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commento di Raffaele Fabozzi
IL COMMENTO
di Raffaele Fabozzi
Sommario: 1. Premessa. – 2. Piattaforme digitali e rapporto di lavoro. – 3. La sentenza del Tribunale di Palermo.
Il presente contributo prende in esame la qualificazione del rapporto di lavoro dei riders e, più in generale, dei lavori tramite piattaforma digitale. Il contributo offre alcune riflessioni sulla sentenza del Tribunale di Palermo n. 3570 del 2020. This essay examines the qualification of the employment relationship of riders and, more generally, of jobs via the digital platform. The essay offers some reflections on the judgment of the Court of Palermo no. 3570 of 2020.
1. Premessa
Con la pronuncia in commento il Tribunale di Palermo si è occupato del rapporto di lavoro dei riders, confermando le criticità dell’operazione qualificatoria – in termini di autonomia o subordinazione – delle prestazioni svolte mediante piattaforma digitale. Com’è noto, l’evoluzione digitale della società, da un lato, e del mondo del lavoro e dell’economia, dall’altro, stanno generando significative ricadute tanto sui modelli occupazionali quanto sulle condizioni professionali, in particolare con riferimento all’ambito delle tutele. L’assenza di un sistema di protezione ad hoc, idoneo a tutelare i c.d. lavoratori 4.0, dipende principalmente dall’impossibilità di inglobare i vari operatori delle digital platforms in un’unica categoria contrattuale (1), stante l’assenza di univoci fattori identificativi: l’unico elemento che li accomuna è la libertà (invero, come precisato dal Tribunale di Palermo, non sempre piena) di decidere se e quando svolgere la prestazione lavorativa. Anche tale elemento, però, talvolta viene meno; l’autonomia dei gig workers è infatti spesso compressa in ragione dell’implicita accettazione delle regole che vigono nella digital platform, cui gli operatori sono obbligati ad attenersi con riguardo sia agli aspetti economici, che alle modalità di esecuzione della prestazione (2).
(1) Cfr. tuLLini, La digitalizzazione del lavoro, la produzione intelligente e il controllo tecnologico nell’impresa, in Riv. giur. lav., 2016, 748 ss. Sul tema cfr. anche CArABeLLi, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto di lavoro e post fordismo, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2003, 64 ss.; peSSi, Fattispecie ed effetti del diritto del lavoro, in Contratto di lavoro e organizzazione, in MArtone (a cura di), vol. IV del Trattato di diritto del lavoro, perSiAni - CArinCi (a cura di), Padova, 2012, 49; CASiLLi, Digital Labor: travail, technologies et conflictualités, in Qu’est-ce que le digital labor?, Paris, 2015; dAGnino, Il lavoro nella on-demand economy: esigenze di tutela e prospettive regolatorie, 2015, in LLI, 2015, 86 ss.; Supiot, Vers un nouveau statut social attaché à la personne du travailleur? in Droit ouvrier, 2015, 557; SAntoro pASSAreLLi, Lavoro eterorganizzato, coordinato, agile e il telelavoro: un puzzle non facile da comporre in un’impresa in via di trasformazione, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 2017; toSi, Autonomia, subordinazione e coordinazione, in Labor, 2017, 245 ss. (2) Cfr. SiGnorini, Il diritto del lavoro nell’economia digitale, Torino, 2018, 84. Relativamente a tale profilo di criticità v. anche ALoiSi, Il lavoro “a chiamata” e le piattaforme “online” della “collaborative economy”: nozioni e tipi Quello della qualificazione (autonoma o subordinata) del rapporto dei lavoratori delle digital platforms è uno degli ambiti di indagine di maggiore interesse e l’analisi sul punto è resa ancor più complessa dalla difficoltà di individuare la ricorrenza dell’esercizio dei poteri datoriali per il tramite e nell’ambito della stessa piattaforma. Emblematiche sono le contrastanti pronunce, nazionali e straniere, relative ai riders o ai drivers che segnalano come nell’era del digit-globalized labour market, in cui il mercato del lavoro è organizzato on line tramite una piattaforma (crowdwork), il ruolo del lavoratore viene drasticamente rivisitato ed i modelli dettati dall’industria 4.0 enfatizzano un modo del tutto nuovo di prestare la propria attività che, in assenza di regole, mal si concilia con le categorie tipiche del diritto di lavoro. In definitiva, a fronte di tali criticità è bene interrogarsi sull’attuale validità della tradizionale dicotomia tra lavoro autonomo e subordinato e sull‘effettiva capacità di tali categorie di rapportarsi con le forme di lavoro coniate nella on demand economy.
2. Piattaforme digitali e rapporto di lavoro
Prima di formulare alcune osservazioni sulla sentenza del Tribunale di Palermo, appare utile svolgere una preliminare considerazione in ordine alle piattaforme digitali. Come rilevato, quello delle piattaforme digitali è un fenomeno tutt’altro che unitario: si pensi alla pluralità di servizi realizzabili mediante le stesse, alle differenti modalità di svolgimento della prestazione di lavoro o alla varietà delle figure professionali coinvolte (attesa la eterogeneità dei rapporti realizzabili) (3).
legali in cerca di tutele, in Labour & Law Issues, 2016, 41; tuLLini, Economia digitale e lavoro “non-standard”, in Labour & Law Issues, 2016, 15 ss.; de SteFAno, The rise of the Just in time workforce: on-demand work, Crowd work and labour protection in the gig economy, Ginevra, 2016, W.P. n. 71; treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavori della Gig economy, in Lav. dir., 2017, 367; Loi, Un’introduzione al tema del lavoro nella gig economy in Riv. giur., lav., 2017, 23. (3) Cfr. sul tema BuCher - FieSeLer, The flow of digital labor, 2016, in <http://journals.sagepub.com/doi/abs>; dAGnino, “Uber law”: prospetti-
Nella maggior parte dei casi la piattaforma viene utilizzata al solo fine di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta della prestazione lavorativa, la cui esecuzione materiale, invece, avviene interamente nell’economia reale. In tali casi, in cui l’impiego di densità tecnologica è fortemente ridotto, le digital platforms non creano modalità alternative di svolgimento dell’attività di lavoro. Nel modello Uber (per citare un caso noto), invece, la piattaforma digitale non costituisce soltanto un mero luogo di incontro tra provider ed user ma – monitorando il corretto svolgimento delle prestazioni, imponendo le tariffe applicabili, indicando il percorso da seguire – alla piattaforma potrebbe essere imputabile l’esercizio del potere sia direttivo che di controllo, con i relativi effetti (anche sulla continuità delle future prestazioni). Il discorso si complica ulteriormente quando dal modello del work on demand si passa a quello del crowdsourcing, intendendosi con tale termine l’esternalizzazione delle attività produttive, mediante piattaforma digitale, ad una pluralità indistinta di individui (crowd). Quello del crowdsourcing rappresenta, in un certo senso, l’emblema del frazionamento della produzione, in cui il rischio di impresa è pressoché annullato mediante l’estremizzazione del decentramento produttivo, con l’esclusione di contratti di durata in favore del modello dello spot-contract (nel quale la finalità di consumo prevale sulla continuità della relazione giuridica). Dunque, nel rapporto tra provider ed user, la digital platform può fungere sia da mero intermediario tra domanda ed offerta, sia da centro di imputazione del rapporto giuridico, in ragione della circostanza che offra o meno un servizio attraverso una propria organizzazione di mezzi; in tale ultima ipotesi assume particolare rilevanza la tematica della qualificazione del rapporto (autonomo o subordinato), così come quella dell’individuazione dell’effettivo datore di lavoro (4).
ve giuslavoristiche sulla “sharing/on-demand economy”, in Dir. rel. ind., 2016, 137; VozA, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, in Riv. giur. dir. lav. prev. soc., 2017, 71; LoFFredo, Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro digitale, in Labor, 2019, 253. Cfr. anche CAruSo, I lavoratori digitali nella prospettiva del Pilastro sociale europeo: tutele rimediali legali, giurisprudenziali e contrattuali, in corso di pubblicazione negli Scritti in onore di R. Pessi, il quale evidenzia come ci siano almeno dieci tipologie di piattaforme e, al loro interno, tre tipologie a maggiore tipicità sociale: a) On location platform-determined work, “praticamente le piattaforme che mediano l’incontro tra offerta e domanda di prestazioni di lavoro di tipo standard e sostanzialmente uniformi (i fattorini in bicicletta di Foodora, gli autisti di Uber solo per fare qualche esempio)”; b) On location worker-iniated work, “piattaforme che mediano domanda e offerta di lavoro fisico ma per c.d. micro lavoretti e servizi specializzati (plumbing, cleaning, gardening, tutoring, babysitting ecc.)”; c) On line Contestant platform work, “piattaforme che mediano lavoro digitale che si svolge direttamente su piattaforma, normalmente creativo e molto specialistico (graphic design, branding, product development, ma anche traduzioni, editing ecc.)”. (4) Sul tema del “crowd” nell’economia moderna v. LeiMeiSter, Crowdsourcing. Crowdfounding, crowdvoting, crowdcreation, in Controlling & manaEd infatti, la qualificazione dei rapporti di lavoro costituisce conditio per la predisposizione delle garanzie fondamentali (5), essendo l’atto qualificatorio il presupposto per la loro operatività (6). Tale operazione risulta sempre più complessa dal momento che frequentemente la prestazione di lavoro viene gestita non più direttamente da un soggetto, ma da un’applicazione che fissa in via del tutto autonoma una serie di parametri, tra cui la qualità e la quantità delle prestazioni, la retribuzione e le (eventuali) sanzioni. Quindi, la più evidente distorsione rispetto al tradizionale modello contrattuale risiede nella configurazione soggettiva del rapporto di lavoro, data l’esistenza di un datore di lavoro “algoritmico” (identificato nel congegno alla base della piattaforma che organizza i rapporti di lavoro collegati al sistema di intelligenza artificiale) (7). Ne consegue che il lavoro 4.0, date le peculiari modalità con cui la prestazione può essere resa, non risulta agevolmente sussumibile nelle tradizionali categorie giuridiche (considerata l’eterogeneità nello svolgimento delle prestazioni, la continua evoluzione delle imprese, le più disparate manifestazioni di esercizio del potere datoriale, etc.).
3. La sentenza del Tribunale di Palermo
Nel contesto appena delineato si inserisce la sentenza del Tribunale di Palermo, la quale – nelle sue articolate ed apprezzabili motivazioni (indipendentemente dalla condivisione delle stesse) – conferma le difficoltà dell’operazione qualificatoria del rapporto di lavoro dei riders (e, più in generale, di quelli che vengono svolti su o mediante piattaforma digitale).
gement, 2012, 388 ss.; cfr. anche VozA, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, cit., 75; BirGiLLitto, Lavoro e nuova economia: un approccio critico. I nuovi vizi e le poche virtù dell’impresa Uber, in LLI, 2016, 59 ss. (5) In tal senso VozA, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, cit., 71.; VALLeBonA, Breviario di diritto del lavoro, Torino, 2017, 186; dAGnino, Il lavoro nella on-demand economy, in Labour & Law Issues, 2015, 101. Per i profili comparativi sul tema cfr. VeneziAni, Nuove tecnologie e contratto di lavoro: profili di diritto comparato, in Dir. lav. rel. ind., 1987, l. (6) peSSi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Milano, 1989. In merito cfr. anche LeVi, Il lavoro agile nel contesto del processo di destrutturazione della subordinazione, in Riv. giur. lav., 2019, 25 e MiLiteLLo, Il work-like blending nell’era della on demand economy, in Riv. giur. lav., 2019, 47. (7) Sulla natura di tale datore di lavoro cfr. Min kyunG - kuSBit - MetSky - dABBiSh, Working with Machines: The Impact of Algorithmic and Data-Driven Management on Human Workers, 2015, in <https://www.cs.cmu. edu/>; SpeziALe, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, in Dir. lav. rel. ind., 2010, 44; BArBerA, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Dir. lav. rel. ind., 2010, 203.
Limitatamente al tema dei riders, la sentenza in commento giunge ad una conclusione diversa dalla quella delineata dalla recente sentenza della Cassazione n. 1663/2020 (8). Com’è noto, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Suprema Corte aveva ritenuto che i rapporti di lavoro dei riders rientrassero nelle previsioni dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015 (in altri termini, a tali rapporti va riconosciuta natura autonoma ma, stante la etero-organizzazione da parte del committente, agli stessa va applicato lo statuto protettivo del lavoro subordinato). Diversamente, secondo il Tribunale di Palermo il rapporto di lavoro dei riders (ovviamente, nel caso di specie) ha natura subordinata (con applicazione dell’art. 2094 c.c. in luogo del citato art. 2, d.lgs. n. 81/2015). In realtà la sentenza in commento non si pone in contrasto con il precedente della Cassazione, dal momento che quest’ultima aveva espressamente chiarito che «non può escludersi che, a fronte di specifica domanda da parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 cod. civ., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (…); è noto quanto le controversie qualificatorie siano in influenzate in modo decisivo dalle modalità effettiva di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di tale materiale effettuato dai giudizi del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità» (9). Ed in conformità a tale statuizione, il Tribunale di Palermo ha ritenuto come, nel caso esaminato, non sussistesse la sola etero-organizzazione (che avrebbe comportato l’applicazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015), bensì gli elementi tipici e sintomatici della subordinazione (realizzatisi per il tramite della piattaforma digitale): «In sostanza, quindi, al di là dell’apparente e dichiarata (in contratto) libertà del rider, e del ricorrente in particolare, di scegliere i tempi di lavoro e se rendere o meno la prestazione, l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eteroorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali (peraltro non re-
(8) Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, in questa Rivista, 2020, 251, con nota di ALBi, La complessa vicenda dei riders di Foodora: fra qualificazione del rapporto e disciplina applicabile. Si rinvia ai contributi del numero monografico in Mass. giur. lav., 2020, numero straordinario. (9) Nello stesso senso anche la circolare del Ministero del lavoro 19 novembre 2020, n. 17. tribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.». Ebbene, al di là della condivisione o meno della “valorizzazione” (ai fini della subordinazione), da parte del Giudice, di alcuni elementi esaminati, la sentenza non sembra presentare novità rispetto ai consolidati orientamenti della Corte di Cassazione. In considerazione del principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, né al legislatore né alle parti negoziali sarebbe possibile procedere ad una qualificazione antitetica al reale svolgimento del rapporto di lavoro (10). In merito, «ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo» (11). Conseguentemente, non è possibile affermare che un rapporto di lavoro sia “immancabilmente” autonomo o subordinato, dal momento che «ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato occorre far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione» (12). È noto, infatti, che «l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro» (13); sicché il parametro normativo di riferimento è da ravvisare nel vincolo di soggezione, con conseguente limitazione dell’autonomia del lavoratore e suo inserimento nell’organizzazione aziendale. E ciò indipendentemente dalla circostanza che il vincolo di subordinazione si estrinsechi con le modalità “tradizionali” o mediante piattaforma digitale. Il vero tema è che i nuovi strumenti tecnologici rendono l’operazione qualificatoria molto complessa e gli interventi legislativi degli ultimi anni hanno contribuito a generare un quadro ancora più articolato, nel quale non solo si pone la questione autonomia/subordinazione, ma è ormai difficile districarsi anche nell’alveo dell’autonomia. Solo per fare un esempio, il rapporto di lavoro dei riders potrebbe astrattamente ricondursi: - al lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.;
(10) Cass. 4 marzo 2015, n. 4346, in Foro it., 2015, 1569, secondo cui «ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato occorre far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro». (11) Cass. 8 febbraio 2010, n. 2728, in Giust. civ. mass., 2010, 2, 167. (12) Cass. 4 marzo 2015, n. 4346, in Mass. giur. lav., 2015, 497. (13) Cass. 8 aprile 2015, n. 7024, in Mass. giur. lav., 2015, 497; cfr. anche Cass. 5 settembre 2014, n. 18783, in Dir. & Giust., 2014.
- alle collaborazioni di cui all’art. 409 c.p.c.; - alle collaborazioni di cui all’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015; - alle collaborazioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 81/2015; - alle collaborazioni di cui all’art. 47 bis, del d.lgs. n. 81/2015. Alla questione qualificatoria si accompagna quella, conseguente e forse più rilevante, delle tutele da apprestare. Ed infatti, per i gig workers la mancanza di protezione anche dai rischi più comuni è maggiormente accentuata rispetto agli altri lavoratori precari, in ragione dell’eccessiva parcellizzazione e destrutturazione dell’attività lavorativa che sono chiamati a svolgere. Data l’eterogeneità dei rapporti di lavoro che nascono e si sviluppano nelle piattaforme digitali, al problema delle tutele non sembra esservi una soluzione unitaria. Invero, si potrebbe tentare di strutturare un sistema di protezione valido per tutti i lavoratori in condizioni di vulnerabilità economica e sociale, prescindendo dall’utilizzo o meno di algoritmi digitali. Ma come far fronte a ciò resta molto dibattuto. Dinanzi ad un contesto così variegato e mutevole, la scelta del Tribunale di Palermo è stata quella di adeguare le tecniche di sussunzione delle fattispecie apparentemente nuove in schemi dogmatici tipici, facendo ricorso ad un’attività ermeneutica adeguatrice del dato letterale dell’art. 2094 c.c. all’evoluzione del contesto socio-economico; il che, naturalmente, non significa necessariamente ricondurre nell’area della subordinazione tutte le nuove tipologie di rapporti di lavoro (come confermato dalla vicenda Foodora). Del resto, salvo che non si voglia rinunciare alla distinzione autonomia/subordinazione (in favore di uno statuto protettivo unitario, eventualmente graduato, che prescinda dalla tradizionale operazione qualificatoria), quella dell’interpretazione evolutiva sembra allo stato una soluzione necessitata (fintanto che il contesto di riferimento non avrà assunto una sua stabilità), nella consapevolezza che difficilmente la legge potrà essere al passo con le modalità tecnologicamente innovative di svolgimento della prestazione di lavoro. D’altronde, è evidente che il potere organizzativo, direttivo e di controllo del datore di lavoro non si manifesta in ogni contesto lavorativo con la medesima forma e rilevanza; le modalità di esercizio mutano insieme col mutare dell’ambito in cui si opera ed in base al livello di digitalizzazione e di tecnologizzazione che caratterizza tanto l’organizzazione produttiva quanto il lavoro. Proprio il rapporto con un datore di lavoro digitale potrebbe determinare una maggiore intensità dell’eterodirezione, agendo la piattaforma anche in maniera più invasiva sulla persona del prestatore di lavoro, oltre che sulla sua attività. Si pensi, in relazione al caso in commento, al modo in cui può essere esercitato il potere di controllo mediante appositi sistemi di feedback espressi dagli utenti sulla prestazione dei lavoratori (che, in caso negativo, possono finanche determinare la risoluzione del vincolo contrattuale). Dunque, è evidente che sebbene nell’era della digitalizzazione i poteri del datore di lavoro possano non essere esercitati secondo le modalità tradizionali, gli stessi non sono (per ciò solo) insussistenti; ed anzi, in modo probabilmente preterintenzionale, può realizzarsi una condizione di subordinazione anche più intensa di quella tradizionalmente intesa. Quanto sopra rende chiaro che è probabilmente giunto il momento di rimeditare il diritto del lavoro, valutando anche l’opportunità di introdurre – con l’apporto degli attori sindacali (14) – norme più aderenti ed efficaci rispetto ad una realtà totalmente nuova ed in continua evoluzione; norme che, abbandonando o ridimensionando i tradizionali schemi qualificatori (sempre più difficilmente rinvenibili negli attuali contesti produttivi), siano finalizzate alla costruzione di un apparato di tutele intorno alla figura del lavoratore (senza necessità di ulteriori aggettivazioni).
(14) Le parti sociali si sono già attivate, sebbene in maniera non unitaria; si veda il CCNL sui riders del 15 settembre 2020 firmato dalla UGL ed il protocollo aggiuntivo al CCNL Logistica e Trasporti per i riders del 2 novembre 2020 firmato da CGIL, CISL e UIL.
Lesione del diritto all’immagine dell’impresa causata da un comunicato stampa diffuso online dell’AGCM, giurisdizione ordinaria e danno in re ipsa
triBunALe di nApoLi nord; ordinanza 30 luglio 2020, n. 6090; G. des. dott. P. Ucci
Il comunicato stampa di una Autorità pubblica, nella fattispecie l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, è riconducibile nell’alveo dei comportamenti posti in essere in assenza di esercizio di potere amministrativo ed a fronte del quale, in astratto, il privato vanta un diritto soggettivo all’onore ed alla reputazione, il cui referente normativo si rinviene nell’art. 2 della Costituzione e la cui violazione è fonte di risarcimento del danno. Integra illecito civile il comunicato stampa di una Autorità pubblica che, senza valida motivazione, accosti il nome di una impresa ad una attività pre-iustrottoria svolta dalla stessa Autorità per accertare l’esistenza di pratiche speculative, laddove in uno al contesto comunicativo esso risulti idoneo a ledere l’immagine e la reputazione di tale impresa inducendo i consumatori – e non solo – a ritenere che a carico della società ricorrente siano state già accertate o, quantomeno segnalate, pratiche commerciali scorrette. Per tanto, in sede cautelare si devono adottare tutti i provvedimenti idonei ad evitare che il pericolo di danno, nella fattispecie sussistente in re ipsa, si possa concretizzare o le conseguenze dannose si possano aggravare. (Nella fattispecie il comunicato stampa dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato concerneva la richiesta di informazioni a numerosi operatori della grande distribuzione per acquisire dati sull’andamento dei prezzi di vendita al dettaglio e dei prezzi di acquisto all’ingrosso di generi alimentari di prima necessità al fine di individuare eventuali fenomeni di sfruttamento dell’emergenza sanitaria determinata dal Covid/19).
*** L’ordinanza è leggibile per esteso, nella pagina degli Osservatori della Rivista, all’indirizzo <https://dirittodiinternet.it/lautorita-garante-della-concorrenza-del-mercato-lesione-allimmagine-reputazione-professionale-operatore-commerciale-tribunale-napoli-nord-ordinanza-29-30-luglio-2020/>
IL COMMENTO
di Francesco Di Ciommo
Sommario: 1. La vicenda in estrema sintesi. – 2. La giurisdizione del G.O. e la responsabilità da mero comportamento della P.A. – 3. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. nel codice del processo amministrativo. – 4. Il riparto di giurisdizione secondo la Cassazione. – 5. Il risarcimento del danno (in re ipsa?) all’immagine e alla reputazione del privato: brevi cenni.
Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di risarcimento del danno causato al privato non già da un’attività provvedimentale ma da un mero comportamento della P.A. costituisce un tema controverso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Oggetto di ampie discussioni è altresì il problema del risarcimento del danno all’immagine e/o alla reputazione, visto che la giurisprudenza prevalente esclude che possa trattarsi di un danno in re ipsa, se pure consente il risarcimento in via equitativa. Sulle due questioni è intervenuta una recente ordinanza del Tribunale di Napoli Nord, dalla quale l’autore prende spunto per svolgere sue considerazioni.
The division of jurisdiction between ordinary judge and administrative judge in the matter of compensation for damage caused to the private individual not by a provisional activity but by a mere behavior of the Public Administration constitutes a controversial topic both in doctrine and in jurisprudence. The issue of compensation for damage to image and / or reputation is also the subject of extensive discussions, given that the prevailing jurisprudence excludes that it may be a damage in re ipsa, even if it allows for compensation on an equitable basis. A recent order of the Court of North Naples has intervened on the two issues, from which the author takes inspiration to carry out his considerations.
1. La vicenda in estrema sintesi
Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Napoli Nord ha accolto il ricorso cautelare ante causam proposto, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., da una società che chiedeva al Giudice del procedimento monitorio di ordinare all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) di rettificare un recente comunicato stampa di quest’ultima, nel quale l’impresa era menzionata, ritenendolo lesivo della propria reputazione. Il tutto in previsione dell’instaurazione del giudizio di merito nel quale la società ricorrente potrà spiegare la conseguente domanda risarcitoria, ex art. 2043 c.c., per il danno da lesione dei diritti della personalità asseritamente prodotto a suo carico dalla condotta diffamatoria posta in essere dall’Autorità resistente per aver diffuso il comunicato stampa. Quest’ultimo, ritualmente pubblicato sul sito dell’AGCM il 7 maggio 2020, concerneva l’avvio di una attività pre-istruttoria volta ad indagare sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari di prima necessità, detergenti, disinfettanti e guanti nella grande distribuzione italiana nei mesi iniziali dell’emergenza sanitaria causata dal Covid/19. Tali aumenti, riscontrati sulla base dei dati Istat a partire dal mese di marzo 2020, secondo l’Autorità, apparivano differenziati per provincia e più marcati in «aree non interessate da ‘zone rosse’ o da misure rafforzate di contenimento della mobilità». Nel comunicato, che era intitolato «DS2620 - Emergenza Coronavirus, avviata indagine su aumento dei prezzi dei beni alimentari e di detergenti, disinfettanti e guanti», e che veniva pubblicato integralmente sul sito web dell’AGCM nella pagina dedicata a tali annunci (https://www.agcm.it/media/comunicatistampa), nonché su altre pagine web, l’Autorità precisava di non poter escludere che tali aumenti fossero dovuti a ‘fenomeni speculativi’ e informava di aver inviato una pluralità di richieste di informazioni a numerosi operatori della grande distribuzione, indicando i nomi dei «principali destinatari delle richieste di informazioni», in tutto una ventina, tra i quali figurava anche quello della società ricorrente. Nel decidere sulla richiesta cautelare il Tribunale, con l’ordinanza del 29-30 luglio scorso, ha, per prima cosa, rigettato l’eccezione sollevata, per l’AGCM, dall’Avvocatura dello Stato, la quale – come meglio si vedrà subito infra – contestava la giurisdizione del giudice ordinario ritenendo che la fattispecie rientrasse nel campo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sul punto, l’ordinanza, invece, afferma in modo chiaro e condivisibile, come meglio si vedrà infra, che la pubblicazione di un comunicato stampa non possa in alcun modo essere espressione del pubblico potere e che essa, invece, costituisca una condotta rientrante nell’alveo dei ‘meri comportamenti’ della P.A., i quali sono attratti nella giurisdizione del giudice ordinario. Nel merito, il Tribunale ha poi chiarito che, nella vicenda in parola, ad essere in discussione non era il diritto dell’Autorità di esprimere pareri e pubblicare segnalazioni concernenti circostanze idonee a causare distorsioni della concorrenza, bensì l’idoneità del comunicato stampa a ledere illecitamente il diritto all’immagine della società ricorrente (1), ed inoltre ha affermato che tale idoneità andava valutata applicando i principi formatisi in sede giurisprudenziale in materia di liberà di informazione. In ossequio a tali principi il Tribunale ha, dunque, statuito che il comunicato stampa in esame non risultava rispettoso del criterio della continenza e che non sussisteva alcun interesse pubblico con riguardo all’indicazione nel medesimo dei principali destinatari delle richieste di informazioni. E ciò in quanto, come si legge nell’ordinanza, non risulta chiaro quale fosse l’interesse del pubblico a conoscere l’identità di alcuni (peraltro, non tutti) soggetti destinatari delle richieste di informazioni nella fase pre-istruttoria del procedimento, considerando, in particolare, che tali richieste non erano finalizzate ad accertare violazioni già segnalate. Inoltre, sempre per il Tribunale, il comunicato poteva ingenerare nei lettori il convincimento, o quantomeno il dubbio, che la ricorrente, così come le altre imprese destinataria delle richieste di informazioni, avesse approfittato della situazione di emergenza legata al Coronavirus per incrementare in maniera ingiustificata i prezzi; circostanza questa che è stata, tuttavia, smentita anche in giudizio dalla stessa AGCM. Per queste ragioni, a parere del Giudice designato, pur essendo «indubbio che il [comunicato] appare corretto e legittimo nella parte in cui si limita ad informare sull’avvio dell’attività pre-istruttoria, condotta dall’Autorità per accertare l’esistenza di pratiche speculative […], al contrario l’accostamento della predetta notizia agli operatori commerciali ivi indicati – tra cui la ricorrente – […] appare immotivato e certamente idoneo a ledere l’immagine e la reputazione della ricorrente inducendo i consumatori – e non solo – a ritenere che a carico [della ricorrente] siano già state accertate o, quantomeno segnalate, pratiche commerciali scorrette».
(1) Per recenti riflessioni sui rapporti tra chi detiene dati sensibili, chi ha il potere di trattarli ed eventualmente pubblicarli, e chi risulta esserne il titolare, v. di CioMMo, Archivi digitali (onnivori) e diritti fondamentali (recessivi), in Il nuovo dir. civ., 2020, n. 2, 29; GriMALdi, Diritto alla deindicizzazione: dati sensibili, potere e responsabilità, in Dir. dell’inf. e dell’inf., 2020, 254; e C. iorio, Diritto all’oblio e deindicizzazione: fondamenti giuridici e risarcibilità del danno, in questa Rivista, 2020, 627.
Da qui la condanna dell’AGCM a pubblicare su almeno tre testate nazionali e in calce al proprio Comunicato un testo di rettifica del seguente tenore “in relazione al comunicato in oggetto si specifica che nei confronti di Ce. Di Sigma Campania s.p.a. e delle altre aziende indicate è stata effettuata una semplice richiesta di informazioni senza l’avvio di alcun procedimento istruttorio o sanzionatorio”. Come evidente già da questa veloce sintesi, si tratta di un provvedimento significativo sotto diversi profili, e che infatti, non appena reso pubblico, ha ricevuto notevole attenzione anche da parte della stampa non specializzata.
La prima ragione di interesse dell’ordinanza in epigrafe riguarda l’affermazione, in essa contenuta, della giurisdizione del G.O. in luogo di quella del giudice amministrativo. Ed infatti, come cennato, l’Avvocatura dello Stato, quale difensore dell’AGCM, nel giudizio cautelere in esame ha come prima cosa eccepito il difetto di giurisdizione del G.O. ritenendo che nella vicenda sussistesse la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Sennonché, sul punto, l’ordinanza in primo luogo osserva che un ricorso cautelare “analogo (ma non assolutamente coincidente)”, rispetto a quello di cui origina il procedimento concluso con l’ordinanza medesima, era stato depositato dalla ricorrente presso il Tribunale di Napoli ed era stato da quest’ultimo respinto per incompetenza territoriale, ma dopo che il Giudice aveva avuto modo di affermare la giurisdizione del G.O. Dirimente sul punto, tanto secondo il giudice partenopeo, quanto secondo l’estensore dell’ordinanza in epigrafe, si rivela l’art. 133, lett. L) c.p.a., a tenore del quale “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalle Autorità amministrative indipendenti”. Secondo il dettato legislativo, dunque, al giudice amministrativo è riconosciuta la giurisdizione esclusiva in materia di provvedimenti delle autorità indipendenti. Sennonché, come noto, altro è l’attività provvedimentale realizzata da una pubblica amministrazione, così come da una autorità indipendente, altro sono i meri comportamenti posti in essere dalla medesima. Come è stato puntualmente evidenziato in dottrina, sin dall’entrata in vigore della Costituzione nel nostro ordinamento è stato riconosciuto, attraverso la valorizzazione dell’art. 28 Cost., che la pubblica amministrazione possa essere responsabile dei danni arrecati al privato, in ragione della lesione di diritti soggettivi di questi ultimi, attraverso o in occasione del compimento, da parte della P.A., di attività “paritetiche”, per tali dovendosi intendere le attività compiute non iure imperii, nell’esercizio dei poteri autoritativi di cui è dotata l’amministrazione, bensì nella relazione privata che l’ente pubblico può intrattenere con il cittadino (2). Inoltre, sul finire del XX secolo, come noto, con la celeberrima sentenza della Cassazione civile n. 500 del 22 luglio 1999, in giurisprudenza si è (finalmente) affermato il convincimento, sostenuto dalla sostanzialmente unanime dottrina da almeno due decenni, per cui la pubblica amministrazione risponde a titolo risarcitorio nei confronti dei cittadini anche dei danni cagionati nell’esercizio illegittimo della propria attività provvedimentale (3). In buona sostanza, dunque, in forza dei principi introdotti con la sentenza n. 500/1999 risponde a detto titolo l’ente pubblico che, in forza dell’adozione di un provvedimento o dell’omissione di un provvedimento dovuto, leda l’interesse legittimo, oppositivo o pretensivo del privato. Tale forma di responsabilità, proprio per distinguerla da quella a cui si farà cenno tra un attimo, prende il nome di responsabilità “da provvedimento” e, come visto, per legge rientra nel novero delle materie riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Invero, giova precisare che, qualche anno prima, e per la precisione con la legge 19 febbraio 1992 n. 142, in attuazione della direttiva CEE 21 dicembre 1989, n. 665, era stata introdotta nel nostro ordinamento, ma esclusivamente in materia di appalti, la previsione della tutela risarcitoria delle imprese lese da violazioni del diritto comunitario, con il che per la prima volta in Italia si prevedeva la possibilità per il privato di ottenere tutela risarcitoria in caso di lesione dei propri interessi legit-
(2) Cfr., ex ceteris, SABAto, La responsabilità “da comportamento” della pubblica amministrazione, in Giuricivile, 2019, 7; nonché CASettA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 19°, 673 ss.; e ChieppA - GioVAGnoLi, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 4°, 953 ss.; SCotti, Appunti per una lettura della responsabilità dell’amministrazione tra realtà e uguaglianza, in Dir. amm., 2009, 535. (3) Cass., sez. un., 22 luglio 1999 n. 500, in Contratti, 1999, 869, con nota di MoSCArini; in Corr. giur., 1999, 1367, con note di di MAjo e MAriCondA; in Foro it., 1999, I, 2487, con note di pALMieri e pArdoLeSi; in Foro it., 1999, I, 3201 (m), con note di CArAntA, FrACChiA, roMAno; in Foro it., 1999, I, 3201 (m), con nota di SCoditti; in Giorn. dir. amm., 1999, 832, con nota di torChiA; in Giust. civ., 1999, I, 2261, con nota di MoreLLi; in Trib. amm. reg., 1999, II, 225, con nota di BonAnni; in Urb. e a, 1999, 1067, con nota di protto. In argomento v. inoltre CriSCi, La risarcibilità degli interessi legittimi e l’art. 2043 c.c., in Cons. St., 2000, II, 2525; LuBrAno, Interessi legittimi e tutela risarcitoria, in Temi romana, 2000, 429; LuMinoSo, Danno ingiusto e responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi nella sentenza n. 500/1999 della corte di cassazione, in Riv. giur. sarda, 2000, 255; M.A. SAnduLLi, Dopo la sentenza n. 500 del 1999 delle sezioni unite: appunti sulla tutela risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione e sui suoi riflessi rispetto all’arbitrato, in Riv. arbitrato, 2000, 65.
timi. In base a tale novità, i concorrenti ad una gara di appalto dovevano ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo da parte del giudice amministrativo, e poi rivolgersi al giudice ordinario per conseguire il risarcimento del danno. Tale sistema (c.d. del doppio binario) durò poco tempo perché nel 1998 l’art. 35, co. 1, del d.lgs. n. 80, introdusse la tutela risarcitoria davanti al giudice amministrativo nelle materie di giurisdizione esclusiva di cui agli artt. 33 e 34 del medesimo decreto (servizi pubblici, edilizia e urbanistica), contestualmente abrogando espressamente l’art. 13 della citata legge n. 142/1992, e ogni altra disposizione che prevedesse la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi nelle materie di cui al comma 17. Successivamente, l’art. 7 della legge n. 205/2000 modificò la Legge TAR stabilendo che “il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della propria giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. In definitiva, può dirsi che attraverso gli interventi legislativi del 1998e del 2000, e la sentenza della Cassazione n. 500/1999, il nostro ordinamento ha superato il sistema del doppio binario, affidando di fatto la tutela risarcitoria del privato leso dalla P.A. a due distinte modalità di azione, per cui se il danno era arrecato dall’esercizio o dal mancato esercizio di un potere amministrativo, la relativa azione andava introdotta dinanzi al giudice amministrativo, mentre, se il risarcimento veniva invocato a fronte di un illecito puramente comportamentale, sussisteva la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario (4).
Pochi anni dopo la rivoluzione copernicana determinata tra il 1992 e il 2000 dai fatti ricordati, il dibattito attorno alla giusta perimetrazione del concetto di comportamento della P.A. è stato alimentato in modo particolare dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale intervenuta a delimitare l’ambito delle materie “particolari” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ragione della contestata illegittimità costituzionale dell’articolo 34 del citato d.lgs.
(4) Cfr. CArAntA, Attività amministrativa e illecito aquiliano. La responsabilità della P.A. dopo la L. 21 luglio 2000 n. 205, Milano, 2001; CACACe, La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione degli interessi legittimi negli anni ’90: dieci tappe di una evoluzione, in Danno e resp., 2001, 121; e CArBone, Le «nuove frontiere» della giurisdizione sul risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo della pubblica amministrazione (commento alla L. 21 luglio 2000, n. 205), in Corr. giur., 2000, 1127. n. 80 del 1998 nella parte in cui si riferiva ai “comportamenti tenuti dalla pubblica amministrazione in materia di urbanistica e edilizia”. La Corte Costituzionale nell’occasione mise in evidenza come soltanto l’inerenza all’esercizio del potere pubblico dei comportamenti potesse radicare la giurisdizione del giudica amministrativo. Tale indirizzo venne subito dopo confermato con la sentenza n. 191 del 2006 della stessa Consulta, che distingue nettamente i comportamenti meri, come tali giustiziabili davanti al giudice ordinario, e i comportamenti c.d. amministrativi, tramite i quali la pubblica amministrazione, pur esercitando illegittimamente il potere conferitole, tiene condotte che non sfociano nell’adozione di un provvedimento. Il nuovo Codice del processo amministrativo, approvato con D. Lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, non ha stravolto quella che era la precedente impostazione del tema, limitandosi piuttosto ad una organica sistemazione della materia (5). Infatti, nella Relazione finale di accompagnamento al Codice del processo amministrativo si legge che, «pur essendo astrattamente consentito dalla delega di cui all’art. 44 della l. n. 69 del 2009, la Commissione non ha ritenuto di effettuare incisivi interventi in tema di riparto di giurisdizione, optando al contrario per un’operazione volta a realizzare il riordino della disciplina vigente con taluni aggiustamenti, in tendenziale adesione al diritto vivente risultante dalla giurisprudenza della Corte regolatrice.». Nel nuovo codice la questione del riparto della giurisdizione tra tribunali amministrativi ed ordinari è trattata innanzitutto nei commi 1 e 4 dell’art. 7 c.p.a., rubricato “Giurisdizione amministrativa”. In particolare, al comma 1 è stabilito che «Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.»; mentre al comma 4 si prevede che «Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di
(5) Cfr. zito, L’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, in Giustizia amministrativa, a cura di di F.G. Scoca. Torino, 2013, in part. 84 ss.
interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma». In secondo luogo, riguardo al tema in parola nel nuovo codice rileva il comma 2 dell’art. 30 c.p.a. (“Azione di condanna”), ove è disposto che «può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.». In buona sostanza, può dirsi che il nuovo codice del processo amministrativo ha attribuito al giudice amministrativo il potere di conoscere dei comportamenti della P.A., purché connessi con l’esercizio del potere, e ha affidato in via esclusiva al giudice amministrativo la giurisdizione sulle fattispecie di danno da ritardo nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, se ne ricava che la giurisdizione del giudice ordinario acquista carattere residuale e resta dunque ferma per i soli danni da comportamento e da attività materiali. L’individuazione delle ipotesi di responsabilità la cui cognizione resta riservata al giudice ordinario non è in concreto agevole, perché è affidata a un criterio di non semplice applicazione: il compito di tracciare il confine tra fattispecie di illecito direttamente o “mediatamente” collegate all’esercizio del potere e fattispecie puramente comportamentali è dunque affidato al giudice. Le più recenti evoluzioni interpretative, tanto in ambito dottrinale, quanto in ambito giurisprudenziale, hanno condotto alla elaborazione di nuove fattispecie di responsabilità, ricondotte nell’alveo della c.d. “responsabilità da comportamento”, per tale intendendosi la responsabilità che può ingenerarsi in tutti quei casi in cui il privato lamenta un danno cagionato dalla pubblica amministrazione non già in occasione del compimento di attività paritetica o di attività provvedimentale, bensì in ragione di un mero comportamento tenuto dell’ente pubblico e che realizza dirette conseguenze nei confronti di uno o più privati (6).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono state più volte investite, in sede di risoluzione di conflitto negativo di giurisdizione, della questione concernente
(6) Cfr. CAVALLAro, Potere amministrativo e responsabilità civile. Torino, 2004; pAoLAntonio, Comportamenti non provvedimentali produttivi di effetti giuridici, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2008; e CASSAno – poSterAro, La responsabilità della pubblica amministrazione, Rimini, 2019. l’esatta individuazione del confine, o dei criteri in base ai quali il giudice del caso concreto deve individuare il confine, tra giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo quando il danno ingiusto derivi al privato da un comportamento della P.A. Con la recente ordinanza n. 19677 del 24 settembre 2020, la Suprema Corte è tornata nuovamente a trattare il tema e, dunque, tra l’altro a prendere nuovamente in esame le argomentazioni prospettate nel recente passato, sia in dottrina che in giurisprudenza, su quale sia giudice munito della potestas iudicandi in materia. Nell’occasione la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento consolidatosi negli ultimi anni, indicando il giudice ordinario quale titolare della potestas iudicandi rispetto al caso specifico sottoposto alla sua decisione, ma ciò sulla base di un deciso ampiamento dei confini della giurisdizione del giudice ordinario per realizzare il quale la Corte afferma che anche quando l’attività della P.A. sia di carattere provvedimentale, se il danno lamentato non deriva direttamente dall’atto prodotto nell’esercizio di tale attività, non si scatta la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In passato, infatti, si era già osservato come non sia l’esercizio del potere amministrativo in sé a rilevare, quanto l’efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole di un atto apparentemente legittimo. In altre parole, secondo la Corte spetta al giudice ordinario decidere, tra l’altro, la causa introdotta dal destinatario di un provvedimento ampliativo (ma illegittimo) della sua sfera giuridica, il quale chieda il risarcimento del danno subìto a causa dell’emanazione e del successivo annullamento di tale atto. In vero, negli anni passati, non sono mancate, anche nella giurisprudenza di legittimità, pronunce che hanno sostenuto tesi interpretative differenti. L’azione risarcitoria per lesione dell’affidamento, riposto nella legittimità dell’atto amministrativo poi annullato, era, infatti, dai più considerata tra le materie della giurisdizione amministrativa esclusiva, in ragione del contesto di stampo pubblicistico nel quale la complessiva condotta dell’Amministrazione si collocava (e si colloca tuttora) (7). Tuttavia, la Cassazione, con le ordinanze nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, ha superato tale orientamento, ed ha affermato risolutamente che: i) la giurisdizione amministrativa presuppone l’esistenza di una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo ed è preordinata ad apprestare tutela contro l’agire pubblicistico della P.A. e ii) l’attribuzione al giudice amministrativo della tutela risarcitoria costituisce uno strumento complementare rispetto alla tutela demolitoria, attuabi-
(7) Cfr., ex multis, Cassazione, sentenza n. 8511/2009; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 20 giugno 2012, n. 312; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 3 luglio 2012, n. 3147.
le nel momento in cui il danno di cui si chiede il risarcimento sia casualmente collegato all’illegittimità del provvedimento amministrativo. A questo orientamento si allinea sostanzialmente la sentenza del 2020 sopra citata. In definitiva, dunque, la tutela risarcitoria, secondo quanto statuito data tale recente sentenza della Suprema Corte, può essere invocata davanti al giudice amministrativo soltanto qualora il danno sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimità dell’atto impugnato, non costituendo il risarcimento del danno materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e, di completamento, rispetto a quello demolitorio. Questo approdo della più recente giurisprudenza di legittimità, in vero, risulta, tutto sommato, eccentrico rispetto a quanto sul tema della giurisdizione statuito dall’ordinanza in epigrafe del Tribunale di Napoli Nord, visto che quest’ultima non svolge alcuna indagine sulla connessione, diretta o meno, del danno lamentato dal privato rispetto all’attività provvedimentale posta in essere dalla P.A. e, anzi, al contrario afferma che nel caso sottoposto al suo scrutinio “sussiste la giurisdizione ordinaria avendo la domanda formulata dal ricorrente riguardo ad un mero comunicato dell’AGCM riconducibile nell’alveo dei comportamenti posti in essere in assenza di esercizio di potere amministrativo ed a front del quale in astratto il privato vanta un diritto soggettivo all’onore e alla reputazione, il cui referente normativo si rinviene nell’art. 2 della Costituzione e la cui violazione è fonte di risarcimento del danno”.
La seconda ragione di interesse della pronuncia in epigrafe riguarda il rilievo che questa assegna al danno lamentato dal privato nel ricorso. A riguardo, infatti, come prima cosa l’ordinanza chiarisce che “nel caso di specie […] non è in discussione il diritto della P.A. […] di esprimere pareri e di pubblicare le segnalazioni relative a circostanza che possano determinare distorsioni della concorrenza o del corretto funzionamento del mercato, ma unicamente l’idoneità della segnalazione contenuta nel comunicato stampa […] a ledere o comunque mettere in pericolo il diritto all’immagine alla propria reputazione, anche commerciale, della società ricorrente”. Svolto questo chiarimento, la stessa poi afferma che, per determinare se nel caso di specie la lesione lamentata dal privato possa qualificarsi come ingiusta ex art. 2043 c.c., occorre verificare se l’esercizio della libertà di espressione svolto dall’AGCM abbia travalicato i tre criteri individuati dalla giurisprudenza per svolgere, caso per caso, il bilanciamento tra i diritti del privato asseritamente danneggiato e quelli della PA. In particolare, si tratta dei tre criteri della verità, della continenza e dell’interesse pubblico all’informazione. Dunque, e in questo l’ordinanza rivela una sua spiccata originalità, essa decide di valutare il comportamento tenuto dalla P.A. nel caso di specie alla luce dei criteri fissati dalla giurisprudenza, in particolare nell’ambito dell’attività giornalistica, per stabilire se la libertà di espressione e di informazione è stata esercitata correttamente (8). E conclude nel senso che l’informazione diffusa dall’AGCM nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Napoli Nord con il ricorso introduttivo del giudizio monitorio non rispettava i criteri della continenza e dell’interesse pubblico all’informazione. Da qui la condanna alla P.A. alla rimozione delle informazioni considerate, sotto questi profili, non lecitamente diffuse a danno dell’impresa ricorrente. Ovviamene, l’accoglimento dell’istanza cautelare – che pure si basa, come appena detto, sull’accertamento, oltre che del fumus boni iurisi anche del rischio attuale di un danno ingiusto in capo al ricorrente – non è detto necessariamente preluda ad un accertamento nel giudizio a cognizione piena di un danno effettivamente patito dalla società ricorrente e dunque ad una condanna al risarcimento del danno in capo all’AGCM. Per altro, come noto, provare in giudizio il danno all’immagine o alla reputazione costituisce molto spesso una sfida ardua, il che si traduce sovente nella sottovalutazione del danno da parte del giudice in sentenza (9). E ciò in quanto – sebbene sia oramai pacifico che “onore e reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti, [sicché] la loro lesione legittima sempre la persona offesa a domandare il ristoro del danno non patrimoniale, quand’anche il fatto illecito non integri gli estremi di alcun reato” (così, ex ceteris, Cass. 15 giugno 2018 n. 15742) – secondo la giurisprudenza ampiamente maggioritaria “in tema di responsabilità civile per diffamazione a mezzo stampa, il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferi-
(8) Sul tema, ex multis, sia dato rinviare a di CioMMo, Oblio e cronaca: rimessa alle Sezioni Unite la definizione dei criteri di bilanciamento, in Corriere giur., 2019, 5; e id., Le Sezioni Unite chiamate a fare chiarezza su quando il diritto di cronaca prevale sul diritto all’oblio, in questa Rivista, 2019, 1. (9) Per recenti considerazioni sul tema, v. AVitABiLe, Il risarcimento del danno a seguito dell’illecito trattamento di dati personali: un nuovo impulso dal Reg.U.E. 27 aprile 2016 n. 679, in questa Rivista, 2020, 619.
mento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima” (così, ex multis, Cass., 26 ottobre 2017 n. 25420). L’assetto pretorio qui cennato non appare del tutto condivisibile, in quanto ci sono interessi, quali, per l’appunto, il diritto all’immagine e alla reputazione, che necessariamente, sul piano naturalistico, vengono pregiudicati, in senso giuridicamente rilevante, da un fatto che li incida in senso lesivo (10). In altri termini, delle due l’una: o, in relazione ai singoli casi concreti, il fatto è produttivo di danno ingiusto in quanto lede gli interessi in parola, nel qual caso tale fatto è da qualificarsi come illecito ed è inevitabile la concretizzazione di un danno in capo al malcapitato che deve essere risarcito; o, al contrario, il fatto non produce un danno ingiusto perché non lede in modo significativo l’interesse protetto e, dunque, non c’è il fatto illecito. Sicché sembra affetto da strabismo l’orientamento pretorio attuale che ritiene risarcibile il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità solo quando colui che richiede il risarcimento, pur avendo dimostrato tutti gli elementi di cui all’art. 2043 c.c. (e dunque il fatto, il nesso di causalità, il danno ingiusto e l’elemento soggettivo in capo all’autore del fatto), riesca altresì a produrre in giudizio prova concreta del danno. Ed infatti tal ultima esigenza, ragionando in termini di stretto diritto civile, dovrebbe incidere sul quantum del risarcimento e non già sull’an dello stesso. Mentre pare cogliere nel segno l’ordinanza in epigrafe laddove afferma che nel caso di specie il danno lamentato dalla impresa ricorrente deve considerarsi in re ipsa, almeno ai fini della concessione della richiesta misura cautelare. Parte della giurisprudenza sembra consapevole di come l’orientamento maggioritario in parola appaia insoddisfacente nella pratica e, per l’appunto, poco rispettoso dell’assetto normativo in materia di risarcimento del danno. Tanto che alcune pronunce affermano che la lesione della “dimensione strettamente personale” del diffamato costituisce “nozione di fatto rientrante nella comune esperienza, rilevante ai sensi dell’art. 115 c.p.c.” sicché, una volta accertato il fatto illecito, il giudice può ricavare, per l’appunto ai sensi della disposizione in parola e quindi senza necessità di prova in giudizio, la ricorrenza di una condizione di sofferenza derivante dalla lesione dell’interesse della persona al rispetto del proprio ambito di riservatezza (cfr. Cass. 13 febbraio 2018 n. 3426). E tanto che in generale si riconosce che “la liquidazione del danno derivante da diffamazione, almeno nella sua componente non patrimoniale, presuppone una valutazione necessariamente equitativa, la quale non è censurabile in Cassazione, sempre che i criteri seguiti siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o difetto” (così, Cass. 25 maggio 2017 n. 13153). Ed alcune recenti pronunce chiariscono anche con dovizia di particolari quali siano i criteri e i parametri che il giudice deve utilizzare per effettuare tale valutazione equitativa (cfr. ex ceteris, Cass. 30 agosto 2019 n. 21855) Per scoprire quale posizione il Tribunale di Napoli Nord prenderà nel caso in rassegna rispetto ai delicati temi della prova e della quantificazione del danno, non resta che seguire il cennato giudizio a cognizione piena che dovrebbe far seguito al procedimento cautelare definito con l’ordinanza in epigrafe.
(10) Per considerazioni varie sul tema, cfr. di CioMMo - MeSSinetti, Diritti della personalità, in S. Martuccelli – V. Pescatore (a cura di), Dizionario giuridico, diretto da N. Irti, Milano, 2012, p. 598-620; nonché di CioMMo – pArdoLeSi, Dal diritto all’oblio in Internet alla tutela dell’identità dinamica. E’ la Rete, bellezza!, in Danno e resp., 2012, p. 701; e di CioMMo – pArdoLeSi, Trattamento dei dati personali e archivi storici accessibili in Internet: notizia vera, difetto di attualità, diritto all’oblio, in Danno e resp., 2012, 747.
La deindicizzazione: il bilanciamento tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca
triBunALe di MiLAno; sezione I civile; sentenza 14 aprile 2020 n. 1416; Giud. Boroni; M.P. (Avv. Basile, Italiano) c. Google Italy s.r.l. e Google LLC (Avv. Masnada, Bellan, Berliri)
Il diritto all’oblio è il diritto dell’interessato a chiedere la rimozione di informazioni o dati pubblicati che non sono più attuali o necessari per le finalità per le quali erano stati raccolti e trattati. Ne deriva che il diritto all’oblio può venire in questione allorquando il trattamento di dati personali, originariamente lecito, divenga (per via del trascorrere del tempo ovvero a seguito della revoca del consenso) incompatibile con il Regolamento. Nella materia relativa alla protezione dei dati personali, per “indicizzazione” si allude all’inserimento di dati personali in un motore di ricerca. A causa della indicizzazione, il motore di ricerca mette a disposizione degli utenti una serie di collegamenti ipertestuali (c.d. link) che rimandano a siti web (anche di testate giornalistiche) cui l’utente può accedere per il tramite della pagina browser del motore di ricerca a seguito dell’immissione di parole o frasi attinenti la ricerca. È agevole comprendere che quando i contenuti di cui si chiede la rimozione sono riferibili a siti web cui il motore di ricerca indirizza, il diritto all’oblio si configura quale diritto alla de-indicizzazione, in virtù del quale l’interessato può ottenere dal gestore di un motore di ricerca la rimozione dall’elenco di risultati che appaiono a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome. Il diritto all’oblio non si configura quale diritto cui l’ordinamento offre una tutela incondizionata, giacché deve essere necessariamente bilanciato con ulteriori interessi, tra cui spicca il diritto all’informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, se pure si riconosce che il diritto alla tutela dei dati personali, di cui il diritto all’oblio è espressione, è un diritto fondamentale, deve comunque evidenziarsi che la sua tutela non può essere apprestata comprimendo in modo indiscriminato ulteriori diritti fondamentali. Il diritto all’oblio deve essere necessariamente bilanciato con il diritto di cronaca; tale bilanciamento tra interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca, presuppone un complesso giudizio nel quale assumano rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia e il tempo trascorso. Quando da tale bilanciamento risulta prevalere l’interesse della collettività, il diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla de-indicizzazione, non può essere riconosciuto.
