini delle diverse fattispecie quando l’elemento derivativo sia inserito nel contesto di un unico documento contrattuale “ibrido”32.
29 In argomento è da segnalare la posizione di Dolmetta che ha parlato, in tal senso, di “derivati apparenti” in quelle ipotesi in cui, in sostanza, contratto di credito e derivato “di copertura” vengono sottoscritti nel medesimo contesto (e sovente tra le stesse parti); cfr.; ad es. Id., Di derivati impliciti e di derivati apparenti, in dirittobancario.it, p. 6 ss.; Marcelli, La consulenza tecnica nei procedimenti penali per usura bancaria, in Assoctu.it. Contra, sembra potersi richiamare la posizione della Banca d’Italia, che nelle sue Risposte ai quesiti pervenuti in materia di rilevazione dei TEG ai sensi della legge sull’usura - novembre 2010, in bancaditalia.it, 10, ha affermato che anche nel caso in cui «il cliente mutuatario abbia sottoscritto uno strumento finanziario derivato, al fine di coprirsi dalle eventuali oscillazioni che il tasso di interesse contemplato dal contratto di finanziamento potrebbe subire nel corso del rapporto» ai fini della rilevazione del TEG vada considerato il solo «tasso del mutuo al momento dell’apertura del rapporto di finanziamento». In giurisprudenza, pare utile segnalare le pronunce di Tribunale di Brindisi, 29 gennaio 2013, in ilcaso.it, Trib. Lucera, 26 aprile 2012, in ilcaso.it; Trib. Milano, 23 marzo 2012, in ilcaso.it; Trib. Salerno, 21 giugno 2011, in ilcaso.it, che hanno espressamente ravvisato l’esistenza di un collegamento negoziale tra operazione di credito e contratto derivato, ma non si sono pronunciate in tema di costo del finanziamento e tasso di interesse. 30 Non vogliono richiamarsi in questa sede le questioni relative all’irrilevanza del nomen juris attribuito dalle parti al rapporto; si vuole intendere soltanto che la natura del contratto principale, ad es. creditizia, è di più immediata comprensione e non costituisce oggetto di contestazione. 31 Cfr. Cognolato, Componenti derivative e causa di finanziamento, in Le operazioni di finanziamento, opera ideata da Galgano, proseguita da Panzarini, Dolmetta, Patriarca, Bologna, 2016, p. 1762 ss. 32 Il vocabolo ricorre ormai con una certa frequenza per identificare fattispecie “al
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3.2. La definizione di “embedded derivative” contenuta nel principio contabile IAS 39. Prima di procedere oltre, occorre puntualizzare che il nostro ordinamento conosce un concetto di derivato implicito, seppure nel peculiare settore delle regole di bilancio. Una definizione di “embedded derivative” si rinviene infatti all’interno del principio contabile IAS 39, introdotto nel nostro ordinamento per il tramite delle norme europee33 e volto ad individuare e disciplinare la rappresentazione contabile degli strumenti finanziari, dettando regole di “rilevazione e valutazione”. Tali regole, originariamente applicabili ad un numero ridotto di soggetti (i.e., le banche), sono state estese con una recente modifica legislativa – a far data da quest’anno – alle norme di contabilità previste dal nostro codice civile e, di conseguenza, alla generalità delle imprese34. Nel contesto del principio IAS 39, i “derivati incorporati” sono espressamente definiti come «una componente di uno strumento ibrido (combinato) che include anche un contratto primario non-derivato – con l’ef-
limite”, in cui l’elemento causale o ancora la particolare natura complessa del rapporto necessita di un’apposita ricostruzione della disciplina applicabile. Si pensi, ad esempio, ad alcune forme di finanziamento dell’impresa realizzate attraverso l’emissione di strumenti al limite tra il capitale di rischio e quello di debito; o ancora i contratti a limite tra gli strumenti assicurativi ed i prodotti finanziari (come le ben note polizze index linked). In argomento, cfr. Tombari, Azioni di risparmio e strumenti «ibridi» partecipativi, Torino, 2000; Stella Richter Jr, Obbligo di restituire e obbligo di gestire nell’attività finanziaria: alla ricerca di una disciplina per gli « ibridi » bancari e assicurativi, in Banca, impresa, soc., 2002, p. 495 ss.; Angelici, La società per azioni. Principi e problemi, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2012, p. 496. 33 Originariamente tramite il Regolamento (CE) n. 1606/2002, cui sono seguiti ulteriori atti di modifica e attuazione. 34 L’applicazione della categoria dei derivati incorporati nelle disposizioni contabili è stata generalizzata (con esclusione delle micro-imprese) grazie al nuovo co. 1, n. 11-bis dell’art. 2426 c.c., modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 139 del 18 agosto 2015, in recepimento della Direttiva UE 2013/34: «gli strumenti finanziari derivati, anche se incorporati in altri strumenti finanziari, sono iscritti al fair value. Le variazioni del fair value sono imputate al conto economico oppure, se lo strumento copre il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario o di un’operazione programmata, direttamente ad una riserva positiva o negativa di patrimonio netto […]». L’argomento è peraltro di particolare interesse tecnico. Cfr. Bozza & Palumbaro, I criteri di qualificazione e contabilizzazione dei derivati alla luce del d.lgs. 139/15, in Società, contratti, bilancio, revisione, 12, 2015, p. 66.
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fetto che alcuni dei flussi finanziari dello strumento combinato variano in maniera similare a quelli del derivato preso a sé stante. Un derivato incorporato determina una modifica di alcuni o tutti i flussi finanziari che altrimenti il contratto avrebbe richiesto […], a condizione che, nel caso di una variabile non finanziaria, tale variabile non sia specifica di una delle parti contrattuali»35. La fattispecie prevede dunque un contratto principale, detto host, il quale può essere anche un contratto non derivato (e.g., di credito) all’interno del quale viene innestata una “componente” che determini la modifica di alcuni dei flussi finanziari, generando un effetto economico similare a quello che si sarebbe ottenuto sottoscrivendo un contratto derivato a sé stante. Il Principio 39 procede inoltre a dettagliare una serie ulteriori di condizioni, che individuano i casi in cui la componente derivativa diviene soggetta ad autonoma contabilizzazione: «Un derivato incorporato deve essere separato dal contratto primario e contabilizzato come un derivato secondo il presente Principio se, e soltanto se: a) le caratteristiche economiche e i rischi del derivato incorporato non sono strettamente correlati alle caratteristiche economiche e ai rischi del contratto primario […]; b) uno strumento separato con le stesse condizioni del derivato incorporato soddisferebbe la definizione di derivato; e c) lo strumento ibrido (combinato) non è valutato al fair value (valore equo) con le variazioni del fair value (valore equo) rilevate nel conto economico (ossia un derivato che sia incorporato in una attività o passività finanziaria al fair value (valore equo) rilevato a conto economico non è separabile)»36. Si può affermare quindi che, al ricorrere di talune condizioni, alcuni fenomeni economico-finanziari derivanti da un rapporto contrattuale vengono registrati e rappresentati, a fini contabili, in forma isolata, separati dagli altri fenomeni economico finanziari riconducibili a quel rapporto37. Mentre il paragrafo c) inerisce direttamente alla sfera contabile, le condizioni dettagliate ai paragrafi a) e b) si prestano ad una più approfondita analisi anche dal punto di vista civilistico.
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Il principio prosegue introducendo alcune specificazioni ed esempi: «con riferimento a un prestabilito tasso di interesse, a un prezzo di uno strumento finanziario, a un prezzo di una merce, a un tasso di cambio di una valuta estera, a un indice di prezzi o di tassi, al merito di credito (rating) o indice di credito o ad altra variabile». 36 Cfr. Paragrafo 11 del principio IAS 39. 37 Cfr. De Cicco, La rappresentazione in bilancio degli strumenti di finanziamento atipici. Necessità di regolamentare gli assetti finanziari d’impresa, in Riv. dott. comm., 4, 2009, p. 679.
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Appare innanzitutto un indicatore interessante quello individuato al paragrafo a), secondo cui le caratteristiche economiche ed i rischi collegati alla componente derivativa non debbano trovarsi in un rapporto di stretta correlazione con il contratto host. Il concetto di stretta correlazione non è però specificamente definito e si presta a plurime interpretazioni: è certamente più facile immaginare casi-limite, ma man mano che le prestazioni della clausola “sospettata di derivatività” si avvicinano e compenetrano alle prestazioni del negozio host, la suddivisione diviene via via più complessa. Per questo motivo, lo stesso Legislatore europeo si è premunito di fornire una serie di esempi volti a chiarire ed orientare l’opera interpretativa con riguardo ai casi più frequenti di possibili derivati impliciti, ai paragrafi 30 e 33 dell’Appendice al Principio 39, tra cui, a titolo esemplificativo, derivati su cambi, indici, tassi di interesse. Da ultimo, si consideri che la regola sembra tenere conto dell’ipotesi di contratti collegati, laddove chiarisce che «un derivato che sia associato a uno strumento finanziario, ma sia contrattualmente trasferibile indipendentemente da quello strumento, o abbia una controparte diversa da quello strumento, non è un derivato incorporato, ma uno strumento finanziario separato». La regola possiede certamente il pregio della chiarezza e sicuramente identifica un’ipotesi chiara di separazione contrattuale; tuttavia, non è detto che questa indicazione possa valere come regola assoluta per identificare tutti i contratti separati e, in ogni caso, ricade fuori del campo dei c.d. derivati impliciti38. Secondo alcuni, l’esistenza della norma confermerebbe e sosterrebbe la tesi del derivato implicito39. Per quanto però il riferimento al principio IAS appaia suggestivo per le sue implicazioni, la disposizione non sembra decisiva ai fini dell’interpretazione della fattispecie, giacché la norma contabile appare inadeguata all’obiettivo di fornire una guida per l’interpretazione del negozio (o dei negozi). Al contrario, le regole di rappresentazione contabile internazionale, per ragioni di omogeneità di applicazione in diversi ordinamenti, si reggono sul principio sostanzialistico di rappresentazione dei fenomeni
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Al riguardo, cfr. infra. Cfr. Greco, La violazione della regola della trasparenza nel mutuo con tasso floor ed il problema della scommessa razionale nel derivato implicito, in Resp. civ. prev., 1, 2015, p. 25; Civale, Clausole, cit., p. 2. 39
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economici (substance over form) che prevale sulla qualificazione giuridica del rapporto40. Solo a titolo di esempio, si consideri che la stessa definizione di “derivato” contenuta nei principi contabili internazionali (ed alla quale fa riferimento anche la norma nazionale introdotta dal D.Lgs. 139/2015) ricomprende «uno strumento finanziario o altro contratto»: i principi contabili nascono per finalità di rappresentazione dei fenomeni patrimoniali relativi all’impresa e, nell’ottica di una comparabilità dei risultati economico finanziari, trascendono la rigida classificazione dei negozi previsti dagli ordinamenti. In aggiunta a quanto precede, non va poi sottaciuto che neppure la regola contabile del Principio IAS 39 individua una precisa separazione tra derivato e contratto principale, dovendosi necessariamente operare, in molti casi, una separazione “pratica” basata sulla dimensione “significativa” del rapporto e sulla sua capacità di produrre un effetto leva in relazione al rapporto sottostante41. Affermare l’esistenza di una possibile componente derivativa, di per sé, non equivale dunque necessariamente a ritenere esistente una pattuizione dotata di una sua specifica autonomia e qualificabile “civilisticamente” come contratto derivato. 3.3. Il derivato implicito e la disciplina dell’intermediazione finanziaria. Se dunque è difficile fare esclusivo riferimento alla disposizione contabile per individuare un substrato normativo a sostegno dell’argomento del derivato implicito, l’interprete dovrà impiegare gli strumenti ermeneutici a sua disposizione per ricondurre il rapporto – o i suoi elementi – negli schemi tipici conosciuti e per valutare la riconducibilità della clausola al mondo dell’intermediazione finanziaria. Da questo punto di vista, con riferimento ad un contratto in cui prima facie si ipotizzi una componente derivativa nella forma di una o più clausole, possono ipotizzarsi tre possibili schemi interpretativi: (a) con
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La questione è particolarmente complessa e difficile appare individuare una definizione calata nel nostro ordinamento, dovendosi peraltro ricordare che il principio assume una sua declinazione sia in ambito contabile che fiscale: cfr. Venuti, Il principio “substance over form” nel bilancio IAS/IFRS, in Società, 2008, 3, p. 277 (I parte) e 4, p. 427 (II parte). 41 In tal senso si vedano le considerazioni di Girino, I derivati, cit., p. 4, che richiama i due esempi peculiari dei contratti floor e cap e del contratto derivato relativo ad operazioni di cambio.
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un unico documento le parti hanno sottoscritto due (o più) contratti, di cui uno è qualificabile come derivato, riuniti in un fenomeno di collegamento negoziale; (b) le parti hanno sottoscritto un contratto “misto”, all’interno del quale cioè vi sono delle previsioni riconducibili al tipo dei contratti derivati che si fondono con le caratteristiche di altri contratti; ovvero (c) le parti hanno sottoscritto un unico contratto, all’interno del quale ci sono delle clausole che determinano dei fenomeni economici assimilabili a quelli prodotti dai contratti derivati ma di diversa natura (sembra un derivato, ma non lo è). In tutti e tre i casi la soluzione del problema presuppone la risposta ad una medesima domanda preliminare: cosa sia un derivato. D’altronde, in tutte le ipotesi sopra prospettate si rende necessario il confronto con il modello negoziale di riferimento: per sapere cosa non sia un derivato, sarà necessario conoscerne le caratteristiche. Il tema disvela quindi, necessariamente, la difficoltà dell’interprete di fronte ad un contratto alieno per definizione42, nominato ma connotato da una tipicità solo sociale43, dai confini incerti nonostante la grande attenzione rivolta alla fattispecie nel discorso giuridico degli ultimi anni. Non è un caso che in dottrina si sia dubitato della stessa possibilità di individuare caratteristiche comuni al genus dei derivati44 e che in molte analisi ci si sia spesso focalizzati sulla ricerca di una definizione relativa ad un prototipo del derivato, che però ne costituisce necessariamente una species: lo swap45. Quello che con uno sforzo di massima astrazione si può raggiungere, è affermare che il derivato sia un contratto aleatorio. È anche notoriamente considerato come un contratto che basa i suoi flussi economici
42 Il riferimento va evidentemente alle belle pagine di De nova; cfr. Id., Il contratto: dal contratto atipico al contratto alieno, Padova, 2011, p. 32; Id, I contratti derivati come contratti alieni, in Riv. dir. priv, 2009, p. 15. 43 Cfr., ad es., App. Torino, 17 gennaio 2014, in ilcaso.it. 44 Cfr. Girino, Natura e funzione della disciplina dei servizi d’investimento e qualificazione degli strumenti derivati nella giurisprudenza costituzionale, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 1, p. 35 ss. 45 Gli esempi sarebbero molteplici ma si consideri, tra tutti, la definizione più recente proposta da App. Milano, 18 settembre 2013, con nota di Tucci, Interest rate swaps: “causa tipica” e “causa concreta”, in Banca, borsa, tit. cred., 3, 2014, p. 291 ss.; in Rass. dir. civ., 2014, p. 295, con nota di Di Raimo, Interest rate swap, teoria del contratto e nullità: e se finalmente dicessimo che è immeritevole e che tanto basta?.
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sulla base di attività sottostanti46 e tendenzialmente differenziale47. Ancora, è un contratto consensuale, a prestazioni corrispettive, ad effetti obbligatori e ad esecuzione differita. Presi singolarmente o insieme, però, questi elementi non sembrano restituirci un’indicazione definitiva per la valorizzazione dei derivati impliciti all’interno di altri rapporti contrattuali. In effetti, tutto può divenire oggetto di una sorta di bias cognitivo, essere visto cioè attraverso la lente distorsiva del derivato “implicito” alla luce del fenomeno economico osservabile dall’esterno; e ciò, forse, proprio per la vaghezza del concetto di contratto derivato, a sua volta dotato di una straordinaria inclusività48. Se tutti questi elementi non consentono di individuare di per sé il limite che definisce con certezza il “tipo” derivato, se non si riesce ad individuare un canone ermeneutico che orienti le possibilità dell’interpretazione, l’unica soluzione sembra quella di guardare allo scopo pratico
46 Si richiami la sentenza di C. Cost., 10 febbraio 2010, n. 52, in Banca, borsa, tit. cred. 2011, 1, 1, con nota di Girino, Natura e funzioni, cit.: «le negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari derivati si caratterizzano, sul piano strutturale, per essere connesse ad altre attività finanziarie (quali, ad esempio, titoli, merci, tassi, indici, altri derivati) dal cui “prezzo” dipende il valore dell’operazione compiuta. Ferme ovviamente restando le diversità legate al tipo di operazione prescelto, tali negoziazioni sono volte a creare un differenziale tra il valore dell’entità negoziata al momento della stipulazione del relativo contratto e quello che sarà acquisito ad una determinata scadenza previamente individuata». La definizione è ormai logora per l’uso; si veda, tra tutti Maffeis, Contratti derivati, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 5, p. 604. 47 Tale elemento sembra però essere assente in alcune tipologie di derivati, tra cui le opzioni finanziarie (v.infra). 48 Solo come esempi: la derivazione da grandezze sottostanti e l’aleatorietà del rapporto si può intravedere in molte clausole dei contratti di finanziamento (e.g., floor, cap, rischio cambio, indicizzazione), l’esistenza di un elemento di corrispettività pure è ravvisabile nel complesso di prestazioni che formano il contratto misto. In effetti, un’indicazione in tal senso può rinvenirsi anche nella pluralità di definizioni contenute all’articolo 1 t.u.f. e tutte riconducibili al più generale ordine dei derivati, o ancora, alla lata definizione contenuta nel principio contabile IAS 39, sopra richiamato: si intendono derivati a tal fine quei contratti «il cui valore cambia in relazione al cambiamento di un tasso di interesse, di un prezzo di uno strumento finanziario, di un prezzo di una merce, di un tasso di cambio in valuta estera, di un indice di prezzi o di tassi, di un merito di credito (rating) o indici di credito o altra variabile prestabilita (alcune volte denominata “sottostante”); (b) non richiede un investimento netto iniziale o richiede un investimento netto iniziale che sia minore di quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti da cui ci si aspetterebbe una risposta simile a cambiamenti di fattori di mercato; (c) è regolato a data futura, con regolamento differito rispetto alla data di negoziazione». Ovviamente circa l’applicabilità di questa definizione valgano le considerazioni – e le perplessità – già mostrate nei paragrafi che precedono.
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del negozio, al programma voluto dalle parti: occorre farne, dunque, un problema di causa. Con specifico riferimento ai contratti derivati, non può però che rilevarsi l’ampia gamma di interpretazioni che a questo concetto viene attribuito in dottrina e giurisprudenza e che, forse, è figlia dell’incertezza di cui sopra. In tal senso, l’elaborazione in materia di derivati mutua i risultati dell’elaborazione generale in materia di causa concreta del rapporto, sulla scorta delle indicazioni promananti dalla Cassazione49. Il principio secondo cui l’elemento causale debba essere esaminato con riferimento al concreto programma negoziale delle parti va però completato identificando gli elementi che concorrono a determinare tale programma e, soprattutto, individuando il confine tra la causa ed i motivi, tra ciò che è il comune intendimento dei contraenti e quello che, piuttosto, attiene alle motivazioni dei singoli che concludono il negozio50. In tal senso, il “borsino” della causa del derivato oscilla periodicamente nel contenzioso: parte dal concetto di trasferimento del rischio, estendendosi con incursioni nel territorio della funzione economica, speculativa o di copertura, nell’ottica di una verifica della causa in concreto del rapporto51.
49 Si fa riferimento ovviamente a Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, ampiamente commentata con nota di Rimoldi, La causa quale ragione in concreto del singolo contratto, in Contr., 2007, p. 621; con nota di Cuccovillo, La nullità del contratto d’opera per difetto di causa, in Nuova giur. civ., 2007, p. 303; e con nota di Rolfi, La causa come “funzione economico sociale”: tramonto di un idolum tribus? in Corr. giur., 2006, p. 1718. Con riferimento ai derivati, sembra potersi richiamare la sentenza di Trib. Ravenna, 8 luglio 2013, in ilcaso.it e relativa al caso specifico dei contratti swap: «Nelle operazioni di interest rate swap è ravvisabile una causa in astratto - coincidente con lo scambio di flussi corrispondente al differenziale che, nel tempo di esecuzione del contratto, si determina tra due tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati a un capitale emozionale di riferimento - ed una causa in concreto, individuabile nel contratto intervenuto tra le parti e considerato nella sua specifica conformazione». 50 La vicenda giurisprudenziale è vastissima, pletorica e in parte contraddittoria. Prova a ricostruire questo percorso Tucci, Interest, cit. Nella congerie di contributi sul tema può essere utile citare piuttosto qualche contribuito critico sull’argomento: cfr. Pagliantini, I derivati, cit.; Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, I, 971; Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 2, p. 251. 51 A riprova dell’attuale situazione di “incertezza” che domina il settore può richiamarsi un estratto da una recente pronuncia del Tribunale di Genova (Trib. Genova, 30 novembre 2015, in ilcaso.it), chiamato a pronunciarsi, come spesso accade, in materia di swap: «il contratto di Interest Rate Swap (IRS) è un contratto atipico, di natura
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Ad ogni modo, l’elemento causale può costituire un utile elemento quantomeno per distinguere l’ipotesi di collegamento negoziale e quella di contratto misto; e ciò perché, seguendo l’indicazione più classica, siamo in presenza di un contratto misto quando in esso concorrono gli elementi di più contratti tipici che si fondono in un’unica causa, mentre il collegamento negoziale si rileva nel caso in cui le parti perseguano un risultato economico unitario attraverso una pluralità di contratti uniti da un nesso di reciproca interdipendenza52. Si può quindi pervenire ad una prima, approssimativa conclusione: se all’interno del contratto, sulla base della verifica del programma negoziale, può osservarsi una pattuizione astrattamente riconducibile alla categoria dei derivati (seppure nei confini sfumati come sopra richiamati), e che sia al contempo slegata dal complesso delle ulteriori pattuizioni stabilite dalle parti, ci si può ritenere in presenza di un collegamento negoziale tra un (possibile) contratto derivato ed altro rapporto di diversa natura. Se le pattuizioni ricostruibili astrattamente come derivato contribuiscono al programma negoziale del contratto principale, siamo in presenza, alternativamente, di un contratto misto o di un contratto che preveda flussi economici similari a un derivato (ma nessuna pattuizione ricostruibile come tale). Altra questione riguarda invece la qualificazione degli elementi del negozio così separati: come detto, la questione è controversa e deve essere esaminata in considerazione delle caratteristiche “minime” del contratto derivato (che, ricordiamo, resta comunque un contratto solo socialmente tipico). In tal senso, ancora pesa l’incertezza circa il preciso inquadramento civilistico del contratto derivato; tuttavia, sembra potersi ricondurre a questa generale categoria il rapporto che consenta un tra-
aleatoria, caratterizzato dallo scambio, a scadenze prefissate, dei flussi di cassa prodotti dall’applicazione di diversi tassi ad uno stesso capitale di riferimento. L’aleatorietà si atteggia, tuttavia, in maniera differente a seconda della funzione in concreto perseguita dalle parti, distinguendosi ipotesi in cui l’elemento aleatorio costituisce l’unica ragione determinante le parti alla stipulazione del negozio, da altre in cui esso costituisce solo una componente della più complessa causa contrattuale, rivestendo il contratto finalità ulteriori, quali quella di protezione o di copertura da rischi. Tale situazione ricorre ove il contratto di IRS sia stipulato da un imprenditore che intenda tutelarsi dall’oscillazione dei tassi in riferimento ad un mutuo a tasso variabile. Il contratto di swap assume in questo caso una precisa logica che lo avvicina alla causa assicurativa: la causa in concreto è dunque quella di cautelarsi da un rischio preesistente, costituito per il cliente dal fatto di essere esposto all’incertezza dell’oscillazione dei tassi». 52 Cfr., ex multis, Bianca, Diritto civile, III, 2000, p. 478 ss.
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sferimento del rischio e sia inquadrabile in una delle definizioni presenti all’interno del Tuf, sia pure quando manchi di una clausola che disciplini la chiusura anticipata del rapporto a valori correnti (mark-to-market); in caso contrario, resterebbe infatti aperta la questione relativa all’inquadramento del rapporto, che dovrebbe altrimenti qualificarsi come una scommessa – ma sarebbe difficilmente ravvisabile la causa di gioco – o ancora come un tertium genus aleatorio, “derivativo” ma non derivato53. In definitiva, quindi, enucleare “per sottrazione” la pattuizione derivativa dal resto del contratto non dirime integralmente il problema della qualificazione di tale “componente” ma ha il pregio di risolvere alcune tra le più rilevanti questioni dibattute, concernenti l’applicazione delle discipline previste per il collocamento degli strumenti finanziari e di quelli bancari, incluse le norme in materia di trasparenza. Difatti, nel caso in cui si confermi l’esistenza di negozi separati, l’articolo 23, comma 4 del Tuf esclude l’applicazione delle norme in tema di trasparenza bancaria alla prestazione dei servizi ed attività di investimento, ai quali, per converso, si applica la normativa di settore54.
53 In tal senso si possono richiamare le recenti posizioni circa la qualificazione del mark-to-market quale elemento essenziale del rapporto: App. Milano, 18 settembre 2013, cit., e Girino I derivati, cit., p. 24; ad attenta lettura, però, sembra di poter dire che nel caso oggetto di decisione giurisprudenziale l’essenzialità delle informazioni relative al mark-to-market sia intrinsecamente legata alla clausola relativa alla chiusura anticipata del rapporto; ciò nel senso che, qualora una parte del contratto riguardi la determinazione dei valori attualizzati finalizzata alla chiusura del rapporto, sarebbe in effetti impossibile partecipare scientemente alla scommessa razionale, senza averne prima conosciuto le caratteristiche (da qui la sanzione della nullità per difetto dell’accordo). Viene però da chiedersi se l’attualizzazione dei flussi alla chiusura sia una clausola necessaria alla qualificazione del tipo derivato; e se non sia possibile, al contrario, ipotizzare l’esistenza di un contratto derivato che non preveda la determinazione di un corrispettivo per il recesso. 54 In tal senso, peraltro, la contrapposizione tra i due sistemi di norme previsti dai testi unici sembra irredimibile, anche alla luce delle previsioni di cui all’art. 23, co. 4, del t.u.f., chiaro nello stabilire che «le disposizioni del titolo VI, capo I, del T.U. bancario non si applicano ai servizi e attività di investimento, al collocamento di prodotti finanziari nonché alle operazioni e ai servizi che siano componenti di prodotti finanziari assoggettati alla disciplina dell’articolo 25-bis ovvero della parte IV, titolo II, capo I. In ogni caso, alle operazioni di credito al consumo si applicano le pertinenti disposizioni del titolo VI del T.U. bancario». Per una disamina complessiva dell’argomento si rinvia a Lener & Lucantoni, Commento sub art. 23, in Il Testo Unico della Finanza, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, I, p. 400; Gobbo, Commento sub art. 23, in Commentario t.u.f., a cura di Vella, Torino, 2012, I, p. 274, ai più risalenti Rovito & Picardi, Commento sub art. 23, in Testo Unico della Finanza, a cura di Campobasso, Torino, 2002, I, p. 199;
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Allo stesso tempo, in presenza di prodotti composti55 la cui finalità “esclusiva o preponderante” non sia di investimento, le disposizioni di vigilanza in materia di trasparenza emanate dalla Banca d’Italia dispongono l’applicazione della sola disciplina in materia di trasparenza bancaria all’intero prodotto, privilegiando quindi il criterio dell’assorbimento in luogo di quello della composizione56, in linea peraltro con l’orientamento assunto dalla Cassazione in tema di contratti misti57. Alla luce di quanto sopra, quindi, la previsione “incorporata” nel contratto qualificabile come derivato tout court sarà disciplinata alla luce delle norme in materia di servizi di investimento, la “componente deriva-
e ancora si vedano i recenti Dambrosio, Mancanza di forma ad substantiam ex art. 23 t.u.f., in Contr., 2012, 6, p. 530; Sangiovanni, Il contratto di intermediazione finanziaria, in Obbl. e contr., 2011, 11, p. 770. 55 La definizione di prodotti composti ai nostri fini si rinviene nelle Disposizioni di Trasparenza della Banca d’Italia, Provvedimento del 29 luglio 2009 (successivamente modificato), in bancaditalia.it, Sez. I, n.3: «schemi negoziali composti da due o più contratti tra loro collegati che realizzano un’unica operazione economica». 56 In tal senso depongono peraltro le Disposizioni di Trasparenza della Banca d’Italia cit., Sez I., n.1.1, che sembrano deporre per l’applicazione di un criterio di prevalenza, salvi i casi di di prodotti effettivamente ibridi, accertamento peraltro non particolarmente agevole: «le presenti disposizioni: a) non si applicano ai servizi e alle attività di investimento come definiti dal t.u.f. e al collocamento di prodotti finanziari aventi finalità di investimento, quali, ad esempio, obbligazioni e altri titoli di debito, certificati di deposito, contratti derivati, pronti contro termine; b) in caso di prodotti composti la cui finalità esclusiva o preponderante non sia di investimento si applicano: all’intero prodotto se questo ha finalità, esclusive o preponderanti, riconducibili a quelle di servizi o operazioni disciplinati ai sensi del titolo VI del T.U. (ad esempio, finalità di finanziamento, di gestione della liquidità, ecc.); - alle sole componenti riconducibili a servizi o operazioni disciplinati ai sensi del titolo VI del t.u. negli altri casi. In caso di prodotti composti la cui finalità esclusiva o preponderante sia di investimento, si applicano le disposizioni del t.u.f. sia al prodotto nel suo complesso sia alle sue singole componenti, a meno che queste non costituiscano un’operazione di credito ai consumatori (alle quali si applica quanto previsto dalle presenti disposizioni)». 57 Si veda ad esempio la massima di Cass., 22 giugno 2005, n. 13399, in iusexplorer. it: «il contratto misto, costituito da elementi di tipi contrattuali diversi, non solo è unico, ma ha causa unica ed inscindibile, nella quale si combinano gli elementi dei diversi tipi che lo costituiscono; il contratto deve essere assoggettato alla disciplina unitaria del contratto prevalente (e la prevalenza si determina in base ad indici economici od anche di tipo diverso, come la “forza” del tipo o l’interesse che ha mosso le parti), salvo che gli elementi del contratto non prevalente, regolabili con norme proprie, non siano incompatibili con quelli del contratto prevalente, dovendosi in tal caso procedere, nel rispetto dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.), al criterio della integrazione delle discipline relative alle diverse cause negoziali che si combinano nel negozio misto».
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tiva” integrata nel contratto complesso sarà ricondotta invece nella generale disciplina del contratto di credito principale, e ciò a prescindere dal fatto che si possa effettivamente discorrere di “elementi derivativi” solo in senso economico o anche dal punto di vista giuridico. Vero è che astrattamente il contratto asseritamente “misto” potrebbe essere sottoposto ad apposito scrutinio relativo alla meritevolezza degli interessi sottesi (art. 1322 c.c.), trattandosi però di analisi da doversi condurre caso per caso. Questa opzione interpretativa però ridurrebbe il rischio che l’intermediario possa operare una sorta di arbitraggio regolamentare, aggirando obblighi informativi e valutativi dalla portata fortemente pervasiva (e le conseguenti responsabilità derivanti dalla loro mancata applicazione)58, semplicemente configurando la pattuizione come una “clausola”, inserita appositamente nel contratto principale59. Ci si muove evidentemente su un crinale scosceso giacché appare complesso ricostruire un modello ermeneutico applicabile a tutti i rapporti. Le conseguenze derivanti dalla scelta della disciplina applicabile sono particolarmente rilevanti; la valutazione dovrà necessariamente essere condotta su base individuale. Alcune pronunce di merito (peraltro provenienti da una stessa Corte territoriale) illustrano plasticamente la difficoltà di interpretare questa casistica nuova e dall’interpretazione accidentata60. In tutti i casi oggetto di decisione vi è un contratto di leasing “seriale”, standardizzato e
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È cognizione comune che il mancato assolvimento di tali obblighi possa comportare quantomeno il risarcimento del danno per il cliente che abbia subito un pregiudizio; la giurisprudenza di riferimento è, ovviamente, Cass., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, annotate, tra i molti, da Bove, Le violazioni delle regole di condotta degli intermediari finanziari al vaglio delle Sezioni unite, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, p. 143; Greco, Intermediazione finanziaria: violazione di regole comportamentali e tutela secondo le sezioni unite, in Resp. civ. prev., 2008, p. 556; Prosperi, Violazione degli obblighi di informazione nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725), in Contr. e impr., 2008, p. 936; V. Scognamiglio, Regole di comportamento nell’intermediazione finanziaria: l’intervento delle S.U., in Società, 2008, 4, p. 449; Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la cassazione esclude la nullità, in Contr., 2008, 3, p. 221; Mariconda L’insegnamento delle sezioni unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità, in Corr. giur., 2008, 2, p. 223; Roppo & Bonaccorsi, Nullità virtuale del contratto (di intermediazione finanziaria), in Danno e resp., 2008, p. 525. 59 Cfr. Cognolato, Componenti, cit., p.1764. 60 Cfr. Trib. Udine 29 febbraio 2016, Trib. Udine, 11 maggio 2015, entrambe in cameracivileudine.it; Trib. Udine 20 luglio 2015, in almaiura.it.
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proposto da un operatore del settore61. Tutti i contratti riportano due clausole astrattamente riconducibili al concetto di “derivato implicito”, che introducono nel rapporto di leasing due distinte componenti aleatorie: una prima clausola di “indicizzazione del canone”, che parametra il medesimo ad un indicatore convenzionale (Libor CHF); una seconda clausola invece relativa al “rischio cambio” che prevede flussi di denaro collegati all’andamento di una valuta estera. Le due clausole sono particolarmente articolate, quasi a farle sembrare dei veri “contratti nei contratti”; per entrambe viene richiesto di valutare l’applicabilità delle norme in materia di intermediazione finanziaria. Applicando un criterio discretivo causale, la clausola di indicizzazione viene giudicata come assorbita nel contratto di leasing, mentre la clausola “rischio cambio” viene considerata come un rapporto a sé stante (può quindi parlarsi di un derivato “incorporato” più che “implicito”)62, determinandosi l’applicazione delle norme
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È peraltro segnalato un contenzioso copioso da parte dei clienti nei confronti di una medesima controparte: si possono richiamare, ad esempio, alle offerte di scambio relative ai c.d. Tango bond argentini, o alle proposte di conversione relative al caso Parmalat, o ancora al fallimento Lehman Brothers. In tutti questi casi si è parlato di “situazioni tipo” o Fallengruppen; cfr. Dolmetta, Della ricerca giurisprudenziale di contenere entro “ragionevoli limiti” l’operatività in derivati, in Società, 2016, 6, p. 709. In materia va peraltro registrata la recente pronuncia di legittimità Cass. 10 novembre 2015, n. 22950, in iusexplorer.it e citata in Dolmetta, ult. loc. cit., secondo cui «il giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti dal contratto ex art. 1322 c.c. può essere rimesso all’esclusivo sindacato del giudice del merito solo ove esso appartenga all’esclusiva e specifica singolarità del caso concreto, come tale destinato a restare confinato, appunto, nell’ambito di tale giudizio. Tuttavia, dove, al contrario, la fattispecie concreta sia idonea a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi, là si ravvisa allora un giudizio di diritto e la necessità dell’intervento nomofilattico della Cassazione, al fine di garantire la prevedibilità delle future decisioni, posto che si tratta d’integrare il contenuto della norma indeterminata o della clausola generale predetta». 62 Secondo l’interpretazione di Girino I derivati, cit., p. 2, il termine “implicito” sarebbe prossimo all’area semantica del “nascosto”, mentre dall’“incorporazione” si intuirebbe un significato di maggiore trasparenza e conoscibilità. Questa caratterizzazione però non sembra assumere una particolare utilità nel contesto dell’analisi della fattispecie, per cui, in linea con gli argomenti proposti in questo contributo, se ne propone una differente: l’ “incorporazione” potrebbe riferirsi al rapporto tra contratti e documento, potendosi utilizzare nel caso di collegamento tra negozi presenti in un unico testo; la locuzione “derivato implicito” appare forse più calzante ai casi di contratti misti o all’ipotesi in cui il contratto esprima solo valori economici similari a quelli dei derivati; anzi, proprio la fumosità evocata dal termine sembra ben attagliarsi alla complessità dell’analisi.
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previste dal t.u.f. (e la conseguente responsabilità dell’intermediario inadempiente)63. In linea con l’insegnamento generale, dunque, l’elemento distintivo nel giudizio sulle due pattuizioni è dato da una valutazione circa la causa dei rapporti; e mentre nell’un caso si ritiene che la previsione abbia un suo specifico influsso nel rapporto di leasing poiché contribuisce a determinare una delle prestazioni del rapporto (il pagamento dei canoni), nell’altro l’estraneità della pattuizione è tale da spingere il giudicante a ritenerla estranea al rapporto principale64. Anche quando però si ritenga che tutte le previsioni del rapporto siano riconducibili ad un medesimo disegno causale, non è detto che si tratti di un rapporto “misto”. Anche in questo caso, il dubbio potrà essere fugato verificando l’effettivo scopo voluto dalle parti, oltre ovviamente agli altri elementi caratterizzanti il rapporto. In tal senso, può richiamarsi una pronuncia recente della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che pure si era espressa con riferimento alla relazione tra asserite componenti derivative e normativa in tema di intermediazione finanziaria65. Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici europei, veniva analizzato un contratto di credito al consumo erogato in valuta estera, e come tale integrante un rischio di cambio tra la valuta di riferimento e quella impiegata per il pagamento, regolato tramite flussi di valute “fittizi”66.
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A giudizio della Corte «l’indicizzazione è intrinsecamente collegata allo schema del contratto di leasing, in quanto interviene a modificare il piano finanziario […]: essa non muta la causa tipica del contratto, ma costituisce una previsione accessoria che incide sul contenuto del sinallagma negoziale”. Per converso “la clausola di “rischio cambio” introduce nel contratto uno strumento finanziario, dotato di causa propria ed autonoma rispetto al contratto di leasing […] Non si è dunque in presenza di un contratto complesso, la cui causa contrattuale (intesa come lo scopo, di contenuto economico, che le parti perseguono con la conclusione di uno specifico accordo) è unica, ma di un collegamento negoziale tra più contratti ciascuno dotato della sua causa». 64 Questa scelta interpretativa sembra in linea con una precedente pronuncia del Collegio di Milano dell’Arbitro Bancario Finanziario intervenuta con riferimento agli stessi tipi contrattuali. Cfr. ABF Milano, 8 luglio 2013, n. 3645, in arbitrobancariofinanziario.it. 65 CGUE, 3 dicembre 2015, causa C-312/14, Banif Plus Bank Zrt. contro Márton Lantos e Mártonné Lantos, in curia.europa.eu. 66 Così veniva descritto il funzionamento del contratto all’interno della pronuncia, a sua volta citando il giudice del rinvio: «Al momento della concessione del prestito, [la Banif Plus Bank] ha convertito in valuta estera l’importo da erogare in fiorini, in base al tipo di cambio in vigore a una data previamente stabilita […]. [Successivamente,] la banca ha acquistato dal cliente tale valuta estera, (registrata) a carico del cliente, applicando il tipo di tasso di cambio di acquisto di valuta in vigore al momento della concessione
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Anche in questo caso, quindi, si è in presenza di una clausola relativa al “rischio cambio”, calata però nel diverso contesto del mutuo erogato in valuta straniera. L’argomentazione della Corte muove dal presupposto che le operazioni da questa disciplinate costituiscano, nel contesto di questo contratto, «modalità di esecuzione di obbligazioni essenziali di pagamento del contratto di mutuo, ossia la messa a disposizione del capitale […]. Tali operazioni non hanno il fine di realizzare un investimento, in quanto il consumatore mira solamente ad ottenere fondi». L’obiettivo del programma negoziale, cioè, non è di investimento finanziario ma di credito, in linea con la qualificazione giuridica del contratto67, con ciò giustificandosi l’esclusione della disciplina in tema di investimento in strumenti finanziari.
4. Interpretazione delle clausole floor: la tesi del derivato implicito. Le considerazioni illustrate al paragrafo che precede, consentono di intavolare un’analisi delle questioni attinenti alle clausole floor contenute nei contratti di finanziamento. Sotto un profilo tassonomico, la struttura economica delle clausole floor appare riconducibile allo schema dell’opzione finanziaria68, attraverso la quale si otterrebbero dei flussi “paralleli” a quelli generati da una ipotetica clausola di interessi variabile “pura”, cioè senza limitazioni verso il basso (lo stesso ragionamento può operarsi, al contrario, per
del prestito (operazione di cambio a pronti) e gli ha versato il relativo controvalore in fiorini ungheresi. [La Banif Plus Bank] ha [poi] venduto al cliente la valuta registrata a fronte di fiorini, applicando il tipo di tasso di cambio di vendita di valuta vigente al momento del rimborso del prestito (operazione di cambio a termine al giorno del rimborso) [CdA], affinché il cliente potesse adempiere in valuta estera il proprio obbligo di rimborso, denominato in valuta estera». 67 In tal senso anche la ricostruzione di Maffeis, Direttiva 2014/17/UE: rischi di cambio e di tasso e valore della componente aleatoria nei crediti immobiliari ai consumatori, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, 2, p. 188. 68 A tal riguardo, pare utile indicare la definizione riportata in Caputo Nassetti, I contratti derivati finanziari, Milano, 2011, p. 302: «l’opzione sul tasso di interesse è il contratto col quale una parte, verso pagamento di un premio, si obbliga a pagare all’altra una o più somme di denaro entro i limiti convenuti al verificarsi di certe variazioni del tasso di interesse». Si presti attenzione al fatto che questo contratto, secondo l’Autore, non rientrerebbe nella categoria dei contratti differenziali poiché, in effetti, non vi è l’obbligo di pagare la differenza tra due prestazioni incrociate.
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una clausola cap). Questi flussi finanziari “bilancerebbero” quelli generati dalla clausola di interessi, con ciò determinando un limite all’oscillazione degli stessi. Rispetto all’ordinaria configurazione di questi strumenti finanziari, la struttura del floor implicito disvelerebbe all’atto pratico numerose peculiarità: la circostanza che il rapporto sia intrattenuto tra le medesime parti del contratto finanziario; la sostanziale inscindibilità ed intrasferibilità del rapporto; la peculiare sistemazione degli assetti dello stesso, con la banca finanziatrice che, di fatto, “acquisterebbe” protezione (hedging) dal suo cliente, assumendo una posizione “lunga” e l’assenza di una contropartita (premio) a fronte dell’assunzione del rischio.69 Occorrerebbe quindi procedere a valutare se la clausola floor contenuta nel contratto di finanziamento possa qualificarsi, di per sé, come un contratto derivato70, ovvero sia l’elemento di un rapporto complesso, o ancora una mera componente della più complessa clausola di pattuizione dell’interesse, dunque priva di una sua autonoma dignità. In tal senso, sulla base delle indicazioni generali individuate sopra, la clausola potrebbe qualificarsi come rapporto “autonomo” solo in pre-
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Concordi nella ricostruzione Civale, Clausole floor, cit., p. 3; Sartori, Sulla clausola, cit., p. 704, secondo cui l’assenza del premio potrebbe essere peraltro bilanciata da una diminuzione dello spread applicato dalla banca o da una clausola cap. Si notino peraltro le assonanze con il contiguo contratto di assicurazione (art. 1882 c.c.): al pari di molte altre figure astrattamente similari a tipi già conosciuti nel nostro codice civile, il derivato presenta caratteristiche sue proprie, generalmente riconducibili al concetto di astrattezza. Nell’opzione, ad esempio, l’esistenza di un effettivo rischio in capo al contrante non costituisce un elemento necessario, difformemente da quanto previsto per l’assicurazione; ancora, è possibile stipulare più contratti derivati relativi ad un medesimo evento, contrariamente a quanto stabilito per le assicurazioni; ancora, l’effettiva oscillazione del rischio relativo all’evento sottostante non consente la modifica del premio o il recesso dall’assicurazione ma, al contrario, risulta indifferente. Cfr. Caputo Nassetti, I contratti, cit., p. 302 ss. 70 Greco, La violazione, cit. Per completezza, va anche segnalato che potrebbe prospettarsi una ulteriore opzione ermeneutica qualificando il contratto di finanziamento con clausola floor tra i prodotti finanziari, sulla scorta di quanto già elaborato in tema di polizze vita unit linked o index linked, che sono poi l’epitome dei prodotti complessi. La tesi però sembra non persuasiva data l’impossibilità di ricondurre il mutuo a tale categoria. In tal senso si era già espressa la Consob con comunicazione DIN 82717 del 7 novembre 2000, stabilendo che «il mutuo non può neppure farsi rientrare tra i prodotti finanziari di cui all’articolo 1, comma 1°, lett. u) del d.lgs. 58/1998 […] nell’ambito di tale ultima categoria, infatti, possono ricomprendersi […] i soli prodotti finanziari di “raccolta” e non quelli di “erogazione”». Cfr. Civale, Clausole, cit., 5. Si può inoltre richiamare al riguardo la pronuncia della CGUE citata sopra (cfr. nt. 65).
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senza di indicatori in grado di evidenziarne l’assoluta terzietà rispetto al programma negoziale del rapporto di finanziamento cui è legata. La tesi sembra assumere però una portata residuale alla luce dello stretto collegamento previsto nella maggior parte dei formulari tra clausola floor e pattuizione degli interessi: seguendo un’autorevole indicazione, potrebbe ipotizzarsi la presenza di un derivato qualora la clausola floor sia strutturata come un’opzione vera e propria prevedendo, ad esempio, la regolazione delle posizioni al mark-to-market calcolato alla data di chiusura del contratto di finanziamento, nell’ipotesi di estinzione anticipata di quest’ultimo71. In caso contrario, ci si potrebbe trovare di fronte all’alternativa tra contratto misto oppure in presenza del solo fenomeno economico similare al derivato ma espresso da una pattuizione non derivativa. La questione è sottile poiché difficile risulta comprendere, sulla base del solo criterio dell’effetto economico delle pattuizioni, se tramite la clausola floor le parti abbiano inteso procedere ad un trasferimento di alea con riferimento ad una fattispecie (quella del tasso di interesse variabile) che di per sé già contiene un elemento di incertezza. L’interprete dovrà pertanto valutare la volontà di trasferire un rischio tramite l’operazione, ma appare particolarmente complesso far emergere questo elemento “derivativo” nel rapporto, magari dimostrandone al contempo un’eventuale prevalenza rispetto all’elemento “bancario”, che escluderebbe l’assorbimento di tale componente nel rapporto di credito ai fini dell’applicazione della normativa bancaria72.
71 Girino, I derivati, cit., p. 18 ss. L’autore propone in realtà una tesi “massimalista” che lega alla presenza del mark-to-market il discrimine tra derivato e pattuizione accessoria; la questione è però controversa: le parti potrebbero accordarsi di chiudere il rapporto senza attualizzazione dei flussi? Ancora una volta si disvelano le difficoltà nella ricostruzione di un tipo. In argomento si vedano anche le sentenze di Trib. Milano 16 giugno 2015, in ilcaso.it e la nota App. Milano 18 settembre 2013, cit., che hanno dedicato attenzione al tema del mark-to-market ritenendolo elemento essenziale del rapporto (facendo però riferimento a casi in cui le parti espressamente prevedevano la liquidazione del rapporto alla chiusura al valore di mercato). 72 Può essere utile in tal senso un confronto con il caso dei piani finanziari “My way”, in cui il complesso delle operazioni collegate è stato ricondotto nell’alveo dei servizi di investimento di cui all’art. 1, co. 5, t.u.f., e ha aggiunto tale decisione, «la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario», elemento questo che mancherebbe nell’asserita struttura composta da derivato implicito e finanziamento. Cfr. Cass., 3 aprile 2014, n. 7776, in Giur. comm., 2014, 6, II, p. 948; v. anche Civale, Clausole, cit., p. 6.
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Piuttosto, l’applicazione di quei principi di aderenza al tipo e di valorizzazione dell’elemento causale che si scorge in nuce nelle decisioni di merito sopra richiamate e nella giurisprudenza europea, porta a escludere, in linea generale, che il floor, contenuto in una clausola di interessi possa essere stato strutturato dalle parti come una “componente derivativa”, e ciò anche alla luce di alcuni argomenti specifici, relativi a questo tipo di clausola. In effetti, affermare la tesi della componente derivativa significa svilire la possibilità, che l’ordinamento offre e di cui non si dubita, di determinare l’oggetto del contratto per relationem, ottenendo una variazione dell’interesse da corrispondere senza per questo operare un trasferimento di alea; a tal riguardo, può osservarsi che la summa divisio tra tassi fissi e variabili sembra potersi considerarsi come un criterio economico e commerciale, ma non giuridico, almeno nei limiti in cui la clausola rispetti le caratteristiche di univocità e determinabilità richieste dalla legge73. In tal senso, quindi, non c’è criterio per cui un tasso variabile debba essere necessariamente “puro”, cioè non prevedere limiti verso l’alto o il basso, e quindi non può affermarsi con certezza che il floor sia un elemento esterno alla pattuizione relativa agli interessi. Peraltro, vero è che il presunto derivato “implicito” replica l’andamento di un flusso finanziario generato da un derivato stand alone, ma è altrettanto vero che tutti i flussi finanziari generati da una clausola di interessi sono astrattamente replicabili facendo ricorso a strumenti finanziari derivati. A mero titolo di esempio: l’effetto di una clausola con tasso variabile e margine può essere ottenuto collegando un interest rate swap opportunamente congegnato; volendo operare una reductio ad absurdum, la stessa semplice pattuizione di un tasso variabile genera flussi economici equivalenti a quelli di un contratto di finanziamento a tasso fisso opportunamente coordinato ad uno swap collegato all’andamento dell’Euribor, e di conseguenza il floor dovrebbe addirittura configurarsi come un derivato di secondo livello74.
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In tema, unico contribuito rilevato in tema di nullità della clausola di tasso variabile è quello di Di Biase, Il problema, cit., che fa leva sull’argomento dell’indeterminatezza del contratto ex articoli 1346 e 1419 c.c.; contra Trib. Ferrara, 16 dicembre 2015. 74 Per le ragioni più evidenti, nessuno proverebbe a sostenere che il tasso variabile sia in realtà una componente derivativa contenuta nel contratto, poiché sarebbe impossibile identificare l’elemento sottostante al rapporto derivato. Stesso ragionamento può applicarsi al caso del mutuo c.d. a tasso misto, in cui il mutuatario può scegliere se applicare al rapporto, in alternativa, un tasso fisso piuttosto che uno variabile: anche in
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Paradossalmente, infine, la stessa regola contabile del Principio IAS 39, da cui molti muovono, esclude una parte considerevole delle ipotesi di cap e floor dalla definizione di “derivato implicito” a fini contabili. Secondo il principio, infatti, le clausole non sarebbero da considerarsi derivati incorporati qualora siano “strettamente correlati alle caratteristiche economiche e ai rischi del contratto primario”; tra queste sono testualmente citate proprio le clausole di floor e cap nella loro casistica fisiologica, cioè quando il floor, al momento della stipula, è più basso del valore di mercato e, per converso, il cap è superiore75. Applicando il rasoio di Occam, e destrutturando la tesi del derivato implicito – almeno nel caso della clausola floor – si può giungere alla conclusione che tale clausola costituisca non un rapporto a sé, quanto un elemento della più generale determinazione relativa alla fissazione del prezzo: ad essa è intrinsecamente legata, così come, ad esempio, la componente di rilevazione esogena del tasso di interesse o quella di aumento percentuale di tale valore o ancora quella che determina la periodicità del calcolo. 4.1. Difetto di trasparenza e vessatorietà della clausola floor nei rapporti con i consumatori. Le riflessioni sopra proposte consentono di operare una prima analisi del rapporto in cui si intraveda l’ombra del derivato, ma non esauriscono la gamma di questioni che possono essere proposte al riguardo. Se la clausola floor è inserita nel contesto di un più generale modello predi-
questo caso, la variazione sarebbe possibile anche stipulando dei contratti derivati, ma a fronte di un fenomeno economico similare deve ritenersi che nel primo caso le parti abbiano solo inteso modulare la formula di quantificazione degli interessi. 75 Cfr. Paragrafo 11 del principio IAS 39: «Un derivato incorporato deve essere separato dal contratto primario e contabilizzato come un derivato secondo il presente Principio se, e soltanto se: a) le caratteristiche economiche e i rischi del derivato incorporato non sono strettamente correlati alle caratteristiche economiche e ai rischi del contratto primario (cfr. appendice A, paragrafi AG30 e AG33); […]». A sua volta, l’Appendice A recita: «Un contratto floor o cap su tassi d’interesse incorporato in un contratto di debito o in un contratto assicurativo è considerato strettamente correlato al contratto sottostante, se il cap è uguale o maggiore del tasso d’interesse di mercato e se il floor è uguale o inferiore al tasso d’interesse di mercato quando il contratto è emesso e il cap o il floor non ha un effetto leva (leverage) con riferimento al contratto sottostante. Analogamente, le disposizioni incluse in un contratto per l’acquisto o la vendita di un’attività (per esempio una merce) che prevedono un cap e un floor, sul prezzo da corrispondere o ricevere per l’attività, sono strettamente correlate al contratto primario se entrambe il cap e il floor erano «out of the money» all’inizio e non hanno un effetto di leva (leverage)».
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sposto dall’operatore bancario, di cui costituisce parte integrante, occorrerà operare una valutazione anche alla luce di alcune regole specifiche relative alla tutela del contraente debole. In primo luogo, va ricordato che le previsioni oggetto di scrutinio sono generalmente parte di contratti redatti in base a condizioni generali trasfuse in formulari standard. Al riguardo, appare possibile escludere, in via preliminare, che la clausola floor possa rientrare nel novero delle previsioni da sottoporre a specifica approvazione da parte del contraente, secondo la regola civilistica di cui all’articolo 1341, co. 2 c.c. La regola, che trova astratta considerazione con riferimento alla pluralità di modelli predisposti unilateralmente dagli operatori bancari, non sembra potersi ritenere applicabile alla clausola floor, giacché, per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’elenco di fattispecie previsto dalla disposizione deve intendersi tassativo, potendosi quindi ammettere una interpretazione estensiva ma non analogica76. In tal senso, si è peraltro già espressa in più occasioni la giurisprudenza dell’Arbitro Bancario Finanziario, ribadendo il principio sopra riportato77. A queste valutazioni deve aggiungersi però l’analisi, meno immediata, relativa alla disciplina consumeristica che, come noto, trova applicazione anche con riferimento ai contratti bancari. A tal riguardo, ai sensi degli articoli 33 ss. cod. cons., si qualificano come vessatorie le clausole che comportino «un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto». Con specifico riguardo alla clausola floor, peraltro, sembrano potersi prendere in considerazione le seguenti previsioni: a) al comma 5 dell’articolo 33, si escludono dalla presunzione di vessatorietà «i contratti aventi ad oggetto valori mobiliari, strumenti finanziari ed altri prodotti o servizi il cui prezzo è collegato alle fluttuazioni di […] un tasso di mercato»; b) al comma 6 dell’articolo 33, parimenti si escludono le «clausole di indicizzazione dei prezzi, ove consentite dalla legge, a condizione che le modalità di variazione siano espressamente descritte»; c) al comma 2 dell’articolo 34, infine, «la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene […] all’adeguatezza del corrispetti-
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Cfr., da ultimo, Cass, 29 maggio 2014, n. 12044, in iusexplorer.it; Cass., 19 marzo 2003, n. 4036, in iusexplorer.it. 77 Cit. ABF Napoli, 5 maggio 2015, n. 2735 ed ABF Napoli, 16 settembre 2015 n. 7355, in arbitrobancariofinanziario.it.
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vo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». Gli elementi sopra delineati consentono quindi di individuare i termini degli argomenti relativi alla clausola floor che è parte di un contratto di finanziamento. Se la clausola floor è un derivato (secondo i termini indicati nei paragrafi che precedono), alla valutazione sulla vessatorietà della clausola dovranno sostituirsi le considerazioni relative al differente quadro normativo applicabile ai servizi di investimento. Se la clausola floor viene ricondotta nell’alveo del contratto bancario, si può in primo luogo ritenere che la pattuizione relativa al tasso di interesse (alla quale il floor, come detto, è solidale) sia esclusa dalla valutazione di vessatorietà in quanto considerata come una componente della remunerazione del rapporto78. In tal senso, l’elemento di indicizzazione - che qui peraltro verrebbe in considerazione solo in via mediata, con riferimento dunque alla più generale previsione di interesse variabile – non sarebbe soggetto a scrutinio; la clausola di prezzo, inoltre, non può essere valutata sotto il profilo della congruità ed adeguatezza rispetto alla controprestazione cui è legata, poiché tale valutazione di convenienza economica, in via di principio, non compete al giudice79.
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Sul punto, cfr. Cass. 23 gennaio 2008, n. 1337, in iusexplorer.it. Di conseguenza, deve anche escludersi che la clausola comporti uno squilibrio normativo, nel senso individuato dalla normativa consumeristica. 79 In tal senso è perentoria ABF Napoli, 5 maggio 2015, n. 2735, cit.; con specifico riferimento alla clausola floor, si è peraltro espressa una sentenza di merito, relativa ai rapporti tra una società di leasing ed un’impresa (ma con un ragionamento che pare applicabile anche ai rapporti consumeristici) affermando che «il fatto, poi, che una delle parti […] “imponga” alla controparte limitazioni del rischio solo a proprio favore (clausola “floor”) attiene sempre al merito della convenienza economica del contratto». Cfr. Trib. Udine, 1 febbraio 2016, in leggiditalia.it. La valutazione pare peraltro “obbligata” anche in considerazione dell’impossibilità di affermare, allo stato, l’esistenza di un generale principio di proporzionalità nei rapporti, nonostante gli sforzi ed i contributi della dottrina al riguardo. Cfr. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, a cura di Ferroni, Napoli, 2002; Alpa, I principi generali del diritto, in Trattato di Diritto Privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1993, p. 10; Troiano, La ragionevolezza nel diritto dei contratti, Padova, 2005, p. 16 s. In argomento cfr. anche Macario, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo d rinegoziare, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 74; Cataudella, L’uso abusivo di princìpi, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 753.
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In tale ipotesi, inoltre, cadrebbe qualsiasi valutazione relativa alla necessità di bilanciare l’esistenza di una clausola floor con il contraltare di una clausola cap80, ovvero rintracciando gli elementi esogeni al rapporto relativi alla possibile riduzione del pricing effettuata dall’intermediario in ragione dell’inserimento del floor81. Appurato tutto quanto sopra, resterebbe dunque da valutare se ed in quali occasioni la clausola floor sia redatta in modo «chiaro e comprensibile», poiché la clausola non chiara e non comprensibile potrebbe essere in ogni caso sottoposta a scrutinio. La soluzione della questione è dunque nella corretta interpretazione di questa endiadi. Al riguardo, la giurisprudenza europea ha già avuto modo di chiarire in termini generali che i due termini devono essere interpretati non in un senso limitativo di mera coerenza sintattica e grammaticale, quanto piuttosto in modo da far sì che «il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che gliene derivano»82. Se si parla di conseguenze economiche, però, discorrendo della clausola floor ciò che dovrà essere chiaro nella mente del consumatore dovrà essere l’impatto della clausola sui flussi economici generati dal contratto83. Quello che sembra rilevante, cioè, è la descrizione del fenomeno finanziario ad esso sotteso, ciò che quindi il contratto produce. Da questo punto di vista, si è già detto che un medesimo fenomeno economico possa essere il prodotto di differenti rapporti negoziali; da
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Cfr. Sartori, Sulla clausola, cit., p. 710; in argomento, peraltro, si è espresso ex professo l’Arbitro Bancario Finanziario in ABF Napoli, 5 maggio 2014, n. 2735; ABF Milano, 1 aprile 2011, n. 688, ABF Roma, 13 dicembre 2011, n. 2688 tutte in arbitrobancariofinanziario.it, ritenendo non necessario l’inserimento di una clausola cap per bilanciare il floor. In tal senso anche Cfr. Trib. Ferrara, 16 dicembre 2015, cit. 81 Girino, I derivati, cit., p. 26 82 CGUE, 30 aprile 2014, causa C-26/13, in curia.eu. La sentenza affronta il caso di una clausola di “conversione valuta” presente all’interno di un contratto di mutuo erogato in valuta estera, concludendo nel senso che i concetti di chiarezza e trasparenza vanno interpretati «nel senso di imporre non soltanto che la clausola in questione sia intelligibile per il consumatore su un piano grammaticale, ma anche che il contratto esponga in maniera trasparente il funzionamento concreto del meccanismo di conversione della valuta estera al quale si riferisce la clausola in parola nonché il rapporto fra tale meccanismo e quello prescritto da altre clausole relative all’erogazione del mutuo, di modo che il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi ed intelligibili, le conseguenze economiche che gliene derivano». 83 Ricordando ovviamente che lo squilibrio di cui si discute è di natura negoziale e non economica, come previsto dall’articolo 33 cod. cons.
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qui la relativa irrilevanza della questione circa la qualificazione della clausola quale derivato implicito, i cui effetti dovranno essere descritti al cliente in modo chiaro e comprensibile in ogni caso. Altra questione è invece quella del contenuto dell’informativa: possono richiamarsi le posizioni di chi ha ritenuto che i presidi della trasparenza bancaria sin qui approntati fossero sufficienti84 e chi, invece, ha sostenuto la necessità di dotare il consumatore di elementi aggiuntivi tali da consentire una più approfondita conoscenza del fenomeno aleatorio, attraverso il disvelamento di criteri e metodologie di natura finanziaria in relazione alle possibili oscillazioni future del parametro al quale è indicizzato il tasso d’interesse85. Da ultimo, converrà formulare anche un accenno rispetto alla nuova disciplina in materia di credito immobiliare ai consumatori, che pure irrompe nel mondo delle regole bancarie attraverso il recepimento della norma europea86. Con riferimento a questo particolare settore, il nuovo articolo 120 octiesdecies del Testo unico bancario dispone quanto segue: «È vietata l’offerta o la commercializzazione di un contratto di credito in un pacchetto che comprende altri prodotti o servizi finanziari distinti, qualora il contratto di credito non sia disponibile per il consumatore separatamente». Vale precisare che la norma non appare ratione temporis applicabile ai contratti già sottoscritti87 ma sarà da tenersi in considerazione per una
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Cfr. ad es. Girino, I derivati, cit., p. 7 ss. In tal senso, vi è inoltre una nutrita giurisprudenza dell’Arbitro Bancario Finanziario; ABF Roma, 13 dicembre 2011, n. 2688, ABF Milano, 1 aprile 2011, n. 688, ABF Napoli, 5 maggio 2014, n. 2735; ABF Napoli, 16 settembre 2015, n. 7355; ABF Napoli 21 maggio 2015, n. 4191, in arbitrobancariofinanziario.it. 85 Cfr. Cognolato, Componenti, cit., p. 1768, Greco, La violazione, cit., p. 25, Sartori, Sulle clausole, cit., p. 712. In termini generali, il tema sembra potersi intersecare con alcune delle posizioni più recenti in tema di derivati ed, in particolare, circa il ruolo dell’informazione e dell’alea razionale: si veda in tal senso la riflessione recente di Maffeis, Homo oeconomicus, homo ludens: l’incontrastabile ascesa della variante aliena di un tipo marginale, la scommessa legalmente autorizzata (art. 1935 c.c.), in Contr. e impr., 4-5, p. 836. 86 Cfr. Direttiva 2014/17/UE, recepita in Italia con il d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72, che a sua volta ha introdotto nel Testo unico bancario, al Titolo VI, il nuovo capo I-bis (Credito immobiliare ai consumatori). 87 Infatti, il d.lgs. 21 aprile 2016, n. 72, ha disposto (con l’art. 3, co. 1) che «Salvo quanto previsto dai commi 2, 3 e 4, le disposizioni del presente decreto si applicano a partire dal 1° luglio 2016 e ai contratti di credito sottoscritti successivamente a tale data.
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valutazione dei rapporti perfezionati in futuro, alla luce dei criteri ermeneutici sopra dettagliati88.
5. Alcune notazioni relative alla clausola zero floor nei contratti bancari. Anche alla luce di quanto detto sopra in linea generale quanto alle clausole floor, si può procedere all’analisi di una sua sottospecie: la clausola “zero floor”. Nella pratica bancaria – in particolare nei rapporti con le imprese – si è infatti diffuso l’uso di tali strumenti, che hanno come obiettivo evitare che l’oscillazione di un determinato valore possa raggiungere valori inferiori allo zero. In effetti, l’introduzione della clausola “zero” è espressione dei timori sorti in seguito al repentino abbassamento dei tassi di interesse negativi ed all’adozione, in alcune operazioni condotte dalle banche centrali, di quelli che impropriamente vengono definiti “tassi di interesse negativi”. Una prima manifestazione di questa clausola a livello globale si rinviene nell’operato della Loan Market Association (LMA) inglese, che ha introdotto questo tipo di previsione nel suo modello standard di contratto di finanziamento sul finire della prima decade del nuovo secolo. L’obiettivo dell’inserimento era quello di emendare il modello di contratto da loro proposto, assicurando certezza anche nel caso in cui il parametro di riferimento per il calcolo del tasso di interesse fosse divenuto negativo. La clausola “zero floor” può presentare diverse configurazioni che, ad avviso dello scrivente, ne determinano una diversa interpretazione e che meritano, pertanto, un’analisi separata.
Ai contratti sottoscritti anteriormente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti nel giorno di entrata in vigore del presente decreto legislativo». 88 Sarebbero peraltro da comprendere le conseguenze della violazione della norma, poiché sembra potersi ipotizzare un caso di nullità per violazione di norme imperative (art. 1418, co. 1, c.c.).
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5.1. Lo zero floor applicato alla componente variabile del tasso di interesse. Le parti del contratto possono in primo luogo prevedere che il valore dell’indice preso a riferimento per la determinazione di un tasso di interesse determinato valore non superi, in diminuzione, un valore pari a “zero”. La clausola “zero floor” si applica quindi al parametro finanziario individuato dalle parti e dunque, nella pratica, comporterà che, anche a seguito della rilevazione di un valore inferiore allo zero (e.g. Euribor pari a -0,1%), ai fini del calcolo del tasso di interesse debba considerarsi un valore pari a zero. L’inserimento di una clausola di questo tenore trova la sua ragion d’essere nella volontà di superare qualsivoglia incertezza interpretativa circa il calcolo del tasso di interesse. In tal senso, occorre ricordare anche in questa sede che le norme del codice civile e del Testo unico bancario non consentono di ritenere sussistente la presenza di floor impliciti, dacché la forma scritta per la pattuizione di interessi ultralegali è prevista a pena di nullità89. Ne discende inoltre che l’inserimento di questa clausola impedisca qualsiasi contestazione circa la possibile indeterminatezza dell’oggetto del contratto, nella parte relativa alla previsione degli interessi90. Nel caso in cui la clausola “zero floor” faccia riferimento al solo elemento variabile della formula del tasso di interessi, il valore generalmente indicato come “margine” sarà sempre integralmente preservato91. Ciò però implica che il tasso di interesse applicabile ad un rapporto di finanziamento non potrà mai essere inferiore ad un valore minimo superiore a zero. Ma ciò equivale a dire che nel contratto è prevista una clausola floor, di un valore pari al margine stesso. Difatti, affermare che la componente variabile non possa mai avere un valore negativo conduce ad affermare che il tasso di interesse applicabile non possa mai assumere un valore inferiore al margine92.
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Cfr. art. 1284, c.c., art. 117 t.u.b. si rimanda alla nota 3 ed alla comunicazione della Banca d’Italia già citata in nota 21. 90 In questo senso, si è espressa, con riferimento ad una clausola floor diversa da zero (ma con ma con una ratio applicabile anche a questo caso) la sentenza di Trib. Ferrara 16 dicembre 2015, cit. 91 Ciò vale, ovviamente, solo nei casi in cui il tasso il tasso di interesse sia reso dalla formula “Euribor più margine”, come meglio sopra illustrato. Ove il tasso di interesse sia determinato solo in base al parametro variabile, varranno invece le considerazioni svolte infra. 92 Ad esempio. Un contratto presenta una clausola di interessi calcolati secondo la
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Da quanto sopra discende quindi la possibilità di assimilare la clausola zero floor, nel senso sin qui esposto, al genere delle clausole floor come sopra esaminate e, conseguentemente, saranno applicabili anche a questa fattispecie le considerazioni svolte sopra. 5.2. La clausola zero floor applicata al tasso di interesse globalmente determinato; la questione del tasso di interesse “negativo” nei contratti di finanziamento. In alternativa allo schema sopra descritto, le parti possono decidere di applicare una clausola zero floor al tasso di interesse globalmente determinato e, quindi, non soltanto con riferimento al parametro finanziario da rilevare. A differenza della clausola descritta al paragrafo precedente, che preserva comunque una redditività minima dell’operazione di finanziamento, questa differente tipologia mira esclusivamente ad evitare che il tasso di interesse globalmente determinato (e cioè applicabile alle somme di volta in volta dovute dal mutuatario), non discenda in campo negativo. Di conseguenza, qualora il tasso applicabile al contratto tempo per tempo, espresso dalla clausola, assuma un valore negativo, dovrà convenzionalmente considerarsi applicabile un valore pari allo zero. Dall’analisi della clausola emergono alcune questioni che si possono di seguito evidenziare. La prima osservazione riguarda la modalità di calcolo del tasso. La clausola floor sopra descritta si applica “a valle” dell’operazione di determinazione, intervenendo solo se la clausola esprima un valore inferiore a zero. Bisogna allora domandarsi se la componente variabile negativa del tasso di interesse possa erodere (dunque sottrarsi) al margine stabilito dalle parti, ove presente. Come già argomentato in precedenza, alla domanda sembra potersi dare risposta affermativa93. Vi è poi una riflessione di principio, relativa all’effettiva necessità di inserire all’interno del contratto un clausola floor che preveda una soglia pari a zero.
formula Euribor + margine uguale al 2%. Se non è previsto alcun tipo di floor, si deve ritenere che il margine possa essere eroso ed il calcolo possa restituire anche un valore negativo (al riguardo, si vedano le considerazioni riportate). Se però si specifica che l’Euribor negativo sia considerato zero ai fini del calcolo del valore, ciò vuol dire che il valore minimo del tasso di interessi sia pari al 2% (0 + 2% = 2%). Ciò tuttavia equivale a dire che il tasso di interesse abbia un floor pari al 2%, cioè il valore del margine. 93 V. supra.
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La domanda si ricollega evidentemente alla più generale questione sulla possibilità di esprimere un valore di tasso di interesse negativo o, più correttamente, la corresponsione dell’interesse da parte del mutuante, nell’ambito di un rapporto di finanziamento. Indubbiamente, in assenza di un quadro dottrinale e giurisprudenziale chiaro in materia di tassi di interessi negativi, l’inserimento della clausola appare utile per impedire qualsiasi interpretazione volta a ritenere sussistenti obblighi di pagamento in capo al finanziatore94. Con riguardo al nostro ordinamento ma con un’argomentazione che sembra replicabile per la maggior parte dei sistemi di civil law, sembrerebbe però poco probabile poter configurare interessi “negativi” a carico del mutante. Invero, il punto di partenza deve identificarsi, a livello sistematico, nella riconducibilità degli interessi nel novero dei frutti civili, i quali, ai sensi dell’articolo 820, co. 3, c.c. «si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia». Nel caso degli interessi pecuniari, dunque, il codice non sembra prefigurare la possibilità di somme che debbano essere corrisposte dal mutuante e, più in generale, di chi eroga credito95. A conferma di ciò, inoltre, con riferimento ai rapporti di mutuo il primo comma dell’articolo 1815 del codice civile stabilisce chiaramente che, nei rapporti di finanziamento, «salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante». La norma quindi esclude chiaramente che da tali contratti possa derivare l’obbligo per il finanziatore di pagare interessi al debitore96. A ciò si aggiunga
94 Sul punto, non è stata esclusa la possibilità che un contratto di finanziamento rechi, al suo interno, una componente aleatoria che preveda la possibile corresponsione di interessi “negativi”; tale pattuizione, tuttavia, dovrebbe porsi per espressamente: cfr. Maffeis, La causa, cit., p. 2. 95 Cfr. Maffeis, ibidem; in linea generale non sembra potersi dubitare dell’affermazione; cfr. Inzitari, voce Interessi, in Digesto disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, p. 135 ss.; Libertini, voce Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 124; Marinetti, voce Interessi (diritto civile), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, p. 860; Scozzafava, Gli interessi, cit., p. 44; Simonetto, voce Interessi, in Enc. giur., XVII, Roma, 1989, p. 2. 96 Anche in questo caso non sembrano potersi sollevare dubbi; v. Gardella Tedeschi, Mutuo (contratto di), in Dig. disc. priv., Torino, 2002, XI, p. 537; Giampiccolo, voce Mutuo, in Enc.dir., XXVII, Milano, 1977, p. 462; Simonetto, voce Mutuo, in Enc. giur., XX, Roma, 1992, p. 7 ss.; in tal senso depone anche la Relazione al codice civile, paragrafo 735. Solo per chiarezza, l’inciso «salvo diversa volontà…» deve intendersi esclusivamente come un riferimento alla possibilità attribuita alle parti di escludere la maturazione di
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l’incompatibilità del tasso “negativo” con alcune previsioni del codice civile quali, ad esempio, la previsione sul recesso del mutuante in caso di mancata corresponsione degli interessi, di cui all’articolo 1820 c.c.. Per questo motivo, in difetto di un’eventuale novella legislativa al riguardo97, sembra potersi escludere la configurabilità di un interesse pecuniario “negativo”. Quando il calcolo del tasso fornisca un risultato “negativo”, questo dovrebbe interpretarsi come un’impossibilità di esprimere un valore: dunque zero98. Di conseguenza, anche una clausola di interessi che non recasse un floor a zero dovrebbe interpretarsi come non produttiva di somme da corrispondersi in favore del debitore. Da quanto sopra, allora, deriverebbe che una clausola “zero floor” potrebbe interpretarsi come una mera clausola di stile, poiché si limiterebbe a stabilire ciò che in realtà è già previsto nel sistema di norme vigenti. Di conseguenza, sotto questo profilo non dovrebbero ritenersi sussistenti grandi differenze tra i contratti che non prevedano questo tipo di previsione (circostanza peraltro diffusa in quelli più risalenti) e contratti che invece ne siano dotati. Si può però proporre un’interpretazione che in qualche modo valorizzi la portata della clausola e ne attribuisca un contenuto più pregnante. L’applicabilità di un tasso di interesse pari a “zero” (sia perché la clausola di interessi risulta inidonea ad esprimere un valore coerente con la prestazione prevista dal contratto, sia perché è prevista una clausola “zero floor”) comporta che per il periodo in cui gli interessi sono calcolati (gergalmente definito “periodo di interessi”) non possa essere richiesto alcunché a titolo di interessi da parte del creditore. Ciò stride tuttavia con la configurazione dei rapporti di finanziamento quali contratti tendenzialmente onerosi99.
interessi (cioè di convenire la gratuità del mutuo) ma non come un riferimento alla possibile corresponsione di interessi a carico del finanziatore. 97 Invoca un possibile intervento legislativo “di chiarimento”, Maffeis, La causa, cit. p. 4, sul modello di quanto avvenuto in occasione dell’entrata in circolazione dell’euro e della conseguente cessazione della rilevazione di alcuni parametri finanziari espressi in lire, con il d.lgs. 10 marzo 1998, n. 213 (c.d. Decreto Euro). 98 Concordi, da questo punto di vista, tutti i primi contributi apparsi sull’argomento. Cfr. Maffeis, La causa, cit., p. 2; con riferimento alle obbligazioni ma con argomento generale applicabile anche ai rapporti di finanziamento, si veda anche Ministero dell’economia e delle finanze, con Circolare n. 5619 del 21 marzo 2016, cit., secondo cui ugualmente non sembrano potersi configurare obbligazioni di interessi a carico del creditore in caso di risultato negativo del calcolo del tasso di interesse. 99 Attenzione: in questo caso va precisato che il nostro ordinamento non prevede un
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L’applicazione di un tasso di interessi pari a “zero” comporta l’impossibilità di realizzare il programma negoziale del mutuo fruttifero – sotto il profilo causale, peraltro, neppure potrebbe ipotizzarsi una variazione da mutuo oneroso in gratuito in fieri, se non per novazione del rapporto100. Ove le parti non trovino una soluzione accordandosi per la modifica del valore di interessi, rimettendone la determinazione ad un terzo o accettando la possibilità che il contratto possa durevolmente considerarsi improduttivo, la perdurante impossibilità di determinare gli interessi in relazione al capitale dovuto potrebbe attribuire al creditore la facoltà di richiedere la risoluzione del contratto, secondo un’interpretazione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, a carico del debitore, di corrispondere tali importi101. Incidentalmente, in questo modo la posizione del debitore risulterebbe quantomeno delicata, poiché quest’ultimo si troverebbe a dover restituire la totalità degli importi dovuti a titolo di capitale. All’interno di questo quadro deve essere valutata la clausola che espressamente preveda che il tasso di interesse possa essere pari a zero e con la quale, dunque, le parti accettano il rischio che in dati periodi il creditore possa non percepire interessi. In effetti, se si ammette che le parti possano convenire la corresponsione di somme a carico del mutante102 nel rapporto di finanziamento, attraverso l’inserimento di una componente aleatoria103, a fortiori deve ritenersi ammissibile il caso in cui le parti decidano che il contratto possa non generare interessi. In difetto di ulteriori elementi contrari, la presenza della clausola potrebbe impedire al creditore di avvalersi del rimedio risolutorio.
vero e proprio principio di onerosità con riferimento ai mutui, bensì una presunzione di onerosità, introdotta a partire dal codice del 1942; cfr. Giampiccolo, voce Mutuo, cit., p. 462; Simonetto, voce Interessi, cit., p. 7. Non che questo, tuttavia, comporti l’esistenza di un principio di redditività minima del finanziamento; in argomento cfr. le decisioni ABF Milano, n. 181 dell’1 aprile 2010; ABF Milano 20 aprile 2010, n. 254-10, cit. 100 Cfr. Maffeis, La causa, cit. p. 4; anche questo argomento sembra in effetti pacifico dacché il nostro ordinamento prevede un’ipotesi peculiare di conversione forzosa ex lege solo nella previsione di cui all’art. 1815 c.c. in tema di interessi usurari (come modificata legge n. 108 del 1996). 101 In tal senso si esprime Maffeis, ibidem. In argomento si veda inoltre la gamma di soluzioni proposta in Fausti, Il mutuo, p. 129 ss. in caso di indeterminatezza sopravvenuta del tasso degli interessi contrattualmente stabilito, nel caso similare relativo all’introduzione dell’euro. 102 Tali somme dovrebbero però considerarsi come “interessi negativi” solo di nome; di fatto, si tratterebbe di una nuova ipotesi di … derivato implicito. 103 Maffeis, La causa, cit., p. 2
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Per evitare problemi interpretativi, quindi potrebbe essere utile operare un chiarimento in sede negoziale, normando in modo specifico l’ipotesi di perdurante impossibilità di percepire interessi alla luce del tasso di interessi divenuto “negativo”, in presenza di una clausola “zero floor”.