…Omissis…
Motivi della decisione
Con ricorso ex art. 79 Reg. 679/2016 e art. 10 del D.lgs. 150/2011, M. Z. conveniva Google LLC e Google Italy S.r.l. chiedendo di ordinare loro la de-indicizzazione di due articoli del …Omissis… e di tutti risultati che appaiono nel motore di ricerca Google a seguito della ricerca effettuata per mezzo della digitazione del nome …Omissis… ivi inclusa ogni combinazione rilevante di parole chiave, anche direttamente suggerita dal motore (…Omissis…). Chiedeva accertarsi e dichiararsi la lesione della propria iniziativa economica, dell’immagine, della sfera privata e della reputazione da parte del motore di ricerca Google in relazione agli articoli del …Omissis… ; nonché accertarsi e dichiararsi la violazione della normativa in materia di tutela dei dati personali da parte dei resistenti. Chiedeva condannarsi le resistenti, in solido, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti …Omissis… A supporto del ricorso allegava la seguente vicenda. Si esponeva che M. Z., professionista attivo e noto nel campo della finanza, nel 2013 veniva coinvolto in un procedimento penale su iniziativa della Procura di Firenze per violazione dell’art. 166 TUF in qualità di persona fisica e in qualità di “proprietario” della società fiduciaria di diritto svizzero “GCT”. Tale procedimento esitava in una sentenza resa a seguito di richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. “…Omissis…”. Si allegava che la condotta dello M. Z. non aveva cagionato alcun danno a terzi giacché nel procedimento penale alcuno si costituiva parte civile; che il Tribunale non ordinava la pubblicazione della sentenza sulla stampa locale e che, inoltre, sul certificato del casellario giudiziale non risultava alcuna iscrizione. Si rilevava, altresì, che l’ordine di esecuzione della pena era stato sospeso e che lo M. Z. …Omissis… . Tanto premesso, venendo al fulcro della vicenda, il ricorrente deduceva che a seguito dell’emanazione della
sentenza emessa dal Tribunale di Firenze ex art. 444 c.p.p. per i fatti di cui supra, venivano pubblicati taluni articoli sulle testate giornalistiche a mezzo stampa relativi alla vicenda processuale che aveva coinvolto lo M.Z.. Al momento della presentazione del ricorso permanevano sul web solo due articoli sul tema: …Omissis… . In diritto, deduceva che nella specie la sussistenza degli estremi per riconoscere il c.d. diritto all’oblio di cui all’art. 17 del Reg. UE 679/2016, in specie di diritto alla de-indicizzazione atteso che i fatti di cui alla summenzionata vicenda processuale, erano occorsi nel 2012 e che quindi non poteva ritenersi permanente un interesse attuale della collettività a prendere cognizione degli stessi. Inoltre, secondo la prospettazione del ricorrente, non permarrebbe l’utilità sociale dell’informazione sulle vicende dello M. Z. giacché lo stesso non è un personaggio pubblico. Sul punto, deduceva che lo M. Z. ha smesso di operare nel settore in cui operava all’epoca dei fatti di cui alla citata sentenza (quello della gestione finanziaria individuale) e che attualmente svolge attività di consulenza e assistenza nell’istituzione di trust. Deduceva che i nominati articoli provocano una esposizione mediatica sproporzionata rispetto alla posizione ricoperta dall’attore e che comportano un effetto sanzionatorio che la sentenza già citata ha escluso non disponendo la pubblicazione della sentenza. Sul risarcimento del danno, deduceva che la diffusione degli articoli in questione si è riverberata sull’attività del ricorrente determinando un deterioramento dei risultati di gestione, una significativa riduzione della clientela e una generale perdita di credibilità dello M. Z. Si costituivano Google LLC e Google Italy con medesima comparsa di risposta e chiedevano rigettarsi le domande avversarie perché infondate in fatto e in diritto. In primo luogo, Google Italy rilevava la propria totale estraneità rispetto al servizio Google Web Search che veicola le informazioni asseritamente lesive, non potendo, pertanto, essere qualificata quale titolare o responsabile del trattamento dei dati personali del ricorrente. Nel merito, entrambe le resistenti deducevano la infondatezza della domanda avversaria per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016/679. In particolare contestavano l’insussistenza della attualità dell’interesse pubblico alla conoscenza delle informazioni inerenti al Sig. Z. e contenute nei due articoli summenzionati atteso che la sentenza del Tribunale di Firenze in questione risale al 2017 (due anni prima rispetto alla presentazione del presente ricorso). Evidenziavano che il ricorrente riveste il ruolo di intermediario finanziario e che ciò induce a ritenere che i potenziali clienti abbiano interesse ad essere resi edotti delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto il ricorrente e che sono esitate in una sentenza ex art. 444 c.p.p. con condanna dello M. Z. alla pena di tre anni e due mesi per i reati di associazione a delinquere e di abusivismo finanziario. Inoltre si sottolineava il nesso sostanziale intercorrente tra i reati per cui lo M. Z. era stato condannato e l’esercizio della sua attività professionale. Rappresentavano che il fatto che le notizie in discorso fossero state pubblicate da …Omissis… imporrebbe di attuare un bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse degli utenti alla reperibilità della notizia tramite il motore di ricerca. Deducevano, inoltre, la inammissibilità per genericità della domanda di indicizzazione di contenuti non meglio precisati che appaiono a seguito della ricerca di varie combinazioni di parole …Omissis… Eccepivano, altresì, che Google LLC e Google Italy, in qualità di chaching provider ex art. 15 D.lgs.70/2003, non hanno alcun obbligo di de-indicizzare contenuti su diffida di parte nonché la inammissibilità della domanda risarcitoria perché indeterminata, generica, nonché sprovvista di supporto probatorio. Alla prima udienza la difesa di parte ricorrente dichiarava di rinunciare all’azione avverso Google Italy; la difesa di quest’ultima parte dichiarava di accettare tale rinuncia e chiedeva …Omissis… . Verificata la sussistenza dei presupposti di legge, il G.I. dichiarava estinto il giudizio tra M. Z. e Google Italy S.r.l. …Omissis... . Successivamente, il G.I. invitava le parti a prendere posizione sul profilo della giurisdizione. La difesa di parte ricorrente insisteva nella sussistenza della giurisdizione dell’autorità adita sia alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 5 c.p.c. in ordine al momento in cui si radica la giurisdizione (e cioè al momento della proposizione della domanda) sia perché il Reg. UE 2016/679, nel riconoscere il diritto alla privacy, non fa riferimento alla cittadinanza della parte del cui trattamento si lamenta; osservava, altresì, che a mente dell’art. 79 del Reg. UE 2016/679 è sufficiente che sussista nel territorio dello Stato membro uno stabilimento del titolare del trattamento sulla scorta di consolidata giurisprudenza. Contestava che la questione di giurisdizione fosse rilevabile d’ufficio; osservava, infine che, in punto di fatto, il Sig. Z. risulta attualmente essere stato destinatario di un provvedimento dell’ Autorità Giudiziaria con obbligo di dimora in …Omissis… , dimodoché la circostanza che abbia residenza …Omissis… , è circostanza recessiva. La difesa di parte resistente osservava che la CGUE non ha mai attribuito a Google LLC e a Google Italy la natura di stabilimenti e che il luogo rilevante nell’individuazione anche della giurisdizione è quello in cui può dirsi che l’interessato abbia percepito l’illiceità del trattamento e quindi, il luogo ove sia posizionato il centro dei propri interessi, pertanto, la mera circostanza che il ricorrente sia stato oggetto di un provvedimento restrittivo in …Omissis… non è sufficiente a realizzare detto
presupposto. Non si opponeva, tuttavia, alla declaratoria di difetto di giurisdizione e si rimetteva alla decisione del Tribunale. …Omissis… Quindi, in assenza di ulteriori istanze delle parti, veniva fissata udienza di discussione nel merito del ricorso. A tale udienza i procuratori discutevano oralmente la causa; la difesa di parte ricorrente proponeva la rimessione di questione pregiudiziale innanzi alla CGUE ex art. 267 TFUE sulla interpretazione dell’art. 17 del Reg. UE 2016/679. All’esito, questo Giudice dava lettura del dispositivo di sentenza innanzi a tutte le parti presenti. La domanda presentata con ricorso è infondata per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016679 (…Omissis…). Sulla qualità di titolare del trattamento di dati personali di Google LCC Nella materia che ci occupa, il profilo relativo alla qualità di titolare e/o responsabile dei dati personali del resistente Google LLC assume rilievo preliminare. Invero, la eventuale insussistenza di tale status in capo al resistente rileva non solo ai fini della legittimazione passiva, ma, altresì, ai fini della declaratoria di giurisdizione. Orbene, entrando nel merito della questione, è noto che la disciplina inerente il trattamento dei dati personali è di derivazione unionale. Sin dalla nota sentenza della CGUE c.d. Google Spain del 2014 che costituisce il “leading case” in materia di diritto all’oblio, le cui statuizioni non sono state messe in discussione da pronunce successive, si afferma che: “Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Così, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostra un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore”. In altri termini, con questa pronuncia, la Corte di Giustizia ha affermato che costituisce “trattamento di dati personali” l’attività di un motore di ricerca che consiste nel ricercare informazioni pubblicate o inserite da soggetti terzi in Internet (la c.d. attività di cache provider). …Omissis… D’altronde, non vi sono argomenti per ritenere che i motori di ricerca non possano essere considerati titolari o responsabili del trattamento dei dati che raccolgono e pongono a disposizione dei loro utenti. Infatti, i motori di ricerca sono pacificamente qualificati cache provider, la cui principale attività consiste nell’immagazzinare dati provenienti da terzi (…Omissis…) al fine di accelerare la navigazione in rete. La tematica assume particolare rilievo nell’era …Omissis… Deve dunque ribadirsi che Google LLC, in quanto titolare del trattamento dei dati che processa può essere astrattamente ritenuta responsabile in ipotesi di mancato ossequio all’obbligo di verificare che determinate pagine riconducibili a fatti particolari inerenti a determinati soggetti non sono più attuali e debbano essere de-indicizzate su richiesta dell’interessato (c.d. “Right to request delisting” su cui si indugerà più diffusamente infra). Nella specie, Google LLC …Omissis… deve essere considerato titolare del trattamento di dati personali del ricorrente perché ha indicizzato articoli pubblicati da testate giornalistiche in cui lo M. Z. veniva espressamente nominato e in cui si narravano vicende a questi relative. Sulla sussistenza della giurisdizione Tanto premesso sulla legittimazione passiva di Google LLC, può passarsi all’esame della giurisdizione del Giudice italiano sulla presente controversia, disamina che va effettuata alla luce della particolare qualità dei soggetti coinvolti. Giova evidenziare che l’art. 79 del Regolamento UE prescrive …Omissis… Dispone, altresì, che le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento sono promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente. Orbene, i principi portanti del Regolamento UE in materia di giurisdizione possono essere individuati nel principio di stabilimento (requisito oggettivo) e, in via sussidiaria, nel principio di abituale residenza dell’interessato (requisito soggettivo). Viepiù, tali requisiti vanno interpretati alla luce dei principi informatori del Regolamento in questione. Invero, l’analisi di quest’ultimo provvedimento mostra che il legislatore unionale ha raggiunto una maturata consapevolezza in merito alle problematiche inerenti il trattamento dei dati personali di massa tramite strumenti tecnologici, in quanto idoneo ad assumere una dimensione transfrontaliera (…Omissis…). Tornando al principio di stabilimento, la sua configurazione si ricava dal diritto primario dell’UE e comporta che una impresa “stabilita” in un certo Paese, che elabora dati nel contesto di tale stabilimento è soggetta alla giurisdizione del Paese di stabilimento stesso. Una impresa si intende “stabilita” in un determinato Paese allorquando ivi possegga una stabile organizzazione e ivi svolga una attività economica a tempo indeterminato. D’altra parte, qualora un soggetto non stabilito nell’Unione europea effettui il trattamento di dati personali di interessati che si trovino nell’Unione europea (cfr. art. 3 par. 2, Reg. Ue 2016/679) questi è obbligato a designa-
re un rappresentante stabilito nel territorio degli Stati membri dove si trovino gli interessati (art. 27, par. 1 e 3, Reg. UE 2016/679). Viepiù, ai fini di ciò che quivi maggiormente rileva, il par. 4 dell’art. 27 del Reg. UE 2016/679 …Omissis… Tale disposizione dimostra inequivocabilmente che il titolare dello stabilimento “intra UE” (nella specie, Google Italy) designato da parte dello stabilimento “extra UE” (nella specie, Google LLC) funge da interlocutore e possiede un ruolo vicario o suppletivo rispetto allo stabilimento principale, che non è di per sé idoneo ad elidere il ruolo del titolare del trattamento che processa i dati. Inoltre, l’obbligo di cui all’art. 27 cit. deve intendersi posto precipuamente a presidio della garanzia di effettività di tutela per gli interessati. Infatti, se questi fossero tenuti ad interfacciarsi con la impresa stabilita nello Stato extra UE in cui si trova lo stabilimento principale del motore di ricerca che processa i loro dati, sarebbe certamente frustata la tutela dei diritti loro attribuiti dal diritto unionale, giacché astrattamente possibile, ma, di fatto, eccessivamente gravosa. Dall’interpretazione sistematica del Regolamento è agevole desumere che esso intende attribuire particolare rilevanza al profilo della effettività della tutela, proprio in virtù dell’assunto in base al quale il trattamento dei dati personali in via automatizzata valica i confini nazionali per assumere un ambito di applicazione transfrontaliero e, in caso di illecito trattamento, una vasta e incontrollata portata lesiva. Non valorizzare tale profilo significherebbe contraddire i principi che informano il Regolamento Ue in questione, atteso che, sin dal secondo considerando il legislatore europeo precisa che “i principi e le norme a tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale (“dati personali”) dovrebbero rispettarne i diritti e le libertà fondamentali, in particolare il diritto alla protezione dei dati personali, a prescindere dalla loro nazionalità o dalla loro residenza. E ancora al considerando n. 10 …Omissis… Ne deriva che, nell’ottica del regolamento, ciò che maggiormente rileva è che tutti i giudici degli Stati membri offrano agli interessati effettiva e uniforme di tutela giurisdizionale sempreché vi siano elementi qualificati di connessione tra lo stato della autorità giurisdizionale adita e il supposto illecito trattamento dei dati personali. Di tale rilievo non si può essere negletti anche sulla scorta dei costanti insegnamenti della giurisprudenza unionale la quale ha affermato, a più riprese, che spetta al giudice nazionale assicurare a coloro i quali adiscano la autorità giudiziale una tutela giurisdizionale effettiva ai diritti riconosciuti dal diritto dell’Unione europea. Deve, tuttavia, considerarsi che il fatto che Google LLC possegga in Italia uno stabilimento non è circostanza di per sé sufficiente a radicare la giurisdizione della presente controversa innanzi a questo Giudice. Infatti, nella specie, atteso che la domanda proposta avverso Google Italy è stata oggetto di rinuncia da parte del ricorrente e che solo Google LLC (con sede in America) è parte del giudizio, deve ritenersi insussistente il requisito oggettivo di cui all’art. 79 del Reg. cit. Ciò non osta, in ogni caso, al riconoscimento della giurisdizione del giudice italiano a scapito di quello americano, atteso che la società Google LLC quivi convenuta processa dati riconducibili alla sfera giuridica di interessati che si trovano sul territorio italiano. A tal proposito, soccorre il requisito soggettivo di determinazione della giurisdizione di cui all’art. 79 del Regolamento inerente la abituale residenza dell’interessato. Orbene, la locuzione “residenza abituale” deve essere oggetto di interpretazione sistematica per garantire una tutela effettiva ed uniforme a coloro i quali si trovino sul territorio di uno Stato membro dell’Unione europea. Invero, ai fini dell’integrazione di tale criterio non può guardarsi unicamente il luogo della residenza formale dell’interessato, ma deve, altresì, guardarsi il luogo in cui sono allocati i principali interessi dell’interessato anche con riguardo al luogo in cui si riverberano gli effetti dell’asserito illecito trattamento alla luce della domanda proposta. …Omissis… Ora, sebbene il Reg. CE 44-2001 debba considerarsi lex generalis rispetto alla lex specialis di cui al Reg. UE 2016/679, la interpretazione che ne ha fornito la CGUE in materia di violazione dei diritti della personalità derivante dalla pubblicazione di informazioni su Internet deve essere tenuta in considerazione nella materia che ci occupa. Infatti, la CGUE ha stabilito che: “l’art. 5, punto 3, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, in caso di asserita violazione dei diritti della personalità per mezzo di contenuti messi in rete su un sito Internet, la persona che si ritiene lesa ha la facoltà di esperire un’azione di risarcimento ...Omissis… dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata. Questi ultimi sono competenti a conoscere del solo danno cagionato sul territorio dello Stato membro del giudice adito”. …Omissis… . Il riferimento è all’art. 56 che …Omissis… Ciò posto, a prescindere dal luogo di residenza formale del ricorrente …Omissis… lo M. Z. intrattiene i suoi affari prevalentemente in Italia e che gli articoli di cui si chiede la rimozione posseggono idonea e astratta portata lesiva sul territorio italiano.
In tal senso depone altresì la circostanza in base alla quale la sentenza nominata dai due articoli asseritamente lesivi è stata emessa da un tribunale italiano, in relazione a fatti occorsi in Italia. Sul punto, deve inoltre evidenziarsi che gli articoli in questione sono stati redatti da testate giornalistiche italiane. Ulteriore indice è offerto dal fatto che la società mediante la quale lo …Omissis… operava all’epoca dei fatti di cui alla sentenza aveva sede in Italia. D’altra parte, deve evidenziarsi che lo …Omissis… si duole prevalentemente del fatto che gli articoli indicizzati da Google LLC sono idonei a ledere la propria reputazione professionale e a dissuadere clienti e investitori italiani nel riporre la fiducia nel ricorrente. Ne deriva che il trattamento effettuato da Google LLC è idoneo ad incidere in modo sostanziale sugli interessi del ricorrente, i quali sono posti nel territorio italiano. Valorizzato il criterio soggettivo della residenza abituale alla luce del criterio del c.d. centro di interessi e il luogo in cui si riverberano gli effetti del trattamento asseritamente lesivo deve ritenersi sussistente la giurisdizione di questo Giudice sul presente ricorso. Sulla insussistenza dei requisiti necessari ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio Per ciò che concerne il merito del ricorso, devono ritenersi insussistenti i presupposti del riconoscimento del diritto all’oblio in specie di diritto alla de-indicizzazione quivi affermato dal ricorrente. Ai fini di maggiore chiarezza espositiva, deve evidenziarsi che la configurazione attuale del diritto all’oblio pone le basi nella già citata sentenza Google Spain emessa dalla CGUE nell’anno 2014. …Omissis… Tale assunto è stato fatto proprio dal Garante europeo per la protezione dei dati personali che in occasione dell’emanazione delle già citate linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019 in materia di diritto all’oblio nell’ambito dell’attività dei motori di ricerca sub Reg. UE 2016/679 ha chiarito che l’art. 17 cit. e il diritto alla de-indicizzazione deve essere interpretato alla luce di quanto stabilito nel “leading case” Google Spain. Prima di enucleare i requisiti al ricorrere dei quali sussiste il diritto all’oblio occorre specificarne l’essenza. Il diritto all’oblio è il diritto dell’interessato a chiedere la rimozione di informazioni o dati pubblicati che non sono più attuali o necessari per le finalità per le quali erano stati raccolti e trattati. Ne deriva che, il diritto all’oblio può venire in questione allorquando il trattamento di dati personali, originariamente lecito, divenga (…Omissis…) incompatibile con il Regolamento. Nella materia relativa alla protezione dei dati personali, allorquando si fa riferimento alla “indicizzazione” si allude all’inserimento di dati personali in un motore di ricerca. A causa della indicizzazione, il motore di ricerca mette a disposizione degli utenti una serie di collegamenti ipertestuali (c.d. link) che rimandano a siti web (anche di testate giornalistiche) cui l’utente può accedere per il tramite della pagina browser del motore di ricerca a seguito dell’immissione di parole o frasi attinenti alla loro ricerca. È agevole comprendere che quando i contenuti di cui si chiede la rimozione sono riferibili a siti web cui il motore di ricerca indirizza, il diritto all’oblio si configura quale diritto alla de-indicizzazione che, citando testualmente la celebre pronuncia già nominata, è: “il diritto dell’interessato a che l’informazione riguardante la sua persona non venga più collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome”. …Omissis… Il diritto all’oblio, infatti, non è un diritto cui si l’ordinamento offre una tutela incondizionata, giacché deve essere necessariamente bilanciato con ulteriori interessi, tra cui spicca il diritto alla informazione nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, se pure si riconosce che il diritto alla tutela dei dati personali cui il diritto all’oblio è espressione è un diritto fondamentale, …Omissis… . La stessa Corte Costituzionale ha ammesso la possibilità di sottoporre a bilanciamento due interessi fondamentali contrapposti deducendo che la nostra Costituzione non prevede una gerarchia di valori e, per questo, nel nostro ordinamento non possono enuclearsi “diritti fondamentali tiranni” con “pretesa di assolutezza” (Sentenza Corte Costituzionale n. 85 del 2013). Invero, il bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca presuppone un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia e il tempo trascorso, anche sulla scorta degli insegnamenti della CGUE. Orbene, nella specie, deve rilevarsi che il nominato bilanciamento deve considerare prevalente l’interesse della collettività ad essere resa edotta delle informazioni contenute negli articoli di cui il ricorrente chiede la de-indicizzazione rispetto all’evocato diritto all’oblio. Va osservato che nel ricorso non è dato rinvenire una specifica lamentela con riguardo al contenuto degli articoli richiamati soltanto in via generale come riferiti alla vicenda processuale del ricorrente lamentandosi in questa sede della mera visibilità attraverso la indicizzazione dei testi (…Omissis…).
Ora, dal carteggio processuale emerge che lo …Omissis… è un uomo di affari operante nel campo della finanza. La già nominata sentenza del Tribunale di Firenze contiene l’accertamento di penale responsabilità dello … Omissis… ordine al reato di abusivismo ai sensi dell’art. 166 TUF e associazione per delinquere. Dunque gli articoli asseritamente lesivi fanno riferimento ai fatti commessi dallo …Omissis… e accertati in sentenza. Preso atto della tipologia del fatto di reato commesso dallo …Omissis… e preso altresì atto che egli risulta rivestire un ruolo nel campo delle attività finanziarie, deve rilevarsi che permane un interesse della collettività a conoscere le vicende processuali che hanno interessato il ricorrente, considerato, preminentemente, che i fatti di cui alla sentenza sono inscindibilmente interrelati al ruolo professionale che svolge lo …Omissis... Per quanto riguarda la attualità delle notizie riportate dagli articoli di cui si chiede la deindicizzazione e la sussistenza del perdurante interesse della collettività a essere resi edotti del loro contenuto deve rilevarsi quanto segue. Nonostante i nominati articoli facciano riferimento ad una sentenza di condanna emessa in relazione a fatti occorsi nel 2012, l’accertamento irrevocabile di responsabilità dello …Omissis… è occorso in data 2017. Per tale ragione, è a quest’ultima data che deve farsi riferimento per valutare il grado di obsolescenza delle notizie in questione. …Omissis… Deve dunque rilevarsi che a nessun fine possono farsi retroagire gli effetti di una sentenza di condanna al momento dei fatti, così contraddicendo un principio cardine di civiltà giuridica avente valenza costituzionale. A ciò si aggiunga che lo …Omissis… sta attualmente eseguendo una misura alternativa alla detenzione …Omissis… . Per queste ragioni, considerato l’oggetto degli articoli in questione, l’oggetto e la data della sentenza del Tribunale di Firenze da questi richiamata nonché la professione svolta dallo …Omissis…, sussiste inequivocabilmente l’attuale diritto della collettività ad essere informata sui fatti commessi dal ricorrente aventi penale rilevanza. Si osserva, infatti, che la sentenza del Tribunale di Firenze è stata emessa nel 2017, vale a dire circa due anni prima la data della presentazione del presente ricorso. Orbene, nonostante non possa ritenersi che sussista un termine rigido entro il quale una notizia possa ritenersi obsoleta ai fini del riconoscimento del diritto alla deindicizzazione della stessa, deve rilevarsi che, considerate le peculiarità del caso di specie supra evidenziate, due anni devono ritenersi insufficienti. Pure volendo ritenere che debba considerarsi il momento di commissione dei fatti per cui vi è stata sentenza (2012) neppure i sette anni rispetto alla presentazione del ricorso sarebbero idonei ad inficiare il giudizio di perdurante attualità della notizia, avendo riguardo dell’oggetto della stessa e del ruolo attualmente rivestito dal ricorrente. Infatti, lo …Omissis… è un uomo attualmente attivo nel campo dell’intermediazione finanziaria e ha commesso dei fatti criminosi in associazione con altri nello svolgimento della propria attività professionale. Per questa ragione, sussiste inequivocabilmente l’interesse di potenziali clienti del ricorrente ad essere resi edotti di tale circostanza. Giova, infine, evidenziare che, contrariamente da quanto sostenuto, resta del tutto irrilevante la circostanza in base alla quale lo …Omissis… non svolgerebbe attualmente attività di consulenza finanziaria individuale (… Omissis…). Infatti, la nozione di “stesso campo di attività rispetto a quello dei fatti” deve essere interpretata in senso lato ai fini che ci occupano, guardando, pertanto, alla potenziale clientela dello …Omissis…, che si riferisce sempre all’ambito dell’attività di intermediazione finanziaria. Per quanto attiene la questione inerente la divulgazione della condanna quale effetto non disposto dalla sentenza resa a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. deve rilevarsi quanto segue. È noto che accedere al c.d. patteggiamento ex art. 444 c.p.p., nei casi prescritti dalla legge, consiste in una scelta di rito dell’imputato. È altrettanto noto che da tale scelta …Omissis… Inoltre, in merito al rilievo del ricorrente sull’insussistenza di danni del reato commesso e accertato dalla sentenza del T. di Firenze atteso la mancata costituzione di parte civile di alcuno, deve rilevarsi che a seguito di richiesta di patteggiamento non è ammessa la costituzione di parte civile. …Omissis… In ogni caso, deve evidenziarsi che considerare congiuntamente gli effetti sanzionatori della sentenza penale e gli effetti dell’esposizione mediatica dovuta al legittimo esercizio del diritto di cronaca si traduce in una di indebita sovrapposizione di piani. Invero, non può ritenersi che, a titolo esemplificativo, ogni qual volta il giudice penale disponga il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ex art. 175 c.p. debba, per ciò solo, ritenersi insussistente il diritto di cronaca con riguardo alla divulgazione del fatto accertato in detta sentenza. Sulla questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE sull’art. 17 del Reg. UE 2016/679. Deve rilevarsi che la difesa di parte ricorrente ha chiesto a questo Giudice di sollevare questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE …Omissis…
È jus receptum che Il rinvio pregiudiziale costituisce quindi un rinvio da Corte a Corte e che, anche se può essere richiesto da una delle parti della controversia …Omissis… . Poiché il giudice nazionale investito di una controversia è chiamato ad assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, spetta a tale giudice — e a lui solo — valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, la necessità di proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emanare la propria sentenza nonché la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Orbene, si osserva che ai fini della decisione della controversia è necessaria l’applicazione dell’art. 17 del Regolamento UE 2016/679 …Omissis… . Tuttavia, questo Giudice non ritiene necessario sollevare una questione pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 17 citato atteso che la Corte di Giustizia dell’Unione europea si è già espressa sui canoni ermeneutici cui il giudicante deve fare ricorso per contemperare il diritto alla riservatezza con ulteriori diritti fondamentali che dovessero venire in questione. Deve dunque affermarsi che non osta al diritto dell’Unione europea così come interpretato dalla CGUE fare ricorso ai requisiti enucleati dalla pronuncia Google Spain del 2014 ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio allorquando venga in questione il diritto fondamentale alla libera iniziativa economica. Alla luce di tali considerazioni la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE così come spiegata da parte ricorrente non merita adesione. In conclusione, tutte le ragioni enucleate non può riconoscersi il diritto alla deindicizzazione così come richiesto dal ricorrente perché recessivo rispetto al diritto collettivo all’informazione in merito alle vicende esposte nei già nominati articoli. Dunque, si impone il rigetto del ricorso. Le restanti domande o questioni restano assorbite. Spese di lite Le spese di lite seguono la soccombenza …Omissis…. P.Q.M. Il Tribunale di Milano …Omissis… - dichiara estinta l’azione proposta da M.Z. avverso Google Italy s.r.l.; - rigetta il ricorso ex art. 79 Reg UE 2016/679 E 10 Dlgs 150/2011 proposto …Omissis…; - condanna M.Z. al pagamento, in favore di Google LLC e di Google Italy S.r.l. …Omissis…; -…Omissis…
IL COMMENTO
di Antonfabio Morena
Sommario: 1. Il caso. – 2. I principi affermati in “Google Spain”. – 3. Questioni preliminari: legittimazione passiva e sussistenza della giurisdizione. – 4. Il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca. – 5. Note conclusive.
Il contributo è volto ad analizzare una recente sentenza con cui il Tribunale di Milano si è occupato nuovamente di questioni relative al diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. “diritto alla deindicizzazione”, delineato nei suoi tratti essenziali dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europa nel “leading case” Google Spain. Attraverso l’analisi ed il commento del percorso argomentativo seguito dal giudice meneghino, il lavoro intende soffermarsi sul difficile bilanciamento tra il diritto all’oblio ed ulteriori interessi tutelati dal nostro ordinamento, tra i quali spicca il diritto all’informazione, quale declinazione del diritto consacrato dall’art. 21 Cost. The contribution is intended to analyze a recent judgment with which the Court of Milan has dealt with issues relating to the right to be forgotten, in the declination of the so called “right to delisting”, outlined in its essential features by the Court of Justice of the European Union in the leading case “Google Spain”. Through the analysis and commentary of the argumentative path followed by the judge, the work intends to dwell on the difficult balance between the right to be forgotten and other protected interests, among which stands out the right to information in the legitimate exercise of the broader right enshrined by article 21 of the Italian Constitution.
1. Il caso
I fatti oggetto della decisione in esame prendono avvio da una ricerca Google effettuata dal ricorrente. Questi si avvedeva che, digitando le proprie generalità, ivi inclusa ogni combinazione rilevante di parole chiave, anche direttamente suggerite dal motore di ricerca “Google Web Search”, comparivano nell’elenco dei risultati due articoli di giornale in cui venivano riportate informazioni relative ad una vicenda processuale che lo vedeva coinvolto. Nella fattispecie, a seguito di richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., era stata emessa sentenza dal Tribunale di Firenze, senza, tuttavia, disporne né la pubblicazione su stampa, né l’iscrizione della condotta nel casellario giudiziale.
I detti articoli di giornale, a ragione del ricorrente, erano idonei a ledere la sua iniziativa economica, la sua immagine e reputazione, essendo atti a generare una “gogna mediatica”, al punto che costui decideva di chiamare in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Milano, le società Google LLC e Google Italy (salvo poi rinunciare all’azione nei confronti di quest’ultima), chiedendo il riconoscimento del diritto all’oblio di cui all’art. 17 del Reg. UE 679/2016 nella sua declinazione di diritto alla de-indicizzazione. Il ricorrente adduceva che i fatti esposti nei summenzionati articoli erano occorsi nel 2012 e che, di conseguenza, non poteva ritenersi ancora sussistente un interesse della collettività ad averne notizia né tantomeno l’utilità sociale alla conoscenza delle vicende processuali, non essendo il ricorrente un personaggio pubblico. Tali articoli, a detta dell’istante, provocavano una esposizione mediatica sproporzionata rispetto alla posizione ricoperta dallo stesso e producevano un effetto sanzionatorio che la sentenza summenzionata escludeva poiché, tra gli effetti previsti, non era disposta la pubblicazione della stessa. Il Tribunale, a sua volta, riconosciuta la legittimazione passiva della Google LLC e ritenuta sussistente la propria giurisdizione, rigettava la domanda presentata dal ricorrente per difetto dei presupposti di cui all’art. 17 del Reg. UE 2016/679.
2. I principi affermati in “Google Spain”
Il Tribunale milanese torna ad occuparsi (1) delle questioni legate alla qualificazione dell’attività dei motori di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nel memorizzarle temporaneamente, indicizzarle in modo automatico e nel metterle a disposizione degli utenti, nonché del difficile bilanciamento che deve effettuarsi quando il diritto all’oblio confligge con il contrapposto diritto di cronaca. In particolare, la pronuncia si pone in continuità con il percorso tracciato dalla nota sentenza “Google Spain”, resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (2).
(1) Cfr. Trib. Milano 24 gennaio 2020, n. 4911, inedita; Trib. Milano 19 ottobre 2017, n. 10447, in <https://www.dejure.it>; Trib. Milano 5 ottobre 2016, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 549 ss., con nota di riCCio, Il difficile equilibrio tra diritto all’oblio e diritto di cronaca; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, all’indirizzo <https://www.dirittodellinformatica. it>, 30 novembre 2018, con nota di CAruSo, Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità telematica fra diritto all’oblio e diritto all’identità personale. (2) CGUE 13 maggio 2014, Causa C-131/12, Google Spain SL, Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), Mario Costeja González, in Giur. it., 2014, 1323 ss., con nota di SCAnniCChio, Tutela della privacy: motori di ricerca e diritto all’oblio; in Resp. civ., 2014, 1530 ss., con nota di BuGioLACChi, Mancata rimozione della indicizzazione di spazi web a richiesta dell’interessato: la nuova frontiera della r.c. dei motori di ricerca; in Corr. giuridico, 2014, 1471 ss., con nota di SCorzA, Corte di Pertanto, risulta necessario rievocare i principi elaborati da tale “leading case” (3) per esaminare e commentare il percorso argomentativo sotteso alla decisione in commento. La Corte di Giustizia, con la summenzionata pronuncia, ha aperto la strada alla “privacy devolution” (4), rispetto alla problematica del bilanciamento degli interessi concorrenti e costituzionalmente protetti, coinvolti nella materia dell’oblio, fornendo, inoltre, chiarezza sul piano delle responsabilità giuridiche inerenti il trattamento dei dati personali. La Corte di Lussemburgo, con tale provvedimento, ha riconosciuto, per la prima volta, il diritto all’oblio, come si ricava dalla direttiva 95/46/ CE, ai cui principi, in materia di trattamento dei dati personali, si sono ispirate le successive decisioni, soprattutto con riferimento al contesto normativo frutto dell’adozione del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR). Infatti i principi ricavabili dal “leading case” costituiscono le fondamenta dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice milanese, che – come si tenterà di evidenziare – risulta coerente con le pronunce in materia. Innanzitutto, la Corte ha affermato che l’attività di un motore di ricerca, consistente, come anticipato, nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su internet, nell’indicizzarle automaticamente, nel memorizzarle temporaneamente e nel metterle a disposizioni degli utenti della rete, debba essere qualificata come trattamento dei dati personali in forza dell’art. 2, lett. b, dir. 95/46/CE, qualora tali informazioni contengano dati personali. Orbene, la Corte di Lussemburgo ha considerato responsabile di tale trattamento il gestore del motore di ricerca, poiché sarebbe quest’ultimo a determinare le finalità e gli strumenti del trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 2 lett. d, dir. 95/46/CE (5), e, per conseguenza, in capo a costui graverebbe l’obbligo di
giustizia e diritto all’oblio: una sentenza che non convince; al riguardo v. pure BuSiA, Una vera rivoluzione copernicana, all’indirizzo <https://st.ilsole24ore.com>, 14 maggio 2014, 25. (3) Tale pronuncia ha portato alla stesura dell’art. 11 della Dichiarazione dei diritti in Internet, rubricato, per l’appunto, “Diritto all’oblio”: “Ogni persona ha diritto di ottenere la cancellazione dagli indici dei motori di ricerca dei riferimenti ad informazioni, che, per il loro contenuto o per il tempo trascorso dal momento della loro raccolta, non abbiano più rilevanza pubblica”. (4) Per una attenta disamina sulla tutela della privacy e della protezione dei dati personali cfr. i contributi raccolti in AA.VV., La protezione dei dati personali ed informatici nell’era della sorveglianza globale, Temi scelti, a cura di Distefano, Napoli, 2017. (5) I Giudici di Lussemburgo sceglievano di valorizzare ed estendere oltremodo la ratio della disposizione contenuta nella direttiva al fine di garantire un piena tutela delle persone: in tal senso MAzzuCConi, Il diritto all’oblio dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso “Google c. AEPD”, all’indirizzo <https://www.cyberlaws.it>, 2 marzo 2018.
assicurare che l’attività posta in essere soddisfi le disposizioni previste dalla normativa in materia di protezione dei dati personali. Pertanto, il gestore del motore di ricerca, viene considerato titolare del trattamento dei dati e, quindi, è tenuto a verificare che determinate pagine, contenenti informazioni che violano la normativa in materia di trattamento dei dati personali, non vengano indicizzate. Dopo queste premesse, il giudice di Lussemburgo, si è soffermato sull’analisi degli artt. 12, lett. b e 14 par. 1, lett. a, della dir. 95/46/CE, arrivando a riconoscere che il diritto alla cancellazione ed il diritto di opposizione dell’interessato - titolare del trattamento dei dati personali - nei confronti del motore di ricerca si manifestano nella facoltà di pretendere l’eliminazione di link dai risultati restituiti dopo aver effettuato una ricerca in base al proprio nome o a combinazioni di parole chiave. Infatti, la Corte, analizzando dette disposizioni alla luce degli artt. 7 e 8 Carta dir. fond. UE (6), è giunta a riconoscere l’esistenza del diritto all’oblio delle informazioni personali che risultino irrilevanti, non più rilevanti o inadeguate rispetto alle finalità del trattamento, consacrando il principio di autodeterminazione informativa del soggetto alla conservazione della propria identità digitale (7). Epperò, il c.d. diritto alla deindicizzazione dai motori di ricerca, non si esplica nella cancellazione delle informazioni dalla pagina web di origine, ma soltanto nella possibilità di nascondere le informazioni, correlate al nominativo, dai risultati del motore di ricerca, così da non renderle più visibili in rete, ovvero ottenere la rimozione di tutti i risultati di ricerca correlati al nome o a chiavi di parole, affinché la ricerca effettuata non mostri alcun risultato o, quantomeno, renda disponibili solo le informazioni personali trattate nel rispetto della normativa in materia di privacy. Pertanto, tale pronuncia non ha offerto una nuova definizione di diritto all’oblio, ma ha sancito il diritto di un soggetto a non essere trovato online (le informazioni non saranno cancellate, ma lo sarà soltanto il collegamento ad esse). Ciò posto, la possibilità di poter ottenere la deindicizzazione (8) dell’informazione non è assoluta, ma va verificata caso per caso, poiché il diritto dell’interessato al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali viene sottoposto ad un’operazione di bilanciamento con l’interesse pubblico a poter accedere, mediante una ricerca, all’informazione in questione, utilizzando il nome dell’interessato o combinazioni di parole chiave, e, solo nel caso in cui l’interesse del singolo risulti prevalente rispetto all’interesse pubblico, è possibile ottenerne la deindicizzazione.
I principi enucleabili dalla sentenza “Google Spain” trovano una corretta applicazione nel percorso logico-giuridico su cui è improntata la decisione in esame. Nel corso dell’ordinato iter motivazionale i principi e le norme regolanti il caso concreto risultano richiamati in modo chiaro ed organizzato, favorendo la linearità della ricostruzione della vicenda. Il Tribunale, dopo aver ripercorso il fatto sostanziale e processuale, e prima di passare ad analizzare la sussistenza del diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. diritto alla deindicizzazione, si è soffermato sulle questioni preliminari. La prima di esse ad essere affrontata è quella inerente la sussistenza della legittimazione passiva in capo alla Google LLC (essendo intervenuta, nella prima udienza, rinuncia all’azione nei confronti della Google Italy). Il difetto di legittimazione è stato prontamente respinto (in applicazione dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale), riconoscendo, in capo alla Google LLC, la qualità di titolare del trattamento dei dati e, di riflesso, di soggetto destinatario della richiesta di “right to request delisting” proveniente dall’interessato. Infatti, il motore di ricerca non può essere inquadrato come un semplice contenitore di informazioni (9), poiché esercita un’attività di diffusione di dati personali afferenti a persone fisiche e giuridiche. Pertanto, l’attività dello stesso si estrinseca nel trattamento di dati personali, poiché il servizio reso si concretizza nell’in-
(6) Cfr. CGUE 24 settembre 2019, Causa C-136/17, G.C. e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), punto 53, e CGUE 24 settembre 2019, Causa C-507/17, Google LLC c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), punto 45, entrambe pubblicate per esteso nell’Osservatorio Privacy e Garante per la protezione dei dati personali di Bruno Inzitari con Valentina Piccinini, di questa Rivista, all’indirizzo <https://dirittodiinternet.it/privacy/>, e commentate da AStone, Right to be forgotten online e il discutibile ruolo dei gestori dei motori di ricerca, in questa Rivista, 2020, 27 ss. (7) SiCA - D’Antonio, La procedura di deindicizzazione, in AA.VV., Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, a cura di Resta e Zeno-Zencovich, Roma, 2015, 893. (8) BonAVitA, Il diritto all’oblio: la giurisprudenza del Garante Privacy, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <https://www.quotidianogiuridico. it>, 9 gennaio 2017; ruSSo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, in Danno e resp., 2016, 303. (9) CAVALLAri, Il diritto all’oblio in seguito al caso Google Spain vs. AEPD e Mario Costeja Gonzalez, all’ indirizzo <https://www.iusinitinere.it>, 6 marzo 2018; Di CioMMo, Quello che il diritto non dice. Internet e oblio, in Danno e resp., 2014, 1104.
dicizzazione delle informazioni pubblicate o inserite da soggetti terzi in Internet (10). A tale riguardo nella pronuncia risulta precisato come la società Google LLC, nella qualità di gestore del motore di ricerca, sia responsabile del trattamento dei dati personali che appaiono nelle pagine web e che, per conseguenza, il soggetto interessato delle informazioni processate abbia facoltà di rivolgersi al gestore per chiederne la cancellazione (11). La risoluzione della problematica, inerente la titolarità dei dati personali, viene superata facilmente dal giudice meneghino che, dopo aver richiamato il principio guida (12) enucleabile dalla sentenza della Corte di Lussemburgo, ha provveduto a riconoscere, nel caso di specie, la legittimazione passiva della Google LLC, quale destinataria della richiesta di deindicizzazione avanzata dal ricorrente. Il riconoscimento della legittimazione passiva di Google LLC ha aperto la strada all’analisi della seconda questione preliminare, concernente la giurisdizione del giudice italiano (nel caso di specie il Tribunale di Milano), alla luce della particolare qualità dei soggetti coinvolti nella controversia. Un chiaro utilizzo dei canoni interpretativi offerti dall’art. 79 del citato Regolamento UE (13), traspare
(10) Tale inquadramento non trova conferma unicamente nelle pronunce della Corte di Giustizia, successive al leading case “Google Spain”, ma anche dall’interpretazione resa dal Garante per la protezione dei dati personali in occasione dell’adozione di provvedimenti in materia: cfr. Provv. Garante n. 10 del 19 gennaio 2019, all’indirizzo <https://www.garanteprivacy.it> (Il Garante ha ingiunto il motore di ricerca a rimuovere determinati URL e, per l’effetto, ha ingiunto Google LLC a provvedere alla loro rimozione). Tale inquadramento è suffragato anche dal Garante Europeo per la protezione dei dati personali che, nell’adozione delle Linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019, ha ribadito che i motori di ricerca sono titolari dei dati personali che processano e, per tale motivo, può essere loro domandata la cancellazione degli stessi. (11) RuSSo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, cit., 303. (12) “Il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi. Così, nel caso in cui, a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, l’elenco di risultati mostri un link verso una pagina web che contiene informazioni sulla persona in questione, questa può rivolgersi direttamente al gestore”: cfr. CGUE 13 maggio 2014, Causa C-131/12, cit., punti 25-31, 41; cfr. altresì CGUE 24 settembre 2019, Causa C-136/17, cit. (13) “1. Fatto salvo ogni altro ricorso amministrativo o extragiudiziale disponibile, compreso il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo ai sensi dell’articolo 77, ogni interessato ha il diritto di proporre un ricorso giurisdizionale effettivo qualora ritenga che i diritti di cui gode a norma del presente regolamento siano stati violati a seguito di un trattamento. 2. Le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento sono promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente, salvo che il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento sia un’autorità pubblica di uno Stato membro nell’esercizio dei pubblici poteri”. dalla risoluzione della summenzionata questione preliminare. Il Tribunale ha concluso per la sussistenza della giurisdizione, in applicazione del principio di abituale residenza dell’interessato, valorizzando la nozione di centro di interessi del titolare del diritto della personalità (14), in quanto il ricorrente, nonostante sia residente in uno stato diverso dall’Italia, intrattiene i suoi affari prevalentemente in Italia. Prima di addivenire alla risoluzione della questione, il giudice ha ripercorso la normativa enucleabile dal regolamento vigente, soffermandosi sull’applicabilità del principio di stabilimento (requisito oggettivo) e di quello di abituale residenza (requisito soggettivo). La disciplina unionale del principio di stabilimento (15) prevede che un’impresa stabilita in un determinato Paese e che elabora dati nel medesimo contesto, è soggetta alla giurisdizione del Paese di stabilimento. Un’ impresa si intende stabilita in una determinato Paese, quando ivi possegga un’organizzazione stabile che svolge un’attività economica a tempo indeterminato. Qualora, invece, l’impresa (16) non risulti stabilita nell’Unione Europea, ma ivi effettui il trattamento dei dati personali di soggetti che si trovino nell’Unione Europea, è obbligata a designare un rappresentante (17) incaricato del trattamento dei dati, stabilito nel territorio dove si trovino gli interessati. Tale obbligo di designazione è posto a tutela degli interessati, poiché se questi fossero costretti ad interfacciarsi con un’impresa stabilita in uno Stato fuori dall’UE si vedrebbe frustrata la tutela dei diritti attribuita dalla disciplina europea. Nel caso di specie, lo stabilimento del titolare nell’UE è Google Italy, in quanto designato da parte della società capogruppo (Google LLC). Tuttavia, alla luce di questa ricostruzione, il giudice non ha ritenuto applicabile tale criterio, valorizzando non solo il fatto che solamente Google LLC è parte del giudizio (in quanto è intervenuta rinuncia all’azione da parte del ricorrente nei confronti di Google Italy) ma anche che il semplice possesso
(14) roLFi, Dalla competenza alla giurisdizione: le “mobili frontiere” di Internet, in Corr. giuridico, 2012, 760 ss; BArLettA, La tutela effettiva della privacy nello spazio (giudiziario) europeo nel tempo (della “aterritorialità”) di Internet, in Eur. dir. priv., 2017, 1179 ss.. (15) VALLe - GreCo, Transnazionalità del trattamento dei dati personali e tutela degli interessati, tra strumenti di diritto internazionale privato e la prospettiva di principi di diritto privato di formazione internazionale, in Dir. inf. e inform., 2017, 169 ss. (16) Cfr. artt. 3, par. 2, e 27, par. 1 e 3, Regolamento (UE) 2016/679. (17) “Il rappresentante è incaricato dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento a fungere da interlocutore in aggiunta o sostituzione del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento (…)”: cfr. art. 27, par. 4, Regolamento (UE) 2016/679.
da parte della società capogruppo di uno stabilimento in Italia non sia circostanza di per sé sufficiente ed idonea a determinare la giurisdizione del giudice nazionale. Successivamente, l’interprete è passato all’analisi del criterio sussidiario previsto dall’art. 79 del citato regolamento, cioè del requisito soggettivo dell’abituale residenza dell’interessato. Nel caso di specie, nonostante il ricorrente fosse residente in Svizzera, il Tribunale ha ritenuto sussistente la propria giurisdizione, in applicazione del suddetto requisito soggettivo, valorizzando la nozione di “centro di interessi del titolare”, cosi come interpretata (18) dai giudici di Lussemburgo. Infatti, il ricorrente ha stabilito il proprio centro di interessi nel territorio italiano, poiché, come ricavabile dal materiale probatorio del procedimento, questi intrattiene i suoi affari prevalentemente sul territorio italiano, ed inoltre i due articoli di giornale, di cui si chiede la deindicizzazione, afferiscono non solo a fatti accaduti e processati in Italia, ma anche riportati da testate giornalistiche nazionali. Il giudice milanese ha ritenuto che la sussistenza degli anzidetti elementi fosse idonea ad integrare il requisito soggettivo del c.d. centro di interessi, in quanto il trattamento dei dati effettuato da Google LLC è potenzialmente idoneo ad incidere sugli interessi del ricorrente che sono posti sul territorio italiano. Opportuna risulta la valorizzazione effettuata della nozione di centro di interessi del titolare del trattamento, specie in un’ottica di protezione dei diritti della personalità, che si pone in piena aderenza con la disciplina vigente in materia, finalizzata a garantire la piena tutela dell’interessato. Il Tribunale, nel superare le due questioni preliminari, ha seguito un iter logico-giuridico pienamente condivisibile, frutto di un’accurata attività di esegesi del sistema normativo e di una chiara e coerente interpretazione dei dettami unionali.
(18) “L’art. 5, punto 3, del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 2000, n. 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che, in caso di asserita violazione dei diritti della personalità per mezzo di contenuti messi in rete su un sito Internet, la persona che si ritiene lesa ha la facoltà di esperire un’azione di risarcimento, per la totalità del danno cagionato, o dinanzi ai giudici dello Stato membro del luogo di stabilimento del soggetto che ha emesso tali contenuti, o dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui si trova il proprio centro d’interessi. In luogo di un’azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato, tale persona può altresì esperire un’azione dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata. Questi ultimi sono competenti a conoscere del solo danno cagionato sul territorio dello Stato membro del giudice adito”: CGUE 25 ottobre 2011, Cause riunite C-509/09 e C-161/10, eDate Advertising GmbH c. X e Olivier Martinez e Robert Martinez c. MGN Limited, in <https://www. curia.europa.eu>. Dall’analisi delle summenzionate questioni emerge come l’interprete abbia voluto affermare che, tra le attività svolte da un motore di ricerca, si rinviene anche quella di trattamento dei dati personali, circostanza che rende applicabili le regole contenute nella direttiva e nel Regolamento vigenti. Infatti, tra le responsabilità gravanti in capo al gestore, si riconosce anche l’obbligo di dare attuazione alla pretesa dell’interessato volta ad ottenere che dall’elenco dei risultati, che compaiono in seguito ad una ricerca effettuata a partire dal proprio nome, siano espunti i link che rimandano a pagine web contenenti i dati che lo riguardano. Pertanto tutte le volte che sussista una violazione di tale normativa, volta a creare un pregiudizio all’interessato, questi può rivolgersi direttamente al motore di ricerca per chiedere l’oscuramento del dato lesivo. In secondo luogo, viene ribadito che il gestore del motore di ricerca, che elabora dati nel Paese in cui risulta stabilito, alla luce dei criteri summenzionati, è assoggettato alla giurisdizione del Paese di stabilimento, per cui, spetterà al giudice nazionale assicurare agli interessati una tutela giurisdizionale effettiva del diritto unionale. Epperò, la problematica inerente l’estensione territoriale (19) del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione, risulta essere, al riguardo, particolarmente attuale. Ancora molti Stati, infatti, non riconoscono il diritto alla cancellazione o comunque tendono a riconoscerlo con un approccio diverso, dovuto al necessario bilanciamento con il diritto all’informazione dei cittadini. Tale contemperamento risulta maggiormente agevole negli Stati unionali, poiché attraverso l’adozione del GDPR, sono stati previsti dei meccanismi e degli strumenti che consentono agli Stati di collaborare per raggiungere una decisione comune, basata su un giudizio di ragionevolezza, in grado di considerare sia l’interesse del pubblico ad avere accesso all’informazione, sia quello del singolo alla protezione dei dati personali. Tale approccio normativo consente all’interessato di vedere soddisfatta la sua richiesta di deindicizzazione, non solo nella versione del motore di ricerca adottata nello Stato in cui ricorre, ma anche negli Stati unionali. Epperò, il meccanismo illustrato (20), non essendo operativo anche nei confronti degli Stati extra UE, dà la stura ad un doppio binario di estensione dell’obbligo di
(19) CArBone, Diritto all’oblio, perché il limite territoriale è un dietro front sui diritti, all’indirizzo <https://www.agendadigitale.eu>, 27 settembre 2019; nArdoCCi, Deindicizzazione: Quando il diritto all’oblio incontra un limite territoriale, all’indirizzo <https://www.salvisjuribus.it>, 2 ottobre 2019. (20) Sul punto cfr. poLLiCino, L’autunno caldo della Corte di giustizia in tema di tutela dei diritti fondamentali in rete e le sfide del costituzionalismo alle prese con i nuovi poteri privati in ambito digitale, all’indirizzo <https://www. filodiritto.com>, 5 novembre 2019.
deindicizzazione, rappresentato dall’efficacia sul territorio dell’Unione e dall’eventuale dimensione extra UE di tale obbligo. Di conseguenza, a causa di siffatto doppio binario, ben potrà accadere che la medesima notizia, lesiva delle ragioni dell’interessato, non risulti più reperibile negli Stati membri dell’UE ma continui ad esserlo negli Stati extra UE, provocando un’inevitabile compressione della tutela giurisdizionale del ricorrente, che non sarà assoluta, ma relativa, ponendo seri interrogativi in ordine all’effettività della tutela dell’interessato. Nell’ottica di uno sperabile superamento dell’efficacia delocalizzata dell’obbligo di cancellazione, sarà necessario eliminare tale “blocco geografico” e prevedere che la deindicizzazione sia effettuata su tutte le versioni di un motore di ricerca, in modo da assicurare una tutela uniforme ed effettiva dei diritti fondamentali dei cittadini.
Così delineati i profili della controversia nei suoi tratti essenziali, il giudice è giunto ad occuparsi della sussistenza del diritto all’oblio, nella sua declinazione di c.d. diritto alla deindicizzazione, ripercorrendo l’iter argomentativo già disegnato da alcuni precedenti arresti del Tribunale ambrosiano (21) sull’impronta dei principi scolpiti dall’innanzi richiamato leading case (22). In primo luogo, il giudice ha provveduto a delineare l’essenza ed i presupposti del diritto all’oblio, sub specie di diritto alla deindicizzazione, per poi soffermarsi sulla problematica inerente il bilanciamento del diritto all’oblio con il diritto di cronaca. Inizialmente il diritto all’oblio (23) era inteso quale diritto del singolo a non vedere pubblicata nuovamente una notizia in passato legittimamente divulgata; in seguito, con lo sviluppo di Internet, è stato interpretato
(21) Cfr. Trib. Milano 28 settembre 2016, n. 10374, in Danno e resp., 2017, 369 ss.; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, cit., Trib. Milano 4 gennaio 2017, n. 12623, in Dir. inf. e inform., 2016, 959 ss. (22) D’Arienzo, I nuovi scenari della tutela della privacy nell’era della digitalizzazione alla luce delle recenti pronunce sul diritto all’oblio, in Federalismi, all’indirizzo <https://www.federalismi.it>, 2015, 1 ss.; FinoCChiAro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in AA.VV., Il diritto all’oblio su Internet dopo la sentenza Google Spain, cit., 29 ss.; StrAdeLLA, Cancellazione e oblio: come la rimozione del passato, in bilico tra tutela dell’identità personale e protezione dei dati, si impone anche nella rete, quali anticorpi si possono sviluppare e, infine, cui prodest, in Rivista Aic, all’indirizzo <https:// www.rivistaaic.it>, 2016, 1 ss.. (23) Cfr. Cass. 9 aprile 1998, n. 3679, in Foro it., 1998, I, 1834, che identifica il diritto all’oblio come “il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata. Fermo restando che quando il fatto passato dovesse – per altri eventi sopravvenuti – ritornare di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione, non strettamente legato alla contemporaneità tra divulgazione e fatto pubblico”. come diritto alla cancellazione dei dati che si ritengono lesivi della propria persona in quanto non più attuali. In questo contesto è possibile parlare di diritto all’oblio anche quando il trattamento dei dati personali, originariamente lecito, divenga, per intervenuta revoca del consenso o per il trascorrere del tempo, incompatibile con la disciplina unionale. Pietre miliari del percorso di evoluzione del diritto all’oblio sono rappresentate dal famoso “leading case” dinanzi più volte richiamato e, in tempi più recenti, dall’adozione dell’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 (24), che delinea i requisiti ed i presupposti per il suo riconoscimento. Nel previgente quadro normativo, la Corte di Giustizia aveva rinvenuto il fondamento normativo del diritto alla deindicizzazione negli artt. 12, lett. b, e 14, par. 1, lett. a, dir. 95/46/CE, ove sono indicate le condizioni da cui viene ad essere disciplinato. A tal fine è d’uopo ricordare che il diritto all’oblio non è una situazione a cui l’ordinamento offre una tutela incondizionata, poiché l’interprete, nell’apprezzarne i presupposti di applicazione, deve accertare la prevalenza dei diritti dell’interessato alla vita privata ed alla protezione dei dati personali ex artt. 7 e 8 Carta dir. fond. UE nel bilanciamento con i contrapposti diritti ed interessi sottesi al legittimo esercizio del diritto di cronaca (25), quale declinazione del diritto enucleato dall’art. 21 Cost. Infatti, il bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e quello opposto della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati nell’esercizio del diritto di cronaca, presuppone un complesso giudizio nel quale occorre valutare la notorietà dell’interessato (26), il suo coinvolgimento nella vita pubblica, il tempo trascorso e l’oggetto della notizia, sulla scorta degli insegnamenti del giudice di Lussemburgo (27).