6. Considerazioni conclusive. In definitiva, la gamma di questioni poste dalle clausole floor, alla luce della teoria del derivato implicito, è ampia. Se è vero che da un’analisi attenta dei casi concreti possono disvelarsi alcune ipotesi, per così dire “elusive”, di impiego di tali strumenti nei contratti di credito, è altresì vero che l’interprete sarà chiamato ad una vera e propria prova di forza per dimostrare l’esistenza dell’elemento incorporato e ricondurlo altresì al genus dei contratti derivati. Nelle altre ipotesi, sembra invece potersi ritenere che la clausola floor debba essere considerata come parte della più generale previsione in materia di interessi: è, cioè, qualcosa che condivide l’effetto economico del contratto derivato ma non la sua intrinseca ragione, che è quella di trasferire un rischio esistente in capo ad un’altra parte. Si tratterà, ad ogni modo, di un’analisi da condurre caso per caso, alla luce delle concrete circostanze della vicenda oggetto di scrutinio. Ad ogni modo, l’opera ermeneutica non sarà agevolata dal quadro interpretativo esistente in materia di derivati, ad oggi forse ancora incerto in alcuni tratti. È forse proprio l’impossibilità di sintetizzare gli elementi ultimi che definiscono la fattispecie a rendere così incerta la sua individuazione, dando adito alle interpretazioni più espansive.
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Il 23 giugno 2016, presso la Facoltà di Economia della Sapienza, Università di Roma, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dalla rivista, dal Cedib e dal Master in Diritto della crisi delle imprese, sul tema “Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli”. All’incontro, presieduto dal prof. Vittorio Santoro, dell’Università di Siena, sono intervenuti il prof. Carlo Angelici, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, il prof. Giuseppe Ferri, dell’Università Tor Vergata di Roma, il prof. Giuseppe Guizzi, dell’Università Federico II di Napoli, il prof. Alessandro Nigro, già dell’Università La Sapienza di Roma, il prof. Luigi Salamone, dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, il prof. Mario Stella Richter, dell’Università Tor Vergata di Roma. Ne pubblichiamo gli atti.
Indirizzo di saluto del Presidente Vittorio Santoro Buonasera a tutti diamo inizio al nostro incontro di studio che, come chi ci segue sa, è un appuntamento annuale che si svolge sotto il patrocinio del CEDIB e della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario oltre che del Master in Diritto della Crisi della Imprese. Ci ospitano il prof. Nigro, che ha scelto con consueta sagacia il tema di oggi, e il prof. Vattermoli Direttore del dipartimento. Ringrazio entrambi e cedo immediatamente la parola a Sandro Nigro per l’indirizzo di saluto.
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Indirizzo di saluto del Presidente del Cedib e Direttore della rivista Alessandro Nigro Grazie Vittorio, grazie a tutti per la vostra presenza. Come ha sottolineato il prof. Santoro, questo è diventato un appuntamento annuale e la cosa riempie tutti noi di soddisfazione. Siamo riusciti sempre a centrare temi di particolare interesse e, d’altra parte, questa continuità crea un senso di appartenenza, crea una consuetudine che ha i suoi lati estremamente positivi. Io al solito sono qui in una multipla veste, anzi ancora più multipla, se possibile dire, delle altre volte, perché in questa occasione sostituisco anche il Direttore del dipartimento, il prof. Vattermoli, che si è dovuto assentare per ragioni istituzionali sopravvenute mentre stavamo venendo qui in Facoltà. Quindi io vi porgo il benvenuto a nome del CEDIB, a nome della Rivista, a nome del Master in Diritto della Crisi delle Imprese e poi a nome del Dipartimento. Un ringraziamento particolare, al solito, va alla Casa Editrice Pacini che ci sostiene in queste iniziative con sempre maggiore slancio, vorrei dire sempre maggiore convinzione evidentemente sulla base del riscontro di un successo di queste iniziative. In passato nelle mie introduzioni toccavo direttamente il tema oggetto dell’incontro oggi non mi compete questa parte che invece spetta al prof. Angelici. Quindi auguro buon ascolto e buon lavoro a tutti i relatori. Grazie
Introduzione Carlo Angelici 1. Il mio compito, come anche risulta letteralmente dal programma del nostro incontro, è quello di introdurre la discussione. E se, andando al di là di un’interpretazione soltanto letterale, mi interrogo su quale sia stata l’intenzione di Alessandro Nigro quando me l’ha proposto (si potrebbe anche dire: amichevolmente imposto), mi sentirei sicuro che si volesse da me una sorta di inquadramento generale del tema: ciò, se non altro, poiché Sandro certamente non ignora sia la mia propensione per discorsi di questo tipo sia che non posso essere considerato uno specialista della specifica materia (e, infatti, si è persino prestato ad agevolarmi la ricerca del materiale normativo pertinente). Tenterò perciò di segnalare alcune prospettive generali che potrebbero, a mio parere, risultare di una qualche utilità per la sistemazione e, se si vuol dire, razionalizzazione di un complesso discipli-
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nare il quale, anche per la scarsa dimestichezza con il linguaggio in cui vorrebbe essere redatto [mi riferisco, evidentemente, all’italiano giuridico: che, per esempio, da molto tempo usa altri lemmi per designare ciò che si vorrebbe indicare come «meccanismi terminativi» (cfr. l’art. 1, ii, del d.lgs. 180/2015), sembrerebbe volervi opporre una fiera resistenza. E in tal senso credo che il mio intervento possa essere organizzato intorno a due proposizioni che vorrei immediatamente anticipare e poi sommariamente sviluppare: che nella disciplina della società bancaria l’accento si pone essenzialmente sulla dimensione dell’impresa piuttosto che su quella della società; e che ciò avviene in una prospettiva fondamentalmente, ma mi sentirei anche di dire in termini estremi, contrattualistica. Mi sembra, anzi, che la questione sistematica sia al vertice come coordinare e rendere coerenti queste due proposizioni: l’esigenza, in primo luogo, di verificarne il senso e la plausibilità. 2. La prima, che al centro del discorso sia l’impresa e non tanto la società, è per molti aspetti tradizionale. Ed essa può ritenersi evidenziata già dal primordiale dato normativo che circoscrive (e in termini sempre più stringenti) i tipi societari utilizzabili. Mi pare infatti evidente che la preoccupazione del legislatore, il problema che egli in tal modo vuole risolvere, riguardi il significato che l’organizzazione societaria assume per l’impresa e il suo svolgimento, non certo per la società come organizzazione degli interessi “privati” dei soci. Non avrei dubbi, per dirla in altro modo, che questa limitazione dell’autonomia privata non potrebbe spiegarsi in una prospettiva circoscritta ai rapporti fra i soci, alla società, ma esprima, in certo modo al contrario, l’esigenza di impedire che essi, liberalmente organizzandoli, possano pregiudicare interessi altri, in definitiva quelli che si puntualizzano sull’impresa bancaria. Il che significa che, se già in generale il contratto di società è occasione di esternalità, giustificandosi allora una scelta di “tipicità” anche per quanto riguarda i rapporti fra i soci, quando suo oggetto è l’attività bancaria la rilevanza di interessi esterni viene ritenuta dall’ordinamento ancora più pregnante e tale scelta si traduce perciò in una disciplina maggiormente incisiva. Si comprende anche perché il tipo societario cui fin dall’origine e poi in maniera sempre più esclusiva è stata volta l’attenzione sia quello della società azionaria. In quanto, se il problema è fondamentalmente quello di limitare le opzioni organizzative per i contraenti-soci, e ciò al fine di tutelare specifiche esigenze che si puntualizzano sull’impresa bancaria,
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può essere coerente volgersi al tipo ove maggiormente si realizza una sorta di “distacco” fra i soci e l’impresa oggetto della società. E mi sembra che questa prospettiva trovi ulteriore conferma nella circostanza che per la società bancaria si va oltre il “distacco” già presente nel modello generale della società per azioni, quello denunciato fra l’altro dall’attuale art. 2380-bis c.c., e ancora più accentuata è la centralità e autonomia dell’organo amministrativo per la gestione imprenditoriale. Si è scelto, in definitiva, un modello organizzativo che tale autonomia già in principio conosce e per il quale è naturalmente più agevole ulteriormente sottolinearla. Si tratta del resto, a questo proposito, di rilievi largamente noti e per tanti aspetti tradizionali. Per convincersi di ciò basta ricordare la discussione negli anni ’70 fra Giuseppe Ferri e Gustavo Visentini, che aveva appunto per oggetto il tema se e in che termini per la società bancaria fosse modificato il consueto equilibrio fra poteri dei soci e degli amministratori. Una discussione la quale già segnalava come tale equilibrio fosse, direi naturalmente, il risultato del modo di intendere il ruolo delle due posizioni a confronto: quella dei soci, per cui si pone il problema se nella società bancaria il loro investimento non assuma un significato diverso da quello tipico dell’apporto di capitale di rischio (svolgendo una funzione non tanto produttiva, quanto di garanzia); e quella degli amministratori, cui è affidata la gestione dell’impresa sociale, dovendosi allora chiedere se le sue peculiarità, quando bancaria, non richiedono una più incisiva considerazione di interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli dei soci. Ci si chiedeva anzi, operando una sintesi fra questi due profili, se non fosse in ciò la ragione della riduzione del ruolo decisionale dei soci e della loro assemblea; e persino se, trattandosi in definitiva della rilevanza e prevalenza di interessi generali, non ne si dovesse qualificare la posizione in termini di “interesse legittimo”. 3. Noto è anche come questi temi tradizionali siano stati arricchiti con l’evoluzione normativa, essendo così in vario modo precisati e meglio caratterizzati. Mi limito qui a ricordare alcune aspetti, del resto da tempo individuati, che mi sembra possano assumere particolare rilievo nella prospettiva generale di cui sto discorrendo. Si pensi, in primo luogo a uno dei temi di cui è indubbia la centralità nell’attuale assetto normativo, quello della «sana e prudente gestione». Non soltanto esso riguarda di per sé, direi per definizione, essenzialmente l’impresa, non la società. Non soltanto esso funge da parametro per
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valutare vicende formalmente societarie, come in primo luogo quelle statutarie; confermandosi così la prospettiva secondo cui i temi societari non sono valutati dal legislatore in quanto tali, ma fondamentalmente per le conseguenze che ne possono derivare sul piano della gestione imprenditoriale. Ma si tratta in effetti di un criterio il quale, proprio in quanto centrale per la disciplina della società bancaria e della sua attività, può risultare decisivo ai fini della sua caratterizzazione nel sistema. Il punto è già stato da tempo segnalato e che può essere qui ricordato, con la sintesi che conviene alla presente sede, ponendolo a confronto con le prospettive generalissime cui si allude quando si discorre dell’interesse sociale. Penso in proposito possa convenirsi che, al di là di discorsi ancora più generali (e, aggiungerei, inevitabilmente ideologici), con tale formula soprattutto si ricerchi una regola di comportamento (e di giudizio) per l’opera di gestione imprenditoriale della società: non è certo un caso, del resto, che le disposizioni di diritto scritto che hanno tentato di intervenire direttamente sull’argomento riguardino tutte, dal § 70 dell’Aktiengesetz del 1937 alla s. 172 del Companies Act 2006, i compiti e la responsabilità degli amministratori. E penso che, se ciò può condividersi, possa convenirsi anche che il tema rivela il suo concreto significato applicativo soprattutto (se non addirittura esclusivamente) con riferimento alla disciplina appunto dei compiti e della responsabilità degli amministratori. Se così è, diviene interessante ai presenti fini la constatazione, in effetti non nuova, che la formula specifica per l’attività bancaria, quella della «sana e prudente gestione», indichi una direzione diversa rispetto al senso in cui si evoluta la disciplina della responsabilità degli amministratori (e, con essa, degli interessi rilevanti per la loro funzione), la direzione che approssimativamente si evoca discorrendo di una business judgment rule. Pur prescindendo dal tema se sia tale rule quella che in concreto definisce le (il complesso di) questioni per cui tradizionalmente si ricerca un interesse sociale (come è stato autorevolmente sostenuto e come in altra sede ho ritenuto di condividere), un aspetto mi sembra certo: che la business judgment rule trae origine da, e segnala, esigenze almeno tendenzialmente in contrasto con quella della «sana e prudente gestione». Per convincersi di ciò, può essere forse sufficiente ricordare, in via del tutto sommaria e approssimativa, che la business judgment rule si spiega per alcune caratteristiche dell’attività imprenditoriale che gli amministratori sono incaricati di gestire per conto altrui: che a tale attività è implicito un rischio (o addirittura, secondo un notissimo orientamento, un profilo di incertezza), ponendosi allora l’esigenza di superare le
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conseguenze del naturale disallineamento fra gli interessi degli amministratori e degli azionisti, quello risultante dalla minore propensione al rischio dei primi rispetto ai secondi; e, per un profilo a volte trascurato, che si tratta di un rischio specificamente imprenditoriale, con l’esigenza politica perciò, in un sistema di economia capitalistica, di incentivarne o almeno non disincentivarne l’assunzione: spiegandosi così perché, può incidentalmente osservarsi, diversa sia la soluzione per altri settori di attività almeno ugualmente rischiosi e per i quali può ugualmente porsi, per esempio, un problema di hindsight bias (si pensi soltanto, per fare il più facile esempio, all’attività del medico). Ed è forse sufficiente questo sommario richiamo per confermare la sensazione che il criterio della «sana e prudente gestione» modifichi in effetti queste prospettive generali: che il problema per l’attività bancaria non sia quello di non disincentivare l’assunzione di rischi, creando allora una sorta di safe harbor per le decisioni propriamente imprenditoriali con cui tali rischi si assumono, ma in certo modo al contrario di indurre alla prudenza. Potrebbe anche essere chiaro che per tale specifica caratterizzazione dell’impresa bancaria un ruolo decisivo svolgono considerazioni che non la intendono tanto nel suo significato di singolo operatore in un mercato, strumento di profitto per chi l’attività intraprende, ma anche e per certi aspetti soprattutto nel suo ruolo sistemico: come evidenziato espressamente dalle disposizioni che, disciplinando la crisi dell’impresa, assegnano rilevanza ai temi del contagio (così, per un punto si cui si farà in seguito ancora cenno, l’art. 50 del d.lgs. 180/2015). Pure è nota la tendenza giurisprudenziale, che certo richiederebbe una valutazione casistica e analitica, la quale in via generale si orienta verso un maggior rigore riguardo alla responsabilità degli amministratori di banca (cui, se si volesse dire, viene negato un safe harbor generalmente invece riconosciuto: così, per limitarsi a un recente esempio, Cass., 9 novembre 2015, n. 22848). Analoghe indicazioni possono a mio parere dedursi dal modo in cui specificamente per l’attività bancaria è affrontato il tema della remunerazione degli amministratori: un tema, riterrei, che appartiene pur esso, come quello della responsabilità, all’equilibrio di incentivi e disincentivi con cui la legge prima e poi nel quadro da essa delineato le parti tentano di orientarne l’azione (e osserverei incidentalmente in proposito che il più significativo contributo della c.d. agency theory è quello di aver reso espliciti, e quindi più chiari, discorsi di questo tipo). Non può in effetti stupire che, se in generale si tende a esprimere la preferenza per criteri di remunerazione in grado di allineare gli interessi degli amministratori e degli azionisti, quindi variabili e in vario modo rapportati ai
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risultati imprenditoriali, differente sia la tendenza per le società bancarie: si pensi soltanto all’articolata disciplina dell’art. 53 t.u.b., ove fra l’altro significativi limiti all’autonomia privata, e al trattamento deteriore che nella disciplina del c.d. bail-in viene prevista per le componenti variabili della remunerazione rispetto a quella fissa (così, significativamente per tutte le retribuzioni, non solo quelle degli amministratori – e confermando in tal modo trattarsi di un problema riguardante le funzioni imprenditoriali, non quelle societarie –, l’art. 49, co. 1, lett. g.i). In effetti, se la retribuzione variabile serve a incentivare l’assunzione di rischi, può essere pienamente logico che in un contesto ove valore centrale è quello della «prudenza» il ruolo della prima venga almeno circoscritto. E del resto che sia questa la prospettiva adottata dall’ordinamento mi pare chiaramente dimostrato dalla regola che attribuisce alla Banca d’Italia il potere di fissare «limiti all’importo totale della parte variabile delle remunerazioni nella banca»; e ciò «quando sia necessario per il mantenimento di una solida base patrimoniale» (così l’art. 53-bis, co. 1, lett. d, t.u.b.). Evidente è così, credo, un approccio il quale vede nella previsione di parti variabili delle remunerazioni un pericolo eventuale per la solidità della base patrimoniale della banca: pericolo il quale non deriva allora soltanto dalla loro dimensione quantitativa, poiché allora non si spiegherebbe perché quel potere non possa riguardare le intere remunerazioni, compresa quindi anche la parte fissa (come avviene per le sole «banche che beneficiano di eccezionali interventi di sostegno pubblico»), ma da una caratteristica specifica e qualitativa della parte variabile, per gli incentivi cioè che ne possono derivare. 4. Mi sembra fuori dubbio d’altra parte che, anche solo limitandosi a considerare la disposizione appena menzionata, l’art. 53-bis t.u.b., emerga con assoluta evidenza la prospettiva secondo cui vicende che l’ordinamento in generale assegna alla dimensione della società sono intese soprattutto per la loro incidenza su quella dell’impresa. È per la seconda, evidentemente, che si spiegano gli incisivi poteri attribuiti dalla norma alla Banca d’Italia: la constatazione, cioè, che le vicende societarie possono immediatamente riflettersi sull’attività imprenditoriale e l’esigenza allora che la Banca d’Italia, cui interessa essenzialmente la seconda, possa intervenire anche con riferimento alle prime. Mi limito in proposito a segnalare sommariamente, fra i tanti possibili, due momenti di tale disciplina che potrebbero essere considerati emblematici di quanto sto accennando. Si pensi in particolare al potere della Banca d’Italia di adottare un di-
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vieto di «distribuire utili o altri elementi del patrimonio». Se può ritenersi ovvio che la norma abbia un senso nell’ipotesi in cui tale distribuzione sia di per sé legittima, poiché altrimenti avrebbe ben poco significato e non se ne comprenderebbe l’utilità (che si ridurrebbe a vietare in concreto ciò che è già dalla legge vietato), diviene ugualmente ovvio osservare che questa competenza dell’autorità di vigilanza si risolve in valutazioni essenzialmente di opportunità: naturalmente, è appena il caso di sottolinearlo, non arbitrarie, ma orientate secondo il parametro della «sana e prudente gestione». Il che significa, in primo luogo e soprattutto, intendere alla luce di tale parametro anche il tema della decisione per la distribuzione degli utili; intenderlo perciò in una prospettiva che pone al centro le esigenze dell’impresa e a esse assegna un valore decisivo. E ciò con riferimento a una decisione in cui gli interessi dei soci e le ragioni stesse della loro partecipazione alla società parrebbero doversi porre in primo piano: essi sono destinati a recedere di fronte a scelte che vogliono far prevalere la necessità di una sana e prudente gestione imprenditoriale; e a scelte non operate dalla maggioranza dei soci, nel qual caso la questione rimane sul piano della dialettica fra diverse valutazioni e diversi concreti interessi dei soci medesimi, ma da un soggetto pubblico esterno che per la sua funzione ha il compito (ed esclusivamente) di vigilare sulla gestione imprenditoriale (ivi compresi, secondo quanto si sta dicendo, i temi societari che su di essa possono riflettersi). Il rilievo sistematico del punto immediatamente si comprende considerando che decisioni come quella riguardo alla distribuzione degli utili possono essere intese di per sé, se si vuol dire per la loro «natura», sia come un momento della politica imprenditoriale della società, specie per quanto concerne i temi finanziari, sia come questioni che riguardano essenzialmente i rapporti fra i soci, la «società». E considerando che è una scelta di diritto positivo intenderle per l’uno e/o per l’altro aspetto, scelta che soprattutto si manifesta nell’individuazione dell’organo competente alla decisione: l’assemblea dei soci ovvero, come avviene nei sistemi anglosassoni, gli amministratori o ancora, come avviene nel sistema tedesco, una ripartizione di competenza fra i due organi. È per esempio evidente che la competenza in proposito degli amministratori significa che nei sistemi anglosassoni il tema è inteso come pertinente alla gestione imprenditoriale della società, di competenza appunto degli amministratori; con la conseguenza che le relative scelte sono valutate anch’esse sulla base dei criteri forniti dalla business judgment rule (potendo allora rilevare parametri come quello che approssimativamente discorre di un solvency test).
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Perciò mi sembra per molti aspetti emblematico che, seppur certo non in via ordinaria, per le società bancarie sia possibile che la decisione sia preclusa ai soci e che ciò avvenga a seguito dell’esercizio di un potere dell’autorità di vigilanza: il cui compito si concentra soprattutto nell’assicurare la stabilità dell’impresa e alla quale è certo estranea l’esigenza di mediare fra le diverse scelte e motivazioni dei soci (esigenza che spiega invece la soluzione generale adottata con l’art. 2433 c.c.). Ugualmente significativo mi sembra il potere riconosciuto alla Banca d’Italia di rimuovere «esponenti aziendali», con riferimento al quale sono ancora più espliciti sia la sua giustificazione nell’intento di evitare un «pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca» sia il prescindere in principio da situazioni di illegittimità. E per convincersi di ciò basta considerare che il potere di scelta dei propri collaboratori rappresenta uno dei momenti principali per l’attuazione concreta delle strategie imprenditoriali. Del resto, se volessimo fare un riferimento di teoria generale, si potrebbero ricordare posizioni come quella di Alchian il quale, interrogandosi su quale sia il significato della “gerarchia” che si realizza con l’impresa, sostanzialmente lo esaurisce nel right to fire. Significativo è anche che questo potere di rimozione sia esercitabile in via preventiva, non soltanto come reazione a un pregiudizio già provocato. Il che evidenzia ulteriormente trattarsi di un momento che appartiene a quello dell’elaborazione strategica: alla quale, almeno per tale aspetto, sostanzialmente partecipa anche l’autorità di vigilanza. 5. Risultano in definitiva dai precedenti cenni, evidentemente disorganici e approssimativi, alcune prospettive che, specifiche per la società bancaria, la distinguono rispetto a quella di diritto comune: che per essa più circoscritta è la scelta degli obiettivi imprenditoriali, se si vuol dire dell’«interesse sociale», dovendo risultare coerenti con l’esigenza di una «sana e prudente gestione» (circoscritta, merita di essere sottolineato, proprio con riferimento a quel profilo del rischio senza dubbio centrale per l’impresa); che tale scelta, motivata dal riconoscimento delle particolari esternalità che sia in positivo sia in negativo conseguono all’attività bancaria, si traduce in un approccio secondo il quale anche temi formalmente della società, nel senso che riguardano in primo luogo la posizione dei soci e i loro poteri, sono in primo luogo e soprattutto considerati valutandone i possibili riflessi sull’impresa; che ciò comporta una sorta di emancipazione di questa rispetto alla società medesima e allora anche una più accentuata autonomia, rispetto a quanto normalmente avviene, dell’organo deputato alla sua gestione, quello amministrativo; e che in-
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fine tale autonomia dell’organo amministrativo è anche funzionale al sistema di vigilanza, il quale naturalmente soprattutto all’impresa guarda, nel senso che fornisce all’autorità a esso preposta un interlocutore in ogni caso più agevole e diretto. Non vi è dubbio d’altra parte che, anche se ciò si condividesse (e, almeno nei termini generici in cui lo esprimo, una condivisione mi sembra possibile), l’inquadramento sistematico che perseguo con il mio intervento non sarebbe ancora raggiunto. Non credo in effetti sufficiente limitarsi a genericamente sottolineare la prevalenza della prospettiva dell’impresa su quella della società, ma necessario è anche chiedersi quale sia a sua volta la prospettiva in cui l’impresa è qui considerata dall’ordinamento. Qui interviene la seconda delle affermazioni che ho proposto in limine: che è rilevabile un approccio contrattualistico. Il punto merita forse, anche qui rispettando l’esigenze di sintesi imposte dalla presente sede, di essere brevemente illustrato: se non altro per superare la sensazione, che potrebbe essere spontanea in una tradizione di pensiero abituata per la società per azioni a contrapporre le ragioni dell’impresa a quella del contratto, di contraddittorietà con quanto fin qui osservato. E in effetti tale contraddittorietà sarebbe innegabile se l’impresa fosse qui intesa nel senso in cui la intendeva la tendenza culturale passata alla storia con il nome di Unternehmen an sich (tendenza la quale, può ricordarsi, si supponeva avesse avuto un ruolo significativo nelle scelte operate dalla legge bancaria del 1936-38). E sarebbe ugualmente innegabile se, per riconoscere l’indubbia rilevanza nella disciplina dell’attività bancaria di interessi ulteriori rispetto a quelli dei soci, puntualizzati allora sull’impresa, si dovesse per essa parlare come di una istituzione ovvero, per riprendere la metafora di recente proposta da Denozza, di un «organismo». Ma non è su questo piano, penso, che si coglie la prospettiva in cui la disciplina vigente intende l’impresa bancaria e, per proseguire il confronto prima anticipato, la pone in relazione dialettica con la società. Si tratta invece, per esprimerci in maniera suggestiva, di un approccio in base al quale l’impresa è intesa come un insieme di rapporti contrattuali di cui quello in cui consiste la società è uno soltanto e neppure sempre necessariamente quello centrale e più importante. Merita di essere ricordato a questo proposito che l’orientamento il quale per l’impresa e la società (ma in primo luogo, non bisogna dimenticarlo, per l’impresa) discorre di un nexus-of-contracts è in effetti suscettibile, quando dal suo significato descrittivo si vuole passare a
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quello operativo, di condurre a due esiti fra loro ben diversi: a quello, in certo modo corrispondente alla tradizione del “contrattualismo” europeo, di sottolineare la funzione decisiva per la società e per l’impresa del “contratto” fra i soci, quindi del loro interesse, pervenendo così a una centralità dell’obiettivo del shareholder value; ma anche a quello che, con risultati per molti aspetti corrispondenti all’“istituzionalismo” europeo, segnala la rilevanza essenziale per l’impresa di relazioni contrattuali ulteriori rispetto a quelle fra i soci e comprende allora pure esse in quel nexus-of-contracts. La seconda opzione è per esempio evidente quando la Stout, in tal modo intendendo l’impresa e la società, ne trae ragione per riconoscere agli amministratori il ruolo di un mediating hierarch: così per un verso criticando la prospettiva dello shareholder value, per un altro giustificando, poiché necessaria per tale opera di “mediazione” fra interessi diversi e potenzialmente confliggenti, l’autonomia degli amministratori medesimi. Potrebbe bastare ciò per convincersi che tale autonomia e più in generale quella dell’impresa rispetto alla società non necessariamente presuppongono una concezione “istituzionalistica” dell’una e/o dell’altra. 6. Ma vi sono ulteriori ragioni le quali, su un piano più tecnico e quindi di maggiore interesse nella presente sede, possono a mio parere giustificare un’utilizzazione per le società bancarie della ricostruzione in termini di nexus-of-contracts: che tale ricostruzione, proprio in quanto fra i suoi possibili esiti vi è quello di intendere la posizione dei soci all’interno di un più ampio reticolato di relazioni contrattuali, induce anche a intendere le seconde su un piano omogeneo con le prime. Sotto questo profilo, a ben guardare, la prospettiva del nexus-ofcontracts può implicare la perdita di ogni differenza qualitativa (intendo: di “qualità” rilevante per il giurista e che allora è riconoscibile nella disciplina positiva) fra rapporti “sociali” e “non-sociali”. Qualcuno sa che di tale differenza io personalmente sono in tesi generale convinto. Ciò però non mi impedisce di riconoscere che per quanto qui specificamente interessa, le società bancarie cioè, il diritto scritto si sia orientato in una direzione che almeno riduce la differenza fra quei due tipi di rapporti; consentendomi allora di comprendere anche in questa prospettiva la specificità delle società bancarie che l’odierno incontro vuole analizzare. Ciò mi sembra chiaramente evidenziato dalla disciplina del c.d. bailin come dettata nel d.lsg. 180/2015: disciplina che, se per certi versi prosegue tendenze già presenti in via generale (si pensi soltanto agli
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strumenti finanziari di cui all’art. 2346, ult. co., c.c., e ancor più a quelli previsti dal co. 3 dell’art. 2411 c.c.), nel senso in particolare di graduare la partecipazione degli investitori al rischio imprenditoriale e così di ridurre la peculiarità dell’investimento propriamente “sociale”, presenta per altri versi alcuni elementi caratteristici che mi paiono poter segnalare l’esigenza di prospettive sistematiche diverse da quelle consuete. Significativo potrebbe essere soprattutto, in tal senso, quanto disposto dall’art. 50 del d.lgs. 180/2015, che «per assicurare l’applicabilità del bail-in le banche rispettano, su base individuale e consolidata, un requisito minimo di passività soggette al bail-in» (così il co. 1 della disposizione). La soluzione potrebbe da un certo punto di vista apparire singolare. Essa impone, non soltanto consente come avviene in sede generale, che vi sia una partecipazione di terzi al rischio imprenditoriale; impone anzi che tale partecipazione non si esaurisca in quella generica di ogni creditore, ma si ponga potenzialmente in termini omogenei, seppur graduati, al rischio tipico del socio. Ne risulta una situazione, potrebbe dirsi, secondo cui deve esservi un minimo di terzi i quali potrebbero essere poi trattati come soci. Il che riduce la differenza fra gli uni e gli altri e in definitiva, poiché il bail-in tecnicamente si risolve nell’applicazione della disciplina del capitale sociale, riduce il ruolo di quest’ultimo e della sua disciplina nel fornire un significato formale per tale differenza. Diviene inutilizzabile, in ultima analisi, anche la prospettiva che vede nel riferimento alla disciplina del capitale sociale il criterio decisivo, forse l’ultimo a residuare, per distinguere in termini formali fra soci e terzi. Ma da ciò derivano, se non m’inganno, almeno due conseguenze che possono interessare anche il discorso che qui si sta accennando. In primo luogo, e soprattutto, che l’imposizione stessa di un minimo di passività soggette al bail-in riduce di molto la plausibilità di un discorso che volesse concentrarsi sul perseguimento del c.d. shareholder value. In effetti se «debbono» esserci creditori soggetti a tale rischio, se ciò è addirittura un’esigenza normativa per l’attività bancaria, può essere spontaneo ritenere che la gestione dell’impresa (sul piano quindi in concreto dei compiti degli amministratori) debba tener conto anche dei loro specifici interessi: da questo punto di vista, a ben guardare, ricercando un equilibrio con altri interessi, come quelli degli azionisti, e in definitiva evocando la figura del mediating hierarch cui si è fatto cenno. Plausibile mi sembra cioè ritenere che gli amministratori debbano operare tenendo conto almeno anche degli interessi dei creditori soggetti al bail-in; e che allora la differenza fra la posizione degli azionisti
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e di tali creditori perda da questo punto di vista gran parte del suo significato. Il che significa, per esprimerci in termini impressionistici, che per un verso gli azionisti sono in certo modo “allontanati” dall’impresa bancaria, riducendosi il suo significato di società, mentre per un altro verso gran parte dei creditori (e in una misura che deve almeno corrispondere a un minimo) viene collocata al suo «interno». Si riduce in definitiva, ed è questa una delle possibili implicazioni teoriche più significative della nexus-of-contracts theory, la distinzione fra ciò che è dentro e ciò che è fuori della società e dell’impresa. E del resto potrebbe non essere indizio non trascurabile nello stesso senso che il ricordato art. 53-bis del t.u.b. consideri insieme il potere della Banca d’Italia di vietare la distribuzione di utili e quello di pagare interessi con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza. Il che per un verso sostanzialmente equipara posizioni che nel diritto comune dovremmo distinguere in quanto interne ovvero esterne alla società; per un altro verso, e il punto mi sembra chiarissimo con riferimento alla distribuzione degli utili (poiché la possibilità di un divieto della Banca d’Italia evidentemente presuppone che altrimenti, sulla base cioè della disciplina generale e quindi della situazione patrimoniale risultante dal bilancio d’esercizio, essi sarebbero distribuibili), introduce un momento di apprezzamento discrezionale che in buona parte mi pare evocare la prospettiva del solvency test. Significativo è allora, credo, che una sorta di solvency test sia effettuato, e per di più a opera dell’autorità di vigilanza, con riferimento anche al soddisfacimento di posizioni formalmente creditorie (sotto questo profilo, perciò, equiparate a quelle sociali). 7. Interessante è d’altra parte osservare, se si vuole considerare l’altra faccia della medaglia, che la disciplina del bail-in non solo pone l’esigenza di considerare le posizioni creditorie a esso soggette come componenti interne alla società e all’impresa, di cui perciò deve immediatamente tenersi conto nelle scelte gestionali, ma segnala anche essere la banca un debitore diverso dagli altri. Mi limito a indicare alcuni dati di diritto scritto che, penso, meriteranno un approfondimento ben maggiore di quanto mi è possibile. Così in primo luogo il settimo comma dell’art. 52, d.lgs. 180/2016, secondo il quale «il bail-in non pregiudica il diritto del creditore nei confronti dei condebitori in solido, dei fideiussori o di altri terzi a qualunque titolo tenuti a rispondere dell’adempimento della passività oggetto di riduzione». Il che mostra, in maniera quasi visiva, la peculiarità
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della posizione della banca-debitrice, la quale viene diversamente trattata rispetto agli altri condebitori, anche in solido; ma pone pure, se non m’inganno, delicati problemi di confronto sia con la disciplina generale delle obbligazioni solidali sia con il principio di accessorietà della fideiussione. Ma anche è significativo quanto disposto dall’art. 66 del d.lgs. 180/2016, che prevede il potere della Banca d’Italia di «disporre la sospensione di obblighi di pagamento o di consegna a norma di un contratto di cui l’ente sottoposto a risoluzione è parte»; e dispone che nell’esercizio di tale potere «si tiene conto dell’impatto delle misure sul regolare funzionamento dei mercati finanziari». Con la conseguenza, in ultima analisi, che la sorte dei debiti della banca può dipendere anche dalla posizione che in concreto essa ha nel mercato, evidentemente in considerazione pure delle sue dimensioni. È questo il problema del contagio che anche per altri aspetti viene tenuto presente dall’ordinamento (v., per esempio, al fine dell’eventuale esclusione di passività dal bail-in, l’art. 49, co. 2, lett. b), ii). Il che può condurre a una valutazione delle passività, e allora in definitiva della posizione del creditore cui corrispondono, anche in termini per certi aspetti qualitativi: nella prospettiva cioè che considera anche la posizione del creditore nel mercato e allora le conseguenze che sue perdite potrebbero produrre sul mercato medesimo. 8. Sono tanti altri, naturalmente, gli aspetti che dovrebbero essere esaminati nella ricerca di un confronto, anche sistematico, fra società bancarie e società di diritto comune. Debbo però concludere questo mio intervento introduttivo e vorrei farlo esprimendo una sensazione di ordine generalissimo. Si tratta, e mi pare invero banale, della sensazione che in definitiva la specificità della disciplina dell’impresa bancaria, e allora anche della forma societaria in cui è organizzata, si spiega fondamentalmente per le peculiari esternalità che ne derivano. E si tratta, per un aspetto forse meno banale e a mio parere sempre più chiaramente evidenziato dalla recente disciplina, della constatazione che la considerazione di tali esternalità, poiché assume rilievo anche nella definizione dei criteri di gestione societaria e imprenditoriale (come avviene, in primis, con quello fondamentale della «sana e prudente gestione»), si colloca all’interno stesso di tale gestione: con la conseguenza che essa non può non tener conto anche di interessi ulteriori rispetto a quelli soltanto sociali, in definitiva dei soli soci, sia per quanto riguarda la posizione di terzi che possono subire dirette conseguenze a seconda dell’andamento dell’impresa sia,
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in termini ancora più ampi, con riferimento a esigenze sistemiche; e con l’ulteriore conseguenza che, forse, una delle prospettive utilizzabili per la comprensione sistematica (mi verrebbe da dire: dogmatica) di ciò potrebbe essere quella che discorre di un nexus-of-contracts e allora tende, fra l’altro, a considerare in termini omogenei rapporti interni ed esterni alla società e al gruppo sociale.
Presidente Mi sembra che Carlo abbia già posto sul tavolo una serie di problemi che dovranno essere meglio sviscerati dai relatori che seguono. Per parte mia vorrei solo farvi partecipi di una suggestione che il discorso di Angelici ha suscitato in me quando ha parlato della sana e prudente gestione della Banca e, quindi, del criterio del contenimento del rischio. Se ho ben compreso, ha affermato che, al verificarsi di una situazione prossima alla crisi, non si deve più tener conto dei soci i quali, infatti, sono espropriati di una serie di diritti. I soci passano decisamente in secondo ordine, perché al verificarsi di tale situazione ci si deve preoccupare piuttosto degli interessi degli stakeholder, a partire da quelli dei depositanti. A me sembra che la preoccupazione per i “risparmiatori” ricompaia di tempo in tempo come una sorta di fiume carsico al verificarsi delle crisi economiche importanti. Già dopo la grande crisi del ’29 si discuteva di problemi simili agli odierni. In particolare in Italia si pensò di riformare il sistema del credito secondo le proposte che furono formulate dall’IRI (1934) creando quella che nel progetto IRI fu chiamata Sovrintendenza per il credito. Orbene, già allora si pose il problema di espropriare, in via preventiva e in termini generali, i soci del potere di decidere e specificamente del potere di nomina degli amministratori delle banche, a tal fine si pensò di attribuire alla Sovrintendenza il potere di sostituirsi ai soci. La cosa poi non andò avanti per una semplicissima ragione che nel frattempo le banche più consistenti sotto il profilo patrimoniale erano cadute nelle mani dell’IRI, sicché i poteri autoritativi sulla governance delle banche, oggi di competenza delle Autorità di vigilanza, allora erano di fatto esercitati dall’IRI quale proprietario delle maggiori banche del Paese. Dunque direi che soluzioni apparentemente molto distanti convergono verso risultati pratici molto prossimi. Un’ultima considerazione: ho letto in uno studio storico dedicato alle Compagnie delle Indie olandesi, che, all’epoca, la differenza tra azionisti e obbligazionisti era tutt’altro che certa, tant’è che in qualche occasione gli azionisti di una delle Compagnie lamentavano di esser trattati peggio
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degli obbligazionisti in punto di rendimento. La percezione sociale deponeva nel senso che le due categorie non si sentivano così differenti l’una rispetto all’altra. Non deve, dunque, stupirci, come bene ci ha detto Carlo, che i confini tra strumenti finanziari possano essere ridiscussi.
A proposito di bank government, corporate governance e Single Supervisory Mechanism governance Mario Stella Richter 1. Dal governo della banca alla corporate governance bancaria. – Non devo in questa sede ricordare che l’attività bancaria, per le funzioni che assolve, è da lungo tempo oggetto di una disciplina speciale nel nostro come in tutti gli altri sistemi giuridici minimamente evoluti, e neppure debbo ricordare come tale regime speciale dell’attività bancaria riguardi anche gli aspetti relativi al modo in cui la stessa è organizzata, cioè al modo in cui l’impresa, quando di impresa si tratti, si organizza. Posso anche esimermi dal sottolineare che l’interesse da parte dell’ordine giuridico per quel che in particolare riguarda gli aspetti organizzativi dell’attività bancaria è, in Italia e nel mondo, cresciuto in modo esponenziale nel corso degli ultimi decenni. Mi limito a premettere che tutti i più significativi interventi da parte degli ordinamenti (statali e non statali) sulla governance delle banche sono avvenuti e continuano ad avvenire a seguito delle maggiori crisi economiche e finanziare, come tentativi di reazione alle stesse. 1.1. In origine l’attività bancaria era considerata e disciplinata al pari di una qualsiasi attività commerciale. Le operazioni di banca erano reputate atti di commercio (art. 3, n. 11, cod. comm. 1882) e conseguentemente il banchiere, che esercitava tali operazioni per professione abituale, era un commerciante (art. 8 cod. comm.). Sia nei più risalenti sistemi fondati sul criterio soggettivo che nei successivi sistemi così detti oggettivi, basati sulla identificazione degli atti di commercio, l’attività bancaria risultava comunque disciplinata dal diritto commerciale e le sue possibili forme e modalità di organizzazione coincidevano, quindi, con quelle delle altre imprese economiche1.
1 Né tale assunto poteva dirsi smentito dalla previsione dell’art. 177 cod. comm. 1882, che imponeva alle società con principale oggetto «l’esercizio del credito» l’obbligo
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Un diritto speciale si inizia a delineare, almeno in Italia, in relazione a specifiche attività bancarie (il credito fondiario, il credito agrario, il credito per le opere pubbliche) e soprattutto per la funzione di emissione di biglietti di banca (riservata alle banche di emissione) e prende forma con il regime autorizzatorio della prima legge bancaria del 1926; una legge che tuttavia recepì e favorì «quelle forme di pluralismo bancario che si stavano realizzando sulla base dell’autonomia statutaria»2. 1.2. Successivamente, come è ben noto, la legge bancaria del 19361938 stabilì che «la raccolta del risparmio tra il pubblico… e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico» e che «tali funzioni sono esercitate da Istituti di credito di diritto pubblico, da Banche di interesse nazionale, da Casse di risparmio e da Istituti, Banche, Enti e imprese private a tal fine autorizzate». Le forme organizzative utilizzabili per l’esercizio dell’attività bancaria restavano pertanto molto varie: enti pubblici economici (gli istituti di credito di diritto pubblico), società di diritto speciale (le banche di interesse nazionale), enti a struttura fondazionale (casse di risparmio e monti di pietà), società di capitali, società di persone, società a causa lucrativa e società a causa mutualistica, anche imprese individuali. Gli interessi generali che le funzioni proprie dell’attività bancaria involgono (e dunque, in sostanza, la funzione creditizia e quella monetaria) giustificarono l’introduzione di un sistema autorizzatorio (ma in realtà concessorio). Ma non furono previsti, almeno dal punto di vista legislativo, particolari regole o limiti nelle scelte relative alle forme e alle soluzioni organizzative dell’attività bancaria. Tuttavia, poiché i poteri discrezionali dell’amministrazione che doveva provvedere erano tanto ampi che il provvedimento fu inteso e qualificato come concessione, è probabile che in una prima fase (e cioè sotto la vigenza della seconda legge bancaria e ovviamente fino al blocco delle autorizzazioni alla costituzione di nuove aziende di credito degli anni ’60) l’autorità di vigilanza abbia orientato l’esercizio del suo potere discrezionale anche in ragione dei sistemi e delle soluzioni organizzative adottate dalle imprese che richiedevano l’autorizzazione: basti pensare, per fare l’esempio più evidente, al caso delle imprese individuali o delle
di depositare presso il tribunale di commercio una situazione mensile «esposta secondo il modello stabilito con decreto dell’autorità governativa». 2 Costi, L’ordinamento bancario2, Bologna, 1994, p. 29.
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società di persone che non furono più autorizzate, pur risultando forme giuridiche in astratto ammesse. Da questo punto di vista, una ipotesi da vagliare con apposite ricerche (che non ho fatto) è che sia accaduto, forse in termini ancora più netti per quanto attiene le forme organizzative, qualcosa di molto simile al fenomeno che ebbe luogo al principio della storia delle moderne società azionarie (quando la costituzione della società anonima presupponeva una autorizzazione governativa, che comportava un controllo minuzioso ed esteso del Conseil d’État; il quale non mancò di sviluppare, in sede di giurisdizione volontaria, un assetto di regole complementari alle pochissime del Code de commerce che dovevano trovare recepimento in previsioni statutarie per giungere alla effettiva costituzione della società). Ciò che comunque merita di essere rilevato è che, per una serie di ragioni storiche e politiche, si sviluppò in Italia, nel corso del XX secolo, un sistema creditizio essenzialmente pubblico: allo Stato faceva capo il grosso degli istituti e delle aziende di credito, sia in termini di numero che in termini di rilevanza. Era quindi naturale che lo Stato, che direttamente o indirettamente controllava il sistema bancario, rispondesse anche della sua tenuta e facesse fronte alle relative crisi (singole e sistemiche). 1.3. Tutto ciò – dico sempre cose note – è destinato a modificarsi profondamente sul finire del secolo scorso, a seguito di due fondamentali scelte (prese a livello nazionale e comunitario) fra loro intimamente connesse: per un verso, quella di realizzare (in modo prima formale ma poi anche sostanziale) la privatizzazione del sistema creditizio (l. 30 luglio 1990, n. 218 e d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356); e, per altro verso, quella di rimarcare che l’attività bancaria «ha carattere d’impresa»3, come peraltro già stabiliva il codice civile, senza più alcuna menzione della «funzione di interesse pubblico», che era stata, almeno nella interpretazione giurisprudenziale dominante, utilizzata per attribuire alla attività bancaria «funzione pubblica» tout court. Alla realizzazione di tali politiche di privatizzazione e alla riconduzione dell’attività bancaria alle logiche proprie dell’impresa, della concorrenza e del mercato si accompagna una drastica riduzione delle possibili
3 Cfr. art. 10 t.u.f. e, prima ancora, l’art. 1, co. 1, del d.P.R. n. 350 del 1985 di recepimento della prima direttiva comunitaria in materia creditizia, nonché l’art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 481 del 1992 di recepimento della seconda direttiva bancaria.
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forme organizzative cui fare ricorso per il suo esercizio: la società per azioni e la società cooperativa per azioni a responsabilità limitata4. È questo un fatto da mettere alla base di ogni riflessione sul tema della governance delle banche. Se l’accesso a tale attività è libero e se la permanenza sul mercato delle imprese bancarie deve sottostare alle logiche della concorrenza, diviene fondamentale che essa avvenga tra imprese che adottino la forma organizzativa la più articolata e sofisticata tra quelle conosciute dall’ordinamento: quella appunto della società per azioni. Riprendendo la diffusa metafora, potrebbe dirsi che fin tanto che la foresta era pietrificata (la presenza di imprese bancarie private era trascurabile e non esisteva un vero e proprio regime di concorrenza tra le banche) essa poteva essere composta da specie arboree alquanto varie; ma con il passaggio ad un bosco di piante, non più pietrificate ma vive e anzi soggette a taglio (anche a rischio di desertificazione?), le si vuole tutte della stessa specie: dalla foresta pietrificata al bosco ceduo, dunque. La espressa imposizione (a livello legislativo) della forma organizzativa della impresa azionaria per l’esercizio dell’attività bancaria, accompagnata ad una radicale rivisitazione del ruolo dell’autorità amministrativa in fase autorizzatoria, segna il passaggio dal governo del credito e del risparmio, che qui vorrei chiamare bank government, alla bank corporate governance. 2. Quadro degli interventi e dei problemi in materia di governance delle banche. – Non sono in condizione neanche di tentare una analisi dei moltissimi provvedimenti normativi di emanazione nazionale e sovranazionale [cfr. spec. gli artt. 88 ss. della CRD IV (Direttiva 2013/36/ UE)], di rango legislativo e regolamentare, con natura di precetto o di raccomandazione, che si sono accumulati e succeduti, con ritmo crescente, nella materia del governo societario delle banche (ed in quelle strettamente connesse). Esse potrebbero ordinarsi in ragione delle diverse (seppur evidentemente connesse) tematiche di cui si occupano.
4 V. art. 14, co. 1, lett. a), t.u.b. e già prima l’art. 9, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 481 del 1992. L’art. 1, co. 2, lett. a), del d.P.R. n. 350 del 1985 aveva già compiuto un significativo passo verso il restringimento delle forme ammesse: società azionarie (ivi compresa dunque la società in accomandita per azioni), società a responsabilità limitata, società cooperative ed enti pubblici. Cfr. Costi, L’ordinamento, cit., p. 246.
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2.1. Alcuni provvedimenti riguardano di nuovo la forma dell’impresa e cioè il tipo di modello organizzativo utilizzabile per l’esercizio dell’attività bancaria (quello che in diritto costituzionale sarebbe la forma di stato). Mi riferisco alle regole, di recente o recentissima introduzione, in virtù delle quali: - da un lato, le banche con attivi superiori a una determinata soglia non possono più organizzarsi in forma di società cooperativa, ma devono trasformarsi in società per azioni lucrative5; - e, dall’altro lato, le banche di credito cooperativo che non facciano parte di un gruppo bancario (cooperativo) devono trasformarsi in società per azioni (o liquidarsi)6. 2.2. Altri provvedimenti riguardano invece i profili funzionali dell’organizzazione societaria, cioè le scelte da assumersi, per lo più a livello statutario, nell’ambito delle possibilità offerte dal tipo della società per azioni. Mi riferisco: - anzitutto, alla scelta del sistema di amministrazione e controllo; - in secondo luogo, alla ripartizione dei poteri tra gli organi (sempre ovviamente nei limiti in cui il sistema consenta di scegliere a quale organo attribuire certe funzioni, certe competenze); - in terzo luogo, alla costruzione di iter procedimentali (con la previsione quindi di fasi istruttorie, consultive, di controllo, ecc.) affidati a distinti uffici nell’ambito degli organi sociali pluripersonali7 (non mi riferisco solo alla creazione dei comitati endoconsiliari, ma anche al ruolo del presidente del collegio8); - in quarto luogo, alla regolamentazione del funzionamento degli organi collegiali e delle loro articolazioni (regolamenti assembleari, consiliari, dei comitati, ecc.); - il tutto nel tentativo di creare ripartizioni di funzioni e processi chiari, equilibrati e forieri di adeguate interazioni dialettiche e di controllo. 2.3. Ulteriori interventi (come si diceva, strettamente legati ai precedenti) attengono ai profili strutturali degli organi sociali e riguardano quindi le scelte relative:
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D.l. n. 3/2015, convertito in l. n. 33/2015. Cfr. in particolare gli artt. 33, co. 1-bis, e 36, co. 1-bis, t.u.b., introdotti dal d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito in l. 8 aprile 2016, n. 49. 7 E cfr. subito infra, sub (iii). 8 Per cui cfr., anche per gli ulteriori opportuni riferimenti, Ardizzone, Il ruolo del presidente delle società bancarie, in Riv. soc., 2014, p. 1308 ss. 6
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- alla struttura monocratica o pluripersonale dell’organo o dell’ufficio; - ai requisiti soggettivi del titolare o dei vari componenti dell’organo, eventualmente anche distinguendo a seconda della funzione all’interno esercitata; - alla composizione complessiva che gli organi sociali pluripersonali debbono avere (e, di conseguenza, alle funzioni attribuite alla collegialità). 2.4. Connessi con questi diversi profili di intervento e con i temi della corporate governance (e talora addirittura confusi con essi) sono i provvedimenti relativi: alla organizzazione amministrativa e contabile dell’impresa bancaria; al sistema dei controlli interni (che, a ben vedere, non è che un aspetto, per quanto significativo, dell’organizzazione amministrativa dell’impresa) e ai sistemi di remunerazione e incentivazione degli esponenti aziendali (amministratori esecutivi e dirigenti). Si tratta di tematiche (o meglio problematiche) che solo in parte possono dirsi rientrare nella nozione di governo della società bancaria. 2.5. Quello che però emerge con sufficiente nettezza dalla complessiva considerazione dei tanti interventi di regolazione speciale in materia di corporate governance bancaria e dintorni è, almeno a seguito della grande crisi del 2007-2008, il diffuso convincimento che il buon governo della società bancaria deve rispondere a regole e avvalersi di presidi diversi o ulteriori rispetto a quelli propri di una qualsiasi altra impresa azionaria. I problemi che questo stato di cose genera sono di tanti ordini: - una regolamentazione troppo complessa e minuta, sia nei contenuti che nelle fonti; - la difficoltà di coordinare, proprio in punto di governance, lo statuto speciale dell’impresa azionaria bancaria con lo statuto speciale della impresa azionaria aperta al mercato di capitale di rischio; - il pericolo che tante regole di governo di società bancarie, giustificate dalla specialità dell’oggetto, finiscano per influenzare oltre il necessario la costruzione, interpretazione e applicazione del diritto della società azionaria in generale9.
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In virtù del fatto che regole, standard e modelli imposti o affermati nel settore bancario e finanziario tendono, in una sorta di non sempre giustificata corsa al rialzo, ad essere applicati alle altre imprese azionarie, e che modelli di vigilanza più pervasivi finiscono per ispirare modelli di vigilanza che invece dovrebbero esserlo
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Ma il maggiore dei problemi è che ci si sia avviati nello stesso tempo verso un sistema bancario che pretende di essere composto e sorretto solo dall’investimento privato, ma che poi sia governato con un altissimo grado di pervasività nella autonomia di impresa. Voglio dire che, se è vero che la natura dell’attività bancaria e le conseguenti esigenze della vigilanza prudenziale giustificano forme di intervento rafforzato del legislatore e delle autorità amministrative in punto di organizzazione delle società bancarie, queste non possono comprimere la libertà dei privati oltre i limiti nei quali gli stessi non siano più incentivati a credere in una impresa, che, anzitutto nella sua struttura organizzativa, non riesca ad adattarsi, per eccessiva rigidità del modello, alle loro esigenze, dissuadendoli così dal farvi affluire il loro risparmio sotto forma di investimento. D’altra parte, se la banca non può che essere impresa (azionaria) e se l’impresa è coordinamento dei fattori di produzione e poi organizzazione delle funzioni e degli uffici personali volti a coordinare tali fattori (almeno tutte le volte che essi attingano ad un qualche grado di rilevanza), sono le stesse soluzioni organizzative a diventare una delle ragioni di successo di una certa impresa e, conseguentemente, deve essere necessariamente lasciato un adeguato spazio di competizione tra imprese anche sul piano della ricerca delle soluzioni organizzative. 3. I poteri delle autorità di vigilanza in materia di corporate governance. – Ma ci sono altri problemi che reclamano urgente soluzione e sono quelli che sorgono dalla previsione di poteri in capo a diverse autorità di vigilanza del settore creditizio anche nella materia della corporate governance. Il Meccanismo di vigilanza unico (MVU o SSM – single supervisory mechanism) non ha una propria unità (gli interpreti parlano di mancanza di personalità giuridica del Meccanismo; io preferisco parlare di unità), ma è «composto» dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti [art. 2, par. 9, Reg. (UE) n. 1024/2013]: per intenderci, in Italia, dalla Banca d’Italia. Il meccanismo di vigilanza è dunque, come indica lo stesso
meno per le diverse finalità cui sono ispirati. Su questi problemi mi sono soffermato in L’organizzazione della società per azioni tra principio di tipicità, autonomia statutaria e indicazioni delle autorità di vigilanza, in corso di pubblicazione negli atti del Convegno internazionale di studi organizzato dalla Rivista delle società, il 13 e 14 novembre 2015 a Venezia, su Regole del mercato e mercato delle regole. Il diritto societario e il ruolo del legislatore.
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nome, unico, ma le amministrazioni che lo «compongono» sono plurime, così come plurimi sono i diritti che disciplinano tali amministrazioni. Si tratta allora di stabilire come si ripartiscano le funzioni e si esercitino i correlativi poteri tra le diverse autorità (sempre nella prospettiva che interessa il nostro tema). In linea di massima, e ferma la responsabilità della BCE per il funzionamento efficace e coerente del MVU, la vigilanza sugli enti creditizi anche per quanto riguarda gli aspetti di governance è ripartita tra BCE e autorità nazionali in ragione della distinzione tra banche «significative» e «meno significative». Questo primo criterio di ripartizione del lavoro non pone, almeno in prima approssimazione, eccessivi problemi. Alquanto più delicato è invece stabilire: (i) quali regole applichi la BCE nell’esercizio della sua funzione di vigilanza prudenziale; (ii) come si ripartisca il potere regolamentare tra le varie autorità in materia di governo societario (stabilendo, in particolare, se la BCE abbia un potere di vigilanza regolamentare in materia); (iii) quali poteri di intervento specifici in materia di governo societario abbia la BCE e correlativamente quali poteri abbia l’Autorità nazionale, se cioè la prima abbia gli stessi poteri della seconda. 3.1. Sono questioni evidentemente connesse. Vediamo meglio. Il reg. (UE) n. 1024/2013 (all’art. 4, par. 1) stabilisce espressamente che la BCE, nell’esercitare la vigilanza prudenziale, deve «assicurare il rispetto degli atti (…) che impongono agli enti creditizi requisiti che assicurino la presenza di solidi dispositivi di governo societario, compresi i requisiti di professionalità e onorabilità per le persone responsabili dell’amministrazione degli enti creditizi, di processi di gestione del rischio, di meccanismi di controllo interno, di politiche e prassi di remunerazione e di processi efficaci di valutazione dell’adeguatezza del capitale interno, compresi i modelli basati sui rating interni». Per fare ciò la BCE «applica tutto il pertinente diritto dell’Unione e, se tale diritto dell’Unione è composto da direttive, la legislazione nazionale di recepimento di tali direttive». Così prevede l’art. 4, par. 3, co. 1, del reg. citato, che, al co. 2, così continua: «A tal fine, la BCE adotta orientamenti e raccomandazioni e prende decisioni fatti salvi il pertinente diritto dell’Unione e, in particolare, qualsiasi atto legislativo e non legislativo (…) e conformemente agli stessi. In particolare, è soggetta alle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione vincolanti elaborate dall’ABE e adottate dalla Commissione (…) e alle disposizioni (…) sul manuale di vigilanza europeo predisposto dall’ABE. La BCE può inoltre adottare regolamenti solo nella misura in cui ciò sia necessario per organizzare o
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precisare le modalità di assolvimento dei compiti attribuitile dal presente regolamento». Ora a mio parere bisogna mantenere distinti gli aspetti, per così dire, di diritto sostanziale, che attengono alla società bancaria vigilata, e gli aspetti di diritto amministrativo, che attengono a funzioni e poteri delle autorità di vigilanza (oltre che poi alla disciplina della loro azione, dei loro provvedimenti e alla giustiziabilità di questi ultimi). 3.2. È ovvio, per esempio, che il par. 3 dell’art. 4 si riferisce soltanto a questi secondi aspetti e non al diritto sostanziale della società bancaria. Quest’ultima è sempre e integralmente quella che risulta dal complesso delle regole dell’ordinamento nazionale della singola banca, cioè la sua lex societatis. L’osservazione è, come è chiaro, particolarmente rilevante quando si fa questione di corporate governance, perché impone di considerare le caratteristiche e le peculiarità dell’intero diritto societario nazionale (di cui ovviamente fa parte anche il diritto europeo), che quindi deve essere considerato dalla BCE quando valuta la «solidità» (e quindi anche la coerenza) «dei dispositivi di governo societario». 3.3. Vediamo ora come stanno le cose con riferimento ai poteri delle autorità, cioè al diritto amministrativo applicabile, distinguendo tra poteri regolamentari delle autorità di vigilanza, cioè poteri di adottare provvedimenti a contenuto generale ed astratto, e poteri di adottare provvedimenti particolari. (i) A livello nazionale è non da oggi previsto in capo alla Banca d’Italia, nell’ambito dei suoi ampi poteri di vigilanza regolamentare, il potere di emanare «disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto (…) il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione» delle banche (art. 53, co. 1, lett. d) t.u.b.) e dei gruppi bancari (art. 67, co. 1, lett. d) t.u.b.). Si tratta appunto di una potestà di porre regole valevoli per tutte le entità vigilate o per categorie delle stesse (ed infatti la potestà regolamentare è stata di fatto esercitata nella materia della corporate governance sulla base del principio di proporzionalità e distinguendo in base a parametri di natura prevalentemente dimensionale, dai quali sono scaturite tre fattispecie: banche di maggiori dimensioni o di maggiore complessità operativa, banche intermedie e banche di minori dimensioni o di minore complessità operativa). E in attuazione di questi poteri regolamentari la Banca d’Italia ha proceduto ad ema-
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nare, da ultimo in (parziale10) attuazione della CRD IV, disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche (Circolare della Banca d’Italia 17 dicembre 2013, n. 285, Parte Prima, Titolo IV, Capitolo 1, introdotto con l’aggiornamento del 6 maggio 2014); disposizioni di vigilanza in materia di Politiche e prassi di remunerazione (Parte Prima, Titolo IV, Capitolo 2); disposizioni in materia di sistemi di controllo interno; ecc. Teniamo a mente che la regolamentazione nazionale non è in questa materia soggetta ad una direttiva di massima armonizzazione, sicché non tutte le previsioni contenute nelle disposizioni di vigilanza sono necessariamente conseguenza della disciplina della Direttiva europea. (ii). Per quanto riguarda invece la BCE essa ha poteri di emanare «orientamenti e raccomandazioni» e adottare regolamenti, ma «solo nella misura in cui ciò sia necessario per organizzare o precisare le modalità di assolvimento dei compiti attribuitile dal presente regolamento». Da qui la lettura restrittiva del potere regolamentare della BCE proposta da un attento commentatore, secondo il quale la BCE non potrebbe emanare regolamenti che si rivolgano direttamente alle entità vigilate imponendo loro obblighi nei confronti delle istituzioni creditizie. In altri termini la BCE non potrebbe creare direttamente regole di diritto «sostanziale»11. Non sono sicuro che una simile interpretazione, pur molto ben fondata dal punto di vista della lettera delle disposizioni del diritto dell’Unione, sia destinata ad affermarsi e penso che la BCE svilupperà i suoi poteri di porre regole «sostanziali» sia lavorando con gli strumenti degli orientamenti e delle raccomandazioni, con cui si può giungere a risultati pratici assai prossimi a quelli della formale adozione del regolamento, sia argomentando – e non mi parrebbe uno sproposito – che «precisare le modalità di assolvimento dei compiti attribuitile» (pur sempre nel rispetto delle disposizioni dell’ABE, ecc.) può significare porre regole di diritto sostanziale. In definitiva, direi che non è affatto da escludersi che, anche in materia di governo societario delle banche, potremo presto avere disposizioni sub-primarie provenienti da fonti diverse: l’Autorità nazionale (i.e.
10 Per altri aspetti il recepimento della CRD IV è dovuto avvenire attraverso la introduzione di norme di rango primario. 11 Così D’Ambrosio, The ECB and NCA Liability within the Single Supervisory Mechanism, Quaderno di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n. 78, Roma, 2015, p. 101 ss.
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la Banca d’Italia) e le istituzioni europee. E tra queste seconde non solo dall’ABE ma anche dalla BCE, sotto forma di raccomandazioni, orientamenti e forse veri e propri regolamenti. 3.4. E vengo così a dire dei particolari poteri, cioè della potestà delle autorità di vigilanza di adottare provvedimenti non generali ed astratti in materia di governo societario. (i) A livello nazionale essi erano già presenti nella legge bancaria del 193612. Il t.u.b. ha poi in particolare previsto poteri di: a) convocare gli amministratori, i sindaci e il personale (in una prima versione si parlava solo di dirigenti) per esaminare la situazione; b) ordinare la convocazione degli organi collegiali, fissandone l’ordine del giorno, e proporre l’assunzione di determinate decisioni; c) procedere direttamente alla convocazione degli organi collegiali, quando gli organi competenti non abbiano ottemperato all’ordine di convocare; d) adottare provvedimenti specifici anche in materia di governance, organizzazione amministrativa e contabile, controlli interni e remunerazioni. Poi, nei nuovi artt. 53-bis e 67-ter t.u.b. introdotti (dal d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72) per dare attuazione alla CRD IV, è stato aggiunto il potere di disporre la rimozione di uno o più esponenti aziendali (pur in possesso dei requisiti di cui all’art. 62 t.u.b.). (ii).A livello europeo, l’art. 16, par. 2, lett. m) del Regolamento n. 1024/2013 prevede invece, in capo alla BCE, solo il potere di «rimuovere in qualsiasi momento membri dell’organo di amministrazione degli enti creditizi che non soddisfano i requisiti previsti dagli atti di cui all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma».
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Cfr. l’art. 35 della legge bancaria: «L’ispettorato ha anche facoltà, nei confronti delle aziende sottoposte alla sua vigilanza: a) di ordinare la convocazione delle assemblee dei soci e degli enti partecipanti, nonché dei Consigli di amministrazione e di altri organi amministrativi, per sottoporre all’esame provvedimenti ritenuti utili alle aziende e di provvedere direttamente a tali convocazioni quando gli organi competenti non vi abbiano ottemperato; b) di ordinare l’esperimento delle procedure esecutive contro i debitori per i quali, a giudizio dell’ispettorato, l’azienda di credito sia incorsa in eccessivi ritardi; c) di fissare modalità per l’eliminazione, la riduzione o, comunque, la sistemazione di immobilizzi riscontrati nella situazione delle aziende predette».
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3.5. Qualche osservazione su questi poteri specifici in materia di governance. Noto anzitutto che anche il potere di “rimozione” (il c.d. removal) di uno o più esponenti aziendali non è in fondo che una specifica ipotesi di proposta di adozione di una deliberazione di un organo sociale: nel caso di un amministratore o di un sindaco è una ipotesi di revoca (tra l’altro, è da supporsi, per giusta causa); nel caso di un direttore generale è una ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro. In secondo luogo, direi che almeno tendenzialmente questi poteri di intervento siano pensati per dispiegarsi, per così dire, “in sequenza”. Voglio cioè dire che: - l’Autorità di vigilanza dovrebbe prima convocare gli esponenti aziendali ed evidentemente nel corso dell’incontro prospettare le proprie posizioni e suggerire provvedimenti da adottare o quantomeno linee di indirizzo da considerare; - in caso di mancanza di una conseguente azione degli esponenti aziendali, si dovrebbe procedere ad ordinare la convocazione degli organi sociali, fissando l’ordine del giorno e suggerendo la proposta di deliberazione (a questo punto adeguatamente circostanziata e definita); - in caso d’inerzia dei diversi soggetti tenuti alla convocazione dell’organo collegiale, l’Autorità di vigilanza dovrebbe ordinare direttamente la convocazione; - infine, nel caso in cui l’organo sociale non si sia riunito o non abbia assunto deliberazioni conformi all’ordine del giorno e alla proposta formulata dall’Autorità, questa potrebbe adottare lei stessa le specifiche determinazioni. Si potrebbe obiettare che tale procedimentalizzazione dei diversi poteri di intervento, oltre a non essere espressamente preveduta dalle norme di legge [salvo che nel caso di «ordine di convocazione» e «convocazione» diretta: lett. b) e c)], potrebbe confliggere, almeno in determinate circostanze, con la esigenza di un intervento celere dell’autorità di vigilanza; bisognerebbe però ipotizzare un caso in cui alla estrema urgenza del provvedimento non si accompagni una situazione che giustifichi l’adozione di misure d’intervento precoce (tra le quali non a caso si annoverano anche quelle di rimozione degli organi di amministrazione e controllo e dell’alta dirigenza: art. 69-vicies-semel t.u.b.), la nomina di commissari in temporaneo affiancamento (art. 75-bis t.u.b.), l’apertura della amministrazione straordinaria o della liquidazione coatta amministrativa. Voglio cioè dire che il presupposto per attivare i poteri di cui agli artt. 53-bis e 67-ter t.u.b. non mi pare che possa essere né quello della violazione dei requisiti di adeguata patrimonializzazione (e tanto
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meno della previsione di gravi perdite) né quello della grave violazione di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie, posto che in questi casi si prevedono differenti misure di intervento. Si deve dunque trattare di un qualcosa che, pur destando seria preoccupazione nell’Autorità di vigilanza, non costituisca grave violazione di norme o compromissione della stabilità patrimoniale: questioni, dunque, rispetto alle quali trovo difficoltà a concepire un grado di urgenza tale da giustificare la omissione dell’esercizio graduale delle potestà elencate dal t.u.b. In terzo luogo, vorrei segnalare come la stessa previsione di questi speciali poteri di specifico intervento non può non incidere su una considerazione della stessa responsabilità dell’autorità di vigilanza. Abbiamo detto che essi si aggiungono a quelli previsti in caso di crisi (economica e di legalità) e quindi in qualche modo aumentano grandemente i poteri nella attività di alta amministrazione della banca: se si può ritenere responsabile l’organo di supervisione strategica, di gestione o di controllo per non avere adottato certe decisioni, non potrà in qualche misura tale responsabilità imputarsi anche alla autorità di vigilanza che sia rimasta inerte di fronte al problema e di fronte all’omissione degli organi sociali? 3.6. Ma la questione più nuova è quella di stabilire come si coordinano i diversi poteri previsti a livello nazionale ed europeo, posto che i primi sono più ampi dei secondi. La Banca d’Italia applicherà i poteri del t.u.b. alle banche «meno significative»: questo è indubbio. Ma quali poteri specifici in tema di governance avrà la BCE sulle banche «significative»? Si tenga presente che – a norma dell’art. 9, par. 1, del regolamento n. 1024/2013 – «al fine esclusivo di assolvere i compiti attribuitile dall’articolo 4, paragrafo 1», tra i quali si annovera la vigilanza prudenziale anche in materia di governance, «la BCE è considerata, ove opportuno, autorità competente o autorità designata negli Stati membri partecipanti». Tuttavia, quella medesima disposizione aggiunge che, «al medesimo fine esclusivo, la BCE ha tutti i poteri e obblighi di cui al presente regolamento» e «ha inoltre tutti i poteri e gli obblighi che il pertinente diritto dell’Unione conferisce alle autorità competenti e designate». E al riguardo si deve ricordare che: per un verso, il regolamento non prevede poteri analoghi a quelli dell’art. 53-bis del t.u.b.; e, per altro verso, i poteri dell’art. 53-bis non sono previsti per dare recepimento o esecuzione al diritto (bancario) dell’Unione. Si deve quindi concludere che la BCE non potrà direttamente esercitare, nei confronti delle banche significative soggette alla sua diretta vigilanza, tali poteri (e cioè i poteri specifici previsti dall’art. 53-bis del
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t.u.b.). Potrà tuttavia, a norma del par. 2 dell’art. 9 (e «nella misura necessaria ad assolvere i compiti attribuitile dal (…) regolamento»), «chiedere, mediante istruzioni, alle autorità nazionali in questione di utilizzare i propri poteri, in virtù e in conformità delle condizioni stabilite dal diritto nazionale». Ne discende, in definitiva, che, mentre alcuni poteri (come quelli espressamente enumerati dall’art. 16 e tra questi il «removal europeo») saranno esercitati direttamente dalla BCE con provvedimenti retti dal diritto amministrativo europeo, altri provvedimenti, magari riferiti alla stessa banca e adottati nelle medesime contingenze (come il removal del t.u.b., che mi pare abbia presupposti diversi e più ampi di quello “europeo”), saranno adottati dalla Banca d’Italia (seppure in base ad istruzioni della BCE) e saranno regolati dal diritto amministrativo italiano13. Tutto ciò pone delicati problemi vuoi di carattere sostanziale vuoi di carattere processuale. Dal punto di vista del diritto sostanziale: - le istruzioni della BCE sono atti direttamente lesivi e come tali vanno autonomamente impugnate? - le istruzioni sono vincolanti per la Banca d’Italia o si risolvono, in buona sostanza, in un atto endoprocedimentale necessario per l’adozione del provvedimento, ma che lascia comunque un margine di discrezionalità alla Banca d’Italia? Dal punto di vista processuale si pongono altre questioni (in parte connesse con quelle sostanziali). L’impugnazione del provvedimento della Banca d’Italia dovrà avvenire di fronte al giudice amministrativo italiano, mentre l’impugnazione dei provvedimenti della BCE avviene secondo le regole della giustizia amministrativa europea. Ma cosa succede se bisogna impugnare sia il provvedimento della Banca d’Italia sia le istruzioni della BCE in virtù delle quali quel provvedimento è stato adottato? Si possono impugnare queste seconde come atto presupposto di fronte al giudice (amministrativo) italiano? O si debbono proporre due impugnazioni diverse: una al giudice europeo e una al giudice nazionale e questo secondo processo si sospende posto che la decisione sulla causa nazionale dipende dalla
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E quindi, anzitutto, dalla l. 7 agosto 1990, n. 241 (e successive modificazioni): si dovrà individuare un responsabile del procedimento; si dovranno rispettare gli obblighi di trasparenza e i diritti di accesso agli atti; ci sarà un onere di motivazione del provvedimento; ecc.
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decisione della causa comunitaria (si avrebbe cioè una ipotesi di sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., che si applica anche al processo amministrativo)? Pongo queste questioni per dare una prima idea della notevole complessità (della stessa governance) del Meccanismo di vigilanza unico. 4. Provvisorie conclusioni. – È tempo di chiudere il mio intervento. Per farlo vi offro le uniche conclusioni delle considerazioni sin qui fatte che considero non troppo opinabili. Esse sono due. Prima conclusione: la macchinosità della governance del Meccanismo di vigilanza unico, o Single Supervisory Mechanism che dire si voglia, è tale da fare ulteriormente lievitare la già complessa governance delle banche a livelli che mi paiono non ragionevoli e che potrebbero essere non sostenibili anche da un punto di vista strettamente economico dalle stesse banche (e penso per esempio alle meno significative tra le significative). Seconda conclusione: gli spazi di intervento delle autorità di vigilanza nella materia della corporate governance bancaria rimangono così significativi e penetranti da consentire ancor’oggi una forma di bank government. Siamo dunque al governo pubblico di un sistema creditizio composto però esclusivamente da privati. Almeno in Italia, le banche sono tutte divenute private (solo l’Istituto per il credito sportivo è rimasto banca pubblica) e la recente disciplina di risoluzione e gestione delle crisi delle banche ha rafforzato l’idea che il rischio dell’investimento nel finanziamento delle banche non può essere sopportato dal pubblico. Ma non credo che questo sistema di governo pubblico degli investimenti privati possa funzionare. Il rischio è quello di non trovare più chi sia disposto ad investire in imprese senza poterle in realtà governare e organizzare con quel minimo di autonomia che giustifichi il rischio dell’investimento: è troppo facile fare le barricate con i mobili degli altri.
Presidente Grazie anche a Mario Stella Richter per le preziose e approfondite considerazioni. Parto dalla coda del suo discorso per raccontare una confidenza fattami in ambienti Banca d’Italia riguardo ai “provvedimenti” della Banca Centrale Europea. Pare che la BCE si rivolga alla Banca Centrale Nazionale scrivendo semplici e-mail senza neanche specifica
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indicazione del mittente: se ciò corrisponde al vero, mi pare che molta strada dobbiamo ancora percorrere per costruire procedimenti e provvedimenti che, nell’ambito del Sistema di supervisione europeo, abbiano il crisma della correttezza giuridico-formale. Consentitemi anche una considerazione riguardo alla tendenza alla riduzione dei modelli giuridici per l’esercizio dell’attività bancaria. Personalmente credo che le ragioni dell’impoverimento dei modelli siano essenzialmente tre: 1) traspare, anche da alcuni documenti ufficiali, l’esigenza della Vigilanza europea di semplificare il proprio lavoro; è come se le Autorità europee dicessero noi dobbiamo vigilare in tutta Europa, pertanto, vogliamo avere a che fare con modelli organizzativi omogenei, meglio ancora con un unico modello, perché così operando noi potremo applicare il nostro modellino preconfezionato e verificare se l’operatività concreta della singola banca corrisponda al modellino. In buona sostanza la riduzione dei modelli è frutto dell’esigenza di ridurre i costi della vigilanza. 2) In secondo luogo, l’unico modello (con sacrificio di quello cooperativo che è appena tollerato e, in ogni caso, recessivo) è quello della società per azioni: il tipo spa è privilegiato principalmente perché semplifica la ricapitalizzazione delle banche, il punto è evidente nelle leggi italiane di riforma delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo. 3) In terzo luogo, il modello unico tende a essere ulteriormente circoscritto, infatti, il vero punto di riferimento non è la società per azioni ma la spa quotata. Quest’ultima non solo facilita la ricapitalizzazione ma consente anche, in caso di risoluzione di una banca, di rispettare più agevolmente il principio (ricordato da Angelici nella sua introduzione) per cui non bisogna trattare gli azionisti e gli altri creditori in modo peggiore di quanto avverrebbe se si procedesse alla liquidazione: Si tratta di un principio di difficile applicazione, come ci ha ricordato Carlo, perché nella risoluzione si dovrà procedere a una valutazione ex ante. Qualora, tuttavia, la banca in risoluzione fosse una quotata, la valutazione sarebbe un po’ più semplice trovando un punto di riferimento nei valori espressi dal mercato di borsa. A tale riguardo quello che sta accadendo in termini di fusione delle ex banche popolari e di quotazione dei nuovi soggetti è rappresentativo della tendenza.