(24) Il Garante Europeo per la protezione dei dati personali, in occasione dell’emanazione delle Linee guida n. 5 del 2 dicembre 2019 ha chiarito che l’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 va interpretato alla luce di quanto stabilito nella sentenza “Google Spain”. (25) Il diritto di cronaca è legittimo quando concorrono le seguenti tre condizioni: 1) l’utilità sociale dell’informazione; 2) la verità dei fatti esposti, dove la verità può essere oggettiva ma può essere anche solo putativa purché quando la verità è solo putativa sia frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca della verità; 3) la forma civile dell’esposizione dei fatti. I fatti devono essere esposti in forma civile, ed in forma civile deve essere fatta la valutazione di quei fatti, cioè non bisogna eccedere rispetto allo scopo informativo da conseguire. (26) CoCuCCio, Il diritto all’oblio fra tutela della riservatezza e diritto all’informazione, in Dir. fam. e pers., 2015, 745; RuSSo, Diritto all’oblio e motori di ricerca: la pronuncia dei Tribunali italiani dopo il caso “Google Spain”, cit., 303. (27) Cass., SS.UU., 22 luglio 2019, n. 19681, in questa Rivista, 2019, 717 ss., con nota di poLetti - CASAroSA, Il diritto all’oblio (anzi, i diritti all’oblio) secondo le Sezioni Unite, ove le sezioni unite confermano l’o-
Su questa scia, la giurisprudenza del Tribunale milanese (28) ha più volte affermato che la protezione dei diritti inviolabili della persona costituisce il principale criterio che deve orientare l’interprete nell’esegesi del sistema normativo e nel bilanciamento tra diritti fondamentali. Tale impostazione si impone in virtù del principio personalistico che informa la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun altro fine eteronomo ed assorbente. Quando dall’operato bilanciamento risulta prevalente l’interesse della collettività ad avere conoscenza delle informazioni, di cui si chiede la cancellazione, rispetto al diritto del singolo ad ottenere che le informazioni lesive vengano “dimenticate”, il diritto all’oblio non può essere soddisfatto. Dopo aver ricostruito i presupposti del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione, ed aver richiamato i criteri giurisprudenziali utili per operare il bilanciamento tra gli interessi configgenti, il giudice ha condivisibilmente ritenuto che, nel caso di specie, non sussistessero le condizioni per il riconoscimento del diritto alla deindicizzazione, poiché nel nominato bilanciamento occorre considerare prevalente l’interesse della collettività ad essere informata. Pertanto, il Tribunale ha respinto la domanda di deindicizzazione, ponendo in risalto gli elementi fattuali e sostanziali che hanno determinato il prevalere dell’interesse di cronaca, in seguito all’operato giudizio di ragionevolezza. A tal riguardo è opportuno evidenziare come la conclusione a cui è addivenuto il giudice sia pienamente aderente alla normativa europea ed italiana e alle recenti pronunce giurisprudenziali (29). In particolare, pregevole risulta la ricostruzione con cui il giudice ha effettuato il bilanciamento, soffermandosi su tutti gli elementi che vanno a determinare la prevalenza dell’uno o dell’altro diritto. Infatti, nel caso di specie, il ricorrente era un uomo di affari operante nel campo della finanza ed i fatti processuali, oggetto dei due articoli, afferivano a reati commessi in violazione dell’art. 166 TUF (reato di abusivismo)
rientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento del diritto all’oblio, come disciplinato dal Regolamento (UE) n. 2016/679, qualora ricorrano determinate circostanze. (28) In tal senso Trib. Milano 24 gennaio 2020, n. 4911, cit.; Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 7846, cit.; Trib. Milano 19 ottobre 2017, n. 10447, cit.; Trib. Milano 28 settembre 2016, n. 5813, inedita. (29) Cass. 27 marzo 2020, n. 7559, in questa Rivista, 2020, 439 ss., con nota di pArdoLeSi - SCArpeLLino, Sulle stratificazioni del diritto all’oblio: quando sì e come, ove le sezioni unite tornano a pronunciarsi sul difficile bilanciamento tra il diritto all’oblio ed il diritto alla conoscenza dell’informazione; tra le altre, Cass. 19 maggio 2020, n. 9147, in Dir. & giust., 3 giugno 2020; Cass., SS.UU., 22 luglio 2019, n. 19681, cit.; Cass. 24 giugno 2016, n. 13161, in Foro it., 2016, I, 2729. e di associazione per delinquere. Pertanto, alla luce della tipologia di reati commessi e del campo di attività dell’interessato, l’interprete ha valutato come preminente l’interesse della collettività a conoscere le vicende processuali che hanno riguardato il ricorrente, poiché ha considerato irrilevante la circostanza che il soggetto abbia cambiato attività (la condanna è avvenuta per fatti commessi nell’esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria, mentre attualmente lo stesso sarebbe passato ad occuparsi di trust), in quanto la nozione di “medesimo campo di attività” va interpretata in senso lato, avendo riguardo alla potenziale clientela del soggetto, che si riferisce sempre al medesimo ambito dell’attività di intermediazione finanziaria. In secondo luogo, il Tribunale ha ritenuto che non fosse trascorso un tempo ragionevole (30) in grado di far decadere l’interesse della collettività ad avere notizia dei fatti processuali, poiché ai fini del riconoscimento della deindicizzazione, non è possibile cristallizzare un termine rigido (31), entro il quale una notizia può essere ritenuta obsoleta, dovendo il tempo essere valutato in relazione alle peculiarità che caratterizzano il caso di specie (la sentenza veniva emessa nel 2017, ma i fatti erano accaduti nel 2012). Dalla pronuncia in esame emerge come la protezione dei dati personali non costituisca una “prerogativa” assoluta riconosciuta dall’ordinamento ma debba coesistere con gli altri diritti della persona ugualmente tutelati e, in particolare, con il diritto all’informazione e di cronaca. Questa coesistenza, che si sostanzia nell’attività di bilanciamento, si presenta altamente problematica, poiché viene effettuata tra l’interesse dei cittadini all’informazione e quello dell’interessato alla tutela dei propri dati personali. Di riflesso, tale giudizio di ragionevolezza avrà come conseguenza quella per cui più si espanderà il diritto di cronaca, più si comprimerà il diritto all’oblio, e viceversa. Ulteriore annotazione va fatta riguardo alla doglianza avanzata dal ricorrente circa la divulgazione della condanna, quale effetto non disposto a seguito di sentenza ex art. 444 c.p.p. Sul punto, nella pronuncia risulta correttamente messo in evidenza come l’assenza di menzione nel casellario giudiziario e la mancata pubblicazione della sentenza non siano dovuti alla discrezionalità dell’interprete, ma siano effetti automatici previsti dalla legge. A voler, poi, considerare congiuntamente gli effetti sanzionatori della sentenza penale con quelli dell’e-
(30) BonAVitA, Il diritto all’oblio: la giurisprudenza del Garante Privacy, cit. (31) In tal senso anche iorio, Diritto all’oblio e deindicizzazione: fondamenti giuridici e risarcibilità del danno (nota ad App. di Milano 15 maggio 2020, n. 1106), in questa Rivista, 2020, 627 ss.
sposizione mediatica, dovuta all’esercizio del diritto di cronaca, si andrebbe a determinare una indebita sovrapposizione di piani. In ultimo, merita un cenno la richiesta di sollevare una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE per il riconoscimento della tutela prevista dall’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679, nell’ipotesi in cui vi sia una violazione del diritto fondamentale alla libera iniziativa economica, come disciplinato dalla Carta dei diritti dell’uomo. Il giudice meneghino ha ritenuto di non porre siffatta questione pregiudiziale, ritenendo che non vi fosse alcun ostacolo a fare ricorso ai requisiti enucleati dalla sentenza “Google Spain”, ai fini del riconoscimento del diritto all’oblio, quando venga in questione il diritto fondamentale alla libera iniziativa economica.
5. Note conclusive
La sentenza esaminata si pone come uno degli ultimi arresti nel percorso giurisprudenziale avviato a partire da “Google Spain”, con il quale il Tribunale milanese si è soffermato sul riconoscimento del diritto all’oblio, nella sua declinazione di diritto alla deindicizzazione e nel suo bilanciamento con diritti confliggenti, in particolare con quello di cronaca. Il Tribunale meneghino, grazie ad un percorso argomentativo limpido ed organizzato, effettua un’apprezzabile ricostruzione degli istituti coinvolti; in particolare, degno di nota è lo sforzo di contestualizzarli nel complessivo sistema ordinamentale. Come è emerso dalla sentenza, il diritto all’oblio, particolarmente nei casi riguardanti i motori di ricerca, non è da intendersi in senso assoluto, poiché il relativo riconoscimento sottende la ricerca di un giusto equilibrio tra il diritto del pubblico ad accedere alle informazioni, da un lato, e i diritti e gli interessi della persona interessata, dall’altro. Pertanto, il diritto alla deindicizzazione non risulta esercitabile senza limiti, ma piuttosto si manifesta in forma di una reazione ad una specifica azione, vale a dire alla pubblicazione dell’informazione. Ed infatti riconoscere la deindicizzazione non significa determinare la cancellazione della pubblicazione, ma impedire che il contenuto lesivo venga trovato tramite motori ricerca esterni (non anche tramite quello interno, su cui la notizia resta pubblicata). Inoltre, come rimarcato anche dalla sentenza commentata, la richiesta di deindicizzazione deve essere proporzionata e lecita, proprio in quanto il corrispondente diritto non è fornito di una tutela incondizionata, dovendo necessariamente essere contemperato con ulteriori interessi parimenti tutelati dalla Costituzione, come il diritto di cronaca. L’interesse del singolo ad essere dimenticato deve, quindi, necessariamente essere bilanciato con l’interesse della collettività a conoscere fatti legittimamente divulgati in forza di un complesso giudizio nel quale assumono rilievo decisivo elementi come la notorietà dell’interessato, il suo coinvolgimento nella vita pubblica, l’oggetto della notizia ed il tempo trascorso. L’esigenza di un corretto bilanciamento tra diritti configgenti si è andata avvertendo ulteriormente in virtù dell’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione che raccolgono masse di dati personali organizzati. Infatti, in un’era in cui la rete telematica rappresenta un luogo caratterizzato dalla proliferazione di violazioni di diritti fondamentali della persona, tra cui la protezione dei dati personali, è inevitabile sentire sempre più spesso parlare della c.d. deindicizzazione. Invero, il confine tra il diritto all’oblio ed il diritto di cronaca appare destinato a diventare sempre più labile e, per conseguenza, diverrà ancor più indispensabile lo svolgimento di un continuo bilanciamento tra diritti confliggenti, dimodoché, in forza dei criteri dettati dalla giurisprudenza, ogni qualvolta che il diritto di cronaca si espanderà, il diritto all’oblio si comprimerà e viceversa. Nel contesto delineato, infine, ulteriore profilo problematico sarà quello di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale in tema di deindicizzazione, specie in relazione alla problematica dei limiti territoriali entro cui essa può estrinsecarsi. Tali limiti presuppongono che l’interessato, una volta ottenuto l’accoglimento della richiesta di cancellazione, potrà pretendere la rimozione dei link lesivi solo nei confini geografici degli Stati che riconoscono il diritto de quo, poiché l’estensione territoriale relativa all’esercizio del diritto all’oblio è quella che coincide con il territorio dell’Unione e non ha natura globale. È evidente che una tale scelta interpretativa lascia aperto un vulnus importante nel quadro delle tutele riconosciute nel campo della protezione dei dati personali. E, proprio per tali ragioni, più che un correttivo giurisprudenziale, risulta necessario un intervento normativo del legislatore che permetta di riconoscere all’ordine di rimozione un carattere worlwide, in grado cioè di oltrepassare i confini geografici e garantire una tutela piena ed universale delle ragioni dell’interessato.
Quale regime per le comunicazioni tra persone all’estero intercettate dal captatore informatico?
Corte di CASSAzione; sezione II penale; sentenza 22 ottobre 2020, n. 29362; Pres. Verga; Rel. Di Pisa; P.G. Ceniccola.
Lo spostamento in un altro Stato dell’utilizzatore di un dispositivo nel quale sia stato installato un captatore informatico non determina l’obbligo di attivare una rogatoria, in quanto l’installazione del malware avviene in territorio nazionale, dove la captazione si realizza nei suoi sviluppi finali e conclusivi attraverso le centrali di ricezione che fanno capo alla procura della Repubblica. Pertanto, le conversazioni intercettate possono essere utilizzate.
Svolgimento del processo
1. Con provvedimento in data 07/11/2019 il Tribunale di Reggio Calabria, in sede di riesame, confermava l’ordinanza in data 8 Agosto 2019 con la quale il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria aveva applicato a C.D. la misura della custodia cautelare in carcere perchè indagato per il reato di cui all’art. 6 c.p., comma 2, art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 ed 8, L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 3, lett. a), b) e c) e art. 61 bis c.p.. …Omissis… 2. Avverso la suddetta ordinanza l’indagato propone ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, formulando quattro motivi. …Omissis… Evidenzia che le captazioni intercettate su suolo canadese avevano origine sul suolo internazionale (per l’appunto Canada), anche con cittadini canadesi ed erano state – una volta registrate dal Trojan (captatore informatico) – pacificamente scaricate (ed archiviate) sul server per la memorizzazione tramite una rete wi-fi che si trovava su territorio internazionale, ossia il Canada, quindi per il tramite di ponte wi-fi situato su territorio straniero. Trattavasi, quindi, a parere della difesa dell’ indagato, di captazioni ambientali, registrate in territorio canadese, il cui flusso comunicativo era transitato per il territorio italiano in modo direzionale solo dopo la captazione e registrazione, sicchè, in ossequio all’art. 727 cod. proc. pen., l’ autorità giudiziaria italiana procedente avrebbe dovuto fare ricorso alla rogatoria internazionale, pacificamente mancante nel caso in questione, con la conseguenza che le richiamate intercettazioni ambientali, registrate su suolo canadese, non erano utilizzabili dal momento che l’acquisizione era avvenuta tramite il captatore informatico installato sul telefono cellulare tanto del M. quanto del G. ma la archiviazione (memorizzazione) del flusso dati proveniente dal bersaglio in cui era attivo il captatore informatico era giunto alla destinazione per il tramite della rete di un dispositivo che consentiva la connessione WIFI (router, hotspot) a sua volta connesso alla rete internet su linea fissa esistente su suolo canadese, quindi di proprietà straniera. …Omissis…
Considerato in diritto
Il ricorso, valutate anche le argomentazioni di cui alla memoria in data 13 Luglio 2020, deve essere rigettato per le argomentazioni appresso specificate. 1. Il primo motivo è privo di fondamento. …Omissis… Risulta acclarato, in punto di fatto, che il captatore informatico in questione (“trojan”) è stato inoculato in Italia sugli apparecchi telefonici in uso a M.V. e G.G. collegati ad un gestore telefonico italiano, utenze che, secondo quanto è pacifico, sono state utilizzate nel periodo in esame sia in territorio italiano che in territorio estero (il Canada). Orbene è noto che i sistemi di captazione de quibus non sono costituiti solamente dal trojan, cioè dal semplice software (rectius, malware), che viene inoculato, ma anche dalle piattaforme necessarie per il loro funzionamento, che ne consentono il controllo e la gestione da remoto e che ricevono i dati inviati dal captatore in relazione alle funzioni investigative attivate. I dati raccolti sono, infatti, trasmessi, per mezzo della rete internet, in tempo reale o ad intervalli prestabiliti ad altro sistema informatico in uso agli investigatori. I giudici di merito hanno precisato che nella specie “i dati provenienti dal captatore informatico devono essere cifrati e devono transitare su un canale protetto sino al server della Procura che è il primo ed unico luogo di memorizzazione del dato. Ogni file è dunque cifrato e reca una password diversa rispetto a quella utilizzata per
la memorizzazione sul server; ne consegue che ogni file per essere ascoltato deve essere decripato”. Deve, quindi, ritenersi che, nella specie, la registrazione della conversazioni tramite wifi sito in Canada abbia costituito una fase intermedia di una più ampia attività di captazione iniziata ed oggetto registrazione, nella sua fase finale e conclusiva, sul territorio italiano, infatti, al di là dei dettagli tecnici, ciò che rileva è che, in ultima analisi, l’ascolto delle conversazioni avvenga in Italia su apparecchi collegati ad un gestore italiano e la cui captazione ha avuto origine sul territorio italiano. In conclusione, l’atto investigativo risulta, comunque, compiuto sul territorio italiano. 1.2. Premesso che la procedura di cui all’art. 727 e ss. cod. proc. pen. riguarda esclusivamente gli interventi da compiersi all’estero e che, quindi, richiedono l’esercizio della sovranità propria dello Stato estero e che, conseguentemente, non è ipotizzabile alcuna rogatoria per un’attività di fatto svolta in Italia e, quindi, ivi autorizzata e realizzata secondo le regole del codice di rito, deve ritenersi che quando il captatore informatico sia installato in Italia, e la captazione avvenga, di fatto, secondo le modalità sopra indicate e richiamate nel provvedimento impugnato in Italia attraverso le centrali di ricezione ivi collocate, la sola circostanza che le conversazioni siano state eseguite, in parte, all’estero e ivi “temporaneamente” registrate tramite wi-fi locale a causa dello spostamento del cellulare sul quale è stato inoculato il trojan non può implicare l’ inutilizzabilità della intercettazione per difetto di rogatoria. Appare mutuabile alla fattispecie in esame il principio di diritto secondo cui l’intercettazione di comunicazioni tra presenti eseguita a bordo di una autovettura attraverso una microspia installata nel territorio nazionale, dove si svolge altresì l’attività di captazione, non richiede l’attivazione di una rogatoria per il solo fatto che il suddetto veicolo si sposti anche in territorio straniero ed ivi si svolgano alcune delle conversazioni intercettate. (Sez. 2, n. 51034 del 04/11/2016 - dep. 30/11/2016, Potenza e altri, Rv. 26851401). Poiché, come detto, il captatore è stato installato in Italia e la captazione, nei suo sviluppi finali e conclusivi è avvenuta in Italia, attraverso le centrali di ricezione facenti capo alla Procura di Reggio Calabria, la sola circostanza che le conversazioni captate siano state (in parte) eseguite all’estero per lo spostamento dell’ apparecchio e del suo utilizzatore è ininfluente per ritenere la necessità della rogatoria, non potendosi, nel caso di intercettazione ambientale su strumento mobile conoscere tutti gli spostamenti, così vanificandosi le finalità del mezzo di ricerca della prova. Non può del resto non considerarsi che lo strumento dell’intercettazione ambientale mediante “captatore informatico” è per sua stessa natura itinerante, in quanto l’attività di captazione segue tutti gli spostamenti nello spazio dell’utilizzatore. I possibili reiterati spostamenti su territori esteri, resi possibili dalla facilità di frequenti collegamenti aerei con tutte le parti del pianeta, successivamente al momento dell’inizio delle operazioni, che, nella specie, è da individuarsi con certezza in Italia, diversamente comporterebbero una impossibilità tecnica di procedere alle intercettazioni, ben potendo l’Autorità Giudiziaria che le ha disposte ignorare il luogo dove si trova il soggetto titolare dell’utenza su cui è stato inoculato il captatore, ed, essere, quindi impossibilitata a chiedere la rogatoria, neppure con l’urgenza e con i modi previsti dall’art. 727 comma 5 cod. proc. pen., comma 5., venendo così frustrate le finalità investigative di tale prezioso strumento investigativo. 1.3. La motivazione della sentenza impugnata va, quindi, condivisa nella parte in cui ha ritenuto utilizzabili dette conversazioni in quanto “iniziate” e “svolte” in Italia risultando, quindi, rispettati i parametri di cui agli artt. 15 e 24 Cost. ed apparendo, anche, osservato il dettato di cui all’ art. 8 CEDU così come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dovendosi escludere preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” transitato all’estero. In tal senso vanno richiamate le pronunzie Iordachi c. Moldavia, 10 febbraio 2009, Natoli c. Italia, 9 gennaio 2001; McLeod c. Regno Unito, 23 settembre 1998) ove è stato affermato che le intercettazioni sono legittime se giustificate in base ai parametri indicati nell’articolo 8 § 2 CEDU, cioè la legalità, la legittimità dell’obiettivo perseguito, la necessità e la proporzionalità nonchè Corte EDU, 23.2.2016, Capriotti c. Italia, che ha affermato la compatibilità delle intercettazioni disposte nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata con il diritto al rispetto della vita privata e il diritto al “processo equo”, sanciti rispettivamente dall’art. 8 e dall’art. 6 CEDU. …Omissis… P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. …Omissis…
IL COMMENTO
di Biagio Monzillo
Sommario: 1. La decisione. – 2. Un errore di prospettiva. – 3. I limiti delle intercettazioni senza confini. – 4. Il captatore informatico nello spazio giudiziario europeo.
La Corte di cassazione ha stabilito che i risultati di intercettazioni mediante captatore informatico di conversazioni avvenute in altro Stato sono pienamente utilizzabili. La decisione, per nulla condivisibile, offre l’occasione per un tentativo di delimitazione degli spazi in cui le intercettazioni “transnazionali” possono legittimamente operare. The Court of Cassation decided that it is lawful to wiretap by using a malware the private conversations between people being in a foreign country. The decision gives the opportunity to try to define the limits of “transnational” wiretappings.
1. La decisione
La casistica della giurisprudenza di legittimità sull’utilizzo del captatore informatico si è arricchita di una fattispecie inedita: le intercettazioni “transnazionali”. Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha preso posizione per la prima volta sul regime probatorio delle conversazioni tra persone presenti in territorio straniero, registrate con l’ausilio di un malware. L’occasione si è presentata con il ricorso proposto contro un’ordinanza di conferma di un precedente provvedimento cautelare disposto per fatti di criminalità organizzata emersi anche grazie ad intercettazioni di colloqui avvenuti in Canada tra l’indagato e altri membri della stessa consorteria criminale, alcuni dei quali di cittadinanza canadese. Al contrario della difesa, la Corte di legittimità ha ritenuto pienamente utilizzabili le registrazioni, escludendo la denunciata violazione dell’art. 729 cod. proc. pen. L’intera attività investigativa, infatti, si sarebbe svolta interamente in Italia, dove gli inquirenti avevano installato il malware e ascoltato le conversazioni captate. La Corte è giunta ad analoghe conclusioni rispetto a comunicazioni tra presenti intercettate mediante una microspia installata in Italia a bordo di un’autovettura. Secondo un orientamento ormai consolidato, il successivo spostamento all’estero del veicolo non rende inutilizzabili le conversazioni che vi si svolgano (1). Lo stesso principio varrebbe per le captazioni eseguite mediante l’attivazione da remoto del microfono del dispositivo infetto, quando il suo utilizzatore si trovi in altro Stato, in quanto, «al di là dei dettagli tecnici, ciò che rileva – argomentano i giudici della seconda sezione – è che, in ultima analisi, l’ascolto delle conversazioni avvenga in Italia su apparecchi collegati ad un gestore italiano e la cui captazione ha avuto origine sul territorio italiano».
(1) Cfr. Cass., Sez. II, 4 novembre 2016, n. 51034, in C.E.D. Cass., rv. 26851401.
2. Un errore di prospettiva
Opposti nelle conclusioni, tanto il ragionamento della difesa quanto quello della Corte sono accomunati da un errore di prospettiva. Entrambi muovono dal “dettaglio tecnico” della sede delle operazioni. Come si è visto, per la Corte di legittimità, queste si sarebbero svolte in Italia, a nulla rilevando che alcune delle conversazioni intercettate avessero avuto luogo in Canada; circostanza, questa, valorizzata dalla difesa per sostenere la necessità della trasmissione di un’apposita rogatoria, insieme alla considerazione che le registrazioni erano transitate sui server della Procura procedente tramite un router situato nel territorio di quello Stato. Tuttavia, il criterio della territorialità non si presta alla soluzione di problematiche relative a strumenti di indagine, quali le intercettazioni di comunicazioni, difficilmente contenibili entro spazi predefiniti (2). Tale difficoltà è esasperata dall’impiego del virus informatico. Un corretto approccio al problema della legittimità di questo tipo di intercettazioni impone di considerare che il trojan horse non conosce limiti: che si tratti delle mura di un domicilio o delle frontiere di uno Stato non fa differenza. Ecco perché, tra l’altro, non è pertinente l’assimilazione alle conversazioni intercettate con una microspia installata all’interno di un autoveicolo (3): uno smartphone entra in una tasca (e da qui nel domicilio di chiunque), un’automobile no. Il riferimento al luogo delle operazioni è un artificio che genera finzioni pericolose. La realtà è che ovunque siano eseguite, le intercettazioni ledono libertà fondamen-
(2) Cfr. ruGGieri, Le intercettazioni per instradamento sul canale internazionale: un mezzo di ricerca della prova illegittimo, in Cass. pen., 2000, 1062. Analogamente, tiBeri, L’instradamento delle telefonate straniere: una prassi discutibile, in Cass. pen., 2004, 959; LA roCCA, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, in Giur. it., 2011, 731. (3) Che, secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, non può essere considerato luogo di privata dimora. Cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 30 gennaio 2019, n. 23819, in C.E.D. Cass., rv. 275994-02.
tali. È alla “vittima”, non alle modalità, della lesione che occorre pertanto avere riguardo.
3. I limiti delle intercettazioni senza confini
Le intercettazioni incidono sulla libertà e segretezza delle comunicazioni, nonché sulla libertà domiciliare, laddove le conversazioni captate avvengano in luogo di privata dimora. Tali prerogative ricevono una tutela “multilivello” (4), essendo presidiate dalle “guarentigie” previste, non soltanto dalla Costituzione (in particolare, dagli artt. 14 e 15), ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 7) (5). La legittimità di ogni intromissione in comunicazioni riservate (6) va, dunque, misurata sui parametri enucleabili dal codice di rito e, soprattutto, dalle fonti a questo sovraordinate. La costituzionalità della normativa italiana in tema di intercettazioni “ambientali” sembra ormai fuori questione (7).
(4) CArdone, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), in Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 335 ss.; id., La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano, 2012. (5) I diritti fondamentali sono riconosciuti anche da altre “Carte dei diritti”, quali, per esempio, il Patto internazionale sui diritti civili e politici concluso a New York nel 1966. Peraltro, tra quelle rilevanti nel nostro ordinamento, soltanto la CEDU e la CDFUE prevedono meccanismi di tutela dei diritti in esse proclamate dinanzi ad organi giurisdizionali ed appartengono, perciò, al circuito della «tutela multilivello dei diritti fondamentali». Secondo la nozione accreditata in dottrina, con questa espressione si designa, infatti, «il complesso di istituti, tanto di origine normativa che giurisprudenziale, attraverso cui si articolano le competenze e le relazioni tra le varie istanze giurisdizionali degli ordinamenti nazionali e sovranazionali (quindi dell’Unione europea ed internazionale) davanti a cui è possibile far valere la tutela dei diritti fondamentali». Così CArdone, voce Diritti fondamentali (tutela multilivello dei), cit., 336. Ad ogni modo, per una ricognizione esaustiva dei trattati e degli atti internazionali in materia di tutela dei diritti fondamentali, v., per tutti, A. CASSeSe, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari, 1994. (6) Sul necessario requisito della riservatezza della comunicazione intercettata, v. iLLuMinAti, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 33: «senza violazione della segretezza, di intercettazioni non si può parlare. Deve trattarsi di conversazioni riservate, o che comunque per il mezzo usato o per le condizioni oggettive in cui si svolgono, non consentono in linea di principio l’ascolto da parte di estranei». In giurisprudenza, fondamentale resta la nozione elaborata in Cass., Sez. un., 28 maggio 2003, n. 36747, in C.E.D. Cass., rv. 225465: «L’intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché sia qualificata tale, una serie di requisiti: a) i soggetti devono comunicare tra loro col preciso intento di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest’ultima segreta […]». (7) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. II, 13 febbraio 2013, n. 21644, in C.E.D. Cass., rv. 255541. È il caso di considerare, tuttavia, come la stessa Corte di cassazione (Sez. III, ord. 11 giugno 2003, n. 29169, in C.E.D. Cass., rv. 224894) abbia in passato dubitato della costituzionalità dell’art. 266, co. 2, cod. proc. pen., laddove consentirebbe la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora con l’uso di mezzi fraudolenti. Dal canto suo, Corte cost., ord. 20 luglio 2014, n. 251, in Giur. cost., 2004, 2584, nel dichiarare inammissibile la questione, sembra aver confermato Dal canto suo, la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha finora rilevato profili di incompatibilità con le norme convenzionali. Al riguardo, i giudici della seconda sezione hanno invocato la sentenza resa nel caso “Capriotti c. Italia” (8) per «escludere preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” transitato all’estero». In realtà, nemmeno questo riferimento è pertinente. In quell’occasione, infatti, la Corte europea considerò legittima la discutibile prassi dell’instradamento (9), che, nella specie, aveva consentito di intercettare le chiamate avvenute tra il ricorrente, cittadino italiano residente in Italia, e persone di varia nazionalità che si trovavano all’estero (10). Non decise, invece, la specifica questione relativa alla legittimità dell’utilizzo a carico dell’indagato dei risultati di intercettazioni “a strascico” di conversazioni telefoniche intercorse esclusivamente tra cittadini stranieri, data l’impossibilità per il ricorrente di dolersi di interferenze subite da terze persone. È evidente come le captazioni mediante virus informatico di colloqui avvenuti all’estero presentino maggiori affinità con la seconda fattispecie. La sottoposizione a controllo di un’utenza intestata a persona residente
la inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni compiute mediante apparecchiature collocate nel domicilio senza una previa autorizzazione specifica da parte dell’autorità giudiziaria. L’entrata in vigore della disciplina delle intercettazioni tramite trojan horse ha reso, infine, infondate le perplessità relative al rispetto della riserva di legge suscitate dall’impiego del malware in mancanza di puntuali disposizioni di legge. Alcune perplessità permangono, tuttavia, in relazione a disposizioni introdotte in occasione dell’ultima riforma della materia. Con specifico riguardo alla costituzionalità delle modifiche all’art. 270 cod. proc. pen., laddove è ammessa l’indiscriminata circolazione dei risultati delle intercettazioni eseguite ai sensi della disciplina derogatoria di cui al “nuovo” co. 2-bis dell’art. 266 cod. proc. pen., sia consentito rinviare a MonziLLo, L’utilizzazione in altri procedimenti dei risultati di intercettazioni eseguite mediante captatore informatico tra Sezioni unite e novelle, in questa Rivista, 2020, 716. (8) Corte EDU, 23 febbraio 2016, ric. 28819/12, Capriotti c. Italia, in Cass. pen., 2016, 4236 ss., con nota di BALSAMo, Intercettazioni ambientali mobili e cooperazione giudiziaria internazionale: le indicazioni desumibili dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. (9) La giurisprudenza italiana ritiene pacificamente utilizzabili i risultati delle intercettazioni eseguite con questa tecnica. In questo senso, cfr., per tutte, Cass., Sez. III, 12 febbraio 2016, n. 5818, in Giur. it., 2016, 718 ss., con nota di Bene, Transnazionalità dei crimini nella società confessionale: i pericoli della tecnologia e del diritto. La dottrina è unanime nel criticare questo orientamento. Si vedano, tra gli altri, SiCA, Le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per “instradamento” o “a fascio”, in Nuov. Dir., 2000, 1115 ss.; ruGGieri, Le intercettazioni per instradamento sul canale internazionale: un mezzo di ricerca della prova illegittimo, cit.; diddi, Il regime delle intercettazioni telefoniche per “instradamento”, in Giust. pen., 2001, 120 ss.; tiBeri, L’instradamento delle telefonate straniere: una prassi discutibile, cit.; LA roCCA, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, cit. (10) In particolare, si osservò che questa tecnica di indagine costituiva una misura prevedibile – e, dunque, «prevista dalla legge», ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 8 CEDU – in base all’interpretazione delle disposizioni codicistiche di riferimento consolidatasi in giurisprudenza.
all’estero consente, infatti, di captare, in modo indiscriminato, tutte le comunicazioni che la coinvolgano. Analogamente, il trojan horse che approdi in un altro Stato è in grado di accedere al domicilio di persone di nazionalità diversa da quella della persona sorvegliata e intercettare le conversazioni che vi si svolgano, indipendentemente dal loro contenuto. Al contrario di quanto preteso dalla Corte nomofilattica nella decisione in commento, la casistica convenzionale non offre, dunque, parametri alla cui stregua vagliare l’ammissibilità dell’impiego del captatore informatico per intercettare le comunicazioni tra presenti che abbiano luogo oltre i confini nazionali (11). Ad ogni modo, non si può trascurare che, indipendentemente dalla tecnologia impiegata, la registrazione di conversazioni tra cittadini stranieri realizza un’interferenza nell’esercizio di libertà sottoposte alla sovranità di un altro Stato. Senonché, il diritto internazionale impone che le funzioni statali siano esercitate esclusivamente all’interno dei confini nazionali. Tale limitazione è direttamente applicabile nel nostro ordinamento per il tramite dell’art. 10, co. 1, Cost., in quanto espressiva di una delle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Di essa è corollario anche il divieto per gli organi inquirenti di compiere attività investigativa senza il consenso dello Stato dove si trovino le prove di interesse (12). Detto altrimenti, se il legislatore non può emanare leggi applicabili al di fuori del territorio nazionale (pena, la violazione dell’art. 10 Cost.), a maggior ragione, il giudice non può esercitare la giurisdizione con effetti che travalichino le frontiere. Un atto dell’autorità giudiziaria che autorizzasse attività da compiere direttamente all’estero sarebbe, dunque, affetto da nullità assoluta, per carenza di potere giurisdizionale (13). Altrettanto certo è che le prove nondimeno acquisite sarebbero inutilizzabili, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., per violazione dei divieti posti dall’art. 10, co. 1, Cost. e dalle varie fon-
(11) Sull’applicazione “decontestualizzata” dei principi enunciati dalle Corti europee, v. MAneS, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2017, 28 ss. Per alcune considerazioni, da una prospettiva più ampia, sull’utilizzo inadeguato delle massime giurisprudenziali, v. VACCA, Metodo casistico e sistema prudenziale. Ricerche, Padova 2006, 257; id., Interpretazione e scientia iuris. Problemi storici e attuali, in Eur. dir. priv., 2011, 678. (12) Cfr. ViGoni, Dalla rogatoria all’acquisizione diretta, in Rogatorie penali e cooperazione giudiziaria internazionale, a cura di La Greca e Marchetti, Torino, 2003, p. 461, la quale qualifica il consenso dello Stato interessato come «elemento di fondo condizionante l’esercizio stesso dell’attività giurisdizionale all’estero». (13) Cfr., per tutti, GAito, Rogatorie, in AA. VV., Procedura penale, Torino, 2017, 1002, il quale ritiene che «potrebbe configurarsi anche l’abnormità quale categoria connaturata al fatto che una pronuncia giurisdizionale si ponga in contrasto con l’intero sistema della legge processuale». ti internazionali «in vigore per lo Stato» (art. 696 cod. proc. pen.) che impongono il ricorso agli strumenti di cooperazione giudiziaria, al fine di assicurare il rispetto della lex loci (14). A questi limiti il captatore informatico non può sfuggire. La logica del «maiora premunt», sempre invocata per non disperdere prove necessarie all’accertamento di reati particolarmente gravi, non può arrivare a giustificare l’annientamento delle garanzie previste a tutela della persona contro «poteri coercitivi non chiaramente individuabili, perché non riferibili ad un preciso spazio territoriale» (15). In proposito, è il caso di ricordare come, in base ai principi espressi nella sentenza resa dalle Sezioni unite nel caso “Scurato”, le intercettazioni “ambientali” mediante trojan horse debbano sempre essere eseguite con modalità rispettose della dignità della persona, anche laddove si proceda per delitti di criminalità organizzata; con la conseguenza che sono travolte da inutilizzabilità le «risultanze di “specifiche” intercettazioni che nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti abbiano acquisito “in concreto” connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità» (16). La portata di questo principio è stata di recente estesa dai giudici della quinta sezione della Corte di cassazione con l’opportuna precisazione che l’inutilizzabilità dei risultati di captazioni operate con l’ausilio di un captatore informatico discende, in generale, dalla violazione di «precisi divieti di legge» (17). Tra questi vanno, di certo, annoverati anche quelli posti
(14) Cfr., ancora, GAito, ibidem. Per l’affermazione che i «vizi della prova ... possono trovare la loro fonte in tutto il corpus normativo a livello di legge ordinaria o superiore», v. Cass., Sez. un., 24 settembre 2003, n. 36747, in C.E.D. Cass., rv. 225466, richiamata da uBertiS, La prova acquisita all’estero e la sua utilizzabilità in Italia, in Cass. pen., 2014, 700, nt. 21, cui si rinvia per gli opportuni riferimenti bibliografici. (15) Così LA roCCA, Intercettazioni, utilizzo di impianti esterni, instradamento: garanzie tecniche e prassi devianti, cit., 734. (16) Così Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, n. 26889, in C.E.D. Cass., rv. 266905, motivazione, § 10.1, che, a sua volta, cita un brano della memoria depositata dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione, consultabile all’indirizzo <https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/ upload/1462201608Memoria%20Procura%20generale%20Trojan.pdf>. (17) Cass., Sez. V, 30 settembre 2020, n. 31604, in Guida dir., 49, 2020, 107. Pare opportuno riportare per intero il punto della motivazione di interesse: «Per quel che riguarda l’eventualità che lo strumento captativo in argomento possa consentire l’intercettazione di conversazioni di cui è vietata la captazione (come quelle tra imputato e suo difensore) o produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato che tali situazioni non possono incidere “a monte” sulla legittimità del decreto - poiché altrimenti si imporrebbe un requisito non previsto dalla legge - ma si riverberano, “a valle”, sulla inutilizzabilità delle risultanze di “specifiche” intercettazioni che abbiano violato precisi divieti di legge o che, nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti, abbiano acquisito “in concreto” connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità».
da disposizioni attuative del principio di sovranità e indipendenza degli Stati. Del resto, l’inutilizzabilità è un esito non desiderabile: innanzitutto, per la persona che, a monte, subisce l’abuso; ma anche per gli stessi inquirenti, che vedono vanificata la propria attività, tanto più proficua quanto maggiore sia l’intrusività dei mezzi investigativi impiegati. Data l’inevitabilità degli inconvenienti che si profilano a fronte della probabile violazione di divieti probatori, quella di disattivare il captatore che si sposti in territorio straniero rappresenta l’unica scelta preferibile. Come si è detto, infatti, è verosimile che l’utilizzatore del dispositivo infetto incontri altre persone nel loro domicilio, così consentendo una pluralità di intercettazioni domiciliari, i cui risultati non potrebbero, tuttavia, essere utilizzati, perché acquisiti in violazione delle norme che riservano allo Stato “di approdo” il potere di intromettersi nella vita privata dei propri cittadini. Peraltro, ciò che è inutilizzabile per la nostra legge processuale non lo è necessariamente altrove. Potrebbe darsi che le conversazioni intercettate dal virus prima della disattivazione abbiano valore per la legislazione del Paese “ospite”; ma la relativa valutazione compete soltanto all’autorità giudiziaria locale, che dalle registrazioni delle comunicazioni con soggetti sottoposti alla sua giurisdizione potrebbe trarre preziosi spunti investigativi. La trasmissione tempestiva delle risultanze delle captazioni avrebbe risvolti vantaggiosi per gli stessi inquirenti italiani. È molto probabile, infatti, che le informazioni emerse nell’ambito del procedimento avviato in seguito dalle autorità locali vengano spontaneamente condivise con le omologhe autorità italiane e potrebbero, per tale via, trovare ingresso nel giudizio celebrato in Italia (18) (ferma, ovviamente, la necessità di una preliminare delibazione sulla loro conformità agli standard prescritti dal nostro codice di rito (19)).
Quasi a coronamento di una lunga evoluzione, avviata con la conclusione della Convenzione europea di Strasburgo del 1959, la direttiva 2014/41/UE (20) ha get-
(18) La giurisprudenza ammette ormai pacificamente l’utilizzo delle informazioni trasmesse spontaneamente ed autonomamente dall’autorità giudiziaria estera. In questo senso, da ultimo, Cass., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 22, in Cass. pen., 2019, 10, 3735. In dottrina, sull’argomento, v., tra i molti, CALVAneSe, Cooperazione giudiziaria tra Stati e trasmissione spontanea di informazioni: condizioni e limiti di utilizzabilità, ivi, 2003, 449 ss. (19) Cfr. LupàriA, Note conclusive nell’orizzonte d’attuazione dell’ordine europeo di indagine, in L’ordine europeo di indagine. Criticità e prospettive, a cura di Bene - Lupària - Marafioti, Torino, 2016, 252. (20) Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all’ordine europeo di indagine penale, in GUUE, 1 maggio 2014, L. 30/1. tato le fondamenta di uno spazio di libera circolazione della «merce probatoria» (21) all’interno del territorio europeo. La sua adozione rappresenta l’espressione più compiuta della consapevolezza degli Stati membri circa l’importanza della reciproca assistenza ai fini di un contrasto efficace al crimine transfrontaliero (22). La direttiva ha rimediato alla frammentarietà del previgente quadro normativo in materia di raccolta transnazionale delle prove, sostituendo i tradizionali strumenti di assistenza e di cooperazione giudiziaria (23) con un unico strumento investigativo – l’ordine europeo di indagine penale – valido per qualsiasi tipo di prova, incluse le intercettazioni di comunicazioni. A queste ultime sono dedicate le disposizioni degli artt. 30 e 31 (24), che prevedono un regime differente a seconda del grado di coinvolgimento di un altro Stato membro nello svolgimento delle operazioni (25). Come dimostra la vicenda da cui origina la decisione in commento, grazie al captatore informatico gli investigatori possono operare in autonomia; cionondimeno, sono gravati da un obbligo di notifica. L’art. 31 della direttiva dispone, in particolare, che le autorità competenti dello Stato membro in cui si trova
(21) MArAFioti, Orizzonti investigativi europei, assistenza giudiziaria e mutuo riconoscimento, in L’ordine europeo di indagine., cit., 14. (22) Già nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 – pubblicate in Cass. pen., 2000, 302 ss. – si prese constatò, tra l’altro, che le diversità esistenti tra i sistemi giudiziari in vigore nei singoli Stati membri agevolavano la commissione di crimini. Cfr., sul punto, ApriLe, Nuovi strumenti e tecniche investigative nell’ambito U.E.: intercettazioni all’estero, operazioni di polizia oltre frontiera, attività sotto copertura e videoconferenze con l’estero, in Cass. pen., 2009, 440. (23) V., però, art. 34 della direttiva, che stabilisce: «Fatta salva la loro applicazione tra Stati membri e Stati terzi e la loro applicazione temporanea in virtù dell’articolo 35, la presente direttiva sostituisce, a decorrere dal 22 maggio 2017, le corrispondenti disposizioni delle seguenti convenzioni applicabili tra gli Stati membri vincolati dalla presente direttiva: a) convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del Consiglio d’Europa, del 20 aprile 1959, i relativi due protocolli aggiuntivi e gli accordi bilaterali conclusi a norma dell’articolo 26 di tale convenzione; b) convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen; c) convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea e relativo protocollo», nonché le decisioni quadro 2008/978/GAI e 2003/577/GAI. La disposizione in esame lascia inoltre impregiudicata la possibilità per gli Stati membri di «concludere o continuare ad applicare accordi o intese bilaterali o multilaterali con altri Stati membri successivamente al 22 maggio 2017, solo laddove i medesimi consentano di rafforzare ulteriormente gli obiettivi della presente direttiva e contribuiscano a semplificare o agevolare ulteriormente le procedure di acquisizione delle prove e a condizione che sia rispettato il livello delle salvaguardie di cui alla presente direttiva». (24) Su cui GrASSiA, La disciplina delle intercettazioni: l’incidenza della direttiva 2014/41/UE sulla normativa italiana ed europea, in L’ordine europeo di indagine., cit., 199 ss., cui si rinvia anche per i riferimenti bibliografici. (25) Differenziazione già operata dagli articoli 19 e 20 della Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000 relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, pubblicata in G.U.C.E., 12 luglio 2000, C. 197/1.
o si troverà la persona sorvegliata devono esserne informate, anche se non vi è necessità di assistenza tecnica. Si tratta di un adempimento ineludibile, che può essere eseguito, al più tardi, «ad intercettazione effettuata, non appena [si] venga a conoscenza del fatto che la persona soggetta a intercettazione si trova, o si trovava durante l’intercettazione, sul territorio dello Stato membro notificato». Tale obbligo è funzionale a consentire agli organi destinatari della notifica di controllare che ricorrano i presupposti richiesti dalla legislazione nazionale per svolgere intercettazioni in relazione a fattispecie analoghe a quelle per cui si procede nel Paese di origine. Laddove manchino, «l’autorità competente dello Stato membro notificato può, senza ritardo e al più tardi entro 96 ore dalla ricezione della notifica … notificare all’autorità competente dello Stato membro di intercettazione che: a) l’intercettazione non può essere effettuata o si pone fine alla medesima; e b) se necessario, gli eventuali risultati dell’intercettazione già ottenuti mentre la persona soggetta ad intercettazione si trovava sul suo territorio non possono essere utilizzati o possono essere utilizzati solo alle condizioni da essa specificate». Questa disposizione dimostra come la pervicace riluttanza a cedere porzioni della propria sovranità resista anche tra gli Stati europei. Emblematica in questo senso è, d’altronde, la soluzione di compromesso codificata nell’art. 9 della direttiva del 2014, laddove si deroga al principio del mutuo riconoscimento, prevedendo una «forma ibrida tra lex loci e lex fori, alla stregua della quale trovano applicazione le regole probatorie vigenti nello Stato in cui si svolge il processo (lex fori) finché queste ultime non entrino in conflitto con i “principi fondamentali di diritto” dello Stato d’esecuzione» (26). Chiara è la ratio: «tutelare al massimo grado la sovranità nazionale, assicurando che le prove siano acquisite in base alle regole che attuano i bilanciamenti tra i valori considerati preferibili dal legislatore dello Stato in cui esse sono reperibili» (27). La direttiva è stata fedelmente trasposta nel nostro ordinamento dal d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108 (28). Con riguardo alle intercettazioni attive, l’art. 44 impone al pubblico ministero di informare l’autorità giudiziaria competente dello Stato membro nel cui territorio si trova il dispositivo o il sistema da controllare prima dell’avvio delle operazioni di captazione (co. 1), oppure, quando queste siano già iniziate, non appena ne abbia notizia (co. 2). Se le autorità straniere comunicano, a loro volta, che le intercettazioni non possono essere eseguite o proseguite, il pubblico ministero ne dispone l’immediata cessazione; tuttavia, i risultati dell’intercettazione possono essere utilizzati alle condizioni stabilite dall’autorità giudiziaria dello Stato membro (co. 3). Nulla è espressamente previsto per l’eventualità che l’informativa non venga trasmessa. Del resto, è di facile intuizione che le conversazioni intercettate siano inutilizzabili, operando il divieto probatorio posto dall’art. 271 cod. proc. pen. contro captazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge». Indefettibile condizione di legittimità delle intercettazioni “transnazionali” è, dunque, sempre il rispetto della sovranità dello Stato – europeo o non – dove si trovi la persona controllata. Al di là dei confini non esistono zone franche.
(26) MArAFioti, Orizzonti investigativi europei, assistenza giudiziaria e mutuo riconoscimento, cit., 22. (27) dAnieLe, La metamorfosi del diritto delle prove nella direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2015, 88. (28) Decreto legislativo 21 giugno 2017, n. 108, recante Norme di attuazione della direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all’ordine europeo di indagine penale, pubblicato in G.U., 13 luglio 2017, n. 162. Tra i primi commenti al provvedimento, MAnGiArACinA, L’acquisizione “europea” della prova cambia volto: l’Italia attua la Direttiva relativa all’ordine europeo di indagine penale, in Dir. pen. proc., 2018, 158 ss.; MArChetti, Ricerca e acquisizione probatoria all’estero: l’ordine europeo di indagine, in Arch. pen., 2018, 827 ss.; pAuLeSu, Operazioni sotto copertura e ordine europeo d’indagine penale, in Arch. pen., 2018, 25 ss.; ruGGieri, Le nuove frontiere dell’assistenza penale internazionale: l’ordine europeo di indagine penale, in Proc. pen. giust., 2018, 12; SeLVAGGi, L’ordine europeo di indagine - EIO: come funziona?, in Cass. pen., 2018, 44 ss.; CAMALdo, La normativa di attuazione dell’ordine europeo di indagine penale: le modalità operative del nuovo strumento di acquisizione della prova all’estero, in Cass. pen., 2017, 4196 ss.
Offerte di criptoattività e abusivismo finanziario. I margini di rilevanza penale dell’esercizio non autorizzato di servizi di investimento
Corte di CASSAzione; sezione II; sentenza 25 settembre 2020, n. 26807; Pres. Gallo; Est. Coscioni
In tema di intermediazione finanziaria, la vendita on line di moneta virtuale pubblicizzata quale forma di investimento per i risparmiatori – ai quali vengano offerte informazioni sulla redditività dell’iniziativa – è attività soggetta agli adempimenti previsti dalla normativa in materia di strumenti finanziari, di cui agli artt. 91 ss. TUF, la cui omissione integra il reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), TUF. Qualora la vendita di valute virtuali venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento con informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare i profili di rischio dell’investimento essa si sostanzia in un’attività soggetta agli adempimenti e alle autorizzazioni previsti dal Testo unico dell’intermediazione finanziaria, con conseguenze responsabilità penale ai sensi dell’art. 166 TUF in caso di abusivo esercizio.
…Omissis…
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 21 gennaio 2020 il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame respingeva il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 16 dicembre 2019, che aveva disposto il sequestro preventivo a carico di D.R.G., indagato per i reati di cui all’art. 110 c.p. e art. 648 bis c.p., D. Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) e art. 493 ter c.p. della somma di Euro 206.442,32 e degli ulteriori beni (carte che abilitano al prelievo di denaro, dispositivi elettronici, telefonini) già oggetto di sequestro probatorio emesso dal Pubblico Ministero l’8 novembre 2019. 1.1 Avverso l’ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di D.R., eccependo la violazione dell’art. 325 c.p.p. e art. 648 bis c.p., art. 125 c.p.p., comma 3 e in relazione al combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p.: il Tribunale aveva infatti completamento omesso di motivare sui motivi nuovi depositati dalla difesa, che attenevano all’elemento soggettivo del reato e che così si riassumevano: gli accrediti sui conti correnti riconducibili agli indagati (presso l’istituto di credito N26 e presso Widiba) erano relativi a vendite di criptovalute eseguite sul sito (OMISSIS), sito non riconducibile agli indagati; le transazioni per l’acquisto dei bitcoin avvenivano in modo assolutamente spersonalizzato, senza nessun contatto tra venditore e acquirente, per cui il venditore non poteva avere alcuna consapevolezza circa la provenienza della provvista utilizzata dal compratore per l’acquisto di criptovalute; gli indagati non potevano quindi avere nessuna certezza rilevante ai sensi dell’art. 648 bis c.p. della provenienza illecita del denaro usato da D.R.A. e da M.S.G. (o da chi aveva utilizzato le generalità di questi ultimi) per l’acquisto di bitcoin (come, del reato, alcuna prova, vi era del loro concorso nei presunti delitti di truffa presupposti); nessuna rilevanza aveva la tempistica di apertura dei conti correnti, visto che mancava l’elemento soggettivo del reato e non si poteva ricorrere alla figura del dolo eventuale, posto che non vi era alcun indice sintomatico che potesse far maturare il sospetto che le somme oggetto delle transazioni fossero di provenienza illecita; neppure il dolo eventuale poteva desumersi da una omissione degli obblighi di identificazione imposti dalla normativa anticiriclaggio, essendo tali obblighi imputabili solo alla (OMISSIS). Su tali punti, osserva il difensore, il Tribunale si era limitato ad evidenziare le vicende relative alle transazioni sul sito (OMISSIS), per poi affermare che tali vicende, qualificate come truffaldine, sarebbero state “tutte convergenti ai conti correnti riconducibili agli odierni indagati”, convergenza che non era stata posta in discussione, visto che le contestazioni avevano riguardato l’elemento soggettivo del reato. …Omissis… 1.3 Il difensore eccepisce poi la violazione dell’art. 1, comma 2 e del D. Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) (TUF), dell’art. 125c.p.p., comma 3, dell’art. 321 c.p.p. e del combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: l’attività di cam-
biavalute virtuale era stata definita dal D. Lgs. n. 90 del 2017, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l’art. 1, comma 2 TUF prevede che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”); tale scelta era perfettamente coerente con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d’opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad “atti comunitari e provvedimenti Consob” e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perchè non ancora recepita dall’ordinamento interno. Il difensore aggiunge che il Tribunale aveva richiamato l’attività che gli indagati avrebbero svolto tramite il sito bitcoingo.it che, come risultava già dalla provvisoria contestazione mossa al capo A) della rubrica, non era formalmente riferibile al ricorrente D.R.G., ma a D.R.A. per cui, se il Tribunale avesse voluto ipotizzare una responsabilità del ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che tale ditta individuale era in realtà simulata, e cioè volta a celare una società di fatto tra il ricorrente e l’intestatario, prospettiva estranea all’orizzonte valutativo del Tribunale e in contrasto con le allegazioni difensive (D.R. operava non con il sito bicoingo.it, ma con quello (OMISSIS)). Il difensore eccepisce poi l’erronea determinazione del profitto sequestrabile: avendo il giudice per le indagini preliminari disposto il sequestro finalizzato alla confisca per sproporzione, sarebbe stato necessario individuare il profitto del delitto ex art. 166 TUF asseritamente connesso alla attività della (OMISSIS), profitto che avrebbe potuto rintracciarsi esclusivamente tramite una effettiva ricostruzione dei flussi finanziari riferibili alla ditta indicata, non potendo identificarsi la somma sequestrabile con il profitto della (OMISSIS); volendo poi individuare il profitto sequestrabile, avrebbe dovuto calcolarsi il saldo positivo tra i valori relativi all’acquisto di bitcoin e quelli relativi alla vendita della criptovaluta, al netto delle tasse; il Tribunale aveva rigettato tale sottolineatura fatta per tuziorismo, visto che nessun profitto della (OMISSIS) risultava dimostrato- con motivazione apparente mediante richiamo alla sentenza di questa Corte n. 37120/19, che aveva per oggetto il delitto di riciclaggio ove, per l’individuazione del profitto, non sono necessari conteggi particolari, dovendosi avere esclusivamente riferimento alle somme oggetto del reato, meccanismo di computo non estendibile ad altre figure di reato, di modo che non pareva dubbio che il reato di abusivismo finanziario avesse un profitto immediatamente identificabile nell’eventuale saldo attivo tra il prezzo di acquisto dei prodotti e quello di collocamento, da computarsi al netto delle imposte pagate sulle transazioni finanziarie.
Considerato in diritto
…Omissis… 1.2 Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poiché le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag.13 dell’ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF. Quanto alla censura secondo cui il sito (OMISSIS) non sarebbe riconducibile all’indagato, si deve osservare come il conto N26 acceso mediante la comunicazione del numero di telefono riconducibile all’utenza di D.R.G. sia stato utilizzato per l’acquisto e la successiva cessione di bitcoin da parte di F.F., avvenuta tramite quel sito (pag.8 ordinanza impugnata), il che rende evidente che, a prescindere dalla formale riferibilità del sito a D.R.A., lo stesso era adoperato anche da D.R.G.. 1.3 Relativamente all’ultimo motivo di ricorso, questa Corte ha precisato che “Anche l’uso di una carta di credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui al D.L. 3 maggio 1991, n. 143, art. 12, convertito nella L. 5 luglio 1991, n. 197 (ora art. 493-ter c.p.), in quanto la legittimazione all’impiego del documento è contrattualmente conferita dall’istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all’eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all’atto dell’uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con
la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come “longa manus” o mero strumento esecutivo di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto. (Fattispecie in cui l’agente, che conosceva gli estremi della carta di credito della persona offesa in ragione di un precedente utilizzo per conto di quest’ultima, acquistava un biglietto aereo destinato esclusivamente a sè stesso)”(Sez. 2, Sentenza n. 17453 del 22/02/2019, PMT/ Pautasso, Rv. 276422 - 01); il fatto che nel caso in esame si tratti di una carta di debito anzichè di credito è del tutto irrilevante, considerato che il bancomat è un “documento analogo” (alla carta di credito) che abilita al prelievo di denaro contante e quindi rientra nell’art. 493 ter c.p.. …Omissis…
IL COMMENTO
di Luca D’Agostino
Sommario: 1. La vicenda processuale e la quaestio facti. – 2. Criptovalute ed esercizio abusivo di attività finanziaria. – 3. La cornice autorizzatoria per l’attività dei cambiavalute virtuali. – 4. Considerazioni conclusive.
Il contributo riflette sugli attuali margini di rilevanza penale dell’esercizio non autorizzato di servizi e attività di investimento compiuti mediante sollecitazione all’acquisto di valori virtuali. L’autore si sofferma, in particolare, sulla categoria dei “prodotti finanziari” richiamata dall’art. 166, lett. c) TUF, mettendo in luce la necessità, dal versante penalistico, di una maggiore certezza nell’inquadramento della natura giuridica delle criptoattività. The essay deals with the criminal offences that punish virtual currencies financial operators who do not comply with registration requirements. The author focuses on the category of “financial products” contained in Art. 166 of the Italian financial intermediaries Code (TUF), arguing the opportunity (by a criminal law perspective) to clarify the legal nature of the so called crypto-asset activity.
1. La vicenda processuale e la quaestio facti
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte si è pronunciata, in sede di impugnazione cautelare reale, sulla legittimità di un decreto di sequestro preventivo emesso in un procedimento per i plurimi fatti di riciclaggio, indebito utilizzo di carte di credito ed esercizio abusivo di attività finanziaria. Nel procedimento principale la pubblica accusa contestava all’imputato il compimento di operazioni di riciclaggio attuato mediante transazioni in valuta virtuale e attraverso l’apertura di conti correnti, sui quali confluivano i proventi di delitti di truffa posti in essere dai relativi autori. Nel ricorrere avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano, reiettiva del riesame, il difensore lamenta – per quel che qui interessa – la violazione dell’art. 166, comma 1, lett. c) del D. Lgs. 58/1998 (di seguito, TUF) sul presupposto della natura non finanziaria dell’attività esercitata dall’imputato. La difesa riteneva che i fatti contestati integrassero una mera attività di cambiavalute virtuale (come definita dal D. Lgs. n. 90/2017), dotata di un proprio status giuridico, e dunque sottratta al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari “in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento”. La Corte disattende la censura rilevando come, nel caso di specie, la vendita di bitcoin fosse reclamizzata come una “vera e propria proposta di investimento”, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa “affermando che ‘chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%’”. Le specifiche modalità con cui era stata prospettata l’offerta d’investimento assume un rilievo assorbente per i giudici di legittimità, che concludono che una simile sollecitazione all’acquisto fosse “soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF”.
La sentenza in commento si è pronunciata sui rapporti tra offerta di criptoattività e disciplina di settore, concludendo per la sussistenza del fumus di commissione del reato di abusivismo finanziario. Poiché i fatti posti alla base della decisione non sono ricostruiti con sufficiente chiarezza, anche in ragione della natura cautelare del giudizio, il presente commento si asterrà da valutazioni di merito sulla corretta del decisum, esaminando il tema da una prospettiva generale. L’offerta al pubblico di criptoattività può sollevare numerosi dubbi in punto di disciplina applicabile, a causa delle aporie classificatorie che caratterizzano i c.d. valori
virtuali e della mancanza di una normativa settoriale ad hoc. Nell’ordinamento nazionale, come noto, le attività e i servizi di investimento sono riservati ai soggetti che possiedono particolari requisiti, sottoposti al vaglio preventivo delle autorità di vigilanza. Ciò spiega il motivo dell’esistenza di fattispecie criminose che, nel tutelare le prerogative di controllo pubblico sul sistema bancario o finanziario, assolvono indirettamente alla funzione di assicurare che l’intermediazione finanziaria sia svolta da soggetti affidabili sul versante organizzativo e patrimoniale. Ciononostante, la rilevanza penale dell’attività svolta dagli intermediari e dagli emittenti del mercato valutario virtuale rischia di scontrarsi con le esigenze imposte dalla certezza del diritto e dalla tassatività penale, non essendo ad oggi espressamente codificata una categoria apposita per gli asset finanziari virtuali. Per quel che qui interessa, l’art. 166 TUF punisce distinte condotte, precisamente quella di chi senza esservi abilitato: a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio; b) offre in Italia quote o azioni di OICR; c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento; c-bis) svolge servizi di comunicazione dati. Si tratta di un reato di pericolo astratto, che riflette l’esigenza del legislatore di anticipare la tutela apprestata in sede penale prima ancora che si verifichi un effettivo nocumento al pubblico dei risparmiatori e all’integrità del mercato finanziario (1). Sebbene la disposizione non specifichi che le attività debbano essere esercitate nei confronti del pubblico, un tale elemento può ritenersi assorbito nella descrizione delle condotte esecutive. La prestazione di servizi e di attività di investimento e l’offerta di strumenti o prodotti finanziari implicano infatti una apertura al pubblico dei servizi da intendersi in senso non quantitativo, ma qualitativo, come astratta idoneità a raggiungere un numero non determinato di soggetti. Dalla lettura della disposizione emerge piuttosto chiaramente la volontà del legislatore ci circoscrivere l’area del penalmente rilevante a un ristretto numero di ipotesi. Ciononostante, non si ravvisano ostacoli significativi all’applicazione della fattispecie laddove siano esercitati attività e servizi collegati all’emissione di valori virtuali al di fuori del regime autorizzatorio previsto dal TUF. La questione va approfondita.
(1) Una parte della giurisprudenza ritiene che si tratti di un reato istantaneo eventualmente permanente, la cui consumazione si protrae per tutto il tempo in cui vengono posti in essere dal soggetto attivo gli atti tipici della funzione di intermediazione finanziaria. I servizi e le attività di investimento sono definiti elencando una serie di attività (2) aventi per oggetto “strumenti finanziari”. Considerato che tra questi ultimi rientrano anche i valori mobiliari di cui all’art. 1, comma 1-bis del TUF (3) l’ambito di rilevanza penale dell’abusivismo finanziario si estende a tutte le attività di negoziazione aventi ad oggetto quelle valute virtuali che, oltre ad essere negoziabili su un mercato secondario, presentino un sottostante riferito a valute, indici, merci o commodities di altro tipo. Si deve dunque effettuare una distinzione in base alle caratteristiche specifiche dei token e/o del contratto di investimento, ammettendo la riconducibilità ai valori mobiliari – e dunque agli strumenti finanziari – delle unità rappresentative di quote di società o di debito oppure di valori reali regolati a pronti. Ben più ampio il campo di applicazione dell’ipotesi sub c), idonea a ricomprendere tutte le condotte di promozione, offerta e collocamento di cripto-attività finanziarie da parte di soggetti non abilitati (4). L’oggetto materiale della condotta è qui riferito non solo gli strumenti finanziari ma anche ai prodotti finanziari, cioè a ogni forma di investimento di natura finanziaria. Considerato che in tale categoria rientrano le più varie formule negoziali in cui vi è un impiego di un capitale caratterizzato dall’aspettativa di un rendimento e dall’assunzione
(2) Vengono elencate, per la precisione, la negoziazione per conto proprio, esecuzione di ordini per conto dei clienti, gestione di portafogli ricezione e trasmissione di ordini, consulenza in materia di investimenti, gestione di sistemi multilaterali di negoziazione. Tali attività di prestano a ricomprendere le attività tipiche dei prestatori di servizi connessi all’utilizzo di valute virtuali. Così, ad esempio, la “gestione di portafogli” potrebbe essere estesa ai fornitori di servizi e-wallet, mentre la “negoziazione per conto proprio” ricorda l’attività di trading diretto. Per “gestione collettiva del risparmio” si intende invece il servizio che si realizza attraverso la gestione di organismi di investimento collettivo e i relativi rischi (art. 1, comma 1, lett. k TUF). (3) Per “valori mobiliari” si intendono le categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, quali ad esempio: a) azioni di società e altri titoli equivalenti ad azioni di società, di partnership o di altri soggetti e ricevute di deposito azionario; b) obbligazioni e altri titoli di debito, comprese le ricevute di deposito relative a tali titoli; c) qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere i valori mobiliari indicati o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci o altri indici o misure. (4) La lettera è stata modificata dall’art. 5 del D. Lgs. 3 agosto 2017 n. 129 (Attuazione della direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari) che ha inserito il riferimento ai prodotti finanziari, prima assente. L’art. 31 del Testo unico prevede che per l’offerta fuori sede i soggetti abilitati debbano avvalersi di consulenti finanziari a ciò autorizzati, e che il soggetto abilitato conferente l’incarico sia responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede.
di un rischio di natura finanziaria (5), la tutela penale contro l’abusivismo riuscirà a raggiungere anche le attività d’investimento realizzate mediante l’offerta di valori virtuali. Gli intermediari saranno in particolare tenuti all’osservanza della disciplina del collocamento a distanza di prodotti finanziari (6), sottoposto all’autorizzazione preventiva della Consob in base alle informazioni contenute nel prospetto. Secondo la definizione fornita dall’art. 1, comma 1, lettera t) TUF per “offerta al pubblico di prodotti finanziari” deve intendersi “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati” (7). Si ritiene che i promotori di criptoattività finanziarie – tali cioè da integrare la nozione domestica di prodotto finanziario – debbano rispettare non solo le regole generali in materia di servizi di investimento, ma anche la stringente disciplina dettata per la sollecitazione (8). L’inosservanza delle disposizioni autorizzatorie sull’offerta e sul collocamento a distanza potrà assumere rilevanza come esercizio abusivo di attività finanziaria ai sensi della disposizione in esame (9). Considerata da questa prospettiva, la sintetica presa di posizione della Corte di Cassazione nel caso in esame appare coerente con il dato normativo.
Con l’emanazione del D. Lgs. n. 90/2017 il legislatore nazionale ha fornito una definizione di valuta virtuale (10) e introdotto una normativa specifica per l’esercizio dell’attività di cambiavalute. L’intervento riformatore ha toccato numerose disposizioni del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231; tra le novità più rilevanti spicca l’inclusione dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale tra i destinatari degli obblighi antiriciclaggio. L’art. 1, comma 2, lett. ff) del D. Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 definisce questi ultimi come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale” (11). Gli intermediari professionali del mercato valutario virtuale erano inseriti nel novero degli operatori non finanziari di cui all’art. 3, comma 5, solo “limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso” (12), prima che con
(5) In essa rientra ogni strumento, comunque denominato, che sia rappresentativo dell’impiego di un capitale in misura prevalente rispetto al godimento del bene. Cfr. Girino, Criptovalute: un problema di legalità funzionale, in Rivista di Diritto Bancario, 2018, 55, 2 ss.; CArrière p, Le “criptovalute” sotto la luce delle nostrane categorie giuridiche di “strumenti finanziari”, “valori mobiliari” e “prodotti finanziari”; tra tradizione e innovazione, in Rivista di diritto bancario, 2019, 2. (6) Per tecniche di comunicazione a distanza si intendono «le tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato». La materia è oggi regolata dalla delibera Consob n. 20307 del 15.2.2018 che ha sostituito la precedente delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007 (c.d. Regolamento Intermediari). (7) Si realizza una offerta al pubblico anche qualora i prodotti finanziari che abbiano costituito oggetto in Italia o all’estero di un collocamento riservato a investitori qualificati siano, nei dodici mesi successivi, sistematicamente rivenduti a soggetti diversi da investitori qualificati (art. 100-bis, comma 2, TUF). (8) Prima della pubblicazione dell’offerta l’intermediario dà comunicazione alla Consob circa le caratteristiche dell’operazione (art. 94, comma 1, TUF) compilando un prospetto informativo che, previa autorizzazione rilasciata dall’Autorità, dovrà essere diffuso affinché i risparmiatori possano «pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria e sull›evoluzione dell›attività dell›emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti» (art. 94, comma 2). Laddove la proposta d’investimento sia condotta a distanza, l’intermediario sarà assoggettato alla disciplina prevista per la l’offerta fuori sede regolata da disposizioni specifiche a tutela dell’investitore/consumatore. (9) L’offerta al pubblico di prodotti finanziari è sottoposta ad una specifica disciplina (Capo I del Titolo II della Parte IV del TUF; Titolo I del Regolamento emittenti, approvato dalla Consob con delibera n.11971 del 14 maggio 1999; Libro VII del Regolamento Intermediari, approvato dalla Consob con delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007), volta ad assicurare la correttezza e la completezza delle informazioni da fornirsi ai potenziali investitori e la parità di trattamento dei destinatari dell’offerta. Gli intermediari dovranno rispettare le norme sull’offerta al pubblico di prodotti finanziari (art. 94 ss. TUF) che impongono una serie di obblighi di trasparenza e di informazione nei confronti degli investitori. Nel dettaglio, la proposta dovrà essere accompagnata dalla pubblicazione di un prospetto informativo redatto secondo gli schemi predisposti dalla Consob; in caso di omissione gli interessati saranno esposti alle onerose sanzioni pecuniarie di cui all’art. 191 del TUF. (10) Sulla definizione di valuta virtuale v. art. 1, comma 2, del D. Lgs. 21 novembre 2007 n. 231 lett. qq): “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi, o per finalità d’investimento, e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. Tale nozione è il risultato dell’interpolazione da ultimo effettuata con il D. Lgs. 125/2019. (11) Anche tale definizione è stata emendata dal D. Lgs. 125/2019 che, con il chiaro intento di ampliarne la portata applicativa, ha coniato la seguente nozione di prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”. (12) L’art. 3 riporta una lunga lista di soggetti obbligati, distinguendo tra operatori finanziari, non finanziari e prestatori di servizi di gioco. Per quel che qui rileva, la lettera i) del quinto comma prevede che rientrino “nella categoria di altri operatori non finanziari: […] i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”. Con
la recente novella legislativa, l’ambito oggettivo fosse ampliato a tutti i prestatori di servizi, tra cui anche i wallet provider. La scelta di collocare detti intermediari tra gli operatori non finanziari poteva essere intesa come un segnale della volontà di escludere implicitamente la natura finanziaria delle valute virtuali, prima che il legislatore, tornando su suoi passi, emendasse la relativa nozione includendovi anche le rappresentazioni digitali di valore utilizzate per finalità speculative (13). La novella del 2017 ha anche modificato alcune disposizioni del D. Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, imponendo agli exchangers l’iscrizione in una sezione speciale del registro dei cambiavalute tenuto dall’Organismo degli Agenti e dei mediatori creditizi (14). L’intervento del legislatore voleva porre fine allo status di profonda incertezza sul regime giuridico applicabile all’esercizio nei confronti del pubblico dell’attività di scambio di valori virtuali. Tuttavia ciò ha reso dubbio – come prospettato dal ricorrente nella vicenda in esame – che l’esercizio autorizzato dell’attività di cambiavalute virtuali, previsto dalla normativa antiriciclaggio, potesse in parte derogare all’applicazione della disciplina dei mercati finanziari. Nel dettaglio, la difesa sostiene che la qualificazione in termini monetari dei valori virtuali escluda indirettamente il connotato finanziario, tant’è che l’art. 17-bis del D. Lgs. 141/2010 prevede autonomi presupposti e modalità di controllo pubblico sull’attività dagli exchangers (15). Viene in rilievo, in particolare, l’art. 8, comma 1, del D. Lgs. 90/2017, che nel modificare le disposizioni del D. Lgs. 141/2010 dispone che: “Le previsioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale […] tenuti, in forza della presente disposizione, all’iscrizione in una sezione speciale del registro di cui al comma 1. […] Con decreto del Ministro dell’economia
l’entrata in vigore del D. Lgs. 125/2019 anche i “prestatori di servizi di portafoglio digitale” sono entrati a far parte della categoria degli operatori non finanziari (lett. i-bis); è stato inoltre soppressa la limitazione all’attività prestata dai cambiavalute virtuali, con la conseguenza che oggi sono divenuti destinatari della disciplina tutti i prestatori di servizi connessi all’utilizzo delle valute virtuali. (13) Sembra che il legislatore abbia voluto mettere in evidenza la funzione di mezzo di scambio della moneta virtuale rispetto ai possibili impieghi finanziari. Si tratta comunque di una classificazione rilevante ai soli fini dell’applicazione delle disposizioni del D. Lgs. 231/2007, che difficilmente potrebbe risolvere la questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 166 TUF (v. infra). (14) In argomento, d’AGoStino, Operazioni di emissione, cambio e trasferimento di criptovaluta: considerazioni sui profili di esercizio (abusivo) di attività finanziaria a seguito dell’emanazione del D. Lgs. 90/2017, in Rivista di diritto bancario, 2018, 1, 3 (15) Tra le novità introdotte dal D. Lgs. 90/2017 vi è appunto quella di aver introdotto un comma 8-bis all’art. 17-bis del D. Lgs. 13 agosto 2010 n. 141, che prevede l’obbligo per i cambiavalute virtuali di iscriversi in un registro costituito presso l’Organismo di cui all’art. 128-undecies TUB. e delle finanze sono stabilite le modalità e la tempistica con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale sono tenuti a comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze la propria operatività sul territorio nazionale. La comunicazione costituisce condizione essenziale per l’esercizio legale dell’attività da parte dei suddetti prestatori […]”. Tale disposizione potrebbe essere interpretata nel senso che l’avvenuta iscrizione nell’elenco costituisca un valido titolo di legittimazione per la prestazione di servizi connessi all’offerta e allo scambio di valori virtuali, finanche a ricomprendere le attività investimento richiamate dall’art. 18 TUF. Ad avviso di chi scrive, non vi sono dubbi che l’intenzione del legislatore fosse quella di sottoporre gli intermediari del mercato valutario virtuale agli obblighi della normativa antiriciclaggio per porre un freno all’utilizzo delle criptovalute per fini criminosi: l’obbligo di registrazione assolve dunque alla funzione primaria di rendere esperibile i controlli da parte delle Autorità di vigilanza. Poiché la procedura non prevede alcun vaglio preventivo sul possesso dei requisiti indicati dal Testo unico finanziario, può ragionevolmente ritenersi che la prestazione di servizi di investimento non rientri tra le attività che tali intermediari sono legittimati a svolgere. La disciplina dei mercati finanziari si muove dunque su un piano parallelo e complementare rispetto a quella dettata dal D. Lgs. 90/2017, di modo che l’applicazione dell’una non esclude l’altra e viceversa. Appare pertanto condivisibile l’exitus decisionale della Corte nel caso in esame.
4. Considerazioni conclusive
L’indagine fin qui svolta consente di affermare che, nell’ordinamento vigente, una l’offerta non autorizzata di criptoattività finanziarie è idonea a integrare gli estremi del reato di abusivismo finanziario. Ciò non esonera dal chiedersi se, in quadro dominato dal rapido sviluppo del Fintech e della ampia diffusione di valori virtuali, sia opportuno un intervento del legislatore per disciplinare in modo organico la materia. La risposta positiva appare nettamente preferibile, per evidenti ragioni di prevedibilità e certezza del diritto. Per quanto l’assimilazione dei valori virtuali ai prodotti finanziari possa ritenersi appropriata, esiste un ineliminabile margine di discrezionalità nella valutazione dei requisiti propri di questi ultimi. Risulta infatti tutt’altro che agevole l’apprezzamento, ad esempio, della negoziabilità su un mercato secondario: occorre la quotazione su una piattaforma di exchange, o è sufficiente l’astratta idoneità del token ad essere trasferito peer to peer mediante registri distribuiti? Lo stesso dicasi a proposito del criterio di prevalenza tra aspettativa finanziaria e utilizzo del bene: quid iuris per quei valori che, pur incorporando diritti, siano quotati su piattaforme di trading?
In assenza di indicazioni legislative può ben darsi che l’inquadramento delle cripto-attività nelle categorie del diritto finanziario sia, per gli operatori del settore, un esito tutt’altro che prevedibile. L’opportunità di un intervento del legislatore si avverte in misura anche maggiore sul fronte repressivo. L’applicazione dell’art. 166 TUF alle attività esercitate dagli intermediari del mercato valutario virtuale potrebbe di fatto risultare imprevedibile, a causa degli evidenti difetti redazionali della fattispecie di abusivismo finanziario pocanzi esaminata. La condotta è descritta mediante la tecnica del rinvio “aperto” alle norme di disciplina senza indicare con precisione le disposizioni di riferimento (“È punito […] chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del presente decreto”), lasciando all’interprete l’arduo compito di ricostruire il precetto in base al regime amministrativo delle diverse attività di intermediazione finanziaria. Probabilmente il legislatore ha scelto di sacrificare la determinatezza della fattispecie nella consapevolezza delle spasmodiche modifiche e dei continui aggiornamenti al Testo unico finanziario. Se fossero stati inseriti precisi riferimenti alle norme di disciplina, il rischio di lacune di tutela sarebbe stato decisamente elevato. Evidenti sono però le ricadute sul piano della conoscibilità della norma penale che risente tanto dell’indeterminatezza del divieto, quanto dell’assenza di una definizione legislativa dei valori virtuali. La codificazione di una categoria ad hoc per le “cripto-attività finanziarie” permetterebbe di individuare più facilmente la regola di condotta, evitando il passaggio obbligato sullo scivoloso terreno dei prodotti finanziari. L’auspicio per il futuro è che il legislatore possa fare chiarezza in un panorama dominato da dubbi e incertezze sull’inquadramento giuridico dei valori virtuali che, oltre a nuocere allo sviluppo delle nuove forme di circolazione della ricchezza, rischia di frustrare le esigenze di tutela del mercato finanziario.
IL COMMENTO
di Marco Tullio Giordano
Sommario: 1. Le questioni sottese. – 2. Inquadramento giuridico dei cryptoasset quali prodotti finanziari e loro interpretazione ai sensi della normativa penale sull’abusivismo finanziario. – 3. Considerazioni conclusive.
Il contributo trae spunto da un recente sentenza di legittimità in tema di compravendita di bitcoin ed integrazione del reato di abusivismo previsto dal Testo Unico della Finanza, per analizzare lo stato dell’arte delle norme regolatorie ed interpretative delle attività finanziarie gravitanti intorno ai c.d. cryptoasset, contraddistinte dall’assenza di certezza definitoria. The essay takes its cue from a recent high court’s ruling on the selling and purchasing of bitcoin and the crime of financial abuse provided by Art. 166 of the Italian financial intermediaries Code (TUF), to analyze the state of the art of regulatory and interpretative rules of financial activities gravitating around the so-called crypto-assets, characterized by the absence of definitional certainty.
1. Le questioni sottese
All’inizio del mese di ottobre 2020 sono state depositate le motivazioni della sentenza in oggetto, resa dalla Seconda Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione il 17 settembre u.s., in sede di verifica di legittimità di un provvedimento cautelare reale, già validato dal Tribunale del riesame di Milano. La corte territoriale aveva, infatti, confermato un decreto di sequestro preventivo emesso del giudice per le indagini preliminari a carico di un indagato chiamato a rispondere – a valle di altrettante condotte illecite, consistenti in una serie di truffe immobiliari, perpetrate da terzi (1) – dei reati di
(1) L’originario procedimento aveva ad oggetto una serie di truffe collegate a finte aste immobiliari, nel corso delle quali i presunti aggiudicatari, una volta versato l’acconto, non erano stati posti nella condizione di concludere l’acquisto, poiché i siti interessati erano stati repentinamente riciclaggio ex art 648-bis c.p., abusivismo finanziario ex art. 166 comma 1) lett. c) del TUF (2) ed indebito utilizzo di carte di credito e di pagamento ex art. 493-ter c.p.
cancellati dal web e le relative somme, dopo numerose movimentazioni atte a celare l’effettiva provenienza e destinazione finale, erano state infine convertiti in bitcoin, anche per il tramite della cooperazione del ricorrente nel procedimento di interesse in questa sede. Maggiori dettagli possono essere desunti dalla lettura delle cronache reperibili all’indirizzo web <https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/truffe-bitcoin-1.4885391> (articolo del 14 novembre 2019 Il Giorno dal titolo “Finte aste di immobili e riciclaggio tramite bitcoin: tre indagati”) e sul Corriere della Sera, edizione di Milano (articolo del 15 novembre 2019 dal titolo “Aste-truffa soldi riciclati in bitcoin”). (2) Recante “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” e nel prosieguo indicato anche come Testo Unico della Finanza, alternativamente abbreviato con l’acronimo TUF.
La pronuncia, benchè resa in un giudizio cautelare e quindi oggetto esclusivamente di valutazione parziale, specificamente circa l’effettività del fumus bonis iuris necessario alla convalida dell’originario provvedimento di sequestro, risulta di particolare interesse poiché con essa, per la prima volta, la Cassazione si esprime sulla astratta applicabilità di una delle fattispecie – il reato di abusivismo finanziario ex art. 166 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (3), ad oggi sostenuta in numerosi casi analoghi in altrettanti dibattimenti in primo grado, ma mai giunta al vaglio di legittimità – maggiormente accostate al sempre più frequente fenomeno legato alla compravendita di valute virtuali e, così facendo, contribuisce di fatto al dibattito sulla natura giuridica dei c.d. cryptoasset e sulle conseguenti implicazioni giuridiche, caratterizzato nel nostro ordinamento dall’assenza di una effettiva interpretazione maggioritaria e, molto probabilmente, sofferente di un ormai necessario intervento regolatorio ad hoc. Nel dettaglio, la Suprema Corte è intervenuta sulla valutazione dell’attività di compravendita di valute virtuali svolta dal ricorrente, attività che l’originario provvedimento di sequestro contestava essere stata posta in essere pubblicizzando, sul sito dell’indagato stesso, denominato bitcoingo.it, e tramite l’omonima pagina sul popolare social network Facebook “fornendo ai potenziali clienti notizie e informazioni sulle caratteristiche delle proposta di investimento idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa”. Secondo il Tribunale vi sarebbe stata la necessità che tali comunicazioni pubblicitarie avvenissero a valle dell’espletamento di alcuni adempimenti, tra i quali la pubblicazione del prospetto e la preventiva comunicazione alla CONSOB, in applicazione dell’art. 91 e seguenti del TUF. In difetto, conclude la Cassazione, l’offerta di tal genere di prodotti finanziari ben può essere considerata idonea ad integrare gli estremi del reato di abusivismo di cui all’art. 166 comma 1) del citato Testo Unico della Finanza. A riguardo, la principale tesi difensiva, esplicitata in sede di gravame dall’imputato, argomentava esclusivamente evidenziando come il d.lgs. 90/2017, nel disciplinare a fini antiriciclaggio l’attività dei c.d. Virtual Asset Service Providers, di seguito definiti anche con l’acronimo VASP, avesse tratteggiato uno specifico inquadramento giuridico, così sottraendoli di fatto al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari,
(3) La disposizione punisce con la reclusione da uno a otto anni e con la multa da euro quattromila a euro diecimila “chiunque, senza esservi abilitato: […] offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento”. in quanto le c.d. valute virtuali (4) non avrebbero potuto essere considerate prodotti finalizzati all’investimento. Sul punto, si deve, in realtà, evidenziare come già da alcuni anni la normativa antiriciclaggio abbia assoggettato ai relativi obblighi i VASP, inserendoli nella più ampia categoria di soggetti obbligati, definiti “operatori non finanziari”, tramite una modifica della disciplina dell’attività di cambiavalute, di cui all’art. 17-bis del D.lgs. n. 141/2010 e successive modifiche. Proprio in tal senso, è stato aggiunto alla norma indicata un nuovo comma 8-bis, in base al quale “le previsioni di cui al presente articolo si applicano, altresì, ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (5), come definiti nell’art. 1, comma 2, lettera ff), del d.lgs. n. 231/2007 e successive modificazioni, tenuti, in forza della presente disposizione, all’iscrizione in una sezione speciale del registro di cui al comma 1)”, ossia il c.d. registro dei cambiavalute (6). Ad onor del vero, deve a riguardo essere aggiunto che gli obblighi antiriciclaggio a carico dei prestatori di tali servizi devono intendersi in vigore nonostante l’avvio in concreto della sezione speciale del registro sia subordinata all’emanazione di uno specifico decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, chiamato a stabilire le modalità e le tempistiche con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale siano tenuti a comunicare allo Ministero la propria operatività sul territorio nazionale, che ad oggi non è ancora stato emanato. In ogni caso, in considerazione di quanto sopra, la difesa del ricorrente aveva provato a sostenere che l’attività svolta dall’indagato non potesse essere qualificata ai sensi dell’art 166 lett c) del TUF, poichè non si trattava di attività soggetta ad autorizzazione amministrativa (specificamente licenziata da CONSOB in quanto qualificabile come offerta di prodotti finanziari), ma alla sola registrazione nella sezione speciale del registro dei cambiavalute.
(4) Il d.lgs. n. 231/2007, come modificato dal d.lgs. 90/2017, definisce in effetti all’ art. 1, comma 2, lett. qq le valute virtuali come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”, di fatto sembrando escluderne la natura finanziaria in favore della prevalente finalità essere utilizzare quali mezzo di pagamento. (5) Sono definiti nel medesimo decreto n. 231/2007, all’art. 1, comma 2, lett. ff operatori in valute virtuali: “persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di “valuta virtuale” e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”. (6) Registro curato dall’Organismo Agenti e Mediatori – O.A.M., istituito dall’art. 128 – undecies del d.lgs. n. 385/1993 o Testo Unico Bancario – TUB.
Con la sentenza in oggetto, la Cassazione ha ritenuto infondato il relativo motivo di ricorso ed ha considerato sufficientemente motivata l’ordinanza impugnata, che sul punto evidenziava come “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97% (7)””. Proprio questo particolare sarebbe idoneo a giustificare, secondo i giudici di legittimità, l’obbligo di adempiere ai requisiti autorizzativi previsti dal TUF, negli artt. 91 e segg., la cui omissione integra appunto la sussistenza del reato di abusivismo finanziario, di cui all’art. 166 comma 1, lett. c). Dunque, seguendo il ragionamento della Cassazione, l’attività promozionale posta in essere dall’indagato ben avrebbe potuto essere interpretata come una vera e propria “proposta di investimento (8)”, in relazione alla quale – a norma dell’art. 94 del TUF – vi era l’obbligo di mettere a disposizione del pubblico un prospetto avente le caratteristiche previste dallo stesso art. 94 al comma 2) e anticiparne il contenuto alla CONSOB ed attendere l’eventuale autorizzazione alla diffusione. Da qui l’attrazione della condotta contestata nell’alveo della fattispecie di abusivismo di cui all’art. 166 del TUF.
La natura multiforme ed eterogenea che caratterizza le varie tipologie di criptoattività, unitamente a una certa assenza di indicazioni interpretative univoche offerte sino ad oggi dal legislatore internazionale e da quello comunitario, rende sicuramente impegnativo per l’interprete italiano definire una collocazione sistematica all’interno della quale iscrivere il fenomeno dei crypto-
(7) Il contenuto originario, ancora pubblico sulla pagina dedicata all’attività dell’imputato sulla nota piattaforma Facebook, è reperibile all’indirizzo web <https://www.facebook.com/bitcoingoo/photos /a.1762190510566061/1762190537232725/>. Quale nota di colore, si noti che l’effettivo riferimento alla criptovaluta bitcoin indica testualmente che “chi ha scommesso in #bitcoin in 2 anni ha guadagnato + 997%”, dettagliando quindi un incremento di valore (dal 19 luglio 2016 al 19 luglio 2018) di dieci volte superiore a quanto erroneamente riportato nel capo di imputazione.” (8) Si verserebbe, pertanto, in un caso di c.d. “abusivismo sollecitatorio”. Sul punto, si veda MAinieri, La Cassazione penale esamina le valute virtuali sotto il profilo del Testo Unico della Finanza, in < https://www.giurisprudenzapenale.com/2020/10/20/la-cassazione-penale-esamina-le-valute-virtuali-sotto-il-profilo-del-testo-unico-della-finanza-le-precedenti-qualificazioni-e-i-richiami-della-direttiva-penale-sulla-lotta-al-riciclaggio-med/>. asset (9). Così come all’estero, anche in ambito nazionale sono state avanzate diverse ipotesi classificatorie in ordine alla qualificazione giuridica di valute virtuali ed affini, nessuna delle quali appare tuttavia pienamente soddisfacente ed in grado di adattarsi alla perfezione alle peculiarità del fenomeno. Va poi tenuto presente che iscrivere le molteplici attività possibili grazie alla tecnologia blockchain all’interno di una medesima collocazione teorica non appare una soluzione definitiva, posto che le differenze sostanziali che intercorrono all’interno delle diverse specie di token e dei differenti utilizzi pratici o teorici cui, essi possono essere eventualmente destinati, rendono ogni progetto diverso dagli altri e meritevole di una riflessione autonoma. In questa sede, pertanto, si tralasceranno – anche per economia concettuale – le interpretazioni maggioritarie, pur battute da gran parte della dottrina e della giurisprudenza nazionale ed estera, che spingono verso la qualificazione di bitcoin & Co. quali strumenti di pagamento (10) o quali veri e propri asset equiparabili a beni immateriali (11), e ci si concentrerà su quegli interventi ermeneutici direzionati verso l’accostamento – quantomeno di alcuni tra i cryptoasset attualmente più diffusi – ai prodotti finanziari tradizionali. La Banca D’Italia ad esempio, nel marzo del 2019 ha pubblicato un contributo sul tema (12), nel quale, si prova a fornire una dettagliata classificazione delle diverse tipologie di token basati sulle distributed ledger technolo-
(9) Così rinALdi, Approcci normativi e qualificazione giuridica delle criptomonete, in Contratto e impresa, 2019, I, 257 ss. (10) Per lungo tempo questa tesi è apparsa come quella maggiormente accreditata in funzione del fatto che è stata quella accolta dalla stessa Corte di Giustizia Europea (C-264/14, sentenza 22 ottobre 2015) nonché condivisa dalla nostrana Agenzia delle Entrate (risoluzione n. 72/E del 2016). In particolare è stato affermato dalla Corte di Giustizia Europea che le “operazioni relative a valute non tradizionali, vale a dire diverse dalle monete con valore liberatorio in uno o più paesi, costituiscono operazioni finanziarie in quanto tali valute siano state accettate dalle parti di una transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi di pagamento legali e non abbiano altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento” e che “la valuta virtuale a flusso bidirezionale ‘bitcoin’, che sarà cambiata contro valute tradizionali nel contesto di operazioni di cambio, non può essere qualificata come ‘bene materiale’ ai sensi dell’articolo 14 della direttiva IVA, dato che (...) questa valuta virtuale non ha altre finalità oltre a quella di un mezzo di pagamento”. (11) Questa ad esempio l’interpretazione della sentenza n. 18 del 21 gennaio 2019, emessa dal Tribunale di Firenze, Sezione fallimentare, in questa Rivista, 2019, 337, con nota di kroGh, La responsabilità del gestore di piattaforme digitali per il deposito e lo scambio di criptovalute, nella quale viene espressamente affermato che “le criptovalute possono essere considerate “beni” ai sensi dell’art. 810 c.c., in quanto oggetto di diritti, come riconosciuto oramai dallo stesso legislatore nazionale, che le considera anche, ma non solo, come mezzo di scambio”. (12) CAponero–GoLA, N. 484 - Aspetti economici e regolamentari delle <<cripto-attività>>, 2019, reperibile all’indirizzo <https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2019-0484/index.html>.
gies (13). La prima, le «valute virtuali», ricomprendono i token privi di diritti incorporati, negoziabili e convertibili con moneta legale o con altre valute virtuali. Alla seconda categoria appartengono i c.d. «payment token», con cui si replicano le funzionalità della moneta, mantenendo con essa un valore fisso. Ancora, i «security token» sarebbero simili a titoli dematerializzati, che vengono scambiati tramite le DLT, tipicamente a seguito di una offerta iniziale d’acquisto (14); il relativo status giuridico sarebbe in questo caso «incerto» e non vi sarebbe, dunque, uniformità di opinioni, tanto a livello europeo, quanto nelle altre giurisdizioni. Infine, gli «utility token» sarebbero caratterizzati dal fatto di non essere – almeno in teoria – negoziabili e di offrire unicamente diritti amministrativi o licenze d’uso, come l’accesso ad una piattaforma o un network di persone. Gli autori del contributo veicolato da Banca d’Italia precisano, infatti, che questi ultimi, se nel corso del loro uso mutassero in token portatori non solo di un diritto, ma anche pienamente trasferibili e negoziabili su un mercato negoziato, allora diventerebbero a tutti gli effetti «security token», con la conseguente ipotetica applicazione delle norme in materia di strumenti finanziari. Del resto, anche altri interpreti istituzionali, corti giudiziarie e commentatori privati, provando a valorizzare la componente di riserva di valore, che almeno in parte caratterizza bitcoin e le altre criptovalute, hanno posto l’accento sulla innegabile finalità d’investimento che esse hanno acquisito in capo a buona parte dei loro utilizzatori e sostenitori, anche allo scopo di inquadrare il fenomeno in un contesto regolatorio che consenta di applicare le norme previste dall’ordinamento a protezione dei consumatori ed a tutela dell’integrità dei mercati (15). La tematica è evidentemente oggetto, quindi, di un dibattito ancora aperto tra i vari interpreti. In proposito, si è d’altro canto da più parti sollevato il valore dirimente dell’art. 1, comma 4, del TUF, secondo cui «i mezzi
(13) Locuzione che viene solitamente tradotta in “tecnologie a registri distribuiti”, nel prosieguo anche abbreviata mediante l’acronimo DLT. (14) Initial coin offering, locuzione spesso abbreviata con l’acronimo ICO (in italiano, letteralmente: offerta di moneta iniziale): si tratta di un mezzo non regolamentato di crowdfunding nel settore finanziario. Generalmente, sono venduti dei token per raccogliere fondi, con l’esistenza dei token ed il loro comportamento definiti da algoritmi matematici. A differenza di ciò che avviene nella similare OPA (offerta pubblica di acquisto), l’acquisizione dei token non è regolamentata dal governo e potrebbe non garantire la proprietà o altri diritti. (15) Questa ad esempio è la strada seguita dal Tribunale Civile di Verona nella sentenza n. 195 del 24 gennaio 2017, nella quale viene affrontato il tema della qualificazione giuridica di un contratto che prevedeva l’acquisto di criptovaluta contro euro, concluso tra una persona fisica e una società promotrice di una piattaforma di investimenti. La corte di merito ha qualificato bitcoin, in quel caso, quale <strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online>. di pagamento non sono strumenti finanziari», circostanza che sarebbe pure idonea a precludere la riconducibilità delle valute virtuali nella definizione di strumento finanziario (16), a meno di voler escludere del tutto l’attitudine di buona parte di esse a costituire un mezzo di pagamento. Inoltre, l’elencazione degli strumenti finanziari contenuta nel TUF presenta, secondo l’interpretazione prevalente, carattere tipico e tendenzialmente chiuso. Questo asserito numerus clausus risulta tuttavia soltanto ipotetico, in quanto il quinto comma dell’art. 18 TUF attribuisce, in realtà, al Ministro dell’Economia e delle Finanze, la facoltà di individuare, attraverso l’emanazione di un eventuale rinnovato regolamento, nuove categorie di strumenti finanziari o di servizi e attività di investimento, allo scopo di tener conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite al contempo dalle autorità europee. Appare invece sicuramente più condivisibile, per chi scrive, il tentativo – di un orientamento meno tranchant di quello offerto dalla sentenza qui commentata – di ricondurre soltanto alcune fra le operazioni aventi ad oggetto le i cryptoasset nel genus dei prodotti finanziari, circostanza che consentirebbe di estendere ad essi – in modo circostanziato e non generalizzato, come si è provato a sostenere fino ad ora – la disciplina prevista dal TUF, specie con riferimento alle disposizioni previste dagli artt. 94 e ss., che sottopongono gli operatori economici ai poteri di controllo dell’AGCM e della CONSOB (17). La lettera u) dell’art. 1 del TUF, infatti, individua i prodotti finanziari, infatti, negli strumenti finanziari ed in “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”. Tale tassonomia ricomprenderebbe, dunque, oltre al sottoinsieme costituito dai prodotti finanziari propriamente detti, un secondo gruppo di operazioni di natura aperta e decisamente non tipizzata, i cui contorni risultano meno chiari e vanno necessariamente valutati caso per caso. Alcuni interpreti reputano che, a determinate condizioni, i cryptoasset siano suscettibili di un’inclusione nel novero dei prodotti finanziari (e, più precisamente, nella categoria dei prodotti finanziari c.d. “innominati”), in quanto la nozione di prodotto finanziario appare astrattamente capace di abbracciare «ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o
(16) Cfr. BoCChini, Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche, in Dir. inf. e inform., 2017, 1, 40 ss. (17) Cfr. in questo senso GASpArri, Timidi tentativi giuridici di messa a fuoco del bitcoin: miraggio monetario crittoanarchico o soluzione tecnologica in cerca di un problema?, in Dir. inf. e inform., 2015, 426.
rappresentato, purchè rappresentativo di un impiego di capitale (18)». Più precisamente, quindi, affinchè una operazione economica avente ad oggetto beni immateriali quali i cryptoasset possa rientrare nel campo dei prodotti finanziari, sarebbe necessario e sufficiente il concorso di tre elementi: l’utilizzo di capitale, l’assunzione di un rischio connesso al suo impiego e l’aspettativa di un rendimento di natura finanziaria (19). Ulteriormente, si deve rilevare che al fine di collocare un rapporto economico all’interno dei prodotti finanziari occorre effettuare «un’indagine sulla causa dell’operazione alla ricerca delle concrete finalità ad essa sottese (20)»: infatti, la natura finanziaria dell’investimento può essere valutata soltanto nell’ottica complessiva dell’operazione prospettata dall’offerente. Di conseguenza, volendo aderire a tale interpretazione, soltanto le operazioni che presentano congiuntamente detti requisiti (e quindi non il semplice svolgimento di qualsiasi attività connessa all’acquisto, alla vendita o allo scambio di cryptoasset), rientrerebbero nel campo dei prodotti finanziari atipici. Da ultimo, deve essere evidenziato che anche l’attività sanzionatoria della stessa CONSOB, con specifico riferimento a soggetti che operano nel mercato delle criptovalute, così come espletata in alcune recenti delibere (21) assunte nel corso degli ultimi anni, ha ritenuto di qualificare le attività in questione quali operazioni relative a prodotti o strumenti finanziari, non in virtù di un’apodittica equiparazione tra questi ed i cryptoasset, bensì in ragione degli elementi che connotavano in con-
(18) Cfr. in questo senso LAurini, I titoli di credito, Torino, 2009, 390. Altra parte della dottrina esclude, invece, che le criptovalute possano rientrare nella nozione di prodotto finanziario, ritenendo che l’elencazione delle fattispecie di prodotti finanziari fornita dal TUF abbia carattere tassativo: in questo senso, si veda VArdi, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei bitcoin, in Dir. inf. e inform., 2015, III, 449. (19) Cfr. il sito della CONSOB, Area pubblica, scheda 3 (reperibile all’indirizzo web <http://www.consob.it/web/area-pubblica/scheda-3>): “Cosa sono gli investimenti di natura finanziaria”: Gli elementi qualificanti la nozione di investimento di natura finanziaria sono rinvenibili nella compresenza: (i) di un impiego di capitale; (ii) di un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) dell’assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale. Gli investimenti di natura finanziaria costituiscono una specie del genere prodotto finanziario”. (20) Così CoMporti, La sollecitazione all’investimento, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, 550. (21) Specificamente le delibere n. 19866/2017 (sospensione dell’attività pubblicitaria avente ad oggetto l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute); n. 20207/2017 (divieto dell’offerta di portafogli di investimento in criptomonete); nn. 20241/2017, 20660/2018, 20693/1018 e 20741/2018 (sospensione dell’offerta al pubblico avente ad oggetto investimenti in criptovalute); nn. 20346/2018, 20536/2018, 20720/2018 e 20742/2018 (ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del TUF). creto le suddette operazioni economiche. Ad esempio, nel caso della delibera n. 19866/2017, è stata sottoposta al vaglio dell’Autorità l’attività di un operatore che promuoveva l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute, prospettando ai potenziali clienti la possibilità di conseguire profitti fino al 50% nel corso di un solo anno, con un’ovvia ed implicita assunzione di rischio da parte dell’investitore. La CONSOB ha osservato che le attività presentate «sembrano possedere le caratteristiche di un prodotto finanziario sub specie di investimento di natura finanziaria, la cui nozione implica la compresenza di: (i) un impiego di capitale; (ii) un’aspettativa di rendimento di natura finanziaria; (iii) l’assunzione di un rischio connesso all’impiego di capitale». La CONSOB, inoltre, ha ritenuto che la proposta di acquisto dei suddetti pacchetti di estrazione integrasse gli estremi di un’offerta al pubblico, come definita dall’art. 1, comma 1, lett. t) del TUF. Di conseguenza, deve trovare applicazione l’art. 101, comma 2, del TUF, che subordina la diffusione di qualsiasi annuncio pubblicitario relativo all’offerta al pubblico di prodotti finanziari diversi da quelli comunitari alla pubblicazione del prospetto previsto dall’art. 94, comma 1, del TUF ed alla preventiva comunicazione alla CONSOB. L’Autorità, riscontrando la mancata pubblicazione del suddetto prospetto, ha prima sospeso in via cautelare e poi vietato (con la delibera n. 19968/2017) le attività pubblicitarie svolte dal soggetto promotore.
3. Considerazioni conclusive
Sebbene la sentenza in oggetto abbia tutti i requisiti per considerarsi di estremo interesse, perché l’originario giudizio appare imperniato su un tema innovativo e la fattispecie concreta risulti di sicura attualità, non si può certo affermare che, con questo primo arresto, l’intervento della Suprema Corte abbia contribuito a fugare ogni dubbio sul complesso argomento dell’interpretazione della compravendita di cryptoasset quale attività di promozione abusiva di strumenti o prodotti finanziari. La sentenza, del resto, non specifica in quale delle tre categorie – prodotti finanziari, strumenti finanziari o attività di investimento – richiamate dal citato art. 166, comma 1, lett. c) del TUF, debba eventualmente essere ricondotta l’attività di promozione di compravendita di bitcoin, nel caso in cui sia accertata una condotta di sollecitazione all’acquisto con finalità speculative, restando probabilmente volutamente generica, anche in funzione della natura preliminare e della finalità conservativa del giudicato cautelare oggetto di gravame. Senza dubbio, alla conferma della sommaria contestazione di abusivismo finanziario, mossa dall’accusa e posta a sostegno della misura cautelare reale applicata ai beni dell’indagato, può aver contribuito il giudizio contestualmente espresso dalla Cassazione con riferimento all’elemento soggettivo del reato di riciclaggio ex
art. 648-bis c.p., pure oggetto di valutazione nella stessa sede. Sostiene, infatti, la motivazione degli Ermellini che la ricostruzione operata dal Tribunale a riguardo sia del tutto legittima, in quanto “l’indagato non si è limitato ad occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si è inserito attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi delle truffe, che venivano poi utilizzati per le relative transazioni” e che “le citate circostanze appaiono incompatibili con un atteggiamento psicologico diverso dal dolo”. Permangono, invece, dubbi residui sulla effettiva portata sollecitatoria dell’attività promozionale – o presunta tale –oggetto della condotta materiale contestata al ricorrente, posto il tenore del messaggio promozionale citato dall’impugnata ordinanza del Tribunale del riesame, che dovrebbe essere più approfonditamente valutato, a parere dello scrivente, nel contesto della complessiva attività di compravendita di criptovalute effettuata dall’indagato, attività pure riconosciuta e regolata dal nostro ordinamento come da quello comunitario, sebbene per diverse finalità, dalle disposizioni di cui alla normativa antiriciclaggio. In ottica più generale e volendo volgere l’attenzione alle probabili tematiche di un futuro prossimo che appare già oggi presente innegabile, seppur non ancora formalmente nel radar delle authorities, l’approdo della Cassazione evidenzia ulteriormente la necessità di un repentino, ma ragionato, intervento di aggiornamento dell’intera cornice normativa e regolatoria dedicata ai cryptoasset e, ancor più in generale, al settore del c.d. “fintech”. La capitalizzazione dell’intero mercato delle sole criptovalute – che possiamo ormai considerare soltanto una species nel più ampio genus delle criptoattività – ha toccato, proprio alla data di redazione del presente contributo, il valore complessivo di mille miliardi di dollari. Contestualmente, sembra che fenomeni nuovi come i c.d. Not Fungible Tokens – più comunemente definiti NFT (22) – e la diffusione di sempre più sofisticati protocolli di decentralized finance (23) promettono di apportare ulteriori benefici a quello che non può più essere considerato un mercato di nicchia ed ai margini della finanza tradizionale, ma che deve essere definitivamente riconosciuto come una nuova asset class. In questo senso, rassicura il fatto che, recentemente, la Commissione Europea abbia varato un “pacchetto per la finanza digitale” articolato su più fronti: tra i temi principali quello di una “prima regolamentazione europea sui cryptoasset, per sfruttare le possibilità offerte dalle stesse, mitigando i rischi per gli investitori e la stabilità finanziaria (24).
(22) Un token non fungibile (NFT) è un tipo di token crittografico su una blockchain che rappresenta un asset unico. Può essere un asset interamente digitale od una versione tokenizzata di un asset fisico, esistente nel mondo reale. Dalla pagina in lingua inglese di Wikipedia dedicate all’argomento: “A non-fungible token (NFT) is a special type of cryptographic token which represents something unique; non-fungible tokens are thus not mutually interchangeable. This is in contrast to cryptocurrencies like bitcoin, and many network or utility tokens that are fungible in nature. […] Non-fungible tokens are used to create verifiable digital scarcity, as well as digital ownership, and the possibility of asset interoperability across multiple platforms. NFTs are used in several specific applications that require unique digital items like crypto art (rare art), crypto-collectibles and crypto-gaming”. Cfr. <https://en.wikipedia.org/ wiki/Non-fungible_token>. (23) La c.d. finanza decentralizzata (Decentralized Finance – termine solitamente abbreviato in DeFi) fa riferimento ad un ecosistema di applicazioni finanziarie sviluppate sulla base di network blockchain decentralizzati, che ha l’obbiettivo di creare un ecosistema di veri e propri servizi finanziari (prestiti, pagamenti, rimesse, derivati o investimenti in genere) caratterizzati dall’essere open source, permissionless e trasparenti, che siano disponibili a tutti e operino senza nessuna autorità centrale. Il fenomeno, di recente apparizione nell’ecosistema dei cryptoasset, è già arrivato a capitalizzare alcuni miliardi di dollari e l’aspettativa di lungo periodo è la completa integrazione con la finanza tradizionale. (24) Cfr. Commissione europea, 24 settembre 2020, Digital finance package, disponibile all’ indirizzo web <https://ec.europa.eu/info/publications/200924-digital-finance-proposals_it>.
Le registrazioni di colloqui ad opera di uno degli interlocutori tra contrasti interpretativi ed evoluzione tecnologica
Corte di CASSAzione; sezione II penale; sentenza 25 settembre 2020, n. 26766; Pres. Rago; Rel. Pellegrino.
La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale.
…Omissis…
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data …Omissis…, la Corte di appello di Ancona confermava la pronuncia resa all’esito di giudizio abbreviato dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Ancona in data …Omissis…che aveva condannato: - S.N., alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro 3.400 di multa per i reati di usura (capi A, C, D, E. F, G, H, I) ed estorsione aggravata continuata in concorso (capo B), estorsione (capo K) e tentata estorsione (capo 3); - R.C., alla pena di anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 1.400 di multa per i reati di usura (capo A) ed estorsione aggravata continuata in concorso (capo B). La confermata sentenza di primo grado aveva altresì disposto l’interdizione temporanea dai pubblici uffici nei confronti di entrambi gli imputati nonché la confisca di quanto in sequestro nonché di ogni bene mobile o immobile, nella disponibilità degli imputati, sino alla concorrenza di Euro …Omissis… 2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di S.N. e di R.C., vengono proposti distinti ricorsi per cassazione, i cui motivi vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 3. Ricorso nell’interesse di S.N.. Lamenta il ricorrente quanto segue. -Primo motivo: erronea e/o falsa applicazione degli art. 266 e 267 c.p.p. anche in relazione agli artt. 191,268 e 271 c.p.p.; inutilizzabilità patologica di un atto di indagine ed in particolare della registrazione/ intercettazione eseguita ad iniziativa della polizia giudiziaria il …Omissis… senza che tale attività fosse stata in alcun modo autorizzata dall’autorità giudiziaria. Nell’occorso, questi i fatti: - in data …Omissis… F.R. e M.S. si recavano presso la Stazione Carabinieri di Ancona …Omissis… per sporgere denuncia nei confronti di S.N. per presunti fatti di usura; - in data …Omissis…, mentre era in corso un colloquio personale tra lo S. e la M., perveniva sull’utenza telefonica di servizio di militare del Comando Carabinieri di Ancona …Omissis…, proprio nel mentre la polizia giudiziaria stava raggiungendo gli uffici della Procura della Repubblica di Ancona, una telefonata dall’utenza mobile …Omissis… in uso alla M.; - la predetta telefonata veniva ascoltata e registrata da parte della polizia giudiziaria tramite l’applicazione … Omissis…; - alle ore …Omissis… il pubblico ministero decretava d’urgenza l’intercettazione delle utenze telefoniche in uso allo S. e alla R. nonché di quella della persona offesa, M.S.; - in data …Omissis…, il giudice per le indagini preliminari convalidava la decretazione d’urgenza del pubblico ministero. La decisione della Corte territoriale non appare condivisibile anche perché, travisando le risultanze istruttorie, ha omesso di valutare e di richiamare la circostanza che le forze dell’ordine non si sono limitate ad ascoltare “in diretta” la conversazione tra la M. e lo S. tramite il telefono, ma hanno provveduto alla contestuale registrazione della conversazione su supporto magnetico, utilizzando, peraltro, apparecchiature e linee telefoniche in uso alla polizia giudiziaria, e senza che fosse stato in quel
momento ancora emesso alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria autorizzativo delle intercettazioni. Inoltre, l’attività svolta dalla polizia giudiziaria deve ritenersi rientrare nella disciplina di cui all’art. 266 c.p.p. e ss., atteso che le operazioni di ascolto (contestuale e remoto) e di simultanea registrazione erano gestite dalla stessa polizia giudiziaria (e non da M.S.) e si svolgevano attraverso apposite apparecchiature in uso alla polizia giudiziaria, atte a captare e registrare, in tempo reale, la comunicazione. …Omissis… 4. Ricorso nell’interesse di R.C. …Omissis… -Terzo motivo: erronea e/o falsa applicazione dell’art. 267 c.p.p. anche in relazione agli artt. 125, 268 e 271 c.p.p., nullità per carenza, assenza e/o mera apparenza di motivazione del decreto di convalida delle intercettazioni telefoniche emesso dal giudice per le indagini preliminari il …Omissis… che ha convalidato la decretazione d’urgenza alle intercettazioni del pubblico ministero del …Omissis… nonché inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche con riferimento alla posizione dell’imputata. Il decreto di convalida riporta testualmente che la decretazione d’urgenza alle intercettazioni era stata disposta il …Omissis… nell’ambito del procedimento a carico di S.N. per il reato di cui all’art. 644 c.p. commesso in …Omissis… Alla data di emissione del decreto di convalida, quindi, la R. non risultava essere indagata, né il procedimento penale per il quale erano state disposte le intercettazioni d’urgenza risultava essere a carico della prevenuta; inoltre, gli elementi motivazionali e giustificativi del decreto di convalida non riguardavano in alcun modo la R. La motivazione del decreto sembra essersi risolta nella mera ripetizione della formula normativa, nell’indicazione di elementi esclusivamente a carico dello S. e nel richiamo ad un atto di indagine affetto da inutilizzabilità patologica. …Omissis… 5. Nei motivi nuovi depositati nell’interesse di R.C., si è insistito: …Omissis… - con riferimento al terzo e al quarto motivo del ricorso principale, nella convalida del decreto di intercettazione di urgenza emesso dal pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari motiva la propria decisione adducendo elementi esclusivamente riferibili al coimputato S.N., marito della R., ma nessun elemento, costituente gravità indiziaria, è riconducibile alla R. Si ribadisce l’inutilizzabilità dell’atto di indagine costituito dalla registrazione di una conversazione intercorsa tra M.S. e S.N., ascoltata in diretta dagli investigatori, tramite il telefono della donna: detta registrazione/intercettazione non è mai stata autorizzata da un magistrato, anche perché l’ascolto e la contestuale registrazione è avvenuta con strumentazione in uso alla Polizia giudiziaria. Nella fattispecie, le ragioni e le motivazioni per sottoporre ad intercettazione l’utenza telefonica in capo alla R. sembrano del tutto assenti; …Omissis…
Considerato in diritto
…Omissis… Alcune considerazioni di carattere preliminare si rendono doverose. 2.1.1. La giurisprudenza della Corte EDU, da tempo, ha riconosciuto come le intercettazioni telefoniche e ambientali costituiscano un’interferenza con il diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell’art. 8 p. 1 della Convenzione (cfr., 20/12/2005, Wisse c. Francia; 06/12/2005, Agaouglu c. Turchia; 31/05/2005, Vetter c. Francia; 27/04/2004, Deorga c. Paesi Bassi; 05/11/2002, Allan c. Regno Unito; 17/07/2003, Craxi c. Italia). La Corte di Strasburgo ha, altresì, reiteratamente affermato, che la registrazione di una conversazione (telefonica o tra presenti) operata da uno degli interlocutori costituisce interferenza con la vita privata, qualora sia eseguita con mezzi messi a disposizione delle autorità investigative e nel contesto di un’indagine ufficiale: sicché, ove l’attività in questione non risulti regolata, nell’ordinamento dello Stato interessato, da alcuna specifica normativa, deve ravvisarsi una violazione dell’art. 8 CEDU (in questo senso la Corte EDU si è espressa, ad esempio, nella sentenza del 25/10/2007, Van Vondel c. Paesi Bassi, con riguardo a fattispecie nella quale la polizia aveva fornito gli strumenti di registrazione e, in un caso, anche indicato le domande da porre all’interlocutore ignaro o nella pronuncia dell’01/03/2007, Heglas c. Repubblica Ceca, con riguardo a fattispecie nella quale la registrazione era stata effettuata su iniziativa della polizia. Significativa anche la sentenza 08/04/2003, M.M. c. Paesi Bassi, in riferimento a fattispecie nella quale la polizia aveva suggerito ad una donna, vittima di proposte di tipo sessuale, di registrare le eventuali telefonate del soggetto attivo, effettuando le operazioni tecniche a ciò necessarie e istruendo la denunciante circa la maniera di condurre la conversazione). Proprio in riferimento alla problematica delle intercettazioni tra presenti (e delle videoregistrazioni), viene in rilievo la valenza da attribuire alla locuzione “previste dalla legge” (“prevue par la loi”), che figura nell’art. 8, p. 2 CEDU. Al riguardo, la Corte di Strasburgo ha chiarito che il termine “legge” va inteso in senso sostanziale, comprendendo, oltre alla legge formale, anche la normativa ad essa subordinata (inclusa quella non-scritta) ed il diritto di creazione giurisprudenziale, proprio dei paesi di common law (cfr., ex plurimis, 24/04/1990, Kruslin c. Francia; 02/08/1984, Malone c. Regno Unito; 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito).