Interesse sociale e governance bancaria Giuseppe Guizzi 1. Indagare quale sia nelle società bancarie il ruolo riservato agli amministratori, quali gli obblighi e consequenzialmente i poteri, e in che senso essi eventualmente differiscano da quelli spettanti agli ammi-
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nistratori nelle società per azioni di diritto comune è compito articolato e complesso, e certo non facile da assolvere. Di fronte ad una disciplina che si presenta estremamente puntuale e che si scandisce in molteplici prescrizioni, in larga parte affidate alla normativa di rango secondario quale poi si esprime nelle Disposizioni di Vigilanza della Banca d’Italia (Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 e successive modificazioni), il rischio è infatti di indulgere in una minuta analisi di dettaglio1. Poiché un simile approccio sarebbe non solo poco utile, ma anche, e soprattutto, alquanto noioso, nel limitato tempo del mio intervento vorrei provare a seguire un diverso itinerario, e così ragionare di un tema certamente più ampio e generale, e che si risolve nel chiedersi quale sia e come si identifichi, nell’ambito delle società bancarie, l’interesse sociale. Un tema, questo, che si colloca a monte del problema specifico affidatomi, ma che all’evidenza ne condiziona la soluzione, giacché se si muove dalla premessa – che costituisce un topos immancabile della giurisprudenza formatasi in tema di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori (di banche e non), non meno che di quella, sempre più copiosa, in tema di sanzioni amministrative comminate agli amministratori di società bancarie per violazione delle regole comportamentali imposte dall’Autorità di vigilanza – che il termine di riferimento della condotta dei soggetti che ricoprono funzioni di amministrazione è appunto la realizzazione dell’interesse sociale, costituisce inevitabile corollario che è solo dalla puntuale definizione di quest’ultimo che si potranno trarre precise indicazioni sui doveri caratterizzanti la funzione
1 Il rischio, così come il problema dell’eccesso di regolazione, è efficacemente segnalato da Portale, La corporate governance delle società bancarie, in Riv. soc., 2016, p. 48. Per una sintetica analisi, nel quadro normativo antecedente alle rilevanti modifiche apportate dal d.l.gs. 72 del 12 maggio 2015 in attuazione della direttiva 2013/36/UE (la c.d. CRD IV), cfr. Abbadessa, L’amministrazione delle società bancarie secondo il sistema tradizionale, in Aa. Vv., La governance delle società bancarie, a cura di Di Cataldo, Milano, 2014, p. 7 ss., nonché, con particolare riferimento alla disciplina dettata dalle Disposizioni di Vigilanza, Fiamma, sub art. 53, in Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Costa, Torino, 2013, I, p. 579 ss.; Lemme, Le disposizioni di vigilanza sulla governance delle banche: riflessioni a tre anni dall’intervento, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, p. 705 ss. Per un’analisi, invece, del sistema come tratteggiato dalla direttiva, prima della sua attuazione cfr. i contributi raccolti in Aa. Vv., Il governo delle banche, a cura di Principe, Milano, 2015, e, a valle della promulgazione del decreto delegato che la ha recepita, cfr. Cicchinelli, Il governo dell’impresa bancaria (Riflessioni a margine del decreto legislativo n. 72 del 2015), in Riv. dir. comm., 2016, II, p. 423 ss.
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loro affidata, e quindi sui limiti ai poteri strumentali al suo espletamento, e così, allora, provare ad abbozzare una risposta all’intrigante questione sottesa al titolo di questo seminario: se sia possibile predicare o no una qualche permeabilità, in punto di assetti organizzativi, ed allora anche di regole di governance, tra la società per azioni di diritto comune e la società per azioni bancaria2. 2. Proprio perché l’indagine si snoda attraverso il confronto tra i due modelli, occorre prendere innanzitutto brevemente posizione sulla questione di vertice – eternamente ricorrente ed eternamente irrisolta3
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Un problema, questo, che si è d’altronde posto, specie all’indomani della promulgazione della CRD IV, anche in altri ordinamenti: cfr., nell’esperienza tedesca, per l’idea che alla luce del nuovo quadro normativo si verrebbe delineando un autentico “Bankengesellschaftsrecht” originato dalla combinazione di «Normen privatgesellschaftsrechtlicher, öffentlichrechtlicher organisatorischer und aufsichtrechtlicher Herkunft» Langenbucher, Bausteine eines Bankengesellschaftsrecht. (Zur Stellung des Aufsichtsrats in Finanzinstituten), in ZHR, 2012, p. 652 ss., in specie, p. 663; ma nel medesimo senso cfr. anche Hopt- Wohlmannstetter (Hrsg)., Corporate Governance von Banken, München, 2011, passim; Binder, Vorstandshandeln zwischen öffentlichem und Verbandsinteresse (Pflichten- und Kompetenzkollisionen im Spannungsfeld von Bankaufsichts- und Gesellschaftsrecht), in ZGR, 2013, p. 760 ss. 3 È difficile anche solo tratteggiare una bibliografia sul tema. Imprescindibile punto di partenza per l’indagine è rappresentato, in ogni caso, ancora oggi dai saggi di Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune dei soci, già in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 1145, ss. e che si legge in Studi in tema di società, Milano, 1952, p. 151 ss. e di Mignoli, L’interesse sociale, in Riv. soc., 1958, p. 725 ss. e dalla monografia di Jaeger L’interesse sociale, Milano, 1964, passim (e del quale si veda anche L’interesse sociale rivisitato (quarant’anni dopo), in Giur comm., 2000, I, p. 795 ss.). Per una ripresa recente dei termini del dibattito si vedano anche i contributi raccolti in AA. VV., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders (In ricordo di Pier Giusto Jaeger), Milano, 2010, passim - ed in particolare, Denozza, L’interesse sociale tra «coordinamento» e «cooperazione», p. 10 ss.; Angelici, La società per azioni e «gli altri» (ivi p. 45 ss.); Libonati, Riflessioni su «l’interesse sociale» di Pier Giusto Jaeger, (ivi p. 75); Calandra Bonaura, Funzione amministrativa e interesse sociale (ivi p. 101 ss.) - nonché, per i dubbi sulla attuale possibilità di individuarne un’accezione unitaria suscettibile di essere assunta come criterio ordinante le problematiche dell’agire societario, Denozza, Verso il tramonto dell’«interesse sociale»?, in La dialettica degli interessi nella disciplina della società per azioni, a cura di Paciello, Napoli, 2011, p. 77 ss. e Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, Milano, 2012, in specie p. 90 ss., nonché più specificamente Id., Interesse sociale e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2012, I, p. 573 ss. Ma il senso di insoddisfazione per l’incapacità di siffatta nozione ad operare quale criterio ordinante sembra essere oramai una costante anche fuori dei confini italiani: cfr. ad esempio, per la considerazione che l’interesse sociale è dotato solo di una «apparente unité sémantique, alors qu’il dissimule un contenu difficilement saisissable» e che in
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– consistente nel cercare di definire cosa sia, e come si identifichi, l’interesse sociale nelle società per azioni di diritto comune, e quindi inevitabilmente anche provare a prendere posizione – dinnanzi al costante oscillare del pendolo delle interpretazioni tra concezioni contrattualistiche e concezioni istituzionalistiche, per impiegare due oramai classiche formule di sintesi – sul se ed in che misura possa configurarsi un interesse sociale come qualcosa di altro e diverso dall’interesse dei soci. Ebbene, sotto questo profilo, seppure con un inevitabile grado di approssimazione – e riprendendo quanto già da altri ben più autorevolmente osservato4 – credo che questa contrapposizione sia mal posta. Credo, infatti, che la concezione che siamo soliti chiamare istituzionalistica, ossia l’idea che nella gestione dell’impresa gli amministratori debbano perseguire l’interesse della società e che quest’ultimo, essendo la società autonomo soggetto di diritto, non sia necessariamente rappresentato dalla somma degli interessi dei soci, sia il riflesso di un’esasperazione concettualistica, e della mancata adeguata considerazione che l’autonoma soggettività della società assume, come ci insegnava già Ascarelli5, un rilievo puramente strumentale. Insomma, credo che questa concezione vada superata sottolineando che, in definitiva, il punto riferimento della gestione degli amministratori, e a cui deve essere funzionalizzata la loro attività, non può essere un interesse astratto della società, interesse che in fondo non è che un’ipostasi, ma deve essere evidentemente pur sempre l’interesse dei soci6. E tuttavia, pur movendo da questa premessa, credo che sia egualmente difficile accedere a un’impostazione puramente contrattualistica, che identifichi cioè l’interesse sociale con il c.d. interesse comune a tutti i soci. Gli è, infatti, che sul punto mi sembrano davvero cogliere nel segno le considerazioni di chi – movendo dalla constatazione della
realtà «le dépassement des conflits d’intérêts par l’intérêt social consiste précisément à nier la réalité conflictuelle», attraverso un processo di negazione che «s’exprime par l’instauration d’une fiction juridique», Bennini, La procéduralisation, du droit des sociétés, in Rev. trim. droit commercial, 2010, p. 499. 4 Cfr. per più ampi riferimenti Angelici, La società, cit., p. 91 ss. 5 Si veda ad esempio Ascarelli, Cooperativa e società. Concettualismo giuridico e magia delle parole, già in Riv. soc., 1957, p. 397 ss., e che si legge ora anche in Problemi giuridici, II, Milano, 1959, p. 379 ss. 6 Per questa impostazione, nell’ambito di una rivisitazione di un tema classico quale la responsabilità degli amministratori, cfr. la monografia Serafini, Responsabilità degli amministratori e interessi protetti, Milano, 2013, passim.
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naturale eterogeneità degli interessi, e prima ancora delle motivazioni che inducono i soci a partecipare alla società – sottolinea la stessa difficoltà di isolare, anche in una visione che ne accentui la dimensione e il profilo patrimoniale, un interesse dotato di univoca capacità distintiva e capace di accomunarne le diverse posizioni. In questo senso del resto la oramai classica contrapposizione tra i soci per i quali la partecipazione ha significato come espressione di un interesse imprenditoriale, e quindi strumento per esercitare il relativo potere, e soci per i quali ha un significato tipicamente finanziario, come strumento per assicurare un certa remunerazione ad un investimento – contrapposizione che assume oramai una ben precisa rilevanza giuridica, e, in seguito al rafforzamento della autonomia statutaria nella conformazione del contenuto della partecipazione sociale pure nell’ambito delle società chiuse, anche al di fuori del contesto di quelle che fanno appello al mercato del capitale di rischio – dimostra assai bene la difficoltà di identificare il c.d. interesse del socio uti socius, proprio per l’assenza di un unico ed identico riferimento soggettivo7. Dibattendosi in questa alternativa è allora quasi inevitabile approdare ad una concezione che – nel valorizzare anche il profilo di disciplina, oggi consacrato dalla previsione dell’art. 2380-bis c.c., che rimarca la centralità degli amministratori nella gestione e il loro potere sostanzialmente discrezionale nel compimento degli atti strumentali al conseguimento dell’oggetto sociale, ossia per la realizzazione dell’attività imprenditoriale – ricostruisce l’interesse sociale in un’ottica essenzialmente procedimentale, ossia in un’ottica che demanda agli amministratori il
7 Sul punto si veda ad esempio Libonati, Il governo del consiglio di amministrazione di società per azioni, già in Aa. Vv., Diritto, mercato ed etica dopo la crisi. Omaggio a Piergaetano Marchetti, Milano, 2010, p. 371 ss., che ora si legge anche in Scritti giuridici, I, Milano, 2013, p. 471 ss., che notava (p. 474 nota 4), come «la formula che l’interesse sociale è l’interesse del socio come socio è utile a circoscrivere l’obiettivo che dovrebbe essere proprio ad ogni socio e la missione che si affida agli amministratori, e per identificare concettualmente i confini entro i quali i soci e gli amministratori possono/ devono muoversi: ma la scelta dell’azione da seguire non trova nella figura indicata conformazione precisa, sicché si perviene pur sempre a un giudizio di valore sottoposto a variabili numerose». In termini ancora più netti cfr. Angelici, La società, cit., p. 96 ss., per il quale anche l’impostazione che si è soliti definire contrattualista implica, in definitiva, «la costruzione concettuale di un fictional shareholder» e perciò «pone il problema della scelta dei materiali sulla cui base effettuarla», sicché «per evitare la finzione di un interesse riferibile alla società in quanto “persona”», si finisce per rispondere con la «“finzione” di un azionista che non necessariamente in concreto esiste».
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compito di ponderare i diversi interessi di cui i soci sono portatori e, auspicabilmente, di comporli, anche se del caso tenendo conto di altri interessi8. In questa prospettiva l’interesse sociale finisce allora per essere null’altro che quello che verrà fissato dagli amministratori, all’esito del descritto procedimento di selezione e ponderazione tra le diverse opzioni di volta in volta disponibili, nell’esercizio del potere di gestione loro affidato. Un potere discrezionale – ed è questo il punto decisivo – che, tuttavia, non è senza limiti, perché va comunque esercitato in ossequio a una regola oggettiva di azione che non può prescindere dalla considerazione che quello della società per azioni è un congegno organizzativo di un’attività economica nella quale si impiega ricchezza affinché, almeno in thesi, si produca ricchezza maggiore. Una prospettiva, questa, che implica, pertanto, che il potere discrezionale degli amministratori nel fissare quale sia l’interesse da perseguire non può essere esercitato prescindendo del tutto da quest’aspetto caratterizzante sul piano funzionale
8 In questo senso, con estrema chiarezza, ancora Angelici, La società, cit., p. 101, che nell’osservare come abbia poco senso «ricercare un “interesse”, se non altro perché è assente la possibilità di individuare un suo unitario riferimento soggettivo» suggerisce di spostare l’analisi sul «tipo di equilibrio cui tendere nelle ipotesi di conflitto» e poi soprattutto sui «processi decisionali medianti i quali perseguirlo». Ma si tratta di un’impostazione che è seguita oramai anche in altri ordinamenti a noi vicini: cfr. ad esempio, nell’ordinamento tedesco, per l’idea che la nozione di interesse sociale si identifichi attraverso la combinazione di inhaltliche und prozedurale Aspekte, e che dunque un rilievo centrale nella sua determinazione assuma il dialektischen Diskussionsprozess destinato a svolgersi in seno al consiglio tra gli amministratori, al fine die divergierende Interessen gegeneinander abzuwägen und danach zu einer Entscheidung zu gelangen, cfr., a partire dalle riflessioni di Raisch, Zum Begriff und zur Bedeutung des Unternehmensinteresses als Verhaltensmaxime von Vorstrand und Aufsichtsratsmitgliedern, in Strukturen und Entwicklungen im Handels-, Gesellschafts-und Wirtschaftsrecht (Festschrift für Wolfgang Hefermehl zum 70. Geburtstag), München, 1976, p. 347 ss., in particolare Hopt, Aktionärskreis und Vorstandsneutralität, in ZGR, 1993, p. 534 ss.; per un riesame complessivo di tali questioni cfr. Lohse, Unternehmerisches Ermessen (Zu den Aufgaben und Pflichten von Vorstand und Aufsichtsrat), Tübingen, 2005, passim, in specie p. 182 ss. Nell’esperienza francese, per l’idea che «l’intérêt social est aujourd’hui très fortement procéduralisée» e che, pertanto, la «qualité des procédures décisionnelles devrait-elle jouer un rôle important non sur l’intérêt social, mais sur la décision prise par la société qui, grâce à elle devrait correspondre à cet impératif» Poracchia-D. Martin, Regard sur l’intérêt social, in Rev. sociétés, 2012, p. 475 ss.; Bennini, La procéduralisation cit., loc. cit. similmente, nell’ordinamento spagnolo, Sànchez Calero Guilarte, El interés social y los varios intereses presentes en la sociedad anónima cotizada, in Rev. derecho mercantil, 2002, p. 1653 ss.
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la forma societaria e che quindi, in concreto, comporta che nell’esercizio delle proprie prerogative e competenze gestorie gli amministratori non possono disattendere la regola di azione che vuole che la ricchezza investita sia non solo conservata, ma anzi anche auspicabilmente incrementata9. Insomma, nelle società per azioni come le concepisce e le disciplina il codice civile mi sembra emerga in maniera piuttosto chiara che agli amministratori non è precluso certo tenere conto di “altri interessi” – e così allora non è precluso dare rilevanza neppure a quelli dei c.d. stakeholders, siano essi i consumatori dei prodotti dell’impresa o piuttosto i suoi dipendenti o ancora i creditori, né è precluso porre attenzione a che l’esercizio dell’attività economica si esprima secondo una logica di sviluppo eticamente responsabile e socialmente sostenibile10 – ma certamente la considerazione di questi ulteriori interessi resta sempre e solo possibile e non già anche dovuta, mentre in nessun caso sarà possibile per gli amministratori – a pena di non adempiere correttamente al proprio mandato, esponendosi al rischio di una revoca per giusta causa11
9 In questo senso ad esempio Angelici, La società, cit., p. 58 ss., che sottolinea come, assumendo l’interesse degli azionisti rilievo su un piano esclusivamente economico, ed anzi monetario, esso si pone «essenzialmente come una sorta di linea di confine: nel senso che la considerazione di interessi altri» da parte degli amministratori «deve risultare con esso compatibile, ovvero per meglio esprimersi, non pregiudicarlo»; in termini analoghi Libonati, Il governo, cit., p. 478 s. che pur riconoscendo che «l’azione dell’impresa certamente deve essere riconosciuta sensibile agli interessi di chi ci lavora, o di chi la finanzia restandovi estraneo, o di chi ne consuma i prodotti» sottolinea però come non possa postularsi la possibilità «di imporre» a chi la gestisce «di tenere conto in primis di interessi generali e non di chi nell’impresa abbia investito .. perché così si tradirebbe la premessa di base, trattarsi di iniziativa privata, e si inficerebbe lo stesso processo, in quanto difficilmente si incentiva l’investimento, obiettivo che tutti vogliono, invece, prioritario, se poi le istanze dell’investitore vengono messe in non cale». 10 Ossia, in una parola, che si conformi ai dettami della dottrina della c.d. corporate social responsibility. Per un inquadramento generale del tema, e in particolare per il ruolo che essa può giocare anche nel dibattito intorno alla ricostruzione della nozione di interesse sociale, cfr. Libertini, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, p. 23 ss.; Denozza, Responsabilità dell’impresa e «contratto sociale». Una critica, in Aa. Vv., Diritto, mercato ed etica dopo la crisi. Omaggio a Piergaetano Marchetti, Milano, 2010, p. 270 ss.; Embid Irujo-P. del Val Talens, La responsabilidad social corporativa y el Derecho de sociedades de capital: entre la regulación legislativa y el soft law, Madrid, 2016, passim. 11 Nel senso che un esercizio del potere di gestione in forma programmaticamente orientata ad escludere l’aumento di valore della partecipazione mentre potrebbe non rilevare come possibile fonte di responsabilità (che si ricollegherebbe soltanto alla
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– assumere scelte che disattendano programmaticamente le aspettative dei soci ad una remunerazione del loro investimento12. 3. Se quello descritto è il limite non superabile per gli amministratori nella gestione delle società azionarie di diritto comune, rispetto alle società azionarie esercenti l’attività bancaria il discorso sembra obiettivamente atteggiarsi in termini molto diversi. Gli è, infatti, che se si va alla ricerca di quale sia la regola di condotta a cui gli amministratori debbono uniformare la loro azione ci si accorge di come essa non si esaurisca solo in quella sopra rammentata, ad essa affiancandosene altra, e segnatamente quella che impone loro di assicurare «la sana e prudente gestione» dell’impresa bancaria. Un principio, questo, che non può più dirsi costituire solo, secondo quanto prevede l’art. 5 t.u.b., il criterio che deve orientare l’esercizio delle potestà attribuite, in funzione della tutela dell’interesse alla stabilità del sistema, all’Autorità di vigilanza13, ma rappresenta anche il termine di riferimento della stessa condotta degli amministratori, come emerge del resto in maniera molto chiara, seppure indiretta, dall’art. 26 t.u.b., come modificato dal d.lgs. n. 72 in attuazione della CRD IV, là dove – nell’individuare i requisiti soggettivi che questi ultimi debbono soddisfare per poter ricoprire l’incarico – richiede, tra gli altri, che essi abbiano adeguata competenza e correttezza e siano in grado di dedicare «il tempo necessario al [suo] efficace espletamento, in modo da garantire la sana e prudente gestione della banca»14.
gestione dispersiva di tali valori) rileva sempre come causa di revoca, cfr. G. Ferri jr., Le deleghe interne, in Aa. Vv., Amministrazione e amministratori di società per azioni, a cura di Libonati, Milano, 1995, p. 187 ss. 12 In questo senso si veda in particolare Angelici, La società, cit., p. 49 ss., per il quale la regola a cui gli amministratori debbono necessariamente uniformarsi, e che non possono disattendere, è appunto quella che impone loro – per usare la formula impiegata dall’art. 2497 c.c. nel contesto specifico dell’esercizio del potere di gestione dell’impresa organizzata in forma di gruppo di società (ma per l’Autore dotata di potenzialità espansiva, e dunque idonea a caratterizzare in via generale il limite della discrezionalità dei preposti nella gestione dell’impresa organizzata in forma societaria) – di astenersi dal compiere scelte che «pregiudichino il valore e la redditività della partecipazione». Per uno sviluppo di queste prospettive cfr. Maugeri, Partecipazione sociale e attività di impresa, Milano, 2010, passim, in specie p. 39 ss.. 13 Per riferimenti alla portata della disposizione cfr. Antonucci, sub art. 5, in Aa. Vv., Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Costa, Torino, 2013, I, p. 35 ss. 14 Ed appare interessante anche notare come - a differenza del riferimento alla necessità che gli amministratori dispongano di tempo adeguato all’esercizio dell’incarico,
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Ebbene, già dal punto di vista squisitamente semantico appare intuitivo che la finalizzazione dell’azione degli amministratori alla sana e prudente gestione – che, diversamente da quanto può affermarsi per la realizzazione degli “altri interessi” nelle società di diritto comune, non rappresenta semplicemente uno degli obiettivi ulteriori che possono, ma non debbono, essere perseguiti, il suo raggiungimento ponendosi anch’esso su di un piano di doverosità – introduce un elemento di tensione con la finalità dell’azione degli amministratori quale concepita dalla disciplina generale delle società azionarie, il concetto di prudenza denotando il carattere necessariamente avverso al rischio dell’attività bancaria15, e potendo allora legittimare scelte che parzialmente contraddicono la prospettiva tracciata che vorrebbe che nell’esercizio della discrezionalità imprenditoriale le scelte tengano conto dell’aspettativa dei soci alla remunerazione del loro investimento, che è retto invece da una logica tipicamente speculativa. Ma la tensione tra le due regole si acuisce e si accresce se dal piano semantico l’attenzione si sposta alla ricerca del significato giuridico che assume il concetto di gestione sana e prudente16. Sotto questo profilo
il quale altro non è se non traduzione a livello di norma di legge di un principio già vigente in diritto interno, sia pure in forza della normazione di rango secondario (tale requisito era già richiesta dalle Disposizioni di Vigilanza nella versione del 2008: e sul punto si veda Nuzzo, sub art. 26, in Commento al Testo Unico, cit., I, p. 214 ss., in specie p. 222; Abbadessa, L’amministrazione, cit., p. 9)– il rilievo della strumentalità dei requisiti prescritti per ricoprire l’incarico al conseguimento della finalità della sana e prudente gestione rappresenta un autentico quid novi, oltretutto neppure imputabile alla direttiva, l’art. 91 non facendone, per vero, alcuna menzione. Nel senso che «there is a mandatory different orientation for the board of directors of a bank – namely, to manage the bank not only or primarily in the interest of the bank’s shareholders, but evenly or even primarily in the interest of the debt holders» Hopt, Better Governance of Financial Institutions, ECGI Working Paper Series in Law Working Paper n. 207/2013. 15 Si veda in questo senso, anche per indicazioni riassuntive, in particolare Lemme, Amministrazione e controllo nella società bancaria, Milano, 2007, in specie p. 47 ss. 16 Concetto da ascrivere – come ha ben sottolineato Maugeri, Fusioni e scissioni di società bancarie, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, I, p. 18 ss., in specie p. 35 ss. – al paradigma dei «concetti obiettivo-normativi», il cui senso «si riempie per effetto di una valutazione (individuale) compiuta dal soggetto chiamato ad assumere la decisione prevista dalla prescrizione legislativa; ma il giudizio rimesso all’organo decidente non equivale in tal caso ad apprezzamento assolutamente discrezionale», giacché «rinvia a (ed implica quindi in fondo un atto cognitivo delle) regole o valutazioni proprie di un dato gruppo sociale, di un determinato ceto professionale o di un organo particolarmente qualificato dal punto di vista tecnico» sicché «entro questi limiti diviene possibile parlare di “obiettività” dell’ apprezzamento compiuto da chi decide».
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non mi sembra si possa considerare affatto casuale che – come notato da chi si è preoccupato di ricostruire la storia del concetto17 – l’espressione sia stata utilizzata per la prima volta dal legislatore comunitario nel contesto della seconda direttiva banche, e che essa sia stata innanzitutto utilizzata per definire il parametro di giudizio a cui dovevano attenersi le Autorità di vigilanza allorché venivano chiamate a decidere se concedere o meno l’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni rilevanti, e più precisamente per indicare che l’autorizzazione non avrebbe potuto essere concessa qualora si fosse stimato che l’influenza esercitata dai soci destinati ad acquisirle sarebbe potuta risultare di «ostacolo alla sana e prudente gestione della banca». Tale circostanza – nel denotare che «la gestione non è sana quando non è autonoma dai soci»18 – sembra, infatti, non solo e non tanto rimarcare come le due regole di condotta, fissate dal diritto speciale e dal diritto comune, si muovano su piani diversi e non sovrapponibili, ma anche e soprattutto segnalare come nelle società per azioni bancarie si assista ad un rovesciamento di impostazione rispetto a quello corrente. Mentre nel modello codicistico di società per azioni il potere di gestione dell’impresa, per quanto oggi riservato alla competenza esclusiva degli amministratori, secondo la formula dell’art. 2380-bis c.c., comunque non può spingersi sino al punto da ignorare le attese dei soci – sicché nell’attività di mediazione tra i diversi interessi che essi possono legittimamente prendere in considerazione, è appunto l’interesse dei soci a una gestione remunerativa che rappresenta il limite alla discrezionalità gestoria – nelle società bancarie, all’opposto, tale interesse diviene recessivo19, e comunque subordinato all’interesse alla sana e prudente
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Il riferimento è in particolare a Porzio, La sana e prudente gestione, in Studi per Franco Di Sabato, I, Napoli, 2009, p. 683 ss.; ma già prima si veda, Minervini, Dal decreto n. 481/92 al testo unico in materia bancaria e creditizia, in Giur. comm., 1993 I, p. 825 ss. 18 Così testualmente sempre Porzio, La sana e prudente, cit., p. 684. 19 Per un’impostazione analoga, e più precisamente nel senso che «la disciplina della società bancaria vale a comprimere, in una con le prerogative dei soci, lo stesso significato di strumento dell’investimento che caratterizza in generale la società “ordinaria”» piuttosto parallelamente accentuando «la funzione della società medesima in termini di forma di organizzazione dell’impresa» cfr., Ferri jr, La posizione dei soci di società bancaria, in corso di pubblicazione (consultato in dattiloscritto per cortesia dell’Autore); sul tema dei riflessi che l’osservanza del principio della sana e prudente gestione può determinare sul piano della conformazione dei diritti dei soci si vedano, seppure nel contesto dell’analisi di un problema specifico, anche le convincenti
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gestione della banca, sicché saranno legittimamente perseguibili anche le scelte imprenditoriali che, in quanto finalizzate al conseguimento di tale obiettivo, si indirizzino, se del caso anche programmaticamente, verso una mera conservazione degli investimenti dei soci e non anche orientati a garantirne la redditività. Nelle società bancarie si assiste, in altre parole, non solo a un allontanamento dei soci rispetto alla gestione – che sotto questo profilo è oramai un dato caratterizzante anche la società per azioni di diritto comune20 – ma alla perdita della centralità del loro interesse come termine di riferimento della stessa, con il conseguente ulteriore allentamento delle loro già ridotte prerogative. E infatti, nelle società per azioni di diritto comune ai soci, pur nella riduzione delle loro competenze, resta tuttavia almeno affidata quella primaria di valutazione della condotta degli amministratori, e soprattutto resta loro riservato, in via sostanzialmente esclusiva, il potere di procedere alla revoca degli stessi, allora esercitabile in primis quando essi non curino adeguatamente il loro interesse ad un gestione secondo condizioni di redditività21 – il che è congruente a un sistema di iniziativa privata, in cui l’istanza di chi investe «deve essere sentita e tenuta in considerazione in via prioritaria»22. Nelle società bancarie, invece, all’opposto, oramai anche questo potere si affievolisce, al punto da potersi ammettere persino – ed è forse il tratto di novità più dirompente del nuovo assetto tracciato con l’attuazione della direttiva – che la revoca degli amministratori possa avere luogo senza il coinvolgimento dei soci, ma direttamente da parte dell’Autorità di vigilanza. Un potere, questo di revoca degli amministratori, il cui esercizio non è più legato, come in passato, all’ipotesi – in definitiva estrema e comunque patologica – della ricorrenza delle gravi irregolarità gestionali suscettibile di giustificare la sottoposizione della
considerazioni di Maugeri, Banche popolari, diritto di recesso e tutela costituzionale della proprietà azionaria, in Riv. soc., 2016 (in corso di pubblicazione), in specie pag. 25 delle bozze (consultate per la cortesia dell’Autore). 20 Per indicazioni riassuntive sia permesso rinviare a Guizzi, Riflessioni intorno all’art. 2380-bis, in Aa. Vv., Società, banche e crisi di impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, II, Torino, 2014, p. 1043 ss. 21 Sulla revoca degli amministratori di società per azioni, sul significato dell’attribuzione di tale potere ai soci e quindi sul carattere del tutto eccezionale delle previsioni di modalità alternative di revoca, si veda M. Rossi, In tema di revoca degli amministratori di società per azioni, in Le società nel processo, a cura di Consolo - Guizzi - Pagni, Torino, 2012, p. 63 ss., nonché, in una prospettiva più ampia e con riferimento all’intero sistema delle società, Id, La revoca degli amministratori di s.r.l., Milano, 2012, passim. 22 Così Libonati, Il governo, cit., p. 479.
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banca ad amministrazione straordinaria ai sensi dell’art. 70 t.u.b., ma puramente e semplicemente alla valutazione che la «permanenza in carica sia di pregiudizio alla sana e prudente gestione» (così si esprime l’art. 53-bis, lett. e) t.u.b., appunto introdotto dal d.lgs. 72/2015)23. Insomma, mi sembra che il quadro normativo attuale sia sufficientemente chiaro nel senso che è la sana e prudente gestione a rappresentare il nuovo paradigma per la concretizzazione dell’interesse sociale24, ovvero, se si preferisce, che esso è il vero limite, sovraordinato allo stesso interesse dei soci alla remunerazione del loro investimento, alla discrezionalità gestoria gli amministratori e che gli stessi non possono in alcun modo disattendere. Non diversamente, dunque, da quanto la più autorevole dottrina25 poteva scrivere nel vigore della legge bancaria del 1933, e forse addirittura con maggiore nettezza di quanto non fosse possibile in passato, ancora oggi può dirsi che «l’interesse sociale nella società bancaria, a differenza di quanto accade nelle normali società per azioni, è un interesse ipostatizzato, che si impone ai soci e agli organi sociali e ne condiziona l’azione»26; potendosi, allora, forse solo discutere se si tratti (i) «dell’interesse dell’impresa in sé considerata, nella sua funzione che riguarda anche l’interesse pubblico»27 – in tal modo secondando quell’idea di una funzione (anche) sociale dell’attività bancaria così vividamente espressa, se mi è consentita una divagazione letteraria, dalla penna di Balzac nel drammatico colloquio tra il profumiere parigino César Birotteau e il banchiere Adolphe Keller e nelle loro differenti visioni del ruolo delle banche28 – ovvero, come in maniera molto
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Per una prima analisi del potere di removal attribuito all’Autorità di vigilanza, e per una ricostruzione del suo significato sistematico in termini analoghi a quelli esposti nel testo, cfr. Cicchinelli, Il governo dell’impresa bancaria, cit., p. 449 ss. 24 Sotto questo profilo non mi sento perciò di condividere l’idea espressa da Porzio, La sana e prudente gestione, cit., p. 689 secondo cui tale nozione avrebbe esaurito il suo ciclo. All’opposto tale nozione acquista nuovo spessore proprio nella prospettiva privatistica di individuazione del parametro che concorre a ricostruire il contenuto della prestazione gestoria richiesta agli amministratori. 25 Il riferimento è a G. Ferri, La posizione dell’azionista nelle società esercenti un’attività bancaria, già in Banca, borsa, tit. cred., 1975, I, ora anche in Scritti Giuridici, II, Napoli, 1990, p. 611 ss., da cui si cita. 26 Così testualmente G. Ferri, La posizione, cit., p. 614. 27 Così ancora G. Ferri, La posizione, cit., p. 615 28 «Birotteau, esasperato, avrebbe voluto dire qualcosa sull’avidità dalla grande banca, sulla sua durezza, sulla sua falsa filantropia; ma fu colto da un dolore così acuto, che a mala pena riuscì a balbettare qualche frase (…) Ho sempre pensato, disse Birotteau, che la banca tradisse la sua missione quando, nel presentare i risultati dei suoi conti,
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convincente si è peraltro di recente sottolineato29, (ii) dell’interesse del risparmio oggettivamente considerato, la cui raccolta presso il pubblico «con obbligo di rimborso» (come si esprime l’art. 10 t.u.b.) costituisce momento essenziale e fondante dell’attività bancaria, e che appunto la sana e prudente gestione protegge, rappresentando una condizione strumentale per poter assolvere l’obbligo suddetto30. 4. Se la logica che deve ispirare l’attività degli amministratori di società bancarie è quella che si è descritta si spiega, allora, non solo il peculiare, diverso atteggiarsi delle regole di governance rispetto a quelle che connotano le società per azioni di diritto comune, non solo la loro maggiore rigidità, ma anche perché i due modelli non sempre possano considerarsi “permeabili” e dunque perché le soluzioni adottate per le prime non sempre siano adattabili ed esportabili alle seconde31.
si compiace di non aver perduto che cento o duecentomila franchi con il commercio parigino, che pure, invece, dovrebbe favorire. Adolphe abbozzò un sorriso e si alzò con un gesto come di un uomo annoiato. Se la banca si preoccupasse di aiutare gli uomini in difficoltà sulla piazza più turbolenta e più disonesta del mondo finanziario, fallirebbe nel giro di un anno. Fa già abbastanza fatica a difendersi dalle circolazioni fiduciarie e dalle cambiali a vuoto, figuriamoci se dovesse anche occuparsi di chi cerca il suo aiuto!» (Honoré De Balzac, Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau, Paris, 1838, nella traduzione italiana di Francesca Spinelli, Milano, 2006). 29 Mi riferisco al saggio di Ferri jr, La posizione dei soci, cit. 30 La sana e prudente gestione che deve orientare l’azione degli amministratori e a cui essi debbono prestare attenzione attiene, però, naturalmente solo all’impresa bancaria loro affidata, sicché l’interesse “altro” da quello dei soci cui essi debbono assegnare prioritaria considerazione non può essere che quello – e soltanto quello– consistente nell’assicurare il rimborso dei prestatori del capitale raccolto per l’esercizio di quella specifica attività. Quel che intendo dire è, insomma, che gli amministratori non mi sembrano, invece, tenuti a osservare il canone della sana e prudente gestione anche in un’ottica di salvaguardia della stabilità del sistema nel suo complesso; una prospettiva, quest’ultima, che allora rileva sempre è solo sul piano delle finalità pubblicistiche della vigilanza, e che non mi sembra poter costituire un obiettivo cui gli organi sociali debbano funzionalizzare la propria azione. Per un rilievo analogo, e in particolare per l’osservazione che «der Vorstand im Rahmen seines Leitungsermessens öffentliche Belange zu berücksichtigen berechtigt, aber nicht zu einer bestimmten Priorisierung insoweit verpflichtet sei», atteso che anche nell’ambito di una concezione allargata della loro Leitungsermessen, una simile costruzione sarebbe «mit dem Kern der Leitungsaufgabe (…) konzeptionell unvereinbar» cfr. Binder, Vorstandshandeln zwischen öffentlichem und Verbandsinteresse, cit., p. 793; in termini omogenei a quelli qui espressi si veda Maugeri, Banche popolari, diritto di recesso, cit., p. 33 testo e nota 118. 31 Per un rilievo analogo in ordine allo stretto collegamento tra deroghe al diritto comune delle regole di governance ed esigenze di sana e prudente e gestione, Portale,
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Come detto, gli aspetti suscettibili di essere analizzati potrebbero essere numerosi. Tre mi sembrano essere, tuttavia, quelli particolarmente meritevoli di considerazione, perché essi mi paiono riflettere in maniera sufficientemente chiara la complessità e la diversa gerarchia degli interessi che ho cercato di mettere in rilievo. Il primo profilo che credo sia utile porre in luce è l’accentuazione del momento della collegialità che caratterizza l’amministrazione delle società bancarie. Con ciò intendo alludere non solo, e non tanto, al carattere necessariamente pluripersonale dell’amministrazione32, quanto e soprattutto al fatto che pur riconoscendosi nella delega il modo normale di articolazione della funzione di amministrazione – in ragione delle necessarie esigenze di flessibilità ed efficienza nella gestione dell’impresa – il ricorso ad essa incontra limiti più rigorosi, che la disciplina ordinaria non conosce, rinforzandosi gli ambiti delle decisioni collegiali33: basti pensare, tra tutte, alle previsioni contenute nelle Disposizioni di Vigilanza, ed in particolare a quanto statuito al Titolo IV, Sezione III, § 2.2, che dopo aver sottolineato (lettera d) la necessità che il contenuto delle deleghe sia determinato «in modo analitico, ed essere caratterizzato da chiarezza e precisione, anche nell’indicazione dei limiti quantitativi o di valore e delle eventuali modalità di esercizio», puntualizza sia (lettera b) che è rimessa alla competenza esclusiva del consiglio l’approvazione dell’assetto organizzativo e contabile – e non già la semplice valutazione dell’adeguatezza di un assetto predisposto dagli organi delegati, come prescrive invece l’art. 2381, co. 3, c.c. – sia (lettera e) la maggiore ampiezza delle attribuzioni non delegabili rispetto a quanto previsto per diritto comune, ricomprendendovi anche l’elaborazione dei piani strategici (la cui predisposizione, invece, di nuovo, nelle società di diritto comune è rimessa all’organo delegato, al consiglio essendo riservato in
La corporate governance, cit., in specie p. 55 ss. 32 Cfr. Abbadessa, L’amministrazione, cit., p. 9, che ricorda come anche nelle banche di minime dimensioni, sia preclusa la possibilità di affidare la gestione a un amministratore unico, e ciò «in ossequio al principio, risalente alla prima direttiva per il quale il rilascio dell’autorizzazione all’ente creditizio presuppone che sia assicurata la presenza di almeno due persone che determinino effettivamente l’orientamento della sua attività». 33 Per puntuali osservazioni sul “ridimensionamento” del ruolo dell’amministratore delegato nelle società bancarie si veda Frigeni, Prime considerazioni sulla normativa bancaria in materia di “organo con funzioni di supervisione strategica”, in Aa. Vv., Il governo delle banche, cit., p. 91 ss., in specie p. 98 ss.; nei medesimi termini Cicchinelli, Il governo, cit., p. 435 ss.