Nondimeno, la mera esistenza di una disciplina normativa non è, peraltro, sufficiente ad assicurare il rispetto dell’art. 8, essendo necessaria anche una verifica della c.d. “qualità della legge” (quality of the law), che si specifica nei requisiti della accessibilità (ovvero della possibilità, per l’individuo, di conoscere il precetto legislativo e di comprenderne la portata) e della formulazione sufficientemente precisa (ovvero della possibilità, per l’individuo – avvalendosi, se del caso, di esperti – di prevedere, ad un livello ragionevole, le conseguenze che possono derivare da una data azione). Tale problematica è assai rilevante, in generale, per le intercettazioni, ma lo è, in particolare, per le intercettazioni di conversazioni tra presenti, proprio in ragione della circostanza che, per queste ultime, difetta nell’ordinamento italiano una specifica disciplina, ricavabile solo attraverso principi giurisprudenziali. 2.1.2. I giudici di Strasburgo, con riguardo in generale alle intercettazioni, hanno affermato che, per “legge”, ai fini dell’art. 8 p. 2 CEDU (come di ogni altra norma della Convenzione che chiede una base statutaria per la limitazione dei diritti in essa consacrati) deve intendersi una disposizione “prevedibile” “quanto al senso ed alla natura delle misure applicabili”, che offra “una certa protezione contro gli atti arbitrari del potere pubblico”, indicando in modo sufficientemente chiaro ai cittadini in quali circostanze e a quali condizioni le pubbliche autorità possono porre in essere misure di sorveglianza segrete: specificando, segnatamente, (a) quali soggetti possono essere sottoposti alle misure, (b) la natura dei reati in rapporto ai quali esse sono utilizzabili, (c) i limiti di durata, le formalità per assicurare l’integrità delle registrazioni, ecc.. In tale prospettiva, la Corte Europea ha escluso, ad esempio, che potessero costituire idonea base legale per le intercettazioni ambientali le disposizioni riguardanti le intercettazioni telefoniche, applicate analogicamente, anche perché tale applicazione analogica risultava, nel caso considerato, priva di qualsiasi precedente giurisprudenziale (31/05/2005, Vetter c. Francia, cit.). La Corte Europea ha ritenuto, inoltre, sussistente la violazione dell’art. 8 in ipotesi nella quale l’ordinamento interno prevedeva genericamente il potere della pubblica autorità di procedere ad intercettazioni telefoniche, senza alcuna indicazione dettagliata riguardo al tipo di reati e alle garanzie procedimentali del soggetto la cui comunicazione era stata intercettata (02/08/1984, Malone c. Regno Unito, cit.). Per altro verso, la Corte EDU ha escluso che l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di un detenuto potesse trovare adeguata base legale in una circolare del ministero della giustizia, finalizzata ad assicurare l’ordine nelle carceri e la sicurezza pubblica in genere (27/04/2004, Deorga c. Paesi Bassi, cit.). 2.1.3. L’ordinamento giuridico italiano, attualmente, non fornisce una definizione dell’istituto delle intercettazioni e, a seguito della L. 23 dicembre 1993, n. 547, introduttiva degli artt. 617-bis, 617-ter, 617-quater e 617-quinquies c.p., sono sorte ulteriori perplessità interpretative, poiché, tale espressione viene adottata per definire, promiscuamente, non soltanto attività tipicamente investigative, ma anche di diritto penale sostanziale. Anche una ricerca giurisprudenziale, volta alla soluzione dei problemi definitori, risulterebbe vana, in quanto scarsa è stata l’attenzione del giudice di legittimità, il quale ha preferito il ricorso ad un’accezione atecnica o ad un significato mutuato dal diritto processuale. A ciò deve aggiungersi un costante dinamismo evolutivo che obbliga, da un lato, il legislatore e, dall’altro, la giurisprudenza, ad integrare il quadro normativo ed il diritto vivente alla luce progresso scientifico e tecnologico. A sua volta, la dottrina ha cercato di individuare una struttura minima dello strumento investigativo, ricorrendo ad una definizione di intercettazione processuale, quale mezzo di ricerca della prova, consistente nell’apprensione occulta e contestuale del contenuto di una conversazione o comunicazione tra soggetti, anche nella forma di flusso comunicativo informatico o telematico, come previsto dall’art. 266-bis c.p.p., mediante modalità oggettivamente idonee allo scopo, con intromissioni clandestine che superano il normale livello di percettibilità umana, operate da soggetti terzi rispetto ai conversanti, con apparecchiature in grado di fissarne l’evento e tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del carattere riservato dell’atto dialogico. 2.1.4. Dalla disamina delle principali norme codicistiche in materia di intercettazioni è possibile desumere i seguenti obiettivi che il legislatore ha inteso raggiungere: a) rendere più rigoroso sia l’obbligo di vaglio dei presupposti che quello motivazionale nell’ambito dei provvedimenti del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, sia con riferimento alle intercettazioni telefoniche che a quelle c.d. ambientali (art. 267 c.p.p.); b) rendere più rigido il divieto di pubblicazione degli atti relativi alle intercettazioni, assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e restringendo la conservazione delle comunicazioni intercettate non utili ai fini processuali (art. 269 c.p.p.); c) rendere consapevole l’interessato dell’avvenuta intercettazione nei suoi confronti e, anche laddove l’indagine preliminare non fosse ancora conclusa, della facoltà di esaminare gli atti ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazione e informatici (art. 268 c.p.p., comma 6), al fine di non ledere quel principio di diritto alla difesa garantito costituzionalmente nei tempi del giusto processo (art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 1);
d) rendere più trasparente l’azione investigativa, garantendo un uso delle informazioni ottenute attraverso le intercettazioni che sia limitato esclusivamente alle conversazioni rilevanti ai fini del procedimento (art. 271 c.p.p., commi 1 e 2). 2.1.5. Ma qual è lo stato attuale della giurisprudenza di legittimità? Per rispondere, occorre partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 36747 del 28/05/2003 (ric. Torcasio ed altro), con la quale la S.C. ha precisato, in primo luogo, quando una certa attività possa essere definita di “intercettazione”. In tal senso, si è riconosciuta la necessità: a) che i soggetti, fra loro comunicanti, intendano escludere gli altri dalla percezione; b) che gli strumenti utilizzati per captare il colloquio siano insidiosi e non agevolmente riconoscibili; c) che il soggetto che capta il colloquio sia estraneo al colloquio medesimo. La concomitante ricorrenza delle tre condizioni consente di ritenere l’esistenza dell’intercettazione che deve seguire lo schema tipico: richiesta del pubblico ministero, autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, decreto del pubblico ministero ed esecuzione del provvedimento da parte dello stesso pubblico ministero o di ufficiali di polizia giudiziaria. In assenza anche di una sola di queste condizioni, non si può parlare di intercettazione, ricadendosi nella diversa fattispecie della documentazione del colloquio da parte di una persona che vi partecipa, o che comunque non ne viene esclusa: in questi casi, la registrazione è un aiuto alla memoria, per fissare meglio il ricordo ed evitare contestazioni su quanto è stato detto ed il supporto su cui vengono impresse le tracce di tale conversazione è, pertanto, un vero e proprio documento, acquisibile in dibattimento ai sensi dell’art. 234 c.p.p.. L’intervento delle Sezioni Unite non ha tuttavia sopito il dibattito concernente il regime di utilizzabilità delle registrazioni di conversazioni eseguite da uno dei partecipanti al colloquio e di una serie di problemi di contorno tra cui spicca quello dell’acquisizione della dichiarazione in aperta violazione di una norma (riconoscendosi – in diverse pronunce – come la registrazione e la successiva documentazione non farebbero venir meno l’illiceità dell’acquisizione con conseguente inutilizzabilità della stessa intercettazione) quello relativo alla disciplina applicabile nel caso in cui vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria che autorizzi le intercettazioni ma il privato, d’intesa con la polizia giudiziaria, proceda con mezzi propri ovvero forniti da quest’ultima a documentare la conversazione e, soprattutto, quello ancora più rilevante rappresentato dal fatto se si possa considerare un discrimine (tra prova documentale “pura” e documentazione di attività d’indagine) il fatto che la captazione del privato avvenga d’intesa con la polizia giudiziaria e con apparecchiature da questa fornite. Su quest’ultimo punto, si pongono e permangono due opposti orientamenti, essendosi affermato sia che: - la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, eseguita d’iniziativa da uno dei partecipi al colloquio, costituisce prova documentale, come tale utilizzabile in dibattimento, e non intercettazione “ambientale” soggetta alla disciplina dell’art. 266 c.p.p. e ss., anche quando essa avvenga su impulso della polizia giudiziaria e/o con strumenti forniti da quest’ultima con la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio (Sez. 2, n. 3851 del 21/01/2016, dep. 2017, Spada e altro, Rv. 269089), ma anche che: - la registrazione di conversazioni effettuata da un privato, mediante apparecchio collegato con postazioni ricetrasmittenti attraverso le quali la polizia giudiziaria procede all’ascolto delle stesse e alla contestuale memorizzazione, non costituisce una mera forma di documentazione dei contenuti del dialogo né una semplice attività investigativa, bensì un’operazione di intercettazione di conversazioni ad opera di terzi, come tale soggetta alla disciplina autorizzativa dettata dall’art. 266 c.p.p. e ss., con la conseguente inutilizzabilità probatoria di tale registrazione, ove preceduta dalla sola autorizzazione del pubblico ministero (Sez. 3, n. 39378 del 23/03/2016, C., Rv. 267806, nella quale si afferma che, a conferma di tale opzione interpretativa, militerebbe l’ascolto e la registrazione contestuale da parte della polizia giudiziaria, quale soggetto estraneo alla conversazione). 2.1.6. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come nel caso di specie non si possa “cadere” nel contrasto sopra descritto ovvero versare in situazione di incertezza interpretativa, in quanto il fatto verificatosi, alla luce della sua reale dinamica, non può farsi rientrare nella casistica della documentazione di un atto di indagine, come tale sottoposto al regime autorizzatorio dell’art. 266 c.p.p. e ss.: in particolare, risulta che la persona offesa ( M.S.), avendo ricevuto una telefonata da parte dello S., “girò” la telefonata sull’utenza dei Carabinieri per farla sentire a costoro che, infatti, la registrarono. Quindi, i Carabinieri non effettuarono alcun atto di indagine, né sollecitarono la persona offesa a registrare il colloquio con lo S., né le fornirono alcun registratore. I Carabinieri furono coinvolti dalla M. perché ascoltassero il colloquio che era in corso con lo S. e di cui i Carabinieri nulla sapevano. 2.2. Pertanto, più correttamente, la registrazione effettuata dai Carabinieri, va ritenuta come una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione (così, Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016, Occhineri e altro, Rv. 268730; cfr. anche, Sez. 6, n. 1422 del 03/10/2017, dep.
2018, Gambino ed altri, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 53375 del 05/10/2017, Lombardi ed altri, Rv. 271656; Sez. 5, n. 41421 del 11/06/2018, Di Luzio, Rv. 275111; Sez. 5, n 13810 del 11/02/2019, Megna, Rv. 275237; Sez. 6, n. 5782 del 17/12/2019, Savoini, Rv. 278452). Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto: “La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale”. La riprova della correttezza della soluzione rappresentata la si ha se si riflette sulla circostanza che nulla sarebbe cambiato se i Carabinieri, dopo avere ascoltato (legittimamente) la telefonata, si fossero limitati a verbalizzare quanto ascoltato. Quell’atto, infatti, sarebbe stato sicuramente utilizzabile per porlo a base della motivazione del decreto di sequestro. …Omissis…
IL COMMENTO
di Alessandro Malacarne
Sommario: 1. L’inquadramento della quaestio iuris. – 2. Il caso concreto. – 3. La nozione di procedimento penale e le tesi volte a negare tout court l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagato. – 4. L’iniziativa in ordine all’esecuzione della registrazione. – 4.1. La registrazione “d’intesa” con la polizia giudiziaria nel corso del procedimento. – 4.1.1. Osservazioni critiche. – 4.2. La registrazione sua sponte nel corso del procedimento. – 5. Brevi considerazioni conclusive.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna nuovamente ad occuparsi del discrimen fra l’attività di intercettazione e la registrazione di colloqui fra presenti. La pronuncia merita di essere esaminata poiché, in primo luogo, offre lo spunto per interrogarsi sull’attualità della nozione di intercettazione che, allo stato, sembra essere incapace di far fronte a quelle nuove istanze di tutela dei diritti che costituiscono il frutto dell’inarrestabile progresso tecnologico. In secondo luogo, consente di sottolineare come il labile confine che separa i due istituti debba indurre il giudice ad identificare in modo chiaro e preciso la fattispecie oggetto di decisone, al fine di individuare la disciplina concretamente applicabile. The Court of Cassation is called to deal with the difference between wiretapping and recording activity. The decision needs to be analyzed because, first of all, it offers the opportunity to question the relevance of the notion of wiretapping. The latter has proved to be unable to accept the new need for the protection of rights, which is the result of inexorable technological progress. Secondly, the blurred border between the two institutes should require the judge to identify clearly and accurately the case in order to determine the applicable discipline.
1. L’inquadramento della quaestio iuris
La pronuncia in commento è emblematica della persistente attualità del dibattito in ordine alla qualificazione giuridica della registrazione di un colloquio fra presenti operata da uno dei partecipanti, con o senza l’ausilio e l’impulso dell’autorità inquirente. A questo proposito, la Suprema Corte, nella sentenza in epigrafe, ha affermato che la registrazione di conversazioni da parte della persona offesa con il presunto autore del reato, effettuata su iniziativa esclusiva e con mezzi propri, costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico – utilizzabile quale prova documentale – anche qualora ai fini dell’ascolto «venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate» (1). In tal senso, è opportuno sin da subito os-
(1) Il principio di diritto, per la sua peculiarità e rilevanza ai fini dell’analisi, merita di essere riportato per esteso: «La registrazione di conversazioni da parte del privato vittima di condotte estorsive o usurarie con il soggetto autore di comportamenti violenti e/o minacciosi, effettuata su iniziativa esclusiva, in quanto né sollecitata né in altro modo suggerita dagli inquirenti, dello stesso privato e con l’utilizzo di mezzi propri, anche qualora – ai fini dell’ascolto e della verifica dei contenuti minatori per possibili successive iniziative di carattere processuale – venga immediatamente girata alle forze dell’ordine già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa ed indipendentemente dalle modalità dell’ascolto (in diretta o in differita), non presuppone né implica lo svolgimento di alcun atto di indagine da parte delle stesse forze dell’ordine: in tal
servare come dalla lettura complessiva della pronuncia emergano non poche difficoltà in ordine alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, con la conseguenza che, come si avrà modo di osservare, il principio di diritto appare assolutamente slegato dalla fattispecie concreta. Ad ogni modo, è noto come la tematica in oggetto costituisca una vera e propria «zona grigia quanto a confini teorici ed incertezza di disciplina» (2) in ordine alla corretta qualificazione giuridica del cd. “agente segreto attrezzato per il suono”. Rinviando ad altra sede (3) per l’approfondimento della genesi e delle problematiche sorte in merito all’inquadramento della registrazione tra presenti, giova comunque sottolineare come ciò che contribuisce a rendere così insidioso l’argomento in esame – tale da rendere ancora irrisoluto il contrasto de quo – sia la molteplicità di questioni controverse che ne costituiscono il substrato giuridico: la portata applicativa dell’art. 15 Cost. (4), la nozione di intercettazione e di documento, la corretta esegesi dell’art. 189 c.p.p., l’am-
caso la registrazione effettuata, anche se veicolata attraverso la successiva trascrizione dei contenuti da parte delle stesse forze dell’ordine, rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale». Per un primo commento alla sentenza, si vedano SurACi, La nozione “post-moderna” di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, in Quotidiano giuridico, all’indirizzo <http:// www.quotidianogiuridico.it>, 9 novembre 2020; CheLo, Colloqui privati e intercettazioni telefoniche: la Cassazione forza i limiti, in Ilpenalista, all’indirizzo <http://www.ilpenalista.it>, 2 novembre 2020. (2) Così, SiSto, Intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni – Ancora dubbi sulla natura delle intercettazioni, in Giur. it., 2017, 492. (3) Sul tema, senza alcuna pretesa di esaustività, CAMon, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, 42 ss.; FiLippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, 30-39; dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni di conversazioni tra presenti, in Giur. it., 1994, 1 ss.; BArGi, Sulla distinzione tra registrazione di un colloquio ad opera di uno dei partecipanti ed intercettazione di una conversazione da parte di estranei, in Cass. pen., 1982, 2028 ss.; CAprioLi, Colloqui riservati e prova penale, Torino, 2000, 195 ss.; id., Intercettazione e registrazione di colloqui tra persone presenti nel passaggio dal vecchio al nuovo codice di procedura penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 143 ss.; turCo, La registrazione di colloqui effettuata dall’interlocutore longa manus della polizia giudiziaria in assenza del decreto autorizzativo del g.i.p.: scatta l’inutilizzabilità, in AA.VV., Il rito accusatorio a vent’anni dalla grande riforma. Continuità, fratture, nuovi orizzonti, Milano, 2012, 93-97; id., La registrazione di colloqui effettuata dall’interlocutore longa manus della polizia giudiziaria tra intercettazione, prova documentale e prova atipica incostituzionale, in Cass. pen., 2009, 3093 ss.; SCApArone, In tema di indagini di polizia giudiziaria condotte per mezzo di un agente segreto “attrezzato per il suono”, in Giur. it., 1998, 220 ss.; deLL’Andro, Colloqui registrati ed uso probatorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, 102 ss.; MArineLLi, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Torino, 2007, 37 ss.; FABBri, Uso processuale della registrazione di conversazione fra presenti, in Foro It., 1987, 127 ss. (4) A tal proposito, appaiono quantomai conferenti al tema in oggetto le affermazioni di chi ha definito l’art. 15 Cost. «la norma tecnicamente più infelice di tutta la Costituzione» che «per avere voluto tutelare troppo il diritto dell’individuo, rischia in certe ipotesi di non tutelarlo affatto, pur recando abitualmente un serio pregiudizio all’efficienza delle pubbliche autorità» (cfr. BASChieri – BiAnChi d’eSpinoSA – GiAnnAttASio, La Costituzione italiana. Il commento analitico, Firenze, 1949, 89-90). missibilità della cd. prova incostituzionale sono solo alcuni degli interrogativi su cui l’interprete è chiamato a confrontarsi.
2. Il caso concreto
La questione posta all’attenzione della seconda sezione trae origine dalla sentenza con la quale la Corte d’Appello di Ancona aveva ritenuto la penale responsabilità di due imputati, in concorso fra loro, per i reati di usura ed estorsione. La prova della responsabilità era stata raggiunta anche grazie ad una serie di telefonate fra gli indagati e la vittima, una delle quali, ascoltata e registrata in diretta dagli inquirenti, è stata oggetto di specifica doglianza in sede di impugnazione. Dalla lettura del provvedimento in epigrafe emerge – invero non senza difficoltà interpretative – che la persona offesa, dopo aver sporto denuncia, riceveva una telefonata da uno degli indagati ed immediatamente «gira[va]» quest’ultima verso un’utenza di servizio in uso ad un militare del comando dei carabinieri, il quale ascoltava e registrava la conversazione tramite l’applicazione Call Recorder. Al fine di comprendere se la decisione in oggetto abbia fatto buon governo dei principi regolatori la materia de qua, risulta indispensabile analizzare nel dettaglio il concreto andamento dei fatti che stanno alla base della pronuncia. È evidente, infatti, che nel tema della registrazione di colloqui fra presenti – più che in altri – la corretta identificazione della fattispecie nella sua reale dinamica costituisce lo strumento principale per individuare la disciplina giuridica applicabile. A tal fine, può essere utile impiegare taluni parametri – quali l’individuazione della fase del procedimento nella quale viene eseguita la registrazione, la modalità di ascolto, la titolarità del mezzo intrusivo, l’iniziativa dell’operazione, l’esecuzione materiale etc. – allo scopo di valutare in quale delle differenti fattispecie astratte possa essere ricondotto il caso in oggetto.
Procedendo con ordine, occorre anzitutto distinguere a seconda che la registrazione ad opera del colloquiante sia avvenuta nel corso del procedimento ovvero al di fuori di esso. Nel caso di specie, si può affermare che il dialogo intercorso fra la vittima ed il presunto autore degli illeciti ricada nella prima ipotesi prospettata. L’espressione “nel corso del procedimento” dev’essere intesa, in questa sede, alla stregua del caso in cui la registrazione sia stata eseguita in seguito all’emersione di semplici dati indicativi di un fatto penalmente apprezzabile, a nulla rilevando l’elemento cronologico dell’eventuale iscrizione della notitia criminis. Viceversa, allorquando si versi
nell’ipotesi in cui la vittima registri al di fuori e prima della pendenza “sostanziale” di un procedimento penale – e, pertanto, agisca sempre di sua iniziativa – si ritiene comunemente che il materiale raccolto sia legittimamente utilizzabile quale prova documentale (5). È noto, tuttavia, come una parte della dottrina ritenga essenzialmente inutile – e concettualmente errata – una siffatta partizione (6). Le dichiarazioni rese dall’indiziato-indagato e registrate nel corso di un colloquio fra presenti, infatti, devono ritenersi sempre e comunque inutilizzabili indipendentemente dall’ascolto, contestuale o differito, ad opera di un terzo estraneo al colloquio. Una conclusione così tranchant, per vero, è stata sostenuta attraverso percorsi argomentativi diversi fra loro. Secondo una prima linea di pensiero (7), la giustificazione di tale assunto sarebbe da individuarsi nell’art. 15 Cost. che sancisce l’inviolabilità della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la cui limitazione può avvenire soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge e con provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. In generale, si ritiene che la segretezza sia violata allorquando un soggetto, terzo rispetto alla comunicazione, percepisca il contenuto della stessa. La riservatezza, invece, sarebbe lesa se colui che ha partecipato legittimamente al colloquio riservato riveli ad estranei, ex post, il contenuto della predetta. La tesi in esame, avversata dall’orientamento maggiorita-
(5) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, in Dejure con note di FiLippi, Le Sezioni Unite decretano la morte dell’agente segreto «attrezzato per il suono», in Cass. pen., 2004, 2094 ss. e potetti, Questioni sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2004, 1996 ss. È noto come la qualificazione della registrazione fra presenti alla stregua di un documento venga sostenuta, in primo luogo, con riferimento alla nozione di «fatti» di cui all’art. 234 c.p.p., nella quale – si afferma – dovrebbero essere ricondotti anche i cd. fatti naturali, quali le dichiarazioni. Il documento così prodotto, peraltro, sarebbe ammissibile anche alla luce della circostanza che esso è formato prima e al di fuori del procedimento penale cui è destinato ad essere utilizzato; elemento, quest’ultimo, che le stesse Sezioni Unite hanno valorizzato quale discrimine fra la prova documentale e la documentazione dell’attività di indagine (cfr. Cass. Sez. Un. 28 marzo 2006, n. 26795, in Dejure. Nello stesso senso, LAronGA, La prova documentale nel processo penale, Torino, 2004, 6 secondo cui «il documento rappresenta fatti o atti extra judicium»). In senso difforme rispetto alla tesi qui richiamata, dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2 per il quale «un documento composto da una dichiarazione di scienza non può essere utilizzato per quanto attiene al contenuto della dichiarazione». (6) CentorAMe, Registrazioni “occulte” di conversazioni tra presenti e ricerca della prova, in Giur. it., 2011, 1400 secondo cui «risulta inconferente distinguere tra dichiarazioni rilasciate nel corso di specifici atti del procedimento e dichiarazioni rese al di fuori di un contesto investigativo. Ciò che conta, invero, è che tali dichiarazioni, in quanto autoincriminanti, non siano suscettibili di alcuna utilizzazione in sede processuale». (7) Così, CAprioLi, Intercettazione e registrazione di colloqui, cit., 146-148. Negli stessi termini dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2; CentorAMe, Registrazioni “occulte” di conversazioni, cit., 1399; FiFi, Note in tema di registrazioni ambientali «occulte» tra documento e prova atipica, in Giur. it., 2004, 4. rio (8), sembra porre l’attenzione sull’esatta qualificazione giuridica del termine “rivelare”. Il contenuto di una comunicazione, infatti, può essere per l’appunto “rivelato”, essenzialmente, con due modalità: il partecipante al colloquio può divulgare con la propria voce quanto appreso ovvero può rendere edotto il terzo dell’esatto contenuto del dialogo attraverso l’ascolto in differita della registrazione. Tutto ciò si riflette sul binomio segretezza-riservatezza poiché – si sostiene – con la seconda modalità «si consente al terzo di percepire e non solo di sapere» (9). Evidente è l’approdo del discorso. Se si ritiene di accogliere quest’ultima impostazione, la registrazione operata da uno degli interlocutori e successivamente messa nella disponibilità di terzi viola il diritto alla riservatezza tutelato dall’art. 15 Cost.: il contenuto di quella conversazione sarebbe potuto entrare nel processo solo attraverso un’intercettazione legittimamente autorizzata. Tuttavia, anche volendo condividere una simile lettura della disposizione costituzionale, è stato osservato come vi sia comunque la necessità di operare un bilanciamento fra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto alla riservatezza dei colloquianti (e, in particolare, del presunto autore del reato) e, dall’altro, il diritto della vittima all’autotutela ed alla garanzia per la propria difesa. In questo senso, in particolare, sembra essere orientata la giurisprudenza di legittimità allorquando afferma che «una disposizione di legge ordinaria volta ad inibire, senza l’autorizzazione del giudice, la registrazione di conversazione ad opera ed iniziativa di uno degli interlocutori o la divulgazione del contenuto del colloquio all’autorità giudiziaria […] non appare in alcun modo imposta dall’art. 15 Cost., se non altro per l’irragionevolezza di una norma che volesse impedire alla vittima […], come forma di autotutela, la precostituzione di elementi di prova di un grave illecito penale subito» (10).
(8) Cfr., per tutti, CAMon, Le intercettazioni, cit., 39. L’opinione largamente condivisa ritiene che allorquando un soggetto registri, sua sponte, un colloquio cui ha preso parte e successivamente renda note a terzi le dichiarazioni così apprese, non dovrebbe ritenersi leso il diritto alla segretezza bensì esclusivamente quello alla riservatezza. Di talché, trovando quest’ultimo tutela solo in via mediata, «ossia solo nei limiti in cui lo stesso vada ad incidere su altri diritti di libertà», si dovrebbe ritenere che nelle ipotesi de qua il dettame dell’art. 15 Cost. sia certamente rispettato (cfr. SiSto, Intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, cit., 492). Peraltro, come sostenuto anche dalle Sezioni Unite Torcasio, la comunicazione fra presenti, una volta esauritasi senza intromissioni, «entra a far parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori e di chi vi ha non occultamente assistito» (cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, cit.). (9) CAprioLi, Intercettazione e registrazione di colloqui, cit., 157. (10) Cfr. Cass. 1° dicembre 2009, n. 49511, in Dejure. Mostra di condivide questa impostazione MiLAni, Ancora irrisolto il problema della riconducibilità delle captazioni operate dall’agente attrezzato per il suono alla disciplina delle intercettazioni nel corso delle indagini, in Giur. cost., 2009, 4843, nota
Come si è accennato, la conclusione in ordine all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso della registrazione fra presenti – indipendentemente dalla sede – viene giustificata anche in base ad una seconda linea di pensiero. Un’autorevole dottrina (11) ha affermato che «l’imputato ha diritto a non vedere confluire nell’alveo del procedimento penale non solamente quello che può aver dichiarato davanti a un organo inquirente o nel corso del procedimento […] ma [anche] tutto ciò che ha dichiarato prima o in pendenza del procedimento» in quanto «le dichiarazioni da lui rese in ogni tempo non possono essere utilizzate contro di lui se non per sua libera ed insindacabile scelta» (12). Tali dichiarazioni, in quanto incriminanti, non posso essere utilizzate nella sede processuale. La tesi, indubbiamente suggestiva, offre lo spunto per talune considerazioni. Indipendentemente dalla circostanza che la registrazione venga eseguita sua sponte (13) da uno dei partecipanti ovvero d’intesa con la polizia giudiziaria (14), una cosa è certa: l’indagato – colloquiante ignaro – terrà un contengo che sarà indirizzato e manipolato, anche involontariamente, da colui che effettua la registrazione. Specialmente quando si tratta della vittima, infatti, è difficilmente revocabile in dubbio che quest’ultima abbia interesse a condurre una conversazione in modo tale da carpire dichiarazioni a sé favorevoli (15). Ora, tale manipolazione (indiretta) della volontà del dichiarante – si sostiene – non è ravvisabile nell’ipotesi delle intercettazioni di comunicazioni poiché, come affermato anche dalla Corte costituzionale (16), in tali circostanze il soggetto è libero di autodeterminarsi in ordine alle dichiarazioni da rendere, tant’è vero che la garanzia del
40 secondo cui adottando la tesi minoritaria «si finirebbe per privare irragionevolmente un’ampia categoria di soggetti di uno strumento capace di favorire l’attuazione di un altro fondamentale diritto inviolabile, qual è quello di difesa». (11) GiArdA, Persistendo ‘l reo nella negativa, Milano, 1980, 8 ss. Nello stesso senso dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 2. (12) Cfr., per le due ultime citazioni, GiArdA, Di passo in passo, come i gamberi, in Corr. giur., 1993, 1294-1295. In senso difforme si veda, per tutti, CAMon, Le intercettazioni, cit., 46 secondo cui ai fini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’indagato «sembra più ragionevole la tesi (d’altronde prevalente sia in dottrina sia in giurisprudenza) che richiede un collegamento più preciso col “procedimento”». (13) Cfr. infra par. 4.2. (14) Cfr. infra par. 4.1. (15) Cfr. GAetA, Dichiarazioni dell’indagato “provocate” da agenti infiltrati: la libertà di autodeterminazione quale canone di utilizzabilità, in Cass. pen., 2000, 602 il quale, seppur con riferimento alle dichiarazioni rilasciate specificatamente ad agenti di polizia giudiziaria sotto copertura, parla di «manipolazione narrativa». (16) Cfr. Corte cost. 4 aprile 1973, n. 34, in Dejure. diritto al silenzio deve ritenersi inapplicabile. Non essendoci un contatto diretto con l’autorità inquirente, infatti, non vi è motivo per dubitare della effettiva spontaneità e volontarietà delle dichiarazioni. Pur essendo tale approdo ermeneutico ormai largamente condiviso (17), non v’è chi non veda come la libertà di autodeterminazione non possa dirsi altrettanto tutelata nel caso della registrazione fra presenti: la persona offesa, come già detto, ha interesse a stimolare l’indagato affinché questi renda dichiarazioni contra se. È proprio alla luce di ciò, allora, che si giustifica la tesi di coloro che, valorizzando l’elemento della spontaneità delle dichiarazioni rese dal colloquiante ignaro, sostengono l’inutilizzabilità processuale di quest’ultime per violazione del nemo tenetur se detegere. La vittima che registra, anche di sua iniziativa ed in funzione di costituirsi una prova per un futuro procedimento penale, infatti, assumerebbe surrettiziamente il ruolo di autorità inquirente, di talché le dichiarazioni rese dinnanzi ad essa dovrebbero sottostare alla disciplina degli artt. 62, 63 e 64 c.p.p. (18). Orbene, anche qualora non si condividessero le predette argomentazioni con riferimento all’ipotesi in cui la vittima, sua sponte, si precostituisca una prova documentale (rectius, la registrazione), le considerazioni sopra richiamate potrebbero assumere un diverso significato nel caso in cui la persona offesa agisca “d’intesa” con la polizia giudiziaria e nel corso del procedimento penale. In tale circostanza, il bilanciamento fra il diritto alla riservatezza-segretezza e quello all’autotutela dovrebbe tener conto anche dell’esigenza – assente nel primo caso – di tutelare il diritto di difesa del soggetto sottoposto a procedimento penale. A tal proposito, allora, se il diritto al silenzio mira a garantire la libertà di autodeterminazione dell’indagato, potrebbe non apparire infondato sostenere, quantomeno in quest’ultima ipotesi, l’identità sostanziale fra vittima ed autorità investigativa. In tale evenienza, infatti, la persona offesa agisce, seppur informalmente, nella veste di organo d’accusa; ed è proprio tale coincidenza che, procedimentalizzando l’atto (19), dovrebbe rendere operante la garanzia del diritto al silenzio.
(17) Fortemente critico rispetto a tale orientamento GiArdA, Relazione al Convegno dell’Associazione fra gli studiosi del processo penale, reperibile al seguente link <http://www.youtube.com/watch?v=D3DbZZb38Og>. (18) Così, dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 6. (19) L’assunto non pare contrastare con l’opinione di chi ha rilevato come non si possa «considerare il privato che effettui la registrazione ausiliario di Polizia Giudiziaria, posto che tale figura può fare ingresso nel processo in casi tassativi ed assai limitati» (deCAroLi, Revirement sulle registrazioni effettuate con mezzi forniti dalla polizia giudiziaria – Il commento, in Dir. pen. e proc., 2009, 1276). A ben vedere, infatti, nel caso in esame la vittima non assumerebbe alcuna qualifica di carattere formale.
Ad ogni modo, anche volendo rigettare le tesi favorevoli all’inutilizzabilità delle dichiarazioni oggetto di registrazione, devono essere respinte con forza talune affermazioni giurisprudenziali, tutt’altro che infrequenti, secondo cui la registrazione fra presenti «costituisce prova documentale valida e particolarmente attendibile, poiché cristallizza in via definitiva ed oggettiva un fatto storico» e, difatti, le moderne tecniche di registrazione, alla portata di tutti, «consentono una documentazione inconfutabile ed oggettiva del contenuto di colloqui e/o di telefonate» (20). Anzitutto, non corrisponde a verità che le dichiarazioni rese dal colloquiante ignaro siano «oggettive». Tale assunto, a ben vedere, sembra fondarsi sulla risalente distinzione tra documenti diretti e documenti indiretti (21): «mentre i primi (fotografie, film, registrazioni fonografiche eccetera) offrirebbero una rappresentazione del fatto indipendente dalla memoria dell’uomo, nei secondi (le scritture) la rappresentazione sarebbe filtrata dall’autore» (22), cosicché solamente nel primo caso si potrebbe sostenere che il documento così formato sia privo di contaminazioni. Ora, anche supponendo che la registrazione sia tecnicamente genuina, vale a dire che non sia il frutto di fotomontaggi – artifizio, quest’ultimo, che nella società odierna è facilmente attuabile anche dall’utente comune – un’attenta dottrina ha già da tempo osservato come colui che registra un colloquio possa azionare o disattivare l’apparecchio fonico a seconda della propria convenienza e dell’obiettivo che intende perseguire. Di talché, vi è il fondato rischio che quella registrazione sia «falsa», nel senso che «le parole registrare sono state effettivamente dette […] ma quelle parole si inserivano in un contesto più ampio» (23) nel quale, ad esempio, potevano essere ricomprese anche dichiarazioni favorevoli al presunto autore del reato. Ma non è tutto. Anche volendo concedere – per assurdo – che la prova così raccolta sia «oggettiva» ed «inconfutabile», pare lecito domandarsi quale debba essere il ruolo ricoperto dal contraddittorio dibattimentale. Detto altrimenti, non si comprende quale sia l’utilità e lo scopo di condurre l’esame della persona offesa che ha eseguito la registrazione se, comunque, il contenuto di quest’ultima non può essere in alcun modo scalfito né intaccato dalla cross-examination.
(20) Così, Cass. 12 maggio 2016, n. 5241, in Dejure. (21) CArneLutti, Lezioni sul processo penale, vol. I, Roma, 1946, 222. (22) Cfr. CAMon, Le intercettazioni, cit., 40. (23) Così, ancora, CAMon, Le intercettazioni, cit., 41.
Laddove non si ritenga di aderire ad una delle tesi sopra richiamate – che, com’è intuibile, imporrebbe di terminare qui l’esame della sentenza – si tratta di stabilire se la registrazione, nel caso di specie, sia stata eseguita dalla vittima sua sponte oppure d’intesa con gli organi inquirenti. Sennonché, la risposta al quesito appare alquanto difficoltosa: la sentenza pecca di genericità, approssimazione e persino di contraddittorietà. Nel par. 2.1.6, infatti, la Corte afferma che «i carabinieri nulla sapevano» in merito alla telefonata fra l’estorsore e la vittima ma, nell’enucleare il principio di diritto, si precisa che le forze dell’ordine erano state «già in tal senso previamente allertate dell’iniziativa». Ora, al di là della contraddittorietà intrinseca dell’affermazione, la questione appare alquanto rilevante poiché la presenza o meno della polizia giudiziaria in attività di questo tipo si riverbera direttamente nell’individuazione della natura dell’atto. A questo proposito, peraltro, non si potrebbe replicare sostenendo che la circostanza per cui gli agenti dei carabinieri fossero stati «preventivamente allertati» non significhi necessariamente che il privato abbia agito su iniziativa, suggerimento o “mandato” degli stessi. La considerazione, seppur certamente condivisibile, è inconferente. Ciò che rileva, infatti, è che l’operazione sia stata eseguita dalla vittima “d’intesa” con la polizia giudiziaria, anche laddove quest’ultima non abbia fornito l’impulso o il suggerimento per lo svolgimento dell’operazione. Non v’è chi non veda, inoltre, come sarebbe comunque particolarmente complesso valutare concretamente quando la vittima abbia agito su “mandato” dell’organo investigativo oppure di propria iniziativa (24). In ogni caso, poiché dalla lettura della sentenza non è possibile ricostruire questo dato fattuale in maniera
(24) In questo senso, niCoLiCChiA, I controlli occulti e continuativi come categoria probatoria, Padova, 2020, 27. Contra, ApriLe, Sull’applicabilità della disciplina codicistica delle intercettazioni nel caso della registrazione di conversazioni da parte di uno degli interlocutori, con utilizzazione di strumentazione messa a disposizione della polizia giudiziaria, in Giur. merito, 2001, 1009 secondo cui «l’unico criterio che consenta di definire un accettabile discrimine tra il lecito e l’illecito non può che essere quello […] rappresentato dall’interesse che in concreto anima il soggetto che effettua la registrazione. Ed invero “quando è dovuto all’iniziativa della polizia giudiziaria […] la polizia si sta in realtà servendo di un mezzo di captazione delle conversazioni tra terzi facendolo a posteriori apparire come registrazione di conversazione tra presenti”. Al contrario se […] la decisione di registrare una conversazione alla quale l’interessato prende personalmente parte, è il frutto di un’autonoma determinazione, rispetto alla quale non vi è alcuna “spinta” o “interferenza” da parte del personale di polizia giudiziaria, la posizione dell’autore della registrazione è […] identica a quella di chi abbia deciso di eseguire l’operazione senza alcun previo intervento delle forze dell’ordine».
precisa e puntuale, occorre affrontare, separatamente, entrambe le ipotesi.
Ipotizziamo che, nel caso di specie, la vittima abbia agito d’intesa con la polizia giudiziaria. Inoltre, e questo è un dato che risulta pacificamente, supponiamo, che il mezzo utilizzato fosse nella titolarità della persona offesa (telefono cellulare). In questa prospettiva, è preliminarmente opportuno precisare come la circostanza che la vittima utilizzi un mezzo di registrazione proprio ovvero uno strumento fornitole dagli inquirenti appaia, oggigiorno, assolutamente irrilevante dal punto di vista classificatorio e, quindi, di disciplina. Non può non convenirsi sulla circostanza per cui il cittadino comune deve ritenersi autonomamente in grado di recuperare un mezzo di registrazione occulto. Alla luce di ciò, non appaiono condivisibili le affermazioni di chi ritiene improbabile «che il cittadino vittima di reato il quale intenda precostituirsi una prova della condotta delittuosa tenuta a suo danno […] sia sempre e comunque in grado di dotarsi autonomamente di tutta la strumentazione tecnica necessaria per raggiungere il fine prefissato» (25). A tutto concedere, qualora il mezzo utilizzato sia nella titolarità della vittima, si potrebbe auspicare che, al fine di evitare una possibile alterazione volontaria del contenuto della registrazione (26) (operazione, quest’ultima, che alla luce della moderna tecnologia può essere eseguita anche dal semplice cittadino), si proceda all’acquisizione della stessa sempre attraverso la cd. copia forense, cui potrebbe altresì conseguire la trascrizione sotto forma di perizia del contenuto vocale di quest’ultima (27). Alla luce di tali puntualizzazioni, occorre adesso individuare la modalità di ascolto da parte dell’organo investigativo.
(25) È l’impostazione sostenuta da deCAroLi, Revirement sulle registrazioni, cit., 1277. In senso difforme, CoLAMuSSi, Comunicazioni a distanza apprese dall’inquirente per volontà di un conversatore, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 53 secondo la quale «non conta che lo strumento della captazione sia fornito o meno dalla polizia». (26) Al riguardo la giurisprudenza ha affermato che «nel caso in cui risulti accertato che detta registrazione presenta delle manipolazioni che rendono discontinua la conversazione, è necessaria una specifica valutazione della sua capacità probatoria, avuto riguardo alle ragioni della manipolazione medesima» (cfr. Cass. 3 novembre 2017, n. 1422, in Dejure). (27) A tal proposito, è opportuno richiamare quelle pronunce della Corte eur. dir. umani secondo le quali devono considerarsi lesive del giusto processo tutte quelle ipotesi in cui uno Stato non disciplini le modalità attraverso cui l’indagato – ed il difensore – possono valutare la «qualità della prova» con specifico riferimento alla sua affidabilità ed accuratezza (cfr., fra le molte, C. eur. dir. umani 17 settembre 2013, Horvatic c. Croazia). Nel caso in oggetto, risulta chiaramente che quest’attività sia stata contestuale, poiché la vittima ha inoltrato la chiamata in corso con l’indiziato proprio sull’utenza di un carabiniere in servizio presso la Procura della Repubblica di Ancona. Sennonché, prima di soffermarsi sulle possibili conseguenze dell’ascolto contestuale, devono essere premesse alcune considerazioni in merito ad un passaggio della sentenza nel quale si afferma che la modalità dell’ascolto (in diretta o in differita) è assolutamente irrilevante ai fini della determinazione della disciplina applicabile (28). L’assunto, per come formulato, non può essere condiviso. È noto, infatti, che laddove l’ascolto avvenga in differita (indipendentemente, lo si ribadisce, dalla titolarità del mezzo utilizzato) si ricada in quel contrasto giurisprudenziale che, anche a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite Troise (29), vede contrapporsi, essenzialmente, tre filoni interpretativi differenti. In sintesi, secondo una prima impostazione (30) – ad oggi minoritaria – la registrazione, costituendo una mera memorizzazione di un fatto storico, risulterebbe legittimamente utilizzabile in dibattimento ai sensi dell’art. 224 c.p.p. In base ad una diversa lettura (31), invece, la registrazione fra presenti così eseguita non sarebbe altro che una modalità per aggirare surrettiziamente la disciplina delle intercettazioni e le regole che impongono strumenti tipici per degradare la segretezza delle comunicazioni costituzionalmente protetta. Infine, negli ultimi anni si è sviluppato un cospicuo filone interpretativo (32), cd. intermedio, in base al quale si ritiene che – anche sulla scorta delle indicazioni fornite
(28) Così si legge nel principio di diritto enunciato in sentenza. (29) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 maggio 2003, n. 36747, cit. (30) All’interno di tale filone giurisprudenziale si possono riscontrare due orientamenti differenti che, tuttavia, possono essere equiparati. Talune pronunce, infatti, si concentrano esclusivamente sull’ipotesi nella quale chi partecipa al colloquio registri su impulso o suggerimento della polizia giudiziaria (cfr., ex plurimis, Cass. 6 ottobre 2016, n. 50986, in Dejure; Cass. 29 settembre 2015, n. 4287, in Dejure; Cass. 24 febbraio 2009, n. 16986, in Dejure). Altre, invece, affrontano il caso in cui è la stessa autorità inquirente a fornire il mezzo captativo (cfr., ex multis, Cass. 21 ottobre 2016, n. 3851, in Dejure; Cass. 4 dicembre 2013, n. 7767, in Dejure; Cass. 24 febbraio 2010, n. 9132 con nota critica di CentorAMe, Registrazioni “occulte” di conversazioni, cit., 1399 ss.; Cass. 11 aprile 2007, n. 16886, in Dejure). (31) Cfr. Cass. 6 novembre 2008, n. 44128, in Dejure; Cass. 20 novembre 2000, n. 3846, in Dejure. (32) Cfr., fra le molte, Cass. 11 luglio 2017, n. 48084, in Dejure; Cass. 23 marzo 2016, n. 39378, in Dejure; Cass. 2 marzo 2016, n. 24288, in Dejure; Cass. 20 marzo 2015, n. 19158, in Dejure, nella quale è stata ritenuta sufficiente una mera autorizzazione orale del p.m.; Cass. 29 gennaio 2014, n. 7035, in Dejure; Cass. 10 ottobre 2012, n. 42939, in Dejure.
dalle Sezioni Unite Prisco (33) in merito alla differenza fra documento e documentazione dell’attività di indagine – la registrazione così effettuata sia caratterizzata da un’intrinseca “vocazione processuale”, con la conseguenza che essa dovrebbe essere qualificata come atto di indagine e non come documento (34). Tuttavia, lo strumento d’indagine in oggetto, pur non costituendo documento – si afferma – non potrebbe essere ricondotto, sic et simpliciter, nell’alveo delle intercettazioni, data l’assenza del requisito della terzietà del captante. Nella ricerca di una soluzione di compromesso, l’orientamento in esame fa proprio il monito della Corte costituzionale (35) che «ha invitato […] il giudice a valutare, ove ritenga che l’attività investigativa in questione contrasti con diritti fondamentali, la praticabilità di una soluzione analoga, mutatis mutandis, a quella adottata dal Sez. Un., n. 26795 del 28/3/2006, Prisco» (36). In quella sede, com’è noto, il Supremo consesso ha stabilito che nelle ipotesi di videoriprese eseguite in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma comunque meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., vi è la necessità di un provvedimento autorizzativo del pubblico ministero o del g.i.p. affinché risulti effettivo quel «livello minimo di garanzia» cui la stessa Corte delle leggi ha fatto più volte riferimento (37). Tale modus operandi viene ripreso dal filone giurisprudenziale in oggetto per sostenere l’utilizzabilità delle dichiarazioni registrate solo in presenza di un provvedimento autorizzativo, ancorché diverso da quello di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. Le registrazioni fonografiche così eseguite, infatti, incidono certamente sul diritto alla segretezza tutelato dall’art. 15 Cost. producendo, tuttavia, un livello di intrusione minore nella sfera di libertà del singolo rispetto a quanto è dato rilevare nel caso delle intercettazioni. In questo senso, la tesi da ultimo ricordata sembrerebbe accogliere quell’impostazione dottrinale minoritaria, di cui si è detto sopra (38), che già da tempo metteva in risalto come nell’ipotesi della registrazione fra presenti vi fosse una lesione, oltre che della riservatezza, anche della segretezza tutelata dall’art. 15 Cost. Ma è proprio con riguardo a tale ultimo aspetto, indubbiamente positivo, che parte della dottrina (39) ha obiettato come, sep-
(33) Cfr. Cass. Sez. Un. 28 marzo 2006, n. 26795, cit. (34) Cfr. Cass. 20 marzo 2015, n. 19158, cit. (35) Cfr. Corte cost. 3 novembre 2009, n. 320, in Dejure. (36) Così, Cass. 11 luglio 2017, n. 48084, cit. (37) Cfr. Corte cost. 26 febbraio 1993, n. 81, in Dejure; Corte cost. 7 luglio 1998, n. 281, in Dejure. (38) Cfr. supra nota 7. (39) AnGeLoni, Note in tema di registrazioni fonografiche, in Giur. it., 2011, 1; deL CoCo, Registrazioni audio-video effettuate da un privato su impulso pur le premesse in ordine alla violazione della segretezza delle comunicazioni siano da condividere, la soluzione a cui giunge l’interpretazione giurisprudenziale appare comunque lesiva dell’art. 15 Cost. A ben vedere – si sostiene – «occorreva, comunque, inferirne la illegittimità dell’operazione, dal momento che la norma costituzionale impone non solo l’obbligo del provvedimento motivato dell’organo giurisdizionale, ma anche (e soprattutto) l’espressa previsione di legge» (40). La registrazione fra presenti eseguita su impulso della polizia giudiziaria, secondo quest’ultima esegesi, indipendentemente dalle modalità di ascolto (in diretta o in differita), dovrebbe essere ricondotta nella disciplina delle registrazioni ambientali (41). Orbene, l’errore interpretativo in cui incorre la sentenza in commento sembra trovare la sua spiegazione proprio all’interno di un ulteriore passaggio della medesima pronuncia. Nel par. 2.1.5 il giudice di legittimità, infatti, pare non cogliere a pieno la tripartizione del contrasto sopra brevemente illustrato, in quanto pone in contrapposizione due pronunce che, a ben vedere, si occupano di fattispecie concrete differenti fra loro. Da un lato, richiama la prima delle tesi giurisprudenziali sopra esposte e, dall’altro, riferisce dell’orientamento giurisprudenziale volto a qualificare come vere e proprie intercettazioni tutte quelle ipotesi nelle quali la registrazione avviene d’intesa con polizia giudiziaria e mediante ascolto contestuale. Completamente ignorato, da parte del giudice di Cassazione, è l’orientamento intermedio ed attualmente maggioritario. Peraltro, quest’approssimazione ricostruttiva si riflette anche nel paragrafo successivo (2.1.6) allorquando si precisa che «il fatto verificatosi, alla luce della sua reale dinamica, non può farsi rientrare nella casistica della documentazione di un atto di indagine, come tale sottoposto al regime autorizzatorio degli artt. 266 ss. cod. proc. pen.». Ora, come si è già avuto modo di ricordare, laddove la registrazione fra presenti sia qualificata come documentazione di un atto di indagine (circostanza, quest’ultima, oggetto del contrasto) la giurisprudenza non richiede il regime autorizzatorio degli artt. 266 ss. c.p.p., bensì ritiene sufficiente un mero decreto autorizzativo del pubblico ministero. Affermare, pertanto, che «la documentazione di un atto di indagine» è, come tale, «sottoposta al regime autorizzatorio degli artt. 266
dell’investigatore, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 3 ss. (40) deL CoCo, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 16. In termini non dissimili, niCoLiCChiA, I controlli occulti e continuativi, cit., 25. (41) È la tesi sostenuta da deL CoCo, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 18. Nello stesso senso, AnGeLoni, Note in tema di registrazioni fonografiche, cit., 1.
ss. cod.proc.pen.» è contrario all’attuale orientamento giurisprudenziale maggioritario. Sennonché, si potrebbe replicare sostenendo che non si tratti di una svista ricostruttiva, bensì di una scelta consapevole: la Corte intenderebbe alludere ad un’interpretazione secondo la quale laddove l’operazione sia concretamente qualificata come documentazione di attività di indagine dovrebbe trovare applicazione, sempre e comunque, la disciplina più garantistica degli artt. 266 ss. c.p.p. Se così fosse, tuttavia, i giudici di legittimità avrebbero dovuto esporre analiticamente le ragioni di una scelta siffatta; attività, quest’ultima, della quale non vi è traccia.
4.1.1. Osservazioni critiche
Tanto osservato, e tornando all’esame della fattispecie concretamente prospettatasi – vale a dire l’ipotesi di un ascolto indiscutibilmente contestuale – la Corte, dopo aver escluso che si possa ricadere nel contrasto giurisprudenziale poc’anzi ricordato, conclude affermando che «la registrazione effettuata […] rappresenta una semplice trasposizione del contenuto del supporto magnetico e costituisce una mera forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile quale prova documentale» (42). Preliminarmente, si deve osservare come anche rispetto a tale circostanza emerga un palese “strabismo fattuale”: da un lato, nel par. 2.1.6 si sostiene che i carabinieri «registrarono» la telefonata intercorsa tra la vittima ed il reo; dall’altro, nell’affermare il principio di diritto, si precisa che «la registrazione di conversazioni da parte del privato […] vien[e] immediatamente girata alle forze dell’ordine». Delle due l’una: la registrazione è materialmente eseguita dalla vittima oppure dalle forze dell’ordine. Il dato, di per sé irrilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile, rende contezza, ancora una volta, dell’approssimazione ricostruttiva della fattispecie concreta che permea l’intera pronuncia. Ma, al di là di questa considerazione, la conclusione alla quale giunge la Corte appare poco convincente. Giova ricordare, infatti, che stiamo ipotizzando un caso in cui la vittima inoltri la chiamata telefonica intercorrente con il presunto autore del reato alle forze dell’ordine, preventivamente allertate, che procedono all’ascolto ed alla contestuale registrazione. Orbene, rispetto a casi di questo tipo la Corte costituzionale ha affermato – nella pronuncia volta a differenziare la disciplina applicabile nelle ipotesi di ascolto contestuale da quelle di ascolto differito – che «anche quando è lo stesso denunciante a sollecitare l’intercettazione ed è quindi quasi sempre partecipe […] gli artt. 266-271
(42) Cfr. par. 2.2 della sentenza in commento. cod. proc. pen. debbono trovare applicazione» (43). Parte della giurisprudenza successiva ha fatto proprio il monito della Corte delle leggi ritenendo necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria nel caso in cui taluno, d’intesa con le forze di polizia, registri una conversazione all’insaputa dell’interlocutore permettendo, altresì, l’ascolto contestuale dell’organo inquirente. In simili circostanze, infatti, «sussisterebbe una vera e propria intromissione nella sfera di segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata e si realizzerebbe indirettamente una intercettazione ambientale senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria» (44). Invero, anche senza un espresso richiamo alla pronuncia della Corte costituzionale – la cui lettura appare, secondo taluno, alquanto «ostica» (45) – la reiezione della tesi accolta dalla sentenza in epigrafe viene sostenuta da una parte della dottrina attraverso il richiamo alla cd. prova incostituzionale. L’acceso dibattito sul tema è noto (46). Per quel che interessa in questa sede, è sufficiente ricordare che secondo una certa impostazione l’art. 189 c.p.p. non potrebbe operare in quei casi nei quali l’acquisizione della prova avvenga in violazione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Cosicché, nell’ipotesi di registrazioni occulte, pur non potendo assoggettare quest’ultime alla disciplina delle intercettazioni, la violazione della doppia riserva di legge e di giurisdizione di cui all’art. 15 Cost. dovrebbe comportare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni ai sensi dell’art. 191, comma 1, c.p.p. (47). Senonché, al fine di sostenere l’infondatezza dell’assunto giurisprudenziale potrebbe farsi riferimento anche ad un percorso argomentativo differente. È proprio valorizzando la pronuncia della Corte delle leggi testé richiamata, infatti, che sembra emergere con
(43) Corte cost., 3 novembre 2009, n. 320, cit. (44) Così, Cass. 24 febbraio 2010, n. 9132, cit. Conforme, da ultimo, Cass. 23 marzo 2016, n. 39378, cit. (45) Così, tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2019, 424. Sul punto, altresì, MAGGio, Ascolto occulto delle conversazioni tra presenti, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2014, 396 secondo la quale «le postulate differenziazioni fra ascolto “diretto” e “differito” non appaiono del tutto univoche e convincenti». (46) Per una sintesi delle posizioni dottrinali, con particolare riferimento al tema in oggetto, si vedano MAGGio, La registrazione occulta curata da una persona presente al colloquio, in Le indagini atipiche a cura di Scalfati, Torino, 2019, 81-87; ViLLAni, La Corte ribadisce i rapporti tra legalità costituzionale, legalità sostanziale e legalità processuale, in Giur. cost., 2009, 48294833. (47) In questo senso, MAGGio, La registrazione occulta, cit., 83; GiunChedi, Captazioni “anomale” di comunicazioni: prova incostituzionale o mera attività di indagine?, in Proc. pen. giust., 2014, 136-137; dinACCi, L’irrilevanza processuale delle registrazioni, cit., 6; AnGeLoni, Note in tema di registrazioni fonografiche, cit., 184.
tutta la sua forza l’inattualità di una nozione di intercettazione (quella cd. tradizionale, avallata anche dalla sentenza in commento (48)) che, nella società odierna, non riesce più a garantire un’effettiva tutela dei diritti costituzionali. Con riguardo a tale ultimo aspetto, la crescente evoluzione e diffusione dei mezzi di captazione delle conversazioni, presenti in grande quantità anche negli smartphone di uso quotidiano, induce a riflettere sulla ostinata tendenza a voler valorizzare, sempre e comunque, la terzietà (e clandestinità) del soggetto captante come elemento imprescindibile ai fini dell’integrazione della fattispecie captativa. Com’è stato condivisibilmente osservato, «l’evoluzione tecnologica fa sì che il mezzo utilizzato per la comunicazione (es. un cellulare) si presti a costituire allo stesso tempo un facile e maneggevole mezzo di captazione» (49); prova ne sia, nel caso di specie, la registrazione materialmente eseguita dalla polizia giudiziaria con l’applicazione Call Recorder presente nel telefono di servizio di un carabiniere. I tempi, allora, sembrano maturi per una riflessione in ordine alla possibilità di rendere concretamente operativa quella risalente (e minoritaria), ma quantomai attuale, esegesi dottrinale (50) volta ad includere nel concetto di intercettazione anche tutte quelle ipotesi in cui la captazione avvenga all’insaputa di almeno uno dei partecipanti. Affinché si abbia intercettazione, perciò, non sarebbe necessario che tutti i colloquianti ignorino la presenza del terzo captante. Ebbene, sulla scorta di tali considerazioni si potrebbe sostenere che la tesi in esame debba trovare applicazione tutte le volte in cui il colloquio fra presenti venga contestualmente ascoltato e registrato, esclusivamente, dalla polizia giudiziaria (51). L’assunto si fonda, in primo luogo, sulla presa d’atto della distinzione che sussiste fra il caso in cui la vittima, d’intesa con la polizia, registri un colloquio che viene contestualmente ascoltato da quest’ultima e, viceversa, l’ipotesi di un’intercettazione ambientale. A ben vedere,
(48) Cfr. par. 2.1.5 della sentenza in epigrafe. (49) SurACi, La nozione “post-moderna” di intercettazioni, cit. (50) Cfr. CAMon, Le intercettazioni, cit., 20-22; FiLippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., 20 secondo cui «perché si abbia intercettazione non è necessario che tutti i conversanti o comunicanti ignorino che un terzo è in condizioni di captare il loro messaggio». Più di recente, deL CoCo, Registrazioni audio-video effettuate da un privato, cit., 18. Contra, fra i molti, iLLuMinAti, La disciplina processuale delle intercettazioni, Milano, 1983, 35 ss. (51) Contrario ad un’impostazione di questo tipo sembra essere GiunChedi, Captazioni “anomale” di comunicazioni, cit., 136 secondo il quale l’ipotesi in esame non soddisfa i tre requisiti «unanimemente riconosciuti» per l’integrabilità della fattispecie captativa, difettando la terzietà di colui che esegue l’intercettazione. Nello stesso senso d’ALeSSio, Osservazioni a Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084, in Cass. pen., 2018, 2937 per il quale «le due fattispecie [in esame] non sembrano essere assimilabili». infatti, nel primo caso l’organo inquirente non può essere definito come terzo assolutamente estraneo rispetto ai dialoganti, poiché «l’operazione [è] effettuata di nascosto, ma non all’oscuro di tutti: la collaborazione di uno dei colloquianti si rivela infatti indispensabile, e il suo comportamento sarà comunque influenzato dalla conoscenza dell’attività investigativa in corso» (52). Tuttavia, l’impostazione potrebbe essere criticata nel momento in cui finisce per operare un’ingiustificata differenziazione fra il caso in cui l’estraneo al colloquio, che capta il segnale per volontà della vittima, sia un agente di polizia giudiziaria, dall’ipotesi nella quale il soggetto esterno sia un terzo qualunque. La censura, a tutto concedere, non sarebbe comunque fondata. Indipendentemente dalla lettura che si intenda offrire dell’art. 15 Cost., infatti, l’art. 8, comma 2, CEDU stabilisce che, di regola, la riservatezza della vita privata non può essere limitata dall’ingerenza di «un’autorità pubblica». A questo proposito, la Corte di Strasburgo, già da tempo, ha precisato che la registrazione fra presenti gestita dagli organi investigativi costituisce un’indebita ingerenza nella vita privata dei cittadini, salvo che tale limitazione sia prevista dalla legge e sia necessaria per la tutela, fra le altre, della pubblica sicurezza (53). Ora, benché il terzo “comune” e la polizia giudiziaria debbano essere entrambi qualificati alla stregua di soggetti “formalmente” terzi rispetto alla captazione, non sfugge tuttavia che l’art. 8 CEDU, così per come interpretato dalla Corte, consenta di creare una «“speciale riservatezza” opponibile solo alla polizia giudiziaria» (54). Di talché, la distinzione – asseritamente illegittima – si giustificherebbe proprio alla luce della circostanza che il terzo captante si identifica con «un’autorità pubblica». Ma non è tutto. La reiezione della soluzione offerta dalla sentenza in commento riguarda anche un ulteriore passaggio, diverso ma strettamente legato a quanto detto poc’anzi, nel quale si afferma che «nulla sarebbe cambiato se i carabinieri, dopo aver ascoltato (legittimamente) la telefonata, si fossero limitati a verbalizzare quanto ascoltato» (55). Orbene, pur essendo evidente che nell’ipotesi alternativa prospettata dalla Corte – la cd. prova di resisten-
(52) Così, MiLAni, Ancora irrisolto il problema della riconducibilità delle captazioni operate dall’agente attrezzato per il suono, cit., 4841. (53) Cfr., tra le tante, C. eur. dir. umani 10 febbraio 2009, Iordachi c. Moldavia, in Cass. pen., 2009, 4021 con nota di BALSAMo, Intercettazioni: gli standards europei, la realtà italiana, le prospettive di riforma. (54) Così Leo, Necessario il provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria per il ricorso al cd. agente segreto attrezzato per il suono, in Dir. pen. cont. - Riv. Trim-, 2016, 166. (55) Cfr. par. 2.2 della pronuncia in commento.
za – la polizia giudiziaria ricopra un ruolo meramente “passivo”, in quanto si limita all’ascolto senza registrare, non può tuttavia essere sottaciuto come la mera verbalizzazione costituisca un’attività di indagine atipica sottoposta, volendo seguire l’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario – ma ignorato dalla sentenza in esame – a quel regime autorizzatorio “ridotto” cui si è fatto cenno. Per vero, una certa dottrina ha osservato come attività di questo tipo, eseguite in assenza di un’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, debbano ritenersi utilizzabili esclusivamente quali spunti investigativi. Le informazioni così acquisite, si è osservato, «dovranno essere oggetto di approfondimenti, riscontri e verifiche ulteriori attraverso strumenti, tipizzati dal legislatore, che consentano di soddisfare le esigenze investigative senza creare pregiudizio alle garanzie dei diritti fondamentali» (56). Ad ogni modo, indipendentemente dall’accoglimento della tesi giurisprudenziale ovvero dell’esegesi dottrinale, l’assunto fatto proprio dalla sentenza in commento desta non poche perplessità: l’attività di mera documentazione, a ben vedere, differisce non poco dalla registrazione del colloquio operata dalla polizia giudiziaria d’intesa con la vittima e contestualmente all’ascolto.
Occorre adesso analizzare la seconda ipotesi che si potrebbe essere concretamente verificata nel caso di specie – data l’assoluta ambiguità della pronuncia – vale a dire il caso in cui la vittima abbia utilizzato un proprio strumento (lo smartphone), ma senza alcuna preventiva intesa con la polizia giudiziaria. In premessa, merita di essere condiviso l’orientamento giurisprudenziale che ritiene viziata da una «consequenzialità [il]logica» l’affermazione di quanti sostengono che «poiché la polizia giudiziaria era a conoscenza dei fatti per avere ricevuto la denuncia [da parte della persona offesa], essa abbia necessariamente concordato e coordinato le successive registrazioni effettuate dalla vittima con il proprio cellulare» (57). La mera presentazione di una denuncia-querela, infatti, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di una registrazione eseguita, nel corso del procedimento, dalla persona offesa di sua libera iniziativa. Ciò detto, è evidente che anche il colloquio così strutturato possa essere ascoltato dagli inquirenti in diretta ovvero in differita. Nel caso di specie, come già osservato, è pacifico che l’ascolto sia avvenuto con la prima modalità.
(56) CoLAMuSSi, Comunicazioni a distanza apprese dall’inquirente, cit., 58. (57) Così, Cass. 22 gennaio 2013, n. 6339, in Dejure. Orbene, applicando le stesse argomentazioni utilizzate nell’ipotesi precedente (cioè nella registrazione d’intesa) si potrebbe concludere nel senso che anche qualora la registrazione sia effettuata sua sponte dalla vittima nel corso del procedimento, la polizia giudiziaria «continua a rimanere, comunque, un soggetto che capta segnali» (58) e ciò, a ben vedere, sarebbe sufficiente a procedimentalizzare l’operazione. Infatti, pur in assenza di un iniziale accordo tra la vittima e l’organo investigativo, nel momento in cui il colloquiante “chiama in causa” la polizia consentendole di ascoltare in diretta la conversazione, non v’è dubbio che l’atto assuma, comunque, una valenza procedimentale. A questo punto, due sembrano essere le soluzioni astrattamente prospettabili. Per un verso, valorizzando ed implementando l’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario (cd. intermedio), si potrebbe affermare che, pur in assenza di un accordo iniziale, la vocazione procedimentale “sopravvenuta” dell’atto in questione imponga, comunque, la necessità di un provvedimento autorizzatorio, seppur diverso da quello di cui agli artt. 266 ss. c.p.p. Per altro verso, laddove si ritenga di aderire a quell’impostazione volta a mutare radicalmente il concetto di intercettazione, si dovrebbe concludere nel senso che anche in questo caso l’assenza del decreto ex art. 267 c.p.p. importi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni apprese nel corso del colloquio registrato.
5. Brevi considerazioni conclusive
Ciò che appare oltremodo evidente dalla lettura della pronuncia in commento è l’assenza di una ricostruzione chiara e precisa circa l’andamento dei fatti. Tutto ciò si riflette sulla corretta individuazione della disciplina giuridica applicabile, tant’è vero che il principio di diritto enucleato dal giudice di legittimità appare del tutto slegato dalla fattispecie concreta che ne dovrebbe costituire il substrato argomentativo (59). Cosicché, in presenza di una massima avulsa dal contesto fattuale di riferimento, la sentenza in epigrafe sarà destinata ad essere “inutilizzata” nelle aule dei tribunali; ed in effetti, il magistrato o l’avvocato che intenda servirsene si troverà a doversi confrontare con una fattispecie, in concreto, non identificabile. Ma vi è di più. L’attività nomofilattica della Suprema Corte si fonda, essenzialmente, sui principi di diritto enunciati dalle varie pronunce. Questi ultimi vengono comunemente de-
(58) Così, SurACi, La nozione “post-moderna” di intercettazioni, cit. (59) Nello stesso senso, CheLo, Colloqui privati e intercettazioni telefoniche, cit., secondo la quale «emerge, dunque, un evidente contrasto tra le premesse contenute nel richiamato principio di diritto e la decisione assunta nel caso concreto».
finiti come la «generalizzazione della interpretazione ed applicazione della norma ad una fattispecie concreta»; infatti, una volta individuata quest’ultima, il giudice, mediante un percorso argomentativo volto a giustificare l’esegesi utilizzata, ricava una regola capace di «universalizzare la decisione individuale» (60). Ora, il presupposto implicito per procedere a tale “universalizzazione” – in assenza della quale «le pronunce non sarebbero mai destinate ad essere applicate con certezza nel futuro» (61) – è che la massima giurisprudenziale si riferisca a fatti concreti che siano espliciti e chiaramente individuati. Quest’ultima considerazione, a ben vedere, risulta ancora più attuale se si pone l’accento sulla circostanza per cui, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una vera e propria «supplenza legislativa» (62) da parte della giurisprudenza di legittimità. In un sistema come il nostro che tende a valorizzare sempre di più la nomofilachia attraverso il precedente (63), l’individuazione della fattispecie concreta oggetto di causa costituisce l’antecedente logico-necessario per giustificare l’enunciazione di una regola generale applicabile erga omnes. Se così non fosse – come sembra essere avvenuto nel caso di specie – l’enucleazione di quest’ultima risulterebbe viziata all’origine. Da ultimo, mette conto rilevare come la tematica concernente l’utilizzabilità probatoria della registrazione di colloqui fra presenti si inserisca, a pieno titolo, in quel dibattito – molto più ampio – in ordine a ciò che è stato efficacemente definito, a ragione, come «un dato dell’esperienza giudiziaria penale che è da sempre tra i più tormentati […]: l’apporto testimoniale dell’imputato» (64). Dall’analisi della quaestio iuris sottesa alla pronuncia in epigrafe, infatti, emerge chiaramente una tendenza giurisprudenziale incline a valorizzare la figura dell’imputato quale fonte di prova, in un’ottica di irrinunciabilità processuale dell’apporto conoscitivo offerto da quest’ultimo. Sennonché, un simile contegno, com’è stato osservato, rischia di sfociare in un «atteggiamento inquisitorio nei confronti dell’imputato, nei cui riguardi finisce per scolorirsi la garanzia del diritto di difesa» (65).
(60) Cfr., per entrambe le citazioni, de AMiCiS, La formulazione del principio di diritto e i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite penali della corte di cassazione, in Dir. pen. cont., 4 dicembre 2019. (61) Si veda, ancora, de AMiCiS, La formulazione del principio di diritto, cit. (62) L’icastica espressione è riferibile a MAzzA, Conciliare l’inconciliabile: il vincolo del precedente nel sistema di stretta legalità (civil law), in Arch. pen. - Suppl., 2018, 731. (63) In questo senso, si veda il nuovo testo dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p. In argomento, seppur con diverse sfaccettature, FideLBo, Verso il sistema del precedente? Sezioni unite e principio di diritto, in Dir. pen. cont., 29 gennaio 2018; inSoLerA, Nomofilachia delle Sezioni unite, non obbligatoria, ma dialogica: il fascino discreto delle parole e quello indiscreto del potere, in Arch. pen. - Suppl., 2018, 733 ss.; iASeVoLi, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, in Giur. it., 2017, 2300 ss.; de CAro, Riflessioni sparse sul nuovo assetto nomofilattico. Le decisioni vincolanti delle Sezioni unite al cospetto del principio del giudice soggetto solo alla legge: un confine violato o una frontiera conquistata?, in Arch. pen. - Suppl., 2018, 749 ss. (64) Cfr. GiArdA, Persistendo ‘l reo, cit., 8. (65) Così, ancora, GiArdA, Persistendo ‘l reo, cit., 8.
Immagini indebitamente carpite e diffusione sul web: sulla rilevanza scriminante della difesa da “pericolo informatico”
uFFiCio deL GiudiCe per Le indAGini preLiMinAri di LAtinA; decreto di archiviazione 3 agosto 2020; Gip dott. Giuseppe Molfese; Imp. De Martino Stefano, Rodrigues Maria Belen, Perez Blanco Sorge Sebastian, che richiama integralmente le argomentazioni esposte dal Pubblico Ministero, dott. Carlo Lasperanza, con la richiesta di archiviazione del 5 giugno 2020, di seguito riportata (*).
Il discrimen tra il delitto di rapina (art. 628 c.p.) e il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) risiede nell’effettiva volontà dell’agente, laddove nel primo caso la violenza è esercitata per la pretesa di un profitto ingiusto che non compete, privo cioè di tutela legale, mentre nel secondo caso, la finalità della violenza è la difesa di un diritto tutelabile (o ritenuto tale), che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Infatti, entrambe le condotte potrebbero sovrapporsi sul piano applicativo poiché entrambe potrebbero estrinsecarsi in una azione violenta o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose. Nell’indagine dell’elemento soggettivo del reato risulta rilevante, ai fini della qualificazione della fattispecie nell’art. 393 c.p., la finalità degli indagati di scongiurare un qualsiasi uso di immagini carpite indebitamente e lesive della reputazione e del decoro della persona ritratta, attraverso l’impossessamento, tramite violenza, dei supporti contenti dette immagini, costituendo detta appropriazione l’unico modo per impedirne la diffusione, considerando anche che le stesse immagini avrebbero potuto essere caricate nel web in tempo reale, grazie a quanto consentito dall’attuale tecnica informatica, e che neppure la cancellazione immediata del contenuto dei supporti avrebbe consentito di escludere una possibile pubblicazione delle immagini, posto che con appositi software, facilmente reperibili sul web, possono essere sempre riestratte anche dopo la eventuale formattazione del supporto medesimo.
(*) Motivi della decisione
L’imputazione iniziale a carico degli indagati è stata di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone, ex art. 393 c.p. oltre che di lesioni ex 582 c.p. Nel corso del giudizio avanti al Tribunale Monocratico, all’esito dell’esame delle persone offese si è ritenuto di qualificare l’imputazione, contestando in luogo del reato di cui all’art. 393 c.p., quello di cui all’art. 628, terzo comma, c.p., alla quale è seguita la restituzione degli atti al P.m., attesa la competenza del Tribunale collegiale che si era venuta a determinare. Di conseguenza è stato notificato agli indagati ed ai loro difensori l’avviso di cui all’art. 415bis c.p.p., contenente la nuova ipotesi accusatoria, come in rubrica indicata. I difensori, nei termini previsti, hanno depositato memorie difensive finalizzate ad ottenere la richiesta di archiviazione, evidenziando punti di criticità della nuova accusa. In breve sintesi, va detto che il fatto si è svolto tra le acque dell’isola di Palmarola ed il Porto di Ponza ed è consistito nella sottrazione alle persone offese delle macchine fotografiche appena utilizzate per cogliere Maria Belen Rodriguez nell’atto di urinare dopo essersi sporta fuori del natante, ove si trovava insieme agli indagati ed alla sorella Cecilia Rodriguez. Emerge dagli atti, che ritenendo lo scatto inadeguato, il De Martino ed il Perez Blanco, accostarono al natante dei fotografi e vi salirono a bordo per presentare le loro rimostranze. Ne nacque una colluttazione durante la quale i fotografi ebbero la peggio, riportando lievi lesioni personali. Di Martino e Perez Blanco presero le fotocamere e durante il rientro al Proto di Ponza vi estrassero le schede di memoria. Giunti al Proto restituirono subito le apparecchiature ai due fotografi, ma prive delle schede. Dallo svolgimento dei fatti emerge quindi, distintamente, il fine perseguito dagli indagati di scongiurare un
qualsiasi uso delle immagini indebitamente carpite e non certo quello di appropriarsi di alcunché. La pressoché immediata restituzione delle fotocamere avvalora la tesi. Quanto ai supporti, invece, il fatto che contenessero le immagini in questione deve ritenersi rilevante e dirimente, poiché l’appropriazione degli stessi in quel frangente costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione. Tanto è vero che astrattamente avrebbero potuto essere messe sul web, in tempo reale, stante lo state attuale della tecnica informatica. Peraltro, nemmeno la cancellazione immediata del contenuto avrebbe posto al sicuro dalla possibile pubblicazione degli scatti, posto che con appositi software facilmente reperibili sul web, possono essere comunque sempre riestratti, financo dopo la eventuale formattazione del supporto medesimo. Se quest’ultima considerazione verosimilmente il magistrato che fosse stato interessato per l’emissione di un provvedimento d’urgenza avrebbe tolto la disponibilità dei supporti alle persone offese e successivamente decidendo nel merito, ne avrebbe ordinato la distruzione. Dunque, non v’è alcun dubbio sulla effettiva volontà degli indagati di agire nella ragionevole convinzione di difendere un loro diritto. Volontà che emerge chiaramente anche dalle tracce audio versate in atti dalle persone offese ed ascoltate in udienza. Circostanza questa assolutamente dirimente ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 628 c.p., ovvero quello di cui all’art. 393 c.p. posto che nel primo caso, la violenza è esercitata per la pretesa di un profitto ingiusto, che non compete, privo cioè di tutela legale, mentre nel secondo caso, la finalità della violenza è la difesa di un diritto tutelabile, che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria. Vieppiù, in questo caso, è sufficiente che l’autore del reato agisca anche nella sola ragionevole convinzione di difendere un diritto, che pertanto potrebbe poi in concreto non essere gratificato d’accoglimento in sede giudiziale. Dunque, ne deriva che a fronte della possibile comunanza dell’elemento materiale delle due figure criminose, soltanto il differente atteggiamento psicologico dell’agente è idoneo a stabilire il discrimine tra l’una e l’altra. In effetti, entrambe le condotte potrebbero sovrapporsi sul piano applicativo poiché entrambe potrebbero estrinsecarsi in un’azione violenta o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose. A tal fine, occorre indagare il coefficiente psichico dell’agente, che nella figura di cui all’art. 393 c.p. è rivolto ad ottenere un diritto che gli competerebbe giudizialmente, mentre nella figura di cui all’art. 628 c.p. è rivolto ad ottenere un vantaggio non riconosciuto dalla legge neanche astrattamente, che si identifica nella consapevolezza di ottenere un profitto ingiusto (così Cass. 23678/2015; Cass. 43325/2007). Orbene, nel caso che ci occupa il fine è palese: evitare la pubblicazione delle immagini. Una pretesa legittima ed assistita concretamente da ampia tutela giudiziale. Gli artt. 10 c.c. e 97, secondo comma, della legge 633/1941 costituiscono le principali norme di riferimento, laddove sottraggono al possessore dello scatto (ritratto) ogni possibile uso dello stesso quanto l’esposizione o la messa in commercio rechi pregiudizio alla reputazione o anche al decoro della persona ritratta, sicché non v’è dubbio che gli scatti che ci interessano avendo sorpreso Maria Belen Rodriguez nell’atto di urinare rientrino in detta tutela. Ciò vale anche tenuto conto della notorietà del personaggio, la cui diffusione delle immagini di regola è senz’altro consentita senza bisogno di consenso, ma solo se non le rechi pregiudizio alla reputazione o al decoro. La tutela è completata dal cosiddetto Codice della Privacy, L. 196/2003 e successive modifiche. Pertanto, in ragione della indiscutibile effettiva intenzione degli indagati nel compiere l’azione, s’impone il ripristino della qualificazione originaria dell’imputazione, ai sensi dell’art. 393 c.p. Di conseguenza, va anche esclusa l’aggravante dei futili motivi di cui all’art. 576 contenuta nel capo B dell’imputazione essendo ontologicamente incompatibile con la figura criminosa di cui all’art. 393 c.p. Ne deriva che, in ragione della remissione della querela intervenuta all’ultima udienza tenutasi avanti al Tribunale Monocratico il 27 gennaio 2020 e della contestuale accettazione, l’azione penale per i reati di entrambi i capi di imputazione, va ritenuta improcedibile.
IL COMMENTO
di Alessandra Gualazzi
Sommario: 1. La vicenda processuale. – 2. Le argomentazioni poste a fondamento della richiesta di archiviazione. – 3. La critica: corrette le premesse, “evitata” la soluzione. – 4. La sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’art. 52, c.p. – 5. Considerazioni finali.
Il presente contributo, nell’esaminare la decisione di derubricazione del delitto di rapina in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, prende in esame gli elementi valorizzati dal P.m. per la corretta qualificazione dell’elemento soggettivo del reato, ritenuto il discrimern tra i due illeciti. La finalità degli indagati di impedire la pubblicazione di immagini carpite indebitamente, tramite l’impossessamento dei supporti che le contenevano, era infatti espressione della volontà di esercitare un diritto e non, come richiesto per il delitto di rapina, di conseguire un profitto ingiusto. Tuttavia, la portata pregiudizievole di quelle immagini e la consapevolezza delle potenzialità delle moderne tecnologie informatiche, che consentono la pubblicazione e diffusione immediata di contenuti sul web, non sono state sufficienti a indurre il P.m. a ravvisare gli estremi per l’applicabilità della scriminante della legittima difesa che, invece, avrebbero potuto ritenersi sussistenti. The essay, in examining the decision to downgrade the crime of robbery (Art. 628, c.p.) to arbitrary exercise of one’s rights through violence to people (Art. 393 c.p.), analyses the factors highlighted by the prosecutor to correctly qualify the subjective elements of the offence, deemed to be the discrimen between the two crimes. Indeed, the defendants’ aim to prevent the publication of illegally obtained images by the acquisition of their storing devices, showed the intention to exercise a right rather than to acquire an unlawful gain which is one of the characterising elements of robbery. Nonetheless, according to the prosecution, neither the detrimental effect of those images nor the potential of the modern technology leading to the wide dissemination of illegal contents on the Internet, were sufficient to support a claim of self-defence that we consider subsisting.
1. La vicenda processuale
Le considerazioni che seguono prendono spunto dalle argomentazioni svolte dal Pubblico ministero di Latina a fondamento della richiesta di archiviazione nell’ambito di un procedimento penale che vede come indagati due personaggi dello spettacolo, ai quali veniva inizialmente contestato il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ex art. 393 c.p., con violenza alle persone, insieme al il delitto di lesioni ex art. 582, c.p. Le motivazioni a supporto della richiesta di archiviazione venivano integralmente richiamate e fatte proprie dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Latina il quale, con provvedimento del 31 luglio 2020, emetteva Decreto di archiviazione nei confronti dei tre indagati. I fatti da cui è scaturita l’originaria accusa di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e di lesioni lievi si svolgevano tra l’isola di Palmarola (arcipelago delle Isole Ponziane) e il Porto di Ponza e vedevano protagonisti, come indagati, tre soggetti di cui due personaggi dello spettacolo all’epoca legati tra loro da un rapporto sentimentale stabile, come persone offese, due fotografi freelancers che si trovavano in quel luogo per carpire immagini dei due personaggi noti in un contesto di “vita privata”. Il contesto in cui si svolgevano le condotte incriminate, infatti, vedeva i due personaggi noti, in compagnia di altri due soggetti (la sorella e il fidanzato della sorella della soubrette), a bordo di un gommone, nei pressi di Palmarola, approdato in una caletta per cercare un po’ di intimità. Durante questa sosta, il compagno della nota soubrette televisiva si accorgeva della presenza di due soggetti, a bordo di un altro gommone, impegnati a scattare fotografie di nascosto della ragazza nell’atto di urinare sporgendosi dal bordo del natante. Dopo aver inutilmente ingiunto a detti “paparazzi” di consegnare il supporto degli scatti, e ritenendo che gli stessi violassero la riservatezza della persona ritratta, il compagno della soubrette e l’altro uomo in compagnia dello stesso avvicinavano il gommone dei fotografi e, salendovi a bordo, sottraevano le macchine fotografiche ai due “paparazzi”, usando violenza scaturita da una colluttazione dovuta alla resistenza degli stessi nel consegnare i supporti richiesti. L’attrezzatura fotografica veniva poi restituita integra ai fotografi successivamente, al Porto di Ponza, dopo aver disinserito la scheda di memoria contenente gli scatti fotografici “abusivi”, al fine di sottrarla alla loro disponibilità. Come accennato, l’imputazione iniziale rivolta ai tre indagati (i due uomini aggressori, in concorso materiale, e la soubrette in concorso morale) riguardava i delitti di cui agli artt. 393 e 582, c.p. Tuttavia, nel corso del dibattimento avanti il Tribunale monocratico di Latina, all’esito dell’esame delle persone offese, il Pubblico ministero di udienza riteneva di dover riqualificare la contestazione in rapina aggravata (ex art. 628, c. 3, c.p.) in luogo dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone. Ne conseguiva la restituzione degli atti al P.m., stante la diversa e più garantita competenza del Tribunale collegiale per il delitto di rapina, e la successiva notifica agli indagati e ai loro difensori, per il “nuovo” reato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415bis, c.p.p.
A seguito del deposito di memorie difensive da parte dei difensori degli indagati, il Pubblico ministero procedente si determinava per una richiesta di archiviazione con la quale, per le motivazioni che si andranno ad analizzare, concludeva per l’insussistenza degli elementi integranti il delitto di rapina, riqualificando i fatti nell’ambito dello schema di reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone che, tuttavia, doveva ritenersi improcedibile – insieme al delitto di lesioni – per l’intervenuta remissione di querela dichiarata nel corso dell’ultima udienza del precedente procedimento avanti il Tribunale monocratico.
Le motivazioni offerte dal P.m. di Latina nella sua richiesta di archiviazione – integralmente richiamate dal Decreto in commento – concludevano per l’esclusione della sussistenza del delitto di rapina, (ri)affermando la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (ex art. 393, c.p.), ritenuto comunque improcedibile per remissione di querela. In particolare, l’organo di accusa, partendo dal presupposto della astratta “sovrapponibilità” delle condotte dei due reati (1), esclude il delitto di rapina avendo riguardo all’elemento soggettivo che richiede, per questo reato, che la violenza sia esercitata con la finalità di perseguire un profitto ingiusto (e, quindi, non dovuto in quanto privo di tutela legale) (2); diversamente, nel caso di cui all’art. 393 c.p., la finalità della violenza deve individuarsi nello scopo di difendere un diritto tutelabile giudizialmente, o anche nella mera, pur ragionevole,
(1) Il P.m. ritiene, infatti, che sul piano applicativo, le condotte di rapina e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone possano sovrapporsi, in quanto “entrambe potrebbero estrinsecarsi in una azione violenza o minacciosa espletata al fine di ottenere un bene che rientri nella disponibilità del soggetto passivo del reato, di tal che, la valutazione del solo elemento materiale non può essere utile a stabilire la linea di confine tra le due figure criminose”: così, Richiesta arch. P.m. Latina, p. 2. Negli stessi termini, in argomento, vedi Cass. pen., sez. II, 23 settembre 2008, n. 38517. (2) Vedi Cass. pen., sez. VI, 1° aprile 2015, n. 23678: “Ciò che distingue l’art. 393 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone) dall’art. 628 (rapina) è l’elemento soggettivo. Nel primo caso, esso consiste nella coscienza dell’agente che l’oggetto della propria pretesa gli competa giuridicamente, mentre nella rapina, l’agente ha la consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è giuridicamente azionabile”. Sul punto, la giurisprudenza è costante: Cass. pen., sez. II, 14 dicembre 2016, n. 11484; Id., sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43325, in Cass. pen., 2008, 3319; Id., sez. II, 27 febbraio 1997, Marino, ivi, 1998, 1625; Id., sez. V, 25 gennaio 1989, Lucci, ivi, 1990, 1034. Negli stessi termini, con riguardo alla differenza con il reato di violenza privata, si veda Cass. pen., sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288, Musa, in Cass. pen., 2017, 1485; Id., sez. V, 16 maggio 2014, n. 23923, Demattè. convinzione di difendere un diritto proprio o altrui (3). Dall’analisi dei fatti (4) emergeva inequivocabilmente che il fine perseguito dagli imputati, infatti, non era quello di impossessarsi di beni altrui, ma “di scongiurare un qualsiasi uso delle immagini indebitamente carpite” dai due fotografi, al fine di “evitare la pubblicazione delle immagini” ritenute pacificamente lesive della reputazione e del decoro della persona ritratta. Nell’indagare l’effettiva volontà degli indagati, il P.m. compie alcune considerazioni, relative al caso concreto, volte a sostenere la consistenza dell’elemento soggettivo nei termini anzidetti, qualificando conseguentemente la fattispecie in esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi dell’art. 393 c.p. L’appropriazione dei supporti fotografici contenenti le immagini pregiudizievoli – osserva il P.m. – “costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione”, in quanto astrattamente dette immagini avrebbero potuto essere messe sul web in tempo reale, stante lo stato attuale della tecnica informatica; peraltro – prosegue il P.m. – neppure la cancellazione immediata del contenuto dei supporti avrebbe posto al sicuro dalla probabile (recte: sicura) pubblicazione degli scatti, “posto che con appositi software facilmente reperibili sul web possono essere comunque sempre riestratti, financo dopo l’eventuale formattazione del supporto medesimo” (5). La tutela giurisdizionale disponibile, in tale ipotesi, sarebbe consistita nell’emissione di un provvedimento di urgenza che avrebbe tolto la disponibilità dei supporti alle persone offese, ordinandone successivamente la distruzione. In sostanza, l’organo di accusa, pur svolgendo corrette considerazioni in merito al pericolo di pubblicazione immediata di immagini “abusive” derivante dalle potenzialità incontrollabili delle nuove tecnologie informatiche, qualifica erroneamente la reazione a tale pericolo come un esercizio “arbitrario” di un diritto ritenuto diversamente (recte: giudizialmente) tutelabile e non, invece, come una difesa immediata e legittima di un diritto, perpetrata di fronte a un pericolo concreto di subire un’offesa ingiusta e irreparabile.
(3) In argomento, si vedano, di recente Cass. pen., sez. II, 11 settembre 2020, n. 26982; Id., sez. II, 15 marzo 2019, n. 22490; Id. 28 giugno 2016, n. 46288. (4) Le circostanze valorizzate dal P.m. sono, da un lato, il fatto che gli indagati salivano a bordo del natante delle persone offese presentando le proprie rimostranze rispetto all’inadeguatezza degli scatti, dall’altro, il gesto compiuto dagli indagati di estrarre le schede di memoria dalle apparecchiature fotografiche per poi restituire queste ultime ai legittimi proprietari, una volta rientrati nel Porto di Ponza. (5) Così, Richiesta arch. P.m. Latina, p. 2.
La sensazione di chi scrive è che l’organo di accusa, pur avendo svolto a monte un’analisi dei fatti puntuale e rigorosa, non abbia intesto spingersi fino al punto di riconoscere, nella condotta degli indagati, una reazione legittima – l’unica possibile – al concreto pericolo di un’offesa grave alla persona, limitandosi alla derubricazione della fattispecie di rapina nel reato di cui all’art. 393 c.p., non più procedibile – insieme a quello di lesioni – per avvenuta remissione di querela. Si ritiene, infatti, che nel caso analizzato siano rinvenibili tutti i presupposti, di fatto e di diritto, per l’operatività della scriminante della difesa legittima di cui all’art. 52, c.p., in quanto la condotta degli indagati più che finalizzata ad esercitare – seppur in maniera “arbitraria” – un diritto, veniva posta in essere con lo scopo preciso di difendere l’onore e la reputazione della persona ripresa dagli scatti fotografici, scongiurando un’offesa non altrimenti evitabile. Ciò in quanto, come ammesso dallo stesso P.m. nel provvedimento in analisi, la pubblicazione delle immagini indebitamente carpite poteva avvenire in tempo reale e una tutela giudiziale successiva, anche ove attivata tempestivamente, non avrebbe potuto impedire l’immediata diffusione nel web di immagini non solo lesive della riservatezza, ma soprattutto pregiudizievoli per l’onore e il decoro della persona ivi ritratta. In altri termini, difettava, in concreto, il presupposto della “possibilità di ricorrere al giudice” per una tutela del proprio diritto in quanto detto presupposto, come chiarito dalla giurisprudenza, non può ritenersi sussistente ogni qualvolta si sia realizzata una situazione di fatto che risulti idonea – per le sue concrete modalità esecutive – ad ostacolare la tempestiva adozione del provvedimento di tutela da parte dell’autorità stessa (6). La conferma di quanto qui ipotizzato richiede, da un lato, l’analisi di alcuni presupposti logici (quali la natura e il rango del diritto da difendere; la portata dell’offesa che si vuole evitare con la condotta violenta; l’effettività e l’efficacia dei mezzi “ordinari” di tutela del diritto per scongiurare l’offesa), dall’altro, la verifica della sussistenza dei requisiti giuridici per l’applicabilità della causa di giustificazione della difesa legittima (7). Con riguardo ai diritti in gioco, che sarebbero stati oggetto di un arbitrario esercizio da parte degli indagati, emerge anzitutto il diritto all’immagine, che – come noto – rappresenta un aspetto del più ampio bene della “riservatezza” della persona nonché una specificazione del diritto all’identità personale.
(6) Così, Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2011, n. 3014. (7) Nello specifico: ingiustizia dell’aggressione, attualità del pericolo, necessarietà della difesa, proporzionalità della condotta offensiva. Il diritto alla riservatezza ha il suo fondamento costituzionale nella disposizione generale dell’art. 2 Cost., essendo ritenuto pacificamente un diritto inviolabile della persona: le fattispecie di tutela specifica della riservatezza si rinvengono, invece, nelle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 13, 14, 15, 21, 27, 29, 30, 31, 32 e 41 (8). Sul piano internazionale, i cardini della tutela del diritto alla riservatezza si rinvengono nell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (9), negli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (10) e nell’art. 17 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (firmato a Ney York il 16 dicembre 1966) (11). Il diritto alla riservatezza, generalmente inteso, consta di due aspetti, l’uno negativo, da intendersi come non intromissione nella propria sfera privata, l’altro dinamico, da intendersi come potere di controllare in maniera autonoma la diffusione dei propri dati, intervenendo a fronte di comportamenti “abusivi”.
(8) In attuazione delle norme costituzionali, l’ordinamento offre la tutela della riservatezza su diversi piani (civilistico, amministrativo, di protezione dei dati personali), fino a quello penalistico, prevedendo una serie di delitti e contravvenzioni volti a garantire tale diritto soggettivo nei suoi più disparati aspetti. Si pensi, in via esemplificativa, alle norme poste a tutela dell’inviolabilità del domicilio (artt. 614, 615, 615bis, c.p.), a quelle rivolte alla protezione del sistema informatico (artt. 615ter, 615quater, 615quinquies, c.p.) e alla inviolabilità dei segreti (artt. 616-623bis, c.p.), nonché a quelle poste a tutela della libertà sessuale (artt. 600bis, c.p. e ss.). Da ultimo, e non meno importante, la previsione delle fattispecie più specifiche, rispetto alla maggiore sfera della riservatezza, che coinvolgono le lesioni al diritto all’onore e alla reputazione del soggetto offeso (artt. 594 e 595, c.p.) nonché quelle previste dal Codice Privacy, agli artt. 167, 167bis e 167ter, in materia di trattamento illecito di dati personali. (9) L’art. 8 Cedu dispone, in termini generali, che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Per una completa panoramica della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 8 Cedu, si veda il documento pubblicato dal Ministero della Giustizia – Direzione generale degli Affari giuridici e legali, Guida all’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, agg.to al 31 agosto 2018, pp. 30 e ss., in <www.echr.coe. int>. (10) Le disposizioni rilevanti, previste dalla Carta di Nizza del 7 dicembre 2000, sono essenzialmente l’art. 7 (“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni”) – che prevede diritti corrispondenti a quelli descritti dall’art. 8 Cedu – e l’art. 8 (“1. Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. 2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. 3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”), che attiene alla tutela dei dati personali e alla legittimità del loro utilizzo. (11) L’art. 17 del Patto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite dispone: “1. Nessuno può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione. 2. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze od offese”.
Con riferimento a tale ultimo profilo, per il diritto all’immagine il nostro ordinamento prevede una tutela specifica volta a garantire al soggetto che il suo ritratto non venga diffuso o esposto, in assenza del suo consenso (art. 96, l. 22 aprile 1941, n. 633). Il requisito del consenso, tuttavia, non è richiesto laddove ricorra una delle situazioni descritte dal c. 1 dell’art. 97, l. 633/1941 (12), tra le quali vi rientra la riproduzione dell’immagine giustificata dalla notorietà della persona ritratta: in questo caso, il limite alla tutela del diritto all’immagine si giustifica in considerazione della prevalenza dell’interesse alla divulgazione dell’immagine stessa per la notorietà della persona o per soddisfare l’interesse pubblico alla conoscenza, rispetto all’interesse del singolo a che la propria immagine non sia diffusa (13). Va da sé che, laddove l’esposizione o messa in commercio (recte: la pubblicazione) dell’immagine di una persona, anche nota, rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro del soggetto ritratto viene meno l’interesse pubblico di cui si è detto e, pertanto, detta pubblicazione deve ritenersi “abusiva” (c. 2, art. 97, l- 633/1941). Di “abuso dell’immagine altrui” si parla anche nella disposizione contenuta all’art. 10 c.c., da considerarsi norma integratrice della legge speciale sul diritto d’autore, in quanto disposizione che prevede l’azione a tutela dell’immagine, nel caso in cui la pubblicazione avvenga con offesa al decoro o alla reputazione della persona ritratta (14): si tratta di una tutela inibitoria, azionabile con la richiesta, ex art. 700 c.p.c., di emissione di un provvedimento d’urgenza in via cautelare per la cessazione dell’abuso, ove vi sia la possibilità o il pericolo della continuazione o ripetizione dell’illecito. Le norme fin qui citate concorrono tutte alla tutela del diritto all’immagine su un piano strettamente civilistico: l’azione inibitoria, dunque, rappresenta quella possibilità di ricorrere al giudice che, colui che commette il delitto di “ragion fattasi” sceglie di bypassare, esercitando autonomamente e arbitrariamente il diritto riconosciutogli dall’ordinamento. Dopo aver affermato la natura pregiudizievole delle immagini scattate dai fotografi – con la conseguente applicabilità delle norme in materia di diritto d’autore – l’organo di accusa ravvisa, dunque, la configurabilità della
(12) Si tratta dei casi in cui “la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. (13) Così Gutierrez, La tutela del diritto d’autore, Milano, 2008, 206. (14) In materia di tutela contro la pubblicazione abusiva dell’immagine, quando arrechi pregiudizio al decoro e alla reputazione, si vedano, per tutte, Cass. civ. III, 27 agosto 2015, n. 17211 e sez. I, 29 settembre 2006, n. 21172. fattispecie di cui all’art. 393 c.p., dando evidentemente per scontata la sussistenza del presupposto del reato della possibilità di ricorrere al giudice, intesa però da lui (solo) come generale sussistenza di un’azione a tutela del diritto. Infatti, la conclusione del P.m. (configurabilità della fattispecie di cui all’art. 393 c.p.) appare del tutto in contraddizione con le (corrette) affermazioni svolte in merito alla sostanziale non effettività di una tutela attuata per vie giudiziali e alla impossibilità di impedire la diffusione delle immagini, se non attuando la condotta di impossessamento dei supporti fotografici perpetrata dagli indagati (15). Il problema della consistenza del pericolo a cui le nuove tecnologie informatiche espongono costantemente la reputazione di una persona viene, invero, affrontato – indirettamente – dall’organo di accusa laddove ammette che la condotta di appropriazione, anche con la violenza, dei supporti contenenti gli scatti fotografici “abusivi” costituiva “l’unico modo per impedirne la diffusione”: tuttavia, a tali corrette premesse, non si fa conseguire la corretta soluzione giuridica. Infatti, ove si riconosce che gli attuali strumenti informatici consentono la pubblicazione immediata di immagini (e non solo) sul web, senza alcun controllo preventivo in merito alla loro potenzialità offensiva, si deve necessariamente escludere che il ricorso ad una tutela giudiziale sia davvero in grado di evitare il pregiudizio alla reputazione e che, quindi, gli indagati avessero concretamente la possibilità di percorrere la strada della tutela giudiziale. In altri termini, se è vero che la possibilità di ricorrere al giudice esiste (in quanto prevista dall’ordinamento) ed è in grado di consentire l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, non può dirsi che il ricorso ad un giudice civile, nel caso di specie, sia in grado di evitare l’offesa ad un bene di rango costituzionale quale quello dell’onore e della reputazione. E’ necessario chiedersi, cioè, se, nel caso in cui il ricorso all’A.G. non garantisca la tutela “primaria” (consistente nell’impedire la pubblicazione e la conseguente immediata diffusione, delle immagini e nell’ottenere la cancellazione definitiva delle stesse dal web), ma solo quella “secondaria” (risarcimento del danno), si possa davvero rimproverare, al soggetto che teme un’offesa imminente e irreparabile, una reazione difensiva, anche violenta, volta ad impedire la commissione del delitto di diffamazione aggravata
(15) Il P.m., nella sua richiesta di archiviazione (p. 2), osserva in merito: “Quanto ai supporti, invece, il fatto che contenessero le immagini in questione deve ritenersi rilevante e dirimente, poiché l’appropriazione degli stessi in quel frangente costituiva l’unico modo per impedirne la diffusione. Tanto è vero che astrattamente avrebbero potuto essere messe sul web, in tempo reale, stante lo stato attuale della tecnica informatica”.
con la diffusione incontrollata di immagini pregiudizievoli sul web (16). Non può negarsi, infatti, che la possibilità di pubblicare immagini digitali in tempo reale, l’impossibilità di cancellare un’immagine diffusa nel web (specialmente in siti particolari e “oscuri”), i brevissimi tempi di diffusione dei contenuti pubblicati e la loro riproducibilità su siti Internet anche non soggetti alla giurisdizione italiana – soprattutto quando si tratti di personaggi noti dello spettacolo che attraggono la curiosità morbosa del pubblico – e la possibilità di recuperare le immagine, tramite l’uso di specifici software anche laddove cancellate dai supporti, siano tutti elementi che conducono alla prefigurazione, nell’agente, di un pericolo concreto e imminente di una consumazione pressoché immediata del delitto di diffamazione aggravata, in quanto non è discutibile l’esistenza del rischio di un’imminente compromissione della reputazione (intesa anche come lesione al decoro) della persona ritratta in gesti di estrema intimità con il proprio corpo, come quello di urinare (17). Non si comprende, allora, la ragione per cui l’organo di accusa si sia limitato a valutare la condotta degli indagati unicamente come esercizio di un diritto (diritto all’immagine) e non, invece, anche come un agere volto a scongiurare l’offesa di un bene giuridico inviolabile, quale è quello dell’onore e reputazione. Si consideri, infatti, che la disciplina dettata dalla legge sul diritto d’autore e dal codice civile è posta a tutela del (solo) diritto all’immagine, mentre la protezione dell’onore e del decoro della persona viene garantita dall’ordinamento con la sanzione prevista dall’art. 595 c.p., per il delitto di diffamazione.
(16) Come è noto, infatti, la dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere applicabile l’aggravante di cui al c. 3, art. 595 c.p. di pubblicazione sul web di immagini offensive dell’altrui reputazione, rientrando il mezzo Internet tra le ipotesi di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: ciò in quanto si ritiene che le immagini riversate nei siti web possono ritenersi divenute di pubblico dominio visto che l’accesso agli stessi è solitamente libero e frequente, sicché la fruibilità dei dati è assicurata ad un numero elevato di utenti: così MACriLLò, Presunzione iuris tantum di pubblicazione e prova del delitto di diffamazione con il mezzo della rete telematica, in Dir. Internet, 2007, 167. In giurisprudenza, si vedano, per tutte: Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2017, n. 8482, in Guida dir., 2017, 12, 88; Id., sez. V, 14 novembre 2016, n. 4873, in Riv. pen., 2018, 171; Id., sez. V, 1° luglio 2008, n. 31392, in Dir. informatica, 2008, 808. (17) Non v’è dubbio che il diritto ad impedire la diffusione della propria immagine in una situazione di tale intimità, come quella del gesto di urinare, rappresenti, per ciascun individuo in quanto persona, la tutela di un “onore minimo”, che prescinde dalla collocazione sociale del soggetto o dal lavoro che svolge. La lesione di tale “reputazione minima”, a cui può affiancarsi o meno un onore “qualificato” (inteso in senso lato, come il complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale di una persona) dipendente da particolari qualità, è di per sé idonea ad integrare il delitto di diffamazione: parla di “reputazione minima”, pezzeLLA, La diffamazione. Le nuove frontiere della responsabilità penale e civile e della tutela della privacy nell’epoca delle chat e dei social forum, Torino, 2016, 11. Di qui, la convinzione di chi scrive che la fattispecie de qua debba inquadrarsi in un’ipotesi di difesa legittima contro un’offesa imminente e non altrimenti evitabile e ciò, in ragione della particolarità degli strumenti informatici attualmente disponibili che consentono di concretizzare un’azione offensiva di un bene inviolabile, quale è la reputazione di un individuo, in tempi brevissimi e con un semplice “click”.
Come è noto, le cause di giustificazione sono particolari situazioni in presenza delle quali un fatto, che altrimenti sarebbe reato, tale non è perché la legge lo impone o lo consente: nello specifico, il presupposto di applicabilità della scriminante della difesa legittima è la sussistenza di un conflitto di interessi il cui bilanciamento si risolve con la prevalenza dell’interesse ingiustamente aggredito. In questo caso, il fatto lesivo è giuridicamente accettato come autotutela privata per l’impotenza dello Stato a prevenire o arrestare l’ingiusta aggressione a un diritto proprio o altrui (18): si realizza, dunque, l’offesa in senso naturalistico, ma non in senso giuridico in quanto giustificata. Ebbene, nel caso in cui si versa, l’autotutela perpetrata dagli indagati con l’uso di violenza fisica, strumentale e necessaria all’impossessamento dei supporti contenenti le immagini lesive, si giustificava proprio per la consapevolezza dell’impotenza dello Stato non solo a prevenire l’offesa alla reputazione della persona ritratta, ma anche ad arrestare la permanenza della stessa nel tempo e nei “luoghi”, anche i più oscuri, del web, una volta realizzatasi la pubblicazione. Come è noto, infatti, anche un (successivo) intervento dell’Autorità giudiziaria penale, in sede cautelare, non sarebbe risultato efficacie ad impedire la semplice realizzazione dell’offesa (ovvero, la diffusione potenzialmente planetare delle immagini lesive dell’onore e decoro della soubrette) e non avrebbe, inoltre, assicurato neppure l’interruzione della condotta offensiva (una volta realizzatasi) nel tempo (19), in quanto il più delle volte gli strumenti a disposizione dell’autorità procedente nazionale per intervenire su server stranieri, in più parti del mondo, non sono concretamente esperibili per la limitatezza dei mezzi di coopera-
(18) In questi termini, MAntoVAni, Diritto penale, Padova, 2013, 242. (19) Con riferimento al maggior impatto, sotto il profilo temporale, di una pubblicazione in rete – che consente una fruibilità della notizia o dell’immagine a tempo indeterminato e da parte di un numero indeterminato di utenti – si è parlato di “eternità mediatica” che contraddistingue il web: si veda, Cass. pen., sez. unite, 17 luglio 2015, n. 31022, in Giur. it., 2015, 2003, con nota di LoruSSo, Un’innovativa pronuncia in tema di sequestro preventivo di testata giornalistica on line.
zione giudiziaria (20). Peraltro, si consideri che, nel caso che qui interessa, la persona ritratta nell’atto di urinare è personaggio di origine straniera, nota anche al di fuori dei confini italiani, e gli scatti effettuati in tale momento di intimità ben avrebbero potuto approdare, ed essere condivisi, in siti web di dubbia moralità e, comunque, “protetti” in quanto non raggiungibili da qualsiasi tipo di intervento della magistratura italiana. Si è già detto della natura del diritto oggetto della difesa da parte degli indagati: si tratta non solo, e non tanto, del mero diritto all’immagine, ma, più ampiamente, del diritto a non vedersi pregiudicata la propria reputazione e il proprio decoro tramite l’abuso di un’immagine carpita indebitamente (21). Lo stesso P.m., pur richiamando il solo diritto all’immagine, individua quale scopo della condotta degli agenti quello della salvaguardia della reputazione e del decoro della protagonista delle immagini carpite, attraverso l’impedimento alla diffusione e pubblicazione delle immagini pregiudizievoli. Il diritto all’onore viene posto in pericolo, nel caso di specie, tramite la violazione della riservatezza della persona ripresa durante l’atto di urinare nonché delle norme poste a tutela dell’immagine, ove essa sia tale da recare pregiudizio alla reputazione e al decoro della persona ritratta (22).