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via di principio solo la possibilità di esaminarli). Un maggiore spazio, questo riservato alla collegialità, che allora mi sembra si spieghi proprio tenendo conto che nell’ambito dell’attività bancaria è più ampio il nucleo degli interessi la cui considerazione non solo è possibile ma è doverosa da parte degli amministratori, sicché non solo maggiori sono le esigenze di ponderazione che la collegialità assolve ma esse si pongono tipicamente già nella definizione delle strategie generali di esercizio dell’attività. Il secondo aspetto, al primo in un certo senso connesso, è rappresentato dalla maggiore enfasi che la disciplina di settore pone sul ruolo degli amministratori non esecutivi, e poi in particolare dalla diversa declinazione, rispetto al diritto comune, del dovere di agire in modo informato34. Sotto questo profilo il distacco è, invero, alquanto accentuato, giacché mentre secondo la norma generale posta dall’art. 2381, co. 6, c.c. deve escludersi che gli amministratori privi di deleghe siano tenuti a dialogare con i diversi uffici in cui l’impresa è organizzata, e che abbiano, conseguentemente il potere di acquisire autonomamente da essa informazioni – l’acquisizione di informazioni potendo avvenire solo in consiglio per il tramite dell’amministratore delegato35 – nelle società bancarie
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Così analogamente Frigeni, Prime considerazioni, cit., p. 101 s. Si tratta dell’opinione che può dirsi prevalente in dottrina, e che del resto mi sembra imposta dalla necessità di rispettare anche la lettera della legge: in questo senso, tra i molti, in particolare Abbadessa, Profili topici della nuova disciplina della delega amministrativa, in Aa. Vv., Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, Torino, 2007, 2, p. 491 ss., in specie 501 ss.; Sacchi, Amministratori deleganti e dovere di agire in modo informato, in Giur comm., 2008, II, p. 385 ss.; Calvosa, Poteri individuali dell’amministratore nel consiglio di amministrazione, in Aa. Vv., Amministrazione e controllo delle società. Liber amicorum Antonino Piras, Torino, 2010, p. 356 ss.; Perone, Il potere di informazione degli amministratori nelle società per azioni, in Aa. Vv. Le società nel processo, cit., p. 1 ss.; recentemente ancora Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. A dieci anni dalla riforma del 2003, Torino, 2013, passim; Strampelli, Sistemi di controllo e indipendenza nelle società per azioni, Milano, 2013, p. 47 ss.. Contra, invece, Barachini, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2008, p. 157, secondo il quale la precisazione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 2381 c.c. avrebbe esclusivamente la funzione di un «limite per i delegati, e non per i deleganti»; essa cioè, secondo l’Autore, impedirebbe ai delegati di far circolare selettivamente informazioni al di fuori del consiglio, creando così asimmetrie tra i diversi amministratori non esecutivi, ma non osterebbe, invece, a che questi ultimi possano esercitare autonomamente il diritto ad ottenere informazioni anche senza la mediazione del momento collegiale, e dunque non escluderebbe il loro potere di procedere ad atti individuali di ispezione (ma per le ragioni per cui il rilievo non mi sembra condivisibile sia permesso rinviare a Guizzi, Gestione dell’impresa e interferenze di interessi. Trasparenza, 35
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è di nuovo la normativa secondaria che prescrive che gli amministratori non esecutivi debbano acquisire le informazioni non solo nell’ambito delle riunioni del consiglio e dei comitati endoconsiliari ma anche in via di interlocuzione diretta con i manager e con tutte le funzioni aziendali (così Disposizioni di Vigilanza, Titolo IV, Sezione IV, § 2.2, lettera, n. 1). Una differenza, questa, – che sembra essere riconosciuta oramai anche dalla giurisprudenza della Cassazione36 – il cui rationale è, come detto, connesso al maggiore coinvolgimento dell’organo collegiale nelle scelte gestionali, ciò che richiede, allora, l’attribuzione all’amministratore, pure formalmente privo di deleghe, di strumenti rafforzati per poter concorrere in maniera davvero consapevole e costruttiva all’assunzione delle relative decisioni37.
ponderazione e imparzialità nell’amministrazione delle s.p.a., Milano, 2014, p.152 testo e nota 8). 36 Il punto era già stato colto dalla giurisprudenza penale. Con particolare chiarezza si esprimeva ad esempio cfr. Cass pen, 4 maggio/19 giugno 2007 n. 23838, che si legge in Giur. comm, 2009, II, p. 446 ss. (ma in senso analogo anche Cass. pen, 28 aprile/25 maggio 2009, n. 21581; Cass. penale 16 aprile/22 settembre 2009, 36595) ove si è sottolineato che la riforma «ha alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe» e che l’obbligo di agire in modo informato comporta sì il potere-dovere di richiedere informazioni ma «senza che ciò assegni anche un’autonoma potestà di indagine». In questo senso sembra ora orientarsi anche la Cassazione civile: si veda in particolare Cass., 31 agosto 2016, n. 17441. Per l’affermazione, invece, che «nelle società bancarie il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi non è rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dagli amministratori delegati attraverso i rapporti dei quali la legge onera questi ultimi, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni assunte dall›intero consiglio (al quale è affidata l›approvazione degli orientamenti strategici e delle politiche di gestione del rischio dell›intermediario), hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter utilmente ed efficacemente esercitare una funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi attraverso un costante flusso informativo; e ciò non solo in vista della valutazione dei rapporti degli amministratori delegati, ma anche ai fini della diretta ingerenza nella delega attraverso l›esercizio dei poteri, di spettanza del consiglio di amministrazione, di direttiva e di avocazione» cfr. le notissime sentenze nn. 2737, 2738, 2739 del 5 febbraio 2013 (che si possono leggere in Riv. dir. comm., 2014, II, p. 133 ss. con nota di Cicchinelli, Il dovere di agire in modo informato nell’attività bancaria a seguito di una recente pronuncia della Cassazione). 37 Mi sembra interessante sottolineare come le Disposizioni di Vigilanza, nel testo novellato nel 2016, a valle del recepimento della direttiva, soffermandosi sulla figura degli amministratori non esecutivi, oltre a rimarcare come essi siano «compartecipi delle decisioni assunte all’interno del consiglio», sottolinei che le «funzioni», ad essi demandate,
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Il terzo profilo di distacco tra la governance delle società per azioni di diritto comune e quella delle società bancarie che mi sembra utile segnalare come conseguenza del diverso orientamento degli interessi che debbono essere perseguiti dagli amministratori è, infine, rappresentato dalla esistenza di un sistema di regole più rigorose adottato nelle seconde al fine di sterilizzare il rischio che nel compimento delle proprie scelte gli amministratori possano essere condizionati da un’eccessiva attenzione agli interessi dei soci38. Se l’obiettivo primario che gli amministratori di banche debbono perseguire è quello di una gestione “sana e prudente”, e se tale è la gestione che si caratterizza come indipendente dagli interessi dei soci, ben si comprende, infatti, innanzitutto, perché la normazione di settore, oltre a sancire in via generale il principio per cui gli amministratori «indirizzino la loro azione al perseguimento dell’interesse complessivo della banca, indipendentemente dalla compagine societaria che li ha votati o dalla lista da cui sono tratti» operando «con autonomia di giudizio» (così Titolo IV, Sezione IV, § 1) avverta il bisogno di prevedere per tutte le società bancarie – e non solo, come per diritto comune, là dove esse siano quotate – specifiche regole per l’approvazione da parte del consiglio di amministrazione di decisioni che coinvolgano interessi di parti correlate39. La previsione di presidi specifici per garantire la correttezza sostanziale di siffatta tipologia di operazioni nasce, in vero, proprio dall’avvertita inadeguatezza della disciplina dettata dal diritto comune in tema di conflitti di interessi che si determinano in senso al consiglio di amministrazione, pur se rafforzata con la riforma organica del 200340, a
«dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi (…) sono determinanti per la sana e prudente gestione della banca» (così Titolo IV, Sezione IV, § 1); 38 Logica in cui si inscrive, allora, la previsione dell’art. 53, co. 4, t.u.b. che introduce – a differenza di quanto previsto in via generale dall’art. 2373 c. c. – anche l’obbligo di astensione per il socio rispetto alle delibere dell’assemblea nelle quali egli sia portatore di interesse in conflitto con quello della società. Per il significato innovativo della norma si veda Cicchinelli, Il governo, cit., p. 427 ss. 39 Per un inquadramento generale del problema sia consentito rinviare ancora al mio Gestione dell’impresa, cit., p. 61 ss.; ma per un’analisi puntuale della disciplina e per i suoi molteplici risvolti cfr. anche Pucci, Operazioni con parti correlate, in Dig. disc. priv. sez. comm. (Agg. VII), Torino, 2016, p. 399 ss. 40 E sul tema sia permesso rinviare sempre al mio Gestione dell’impresa, cit., p. 17 ss., ove anche la lettura – minoritaria in dottrina – già della norma generale nel senso che essa manterrebbe la previsione dell’obbligo di astensione dell’amministratore interessato nelle decisioni in cui sia coinvolto il suo interesse; problema, questo, che può dirsi comunque
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prevenire il rischio di decisioni consiliari strumentali alla realizzazione dell’interesse individuale di uno o più soci e non dell’interesse sociale, comunque lo si intenda definire. L’art. 2391 c.c. si applica, infatti, com’è noto, solo alle operazioni decise dal consiglio in cui sia coinvolto un interesse di cui un amministratore sia portatore per conto proprio o di terzi, ed è incapace, allora, di intercettare il caso in cui l’interesse in conflitto, o meglio interferente, che emerge nell’ambito della decisione sia quello di un socio che non sia anche appunto investito della carica di amministratore41. Ma soprattutto, se l’obiettivo della gestione sana e prudente si può realizzare solo mantenendo le scelte come autonome rispetto ai soci, ben si comprende anche perché, nel delineare l’articolato procedimento decisorio che deve osservarsi per l’approvazione delle operazioni con parti correlate, le Disposizioni di Vigilanza – distaccandosi da quanto previsto, per diritto comune, dalla disposizioni adottate dalla Consob con il Regolamento n. 17221/2010 emanato nell’esercizio del potere di normazione secondaria demandatole dall’art. 2391-bis c.c. – abbiano rinunciato a ricorrere al meccanismo del whitewash come strumento per superare lo stallo decisionale all’interno del consiglio eventualmente determinatosi per l’ipotesi in cui il comitato composto da amministratori non esecutivi all’uopo incaricato abbia espresso parere negativo sulla correttezza e convenienza sostanziale dell’operazione. Gli è, infatti, che il ricorso all’intervento dei soci in funzione di arbitraggio sull’opportunità o meno del compimento di una determinata operazione ha senso solo sulla premessa che in definitiva siano sempre e solo i soci – ancorché nel caso delle operazioni con parti correlate esclusivamente quelli rispetto ai quali l’operazione può avere in concreto risvolti pregiudizievoli – ad avere titolo per esprimere l’ultima parola, dal momento che la gestione è pur sempre orientata in via prioritaria
superato per le società bancarie dalla sua espressa previsione da parte sempre dell’art. 53, co. 4, t.u.b. (ma con formulazione, per altri versi assai infelice, giacché il richiamo operato dalla disposizione alla salvezza del solo primo comma dell’art. 2391 c.c., potrebbe ingenerare il dubbio che nelle società bancarie venga meno l’obbligo della motivazione sulla convenienza dell’operazione da parte del consiglio: la circostanza che l’intera disciplina della governance delle società bancarie si fondi, come detto nel testo, su standard più stringenti al fine di garantire correttezza e trasparenza della gestione mi induce a respingere questa soluzione, pure sostenibile sulla base della mera lettera della legge). 41 E sul punto si veda Pucci, Operazioni, cit., p. 400 s.
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alla soddisfazione di un loro interesse42. Un simile meccanismo non ha, invece, più senso – e allora non vi è motivo sia utilizzato – là dove il termine di riferimento delle valutazioni degli amministratori si individui in un interesse, quello appunto alla sana e prudente gestione, che si pone come sovraordinato a quello di tutti i soci, anche di quelli che non hanno alcuna correlazione con l’operazione, giustificandosi perciò che anche in simili evenienze la decisione sia affidata ad un procedimento caratterizzato da una dialettica tutta interna agli organi di gestione e controllo dell’impresa bancaria43.
Presidente Giuseppe Guizzi ha già passato la palla ai relatori successivi perché ha messo in gioco il ruolo dei soci di cui dovrebbero parlare più diffusamente i due amici che ora interverranno. A proposito di ciò che abbiamo ascoltato, mi piace ricordare che Raffaele Mattioli, nella seconda metà degli anni ’30 quando, dopo l’intervento di salvataggio dell’IRI, si discusse di retrocedere nuovamente al mercato quelle che erano allora le banche d’interesse nazionale, espresse la sua contrarietà a tale progetto per ragioni non dissimili da quelle che sono alla base di scelte odierne. Sintetizzo il pensiero dell’illustre banchiere: gli amministratori di una banca devono gestire non gli investimenti dei soci ma il denaro dei depositanti, questa caratteristica rendeva la società anonima “banca” del tutto differente rispetto alle altre anonime. Mutatis mutandis, oggi riemerge una preoccupazione simile: in particolare l’art. 31 della BRRD elenca gli interessi pubblici in considerazione
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Sul tema sia permesso rinviare a Guizzi, Gli azionisti e l’assemblea nelle società quotate tra mito e realtà, in RdS, 2011, p. 1 ss., in specie p. 10 s., e, più ampiamente, Id, Gestione dell’impresa, cit., p. 94 ss. 43 Le Disposizioni di Vigilanza prudenziale, di cui alla circolare n. 263, del 17 dicembre 2006, e successive modificazioni prevedono, infatti, (tit. V, cap. V, sez. III,, § 3.2, lettera e) che, di fronte a una valutazione negativa degli amministratori indipendenti, il consiglio che voglia egualmente compiere l’operazione debba acquisire anche il parere dell’organo di controllo, stabilendo altresì che se anche quest’ultimo non risulta favorevole tale circostanza non basta per ciò solo a precludere il compimento dell’operazione, che potrà essere egualmente deliberata ma dovrà essere portata a conoscenza dell’assemblea, alla quale tuttavia non viene chiesto di deliberare sul punto.
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dei quali è possibile limitare il diritto di proprietà degli azionisti (e dei titolari di obbligazioni subordinate). Secondo tale disposizione la degradazione degli interessi dei soci serve, in primo luogo, a garantire il regolare funzionamento della banca nella gestione dell’attività e nell’evitare il contagio sistemico senza che, per ottenere il risultato, sia necessario ricorrere a un finanziamento pubblico. In tale quadro, si potranno e dovranno tutelare anche gli interessi di depositanti e investitori: siamo di nuovo, con qualche novità riferita al dovere di evitare il ricorso ai finanziamenti pubblici, ai medesimi dubbi di Mattioli. Già nella fase di pre-crisi della banca scompare qualsiasi preoccupazione per l’interesse dei soci.
La posizione dei soci di società bancaria Giuseppe Ferri 1. Premessa. – L’organizzazione della società bancaria assume una configurazione normativa sensibilmente diversa da quella della società ordinaria, essenzialmente sotto il profilo dell’amministrazione e del controllo, ma anche in ordine ai diritti o, meglio, ai poteri, e, più in generale, alla complessiva posizione dei soci1, che vedono significativamente ridimensionate le proprie prerogative, non solo amministrative, ma anche patrimoniali, tanto individuali quanto, e soprattutto, collettive, le quali risultano, a seconda dei casi, o direttamente limitate, ovvero, e più spesso, indirettamente compresse in conseguenza del riconoscimento all’autorità di vigilanza di competenze e poteri assai incisivi. Tuttavia, mentre la disciplina dell’amministrazione e del controllo costituisce effettivamente un tratto che caratterizza le sole società bancarie, distinguendole non soltanto dalle società ordinarie, ma anche da quelle che si prestano ad essere indicate come altre società operanti sui mercati finanziari, per tali intendendosi sia gli intermediari finanziari, sia le assicurazioni, la posizione dei soci bancari risulta sostanzialmente analoga, e comunque in gran parte sovrapponibile, a quella riservata ai soci di queste ultime.
1 E v., fin da ora, G. Ferri, La posizione dell’azionista nelle società esercenti un’impresa bancaria, in Banca, borsa e tit. di cred., 1975, I, da p. 1, ora in Id., Scritti giuridici, II, Napoli, 1990, da p. 611, pp. 613 ss.
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2. Il quadro normativo. – Non è il caso, in questa sede, di scendere nel dettaglio, risultando sufficiente osservare, limitandosi alla disciplina di rango primario e segnatamente a quella relativa ai diritti sociali, che comuni a tutte le società in esame sono le regole che sottopongono all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza l’acquisto delle c.d. partecipazioni qualificate (art. 19 t.u.b., art. 15 t.u.f., art. 68, co. 1, cod. ass. priv.), e, prima ancora, prescrivono il possesso da parte del loro titolare di determinati requisiti, ancorché non sempre i medesimi nei diversi casi (art. 25 t.u.b., art. 14 t.u.f., del quale v. anche gli artt. 38, co. 1, 61, co. 5, e 80, co. 6, e artt. 68, co. 5, e 77, co. 1, cod. ass. priv.), prevedendo, in caso di mancanza dell’una o degli altri, il divieto di esercitare «i diritti di voto e gli altri diritti che consentono di influire sulla società» (artt. 24, co. 1, e 25, co. 3, t.u.b., artt. 14, co. 6, e 16, co. 1, t.u.f. e artt. 74 e 77, co. 3, cod. ass. priv.): diritto, quello di voto, che peraltro non può essere esercitato, ma solo nelle banche e negli intermediari finanziari, dal socio che versa in conflitto di interessi (art. 53, co. 4, t.u.b., e art. 6, co. 2-novies, t.u.f.). Passando alle competenze collettive, e dunque all’assemblea dei soci, la legge riconosce all’autorità di vigilanza una serie di poteri che incidono, in vario modo, tanto sulle posizioni amministrative quanto su quelle patrimoniali; a venire in considerazione, è, in primo luogo, e in generale, il potere di ordinare la convocazione e, in caso di inottemperanza, quello di convocare direttamente gli «organi collegiali», e dunque anche, per quanto più da vicino riguarda, l’assemblea dei soci, «fissandone l’ordine del giorno» e, nel caso delle banche e delle assicurazioni, anche di «proporre l’assunzione di determinate decisioni» e, rispettivamente, di «sottoporre al loro esame i provvedimenti necessari per rendere la gestione conforme a legge» (art. 53-bis, co. 1, lett. b e c, t.u.b., art. 7, co. 1, lett. b e c, t.u.f., e art. 188, co. 1, lett. b e c, cod. ass. priv.): un potere, questo, che, se non vale a vincolare giuridicamente i soci a partecipare all’assemblea e a deliberare nel senso indicato dall’autorità di vigilanza, rappresenta comunque un incentivo assai convincente ad operare in tal senso. Si pensi, inoltre, al potere di rimuovere gli esponenti aziendali (art. 53-bis, co. 1, lett. e, t.u.b. e art. 7, co. 2-bis, t.u.f.), a partire dagli amministratori, ovvero, come nel caso delle società di assicurazione, di ordinarne la rimozione (art. 188, co. 3-bis, lett. e, cod. ass. priv.), come pure alla sottoposizione delle modificazioni statutarie delle società bancarie, di gestione del mercato (non degli intermediari finanziari), ed assicurative ad un accertamento dell’autorità di vigilanza, all’esito positivo del quale risulta subordinata l’iscrizione nel registro delle imprese della relativa deliberazione dell’assemblea straordinaria (art. 56 t.u.b., art. 73, co. 3, t.u.f., e art. 196 cod. ass. priv.), nonché all’autorizzazione richiesta per
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le fusioni e le scissioni di società bancarie, di società di gestione del risparmio, di sicav, di sicaf e di società assicurative (art. 57 t.u.b., artt. 34, co. 4, e 40-bis, co. 1, t.u.f., e art. 201 cod. ass. priv.); si pensi, infine, al potere di vietare non soltanto la distribuzione di utili e di altri elementi del patrimonio (e, nel caso di banche e di società di intermediazione finanziaria, limitatamente agli strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, il pagamento di interessi), ma, più in generale, il compimento di operazioni anche di natura societaria (art. 53-bis, co. 1, lett. d, t.u.b., e art. 188, co. 3-bis, cod. ass. priv.): e comunque, quanto in particolare agli intermediari finanziari, a quello di «adottare provvedimenti restrittivi o limitativi concernenti», tra l’altro, “operazioni” non ulteriormente qualificate (art. 7, co. 2, t.u.f.). Come si diceva, e come emerge dalle citazioni normative (che si è ritenuto, anche a costo di appesantire l’esposizione, di richiamare nel testo, proprio al fine di dare plasticamente l’idea della situazione in esame), tutto questo complesso di regole trova applicazione anche alle società bancarie, ma non esclusivamente ad esse, contribuendo a delineare la posizione del socio bancario in termini bensì peculiari, ma solo rispetto al socio di società ordinaria, non anche a quello delle altre società operanti sui mercati finanziari; né, al fine di caratterizzare il socio di società bancarie in quanto tale possono ritenersi sufficienti le disposizioni, pur esistenti, applicabili unicamente a siffatte società, quale quella che, nel caso già esaminato di conflitto di interesse del socio, prevede, accanto al divieto di esercitare il diritto di voto, il potere dell’autorità di vigilanza di sospendere i «diritti amministrativi connessi con la partecipazione», ovvero l’altra che consente di sottoporre all’autorizzazione della autorità di vigilanza anche altre “operazioni” (art. 53, co. 4-ter e 4-quinquies, t.u.b.), o, infine, quella che riconosce alla medesima autorità la competenza a stabilire obblighi di comunicazione in ordine a operazioni di acquisto o cessione di partecipazioni in banche (art. 20 t.u.b.), che, per quanto non meglio definite dalla legge, la normativa secondaria individua in quelle qualificate2. A fronte di questo quadro, la scelta di circoscrivere il confronto ai diritti riconosciuti ai soci di società bancarie e, rispettivamente, di società ordinarie, prescindendo dalla circostanza che pressoché le medesime
2 E v. infatti, sul punto, Benocci, in Testo Unico Bancario, Commentario a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, Milano, 2010, sub artt. 20 e 21, da p. 209, pp. 211 ss., spec. 212 s.
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particolarità dei primi in realtà caratterizzano la posizione dei soci di tutte le società operanti nei mercati finanziari, si potrebbe rivelare addirittura fuorviante, inducendo a ricollegare le particolarità dei primi alla banca e all’attività bancaria, e non anche, e più in generale, ad esigenze che caratterizzano tutte le società in questione: a partire da quella di assicurare la sana e prudente gestione delle rispettive imprese. Non vuole con ciò negarsi che tale stato di cose rappresenti l’esito dell’estensione a queste ultime di regole, e di esigenze, a partire appunto da quella della sana e prudente gestione, originariamente previste per le società bancarie e dunque volte a realizzare esigenze tipiche della banca: ma solo sottolineare come, attualmente, tali regole, e le relative esigenze, si prestano più propriamente ad essere ricollegate a fenomeni pur sempre finanziari, ma assai più ampi di quello bancario. In altri termini, il “genere prossimo” della disciplina dei diritti dei soci di società bancaria è rappresentato da quella relativa ai soci non già di società ordinaria, ma, appunto, di società operanti sui mercati finanziari: ed è allora rispetto a questa più ampia categoria, e non alle sole società bancarie, che si tratta, in primo luogo, di mettere in luce il fondamento, e le implicazioni, delle peculiarità che connotano la posizione dei rispettivi soci, così come è nell’ambito, ed all’interno, della categoria in questione che si tratterà, ma solo in un secondo momento, di individuare, e, prima ancora, di ricercare, una qualche “differenza specifica” che valga a connotare, normativamente, i diritti dei soci di società bancaria, distinguendoli, allora, da quelli riconosciuti, prima ancora che ai soci di società ordinarie, a quelli delle altre società operanti sui mercati finanziari. 3. Società operanti sui mercati finanziari e tutela del risparmio. – Sotto il primo profilo, appare tuttora convincente, nelle linee di fondo, quell’impostazione, avanzata nel vigore della originaria legge bancaria3, e ribadita in relazione all’attuale sistema normativo4, che, muovendo dallo strettissimo collegamento, che caratterizza il fenomeno societario, tra il profilo della funzione, imprenditoriale, e quello della struttura, organizzativa, rinviene nelle peculiarità normative della posizione dei soci di società (un tempo bancaria, ora) finanziaria una espressione, ed una conseguenza, della disciplina di una attività di impresa, e della rilevanza,
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Si allude a G. Ferri, La posizione dell’azionista cit., pp. 613 ss. E v. G. Ferri, Manuale di diritto commerciale14, XIV ed., a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2015, p. 718. 4
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da essa accordata, ad interessi riferibili a soggetti diversi dai soci (e dai creditori), e come tali idonei ad imporsi su quelli, eventualmente divergenti, riferibili a questi ultimi. Tali interessi, generali, ma non necessariamente pubblici, sono destinati ad assumere rilevanza non solo sul piano della gestione dell’impresa societaria, arricchendo i poteri e, soprattutto, i doveri dei soggetti ad essa preposti, gli amministratori, ma appunto anche, e proprio in forza di quel collegamento di cui si diceva, nella dimensione, organizzativa, ed interna, degli altri organi sociali, a partire dalla assemblea dei soci, e, più in generale, delle posizioni individuali riconosciute a questi ultimi, che finirebbero per affievolirsi, rispetto alle prerogative dell’autorità di vigilanza alla quale è rimessa la loro tutela (fino al punto di assumere la veste di interessi legittimi), sulla premessa, allora, che la stessa titolarità di partecipazioni rilevanti, e l’esercizio delle prerogative ad esse riconnesse, finisce per incidere, seppur indirettamente, sull’impresa e sulla sua gestione5, vale a dire, per utilizzare le parole della legge, per “influire sulla società”: il che, a sua volta, spiega la specifica rilevanza, e la specifica disciplina, riservata alle partecipazioni c.d. qualificate, che cioè, per la loro entità, appaiono, si direbbe per definizione, in grado di dispiegare sull’impresa un’influenza siffatta. La rilevanza in questione, se da un lato non conduce necessariamente a qualificare quello in questione in termini di interesse dell’impresa in sé, risultando in vero possibile, alla luce delle successive evoluzioni del sistema, ricollegare tali discipline più che all’interesse della singola impresa, a quello, parimenti (ed anzi ancor più) generale, del complesso delle imprese, e, più in generale, del mercato, se si vuole “in sé”, complessivamente considerato, se non anche, come si vedrà, all’intero sistema economico e alla sua stabilità, dall’altro sembra in particolare risolversi nella subordinazione alle esigenze dell’impresa, e segnatamente a quella della sua sana e prudente gestione, e dunque ai poteri dell’autorità di vigilanza chiamata ad assicurarne il rispetto, della stessa libertà di gestione del proprio investimento, di regola spettante al socio in quanto appunto investitore, e che continua bensì ad essere riconosciuta anche al socio di società operante sul mercato finanziario, ma solo nei limiti in cui il suo esercizio non impedisca la realizzazione di quelle esigenze e della relativa vigilanza: è infatti proprio alla gestione dell’investimento,
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Sul punto, v. Rosa, Patti parasociali e gestione delle banche, Milano, 2010, pp. 167
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e alla necessità che essa non interferisca con l’impresa e con la sua gestione, che si devono ricondurre pressoché tutte le prerogative che, nelle società in esame, risultano, a seconda dei casi, direttamente limitate dalla legge o indirettamente compresse dai poteri riconosciuti all’autorità di vigilanza. Si pensi non soltanto alle prerogative, più schiettamente patrimoniali, volte a realizzare l’investimento, tanto sul mercato secondario, la disciplina della partecipazione rilevante finendo per comprimere, almeno di fatto, il potere del socio di disporne della propria partecipazione, quanto secondo forme, tipicamente societarie, di liquidazione integrale, individuale o collettiva, o parziale, in sede di distribuzione degli utili, della stessa partecipazione, ma anche a quelle, che invece si è soliti definire come amministrative, volte, a seconda dei casi, a modificare lo statuto, e con esso le stesse condizioni e regole dell’investimento, ovvero ad individuare coloro a cui affidare appunto la gestione, ovvero il controllo, dei valori investiti. A venire in considerazione è, in particolare, l’interesse del risparmio oggettivamente considerato, e segnatamente del pubblico risparmio, e cioè, può dirsi, del complesso delle risorse ricavate dal lavoro e non consumate: a ben vedere, infatti, è proprio il risparmio, nelle sue diverse espressioni, e l’esigenza, costituzionale, di tutelarlo, a rappresentare il fondamento ultimo della stessa scelta, sistematica, di “regolamentare”, in termini poi tra loro sostanzialmente analoghi, e di sottoporre a vigilanza, il mercato definibile genericamente come finanziario, o meglio i diversi mercati nei quali esso si presta ad essere articolato6: a seconda, in particolare, che si tratti, come nel caso di banche, di risparmio depositato, di risparmio gestito (o comunque impiegato in operazioni di investimento finanziario), ovvero, ed è il caso delle assicurazioni, accumulato a fini di previdenza. Al riguardo, due puntualizzazioni sembrano necessarie. Per un verso, infatti, deve osservarsi che quanto si viene dicendo a proposito dell’interesse, oggettivo, del risparmio, e cioè dei risparmiatori come classe, non toglie che, accanto ad esso, assuma rilevanza anche quello, soggettivo, dei singoli risparmiatori7: interesse, quest’ultimo, la cui tutela risulta tuttavia
6
E v., per tutti, Regoli, Mercato finanziario, in Aa. Vv., Diritto delle imprese. Manuale breve, Milano, 2012, pp. 332 ss. 7 E v., in questa prospettiva, Guizzi, voce Mercato finanziario, in Enc. dir., Agg. V, Milano, 2001, da p. 744, pp. 758 ss.
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affidata anche, ed in primo luogo, ad una diversa autorità di vigilanza, vale a dire alla Consob (e v. l’art. 5 t.u.f. e art. 3 cod. ass. priv.); per altro verso, deve osservarsi che, in questa prospettiva, parlando di classe di risparmiatori, si allude alle controparti contrattuali dell’impresa, e segnatamente della società, finanziaria, e non ai suoi soci: ed è proprio sotto quest’ultimo profilo che, come di recente sottolineato8, si coglie la profonda differenza tra la funzione della vigilanza, e i poteri delle rispettive autorità, delle imprese in questione, tra i quali la stessa Consob, e, rispettivamente, quelli riconosciuti sempre a quest’ultima, ma in relazione agli emittenti quotati, nella circostanza cioè che mentre nel primo caso a venire in considerazione è la specificità dell’impresa, e del mercato, primario, in cui essa opera, nel secondo assumono rilevanza, esclusivamente, le caratteristiche del mercato, allora secondario, al quale l’impresa, qualunque sia il mercato primario in cui essa operi, si rivolge al fine di reperire le risorse finanziarie necessarie all’esercizio della propria attività. Tutto ciò, per rispondere alla domanda sottesa al titolo del presente incontro, vale a configurare quella in esame come una disciplina sistematicamente speciale, inidonea cioè ad essere presa a modello per future evoluzioni di quella applicabile alle società “ordinarie”, sotto un duplice profilo: e cioè non solo, come detto, in quanto volta ad accordare tutela ad esigenze tipiche ed esclusive di talune imprese soltanto, e che proprio per ciò non si prestano ad assumere una rilevanza generale, almeno fino a quando la disciplina di diritto comune continuerà a configurare l’impresa, e più in generale l’attività sociale, come strumentale all’investimento dei soci; ma anche, e più radicalmente, deve adesso precisarsi, alla luce dell’inversione del rapporto tra il ruolo e le ragioni dell’impresa e, rispettivamente, dell’investimento che, appunto in generale, caratterizzano la disciplina societaria. Più precisamente, la disciplina della società bancaria non soltanto rappresenta un aspetto dello statuto della relativa impresa, ma, e proprio per ciò, risulta diretta a realizzare le esigenze ad essa riconducibili, rispetto alle quali l’investimento, e la sua tutela, finiscono per svolgere un ruolo marginale e meramente strumentale, laddove, nell’ambito della disciplina della società ordinaria, è invece l’impresa a risultare strumentale all’investimento dei soci, al punto che alla maggioranza di costoro
8 Si allude a Stella Richter jr, L’organizzazione della società per azioni tra principio di tipicità, autonomia statutaria e indicazioni delle autorità di vigilanza, di prossima pubblicazione, par. 5.
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l’ordinamento riconosce il potere, discrezionale, di porvi fine in ogni tempo, attraverso quella espressione, in vero “estrema”, della competenza, riconosciuta ai soci, a gestire l’investimento rappresentata dalla decisione di porre la società in liquidazione (ordinaria), e con ciò di realizzare collettivamente il valore delle relative partecipazioni: una competenza, questa, che, pur rappresentando “la prerogativa che dovrebbe costituire l’essenza della partecipazione sociale, in una considerazione della sua dimensione proprietaria”9, risulta invece, nel caso di banche, al pari di ogni altra modificazione statutaria, subordinata all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza, e proprio per ciò sottratta alla sfera della discrezionalità dei soci. Se, dunque, ai soci di società bancaria non viene riconosciuto il potere di gestire il proprio investimento, tanto meno costoro potranno essere considerati come “proprietari” della banca, e cioè dell’impresa bancaria, che essi non possono dirsi liberi di gestire al fine di massimizzare il proprio investimento: a ben vedere, anzi, nemmeno è dato rinvenire, nel caso in esame, un soggetto legittimato ad esercitare quei poteri di controllo che si è soliti ricondurre, beninteso descrittivamente, ad una sorta di “proprietà” dell’impresa: con l’esito che, a rigore, la banca, cioè l’impresa bancaria, non si presta in quanto tale ad assumere la veste di oggetto di “proprietà”, o quantomeno di proprietà privata (senza che ciò implichi la possibilità di configurare una sua proprietà “pubblica”). Più in generale, la disciplina della società bancaria vale a comprimere, in una con le prerogative dei soci, lo stesso significato di strumento dell’investimento che caratterizza in generale la società “ordinaria”, e, parallelamente, ad accentuare la funzione della società medesima in termini di forma di organizzazione dell’impresa: il che, oltre a svelare la tensione, se non anche la contrapposizione, che, sul piano concettuale ed assiologico, si presta ad essere individuata tra queste due diverse configurazioni della figura societaria, vale, nel contempo, a confermare che è la prima funzione, non la seconda, ad assumere un ruolo ricostruttivamente centrale. Se, infatti, per un verso, è proprio in quanto forma di organizzazione dell’impresa che quella bancaria si presta ad essere considerata una
9 In questi termini, v. Guizzi, Il commissariamento di società per azioni ai sensi del d.l. 61/2013 tra funzionalizzazione dell’impresa e problemi di tutela costituzionale della partecipazione azionaria. Prime note a margine del(la) seconda puntata del caso ILVA, in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, a cura di Di Cataldo, Meli e Pennisi, Tomo I, Impresa e società, Milano, 2015, da p. 317, p. 328.
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società “speciale”, rispetto allora ad una figura che, in generale, si conferma assumere il diverso ruolo di strumento di investimento dei soci, per altro verso è proprio, e solo, in quanto finanziatore, e segnatamente investitore, che quello bancario si presta ad essere considerato in termini di socio di quella che ancora può essere definita in termini di società: costui, infatti, pur non potendo essere considerato come “proprietario” dell’impresa, e pur subendo la significativa compressione di talune prerogative a lui spettanti in veste di “proprietario” dell’investimento, e cioè di titolare della partecipazione, si vede comunque riconosciuta la posizione di titolare di pretese patrimoniali residuali e, conseguentemente, garantito, come si vedrà anche nell’ambito della disciplina della crisi, il diritto a non essere privato del suo valore reale. Quanto si viene dicendo, a sua volta, vale a confermare quelle impostazioni volte a configurare, in via generale, e dunque già in relazione alla società ordinaria, il socio essenzialmente in termini di finanziatore, più che di proprietario: e quindi a valorizzare, anche sul piano tipologico, le prerogative patrimoniali rispetto a quelle organizzative10; particolarmente significativa risulta, da questo punto di vista, la significativa convergenza che è dato rinvenire, per quanto riguarda in particolare la società per azioni, tra la possibilità, ora riconosciuta a seguito della riforma organica delle società di capitali, di configurare azioni prive del diritto di voto, e la limitazione del medesimo diritto risultante dalla disciplina speciale della società bancaria: la circostanza cioè che al medesimo esito del depotenziamento delle prerogative amministrative si può pervenire non soltanto in forza dell’esercizio dell’autonomia privata, ma pure in virtù dell’operatività di forme di eteronomia pubblica, a loro volte riconducibili, se non anche al carattere (parimenti) pubblico del risparmio raccolto dalla banca, quantomeno alla rilevanza riconosciuta all’interesse, generale, alla sana e prudente gestione della relativa attività. 4. Soci e creditori di società bancaria in crisi. – Più significative peculiarità presenta la posizione normativa del socio di società bancaria, questa volta anche rispetto a quella del socio di altre società operanti sul mercato finanziario, alla luce, prima ancora che della disciplina della risoluzione bancaria di cui al d.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, della
10 Sul punto v., per tutti, con specifico riguardo ai temi in esame, La Licata, La struttura finanziaria della società bancaria: patrimonio, patrimonio netto, patrimonio di vigilanza, Torino, 2008, pp. 33 ss., spec. 38 ss.