(20) In questi termini, con riferimento alle difficoltà che incontra l’A.G. nell’attuazione di misure specifiche di blocco di accesso ai siti e di rimozione dei materiali illeciti dal web, si veda FLor, Sequestro preventivo di siti web e abusiva trasmissione telematica di programmi televisivi. Nota a G.i.p. Trib. Milano (ord.), 07.1.2013, Giud. Ghinetti, in <www.penalecontemporaneo.it>, 15 marzo 2013. Per una panoramica delle problematiche tecniche connesse al sequestro informatico, si segnala anche il contributo di Monti, Casi e problemi sul sequestro informatico anche a distanza, in Il diritto di Internet nell’era digitale, a cura di G. Cassano e S. Previti, Milano, 2020, 955 e ss. (21) Come è noto, l’espressione “diritto” abbraccia qualsiasi interesse individuale tutelato dall’ordinamento: il diritto all’onore, comprensivo della reputazione e del decoro, viene ricompreso tra i diritti della personalità e trova, dunque, fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 della Costituzione, nonché tutela specifica nelle norme del codice penale di cui agli artt. 594 e 595. (22) Il P.m. richiama, seppur genericamente, a completamento della disciplina a tutela del diritto all’immagine, le disposizioni in materia di privacy, oggetto di recente modifica, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del consiglio adottato il 27 aprile 2016, divenuto operativo il 25 maggio 2018. Il Decreto di adeguamento al Regolamento (UE) 2016/679 (Decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101) ha modificato il Codice in materia di protezione dei dati personali, con previsioni maggiormente garantistiche, in linea con la disciplina europea. La normativa privacy, anche seguito delle recenti modifiche, non ha avuto effetto abrogativo della Legge sul diritto d’Autore e delle altre norme poste a tutela del diritto all’immagine ma, al contrario, con le disposizioni in materia di protezione dei dati personali, il legislatore ha imposto un maggiore livello di attenzione per l’utilizzo dell’immagine – considerata anch’essa “dato personale” ove idonea ad identificare, anche indirettamente, un soggetto (cfr. Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Decisione del 15 maggio 2020 e Decisione del 19 febbraio 2002) – introducendo, tra l’altro, alcuni obblighi in capo ai soggetti che raccolgono e utilizzano le immagini per fini professionali. In tema di diritti d’autore e diritti sui dati personali, si veda Per quanto attiene alla necessità della difesa, quale requisito oggettivo della scriminante in argomento, è risultato evidente come gli indagati abbiano agito per difendere un diritto altrui, non essendo presente altra alternativa per evitare l’offesa, stante il rifiuto, da parte dei fotografi, di consegnare i supporti contenenti gli scatti. Anche sotto il profilo della c.d. inevitabilità altrimenti (23), si è evidenziato come non vi fosse altro mezzo, nel caso concreto, per evitare l’offesa: la sottrazione dei supporti, a fronte del rifiuto a consegnarli, si palesava come l’unico modo per evitare la pubblicazione e diffusione delle immagini e la conseguente offesa della reputazione e dell’onore della persona ritratta; per altro verso, la resistenza dei proprietari dei supporti contenenti dette immagini non consentiva altra modalità per realizzare l’impossessamento, se non quella di forzare la situazione con il mezzo della violenza fisica. Si consideri, peraltro, che tale resistenza manifestata a fronte della richiesta di consegna degli scatti rafforzava negli indagati la convinzione dell’inequivocabile volontà dei fotografi di pubblicare dette immagini o, comunque, di farne un uso illegittimo e pregiudizievole per la reputazione e il decoro della persona ritratta. Particolare attenzione richiede, poi, la qualificazione del pericolo dell’ingiusta offesa contro il quale l’agente reagisce: deve trattarsi, come è noto, di un pericolo attuale – quindi non passato né futuro – da intendersi come pericolo incombente, che implica, cioè, che se la situazione creatasi non viene interrotta, essa è destinata a sfociare subito nella lesione. La necessità della difesa, dunque, deve derivare da un pericolo attuale, consistente in una concreta minaccia già in corso di attuazione nel momento della reazione ovvero in una minaccia (24) od offesa imminenti (25). Si è già detto, in merito, che gli strumenti dell’attuale tecnologia informatica consentano la pubblicazione immediata delle immagini contenute in supporti digitali, senza necessità di sviluppare obiettivi e offrirli a testate giornalistiche, come accadeva un paio di decadi fa. Si aggiunga, poi, che – come osservato dallo stesso P.m. – la
di recente SerVAnzi, Le eccezioni e limitazioni relative ai diritti d’autore ed ai diritti sui dati personali, in questa Rivista, 2020, 569 e ss. (23) Si tratta di un requisito introdotto dalla dottrina, la quale richiede, per la configurabilità della scriminante della difesa legittima, “l’impossibilità del soggetto di difendersi con un’offesa meno grave di quella arrecata”: non basta, cioè “che il soggetto si trovi nella necessità di difendersi, ma occorre che egli non possa evitare l’offesa se non attraverso quel fatto offensivo” (così MAntoVAni, Diritto penale, Padova, 2013, 263). (24) Nel senso che una mera minaccia possa integrare un pericolo attuale, Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2019, n. 25810, Onnis. (25) Così Cass. pen., sez. VI, 26 aprile 2017, n. 31598; Id., sez. I, 23 maggio 2013, n. 29481; Id., sez. I, 27 gennaio 2010, n. 6591, Celeste, in Cass. pen., 2011, 569.
stessa cancellazione delle immagini avrebbe consentito comunque il loro recupero tramite appositi software e, pertanto, neppure obbligare i fotografi alla cancellazione delle stesse avrebbe consentito di evitare l’offesa. Con queste premesse, non può dunque che concludersi per l’affermazione dell’attualità del pericolo. Il pericolo, inoltre, secondo la giurisprudenza, deve essere involontario, il che significa che il soggetto agente (o la persona il cui diritto viene difeso) non debba essersi posto nella situazione di pericolo deliberatamente (26): il provvedimento del P.m., laddove parla di immagini indebitamente carpite, ammette indirettamente che l’azione di urinare a bordo del proprio gommone veniva compiuta dalla ragazza in un contesto “privato” creato dagli stessi indagati i quali, pur trovandosi in una piccola isoletta pressoché deserta, accostavano il natante in una caletta appartata, mostrando un comportamento volto proprio a ricercare un po’ di riservatezza e intimità. Inoltre, si consideri che detti fotografi venivano solo casualmente colti nell’atto di immortalare la soubrette nel momento di urinare, in quanto detta attività veniva effettuata occultandosi e, proprio l’attenzione degli indagati nell’assicurare intimità alla ragazza, consentiva di accorgersi dell’effettuazione degli scatti. L’ulteriore requisito necessario per una verifica dell’operatività della scriminante della difesa legittima è quello della proporzione tra difesa e offesa. Come è noto, dottrina e giurisprudenza pongono l’accento sia sulla congruità dei mezzi difensivi rispetto a quelli offensivi, sia sul rapporto di valore tra i beni o interessi in conflitto (27). Il raffronto tra i beni in conflitto va operato non in modo astratto e statico, ma tenendo conto del rispettivo grado di messa in pericolo o di lesione a cui sono esposti i beni dinamicamente confliggenti nella situazione concreta (28). In ogni caso, non è necessario che il bene difeso prevalga su quello sacrificato, né occorre che tra i
(26) Dottrina e giurisprudenza sono, infatti, concordi nel sostenere che, laddove il pericolo è volontariamente cagionato dal soggetto che reagisce, viene meno il requisito della necessità della difesa o quello dell’ingiustizia dell’offesa: si veda, in argomento, FiAndACA-Leineri, sub Art. 52, in Commentario breve al Codice penale, a cura di Forti-Seminara-Zuccalà, Padova, 2017, 228. In giurisprudenza, si vedano Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2019, n. 47589, F., in Ced Cass. 277154; Id., sez. I, 13 settembre 2017, n. 56330, La Gioiosa, in Ced Cass. 272036; Id., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381, D’Alesio, in Ced Cass., 265304. (27) Così Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2004, n. 45407, in Cass. pen., 2006, 2176; Id. sez. I, 15 aprile 1999, De Rosa, ivi, 2000, 1951; Id., sez. I, 20 giugno 1997, Sergi, ivi, 1998, 2351; Id., sez. I, 1° dicembre 1995, Vellino, ivi, 1997, 707. Negli stessi termini, più recentemente, Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2020, n. 32414; Id. sez. IV, 13 febbraio 2019, n. 9463. (28) In questi termini si è espressa la dottrina più autorevole: FiAndACA-MuSCo, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2014, 283; MAntoVAni, Diritto penale, Padova, 2013, 263; pAdoVAni, voce Difesa legittima, in Dig. Pen., III, 1989, 513. due beni intercorra un rapporto di equivalenza (29): l’agente che reagisce all’offesa potrà ledere un bene anche di rango superiore, purché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo. Con riguardo ai criteri di comparazione tra beni eterogenei deve farsi riferimento, da un lato, alle dominanti concezioni etiche, dall’altro, alla valutazione degli interessi umani compiuta dall’ordinamento (30). Ebbene, è evidente che, in termini assoluti, l’incolumità fisica della persona, messa in pericolo con l’uso della violenza, costituisce un bene di rango superiore rispetto all’onore e alla reputazione di un soggetto, seppure in questo caso, la peculiarità della situazione immortalata nelle immagini scattate sia riconducibile, invero, al generale ambito della dignità umana (31). In ogni caso, nell’operare il raffronto tra i due beni in gioco, si deve necessariamente verificare anche il grado di messa in pericolo o lesione dell’uno e dell’altro. Nel caso di specie, gli indagati, nell’usare violenza nei confronti dei “paparazzi”, causavano loro delle lesioni lievi (con prognosi di dieci giorni) a seguito della colluttazione avvenuta nel tentativo di superare la resistenza degli stessi alla consegna dei supporti contenenti gli scatti. La “violenza” usata dagli indagati, dunque, non sembra manifestare una reazione ultronea rispetto al fine perseguito, e di ciò ne è riprova la stessa entità delle lesioni (oltre che la preventiva richiesta di consegna dei
(29) Ciò che si richiede non è la prevalenza del bene difeso rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni, infatti l’aggredito può ledere un bene anche di rango superiore, sempreché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo: così MArinuCCi-doLCini-GAttA, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2020, 325. In giurisprudenza, si veda per tutte Cass. pen., sez. I, 10 novembre 2004, n. 45407, Podda, in Ced Cass. 200392. (30) Il fondamento costituzionale del diritto all’onore (comprensivo della reputazione e del decoro) è pacificamente individuato nell’art. 2 Cost., tra i diritti inviolabili dell’uomo, in quanto concernente la sfera intima del soggetto offeso (cfr. Corte cost., 27 marzo 1974, n. 86). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, d’altro canto, considera la “protezione della reputazione” da parte dello Stato quale limite (insieme ad altri) alla libertà di espressione (art. 10, par. 2), profilo che qui non viene in gioco, in quanto appare pacifico che i contenuti dell’immagine in argomento non attengono in alcun modo a profili rientranti nella libertà di espressione dei soggetti coinvolti. (31) In tema di tutela della “dignità umana”, nel suo più ampio e generale significato, si è detto (SiLVeStri, L’individuazione dei diritti della persona, in Diritti della persona e nuove sfide del processo penale, Milano, 2019, 31) come essa, essendo premessa dei diritti fondamentali, non sia un diritto fondamentale a sé stante, ma sintesi di tutti i principi e diritti costituzionalmente tutelati e che ogni bilanciamento, pertanto, si iscrive nell’ambito generale della sua tutela. Per questo motivo, la dignità umana “non è bilanciabile, in quanto è essa stessa bilancia sulla quale disporre i beni costituzionalmente tutelati, che subiscono compressioni”: la dignità della persona “è criterio di misura della compatibilità dei bilanciamenti, continuamente operati dal legislatore e dai giudici, con il quadro costituzionale complessivo”. Ne deriva che “sarebbe necessario, in occasione di ogni operazione di bilanciamento, chiedersi se il risultato incide negativamente sulla dignità della persona, o se rimane intatta la sua consistenza”.
supporti). Dall’altro lato, invece, la lesione della riservatezza determinava, anche per la particolare attività svolta degli agenti (c.d. paparazzi), un’imminente messa in pericolo dell’onore e reputazione della ragazza ritratta nelle immagini “abusive”, che avrebbe potuto causare alla stessa un danno permanente nel tempo e senza confini territoriali. Ciò, evidentemente, per una combinazione di fattori generalmente compresenti in situazioni del genere di cui si tratta, in cui è coinvolta una persona nota (notorietà, curiosità morbosa del pubblico con riguardo alla intimità del personaggio noto, particolarità dell’azione immortalata), ma soprattutto per i particolari strumenti tecnologici e informatici disponibili, ormai, a qualunque soggetto. Alla pubblicazione sul web delle immagini in questione – che può, oggi, avvenire, per mano di chiunque e nell’immediatezza, senza particolare strumentazione informatica – sarebbe seguita una diffusione, potenzialmente planetaria, con una velocità incontrollabile e senza confini territoriali: la reputazione e l’onore del personaggio pubblico, dunque, avrebbe raggiunto un livello di lesione estremamente ampio, dal punto di vista dei soggetti destinatari, con tutte le conseguenze ulteriori determinate dalla possibilità, offerta dal web, di condividere e commentare le immagini, il più delle volte, senza alcun limite alla decenza. In aggiunta a ciò, quale ulteriore elemento sintomatico di un grado di lesione del bene in argomento particolarmente elevato, si consideri che – come accennato – la cancellazione delle immagini dal web, una volta pubblicate, risulta estremamente ardua, stante le difficoltà che gli strumenti giudiziari interni incontrano nell’attuazione dei provvedimenti cautelari reali. In altri termini, come si è già osservato, alla facilità di diffusione di immagini attraverso il mezzo informatico corrisponde la difficoltà di cancellazione delle stesse dalla rete, soprattutto ove dette immagini approdino in deep web sites o dark web sites, in siti pornografici o, comunque, in siti i cui server hanno sede all’estero o extra-Europa. La gravità dell’offesa e, soprattutto, l’irreparabilità della lesione manifestano, dunque, una indiscutibile prevalenza del bene difeso dagli indagati, rendendo legittima la difesa dello stesso anche per il tramite della violenza, sempre che non si sconfini nell’eccesso colposo.
5. Considerazioni finali
In conclusione, si ritiene che, per un caso come quello in analisi, vi fossero gli strumenti giuridici per fornire una corretta risposta alla tutela e al bilanciamento degli interessi in gioco: il provvedimento in commento, peraltro, dimostra una chiara coscienza della natura e portata del pericolo insito nell’utilizzo degli strumenti informatici, ma palesa allo stesso tempo la mancata iniziativa a servirsi degli strumenti giuridici disponibili per fornire una risposta ad “attacchi” pericolosi e incontrollabili ai diritti fondamentali. L’interprete non deve dimenticare che all’“eternità mediatica” del web può corrispondere l’“eternità dell’offesa” che, nel caso di immagini pregiudizievoli, è di ancor più facile percezione da parte di un numero indeterminato di utenti. Lo strumento Internet attribuisce ai propri contenuti una serie di caratteristiche che rendono inadeguata e non effettiva la risposta giudiziaria: si pensi alla delocalizzazione, che rende difficile indirizzare un provvedimento giurisdizionale ad un competenza territoriale determinata; alla globalizzazione, che impedisce di controllare la diffusione illimitata dei contenuti e determina un’immediatezza degli effetti; alla dematerializzazione, che presenta seri ostacoli per l’apprensione del bene da sequestrare; e, infine, alla facile accessibilità, che determina una potenzialità criminale molto elevata. Spetta, dunque, all’interprete farsi carico di “rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”, come richiesto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, soprattutto quando sono presenti nell’ordinamento gli strumenti per farlo.
Banda ultralarga: il Tar boccia i ricorsi contro il Piano Voucher
t.A.r. LAzio; sezione terza ter; ordinanza 23 novembre 2020, n. 7239; Pres. Luca De Gennaro; Est. Paola Anna Gemma Di Cesare, Aires (Avv. Guerra, Vannucci Zauli) c. Mise (Avvocatura generale dello Stato)
La finalità del contributo previsto dal Piano Voucher non è quella di acquistare i dispositivi ma quella di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti nel momento di emergenza sanitaria
…Omissis… Ritenuto - impregiudicata la questione preliminare relativa alla legittimazione ad agire delle associazioni ricorrenti, che sarà valutata nella fase di merito- ad una prima sommaria delibazione, propria della presente fase che: -la finalità del contributo non è tanto quella di acquistare i dispositivi, ma quella di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti e (art. 1 del D.M. impugnato) nel momento di emergenza sanitaria per l’accesso ai servizi educativi e al lavoro; -la fornitura del solo terminale non realizza l’interesse pubblico perseguito ed è per questo che è stata imposta l’erogazione del contributo tramite l’operatore di rete attraverso la necessaria sottoscrizione di un contratto di connessione a Internet; -peraltro, il D.M. impugnato non impone l’utilizzo di un particolare dispositivo per la connessione, salvo il rispetto delle caratteristiche minime indicate nel manuale operativo INFRATEL né affida all’operatore di rete la scelta di un determinato apparato; -la mancata previsione di due passaggi distinti, uno presso il rivenditore di dispositivi elettronici e l’altro presso l’operatore di rete, non appare in linea con la natura emergenziale della misura, finalizzata ad assicurare, in modo celere, attraverso una procedura semplificata diritti costituzionalmente garantiti (allo studio e al lavoro) nella fase emergenziale; considerato, quanto alla questione di compatibilità della misura con il diritto eurounitario, che: - ai fini della fruizione del contributo, l’art. 7 del D.M. impugnato prevede che il beneficiario possa presentare la propria richiesta presso un “qualsivoglia canale di vendita reso disponibile dagli operatori registrati nell’elenco di cui all’art. 6…”; - la vastità degli operatori di rete (con conseguente variabilità dei dispositivi offerti) e la possibilità per i venditori degli stessi di sottoscrivere accordi commerciali con gli operatori di rete costituiscono circostanze sufficienti ad escludere che possa verificarsi il presupposto della limitazione della libertà del consumatore nella scelta del dispositivo per la fruizione del servizio di accesso ad Internet. Ritenuto, infine - fermo restando la natura assorbente delle considerazioni svolte in merito all’assenza del requisito del “fumus boni iuris”- quanto al “periculum” posto a fondamento della domanda cautelare, che, nell’attuale fase emergenziale, il pregiudizio economico lamentato per le imprese fornitrici e venditrici di dispositivi appare recessivo a fronte dell’interesse pubblico alla sollecita erogazione del contributo in favore delle fasce economicamente più deboli, in modo da consentire loro l’immediato accesso ai servizi digitali per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti; rilevata, in conclusione, l’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda cautelare; visto l’art. 57 c.p.a., alla luce della novità della questione, le spese di fase sono compensate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Ter) respinge la domanda cautelare. Compensa le spese della presente fase cautelare. …Omissis…
IL COMMENTO
di Gianluca Favaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. Profili di concorrenza ed interesse pubblico ad un generalizzato accesso ad Internet. – 3. Il Piano nel contesto dell’emergenza sanitaria. – 4. I principi di neutralità tecnologica e di neutralità della rete. – 5. Rilevanza costituzionale dell’accesso ad Internet: diritto o strumento di accesso a diritti costituzionali? – 6. Alcuni spunti giurisprudenziali. – 7. Considerazioni conclusive.
Il presente contributo prende in esame il contenzioso originato dall’impugnazione da parte di Aires, Ancra e Mediamarket del Piano Voucher, mediante il quale il Ministero dello Sviluppo Economico ha stabilito di erogare un contributo per l’acquisto od il noleggio di personal computer e tablet, unitamente alla fornitura di una connessione ad Internet da parte degli operatori attivi nel settore della telefonia mobile, escludendo dal Piano i rivenditori di elettronica al consumo. This contribution examines the litigation originating from the challenge brought by Aires, Ancra and Mediamarket against the voucher plan through which the Ministry of Economic Development established a contribution for the purchase or rental of Personal computers and tablets together with the provision of an internet connection by operators active in the mobile telephony sector, excluding consumer electronics retailers from the plan.
1. Il caso di specie
Per far meglio comprendere la decisione resa nel caso di specie occorre necessariamente ripercorrere le tappe fondamentali del contezioso in cui la pronuncia interviene. Il Decreto Ministeriale 7 agosto 2020, adottato dal Ministero dello Sviluppo Economico e recante “il Piano Voucher per le famiglie a basso reddito” ha previsto, all’articolo 3, lo stanziamento in favore delle famiglie a basso reddito, aventi un reddito Isee inferiore ai 20.000 euro, di un contributo massimo di 500 euro erogato sotto forma di sconto sul prezzo di vendita dei canoni di connessione ad Internet in banda ultralarga per un periodo di almeno dodici mesi, unitamente alla fornitura dei relativi dispositivi elettronici, tablet e personal computer. Il contributo è erogato, nel rispetto del principio di neutralità tecnologica, per la fornitura di servizi di connettività ad almeno 30 Mbit/s in download a famiglie che non detengono alcun contratto di connettività o che detengono un contratto di connettività a banda larga di base, inferiore ai 30 Mbit/s in download. I tre ricorrenti, Aires (Associazione Italiana Retailers Elettrodomestici specializzati), Ancra (Associazione Nazionale Commercianti Radio Televisione Elettrodomestici e Affini) e Mediamarket, con l’appoggio in giudizio dell’Associazione dei Fabbricanti di Terminali di Telecomunicazione e del Codacons, hanno impugnato il provvedimento adottato dal Ministero con contestuale richiesta di sospensione cautelare. Le doglianze sottese all’impugnativa sono costituite dall’esclusione degli operatori del mercato retail dalla fruizione del beneficio economico, secondo lo schema delineato da Infratel, società in house del Mise. Il contributo, secondo tale schema, viene erogato congiuntamente alla fornitura di una connessione ad Internet da parte degli operatori telefonici, determinando l’esclusione dal Piano Voucher dei rivenditori di elettronica al consumo. Il fatto che solamente gli operatori di telecomunicazione possano fornire anche i dispositivi informatici, determinerebbe una distorsione delle logiche del mercato concorrenziale attuata con un finanziamento reso mediante lo stanziamento di risorse pubbliche. L’istanza cautelare è stata giustificata dai ricorrenti alla luce dell’affermata irreparabilità del danno causato alle imprese operanti nel settore della vendita dei prodotti elettronici. Il Tar Lazio ha respinto la richiesta di sospensione cautelare sulla base di alcune importanti considerazioni. Il Collegio ha, in primo luogo, chiarito che la finalità del contributo non coincide con l’acquisto dei dispositivi ma è, al contrario, costituita dall’esigenza di sostenere la domanda di connessione ad Internet per le famiglie meno abbienti, in un contesto di emergenza sanitaria per l’accesso ai servizi educativi e al lavoro. Inoltre, ha ritenuto che la fornitura del solo terminale non sia in grado di realizzare il pubblico interesse perseguito ed è questa la ragione che ha indotto a prevedere l’erogazione del contributo tramite gli operatori di rete e attraverso la necessaria e contestuale sottoscrizione di un contratto di connessione ad Internet. Con l’ordinanza in commento il Tar ha, altresì, sottolineato da un lato, che il decreto ministeriale non impone l’utilizzo di un particolare dispositivo per la connessione; dall’altro, che ai fini della percezione del contributo dispone comunque che i soggetti beneficiari possano presentare la propria richiesta presso uno qualsiasi dei canali di vendita resi disponibili dagli operatori registrati. Alla luce delle suesposte considerazioni, dunque, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio ha riget-
tato l’istanza cautelare, rinviando la decisione all’esame nel merito della fattispecie.
L’ordinanza in commento, pur circoscrivendo la sua valutazione ad uno scrutinio prima facie proprio della fase cautelare, fornisce alcune interessanti indicazioni. Il contenzioso, come visto, origina da un conflitto tra diverse esigenze: da un lato i ricorrenti, rappresentanti di categoria, si sono fatti portatori di istanze tese a garantire la tutela di un libero mercato in un regime pienamente concorrenziale; dall’altro, il Ministero ha fatto valere la necessità di fornire in tempi brevi la connessione ad Internet ai soggetti meno coinvolti dal processo di digitalizzazione del nostro paese. In particolare, i ricorrenti hanno dedotto il rischio che dall’adozione del decreto derivino limitazioni alla libertà dei consumatori nella scelta dei dispositivi elettronici oggetto del contributo. Secondo la loro ricostruzione, la circostanza secondo cui sia consentito solamente agli operatori del servizio di connettività di fornire i dispositivi, precludendo tale possibilità a tutti gli altri rivenditori, spiegherebbe effetti distorsivi con pregiudizio dei rivenditori stessi. Un secondo profilo di censura è costituito dal fatto che acquistare i dispositivi direttamente presso i fornitori del servizio di connessione ad Internet richiede un esborso economico maggiore e, al contempo, una scelta più limitata rispetto alle offerte disponibili sul libero mercato. Sarebbe proprio l’accesso al libero mercato, invece, a tutelare le fasce più deboli, alla luce del minore costo di acquisto, soddisfacendo il fine ultimo che il decreto ministeriale intende perseguire. Da tali elementi discenderebbe la paradossale conseguenza che proprio in una fase critica come quella pandemica in atto, la fruizione della banda ultralarga diverrebbe più complicata proprio per la fascia di popolazione che il decreto ministeriale intende tutelare. Tali argomentazioni non sono state accolte dal Tar. Il Collegio, al contrario, ha manifestato la convinzione che la vastità degli operatori di rete (con conseguente variabilità dei dispositivi elettronici offerti) e la possibilità per i venditori di procedere alla sottoscrizione di appositi accordi commerciali con gli operatori Tlc, costituiscano circostanze sufficienti ad escludere che possa verificarsi un effetto limitativo della libertà della clientela finale nella scelta dei dispositivi per la fruizione del servizio di accesso alla rete Internet. Il Tribunale amministrativo, inoltre, ha ritenuto che le esigenze dei rivenditori siano fatte salve dalla previsione contenuta nel D.M. secondo cui i soggetti ammessi al Piano Voucher possono presentare la propria richiesta presso uno qualsiasi dei canali di vendita resi disponibili dagli operatori registrati. In definitiva, il Tar, pur non disconoscendo l’esistenza di ulteriori e diversi interessi di matrice economico – concorrenziale e di un connesso possibile pregiudizio economico subito dai ricorrenti, ha ritenuto di non dover garantire un pieno bilanciamento (1) tra questi interessi e quello pubblico coincidente con la celere erogazione del contributo, ritenendo che i primi siano recessivi rispetto al secondo.
3. Il Piano nel contesto dell’emergenza sanitaria
Si è visto come il Tar abbia ritenuto che l’interesse economico di cui sono portatori i ricorrenti sia da considerarsi recessivo rispetto all’esigenza di garantire la celere erogazione del contributo. Tale esigenza trova la sua causa nel contesto emergenziale in cui è stato adottato il decreto ministeriale. È lo stesso preambolo del decreto, infatti, a chiarire che nel contesto dell’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19, i collegamenti Internet a banda ultralarga costituiscono il presupposto per l’esercizio di diritti essenziali, costituzionalmente garantiti, quali il diritto allo studio, al lavoro, nonché ad assicurare la stessa sopravvivenza delle imprese. È dunque la pandemia da Covid - 19 a fornire legittimità all’intervento del Governo (2). È dello stesso avviso l’AgCom, la quale ha a più riprese affermato la rilevanza sociale dell’accesso ad Internet (3). Tale rilevanza sociale, in grado di giustificare l’adozione del decreto ministeriale, è stata ribadita altresì dalla Commissione europea, che ha dato il suo placet all’intervento del Governo ritenendolo non in conflitto con la disciplina eurounitaria in materia di aiuti di stato (4).
(1) SAnduLLi, La fase cautelare, in Dir. Proc. Amm., 2010, 1135: “La decisione cautelare, come quella di merito, diventa un delicato problema di bilanciamento dei diversi interessi, legato alla proporzionalità della misura adottata non soltanto tra l’interesse del ricorrente e quello dei suoi legittimi contraddittori, ma anche tra i diversi interessi pubblici coinvolti”. (2) Il preambolo del D.M. richiama la delibera con la quale il Comitato Banda Ultralarga (CoBul), nel corso della riunione tenutasi il 5 maggio 2020, ha approvato il Piano Voucher, “finalizzato a favorire la disponibilità di connessione ad Internet da parte di famiglie e imprese per supportare immediatamente le esigenze di teledidattica e lavoro agile”. (3) Cfr. Segnalazione n. S3904 del 1° luglio 2020, nella quale ha affermato che l’erogazione di voucher e dispositivi elettronici per le famiglie poco abbienti è apprezzabile nella misura in cui consente “una rapida diffusione delle reti di telecomunicazione, promuovendo al contempo l’inclusione sociale ed evitando che, soprattutto nel periodo di emergenza, tali soggetti vengano esclusi dalla vita sociale ed economica”. (4) L’articolo 107, lett. A del TFUE stabilisce che sono compatibili con il mercato interno gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti.
L’Istituzione europea ha sostenuto che il Piano delineato dal Governo italiano è finalizzato a soddisfare l’esigenza di garantire alle famiglie a basso reddito la fruizione di servizi di connessione ad Internet, consentendo in tal modo, a tali soggetti, di continuare a godere pienamente dei diritti allo studio, al lavoro, e ad una socialità piena (5). L’esigenza di celerità derivante dal contesto pandemico (e dalle criticità a questo connesse e rilevanti in termini socio-economici) appena descritto è stato tradotto dal Tar nella giustificazione di una impostazione che rende, di fatto, protagonisti del Piano Voucher gli operatori di rete, a discapito di una (pur astrattamente possibile) articolazione del voucher in due importi (come caldeggiato dai rivenditori ricorrenti), alla luce del fatto che “la mancata previsione di due passaggi distinti, uno presso il rivenditore di dispositivi elettronici e l’altro presso l’operatore di rete, non appare in linea con la natura emergenziale della misura, finalizzata ad assicurare, in modo celere, attraverso una procedura semplificata, diritti costituzionalmente garantiti (allo studio e al lavoro) nella fase emergenziale”.
Uno degli elementi sottesi al percorso logico – giuridico che ha condotto il Tar alla reiezione dell’istanza cautelare, coincide con l’aver escluso che il D.M. impugnato abbia determinato una violazione del principio di neutralità tecnologica. Tale principio, cui fa espresso richiamo l’art. 3, secondo comma (6), è disciplinato dal d.lgs. n. 259/2003 (c.d. Codice delle comunicazioni elettroniche) il quale, all’art. 4, comma 3, lett. h), lo qualifica come non discriminazione tra particolari tecnologie, non imposizione dell’uso di una particolare tecnologia rispetto alle altre e possibilità di adottare provvedimenti ragionevoli al fine di promuovere taluni servizi indipendentemente dalla tecnologia utilizzata (7). Con riferimento alle comunicazioni a mezzo Internet, al principio di neutralità tecnologica si affianca il principio di neutralità della rete (8), alla luce del quale ogni co-
(5) Nello specifico, la Commissione ha affermato che “without the measure the eligible families may face difficulties to bear the costs of acquiring the eligible services”. (6) Ai sensi del D.M. “il contributo è erogato nel rispetto del principio di neutralità tecnologica”. (7) La necessità che sia rispettato il principio di neutralità tecnologica è stata confermata dalla Direttiva n. 2018/1972 del Parlamento europeo e del Consiglio, con la quale è stato adottato il Codice delle comunicazioni elettroniche. (8) Per un approfondimento si rimanda a otrAnto, Net neutrality e poteri amministrativi, in <Federalismi.it>, n. 3/2019; oroFino, La declinazione della net neutrality nel regolamento europeo 2015/2120. Un primo passo municazione elettronica dev’essere oggetto di un eguale trattamento a prescindere dalla qualità dei soggetti, dal contenuto dei servizi e dal dispositivo utilizzato. Il regolamento Ue n. 2015/2120 ha previsto l’introduzione di una disciplina comune al fine di evitare disparità di trattamento nella fornitura dei servizi di accesso alla rete Internet e al fine di tutelare i diritti dell’utenza finale. Il regolamento, più nello specifico, cristallizza un diritto di accesso alla rete al fine di ricevere e diffondere contenuti di informazione, indipendentemente dalla sede dell’utente e del fornitore o della localizzazione e dall’origine e destinazione delle informazioni. Il principio di net neutrality, più nello specifico, garantendo l’accesso ad Internet mediante terminali di propria scelta, fa riferimento agli apparecchi per la connessione via cavo e fibra ottica. I router dotati di modem usati come apparecchi intermedi rientrano nella categoria degli apparecchi terminali. Considerato che il decreto ministeriale stanzia il contributo per l’acquisto di personal computer e tablet e non di modem, sembrerebbe che facesse riferimento più propriamente al principio di neutralità tecnologica in luogo del principio di neutralità della rete (9). Come anticipato poco sopra, il Tar ha escluso che dall’adozione del D.M. derivi una violazione di tale principio il quale, al contrario, sarebbe fatto salvo dalla vastità degli operatori di rete attivi sul mercato, con conseguente variabilità dei dispositivi offerti e dalla possibilità per i venditori di sottoscrivere accordi commerciali con gli operatori di rete.
L’ordinanza in commento offre degli spunti interessanti anche in relazione ad un’altra tematica, coincidente con la possibilità di ricondurre in capo all’accesso ad Internet una forma di rilevanza costituzionale. Il Collegio sembra ricostruire tale accesso in termini ancillari rispetto ad altri diritti di rango certamente costituzionale. Il Tar ha, infatti, ritenuto che il pregiudizio economico lamentato dai ricorrenti debba essere considerato recessivo rispetto all’interesse pubblico ad una sollecita erogazione del contributo in favore delle fasce economicamente più deboli, in modo da consentire
per garantire un’internet aperta, in <Federalismi.it> – Focus Comunicazione, Media e Nuove Tecnologie, n. 2/2016, 12 e ss.; interLAndi, Neutralità della rete, diritti fondamentali e beni comuni digitali, in <Giustamm.it>, n. 2/2018. (9) otrAnto, Piano voucher del Governo, accesso a internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020), in <Giustiziainsieme. it>.
loro l’immediato accesso ai servizi digitali per l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. La formula utilizzata sembra, dunque, confermare che l’accesso ai servizi Internet possa essere, al più, configurabile come strumentale a garantire quei diritti il cui pieno godimento è stato ostacolato dalla crisi pandemica. Il riferimento è al diritto all’informazione, alla corrispondenza, all’istruzione, all’associazione e al lavoro. In dottrina, v’è chi ha definito l’accesso alla rete un diritto sociale, da intendersi quale pretesa soggettiva alla fruizione di prestazioni pubbliche, come l’istruzione o la previdenza (10). In tale ottica, il diritto di accesso ad Internet si sostanzierebbe nella pretesa a veder garantita, mediante il ricorso ad interventi statali atti a ridurre il divario digitale, la possibilità di usare in modo efficace la rete. Ancora, l’accesso ad Internet è stato definito un diritto umano (11). Altri l’hanno inteso come vero e proprio diritto costituzionale (12). Prescindendo dagli autorevoli tentativi di configurare un vero e proprio diritto costituzionale all’accesso ad Internet, occorre sottolineare come non esista una esplicita copertura costituzionale a suffragio di tali ricostruzioni (13). Sarebbe quindi forse più opportuno, ad avviso di chi scrive, vedere in tale accesso un mezzo tramite il quale esercitare delle libertà costituzionalmente orientate. In tal senso, è stato sostenuto che occorrerebbe ragionare in termini non di tutela del mezzo ma di tutela della libertà di fare ricorso al mezzo al fine di poter esercitare i diritti costituzionali quali la libertà di comunicazione, manifestazione del pensiero, associazione ed istruzione (14). Allo stesso tempo, occorre comunque prendere atto del fatto che è possibile ormai qualificare il rapporto tra soggetti privati e Pubblica Amministrazione come un rapporto di identità digitale (15), caratterizzata da una pre-
(10) CuoCoLo, La qualificazione giuridica dell’accesso ad internet, tra retoriche globali e dimensione sociale, in Pol. dir., 2012, 263 e ss., spec. 284. (11) BorGiA, Riflessioni sull’accesso ad Internet come diritto umano, in La Comunità internazionale, n. 3/2010, 395 e ss. (12) FroSini, L’accesso a Internet come diritto fondamentale, in poLLiCino -BertoLini – LuBeLLo (a cura di), Internet: regole e tutela dei diritti fondamentali, Roma, 2013, 69 e ss. (13) Per una compiuta analisi del tema otrAnto, Internet nell’organizzazione amministrativa. Reti di libertà, Bari, 2005. (14) BASSini, Internet e libertà di espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali, Roma, 2019, 92. (15) otrAnto, Piano voucher del Governo, accesso a internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020), in <Giustiziainsieme. it>. senza sempre più pervasiva dello strumento di Internet nell’interazione del cittadino con le Amministrazioni. Basti pensare ai contributi previdenziali erogati nel 2020 in seguito a richieste presentate sulle apposite piattaforme on line delle casse previdenziali o, ancora, all’imprescindibilità della connessione ad Internet per lo svolgimento di attività lavorative da remoto. Sono queste le ragioni che dovrebbero indurre il legislatore a porre in essere tutte quelle misure che siano necessarie per garantire un universale accesso alla rete Internet (16), nel rispetto del principio di cui all’art. 3 della Costituzione. Sotto tale profilo, è stato affermato che il principio di uguaglianza, nella sua accezione sostanziale, ben potrebbe essere utilizzato come strumento atto a perseguire la rimozione delle situazioni di discriminazioni di matrice socio – economica, assurgendo a parametro da valutare nell’ottica di una garanzia di Internet che sia funzionale all’esercizio dei diritti di cittadinanza (17). Perseguendo questa strada, si potrebbe giungere alla conclusione che in quanto strumento di godimento di libertà costituzionali, l’accesso ad Internet sia ontologicamente già l’oggetto di un diritto fondamentale a prescindere da una espressa previsione nella Costituzione, potendo contare, di fatto, su una copertura costituzionale, seppur indiretta. Una simile copertura, sostengono alcuni, potrebbe essere rinvenuta nell’articolo 21 della costituzione (18).
6. Alcuni spunti giurisprudenziali
Interessanti indicazioni giungono dalle pronunce con le quali la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla rilevanza costituzionale dell’accesso ad Internet. In particolare, nella sentenza n. 307/2004 la Corte costituzionale, in relazione alla dedotta illegittimità costituzionale delle disposizioni con le quali il Governo aveva incentivato l’acquisto di dispositivi informatici in favore di minori e famiglie a basso reddito, ha affermato che occorre individuare la finalità dell’intervento normativo censurato nel garantire la diffusione della cultura tra i giovani e le famiglie, diffusione che è connessa all’interesse generale dello sviluppo della cultura, attraverso lo strumento informatico, il cui perseguimento fa capo
(16) Per un’analisi più approfondita si rimanda a pASSAGLiA, Internet nella Costituzione italiana: considerazioni introduttive, in niStiCò – pASSAGLiA (a cura di), Internet e Costituzione. Atti del convegno, (Pisa 21-23 novembre 2013), Torino, 2014, 1 e ss. (17) BASSini, op. cit., 289. (18) AiniS, Il diritto ad Internet che c’è già, la Repubblica, 27 novembre 2020, afferma che “nel blocco di marmo c’è già, in nuce, la figura che verrà scolpita. C’è anche in un angolo della Costituzione, come è il caso del diritto ad Internet. Ma in generale, per vedere l’essenziale, occorre distogliere lo sguardo dal superfluo”.
alla Repubblica in tutte le sue articolazioni (art. 9 della costituzione), anche al di là del riparto di competenze per materia Stato - Regioni.
7. Considerazioni conclusive
Ad avviso di chi scrive, la fattispecie oggetto del contenzioso sotteso all’ordinanza in commento affronta una questione centrale alla luce delle sfide che la nostra società è chiamata ad affrontare nel periodo post Covid - 19. La questione attiene alla possibilità di garantire un accesso il più universale possibile ai servizi a banda ultralarga di connessione alla rete Internet, basato cioè sullo scambio veloce ed efficiente dei dati e delle informazioni. La centralità è connessa all’imprescindibile esigenza di accelerare il processo di digitalizzazione e informatizzazione del nostro paese. L’Italia, infatti, è uno degli stati che versano in condizioni di maggiore ritardo sotto tale profilo e si caratterizza per una modesta fruizione della banda ultralarga. La diffusione del virus ha costretto in quarantena e al lavoro e allo studio da remoto la maggioranza della popolazione, facendo emergere, in breve tempo, i problemi legati all’inadeguatezza delle abitazioni e delle connessioni alla rete Internet. In un simile contesto, l’Istat ha rilevato che il 33,8% delle famiglie non ha un computer o un tablet in casa. Inoltre, nel 2019, tra gli adolescenti di fascia 14-17 anni ben due su tre mostrano competenze digitali di basso livello. Tali dati si rivelano ancor più marcati nel mezzogiorno, dove il numero delle famiglie non dotate di almeno un personal computer sale al 41,6%. È proprio al fine di fronteggiare quella che può essere definita una vera e propria emergenza digitale che è stato adottato il decreto 7 agosto 2020. In una società che, come visto, si presenta sempre più interconnessa, i sopra descritti divari digitali costituiscono una condizione ostativa in grado di porre a serio rischio una compiuta ed effettiva realizzazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Si evince dal digital economy and society index (19) , infatti, che l’Italia è in quart’ultima posizione in Europa a livello di performance digitali. In questo scenario, ricondurre in via definitiva in capo all’accesso ai servizi Internet un valore para - costituzionale costituirebbe un buon punto di partenza per ridurre le disuguaglianze sopra descritte e messe a nudo in questi ultimi mesi.
(19) Si tratta di un indice che misura i risultati in ambito digitale conseguiti dagli Stati dell’Unione europea. Potrebbe essere questa la strada per far sì che ampie fasce della popolazione non debbano più essere costrette “ad assistere all’avvento della società dell’informazione passivamente”, scongiurando il rischio che “il futuro diventi un oscuro medioevo digitale per la maggioranza degli uomini: i poveri, i non istruiti, i cosiddetti non necessari” (20). Su questa scia, l’ordinanza in commento, pur senza aver riconosciuto espressamente che tale accesso abbia una chiara copertura costituzionale, nel fare tuttavia riferimento ai diritti costituzionalmente garantiti e tutelati per suo tramite apre importanti scenari, che dovranno essere più approfonditamente valutati sul piano giurisprudenziale e dottrinale.
(20) riFkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, 2001, 305, riportato da otrAnto, Piano Voucher del Governo, accesso a Internet e diritti costituzionali, (nota a Tar Lazio, sez. III ter, n. 7239/2020) in <Giustiziainsieme.it>.
Emergenza COVID-19: termine “non perentorio” per il deposito dell’istanza di discussione orale nel processo amministrativo
t.A.r. eMiLiA roMAGnA; sezione I; decreto 10 novembre 2020, n. 208; Pres. Migliozzi; Facciolini s.r.l. (avv. F. Troilo) c. Consorzio della Bonifica Burana (avv. F. Ventura) e nei confronti di Pro.Lav. s.r.l. (avv. C. Manzo)
Il termine di cinque giorni liberi prima dell’udienza per il deposito dell’istanza di discussione orale, previsto dall’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020, va interpretato come non perentorio.
…Omissis… Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l’opposizione proposta dalla parte ricorrente in data 9 /11/2020 in ordine alla richiesta di discussione da remoto da tenersi all’udienza camerale del 12 novembre 2020 avanzata dalla parte controinteressata, in pari data; Viste in particolare le ragioni di tale opposizione riconducibili a due circostanze: a) l’essere la domanda di discussione da remoto tardiva in quanto presentata nella non osservanza di quanto previsto dall’art. 25 comma 4 del d.l n. 137/2020 secondo cui “l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n.28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica”; b) l’essere il difensore della parte ricorrente impegnato nello stesso giorno in udienza (12/11/2020) presso il Consiglio di Stato in discussione da remoto per altre cause dal medesimo patrocinate Rilevato che le ragioni poste a sostegno dell’opposizione non appaiono ostative all’accoglimento della richiesta avanzata dalla parte controinteressata in quanto: 1) relativamente al punto sub a) la norma di cui al comma 4 dell’art. 25 del d.l. n. 137/2020 va interpretata nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio; 2) con riferimento al punto sub b) ben può il difensore farsi sostituire all’udienza camerale da altro collega debitamente a ciò delegato. Rilevato altresì che la controversia introdotta col ricorso di cui all’epigrafe involge situazioni e questioni alquanto delicate sia in punto di fatto che di diritto e tenuto altresì conto degli interessi in essa coinvolti, elementi tutti inclinano a far ritenere quanto mai utile la discussione orale sia pure da remoto della causa P.Q.M. IL Tribunale Amministrativo regionale per l’Emilia Romagna sede di Bologna Sezione I ° così dispone: a) Rigetta l’opposizione proposta in data 9 novembre 2020 dalla parte ricorrente in ordine alla istanza di discussione orale da remoto avanzata dalla parte controinteressata; b) dispone la discussione orale da remoto per l’udienza camerale del 12 novembre 2020 della trattazione collegiale dell’incidente cautelare di cui al ricorso n.655/2020 …Omissis…
IL COMMENTO
di Antonino Mazza Laboccetta
Sommario: 1. Il caso. – 2. Brevi considerazioni sul quadro normativo (art. 4 del d.l. n. 28/2020 e art. 25 del d.l. 137 del 2020). – 3. Una normativa emergenziale che condiziona l’oralità del processo. – 4. La regola della “pubblicità” del processo. – 5. I riflessi dell’oralità “condizionata” sul processo amministrativo. – 6. Conclusioni.
Il lavoro si propone di esaminare le ragioni e le finalità del termine previsto dal decreto legge n. 28 del 2020 per il deposito dell’istanza di discussione orale della causa. Dopo aver evidenziato i riflessi che la normativa emergenziale produce sui principi dell’oralità e della pubblicità del processo, si conclude nel senso di ritenere il termine non perentorio. La ratio e la finalità sono quelle di garantire l’organizzazione dell’udienza in modalità telematica, e non quella di regolare il contraddittorio. The work aims to examine the reasons and purposes of the term provided for by d.l. no. 28 of 2020 for the filing of the petition for oral discussion of the case. After highlighting the repercussions that the emergency legislation produces on the principles of orality and publicity of the process, it concludes in the sense that the term is not mandatory. The rationale and purpose are to ensure the organization of the hearing electronically, and not to regulate the cross-examination.
1. Il caso
Con decreto n. 208 del 2020 il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna (1), nell’ambito di una controversia avente ad oggetto l’aggiudicazione di un contratto di appalto, ha rigettato l’istanza con la quale parte ricorrente si opponeva alla domanda di discussione da remoto proposta da parte controinteressata, eccependone la tardività ai sensi dell’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020 (2). Il Tribunale, per quanto qui interessa, ha rigettato l’opposizione sul rilievo che la norma appena menzionata «va interpretata nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio». La pronuncia si colloca nell’alveo di un indirizzo giurisprudenziale che si è formato a seguito della normativa emergenziale legata alla pandemia da Covid-19 e diretta ad assicurare, pur tra le difficoltà e gli oggettivi impedimenti dovuti alle misure di contenimento del contagio, la funzionalità del sistema giudiziario (3). Le misu-
(1) T.a.r. Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 10 novembre 2020, n. 208, in Diritto & Giustizia, 2020, 12 novembre. (2) La norma, appena menzionata, prevede, com’è noto, che «l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n. 28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica». (3) C. Stato, Sez. II, 15 maggio 2020, n. 3109, in Diritto & Giustizia, 2020, 19 maggio; T.a.r. Molise, Sez. I, 4 giugno 2020, n. 43, in <http:// www.giustizia-amministrativa.it>. Interessante T.a.r. Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 5 giugno 2020, n. 102, in Diritto & Giustizia, 2020, 10 giugno, perché offre una lettura coordinata delle disposizioni legislative disciplinanti la trattazione delle istanze cautelari nella sede collegiale della camera di consiglio (d.l. n. 28 del 2020, art. 4; art. 55 c.p.a.), nonché della relativa normativa di applicazione. Una lettura che induce il collegio bolognese ad escludere che la possibilità di replicare fino a due giorni prima della celebrazione della camera di consiglio (art. 55, comma 5, c.p.a.) alla memoria prodotta dalla parte avversaria comporti la preclusione della discussione orale da remoto della causa in sede cautelare, una volta che sia stata presentata domanda di discussione orale; infatti, re straordinarie, introdotte in via derogatoria rispetto alle previsioni del codice del processo amministrativo, hanno suscitato anche in dottrina un significativo e, a tratti, vivace dibattito (4), che ha interessato, tra l’altro, la soppressione della «discussione orale» prevista, tra il 15 aprile 2020 e il 30 giugno 2020, dall’art. 84, comma 5, della l. n. 27 del 2020 (5).
l’interesse a sentire le parti ex art. 73, comma 2, c.p.a. è un’opzione assolutamente prevalente rispetto al passaggio in decisione dell’istanza di sospensiva allo stato degli atti, essendo la discussione orale un’incomprimibile estrinsecazione del diritto di difesa; T.a.r. Campania-Napoli, Sez. III, 4 giugno 2020, n. 301, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>. (4) SAnduLLi, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, in <http://lamministrativista.it>, 1 maggio 2020; Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in <http://federalismi. it>, Focus – Osservatorio Emergenza Covid-19, 13 marzo 2020; VoLpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, d.l. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in <http://LexItalia.it>, 18 marzo 2020; id., La ulteriore disciplina emergenziale del processo amministrativo, ivi, n. 5/2020; d’AnGioLiLLo, Prime osservazioni sulle misure derogatorie definite dall’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. “Cura Italia”) in tema di processo amministrativo “condizionato” dall’emergenza “Covid-19”, ivi, n. 3/2020; dALFino – poLi, Emergenza epidemiologica da COVID-19 e Protocolli d’udienza: presente incerto e futuro possibile della trattazione delle controversie civili, in <http:// foroitaliano/news>, 7 maggio 2020; pAoLAntonio, Il processo amministrativo dell’emergenza: sempre più “speciale”, in <http://lamministrativista.it>, 10 aprile 2020. (5) L’art. 84, comma 5, nella formulazione introdotta in sede di conversione, dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, stabiliva che «Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. […]». In dottrina SAnduLLi, Vademecum sulle ulteriori misure anti-covid19 in materia di giustizia amministrativa: l’art. 84 del decreto “Cura Italia, in lamministrativista.it, 17 marzo 2020; id, I “primi chiarimenti” del Presidente del Consiglio di Stato sul “Decreto cura Italia”, ivi, 20 marzo 2020.
Com’è noto, la disposizione è stata poi “corretta” dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020 che, a decorrere dal 30 maggio fino al 31 luglio 2020 (6), prevede che le parti possano chiedere la discussione orale della causa con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica e, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza, qualunque sia il rito (7). La discussione avviene mediante collegamento da remoto secondo modalità tali da salvaguardare «il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori all’udienza» (8). Ove presentata congiuntamente dalle parti, l’istanza è accolta dal presidente del collegio, mentre negli altri casi è valutata «anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto» (9). La norma soggiunge che, ove il presidente ritenga necessaria la discussione della causa in modalità da remoto, la dispone con decreto, «anche in assenza di istanza di parte». In alternativa alla discussione, le parti possono depositare note fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza o del passaggio in decisione dell’affare, e il difensore si intende così presente ad ogni effetto in udienza. Alla luce del quadro normativo così delineato per quanto qui rileva, il decreto del Tribunale dell’Emilia Romagna induce a riflettere, come meglio spiegheremo subito infra, sulla ratio e sulla natura del termine previsto per il deposito della richiesta di discussione orale. Il Tribunale, con il decreto in commento, lo considera non perentorio.
Sul piano generale, deve premettersi che il termine perentorio è stabilito dalla legge a pena di decadenza. Di conseguenza, il decorso del tempo preclude (o pone fine al) l’esercizio di un potere o di una facoltà (10). L’art. 152, comma 2, c.c. prevede che i termini stabiliti dalla legge siano perentori solo se tali vengono «espressamente» dichiarati. Detto questo, il termine per il deposito dell’istanza di discussione orale non è “espressamente” previsto come perentorio dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, tanto nel caso dell’udienza di merito quanto nel caso della trattazione degli affari cautelari. Nella prima ipotesi, è previsto che l’istanza vada presentata entro il termine per il deposito delle memorie di replica, mentre nell’altra «fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza in qualunque rito». Neppure il termine di cui all’art. 25, comma 3, del d.l. n. 137 del 2020, applicabile alle «udienze pubbliche e alle camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020», è previsto “espressamente” come perentorio. È vero, però, che la natura perentoria del termine fissato per l’esercizio di un diritto può essere desunta anche in via interpretativa, purché la legge stessa autorizzi tale interpretazione comminando, sia pure implicitamente, ma in modo univoco, la perdita del diritto in caso di mancata osservanza del termine (11).
(6) L’art. 25, comma 1, del d.l. n. 137 del 2020 dispone che le misure introdotte nei periodi quarto e seguenti del comma 1 dell’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 70 del 2020, si applicano altresì alle udienze pubbliche e alle camere di consiglio del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e dei tribunali amministrativi regionali che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e, fino a tale ultima data, il decreto di cui al comma 1 dell’articolo 13 dell’allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, prescinde dai pareri previsti dallo stesso articolo 13; in dottrina v. de niCtoLiS, Il processo amministrativo ai tempi della pandemia, in <www.federalismi.it>, 15 aprile 2020; FrAnCArio, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in <http://www.federalismi.it>, 15 aprile 2020; zuCCheLLi, Sull’udienza telematica, ivi, 13 maggio 2020. (7) Il comma 3 del d.l. n. 137 del 2000 dispone che «Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l’istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell’articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica o camerale». (8) In ogni caso, va assicurata, come il legislatore ha cura di precisare, la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa, sia pure nei limiti delle risorse assegnate agli uffici. Il legislatore ha dimostrato così di raccogliere le preoccupazioni sollevate, come vedremo infra, dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul c.d. processo cartolare “coatto” introdotto dall’art. 84 del d.l. n. 18 del 2020. (9) Al riguardo è utile il rinvio a GrASSo, Sull’opposizione alla discussione e allegazione documentale alternativa nel regime della oralità mediata eventuale, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>. (10) GiAnnini, Diritto amministrativo, II, Milano, 1970, 921. Sulla natura del termine in generale triMArChi, Termine (diritto civile), in Noviss. dig. it., XIX, 1973, 95 e ss.; di MAio, Termine (dir. priv.) – tALiCe, Termine (dir. amm.) – GLendi, Termine (dir. trib.), in Enc. dir., XLIV,1992, 187 ss.. (11) In questo senso Cass., Sez. lav., 7 giugno 2018, n. 14840, in Giust. civ., Mass., 2018; Cass., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8680, 2010, ivi, 2000, secondo cui «la natura perentoria di un termine fissato per l’esercizio di un diritto, non espressamente prevista dalla legge, può desumersi anche in via interpretativa, purché la legge stessa autorizzi tale interpretazione, comminando, sia pure implicitamente, ma in modo univoco, la perdita del diritto in caso di mancata osservanza del termine di cui si tratta»; C. Stato, Sez. IV, 12 ottobre 2018, n. 5878, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>. A questo riguardo, appare utile un riferimento all’art. 73 c.p.a.. I termini previsti dalla norma non sono previsti espressamente come perentori, ma dalla lettura sistematica del codice se ne ricava la perentorietà: l’art. 54 prevede, infatti, che la presentazione tardiva di memorie e documenti «può essere eccezionalmente autorizzata, su richiesta di parte, dal collegio», purché sia assicurato il diritto delle controparti al contraddittorio su tali atti e qualora la produzione nel termine di legge sia risultata estremamente difficile. Allo stesso modo, l’art. 55, comma 5, non prevede espressamente come perentorio il termine assegnato alle parti per depositare memorie e documenti in vista della camera di consiglio, ma la perentorietà si ricava, sul piano sistematico, sulla base del comma 8 della stessa norma che prevede che il collegio «per gravi ed eccezionali ragioni, possa autorizzare la produzione in camera di consiglio dei soli documenti», a condizione che venga consegnata copia alle parti fino all’inizio della discussione. Sul punto, più ampiamente infra.
Alla luce di queste precisazioni, va subito rilevato che la norma in esame rimette alla valutazione del presidente del collegio l’istanza di discussione, condizionandola anche alle eventuali opposizioni alla discussione da remoto espresse dalle altre parti. Non solo il presidente del collegio è chiamato a “valutare” l’istanza, ma può persino disporre con decreto la discussione da remoto «anche in assenza di istanza di parte», là dove lo ritenga necessario. In sostanza, la norma consegna al presidente un potere officioso che pare trovare un unico limite, quello cioè connesso all’ipotesi in cui l’istanza venga presentata «congiuntamente da tutte le parti costituite». È l’ipotesi in cui la norma, senza attribuire alcun potere di valutazione, prevede sic et simpliciter che «l’istanza è accolta dal presidente del collegio». Un quadro, quello delimitato dalle norme appena richiamate, che consiglia, come abbiamo brevemente anticipato, di indagare sulla ratio, sulle finalità, sulle specifiche esigenze di interesse pubblico sottese alla previsione del termine stabilito dal d.l. n. 28 del 2020 e dal d.l. n. 137 del 2020 e, ancor più a fondo, di verificare le ragioni per le quali il presidente del collegio non possa comprimere il diritto alla discussione della causa (sia pure) da remoto se tale pretesa sia avanzata congiuntamente da tutte le parti costituite, e possa, invece, farlo quando a presentare l’istanza sia una sola parte. Va anche approfondito il potere officioso di disporre la discussione della causa anche in assenza di istanza di parte, e in quale misura esso trovi giustificazione.
L’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 si inserisce nell’ambito della normativa emergenziale. Interessa, in particolare, la giustizia amministrativa ed è finalizzato ad assicurarne il funzionamento, sia pur tra le non poche difficoltà legate all’emergenza sanitaria. Certamente meritevole di apprezzamento è la finalità perseguita dal legislatore. E, tuttavia, la possibilità di celebrare le udienze con modalità di collegamento da remoto non può non suscitare perplessità legate innanzitutto all’assenza dell’oralità intesa come presenza fisica delle parti, in contraddittorio tra loro, davanti al giudice. Senza dire dei rischi legati alla connessione tra le parti e alla riservatezza e alla protezione dei dati, il contraddittorio è inevitabilmente condizionato, oltre che dal necessario e rigido contingentamento dei tempi, dalla “forma” dell’esposizione che, contrariamente a quanto accade nel quadro del collegamento da remoto, si alimenta, nel caso della presenza fisica delle parti e del giudice, di liturgie, di atti solenni, di scambi e di gestualità. Si tratta, in sostanza, di quella gestualità nella quale le parti colgono linguaggi inespressi, avvertono sensazioni, percepiscono umori, intuiscono pensieri e orientano, di conseguenza, le proprie strategie difensive. Chiamato a pronunciarsi sulla rilevanza dell’interesse alla discussione orale nel quadro della fase emergenziale, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 2539 del 2020 (12), ha rilevato che, diversamente da quanto accade nel processo penale, il processo amministrativo non è improntato al principio dell’oralità e del «contradditorio in senso “forte”» (13), ben potendo il confronto tra le parti davanti al giudice svolgersi in forma meramente cartolare. Ha, tuttavia, precisato che non è compatibile con un’interpretazione conforme a Costituzione una lettura che, pur nel quadro della normativa emergenziale, propugni il «contraddittorio cartolare “coatto”»: una soluzione di tal segno costituisce violazione dei principi del “giusto processo” (14).