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peculiare struttura finanziaria, e segnatamente del passivo, che, già da un punto di vista tipologico, caratterizza la società bancaria, in quanto forma di organizzazione dell’esercizio dell’attività bancaria. Si allude, in particolare, alla circostanza che, per l’impresa bancaria, e, ma in termini a ben vedere diversi, per quella assicurativa, l’indebitamento rappresenta non tanto, e non solo, l’esito del ricorso al finanziamento, vale a dire alla raccolta di capitali altrui da impiegare nell’ambito della propria attività caratteristica, ma costituisce esso stesso un momento dell’esercizio di tale attività11: e segnatamente di quel suo profilo, essenziale, per quanto non esclusivo, consistente nella raccolta del risparmio tra il pubblico (art. 10, co. 1, t.u.b.), la quale appunto si risolve nell’“acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma” (art. 11, co. 1, t.u.b.); in altri termini, i clienti, o meglio le controparti delle banche, vale a dire come detto i risparmiatori, assumono, in quanto depositanti, non soltanto, come accade anche nelle altre imprese del mercato finanziario, la veste generica di contraenti, ma quella, specifica, di creditori, ed anzi di creditori non solo attuali, ma tendenzialmente a vista: a differenza, sotto questo profilo, degli assicurati, che in vero, fino a quando non si verifica l’evento assicurativo, assumono la veste di creditori solo potenziali dell’impresa assicurativa; ne deriva che mentre il passivo di una impresa non bancaria indica essenzialmente la misura dei finanziamenti da essa ricevuti al fine di esercitare l’attività caratteristica, quello dell’impresa bancaria esprime la stessa dimensione concorrenziale di quest’ultima: con la conseguenza che se, in generale, l’equilibrio finanziario dell’impresa si considera tanto più efficiente quanto più ridotta risulta l’esposizione debitoria rispetto al capitale proprio, e dunque, in un’ottica contabile, le passività (reali) rispetto al patrimonio netto, per quanto invece riguarda le banche, rispetto alle quali come detto l’ammontare dell’indebitamento risulta proporzionale al volume degli affari, e dunque alla liquidità bancaria, un passivo (reale) troppo contenuto si presta ad essere considerato, tutto al contrario, come un segnale di inefficienza. Tutto ciò consente di comprendere non soltanto la centralità nell’ambito del sistema giuridico, e prima ancora economico, della disciplina di un fenomeno, quello della crisi delle banche, che coinvolge non tanto e non solo i finanziatori dell’impresa bancaria, quanto piuttosto, ed ancor
11 E v., pressoché testualmente, per quanto in una prospettiva non del tutto coincidente, La Licata, La struttura finanziaria cit., pp. 41 ss., ove ultt. citt., e 53 ss.
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prima, i depositanti, vale a dire coloro presso i quali è stato raccolto il risparmio, che, nell’ambito della sua struttura finanziaria, assume, come detto, la forma di passività: ma anche, e conseguentemente, la circostanza che le più significative peculiarità della disciplina in esame si colgono, prima ancora che in relazione alla posizione dei soci, con riguardo a quella dei creditori. In particolare, è proprio la dialettica, che in vero caratterizza lo stesso contratto di deposito bancario, tra il ruolo di depositante e quello di finanziatore, a dar conto della scelta di differenziare sensibilmente il trattamento riservato ai depositanti, a seconda che il relativo deposito si configuri come protetto o non protetto, nel senso che mentre i primi “non subiscono perdite” e, conseguentemente, non sono soggetti a quella specifica misura di risoluzione indicata come bail-in, i secondi, come di regola accade a “tutte le passività”, lo sono (artt. 22, co. 1, lett. d, e 49, co. 1, lett. a, d.lgs. n. 180 del 2015); se è vero, infatti, che il deposito bancario assume, funzionalmente, un duplice valore, caratterizzandosi in quanto operazione non soltanto finanziaria, al pari del deposito irregolare, e prima ancora del mutuo, ma anche, ed al contempo, di (affidamento in) custodia, e che solo la prima funzione implica l’assunzione da parte del risparmiatore depositante del rischio dell’insolvenza della banca depositaria, appare possibile ritenere che l’ordinamento, sulla base di criteri tipici, fondati cioè su parametri oggettivi ed anzi quantitativi, abbia inteso distinguere, all’interno della categoria formalmente omogenea dei depositi bancari, a seconda che a risultare prevalente, ed ai fini in esame assorbente, fosse la funzione finanziaria ovvero quella di custodia: ciò nel senso che nel primo caso, quello dei depositi non protetti, è ragionevole ritenere che il contratto, e proprio in ragione della sua entità, rappresenti l’esito di una valutazione, da parte del depositante, che verte anche, ed anzi in primo luogo, sulla solidità finanziaria e patrimoniale della banca, implicando allora l’assunzione del relativo rischio, mentre nel secondo è parimenti ragionevole considerare che il depositante, nel determinarsi ad effettuare il deposito, protetto, sia mosso da un’esigenza, quella di custodia, che, in quanto volta essenzialmente a fronteggiare il “pericolo” di un’eventuale sottrazione della somma conservata presso di sé, prescinde da ogni considerazione relativa all’eventualità e al “rischio” di dissesto della banca depositaria. La distinzione tra depositi protetti e non protetti, oltre a risultare strettamente legata alle peculiarità dell’attività bancaria, ed a quelle, da esse derivanti, della struttura finanziaria della relativa impresa, al punto da non prestarsi ad essere estesa, almeno in via generalizzata, al di là di siffatta materia, si riferisce, come è chiaro, alla posizione dei creditori, e
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non a quella dei soci: ciò non toglie che la disciplina delle crisi bancarie presenta altresì talune peculiarità relative al peculiare trattamento riservato a questi ultimi. Anche in tal caso, senza scendere nel dettaglio, ci si può limitare a ricordare, da un lato, i “poteri generali”, che operano cioè qualunque sia la misura di risoluzione in concreto adottata (e che poi ricevono una più precisa regolamentazione in relazione alle specifiche misure di risoluzione nelle quale si prestano ad essere esercitati) riconosciuti dall’art. 60 del citato decreto legislativo alla Banca d’Italia, che risulta tra l’altro legittimata, oltre che a sostituire o rimuovere i componenti degli organi di amministrazione e di controllo, nonché l’alta dirigenza della banca (e v. anche l’art. 22), a disporre direttamente, e cioè “senza ottenere il consenso” degli azionisti, non soltanto l’emissione di nuove azioni, ma anche il trasferimento a favore di terzi di quelle già emesse (e v. anche gli artt. 40, 43 e 47), come pure la riduzione o l’azzeramento e la conversione delle stesse (e v. anche gli artt. 20, 27 e 52); e, dall’altro, le disposizioni, dettate dagli artt. 34, 35 e 37 del medesimo decreto (del quale v. anche gli artt. 41 e 58) le quali prevedono che non soltanto le competenze dei competenti organi sociali, compresa l’assemblea, ma anche, e soprattutto, i poteri individuali dei singoli azionisti vengano, a seconda dei casi, esercitati, in luogo dei rispettivi titolari, dalla Banca d’Italia (e v. anche gli artt. 41 e 58) ovvero assunti da commissari speciali nominati dalla medesima Banca d’Italia, e che fanno dal primo atto di esercizio dei poteri sostitutivi da parte della autorità di risoluzione discendere ovvero, a seconda dei casi, dall’insediamento di tali commissari, oltre alla decadenza degli organi sociali, la generalizzata sospensione dei diritti di voto e degli altri diritti derivanti da partecipazione che, anche in tal caso, “consentono di influire” sulla banca sottoposta a risoluzione. Siffatto depotenziamento delle prerogative amministrative dei soci finisce, dunque, per avvicinarne, sensibilmente, la posizione a quella dei creditori: così come, deve notarsi, questi ultimi finiscono, a loro volta, all’esito di un processo analogo, per quanto sviluppatosi in direzione per così dire inversa, per avvicinarsi ai soci; nella disciplina attuale, infatti, i creditori (e segnatamente i finanziatori) della banca non soltanto risultano esposti, come di regola accade, al rischio dell’insolvenza, o del dissesto, di quest’ultima, ma sono chiamati a sopportarne le perdite, allora analogamente ai soci, seppure subordinatamente a costoro: proprio a tal fine appare infatti diretta quella specifica misura di risoluzione delle banche costituita dal bail-in, e che consiste appunto in una forma, del tutto peculiare, non tanto di attuazione della garanzia patrimoniale, quanto piuttosto di ristrutturazione del passivo (contabile) volta, in par-
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ticolare, alla copertura delle perdite mediante consolidamento, anche, si noti, di quelle superiori al capitale, destinata allora ad operare bensì in termini che replicano, peraltro solo tendenzialmente (alla luce, in particolare, della previsione di passività escluse dal bail-in, e segnatamente di quanto disposto dall’art. 49, co. 3, lett. a, d.lgs. n. 180 del 2015), quello che la legge chiama «ordine di priorità applicabile in sede concorsuale» (e v., in particolare, l’art. 22, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 180 del 2015), ma in una dimensione a ben vedere societaria, e non anche concorsuale, e segnatamente sul piano globale e, per dir così, documentale (come si ricava, oltre che dall’art. 52, dall’espressione, atecnica, di «passività cancellata» di cui all’art. 57, co. 3, d.lgs. n. 180 del 2015), del bilancio. Le peculiarità di tale strumento, da verificare allora rispetto alle ordinarie tecniche di consolidamento delle perdite, non si prestano ad essere colte né nel suo carattere autoritativo, nella circostanza cioè che esso si risolve in una sorta di copertura delle perdite in via coatta, e segnatamente amministrativa: la disciplina generale delle società di capitali, infatti, già prevede forme di riduzione coattiva del capitale per perdite, per quanto ad opera dell’autorità giudiziaria, e non amministrativa (artt. 2446, co. 2, e 2482-bis, co. 4 e 5, c.c.); e nemmeno nella circostanza che l’importo della perdita viene determinato sulla base di una valutazione preventiva (art. 24, co. 1, lett. d, d.lgs. n. 180 del 2015), ed allora necessariamente prospettica: ed in vero non soltanto la stessa distribuzione degli utili, ed il loro conseguente consolidamento, avviene di regola sulla base di una valutazione parimenti prospettica, quella cioè espressa dal bilancio, ma, nello specifico caso di risoluzione bancaria, si prevede inoltre che il trattamento in concreto riservato ai creditori, come pure ai soci, sia fatto oggetto di una valutazione successiva (art. 88, co. 1, d.lgs. n. 180 del 2015), volta a controllare che esso non risulti inferiore a quello che sarebbe loro spettato nell’ambito di una procedura concorsuale in ragione dell’“ordine di priorità” in essa applicabile. La specificità di tale forma di consolidamento delle perdite sembra piuttosto rappresentata, da un lato, dalla circostanza che a “subire” le perdite sono appunto chiamati non solo i soci, ma anche i creditori della banca: mentre, di regola, il sorgere di una passività vale a ridurre il patrimonio netto, contribuendo a formare la perdita, o comunque a facilitarne l’emersione, in questo caso è l’estinzione, coattiva, della passività ad essere utilizzata al fine, uguale e contrario, di coprirla, attraverso il consolidamento, a carico dei titolari delle passività estinte, delle perdite superiori al capitale; e, dall’altro, dal conseguente capovolgimento dei termini della relazione tra rapporto obbligatorio “sostanziale” e sua rappresentazione “contabile”: se infatti, di regola, è il sorgere di un debito
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“sostanziale” della società a comportare l’aumento del passivo (reale) “contabile”, e, parallelamente, la sua estinzione a provocare la sua diminuzione, in questo caso è la riduzione, coatta, del passivo “contabile” a riflettersi sulle situazioni soggettive “sostanziali”, determinando l’estinzione “a tutti gli effetti” (così il già citato art. 57, co. 3) dei corrispondenti debiti della società, e cioè la sua esdebitazione, per tale intendendosi, al pari di quanto è a dirsi a proposito della ristrutturazione concordataria12, un inedito ed ulteriore modo di estinzione delle obbligazioni, che si distingue dagli altri alla luce della portata collettiva, per il fatto cioè di operare nei confronti non già di singole obbligazioni, ma dell’intera esposizione debitoria complessivamente considerata13. D’altra parte, e significativamente, identica risulta la tutela accordata, nell’ambito della disciplina della risoluzione bancaria, ai soci e, rispettivamente, ai creditori: non solo, infatti, si dispone che entrambe tali categorie di soggetti non possono essere soggetti ad un trattamento deteriore di quello che avrebbero ottenuto nell’ambito della liquidazione coatta della banca o di altra procedura concorsuale (artt. 22, co. 1, lett. c, e 87, co. 1, d.lgs. n. 180 del 2015), ma si riconosce al singolo socio e al singolo creditore, qualora risulti che la perdita subita sia maggiore di quella che sarebbe gravata su di loro nell’ambito delle suddette procedure concorsuali, il diritto di ottenere a titolo di indennizzo dal fondo di risoluzione una somma pari a siffatta differenza, ma non superiore ad essa (art. 89).
12 Sul punto, v. Presti, Il bail-in, Banca, impresa e soc., 2015, da p. 339, pp. 346 ss. e 351, il quale valorizza a tal punto siffatta analogia da definire lo stesso bail-in termini di una sorta di «concordato preventivo coatto con continuità aziendale» (ivi, p. 348, enfasi nell’originale): un’espressione, questa, che, per quanto consapevolmente descrittiva, risulta non soltanto eccessiva, dal momento che la vicinanza tra tali istituti sembra in realtà esaurirsi appunto nella portata esdebitatoria ad entrambi riconosciuta dalla legge, quanto piuttosto, e soprattutto, equivoca, per la ragione che essa mostra di presupporre il riconoscimento alla misura di risoluzione in questione di un carattere concorsuale del quale, come detto, essa sembra invece del tutto priva. 13 E v., infatti, quanto si è avuto modo di osservare al riguardo in Ristrutturazione dei debiti e partecipazione sociale, in Riv. dir. comm., 2006, I, da p. 747, pp. 749 ss., e, più di recente, in Assegnazione delle partecipazioni ai creditori e risoluzione del concordato preventivo, nota a Trib. Reggio Emilia 16 aprile 2014 (decr.), in Corr. Giur., 2015, da p. 80 (e in Crisi dell’impresa e ruolo dell’informazione, Atti VIII incontro italo-spagnolo di diritto commerciale, Napoli, 15 settembre 2015, a cura di Paciello e Guizzi, Milano, 2016, da p. 281), p. 81, testo e nota 2.
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5. Conclusioni. – A fronte di tale complesso normativo, si potrebbe essere indotti a riconoscere alla disciplina delle crisi bancarie, per dir così, un tasso di specialità, rispetto alle società di diritto comune, addirittura maggiore di quanto non sia a dirsi della disciplina generale della società bancaria: l’impressione in parola sembra tuttavia destinata a ridimensionarsi sensibilmente, non appena si consideri che termine di un confronto siffatto non può essere rappresentato dalla disciplina generale delle altre società operanti sul mercato finanziario, né tantomeno delle società ordinarie, quanto piuttosto dalle discipline volte a regolare la loro crisi, e cioè una situazione nella quale, già in via di principio, sembra verificarsi una sorta di capovolgimento della rilevanza giuridica degli interessi dei soci e dei creditori, all’esito del quale ad assumere una posizione sistematicamente prevalente sono i secondi e non più i primi. Può infatti ricordarsi che già la disciplina “ordinaria” dell’impresa in crisi, e segnatamente quella dei concordati, anche prima delle modificazioni introdotte con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. nella legge 6 agosto 2015, n. 132, sembra non soltanto consentire di prescindere dalla volontà dei soci al fine di deliberare, e di dare attuazione, ad operazioni straordinarie previste nel piano, ma anche legittimare forme di assegnazione coatta, indipendente cioè dalla volontà dei titolari, delle partecipazioni ai creditori: una soluzione, questa, che, se muove dalla tendenziale mancanza di valore attuale delle partecipazioni stesse, non esclude che, ove di un qualche valore esse fossero tuttora provviste, il socio risulti comunque tutelato, attraverso, in particolare, uno strumento, quello dell’opposizione all’omologazione14, che, una volta utilizzato, come nel caso in questione, da soggetti non chiamati ad approvare la proposta, e per ciò solo non assoggettati alla regola maggioritaria, sembra poter essere utilizzato anche al fine di sollecitare un giudizio di merito in ordine alla convenienza della medesima proposta15, in applicazione del principio generale ricavabile dalla disciplina dettata a proposito dell’op-
14 Come si è avuto modo di mettere in luce in La struttura finanziaria della società in crisi, in RDS, Rivista del diritto societario, 2012, I, da p. 477 (e in Crisi finanziaria e risposte normative: verso un nuovo diritto dell’economia?, Atti del Convegno. Università europea di Roma, Università degli Studi di Roma Tre, 6-17 dicembre 2011, a cura di Guaccero e Maugeri, Milano, 2014, da p. 25), pp. 488 s., e, più di recente, in Soci e creditori nella struttura finanziaria della società in crisi, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, da p. 95, pp. 104 s. 15 E v. già, in una prospettiva siffatta, Rossi, Postergazione e concordato, in Riv. dir. comm., 2011, II, da p. 1, pp. 35 s, testo e nota 82.
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posizione avanzata da chi, come il creditore (dissenziente) di classe dissenziente, non può dirsi vincolato da una (contraria) maggioranza, che in tale classe non è stata, per definizione, di fatto raggiunta. A sua volta, la prerogativa in questione vale a tutelare quello che, a ben vedere, rappresenta l’ultimo, e per ciò solo l’unico veramente essenziale, interesse del socio, allora in quanto finanziatore, e, più precisamente, investitore, che nemmeno la crisi della società consente di pregiudicare: l’interesse, cioè, che come detto riceve protezione anche nell’ambito della disciplina della risoluzione bancaria, per quanto in via solo risarcitoria (e dunque, per dir così, in forma “obbligatoria”, e non, come nel ricordato caso del concordato, “reale”), a non vedersi privato del valore, reale, che la sua partecipazione potrebbe pur sempre presentare16, a dimostrazione, ulteriore, della centralità del profilo in esame ai fini della ricostruzione della posizione di socio. Insomma, l’autentico tratto di specificità del trattamento riservato ai soci nell’ambito della disciplina della risoluzione bancaria si presta ad essere colto non già nella neutralizzazione dei poteri, individuali e collettivi, dei soci, la quale, come detto, ben potrebbe verificarsi anche nell’ambito delle procedure concorsuali ordinarie, bensì nella circostanza che essa trova applicazione, da un lato senza alcun controllo preventivo da parte dell’autorità giudiziaria, e, dall’altro, nell’ambito di misure, non soltanto attivabili, oltre che in caso di dissesto conclamato, anche in quello di mero rischio di dissesto, ma che risultano volte a realizzare, tra gli altri, l’obiettivo di assicurare la “continuità delle funzioni essenziali”, rispetto, in particolare, “al sistema economico o alla stabilità finanziaria” (così l’art. 2, lett. bb, d.lgs. n. 180 del 2015), della banca che versi in tale stato, anche a costo, come nel caso del bail-in, di far subire le relative perdite ai creditori: il che, tuttavia, non tanto impedisce di ipotizzare che l’evoluzione dell’ordinamento conduca ad estendere tali principi al di là delle società bancarie, alle quale risultano attualmente circoscritti, quanto piuttosto induce ad individuare il terreno d’elezione nel quale una estensione siffatta potrebbe più agevolmente avere luogo nella procedura di amministrazione straordinaria, anch’essa volta a perseguire, a seconda delle impostazioni anche o esclusivamente17, «finali-
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Sul punto, v., per tutti, Guizzi, Il bail-in nel nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie. Quale lezione da Vienna?, in Corr. giur., 2015, da p. 1485, pp. 1490 ss., spec. 1492 s. 17 Sul punto, v., per tutti, da ultimo, Nigro, La disciplina delle cisi patrimoniali delle
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tà conservative del patrimonio produttivo», e caratterizzata, soprattutto nella “variante” speciale, dal ruolo centrale, per quanto meno incisivo di quello dell’autorità di risoluzione nei confronti delle banche, riservato all’autorità amministrativa. Questa conclusione, d’altra parte, rappresenta unicamente un tentativo di registrare talune linee di tendenza dell’evoluzione dell’ordinamento: a ben vedere, anzi, l’eventuale generalizzazione di regole e principi propri della disciplina delle crisi bancarie, o anche soltanto la loro estensione all’amministrazione straordinaria, pur assecondando i più recenti sviluppi del sistema, finirebbe per esporsi alle censure avanzate da chi, a proposito di siffatta procedura, e segnatamente della sua variante speciale, ha avuto modo metterne in luce la sostanziale incoerenza con le “regole del mercato”, le quali semmai richiederebbero, tutto al contrario, «di rivedere, de jure condendo, l’intera vicenda dell’impresa in crisi alla luce (…) dei principi di libertà economica»18.
Presidente Grazie anche a Giuseppe Ferri. Le sue considerazioni riguardo a quella che, per brevità, possiamo dire espropriazione del potere dei soci (addirittura riguardo alla facoltà di decidere la liquidazione della banca) trova, anch’essa, conferma nel principio di continuità aziendale che caratterizza la banca ancor più quando sia entrata in crisi, ma in funzione di che cosa? Io credo in funzione del fatto che essa svolge il compito di finanziamento alle imprese, sicché il suo venir meno porrebbe in crisi anche le imprese dalla stessa finanziate. Se si condivide questa considerazione, l’avvicinamento, descritto da Ferri, tra risparmio bancario, risparmio assicurativo e, ancora, quello affidato agli altri intermediari finanziari, pure innegabile, va ripensato anche alla luce di altri fattori. Rilevo che il risparmio assicurativo e il risparmio finanziario sono tutelati prevalentemente con altri meccanismi: non c’è tempo di descriverli, ma basti pensare alla separazione patrimoniale. In virtù di tali differenti regole, a me sembra, che tali forme di risparmio corrano meno
imprese. Lineamenti generali, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, Vol. XXV, Torino, 2012, pp. 287 s. 18 Così Libonati, Corso di diritto commerciale, Milano, 2009, pp. 601 s.
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rischi di quello affidato in deposito alla banca. Ciò detto credo che la posizione di Ferri si concilia meglio con alcuni studi in lingua inglese (soprattutto Gurley e Shaw negli Stati Uniti, Goodhart in Inghilterra) secondo i quali la ragione per cui si deve intervenire nel settore finanziario con una vigilanza pubblica non è tanto quella di garantire i depositanti quanto piuttosto quella di garantire che le imprese prenditrici di credito non vengano immediatamente chiamate alla restituzione a causa della crisi del prestatore.
La specialità del diritto societario come fattore di limitazione di diritti individuali del socio nelle cooperative bancarie. Luigi Salamone Mi limito ad occuparmi di due esemplari, forse apparentati tra di loro: 1. la limitazione del diritto del socio al rimborso per i casi di recesso, esclusione e morte nelle cooperative di credito; 2. la limitazione alla partecipazione del socio al programma mutualistico nelle banche di credito cooperativo. Sul primo tema il mio non è un esordio ma un ritorno, quindi vorrei dare per scontate più articolate argomentazioni per lasciar spazio semmai ad un poco di aggiornamento; sul secondo, invece, tratteggerò più diffusamente disciplina e problemi. La prima limitazione riguarda come noto tutte le cooperative bancarie, a differenza della seconda. Dialogando con la bella relazione del Prof. Guizzi, vorrei precisare che io non so cosa vogliano dire «istituzionalismo» e «contrattualismo»; voglio però chiarire che, evocando l’istituzionalismo, intendo significare – non so se sbagliando – la più stringente limitazione dei diritti individuali dei soci. 1. Con riguardo al diritto al rimborso, il socio non è soltanto “residual claimant” di passività esistenti, ma altresì di passività potenziali (art. 28, comma 2-ter, t.u.b. – comma inserito dall’art. 1, comma 1, lett. a), d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, e successivamente così sostituito dall’art. 1, co. 15, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72). La disciplina speciale non consente in alcun modo di attingere ad una porzione del patrimonio quando il socio receda, sia escluso o addirittura muoia: cosa giustifica questo, se non ovviamente la stabilità del sistema bancario? Tutto questo induce allora ad una diversa
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visione dei diritti sociali: in particolare, mi riferisco alla visione del prof. Angelici, secondo la quale nelle società azionarie il recesso è divenuto oggi una tutela di minoranze e non più semplicemente un diritto di tutela di situazioni individuali1. La vigente disciplina comune della società per azioni agevola l’esercizio del recesso, a differenza di quella originaria del 1942. Nella recente normativa sulla cooperative bancarie vediamo invece un pesante disincentivo all’exit: il socio può cioè recedere, ma rimane fermo che in talune situazioni potrebbe non spettargli nulla a titolo di rimborso, o il rimborso potrebbe essere riscandenzato, rinviato o limitato. Potrebbero quindi prodursi ricadute sul piano della dialettica che passa tra maggioranze e minoranze, pur con un doveroso distinguo: stiamo parlando di cooperative, quindi di ordinamenti “democratici”, retti dal principio del voto capitario, rispetto al quale i diritti delle minoranze sociali sono tutti da riparametrare. Come già ho avuto modo di osservare2 il diritto societario speciale spinge oggi alle estreme conseguenze la posizione del socio: non si preoccupa soltanto di tutelare la posizione dei creditori le cui prerogative già siano costituite al momento del recesso o dell’esclusione del socio; al contrario, impone una valutazione di prospettiva, nel senso della necessità giuridica di adottare preventivamente misure affinché i diritti del socio non pregiudichino anche i creditori di domani, la stabilità del sistema bancario e persino i rischi sistemici (v. Considerando n. 513; Considerando n. 874; art. 134 CRD
1 V. Angelici, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale2, Padova, 2006, p. 85 ss. 2 In questa Rivista, n. 2/2016. 3 V. Considerando n. 51 CRD IV: «La crisi finanziaria ha dimostrato l’esistenza di legami tra il settore bancario e i cosiddetti “sistemi bancari ombra”. Alcuni sistemi bancari ombra hanno l’utilità di mantenere i rischi separati dal settore bancario ed evitano quindi potenziali effetti negativi sui contribuenti e un effetto sistemico. Tuttavia, una migliore comprensione delle operazioni dei sistemi bancari ombra e dei loro legami con i soggetti del settore finanziario e norme più rigide che assicurino la trasparenza, una riduzione del rischio sistemico e l’eliminazione delle prassi scorrette sono necessari per la stabilità del sistema finanziario. Segnalazioni aggiuntive da parte degli enti possono essere utili in tal senso, ma è altresì necessaria una nuova regolamentazione specifica». 4 V. Considerando n. 87 CRD IV: «Gli Stati membri dovrebbero poter riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico fissato da un altro Stato membro e applicarlo agli enti autorizzati a livello nazionale per le esposizioni situate nello Stato membro che stabilisce il coefficiente. Lo Stato membro che stabilisce il coefficiente dovrebbe poter altresì chiedere al CERS di emanare una raccomandazione di cui all’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1092/2010 per lo Stato o gli Stati membri che sono in grado di riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio
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IV5). Si vuole dire che non si può legittimamente disporre della parte di patrimonio sociale che deve comunque mantenersi affinché gli obiettivi della vigilanza prudenziale non vengano mancati: nel diritto bancario la posizione di residual claimant comporta non soltanto l’assorbimento di perdite di gestione già realizzate, ma anche di perdite o ammanchi di liquidità possibili. Ne ho concluso che «il criterio patrimoniale, temperato dal valore di mercato della partecipazione, o in alternativa il valore medio di quotazione – i criteri dell’art. 2437-ter c.c. – non sono immediatamente utilizzabili, se non riveduti e rettificati alla luce dei principi prudenziali». Che tutto questo sia sistematicamente dirompente, non è dubbio. Lo dimostra, nei mesi più recenti, l’esplosione di taluni contenziosi, al centro dei quali si è posto il problema della legittimità della normativa nazionale. Ora, potremmo dividere (criticamente) in due gruppi le decisioni finora raccolte, tra quelle che ignorano le fonti comunitarie e più generale la gerarchia delle fonti, da un lato (orientamento manifestatosi nella giurisdizione ordinaria6), e quelle che invece la tengono ben presente (orientamento apparso invece nella giurisdizione amministrativa7).
sistemico affinché lo facciano. Tale raccomandazione è soggetta alla regola “conformità o spiegazione” stabilita all’articolo 3, paragrafo 2 e all’articolo 17 di tale regolamento». 5 V. Art. 134 CRD IV: «Riconoscimento di un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico. 1. Altri Stati membri possono riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico fissato conformemente all’articolo 133 e possono applicare tale coefficiente agli enti autorizzati a livello nazionale con riferimento alle esposizioni situate nello Stato membro che fissa tale coefficiente. 2. Se gli Stati membri riconoscono il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico per gli enti autorizzati a livello nazionale, essi informano la Commissione, il CERS, l’ABE e lo Stato membro che fissa tale coefficiente. 3. Nel decidere se riconoscere un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico, lo Stato membro tiene conto delle informazioni presentate dallo Stato membro che fissa tale coefficiente conformemente all’articolo 133, paragrafi 11, 12 o 13. 4. Uno Stato membro che fissa un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico conformemente all’articolo 133 può chiedere al CERS di emanare una raccomandazione di cui all’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1092/2010 per lo Stato o gli Stati membri che possono riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico». 6 V. ad es. Trib. Napoli, sez. imprese, 24/3/2016, R.G. 27552/2015 (ord.). 7 V. tre recenti del TAR Lazio, sez. III, tutte depositate in data 7/6/2016 - n. 6540/2016; n. 6544/2016; n. 6548/2016, secondo le quali la normative secondaria emanata dall’Organo della Vigilanza Bancaria risulta rispettosa dei principi dell’Unione Europea (almeno con riguardo ai profili di censura).
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Il fatto è che una regolamentazione tanto deviante rispetto ai principi comuni trova legittimazione nelle fonti dell’Unione Europea. Su questo non mi sembra di dover aggiungere altro. Una cosa (mi) pare altrettanto certa, a riequilibrio della compressione del diritto individuale al rimborso della partecipazione sociale: come già sostenuto, ogniqualvolta ci si debba allontanare dai criteri dell’art. 2437 ter c.c., sembra doveroso ripartire il sacrificio tra socio uscente e consoci superstiti, secondo modalità varie (es. come detto limitazioni alla distribuzione di eventuali utili, etc.). La necessità giuridica di siffatta ripartizione mi pare un principio di diritto fondato sulla parità di trattamento dei soci, oltreché – espressamente o implicitamente – dalle fonti dell’Unione Europea. Il meccanismo pare simmetrico a quello del soprapprezzo sulla partecipazione di nuova emissione, che diviene obbligatorio quando è limitato il diritto di opzione: là, come diceva Vivante8, il nuovo socio deve «mettersi al pari con i vecchi» – deve cioè contribuire a formare non solo il capitale nominale, ma anche le riserve, costituitesi anche grazie al sacrificio dei vecchi soci, che potrebbero avere destinato parte dei loro conferimenti a riserva da sopraprezzo anch’essi o avere consentito all’accumulazione di utili a riserva. Nel caso delle banche popolari, qualora il recesso porti ad una limitazione del rimborso del recedente, ci troviamo dinanzi al sacrificio di un socio, che sarà necessario riequilibrare con il sacrificio dei consoci che non recedono, obbligandoli ad un’accumulazione supplementare di utili. Sotto il profilo procedimentale, infine, merita ricordare che le Istruzioni di Vigilanza emanate da Banca d’Italia (si veda il 9° Aggiornamento del 9/6/2015 alla circolare n. 285 del 17/12/2013, parte iii, capitolo 4, sezione iii, par. 1 [cit.]) introducono un passaggio estraneo al sistema di legge: le banche popolari cooperative e le banche di credito cooperativo cui si applica la regola dell’art. 28, co. 2 ter, t.u.b. sono tenute ad introdurre una clausola statutaria che detti non soltanto i criteri (di quantificazione) della limitazione, ma altresì gli aspetti del procedimento da seguirsi all’interno della singola banca. L’organo della vigilanza ha optato per una disposizione (regolamentare) di carattere conformativo: anziché stabilire con un precetto inderogabile criteri e procedura, ha
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Vivante, Trattato di diritto commerciale, II, Le società commerciali, Torino, 1903, p. 208: «Questo sovrapprezzo, salvo il caso di deliberazioni contrarie, non può considerarsi come un profitto dell’impresa sociale, ma come un’aggiunta di conferimento fatta dai nuovi azionisti per mettersi al pari con i vecchi».
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lasciato libere le banche davanti agli obiettivi di sana e prudente gestione, riservandosi di controllare ex post. Risulta evidente che in caso di mancata introduzione della clausola statutaria la limitazione non potrà operare; ma darei per scontato che le reazioni siano nell’ordine dei provvedimenti sanzionatori che le Autorità creditizie sono legittimate ad adottare nell’ambito dell’attività di vigilanza avverso ipotesi di gravi irregolarità gestionali. Leggasi in tal senso ora il TAR Lazio9. Non mi spiego come mai identiche restrizioni – su diritto e sul procedimento – non siano imposte alle società per azioni bancarie, le quali potrebbero altrettanto pregiudicare la stabilità del sistema bancario che le cooperative: non resta che prendere atto di una conclamata deriva positiva verso una forma di neo-istituzionalismo delle cooperative bancarie, di cui si deve solo prendere atto. Né credo sia possibile giustificare siffatte limitazioni prudenziali alla luce dei principi della mutualità, che pure circoscrivono i poteri di riappropriazione del saldo di gestione, anche perché le stesse operano indifferentemente sia su B. Pop. sia su BCC.
Postilla.
Mentre queste note andavano in stampa, è stata depositata l’ordinanza del Consiglio di Stato, Sezione VI, 2/12/2016, relativa ai ricorsi riuniti Reg. Gen. nn. 6303/2016, 6424/2016, 6605/2016. Il provvedimento fa riferimento ad altra ordinanza che solleva la questione di legittimità costituzionale, emessa nella stessa seduta (non vidi), rispetto all’art. 29, co. 2-ter, t.u.b., là dove esso prevede che il diritto al rimborso delle azioni al socio uscente o defunto possa essere limitato (con la possibilità, quindi, anche di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati e con previsione di un interesse corrispettivo. Ulteriore motivo di supposta illegittimità – per ora del tutto temporanea, in attesa di pronuncia definitiva sulla q.l.c. – si rinverrebbe rispetto al riconoscimento alla Banca d’Italia del potere di disciplinare le modalità di tale esclusione, nella misura nella quale detto potere viene attribuito «anche in deroga a norme di legge», con conseguente attribuzione di un “potere di delegificazione in bianco”, senza la previa e puntuale indicazione, da parte del legislatore, delle norme legislative che possano essere derogate e, altresì, in ambiti verosimilmente coperti da riserva di legge. L’ordinanza pubblicata ha, conseguentemente disposto, per l’effetto, la sospensione delle disposizioni della ricordata circolare della Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 – 9° aggiornamento del 9 giugno 2015, concernente: I) il paragrafo 2 (Regime di prima applicazione), limitatamente agli ultimi due capoversi (da
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Vedi TAR Lazio, Sez. III, sentenza 7/6/2016 n. 6544/2016.
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«Operazioni nella specie» fino a «nella forma dell’influenza dominante»); II) il paragrafo 3 (Modifiche statutarie delle banche popolari), quinto capoverso, prima alinea, limitatamente alle parole: «limitare o»; «e senza limiti di tempo»; «anche in deroga a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge e»; «e sulla misura della limitazione»; III) la Parte III, Capitolo 4, Sezione III («Rimborso degli strumenti di capitale»), «1. Limiti al rimborso di strumenti di capitale», integralmente per tutto il relativo testo, ma nei limiti in cui tale Sezione III sia da applicarsi alle vicende conseguenti alle trasformazioni delle banche popolari in società per azioni in conseguenza delle suindicate norme del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito in legge 24 marzo 2015, n. 33. Le ragioni – secondo l’ordinanza ricordata – risiedono in ciò, che la circolare sospesa: A) attribuisce agli organi della stessa società interessata dalla “uscita” del socio (per recesso; esclusione; morte) il potere di decidere l’esclusione del rimborso medesimo, «finendo in tal modo per creare una irragionevole situazione di conflitto di interesse, nella quale il debitore è paradossalmente fatto arbitro delle sorti del diritto al rimborso della quota vantato dal socio creditore, il quale intenda recedere per effetto e in diretta dipendenza della delibera di trasformazione societaria»; B) attribuisce (esercitando una sorta di sub-delega del potere di delegificazione) all’autonomia statutaria della società il potere di introdurre «deroghe a disposizioni del codice civile e ad altre norme di legge», dando così vita a un’inedita forma di delegificazione di fonte negoziale; C) dispone che «non saranno ritenute in linea con la riforma operazioni da cui risulti la detenzione, da parte della società holding riveniente dalla ex “popolare”, di una partecipazione totalitaria o maggioritaria nella s.p.a. bancaria o, comunque, tale da rendere possibile l’esercizio del controllo nella forma dell’influenza dominante», atteso che la predetta limitazione risulta priva di base legislativa e appare, oltre che non necessaria per realizzare le finalità della riforma, foriera di un’irragionevole disparità di trattamento tra i soci delle ex popolari (privati della possibilità di esercitare il controllo) e ogni altro soggetto che partecipi al capitale azionario (cui, invece, tale possibilità resta riconosciuta). Da parte ogni valutazione in ordine alla copertura legislativa di questa o di quella disposizione secondaria, per mancanza di previa norma di fonte primaria, sul piano procedurale non è consentito omettere di osservare la censura – allo stato provvisoria – del Consiglio di Stato verso la tecnica regolativa di tipo “conformativo” (come chi scrive a suo tempo ha scelto di denominare la modalità di regolamentazione adottata da Banca d’Italia, dopo avere osservato che la stessa risulta estranea al sistema di legge; tecnica che coinvolge autonomia statutaria ed organi sociali); tecnica ora sospesa. In questa sede desta forte interesse ciò, che il Consiglio di Stato pare avere tralasciato, in parte motiva, la normativa dell’Unione Europea (ma il tema è ora ribaltato sulla Corte Costituzionale). Mette qui conto prendere atto d’una (temporanea) reazione giudiziaria al c.d. neoistituzionalismo delle cooperative bancarie, a mente del quale il diritto al rimborso del socio uscente viene sacrificato sull’altare della stabilità sistemica e della sana e prudente gestione. Una delle ragioni del sollevamento della questione di legittimità costituzionale risiederebbe (anche)
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nella mancanza di “interesse corrispettivo” alla limitazione del diritto al rimborso – benché lo scrivente faccia fatica a comprendere a quale nesso di corrispettività il Consiglio di Stato alluda in senso tecnico, versandosi nel campo di rapporti di natura associativa (letteratura sterminata, a partire dal classico di Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971). Il problema, che invero per il momento nessuno ha sollevato in sede giurisdizionale, è come mai identica limitazione non venga prospettata nei testi legislativi (salvo errori) dell’Unione Europea ed interni a riguardo dell’exit da banche società per azioni; come mai, cioè, l’uscita dalle popolari e dalle banche di credito cooperativo costituisca una minaccia sistemica più intensa che non quella dalle prime; come mai gli obiettivi di sana e prudente gestione siano a maggior rischio nelle cooperative di credito che non nelle s.p.a. Il pensiero malevolo sorge spontaneo: si potrebbe pensare che la riforma delle popolari e delle b.c.c., che vuole rendere questi enti contendibili, li voglia preservare ben patrimonializzati fino alla quotazione? In realtà, è dato pensare che la materia sia assai più complessa e che, se mai questo è stato il disegno originario, le cose vadano poi diversamente. Mentre non sembra generare dubbi di tenuta sistematica neppure per il Consiglio di Stato la prospettazione del rinvio del rimborso senza limitazione “quantitativa” – una limitazione solo cronologica del diritto al rimborso, verrebbe da dire, così come già ha opinato chi scrive, così da non intaccare le più importanti poste patrimoniali di bilancio della società bancaria, attuando il socio uscente allora una sorta di finanziamento per dilazione a beneficio della società – viene da chiedersi se la Corte Costituzionale vorrà far salva la normativa U.E. imponendo un riequilibrio per ponderazione, cioè per ripartizione di sacrifici “quantitativi”: da un lato circoscrivendo il diritto al rimborso del socio uscente, dall’altro ponendo a carico dei rimanenti un obbligo supplementare di accumulazione a riserva di utili realizzati negli esercizi successivi, affinché il sacrificio di uno oggi non si ripeta domani a carico di altri, con conseguente compressione – questa sì, “senza corrispettivi” – del diritto del socio a qualsiasi exit. Se passa questa interpretazione, le banche s.p.a. già popolari, anche se quotate, pure da s.p.a. dovrebbero seguire politiche assai più morigerate nella distribuzione di dividendi rispetto alle banche che sin dall’origine hanno rivestito forma azionaria. Sia consentito opinare – senza bisogno di essere Nostradamus – che i mercati finanziari poco gradirebbero “paletti” tanto intensi alla remunerazione della partecipazione sociale. E qui torniamo al discorso di inizio: se la normativa sia nazionale sia U.E. non può sottrarsi al vaglio di tenuta sistematica, e se in qualche modo il sacrificio di uno o più soci devetrovare un qualche contrappeso di natura collettiva – ecco forse la “corrispettività” in senso tecnico cui allude il Consiglio di Stato –, cioè se il sacrificio deve essere ripartito su tutta la compagine sociale, pur se in tempi e modi diversi, viene da pensare che le nuove norme sulle popolari non abbiano un occhio di riguardo, bensì un occhio strabico verso i mercati finanziari: se da un lato, infatti, si cerca di rendere contendibili enti che per il loro codice organizzativo non lo sarebbero, dall’altro l’imprescindibile esigenza di riequilibrio dei diritti sociali finisce per deludere i mercati stessi.
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2. Il secondo esemplare di limitazione dei diritti individuali dei soci riguarda soltanto una classe di cooperative bancarie, le banche di credito cooperativo, le quali hanno formato oggetto di recente riforma (d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 aprile 2016, n. 499): esse debbono confluire in un gruppo bancario cooperativo, al cui vertice si pone una società per azioni; forse trasformarsi in, o fondersi con altre società bancarie dando luogo a società per azioni; in difetto, sciogliersi. Possono darsi altresì gruppi più complessi, articolati in sottogruppi territoriali, a capo di ciascuno dei quali si ponga una società per azioni, la quale faccia poi riferimento alle direttive di una società azionaria capogruppo “generale”. Il riferimento normativo è, precisamente, agli articoli 33, co. 1-bis e 1-ter, 36, co. 1-bis, 37-bis, 37-ter, t.u.b. (introdotti con la riforma cit.). Nella esposizione a seguire non terrò conto dei gruppi bancari cooperativi articolati in sotto-gruppi territoriali: peraltro, verso gli stessi possono replicarsi tutte le considerazioni a seguire, svolte per i gruppi “semplici”. Anzitutto non è chiaro se la via d’uscita della trasformazione sia praticabile soltanto per effetto di recesso od esclusione dal gruppo bancario cooperativo, come sembra dire la legge; oppure sia praticabile anche in caso di mancato ingresso, poiché non è stato modificato l’art. 36, co. 1, t.u.b., che fa riferimento soltanto alle fusioni cui partecipi una BCC e da cui risulti una s.p.a. Ancora, neppure è chiaro se la messa in liquidazione possa soltanto conseguire ad una deliberazione assembleare, anziché dalla legge (ipso iure) oppure dall’atto dell’autorità di vigilanza (art. 36, co. 1-bis, t.u.b.). Quel che interessa capire in questa sede è se, quando la BCC faccia ingresso in un gruppo bancario cooperativo, si produca una (sensibile) modificazione funzionale extrastatutaria della società cooperativa, poiché: a).la cooperativa è oggi codice organizzativo invariabilmente legato alla funzione mutualistica (art. 2511; art. 2545-quater, co. 2; art. 2545-septiesdecies, co. 1, c.c. – le ultime due non trovano applicazione verso le BCC: v. art. 150-bis t.u.b.) – da vedere poi cosa intendere con questa formula; b) .in particolare, le BCC sono considerate, ricorrendo le condizioni dell’art. 2514 c.c. e dell’art. 35 t.u.b., cooperative a mutualità prevalente, cioè vengono classificate tra le cooperative che in ragione della più intensa pratica di mutualità godono di benefici fiscali; c).ancor più in particolare, una delle manifestazioni della mutualità, quella concernente l’operatività prevalente nei confronti dei soci, di cui si occupa ancora l’art. 35 t.u.b., ha come effetto la compressione del
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perseguimento della produzione dell’utile di esercizio, cioè del fine di lucro, che peraltro può legittimamente convivere con la mutualità. Che l’operatività verso i soci possa introdurre tale compressione pare incontrovertibile, tanto che lo stesso art. 35 t.u.b. (per limitarci alla materia bancaria) la prevede come condizione naturale, la cui deroga – a tempo determinato – può legittimamente essere autorizzata soltanto dall’autorità di vigilanza per ragioni di stabilità. Per questo in passato si è detto che la cooperativa manifesti una impresa per proprio conto (in quanto «organizzazione a disposizione dei soci»10); d).per converso, in assenza di un’espressa disposizione di legge, l’adozione del codice organizzativo della società per azioni è funzionale al perseguimento di un programma lucrativo. Pur in presenza di studi autorevoli di segno contrario, non sembra pensabile, fuori dai casi in cui ciò sia espressamente previsto dalla legge, perseguire in forma di s.p.a. una finalità mutualistica (pur perdendo ogni agevolazione fiscale e previdenziale); e) .il codice civile conosce soltanto gruppi cooperativi paritetici (art. 2545-septies c.c., non disapplicato dall’art. 150 bis t.u.b.), caratterizzati, fra le altre cose, perché al vertice si pongono cooperative, mentre la distribuzione dei vantaggi e la compensazione plausibilmente vanno collegate alla funzione mutualistica. Del pari, non avendo il gruppo alcuna natura forzosa, il recesso è sempre consentito quando dalla partecipazione al gruppo derivi pregiudizio per i soci avuto riguardo alle condizioni dello scambio mutualistico; f).il gruppo bancario cooperativo invece riassume in sé caratteristiche “eccentriche” rispetto agli istituti del codice civile: come nel caso del gruppo paritetico di cooperative, il gruppo bancario cooperativo è basato su di un contratto che regola le relazioni tra gli enti coinvolti (contratto di dominazione?). Il resto della disciplina, tuttavia, marca le distanze dal diritto comune: i. al vertice del gruppo è posta una s.p.a. autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, la quale è legittimata all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento sulle società del gruppo sulla base del contratto di dominazione;
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Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, pp. 189-190; ID., Intervento, in La riforma della legislazione sulle cooperative, a cura di Bucci e Cerrai, Atti convegno Università di Ancona, 10-11 marzo 1978, Milano, 1979, pp. 301 ss., del quale il virgolettato nel testo.
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ii. questa società è partecipata in senso ascensionale – peraltro in via soltanto maggioritaria anziché esclusiva – dalle cooperative BCC che si sottomettono per effetto del contratto di dominazione all’attività di direzione e coordinamento. Dunque, è un gruppo anomalo rispetto alle fattispecie consuete, perché di solito è la società posta al vertice che è titolare di partecipazioni delle “figlie”; iii. nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento la s.p.a. capogruppo – alla quale nulla impedisce di esercitare l’attività bancaria e quindi di raccogliere risparmio tra il pubblico ed esercitare il credito sulla base di uno scopo (pienamente) lucrativo – è tenuta al rispetto delle finalità mutualistiche delle cooperative dalla stessa dirette: come nella disposizione del codice civile, compaiono pure qui la necessaria previsione, all’interno del contratto di gruppo, dei «criteri di compensazione e (del)l’equilibrio nella distribuzione dei vantaggi derivanti dall’attività comune» (art. 37-bis, co. 3, lett. c), t.u.b.); iv. non entro nel dettaglio dei mezzi di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, tutti concentrati sui poteri di condizionamento delle decisioni degli organi amministrativi delle società eterodirette (indicazione degli indirizzi strategici; determinazione nel contratto di gruppo dei casi in cui la capogruppo è legittimata a nominare, ad opporsi alla nomina, a revocare amministratori; determinazione nel contratto di gruppo dei casi in cui una BCC possa essere esclusa). Il contratto di gruppo ha per oggetto una dominazione forzosa delle cooperative eterodirette, non essendo altrimenti controllabili per via assembleare; v. scontato che la prima preoccupazione del diritto speciale sia nell’ordine della sana e prudente gestione, io credo che per la capogruppo debbano allora tenersi distinte da un lato la gestione societaria lucrativa, in quanto s.p.a. bancaria (art. 37-bis, co. 1, lett. a), t.u.b.); dall’altro, un esercizio dell’attività di direzione e coordinamento rispettoso della funzione mutualistica delle cooperative eterodirette. Di ciò mi pare evidenza nell’art. 37-bis, co. 3, lett. b), t.u.b.; vi. queste distinte gestioni fanno capo al medesimo ente, peraltro partecipato da cooperative, suscettibili di addivenire alla qualifica di cooperativa a mutualità prevalente con conseguenti benefici fiscali; vii. da un lato, la funzione della società capogruppo manifesta una sorta di “sdoppiamento”, giustificato allora direttamente nella espressa previsione della legge. Vana sarebbe la ricerca di una legittimazione di tale sdoppiamento funzionale nel codice civile. Viene da pensare che l’avere prescelto una capogruppo s.p.a. sia preordinato a mettere sul mercato, poi sui mercati finanziari istituzionali, il gruppo cooperativo
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bancario: qualora la capogruppo emetta azioni quotate, le stesse possiederanno quote di patrimonio di una società quotata alle cui direttive gestorie debbono peraltro rispondere; viii. dall’altro, occorre pensare che il mercato possa indurre decisioni gestorie allineate non alle finalità mutualistiche, bensì al mercato e al trading azionario. Di questo aspetto non pare tenere considerazione il t.u.b., a differenza della salvaguardia della sana e prudente gestione. ix. Politicamente, se il disegno fosse stato esclusivamente l’aggregazione delle BCC perché ritenute troppo “piccole” per resistere sul mercato e quindi avendo di mira esclusivamente obiettivi di sana e prudente gestione nonché di stabilità (del mercato), la strada maestra sarebbe stata quella del gruppo cooperativo paritetico (qualcosa di simile all’ICCREA). Così non è stato, sicché non vi è altra lettura che quella di un disegno volto a rendere contendibili enti che prima non lo erano (mentre per le banche popolari la via prescelta è stata diversa: la trasformazione forzosa in spa). Tale eventualità potrebbe manifestarsi come neutra rispetto alla funzione mutualistica – penso soprattutto all’eventualità in cui la capogruppo non vada a quotarsi su alcun mercato –; ma gli sviluppi potrebbero anche andare in senso diverso. In ogni caso, in quanto eterodiretta, la BCC è oggi una «organizzazione un po’ meno a disposizione dei soci», un po’ meno «impresa per proprio conto» a differenza della cooperativa di diritto comune. E questa pure è una limitazione dei diritti individuali dei soci, i quali possono vedersi compressa la quantità e la qualità degli «scambi mutualistici» in conseguenza di una direttiva espressa dalla società capogruppo, peraltro partecipata dalla società cooperativa di cui essi stessi sono soci, cioè da un investimento anomalo e forzoso della cooperativa stessa. Anche questa, in ultima analisi, è una manifestazione neo-istituzionalismo del diritto speciale? Ambigua resta infine la previsione della via d’uscita dalla mutualità neo-istituzionalista: la lettera dell’art. 36, co. 1-bis, t.u.b., non sembra permettere la trasformazione in società azionaria bancaria, se non in caso di recesso o di esclusione dal gruppo cooperativo stesso, non invece quale libera opzione. Potrebbe sfuggirmi qualcosa; ma qualora l’interpretazione restrittiva dovesse ritenersi fondata, non resterebbe che la seguente alternativa: 1).Fondere la BCC con altra BCC (qualora la congiunzione “e” dell’art. 36, co. 1, t.u.b. dovesse accreditarsi di valore disgiuntivo) ovvero la BCC con una banca popolare (in caso di interpretazione inversa) per approdare, all’esito della fusione, ad una società azionaria bancaria; 2).sciogliere la BCC conferendo l’azienda ad una società per azioni bancaria neo-costituita.
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Peraltro, la fuoriuscita dal sistema cooperativo presenta un costo rilevante, nel secondo caso, perché lo scioglimento di un ente a mutualità prevalente comporta una severa limitazione del diritto dei soci alla riappropriazione del saldo finale di gestione (v. art. 2514, co. 1, c.c., non disapplicato dall’art. 150-bis t.u.b.). Nel primo caso, invece, l’art. 150-bis t.u.b. disapplica l’art. 2545-octies c.c., forse per sollevare da oneri le fusioni da cui risultino società azionarie. Infine, l’art. 150-bis t.u.b. (come già in passato) anche oggi disapplica alle BCC l’art. 2545-decies c.c.: forse proprio da questa “finestra” potrebbe rientrare, se non vedo male, la trasformazione in s.p.a. come libera opzione (peraltro “senza oneri” di devoluzione patrimoniale), viceversa preclusa dalla lettera dell’art. 36, co. 1, t.u.b. L’argomento meriterebbe più ampia riflessione, che non è possibile in questa sede, perché esso sembra abbastanza debole. E allora? Ribaltando l’ironia di Ennio Flaiano («mi spezzo, ma non mi impiego»), credo che la BCC di oggi assai difficilmente «si spezzi», ma più facilmente «si impieghi».
Presidente Grazie anche a Luigi Salamone. Direi che con un moto circolare l’ultima relazione si è collegata alle considerazioni svolte da Mario Stella Richter. Mi limito a ripercorrere alcuni passaggi particolarmente critici della relazione. In primo luogo, che ne è della gestione mutualistica? È ridotta ad un ruolo marginale quasi confinata ad una clausola di stile. Infatti, la capogruppo del gruppo bancario cooperativo (quale disciplinato dal nuovo art. 37-bis TUB) elabora e attua la gestione strategica fino al punto di intervenire nelle scelte delle singole società controllate in virtù del contratto di coesione. La direzione e il coordinamento, tuttavia, deve essere esercitata “nel rispetto delle finalità mutualistiche” (lett. b del terzo comma), ma non avrei dubbi che, al pari di quanto abbiamo detto in generale circa il degradare dell’interesse del socio di fronte all’interesse generale alla stabilità della banca e del sistema creditizio, anche l’interesse alla gestione mutualistica degradarà di fronte all’interesse alla stabilità dell’intero gruppo cooperativo. In secondo luogo, perché il legislatore italiano ha scelto la forma di spa per la capogruppo delle bcc? Non era una scelta obbligata, in altri ordinamenti accade che anche la capogruppo abbia forma cooperati-
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va, basti pensare alla Robobank in Olanda. Credo, pertanto, che abbia perfettamente ragione Luigi: si tratta di avere a disposizione una società che sarà pronta ad essere ricapitalizzata al bisogno, tant’è che già ora la legge dice che possono partecipare al capitale della capogruppo, fino al limite del 49%, anche soggetti diversi dalla cooperative. Si prepara il terreno: alla prima crisi seria del/i gruppo/i cooperativo/i, la mutualità sarà completamente dimenticata perché si cercherà (si dovrà cercare) il primo acquirente disponibile sul mercato disposto a rifinanziare il gruppo, meglio se tale acquirente sia già un socio storico della spa capogruppo. Il tema, ovviamente, meriterebbe ben altro approfondimento.
Considerazioni conclusive Alessandro Nigro 1. Abbiamo ascoltato interventi di altissimo livello che ci hanno fornito – come era del resto prevedibile, data la qualità dei relatori – una ricca messe di indicazioni e di spunti. Mi guarderò bene, ovviamente, dal ripercorrere gli itinerari che sono stati così efficacemente tracciati da chi mi ha preceduto. Mi limiterò a qualche considerazione di carattere generalissimo. 2. A. Comincerei con il ricordare che fino ai primi anni ’90 del secolo scorso il nostro ordinamento del credito era imperniato su di una legge (la legge bancaria del 1936-38) molto complessa ed articolata, che affidava alle autorità di vigilanza una gamma vastissima di poteri di controllo sulle imprese operanti nel settore caratterizzati dalla più lata discrezionalità di attivazione. E si parlava, con riferimento a tale ordinamento, di una pubblicizzazione a più livelli (a livello soggettivo, per la massiccia, anzi prevalente, presenza di imprese-enti pubblici; a livello oggettivo, in relazione all’espressa qualificazione normativa dell’attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito come «funzioni di interesse pubblico»). Per effetto degli impulsi provenienti dalla Comunità europea quell’ordinamento si era lentamente ma inesorabilmente modificato in senso radicale: da un lato, era stato investito in pieno da un processo di “privatizzazione”, che ha portato al tramonto delle banche pubbliche; e, dall’altro, per effetto di puntuali interventi normativi volti alla valorizzazione del paradigma imprenditoriale nello svolgimento dell’attività bancaria, i poteri di controllo dell’autorità di vigilanza erano stati rimodellati nella loro estensione e soprattutto nella loro intensità con una drastica riduzione del grado di
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discrezionalità riconosciuta all’autorità amministrativa. Oggi, a seguito degli interventi normativi di cui ci stiamo occupando in questa sede (interventi anche questa volta di fonte comunitaria) il quadro risulta completamente ribaltato. Alle autorità di controllo del settore (autorità di vigilanza; autorità di risoluzione) competono ormai poteri di intervento talmente diffusi e penetranti, su tutti gli aspetti strutturali e funzionali, delle imprese bancarie (si pensi all’espansione degli interventi ai profili di governance; all’amplissima utilizzazione degli strumenti di c.d. vigilanza “correttiva”, e così via) e, per altro verso, talmente discrezionali da consentire di parlare, qui, di autentico “appassimento” del paradigma imprenditoriale e di sostanziale (quanto “feroce”) nuova pubblicizzazione, quanto meno sotto l’aspetto oggettivo se non anche sotto quello soggettivo. Con una sorta, allora, di “ritorno al passato”, in termini – aggiungerei – decisamente rafforzati. Paradigmatici, sotto questo profilo, mi sembrano gli strumenti, assolutamente inediti, introdotti dalle nuove normative e costituiti dai piani. Più precisamente: il piano di risanamento, che ciascuna banca deve ex ante predisporre e annualmente aggiornare, e che l’autorità di vigilanza deve verificare, contenente l’indicazione delle misure che essa adotterebbe per far fronte a situazioni di difficoltà; e, rispettivamente, il piano di risoluzione, che l’autorità di risoluzione deve, anche qui ex ante, predisporre per ciascuna banca e periodicamente aggiornare, nel quale sono previste le modalità per l’applicazione alla banca delle misure e dei poteri da attivare in caso di risoluzione. Non si tratta di semplici simulazioni, ma di vere e proprie pianificazioni, in relazione alle quali l’autorità di vigilanza e, rispettivamente, l’autorità di risoluzione possono imporre modifiche da apportare all’attività, alla struttura organizzativa o addirittura alla forma societaria della banca interessata. In sostanza, attraverso il veicolo del piano, l’autorità di controllo può arrivare a rimodellare completamente l’impresa. 3. B. Nell’ambito di questo “ritorno al passato”, credo che si potrebbe arrivare anche al recupero, in termini sostanziali, della stessa qualificazione dell’attività creditizia come “funzione di interesse pubblico”. Non ho la possibilità e il tempo, soprattutto, di ricostruire qui, con il dovuto approfondimento, il percorso argomentativo che – muovendo dalla premessa (che credo indiscutibile) per la quale i poteri di intervento delle autorità di controllo debbono trovare il loro fondamento nella necessità di soddisfare un preciso interesse pubblico, tanto più quando incidano su libertà (per esempio la libertà di impresa) o su diritti (per esempio il diritto di proprietà), protetti a livello “costituzionale” sia inter-
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no sia comunitario – mi ha condotto a ritenere possibile il recupero di cui parlavo. Mi limiterò a rilevare, molto sinteticamente, -. le due direttive che in questa sede interessano (CRD4 e BRRD) e le relative normative nazionali di attuazione sono figlie di un’unica ispirazione di fondo: la esigenza di governare le crisi bancarie; che cioè anche le normative in materia di partecipazione alle banche, di requisiti di capitale, di governance delle banche, ecc. sono, come direbbero i francesi, axés sulla prospettiva delle crisi, il cui rischio si intende con esse limitare; - .che gli interessi tutelati nei due comparti disciplinari potrebbero dunque ritenersi gli stessi; -.che nelle normative in materia di crisi si trovano espressamente qualificati come di “interesse pubblico” una serie di “obiettivi” che certi strumenti di soluzione delle stesse debbono perseguire; che fra questi obiettivi è esplicitamente indicato, al primo posto, quello di «garantire la continuità delle funzioni essenziali» dell’intermediario; che, per una serie di ragioni di ordine sistematico, è a tale specifico obiettivo, ed al relativo interesse pubblico, che deve in effetti assegnarsi la preminenza; -.che è dunque nella tutela di questo specifico interesse pubblico che è possibile individuare il fondamento di tutte le pesanti limitazioni all’autonomia statutaria, ai diritti dei privati, ecc. che sono state evidenziate da chi mi ha preceduto; -.che qualificare come interesse pubblico la (garanzia della) continuità delle funzioni essenziali dell’intermediario equivale, nel caso della banca, a qualificare come di interesse pubblico le funzioni essenziali delle stesse, cioè la raccolta del risparmio, l’esercizio del credito e l’intermediazione nei pagamenti; -.che tutto questo concreta appunto, per ciò che concerne il nostro ordinamento, quell’autentico “ritorno al passato” di cui dicevo. 4. C. Apro a questo punto una parentesi. Quello che – almeno a me – appare singolare è che, nello stesso contesto che vede l’attribuzione di rilevanza, anzi a mio modo di vedere di preminenza, a questo interesse pubblico si stabilisca la regola – fatta oggetto di qualificazione anch’essa come di interesse pubblico – del divieto, almeno in via di massima, del ricorso a fondi pubblici. A me sembra cioè che i due obiettivi che, per esplicita volontà del legislatore europeo, ispirano le normative che stiamo considerando e specificamente quella sulle crisi, vale a dire la conservazione in continuità dell’azienda bancaria e l’assenza del ricorso ad ausili pubblici siano palesemente confliggenti. Perché – riterrei – l’esistenza di un interesse pubblico implica di per sé, necessariamente, un
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obbligo dello Stato di provvedere, anche in termini finanziari, a soddisfarlo. So bene, naturalmente, che il secondo dei due obiettivi trae il suo fondamento dalla disciplina europea che non consente aiuti pubblici alle imprese in quanto incompatibili con le regole della concorrenza. Il fatto è, però, che queste regole risultano a ben vedere violate nel momento stesso in cui si assume come interesse pubblico preminente – da perseguire anche con il sacrificio degli interessi privati coinvolti – quello alla conservazione dell’azienda bancaria, che, secondo quelle stesse regole, sarebbe invece condannata alla scomparsa. Io credo che l’intero assetto andrebbe, sotto questo profilo, ripensato. Tanto più ove si consideri che anche l’alternativa – ai fondi pubblici – rappresentata dai fondi privati “tratti” dal settore interessato potrebbe, a sua volta, essere considerata come lesiva delle regole della concorrenza. 5. D. Chiusa la parentesi, riprendo il discorso che andavo svolgendo. Alla luce di quanto rilevato da me e da quanti mi hanno preceduto, non vi è dubbio che le società bancarie vadano ascritte alla categoria, se si preferisce al genus, delle c.d. società di diritto speciale o a statuto speciale, caratterizzate rispetto alle altre figure di tale categoria o genus dall’altissimo tasso, appunto, di specialità, un tasso ancor più elevato, non solo rispetto a quello risultante dal t.u.b. del 1993 ma addirittura a quello risultante dalla normativa ante 1993. Non riterrei utile porsi il problema – che si è posto, ricordo, con riferimento alle società quotate – se le società bancarie possano o debbano, in relazione appunto alla specialità del loro regime, qualificarsi come un tipo societario a sé. La rilevanza pratica di un siffatto problema si esaurirebbe nella questione se il passaggio dal regime speciale a quello ordinario (o viceversa) concreti o meno trasformazione, con tutto quello che allora ne può derivare in termini di competenza e quorum assembleare. Ma una tale questione, nella nostra ipotesi, troverebbe in partenza soluzione, posto che il passaggio di regime presuppone sempre il cambiamento dell’oggetto sociale, che di per sè impone comunque l’intervento dell’assemblea straordinaria. Riterrei molto più utile, invece, dedicare ogni sforzo ad analisi approfondite dello statuto speciale delle società bancarie, per verificare, in particolare, i limiti dei poteri di intervento attribuiti alle autorità di controllo nonché vagliarne la compatibilità con i principi “costituzionali”, da rintracciare specificamente – trattandosi di normative comunitarie o di derivazione comunitaria – nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Una compatibilità che non sempre può ritenersi sicura, nonostante
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le numerose precisazioni che si rinvengono nei preamboli di quelle direttive. Faccio un solo esempio: nel considerando 29 della direttiva BRRD, dopo aver rilevato che ove l’ente non presenti un piano di risanamento adeguato le autorità competenti dovrebbero poter esigere che esso prenda le misure necessarie per colmarne le carenze sostanziali, ci si preoccupa di puntualizzare che tale obbligo può sì incidere sulla libertà di impresa garantita dall’art. 16 della Carta, ma tale limitazione è necessaria per conseguire gli obiettivi di stabilità finanziaria; con ciò però si trascura di considerare che, ai sensi dell’art. 52 della Carta, le limitazioni alle libertà riconosciute dalla medesima Carta, oltre a dover essere necessarie e rispondenti a finalità di interesse generale, devono «rispettare il contenuto essenziale» di tali libertà, e mi pare quanto meno dubbio che l’imposizione di modifiche alla struttura organizzativa, o a quella giuridica o addirittura alla forma societaria di una banca (così la norma comunitaria è stata “tradotta” dall’art. 69-sexies t.u.b.) possa considerarsi sempre e comunque rispettosa del “contenuto essenziale” della libertà di impresa. 6. E. Il fortissimo grado di pubblicizzazione, che connota il nuovo statuto delle società bancarie, pone un particolare e delicato problema: quello cioè della possibilità di una loro riqualificazione come enti pubblici. Un siffatto problema si è posto di recente, come è noto, per le c.d. “società pubbliche”, o meglio per quella parte di esse che risulta no caratterizzate non solo dalla partecipazione pubblica totalitaria ma anche dall’”asservimento” totale al perseguimento di finalità pubblicistiche (sono le società c.d. semi-amministrazioni); ed è stato e viene risolto da una parte della dottrina e della giurisprudenza in senso affermativo, con alcune rilevanti conseguenze, quale in particolare la sottrazione alle procedure concorsuali giudiziarie, ai sensi dell’art. 1 l. fall. Personalmente, sono sempre stato contrario a tale orientamento, per molte ragioni e comunque soprattutto in relazione a quanto dispone l’art. 4 della legge n. 70 del 1975, per il quale nessun nuovo ente pubblico può essere istituto o riconosciuto se non per legge. E per lo stesso ordine di ragioni riterrei di dare risposta negativa anche con riguardo alle società bancarie. Certo è che, se si dovesse arrivare a ritenere in linea generale che società formalmente private possano essere riqualificate come enti pubblici in base ad indici sostanziali di pubblicità, una risposta affermativa alla questione potrebbe risultare plausibile, con “ricadute”, allora, di vario genere.
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7. F. Vorrei toccare un ultimo punto. Mi sono chiesto e mi chiedo se e quali dei nuovi strumenti o meccanismi previsti nella normativa speciale sulle società bancarie possano essere “esportati” nel campo delle società ordinarie. Non è una prospettiva “peregrina”: ricordo, a tale riguardo, che molti istituti introdotti nel t.u.f. per le società quotate sono stati successivamente “trasposti”, con la riforma del 2003 del diritto societario, nel diritto comune delle società per azioni. Naturalmente, non posso pensare ad una “esportazione” in via interpretativa Questa strada è stata prospettata in un convegno di qualche tempo fa con riferimento al meccanismo del bail-in, di cui si proponeva l’utilizzazione nelle procedure concorsuali ordinarie. Ma mi parrebbe una strada decisamente avventurosa. Posso pensare, invece, ad una “esportazione” per via legislativa. In questa chiave a me sembra che potrebbe costituire oggetto di riflessione la possibilità di introdurre nella disciplina comune delle società per azioni (o almeno di quelle che superino certe dimensioni) meccanismi di pianificazione preventiva delle soluzioni di future ed eventuali situazioni di crisi analoghi a quello costituito dai piani di risanamento di cui ho detto prima. Tra l’altro, non mancherebbe la sede adatta per questa innovazione: mi riferisco al disegno di legge delega (c.d. Rordorf) per la riforma delle procedure concorsuali, che contiene una parte dedicata alle misure di allerta e prevenzione la quale potrebbe tranquillamente “ospitare” meccanismi del genere. 8. Avrei da dire molte altre cose, anche e proprio sulle “incongruenze” che caratterizzano le normative di cui ci stiamo occupando. Ho fatto cenno prima ad una di essere, ma ve ne sono molte altre su cui varrebbe la pena di soffermarsi. Non voglio però abusare della pazienza di chi mi ascolta: quindi mi fermo. Aggiungo solo che il nostro incontro, al di là delle opinioni che si possano avere sui diversi profili, mi pare sia stato altamente proficuo, se non altro perché tutte le relazioni ci hanno costretto e ci costringeranno a pensare. E – come mi piace sottolineare ogni volta che ne ho l’opportunità – pensare è un’attività che fa bene sempre e comunque
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AUTORI
Sandro Amorosino, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Carlo Angelici, prof. emerito di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Giurisprudenza) Giovanni B. Barrillà, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Bologna (Scienze Giuridiche) Antonella Brozzetti, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Siena (Economia) Vincenzo Caridi, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Ciro G. Corvese, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Economia) Giovanni Falcone, prof. straord. nell’Università telematica Pegaso di Roma (Giurisprudenza) Giuseppe Ferri, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Tor Vergata di Roma (Giurisprudenza) Filippo Fiordiponti, ricercatore di Diritto privato nell’Università politecnica delle Marche Sabino Fortunato, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Roma Tre (Giurisprudenza) Danilo Galletti, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Trento (Giurisprudenza) Fabrizio Guerrera, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Messina (Giurisprudenza) Giuseppe Guizzi, prof. ord. di Diritto Commerciale nell’Università Federico II di Napoli (Giurisprudenza) Fabrizio Maimeri, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università Telematica Guglielmo Marconi di Roma (Giurisprudenza) Irene Mecatti, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Alessandro Nigro, già prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Alfonso Parziale, dottorando di ricerca nell’Università Tor Vergata di Roma Maria Lucia Passador, dottoranda di ricerca nell’Università Bocconi di Milano Edgardo Ricciardiello, avvocato in Bologna Gianluca Romagnoli, prof. a contratto di Diritto Bancario nell’Università di Padova (Economia)
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Gennaro Rotondo, ricercatore di Diritto dell’Economia nell’Università della Campania – L. Vanvitelli di Caserta (Scienze Politiche) Luigi Salamone, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università del Lazio meridionale di Cassino (Economia e Giurisprudenza) Maria Elena Salerno, ricercatore di Diritto dell’Economia nell’Università di Siena (Economia) Vittorio Santoro, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Luigi Scipione, dottore di ricerca nell’Università di Siena Maurizio Sciuto, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Macerata (Economia) Mario Stella Richter, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Tor Vergata di Roma (Giurisprudenza) Giuseppe Terranova, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Giurisprudenza) Daniele Vattermoli, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia)
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INDICI DELL’ANNATA PARTE PRIMA SAGGI Amorosino Sandro, “Costituzione economica” e diritto amministrativo nel Codice delle assicurazioni, nel T.U. bancario e nel T.U. dell’intermediazione finanziaria pag. Brozzetti Antonella, Considerazioni (sparse) su banche e attività bancarie » Falcone Giovanni, Una nuova “particolare operazione di credito”: il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato (art. 48-bis t.u.b.) » Guerrera Fabrizio, La rimozione degli esponenti aziendali di Sim, Sgr, Sicav e Sicaf » Nigro Alessandro, Crisi dell’impresa e ruolo dell’informazione » Passador Maria Lucia, Una nuova Unione, una Unione Bancaria » Passador Maria Lucia, Appunti sulle Sicaf. Profili societari » Ricciardiello Edgardo, Gli accordi di sostegno finanziario infragruppo nella crisi dei gruppi bancari » Romagnoli Gianluca, L’espansione della competenza sanzionatoria di Agcm. Note sulla – dubbia – separazione delle prerogative di regolazione e sulla pretesa (sostanziale) marginalizzazione delle autorità di vigilanza dei mercati finanziari » Salamone Luigi, Il recesso dalle banche popolari ovvero: “rapina” a mano armata » Salerno Maria Elena, La disciplina in materia di protezione degli investitori della MiFid II: dalla disclosure alla cura del cliente? » Scipione Luigi, Le distorsioni strutturali dei credit default swap e il rischio di controparte. Ripercussioni sulla stabilità dei mercati e spunti per una revisione normativa »
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DIBATTITI Rapporti bancari e procedure concorsuali – Incontro di studio del 18 giugno 2015 presieduto da Vittorio Santoro, con interventi di Vincenzo Caridi, Sabino Fortunato, Danilo Galletti, Alessandro Nigro, Maurizio Sciuto, Giuseppe Terranova, Daniele Vattermoli
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Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli – Incontro di studio del 23 giugno 2016 presieduto da Vittorio Santoro, con interventi di Carlo Angelici, Giuseppe Ferri, Giuseppe Guizzi, Alessandro Nigro, Luigi Salamone, Mario Stella Richter
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RASSEGNE Rotondo Gennaro, Incidenza applicativa degli strumenti di ADR nei modelli regolamentari dei mercati settoriali: gli effetti “conformativi” degli orientamenti dell’Arbitro Bancario Finanziario in tema di servizi di pagamento
FATTI E PROBLEMI DELLA PRATICA Parziale Alfonso, Derivati impliciti, clausole “floor” e “zero floor” nei contratti bancari
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COMMENTI Amorosino Sandro, Principi del giusto procedimento, procedure sanzionatorie di Consob e Banca d’Italia e giurisprudenza “riduzionista” della Cassazione Barilla Giovanni B., Responsabilità della banca del beneficiario per errata esecuzione di ordine di bonifico impartito tramite home banking: configurazione di un obbligo di protezione in favore di terzo? Maimeri Fabrizio, L’art. 120, comma 2, t.u.b. tra ordinanze di tribunale e modifiche normative Mecatti Irene, Il diritto di rimborso nell’addebito diretto
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INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Conto corrente bancario Conto corrente bancario – Arbitro bancario e finanziario – Ricorso – Litispendenza – Improcedibilità – Sussistenza parziale Conto corrente bancario – Servizi di pagamento – Addebito diretto – Diritto di rimborso delle somme addebitate – Configurabilità Conto corrente bancario – Servizi di pagamento – Addebito diretto – Diritto di rimborso delle somme addebitate – Ammissibilità Conto corrente bancario – Servizi di pagamento – Addebito diretto – Diritto di rimborso – Termine per l’esercizio – Deroga – Insussistenza nel caso di specie Conto corrente bancario – Ordine di bonifico mediante piattaforma home banking – Errore nella trasmissione del codice IBAN – Accredito a soggetto terzo diverso dal beneficiario – Responsabilità del pagatore e del prestatore di servizi di pagamento del beneficiario – Concorso Contratti bancari Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Periculum in mora – Insussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattali – Sussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Giusti motivi di urgenza – Insussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi Procedura – Fumus boni iuris – Insussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Periculum in mora – Insussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Sussistenza Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Capitalizzazione interessi passivi – Illegittimità – Sussistenza
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Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Giusti motivi di urgenza – Sussistenza Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza – Delibera del CICR – Inutilità Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia – Procedimento sanzionatorio – Commissione per l’esame delle irregolarità – Proposta conclusiva di sanzione – Omessa comunicazione all’incolpato – Lesione del diritto al pieno contraddittorio – Violazione dell’art. 6 Convenzione EDU – Insussistenza Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia – Provvedimento sanzionatorio del Direttorio – Motivazione per relationem alla proposta della Commissione per l’esame delle irregolarità – Legittimità Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia – Procedimento sanzionatorio – Commissione per l’esame delle irregolarità – Proposta conclusiva di sanzione e parere dell’Avvocato Generale – Omessa comunicazione all’incolpato – Lesione del diritto al pieno contraddittorio – Violazione dell’art. 6 Convenzione EDU – Violazione dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – Insussistenza Servizi di pagamento Servizi di pagamento – Addebito diretto – Prestatore di servizi di pagamento – Rimborso – Obbligo – Sussistenza Servizi di pagamento – Addebito diretto – Diritto al rimborso – Presupposti Servizi di pagamento – Addebito diretto – Diritto al rimborso – Tempestività della domanda – Insussistenza
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INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI 2014 A.B.F. Milano, 9 maggio 2014, n. 2838 A.B.F. Milano, 10 novembre 2014, n. 7539 A.B.F. Roma, 3 luglio 2014, n. 4172
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2015 Trib. Milano, 25 marzo 2015 Trib. Milano, 5 aprile 2015 Trib. Firenze, 9 luglio 2015 Trib. Torino, 17 luglio 2015 Trib. Parma, 24 luglio 2015
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2016 Cass., 24 febbraio 2016, n. 3656 Cass., 10 marzo 2016, n. 4725
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Indici dell’annata
INDICI DELL’ANNATA PARTE SECONDA LEGISLAZIONE Nuovi interventi per il sistema bancario – D.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito con modificazioni nella l. 24 marzo 2015, n,. 33): Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti Commento al d.l. 24 gennaio 2015, n. 3. Parte prima: la riforma delle banche popolari, di Ciro G. Corvese Nuovi interventi per il sistema bancario – D.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito con modificazioni nella l. 24 marzo 2015, n,. 33): Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti Commento al d.l. 24 gennaio 2015, n. 3. Parte seconda: l’attuazione “parziale” della Payment Accounts Directive, di Ciro G. Corvese Banche locali e risoluzione – D.l. 22 novembre 2015, n. 183; l. 28 dicembre 2015, n. 108: Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016); Banca d’Italia: Comunicato del 23 novembre 2015 concernente l’avvio del procedimento di risoluzione della Banca delle Marche s.p.a.; Banca d’Italia: Provvedimento del 23 novembre 2015 concernente svalutazione di azioni e subordinati della Banca delle Marche s.p.a. Un decreto legge per a prima attuazione della direttiva n. 59 del 2014, di Filippo Fiordiponti
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NORME REDAZIONALI
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.
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legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.
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Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista delle società Riv. soc. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista di diritto societario RDS Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.
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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.
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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria
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