(12) C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, nn. 2538 e 2539, in <http:// Il processocivile.it>, 29 luglio 2020, si pronuncia nell’ambito del quadro disegnato dall’art. 84, comma 5, del d.l. n. 18 del 2020, per il periodo che va dal 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020. La norma stabilisce che «in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati», aggiungendo che «le parti hanno facoltà di presentare brevi note sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione». (13) C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539, cit., precisa che il contraddittorio si caratterizza in senso forte nel processo penale sia quanto alla formazione della prova sia quanto al diritto dell’accusato di confrontarsi de visu con l’accusatore. (14) A questo riguardo C. Stato, Sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2539, cit., afferma che il comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, quando stabilisce che il “giusto processo” – con ciò riferendosi ad ogni processo – deve svolgersi «nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità», impone non solo un procedimento nel quale tutti i soggetti potenzialmente incisi dalla funzione giurisdizionale devono esserne necessariamente “parti”, ma anche che «queste ultime abbiamo la possibilità concreta di esporre puntualmente (e, ove lo ritengano, anche oralmente) le loro ragioni, rispondendo e contestando quelle degli altri». Il Consiglio di Stato aggiunge che un’interpretazione che precluda l’oralità è in contrasto anche con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Secondo il Consiglio di Stato, «l’imposizione dell’assenza forzata, non solo del pubblico, ma anche dei difensori, finirebbe per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta”, refrattaria ad ogni forma di controllo pubblico». Cfr. SAittA, Da Palazzo Spada un ragionevole no al “contraddittorio cartolare coatto” in sede cautelare, in <http://www.federalismi.it>, 5 maggio 2020; VoLpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, cit.; id., Il superamento del “processo cartolare coatto”. Legislazione della pandemia o pandemia della legislazione?, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>; SpAnGher, Covid-19 e udienza penali: brevi riflessioni, in questa Rivista, 2020, 327. Il problema delle norme derogatorie di natura emergenziale è stato analizzato anche dal punto di vista delle fonti: LuCiAni, Il sistema delle fonti alla prova dell’emergenza, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, <http://giurcost.it>, 11 aprile 2020; Sorrentino, Riflessioni minime sull’emergenza coronavirus, in <http:// costituzionalismi.it>, fasc. 1/2020; CArAVitA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in <http://www.federalismi.it>, 18 marzo 2020. Sul giusto processo amministrativo v. MeruSi, Il codice del giusto processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 1 ss.; id., Sul giusto processo ammi-
Vero è che il processo amministrativo si è arricchito di mezzi di trattazione scritta attraverso lo scambio delle memorie e delle repliche in vista dell’udienza pubblica (15) e delle note da depositare fino a due giorni liberi prima dell’udienza cautelare. Tuttavia, tale tendenza, se, da un lato, rafforza la tesi di chi sostiene che il processo amministrativo sia un processo “scritto” (16), non cancella però il principio dell’oralità che, sia pur in forma più attenuata rispetto a quella tipica del processo penale (17), rimane centrale quale luogo di incontro tra le parti e tra le parti e il giudice (18). In altri termini, il processo amministrativo, pur essendo essenzialmente documentale (19), non può ridurre all’irrilevanza la discussione orale, senza con ciò menomare l’apporto complessivo del difensore in sede processuale (20). La
nistrativo, in Foro amm., CdS, 2011, 4, 1353; Coutre, La garanzia costituzionale del «dovuto processo legale», in Riv. dir. proc., 1954, 86. (15) L’art. 73 c.p.a., rispetto alla legge n. 1034 del 1971, ridefinisce i termini connessi con l’udienza di discussione, prevedendo il nuovo termine per la presentazione delle note di replica alle memorie, sicché, com’è noto, la produzione di documenti è fissata fino a 40 giorni liberi prima dell’udienza, la produzione di memorie fino a trenta giorni e la produzione di memorie di replica fino a 20 giorni. Si tratta di termini perentori; di conseguenza, se documenti e memorie sono prodotti fuori termine, il giudice non può tenerne conto ai fini della decisione, nemmeno con il consenso delle parti. Al riguardo C. Stato, Sez. V, 17 novembre 2009, n. 7166, in Guida dir., Dossier, 2, 2010, 99, secondo cui «Nel giudizio amministrativo, il termine assegnato alle parti per il deposito delle memorie è perentorio e non può subire deroghe nemmeno con il consenso delle parti, essendo esso previsto non solo a tutela del contraddittorio ma anche a garanzia del corretto svolgimento del processo e dell’adeguata e tempestiva conoscenza degli atti di causa da parte del collegio giudicante; C. Stato, Sez. VI, 11 agosto 2009, n. 4934, in Redazione Giuffrè, 2009; v. anche C. Stato, Sez. V, 7 novembre 2012, n. 5649, in Foro amm., CdS, 2012,11, 2877, secondo cui i termini per il deposito di documenti e memorie hanno carattere perentorio, «in quanto espressione di un precetto di ordine pubblico processuale posto a presidio del contraddittorio e dell’ordinato lavoro del giudice, sicché la loro violazione conduce all’inutilizzabilità processuale delle memorie e dei documenti». (16) CAiAnieLLo, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1976, 241; id., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 413. (17) niGro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 333. (18) tAruLLo, L’udienza telematica nel processo amministrativo: perché non si debba rimpiangere un’occasione perduta, in <http://giustizia-amministrativa. it>; MArenGo, Udienza (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1992. (19) Cfr. BenVenuti, Processo amministrativo. A) Ragioni e struttura, in Enc. dir., VI, Milano, 1987, 454 ss.; id., L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953; perFetti, Prova (dir. proc. amm.), ivi, Annali II-1, Milano, 2008, 917-946. Anche orSi BAttAGLini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005; FerrArA, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003. (20) In generale, e senza pretesa di esaustività, MiGLiorini, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996, 82; MeruSi, Il contraddittorio nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 17; MAzzAroLLi, Il processo amministrativo come processo di parti e l’oggetto del giudizio, in Dir. proc. amm., 1997, 463 ss.; doMeniCheLLi, La parità delle parti nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2001, 861 ss.; FoLLieri, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, ivi, 2006, 502 ss.; utile compressione dell’udienza orale condiziona la possibilità delle parti di costituirsi direttamente in udienza mediante le “sole” difese orali, in questo caso le uniche ammissibili (21). Non prevedendo il codice del processo amministrativo le preclusioni proprie del processo civile, una tale limitazione avrebbe ricadute anche su altro piano, quello cioè relativo alla possibilità delle parti di proporre eccezioni, non rilevabili d’ufficio, in sede di discussione, a meno che non vengano sollevate sino a due giorni prima nelle note difensive. E, tuttavia, la controparte, in questo caso, non avrebbe modo di replicare. Verrebbe anche condizionato il potere officioso del collegio di sollevare nel corso della discussione orale una questione che ritenesse di dover porre a fondamento della decisione (22), a meno di rinviare la trattazione con conseguente dilatazione dei tempi processuali. Di qui la rilevanza della discussione orale quale strumento difensivo a disposizione delle parti, oltre che “occasione” del giudice di avere la più completa cognizione dell’oggetto della questione e, quindi, tutti gli strumenti per governarlo nel modo più adeguato e celere possibile.
4. La regola della “pubblicità” del processo
L’art. 111 Cost. che, com’è noto, sancisce i principi del «giusto processo», tutela il diritto della parte lesa di ricorrere davanti ad un giudice terzo e imparziale e di essere sentito in contraddittorio (23). L’art. 47 della
anche il rinvio a SALeMi, Il concetto di parte e la pubblica amministrazione nel processo civile penale e amministrativo, Roma, 1916, 275, che esamina il concetto di pubblica amministrazione come parte processuale; BenVenuti, Parte (dir. amm.), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 970; d’orSoGnA, Il litisconsorzio nel processo amministrativo. Il problema delle parti e l’intervento, in piCozzA (a cura di), Processo amministrativo e diritto comunitario, Padova, 2003, 190; puGLieSe, Nozione di controinteressato e modelli di processo amministrativo, Napoli, 1989. (21) T.a.r. Sicilia-Catania, Sez, I, 4 maggio 2020, n. 426, in Redazione Giuffrè, 2020, secondo cui nel processo amministrativo il termine di costituzione delle parti intimate, ai sensi dall’art. 46 del d.lgs. n. 104 del 2010 non ha carattere perentorio, in quanto è ammissibile la costituzione sino all’udienza di discussione del ricorso; nel caso di costituzione tardiva la parte incorre nelle preclusioni e nelle decadenze relative alle facoltà processuali di deposito di memorie, documenti e repliche ove siano decorsi i termini di legge; C. Stato, Sez. III, 15 ottobre 2019, n. 6998, ivi, 2019, secondo cui nel processo amministrativo il termine di costituzione delle parti intimate, previsto dall’art. 46 del d.lgs. n. 104/2010, non ha carattere perentorio, potendo le stesse costituirsi in giudizio fino all’udienza di discussione del ricorso, con le conseguenze relative in merito alle preclusioni ed alle decadenze dalle connesse facoltà processuali. (22) C. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2000, n. 1, in Foro it., 2000, III, 305, stabilisce che il giudice amministrativo, prima di decidere una questione rilevata d’ufficio, deve indicarla alle parti per consentirne la trattazione, in attuazione del principio del contraddittorio. Nella specie, il Consiglio di Stato, prima di rilevare d’ufficio l’irricevibilità dell’appello, aveva indicato in udienza la relativa questione e aveva assegnato alle parti un termine per presentare memorie in proposito. (23) L’art. 6 della CEDU parla di «equa e pubblica udienza» e l’art. 47 della Carta europea dei diritti dell’uomo garantisce il diritto ad un «ri-
Carta europea dei diritti dell’uomo, dal canto suo, tutela il diritto della parte di vedere discussa la sua causa «pubblicamente». In quanto amministrata «in nome del popolo» (art. 101 Cost.), la giustizia è espressione di un potere – quello giurisdizionale – che si fonda sulla sovranità popolare. Il popolo sovrano è fonte di legittimazione di tutte le funzioni statuali. Di qui il precipitato logico-giuridico della pubblicità delle udienze, quale garanzia della possibilità del “controllo democratico” dell’esercizio del potere giurisdizionale. In un’ormai risalente e storica sentenza, con la quale si intendeva adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost., la Corte costituzionale ha stabilito che la regola della pubblicità delle udienze è implicitamente prescritta dal sistema costituzionale quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale. Sulla base di questo principio la Corte costituzionale si rivolgeva, quindi, al legislatore perché intervenisse prontamente ad adeguare il processo tributario all’art. 101 Cost. “correttamente interpretato” (24). Posto che la regola della pubblicità delle udienze è implicitamente scritta nella Costituzione siccome espressione della sovranità popolare, la Corte costituzionale (25), intervenuta ancora sul processo tributario a seguito della disciplina introdotta con decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 - nella quale la pubblicità dell’udienza risulta “condizionata” alla presentazione da almeno una delle parti di un’apposita istanza di discussione, svolgendosi, in caso contrario, la trattazione della controversia in camera di consiglio (art. 33, comma 1) –, ha ritenuto che la regola della pubblicità dell’udienza non risulti esclusa o minata, in quanto essa coesiste in regime di alternatività con il rito camerale. Il rito camerale, dal canto suo, non è lesivo del principio dettato dall’art. 101, comma 1, Cost., stante il carattere eminentemente cartolare del processo tributario, sia sotto l’aspetto probatorio che difensivo in senso ampio. Se così è, non può apparire irragionevole la previsione del rito camerale “subordinato” alla mancata presentazione di istanza di parte diretta ad ottenere la discussione della causa. In mancanza di discussione, la trattazione pubblica della causa si ridurrebbe alla sola relazione della causa da parte del relatore, che comunque sarebbe poi riprodotta nella decisione. La pubblicità della decisione e la sua congruità motivazionale - e ancor prima l’accessibilità del fascicolo camerale da parte di chiunque ne abbia interesse - consente di salvaguardare, anche per questa via,
corso effettivo dinanzi a un giudice» e il diritto di ogni individuo a vedere esaminata la sua causa «pubblicamente»; CintioLi, Giusto processo, CEDU e sanzioni antitrust, in Dir. proc. amm., 2015, II, 507 ss.. (24) Corte cost., 24 luglio 1986, n. 212, in Rass. avv. Stato, 1987, I, 195. (25) Corte cost., 23 aprile 1998, n. 141, in Foro it., 1999, I, 767. il principio sancito dall’art. 101 Cost. (26). Perplessità suscita, invece, il giudizio in Cassazione nelle ipotesi in cui le questioni oggetto della causa, non avendo valenza nomofilattica, non sono destinate alla trattazione in pubblica udienza e alla definizione con sentenza (27). Concludendo sul punto, se, come abbiamo visto, l’oralità nel processo amministrativo è “condizionata” dalla normativa emergenziale, la pubblicità però non è affatto garantita. L’oralità costituisce un valore che va preservato, sia pure nelle forme del collegamento da remoto, tant’è che non incontra limiti nel sistema codicistico se non nelle ipotesi di cui all’art. 56 c.p.a. (28). Tuttavia, anche la pubblicità dell’udienza costituisce un valore da presidiare. A questo scopo vanno, pertanto, assicurati a chiunque abbia interesse ad assistere all’udienza mezzi idonei a garantire il collegamento da remoto (29), pur nella consapevolezza che alcune limitazioni alla regola della “pubblicità” dell’udienza costituiscono il tributo da pagare alle esigenze imposte dal momento emergen-
(26) Cfr. Corte cost. 31 marzo 1994, n. 121, in Giur. cost., 1994, 1029, che, ribadendo i principi affermati dalla costante giurisprudenza della Corte, afferma che non soltanto il rito ordinario è conforme alla Costituzione e, quindi, l’unico rito idoneo a soddisfare il diritto di difesa. Precisa, quindi, che la scelta del procedimento camerale per ragioni di celerità sarebbe illegittima solo se, in relazione alle peculiari esigenze dei diversi processi, tale scelta apparisse inidonea ad assicurare lo scopo e la funzione del processo, e, quindi, in primo luogo il contraddittorio, dovendosi considerare che, in difetto di esplicite previsioni limitatrici di siffatte forme e modalità, anche quel procedimento «è idoneo ad assicurare tutte le garanzie processuali necessarie a rendere il sistema conforme alle esigenze del diritto di difesa»: Corte cost., 22 dicembre 1989, n. 573, in Dir. eccl., 1989, II, 479; Corte cost., 14 dicembre 1989, n. 543, ivi, 1989, II, 481. (27) SASSAni, Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”, in <http://www.judicium.it>, osserva che, allo scopo di snellire il contenzioso davanti alla Corte, i giudizi possono essere definiti in camera di consiglio, senza trattazione orale a norma dell’art. 375 c.p.c. e nei modi di cui all’art. 380-bis c.p.c.. Si tratta delle ipotesi in cui la Corte debba dichiarare l’inammissibilità del ricorso principale e del ricorso incidentale, pronunciarsi sui regolamenti di competenza o di giurisdizione o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso o, ancora, quando la questione di diritto oggetto del giudizio non abbia particolare rilevanza. Si v. anche di CerBo, Brevi considerazioni sul nuovo rito in Cassazione e sui suoi riflessi sull’organizzazione della Sezione Lavoro, in Giustizia Insieme, 26 febbraio 2019, nonché LoMBArdo, Il procedimento davanti alla Corte, in <http://www.cortedicassazione.it>, 7 giugno 2020. Sul rito camerale visto nel contesto del dibattito relativo al rapporto tra effettività della tutela ed efficienza della giurisdizione si rinvia a nArdo, Rito camerale ed “ingiusto” processo, in Quaderni di Judicium, Pisa, 2020. (28) L’art. 87 c.p.a. prevede, com’è noto, che «le udienze sono pubbliche a pena di nullità, salvo quanto previsto dal comma 2, ma il presidente del collegio può disporre che si svolgano a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume». (29) Con decreto del 20 aprile 2020, che regola le udienze davanti alla Consulta, il Presidente della Corte costituzionale, al fine di assicurare la pubblicità delle udienze da remoto, ha stabilito che «la pubblicità è assicurata mediante verbalizzazione a cura del Cancelliere, nonché mediante la registrazione e la successiva pubblicazione delle registrazioni nel sito informatico istituzionale della Corte costituzionale».
ziale, qual è indubbiamente quello che viviamo. Un prezzo, tutto sommato, accettabile sotto il profilo dei valori costituzionali e dei principi europei, ove si consideri che sono state per molti versi “sospese” le stesse libertà costituzionali.
Occorre ora verificare se il condizionamento che l’oralità subisce per effetto della normativa emergenziale rischi di snaturare i tratti caratterizzanti del processo amministrativo. Nelle direttive relative all’attività giurisdizionale da condurre nel periodo dell’emergenza sanitaria, il Presidente del Consiglio di Stato sostiene che «il processo amministrativo è storicamente un processo scritto, basato su prove scritte e precostituite, come dimostra anche la ridotta percentuale delle cause in cui viene chiesta dalle parti la discussione orale» (30). E, in effetti, nella pratica la discussione orale è assai contingentata per l’esigenza di contenere in tempi ragionevoli la celebrazione dei processi quando la questione oggetto della decisione venga ben illustrata dalle memorie scritte. A meno che la trattazione orale della causa non sia suscettibile di apportare un quid pluris alle difese complessivamente svolte nelle memorie e/o non sia utile al collegio per meglio focalizzare aspetti decisivi o, comunque, rilevanti del thema decidendum, è evidente che la centralità dell’oralità nel processo amministrativo, della quale abbiamo parlato sopra, vale (solo) a caratterizzare l’udienza di discussione come luogo “pubblico” di confronto delle parti in contraddittorio tra loro davanti al giudice. Confronto efficace sul piano della qualificazione giuridica dei fatti o della mera dialettica processuale, ma non certo momento utile a elaborare l’istruzione della causa attraverso l’acquisizione e la valutazione tecnica degli elementi di fatto. L’oralità è necessaria, in altri termini, quando gli elementi di fatto acquisiti nel corso dell’istruttoria vanno meglio chiariti o contestualizzati, tenuto conto che in molti casi la discussione orale può risultare più efficace della trattazione scritta anche ai fini della stessa qualificazione giuridica. L’ha ben evidenziato lo stesso Tar in commento quando ha rilevato che «la controversia introdotta […] involge situazioni e questioni alquanto delicate sia in punto di fatto che di diritto», anche «alla luce degli interessi coinvolti». Deve soggiungersi, per inciso, che l’udienza di discussione può servire, in qualche caso (31), ad evitare l’uso distorto delle memo-
(30) pAtroni GriFFi, Direttive del Presidente del Consiglio di Stato – Secondi chiarimenti su alcuni profili relativi all’attività giurisdizionale nel periodo di emergenza covid-19, 20 marzo 2020, prot. 7400. (31) V’è un indirizzo giurisprudenziale che, per evitare l’uso distorto delle memorie conclusionali, stabilisce che le memorie di replica non rie di replica da parte dell’amministrazione resistente o dei controinteressati che, essendosi costituiti con memorie “di stile”, volessero utilizzare le memorie conclusive per avere la c.d. “ultima parola”. Il confronto “pubblico” sulla qualificazione dei fatti, se costituisce atto d’ossequio al principio di pubblicità dell’udienza, non può, tuttavia, appesantirla a danno dell’esigenza di speditezza nella trattazione dei processi. Pertanto, è utile, e come tale va sempre garantito, quando riguardi situazioni nelle quali vi sia, per esempio, contrasto di orientamenti o novità normative. Ciò non significa che il legislatore possa cancellare, con un tratto di penna, l’udienza pubblica, perché, come abbiamo evidenziato sopra, essa costituisce il momento nel quale il confronto dialettico tra le parti processuali rende conoscibile, da parte dei consociati, l’esercizio del potere giurisdizionale. L’udienza pubblica può essere solo derogata a fronte di preminenti e ragionevoli esigenze di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico e di buon costume (art. 87 c.p.a.), ovvero – aggiungiamo – quando non risulti che un inutile appesantimento del processo.
6. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni svolte, il limite temporale, previsto dall’art. 4, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020 per chiedere la discussione orale della causa, deve considerarsi non perentorio, come, in modo condivisibile, ha ritenuto il Tribunale Emilia Romagna in commento. Il termine è stabilito solo per consentire l’organizzazione dell’udienza da remoto, tant’è che la stessa norma, appena citata, stabilisce che «in tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno tre giorni prima della trattazione, l’avviso dell’ora e delle modalità di collegamento». È chiaro, infatti, che alla discussione da remoto non possa che corrispondere uno sforzo organizzativo diretto, in primo luogo, ad accertare «l’identità dei soggetti partecipanti», nonché «la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali». A questo scopo, il comma 2 della stessa norma prevede l’adozione, da parte del Presidente del Consiglio di Stato, di un decreto (32) inteso a stabilire le «regole tecnico-operative
possono essere depositate in mancanza della memoria prevista dall’art. 73, comma 1, c.p.a.: C. Stato, Sez. V, 5 marzo 2012, n. 1256, in Foro amm., Cds, 2012, 3, 626, secondo cui, nel processo amministrativo, presupposto indefettibile per il deposito di memorie di replica nel termine fissato dall’art. 73, comma 1, c.p.a. è l’avvenuto deposito, nel termine fissato dallo stesso art. 73, comma 1, delle memorie conclusionali delle controparti; di conseguenza, la memoria di replica presentata in assenza di detto presupposto è inammissibile. (32) Si tratta di un decreto che il Presidente del Consiglio di Stato adotta, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le as-
per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico». Come previsto dal comma 1, «Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge» (33). Il termine non è previsto per regolare il contraddittorio; ne è conferma il fatto che la norma, «in alternativa alla discussione», consente alle parti di presentare note di udienza fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell’udienza, o richiesta di passaggio in decisione, e di essere così «presenti» ad ogni effetto all’udienza. Se il termine previsto per chiedere la discussione orale fosse perentorio, non troverebbe giustificazione una sua “elu-
sociazioni specialistiche maggiormente rappresentative, che si esprimono nel termine perentorio di trenta giorni dalla trasmissione dello schema di decreto». Tale decreto è stato adottato in data 22 maggio 2020 e porta il n. 134. L’art. 2, comma 8, prevede che all’atto del collegamento e prima di procedere alla discussione, i difensori delle parti o le parti che agiscono in proprio «dichiarano, sotto la loro responsabilità, che quanto accade nel corso dell’udienza o della camera di consiglio non è visto né ascoltato da soggetti non ammessi ad assistere alla udienza o alla camera di consiglio, nonché si impegnano a non effettuare le registrazioni di cui al comma 11. La dichiarazione dei difensori o delle parti che agiscono in proprio è inserita nel verbale dell’udienza o della camera di consiglio». (33) Non è di poco conto lo sforzo organizzativo richiesto. Infatti, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato stabilisce, all’art. 2, comma 5, che in tutti i casi in cui venga disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica agli avvocati agli indirizzi previsti in un apposito allegato, secondo le modalità dettate nelle apposite specifiche tecniche – idonee ad assicurare l’avvenuta ricezione - almeno un giorno libero prima della trattazione, l’avviso del giorno e dell’ora del collegamento da remoto in videoconferenza. Ha, quindi, cura di predisporre le convocazioni distribuendole in un congruo arco temporale, in modo da contenere, quanto più possibile e compatibilmente con il numero di discussioni richieste, il tempo di attesa degli avvocati prima di essere ammessi alla discussione. L’orario indicato nell’avviso è soggetto a variazioni in aumento. Nella stessa comunicazione sono inseriti il link ipertestuale per la partecipazione all’udienza, nonché l’avvertimento che l’accesso all’udienza tramite tale link e la celebrazione dell’udienza da remoto comportano il trattamento dei dati personali anche da parte del gestore della piattaforma, come da informativa relativa al trattamento dei dati personali ai sensi degli articoli 13 e 14 del Regolamento (UE) 2016/679, pubblicata - con invito a leggerla - sul sito internet della Giustizia amministrativa. La copia informatica delle comunicazioni, qualora non eseguite tramite il sistema informativo della Giustizia amministrativa, è inserita nel fascicolo del procedimento a cura della segreteria. Il link inviato dalla segreteria è strettamente personale e non cedibile a terzi, fatta eccezione per l’eventuale difensore delegato. Il comma 6 del decreto stabilisce che per partecipare alla discussione da remoto in videoconferenza è necessario che il dispositivo rispetti i requisiti previsti nelle specifiche tecniche allegate al decreto stesso. I difensori o le parti che agiscono in proprio garantiscono la corretta funzionalità del dispositivo utilizzato per collegarsi alla videoconferenza, l’aggiornamento del suo software di base e dell’applicativo alle più recenti versioni rese disponibili dai rispettivi produttori o comunità di supporto nel caso di software open source, con particolare riferimento all’installazione di tutti gli aggiornamenti e le correzioni relative alla sicurezza informatica, e all’utilizzo di un idoneo e aggiornato programma antivirus. I magistrati utilizzano per il collegamento telematico esclusivamente gli indirizzi di posta elettronica istituzionale e i dispositivi forniti in dotazione dal Segretariato generale della Giustizia amministrativa. sione” a mezzo delle note di udienza ammesse fino al giorno antecedente. La possibilità di presentare note d’udienza salvaguarda, sia pure con tutte le difficoltà e le vischiosità derivanti dalla situazione emergenziale, la centralità dell’udienza di discussione e, al tempo stesso, preserva il giusto equilibrio tra l’esigenza di assicurare lo svolgimento dei processi, da un lato, e di tutelare, dall’altro, la salute di quanti operano nel mondo della giustizia. Il triplice scenario, prefigurato dall’art. 28, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, muove dalla necessità di garantire al giudice l’occasione di meglio chiarire o contestualizzare gli elementi di fatto acquisiti nel corso dell’istruttoria, tenuto conto che in non pochi casi, come abbiamo anticipato, la discussione orale può risultare più efficace della trattazione scritta. È anche l’occasione di provocare il contraddittorio su questioni rilevate d’ufficio, senza dover rinviare l’udienza per attendere all’incombente e dilatare così i tempi del processo. Com’è noto, il dovere del giudice di venire in soccorso alle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a. è posto proprio a garanzia del contraddittorio. Costituisce cioè un meccanismo di tutela volto ad evitare pronunce “a sorpresa” su profili che hanno influenza decisiva sul giudizio (34). «Niente prova la civiltà di un ordinamento – scrive Calogero – quanto la larghezza con cui esso fa luogo all’ascolto delle opposte ragioni» (35). Ad avvalorare questa tesi milita il fatto che la norma consenta al giudice, da un lato, di disporre con decreto la discussione orale «anche in assenza di istanza di parte» e, dall’altro, di «valutare» se accogliere l’istanza presentata da una sola parte, alla luce delle opposizioni delle altre parti. È evidente come il potere officioso rimesso al giudice non possa che essere condizionato dall’esigenza di affinare o meglio approfondire aspetti che la trattazione scritta ha lasciato in ombra o addirittura appannato e/o di confrontarsi con le parti per avere chiarimenti e/o di venire in soccorso del
(34) C. Stato, Sez. III, 30 aprile 2019, n. 2802, in Redazione Giuffrè, 2019, che ha evidenziato come il vizio dell’omessa possibilità di difesa ex art. 73, comma 3, c.p.a. attenga al procedimento - perché la questione non è stata previamente sottoposta al contraddittorio nel corso del processo - non al contenuto della sentenza. Sentenza che potrebbe essere anche “giusta” nella sua portata decisoria. Il Consiglio di Stato precisa ancora che l’art. 73, comma 3, riguarda le domande (o, eventualmente, le eccezioni) decise senza suscitare il contraddittorio sulla questione dirimente; non investe, invece, le conseguenze o gli effetti che derivano dall’accoglimento o dal rigetto delle domande: gli effetti della decisione rimangono, invero, nella disponibilità del giudice che pronuncia la sentenza e non richiedono la previa instaurazione del contraddittorio processuale ai sensi dell’art. 73, comma 3; sul punto v. C. Stato, Ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10, in Foro amm., 2018, 7-8, 1183; C. Stato, Ad. plen., 28 settembre 2018, n. 15, ivi, 2018, 9, 1436. (35) CALoGero, Principio del dialogo e diritto dell’individuo, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, Milano, 1963.
contraddittorio su questioni rilevate d’ufficio (36). Tale potere incontra necessariamente un limite nell’istanza di discussione della causa «presentata congiuntamente da tutte le parti costituite» (37). Una soluzione diversa consentirebbe al giudice di sostituirsi alle parti nella valutazione dell’esigenza di svolgere il contraddittorio orale. Dalle considerazioni svolte emerge, insomma, che lo sforzo diretto a garantire la funzionalità e la continuità del “servizio giustizia” nel periodo emergenziale ponga problemi sia giuridici che organizzativi, entrambi legati alla reingegnerizzazione della macchina processuale. Quanto ai problemi organizzativi, è certamente necessario adottare protocolli e prassi condivisi e uniformi al fine di evitare incertezze sull’utilizzo dei sistemi informatici, cui finirebbero per corrispondere altrettante incertezze sul piano più strettamente tecnico-giuridico (38), e, non da ultimo, individuare soluzioni idonee ad assicurare a chiunque voglia assistere alle udienze la possibilità di collegamento da remoto, in ossequio al principio di pubblicità del quale abbiamo trattato.
(36) Su questo aspetto C. Stato, Sez. II, 15 maggio 2020, n. 3109, cit., 19 maggio 2020, che afferma che «nel caso in cui, ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18/2020, l’udienza sia svolta telematicamente senza la partecipazione dei difensori, ove il giudice rilevi d’ufficio un profilo di inammissibilità dell’impugnazione, deve assegnare alle parti un termine non superiore ai 30 giorni per il deposito di memorie, riservando la decisione ad altra camera di consiglio». Si tratta dell’ipotesi della c.d. “terza via”, prefigurata dall’art. 73, comma 3, c.p.a., che impone al giudice, che ritenga di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, di indicarla in udienza dandone atto a verbale, in modo che, a seguito di tale “avvertimento”, le parti possano interloquire oralmente sulla questione al fine di precisare le proprie posizioni davanti al giudice. L’avvertimento è così importante che se la questione dovesse essere rilevata dopo il passaggio in decisione della causa, il giudice deve riservare la decisione ed assegnare alle parti un termine non superiore a trenta giorni per depositare memorie sulla questione. Nell’ordinanza citata, il Consiglio di Stato, avendo rilevato d’ufficio nell’udienza non partecipata, l’inammissibilità di motivi aggiunti proposti in appello, ha concesso alle parti un termine di trenta giorni per presentare memorie, in applicazione dell’art. 73, comma 3, c.p.a., con ciò sottintendendo che l’udienza non partecipata non costituisca vera e propria udienza, ma una sorta di camera di consiglio dei magistrati finalizzata alla decisione. L’art. 73, comma 3, c.c. si riferisce, non a caso, alle questioni rilevate d’ufficio «dopo il passaggio in decisione» dell’affare. La violazione dell’obbligo dell’“avvertimento” alle parti rifluirebbe nella nullità della sentenza. Sul punto CoMoGLio, “Terza via” e “processo giusto”, in Riv. dir. proc., 2006, 755; in giurisprudenza C. Stato, Sez. V, 8 marzo 2011, n. 1462, in Foro amm., CdS, 2011, 3, 910. Ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. va annullata con rinvio al giudice di primo grado la sentenza che sia stata emessa senza che la questione d’irricevibilità/inammissibilità del ricorso, rilevata d’ufficio dal collegio, sia stata sottoposta alla trattazione delle parti, comportando tale omissione violazione del generale principio processuale di garanzia del contraddittorio immanente alla garanzia costituzionale del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.. Il principio del giusto processo opera non solo nella fase d’instaurazione del processo ma ne permea l’intero svolgimento, ponendosi come garanzia di partecipazione effettiva delle parti al processo, ossia come riconoscimento del loro diritto d’influire concretamente sullo svolgimento del processo e d’interloquire sull’oggetto del giudizio. Pertanto, le parti devono essere poste in grado di prendere posizione in ordine a qualsiasi questione, di fatto o di diritto, preliminare o pregiudiziale di rito o di merito, la cui risoluzione sia influente ai fini della decisione. (37) Se consideriamo la giurisprudenza che si è formata sulla questione, possiamo affermare che gli argomenti profusi davanti al giudice al fine di evitare la discussione orale sono rappresentati dalla «superfluità» della trattazione alla luce delle difese scritte e, quindi, dalla «maturità» del giudizio. Su questi aspetti cfr. Tar Molise, Sez. I, 4 giugno 2020, n. 40, in <http://www.giustizia-amministrativa.it>; Tar Campania-Napoli, Sez. III, 4 giugno 2020, n. 301, ivi; Tar Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 5 giugno 2020, n. 102, ivi. (38) d’ALeSSAndri, Coronavirus: vademecum della Giustizia Amministrativa per tenere le udienze da remoto, in <http://www.ilquotidianogiuridico.it>, 23 marzo 2020. Per approfondimenti sul modo in cui l’informatica condiziona e condizionerà sempre di più il processo amministrativo si rinvia a FroSini, Telematica ed informatica giuridica, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 60; zuCConi GALLi FonSeCA, L’incontro tra informatica e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 2015, 1185.
Profilazione e privacy: un confronto fra i modelli Google, Amazon e Facebook
di Flaviano Peluso e Michele Saporito
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dalla “data economy” alla “experience economy”. – 3. Profilazione e processi decisionali automatizzati. - 4. Il ruolo delle principali piattaforme online nell’economia globale. – 5. Il confronto dei modelli di profilazione delle Big 3. – 6. Limitazioni ed eccezioni al processo decisionale automatizzato.
La profilazione degli utenti è sempre più centrale nell’economia moderna. Conoscere i gusti degli utenti e prevedere i loro comportamenti può garantire uno strumento di eccezionale forza per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Google, Amazon e Facebook hanno costruito dei modelli di profilazione assolutamente efficaci ma molto diversi fra loro. Analizzare i loro sistemi di profilazione può aiutare a capire perché la loro crescita economica sembra inarrestabile. User profiling is increasingly central in the modern economy. Knowing users’ tastes and predicting their behavior can provide an exceptionally powerful tool for the development of new products and services. Google, Amazon and Facebook have built up very effective but very different profiling models. Analyzing their profiling systems can help to understand why their economic growth seems unstoppable.
1. Introduzione
Nel mondo moderno siamo circondati da dati sotto qualsiasi tipo di forma e aspetto, ognuno di noi possiede almeno un device digitale di comunicazione collegato alla rete, ogni minuto vengono scambiate, nel mondo, milioni di informazioni che viaggiano come sequenze binarie nel mondo digitale. La verità è che ormai la tecnologia e la velocità dell’informazione sono entrate così prepotentemente nella nostra quotidianità che la maggioranza della popolazione mondiale, vive in uno stato di costante interconnessione con il web. Possiamo quindi affermare di vivere in una “Data Economy”. Basta guardare qualche dato per rendersi conto dell’importanza del fenomeno: ogni minuto, su Facebook, vengono creati 3,3 milioni di post, pubblicati 510.000 commenti e aggiornati 293.000 stati; contemporaneamente su WhatsApp vengono scambiati 38 milioni di messaggi; su Google vengono effettuate 3,8 milioni di ricerche. Questo, però, è solo l’aspetto superficiale della questione. È noto che le aziende, a prescindere dal loro core business, hanno una costante esigenza di conoscere il mercato, sapere le esigenze dei propri consumatori e, se possibile, anticipare o creare i nuovi bisogni. Per fare questo è necessario un grande sforzo: ricerche di mercato, analisi dei mercati, studi di settore. Tutte operazioni dispendiose ma assolutamente indispensabili per cercare di incrementare le possibilità di sopravvivenza/ espansione dell’azienda. Sembra utile richiamare in via analogica le teorie di DeGroat e Nielsen, due ricercatori dell’Advanced Working Fight Group dell’esercito statunitense che hanno elaborato una teoria incentrata sulla relazione esistente tra informazione e combattimento. In fondo la competizione commerciale può essere agevolmente comparata con uno scenario di guerra, almeno dal punto di vista teorico. Secondo i citati autori (1) si può ipotizzare la seguente equazione:
Combat power=Information*(the speed of light)2
ossia la potenza in combattimento è uguale all’informazione moltiplicata per la velocità della luce al quadrato. In altri termini l’informazione è diventata la “guerra” e la “velocità” con cui si trasferisce il vantaggio competitivo che si può avere nei confronti dei competitor. L’evoluzione tecnologica e l’enorme disponibilità di dati può, chiaramente, essere sfruttata economicamente per ottenere questo vantaggio. Proviamo ora, in via prodromica, a fare un paragone fra le vecchie ricerche di mercato con i sondaggi telefonici e le potenzialità che oggi hanno, in particolare le Big 3 (Amazon, Google, Facebook), con la profilazione nel web e il controllo di molte attività svolte sui nostri device. Ipotizziamo che tutte le informazioni, i gusti, le preferenze e le inclinazioni degli utenti/consumatori siano nascoste come fossero pesci all’interno di un oceano. Nel passato le aziende effettuavano ricerche di mercato con gli strumenti che disponevano (contatti telefonici, sondaggi ecc.). Quindi all’interno del mare magnum dei dati sarebbero state come pescatori muniti di una piccola rete a maglie molto larghe.
(1) de GroAt - niLSen, Information and combat power on the Force XXI Battlefield, in Military Review, Washington, 1995.
Oggi, la profilazione permette di usare una sorta di “pesca a strascico”: si prendono tutti i dati possibili ed immaginabili, taluni saranno utili, altri non serviranno a nulla, benché potrebbero avere utilità in futuro o per altre aziende a cui possono essere ceduti. Peraltro, l’analisi delle vecchie attività di ricerca sul mercato richiedevano tempi di elaborazione più dilatati. Oggi la profilazione automatizzata sui nostri device è fatta 24 ore al giorno e da algoritmi che permettono di ridurre sensibilmente il tempo necessario all’elaborazione. In sostanza le grandi aziende digitali, come le Big 3, hanno miliardi di dati da processare ogni giorno, ciascuno di essi rappresenta un piccolo tassello sul comportamento degli utenti. Quasi ogni cosa che facciamo durante la giornata trasmette informazioni su di noi e ciò avviene quasi istantaneamente. Ecco che l’equazione di DeGroat e Nielsen diventa determinante. Enormi ammassi di informazioni sempre aggiornate processate in pochi secondi. Questo basta a mostrare la forza competitiva delle Big 3. In altre parole, ogni giorno creiamo un flusso continuo e ininterrotto di informazioni, notizie reali e false che coesistono e possono confondersi ma, comunque, sono preziose per la profilazione degli utenti. Motori di ricerca, email, Facebook, Apple News, Amazon, Twitter, Google Maps, ecc. sono tutti servizi che utilizziamo quotidianamente solo apparentemente senza pagare nulla; in realtà paghiamo un conto piuttosto salato: i nostri dati e le nostre informazioni, elementi che possono generare un valore inimmaginabile. Ogni volta che acquistiamo in rete un prodotto o un servizio, scarichiamo un video o un software, ci scambiamo foto o “twittiamo”, navighiamo sul web alla ricerca di risposte strutturate, oppure memorizziamo i nostri contenuti su un cloud, produciamo informazioni che economicamente valgono moltissimo. Oltre a questo, bisogna considerare che Internet costituisce il più grande mercato nella storia dell’umanità ed ha imparato a sfruttare tutte le informazioni personali prodotte ogni volta che facciamo un clic, elaborandole in algoritmi in grado di orientare i bisogni, i comportamenti sociali, ed influenzare anche le scelte politiche. Si chiama “profilazione” e, come dimostrato poc’anzi, rappresenta una “merce” molto richiesta da migliaia di aziende e gruppi di pressione. Quest’ultimi raramente sono in grado di acquisire in proprio queste informazioni, quindi si rivolgono a colossi del digitale quali Amazon, Facebook, Google, Apple e Microsoft, per ottenere quanto desiderato. È come se fossimo avvolti da una nuvola invisibile, composta dai dati e le informazioni che scambiamo online, un flusso continuo che qualcuno raccoglie, elabora e scambia. È vero che grazie ai big data accediamo a servizi sempre più ritagliati sulle nostre necessità, ma ogni nostra mossa, ogni acquisto, ogni comunicazione, ogni nostro momento pubblico e privato è osservato. Di ciascuno di noi esiste da qualche parte nell’etere un profilo. Utile a chi vuole influenzare le nostre scelte, di consumo ma anche politico-elettorali, e magari anche a chi vorrà approfittare delle nostre debolezze e dei nostri segreti. Ogni singolo profilo può essere venduto più volte, producendo ogni volta un ricavo per un diverso attore di questa filiera globale generata a nostra insaputa. Questa replicabilità rende i nostri profili il bene più scalabile e redditizio. Già nel 2017 La Commissione Europea aveva previsto (2) che in Europa prodotti e servizi costruiti sui dati muoveranno entro la fine del 2020 un giro d’affari di 106 miliardi di euro; a livello globale invece l’intera economia basata sull’utilizzo di dati potrebbe raggiungere il valore di 739 miliardi di euro, che equivale al 4% del prodotto interno lordo europeo. Il portale “Statista” ha stimato che il mercato della pubblicità online raggiungerà i 300 miliardi di dollari all’anno entro la fine dell’anno, quello delle informazioni prodotte dagli oggetti connessi (internet delle cose o “IOT” in inglese, internet of things) i 130 miliardi, e quello dell’intelligenza artificiale i 60 miliardi entro il 2025 (3). Nel maggio del 2017, circa sette mesi dopo l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati uniti d’America e poco meno di un anno prima dello scandalo Facebook-Cambridge Analityca, una celebre copertina della rivista “Economist” sentenziava: “La risorsa più preziosa al mondo non è più il petrolio, sono i dati”. Al di là della forte affermazione, alla luce di quanto appena evidenziato, appare più che lecito oggi parlare dell’epoca che stiamo vivendo come quella della “Data Economy”. Di fronte a questo scenario l’Unione Europea ha deciso, giustamente, di rafforzare le difese degli utenti: dal 25 maggio 2018 è infatti direttamente applicabile, in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, la General Data Protection Regulation (GDPR) sulla protezione delle persone fisiche rispetto al trattamento e alla libera circolazione dei dati. In origine il dibattito riguardava principalmente l’aspetto di riservatezza dei dati personali. Oggi alla tutela della
(2) Chiaramente le previsioni non potevano tener conto della pandemia da COVID-19. (3) GABAneLLi - SAVeLLi, Internet: come proteggere i dati personali o monetizzarli”, dalla Rubrica: “Data Room” del Corriere della Sera, in <https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/internet-dati-personali-web-come-proteggere-guadagnare-monetizzare-google-facebook-amazon/0d7637d8-edbb-11e9-81e9-dd3f6712b5e2-va.shtml>.
privacy si affiancano due nuove importanti tematiche. Infatti, bisogna considerare da un lato, l’analisi del vantaggio competitivo dell’uso esclusivo dei dati a fini di profilazione commerciale da parte delle grandi piattaforme globali, a partire dalle Big Five: Google (anche con YouTube), Amazon, Facebook (anche con WhatsApp, Instagram e Messenger), Apple, Microsoft (anche con Skype e Linkedin); dall’altro, la crescente preoccupazione circa l’impatto che il rilascio e l’uso di dati a fini di marketing politico indiretto può avere. I social network sono definitivamente divenuti parte integrante dell’informazione quotidiana dei cittadini italiani e del resto del mondo. In generale, le piattaforme on-line, basano il proprio business sull’estrazione, sul trattamento e sull’elaborazione di informazioni e dati da profili personalizzati e la disponibilità degli stessi aumenta di pari passo con il crescente uso della rete da parte dei cittadini, dei consumatori, delle imprese e delle istituzioni. Esse sono diventate a tutti gli effetti i nuovi leader mondiali nel settore della pubblicità, sottraendo di fatto risorse pubblicitarie ai media tradizionali e rappresentando ormai il principale mezzo di distribuzione dell’informazione in rete. Con l’avvento del 5G questo fenomeno è destinato a crescere ulteriormente in quanto l’estrazione di dati potrà contare su una rete ancora più capillare e potente.
2. Dalla “data economy” alla “experience economy”
I dati sono considerati dalle aziende asset importanti per impostare le strategie di impresa. Sono gestiti da pochi grossi player che li mettono a disposizione degli inserzionisti, in forma aggregata e anonima. L’ossessione per la descrizione del cliente risponde all’evoluzione dei modelli di business. Alcune grandi multinazionali del settore informatico hanno infatti già profetizzato l’avvento della c.d. experience economy (economia dell’esperienza), una visione caratterizzata dalla percezione in cui i dati sono la linfa vitale, poiché alimentano un marketing sempre più segmentato e personalizzato. Sommando on-line e off-line, i data broker riescono ad attribuire ad un singolo profilo migliaia di attributi, ossia dettagli che ne descrivono in maniera sempre più precisa gusti, abitudini, preferenze. Solo per fare alcuni esempi, la piattaforma di gestione dati di Group M (4) di queste preferenze ne somma fino a 4.500; Oracle riesce ad associare a un profilo anonimo fino a 70.000 attributi. Una classificazione che ramifica le informazioni su sesso, educazione, composizione della famiglia, stili di vita, Sport, proprietà immobiliari, rotte di navigazione su web e social network. Nonostante questi profili siano già molto nitidi, le aziende vogliono isolarli ancora di più. Il brokeraggio dei dati consiste proprio nell’incrocio di queste informazioni con quelle raccolte in altri silos. In termini tecnici questo processo viene detto “enrichment” (arricchimento). I dati dei broker, detti “di terza parte”, vengono incrociati con quelli che i loro clienti hanno raccolto in proprio (detti “di prima parte”) o acquisito dai loro partner (seconda parte). La sovrapposizione consente di creare un profilo il più possibile esatto del cliente. Si lavora sull’iper-personalizzazione per aumentare l’ingaggio dell’utente (5). Stiamo parlando dell’approccio “data driven” (letteralmente: essere guidato dai dati) che rappresenta l’applicazione del fenomeno Big data in campo aziendale. Avere un approccio di questo tipo significa far fruttare il tesoro dei Big data nelle imprese e utilizzare, in modo efficace, i dati nel processo decisionale. Le aziende data-driven considerano la gestione dei dati non come un fattore tecnico bensì come un pilastro strategico del business. L’analisi, dunque, esula dalle mere sensazioni personali per accentrarsi esclusivamente su numeri e fatti oggettivi. Se ne evince che è determinante avere a disposizione dati corretti, aggiornati e rilevati con frequenza cadenzata. A quanto detto occorre aggiungere che un grande supporto viene fornito dall’analisi predittiva di tipo probabilistico sui dati, che è alla base della profilazione. Le aziende, per definizione, operano in situazioni di incertezza, pertanto riuscire a prevedere il futuro e l’andamento del mercato diviene fondamentale. L’analisi dei dati può condurre a diversi livelli di conoscenza correlati alla tipologia di modelli di analytics messi in campo. Inoltre, l’utilizzo degli stessi richiede competenze e livelli di comprensione differenti dei fenomeni, oltre che la disponibilità e la capacità di analizzare i dati. È possibile identificare quattro categorie principali di modelli di analytics: 1) Descriptive Analytics: l’insieme di strumenti orientati a descrivere la situazione attuale e passata dei processi aziendali e/o aree funzionali. Tali strumenti permettono di accedere ai dati secondo modelli logici e di visualizzare in modo sintetico e grafico i principali indicatori di prestazione; 2) Predictive Analytics: strumenti avanzati che effettuano l’analisi dei dati per rispondere a domande relative a cosa potrebbe accadere nel futuro; sono
(4) Multinazionale della pubblicità che ha in archivio un miliardo di profili di consumo e in Italia 50 milioni di interazioni al giorno. (5) zorLoni, Tutto quello che i dati dicono di noi (e le aziende pagano per sapere), in Wired, in <https://www.wired.it/economia/business/2019/04/08/dati-gdpr-big-data/>.
caratterizzati da tecniche matematiche quali regressione, forecasting, modelli predittivi, ecc; 3) Prescriptive Analytics: tool avanzati che, insieme all’analisi dei dati, sono capaci di proporre al decision maker soluzioni operative/strategiche sulla base delle analisi svolte; 4) Automated Analytics: capaci di implementare autonomamente l’azione proposta secondo il risultato delle analisi svolte (6). La data analytics, intesa come nuovo approccio data driven, può essere guardata alla luce di un’evoluzione della business intelligence (analisi statistiche descrittive) che integra analisi statistiche di tipo inferenziale, analisi di regressione, che si avvalgono di modelli matematici e probabilistici e algoritmi di apprendimento. Pur non potendo in questa sede approfondire ulteriormente, si ritiene utile evidenziare l’impatto che la Predictive Analytics sta producendo sulle aziende. Le analisi predittive, infatti, forniscono delle informazioni di carattere deduttivo, basate su dati e probabilità di un determinato risultato con margini di errore molto bassi. La Predictive Analytics non si basa su astratte ipotesi ma sull’elaborazione di immensi ammassi di dati che, adeguatamente processati, permettono di estrapolare informazioni comportamentali di ampi gruppi di utenti semplicemente analizzando le loro azioni nel passato. È importante sottolineare, però, che la Predictive Analytics, in quanto fondata su un calcolo di tipo probabilistico, è soggetta ad un margine di errore e ciò, come vedremo più avanti nel corso della trattazione, rischia di violare il principio di esattezza dei dati. Un’applicazione comune di analisi predittiva è quella finalizzata a produrre un punteggio di affidabilità delle persone. Per esempio i valori assegnati, dagli istituti finanziari, ai propri clienti in relazione alla probabilità che questi effettuino futuri pagamenti nei tempi previsti per il prestito ricevuto; oppure quelli che vengono assegnati dalle aziende ai propri dipendenti in relazione alla probabilità di permanenza in azienda o di abbandono della stessa. Occorre ricordare, però, che i dati assumono valore economico soprattutto perché contengono informazioni di carattere generale e possono rappresentare l’operato del consumatore medio. Essi forniscono informazioni sugli schemi tipizzati di un comportamento individuale e, aggregando i dati di decine o centinaia di migliaia di utenti, offrono informazioni fondamentali in ottica predittiva. Quindi, nella sostanza, non ha grande valore il
(6) FABBri, Estrarre valore dai dati: modelli predittivi e competenze necessarie, in zerounoweb <https://www.zerounoweb.it/techtarget/searchdatacenter/estrarre-valore-dai-dati-modelli-predittivi-e-competenze-necessarie/>. comportamento del singolo utente preso in modo disaggregato, al contrario, sarà determinante la sommatoria dei comportamenti di tutti gli utenti profilati. In questo modo potrà costruirsi una previsione comportamentale relativa a quella determinata tipologia di utenti. In altre parole, se riusciamo a sapere come reagiscono e cosa desiderano gli utenti, allora possiamo prevedere, con un certo grado di accuratezza, il loro comportamento futuro. Di conseguenza stanno scomparendo sempre più le analisi campionarie che hanno caratterizzato l’analisi statistica, economica e sociale, del Novecento; le informazioni vengono raccolte globalmente su interi gruppi di cittadini e le analisi che ne derivano, grazie all’uso di algoritmi sempre più efficienti, producono sistemi produttivi sempre più raffinati, circa le caratteristiche di tipi di individui e dei loro comportamenti. Basti pensare, per fare alcuni esempi, che tramite l’uso di tecniche computazionali e di machine learning (7), alcuni studiosi, fra i quali Michael Kosinski (8), hanno realizzato algoritmi che permettono di confrontare l’accuratezza dei giudizi espressi sulla personalità degli individui con le valutazioni delle macchine computazionali. In un suo studio Kosinski (assieme ai colleghi David Stillwell e Thore Graepel) ha dimostrato come bastino pochi like per identificare l’orientamento politico di un soggetto (con una probabilità dell’85%); il suo credo religioso (con una probabilità dell’82%); il genere (con una probabilità del 93%); l’origine etnica (con una probabilità del 95%) (9). Bisogna considerare che, paradossalmente, le predizioni possono essere molto più esaustive delle informazioni consapevolmente rilasciate dagli utenti. Difatti, i modelli di Big data analytics permettono di ricostruire dati personali indipendentemente dalla modalità con i quali sono stati rilasciati all’origine. Ciò rende, ormai, del tutto superata, non solo la tradizionale classificazione fra dati personali e dati non personali, ma anche quella fra dati strutturati e non strutturati ai fini dell’efficacia della profilazione. La Big data analytics segue generalmente un percorso circolare basato su 6 punti: 1) l’utente, anche attraverso delle “cose” a lui appartenenti, genera il dato; 2) il dato viene acquisito e raccolto; 3) il dato viene poi aggregato ad altri dati (di solito in banche dati semi-strutturate);
(7) Si tratta dei cd. modelli psicometrici. (8) Creatore dell’app My personality. (9) koSinSki – StiLLweLL – GrAepeL, Private traits and attributes are predictable from digital records of human behavior, in <https://www.pnas.org/ content/110/15/5802>.
4) sull’insieme di questi dati, si utilizzano tecniche algoritmiche di Big data analytics per l’individuazione di “ideal-tipi” (segmentazione degli utenti); 5) ciascun individuo viene attribuito ad un “tipo” (in termini di caratteristiche socio-economiche); 6) l’utente (e non più i suoi dati) riceve, attraverso algoritmi di raccomandazione, servizi personalizzati e varie forme di inserzioniamo pubblicitario (10).
Per profilazione si intende l’insieme delle attività di raccolta ed elaborazione dei dati inerenti agli utenti di un servizio, al fine di suddividerli in gruppi - i cd. cluster - a seconda del loro comportamento (segmentazione) (11). Il nuovo Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (Regolamento UE n. 2016/679) all’art. 4, punto 4 definisce la profilazione come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”. Il considerando 24 del Regolamento specifica ulteriormente che, per stabilire se si è in presenza di profilazione “è opportuno verificare se le persone fisiche sono tracciate su internet, compreso l’eventuale ricorso successivo a tecniche di trattamento dei dati personali che consistono nella profilazione della persona fisica, in particolare per adottare decisioni che la riguardano o analizzarne o prevederne le preferenze, i comportamenti e le posizioni personali”. È bene inoltre ricordare che la profilazione deve essere svolta, in ottemperanza al principio di pertinenza e proporzionalità, utilizzando i soli dati strettamente necessari per la finalità indicata. In sostanza la profilazione consta di tre caratteristiche fondamentali: - deve essere una forma di trattamento automatizzato; - deve essere effettuata su dati personali; - il suo obiettivo deve essere quello di valutare aspetti personali relativi a una persona fisica (12).
(10) deL MAStro – niCitA, Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo, Bologna, 2019. (11) iASeLLi, Big Data, il problema della profilazione e della dispersione dei dati personali, in federprivacy, <https://www.federprivacy.org/informazione/punto-di-vista/big-data-il-problema-della-profilazione-e-della-dispersione-dei-dati-personali>. (12) WP 251 rev.01, Gruppo di lavoro articolo 29 per la protezione dei dati, “Linee guida sul processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche e sulla profilazione ai fini del Regolamento 2016/679”. L’art. 4 parla di “qualsiasi forma di trattamento automatizzato” e non di trattamento “unicamente” automatizzato. Ciò significa che la profilazione deve implicare una qualsiasi forma di trattamento automatizzato nonostante il coinvolgimento umano non comporti necessariamente l’esclusione di tale attività. Ovviamente non deve trattarsi di mero “tracciamento” dell’interessato che naviga online, ma di analisi per estrapolarne le scelte comportamentali utili ai fini commerciali. Per quanto riguarda invece il processo decisionale automatizzato bisogna precisare che esso ha una portata diversa rispetto alla profilazione a cui può sovrapporsi parzialmente o da cui può derivare. Come viene osservato nelle “Linee guida sul processo decisionale automatizzato relativo alle persone fisiche e sulla profilazione ai fini del regolamento 2016/679”, il processo decisionale esclusivamente automatizzato, consiste nella capacità di prendere decisioni impiegando mezzi tecnologici senza coinvolgimento umano. Se i vantaggi della profilazione sono indubbi, resta da analizzare la questione legata alle problematiche. Si ritiene utile esaminare, seppur brevemente, le caratteristiche e i rischi dei nuovi modelli di profilazione e il tema dei dati personali inferiti (inferred data). Fra i nuovi modelli di profilazione annoveriamo la profilazione da accumulo e la profilazione del contesto. Per quanto riguarda la profilazione da accumulo occorre dire che consiste nell’accumulare incessantemente dati sui comportamenti ricorrenti di una persona. Si rileva che, in sostanza, la sua utilità si risolve nel ridurre il rischio della previsione sulla reiterazione futura dei suoi comportamenti consueti. Questo tipo di profilazione, quindi, non genera conoscenza nuova sulla persona ma tende piuttosto a confermare sempre di più uno stereotipo. Trascorso un po’ di tempo il beneficio marginale, che deriva dall’accumulo di nuovi dati, diventa trascurabile. Oltre una certa quantità di informazioni ottenute può essere infatti persino più elevato il costo del trattamento rispetto al beneficio che si ottiene dalla conferma dello stereotipo. Sicuramente di maggior interesse per l’osservatore è la profilazione del contesto, ossia la previsione di un comportamento nuovo della persona che potrà verificarsi in futuro. Questo tipo di previsione è un atto creativo che non ha nulla a che vedere con la profilazione da accumulo. Generalmente chi fa questa previsione si assume il rischio di sbagliare e di vanificare la sua “strategia di marketing”. Logicamente l’obiettivo principale sarà quello di ridurre tale rischio con ogni mezzo e il modo più efficace e razionale per farlo è studiare il comportamento degli utenti target. L’osservatore per ridurre l’errore deve analizzare le scelte ed i comportamenti del
maggior numero di persone possibile, in modo da intrecciare i dati dei singoli profili. In questo senso, anche l’osservazione del comportamento più insignificante è preziosa, perché può essere la connessione che rende il nostro profilo simile a quello di altri, e che consente questa estensione. Per questo tipo di profilazione non serve quindi l’accumulo di dati su una sola persona. È la varietà dell’osservazione che conta, non la sua sistematicità: i tanti modi in cui un prodotto può essere impiegato nei più svariati contesti, le nostre tante manifestazioni digitali, in apparenza disparate, anche mostrate una sola volta.
Giunti a questo punto del presente lavoro appare utile fare una premessa metodologica sul proseguo della trattazione. Si ritiene utile procedere dapprima all’analisi del sistema nel suo complesso per poi entrare nel merito delle dinamiche delle singole aziende. Sicché, in questo paragrafo verranno presentate le caratteristiche essenziali delle tre aziende prese in esame e nel successivo si provvederà a realizzare il confronto dei modelli di profilazione delle “Big 3” (13). La problematica, su cui cercheremo di porre maggior attenzione, è quella legata alle tecnologie impiegate da queste grandi aziende High Tech per raccogliere e custodire tali enormi quantità di dati. L’intenzione cardine su cui si impernia l’attività di analisi è costruita sull’idea di preservare i dati raccolti da occhi indiscreti (inclusi quelli dei governi e delle autorità di pubblica sicurezza), con l’intento di sfruttarli economicamente (14). Le piattaforme online presentano caratteristiche peculiari, non solo dal punto di vista tecnologico ma anche da quello economico, data la complessità dei mercati e dei soggetti che interconnettono a livello globale. Nell’ultimo anno le prime cinque piattaforme online ovvero Apple, Amazon, Google, Microsoft e Facebook, hanno fatturato oltre 700 miliardi di dollari, con un utile netto pari a circa 110 miliardi, quindi superiore al 15% dei ricavi. Ciò vuol dire, un indice di redditività circa 4 volte superiore a quello stimato per le principali imprese italiane (secondo la classificazione di Mediobanca). Ovviamente questa stima fatta poc’anzi non tiene in considerazione le asimmetrie di tipo fiscale.
(13) Con questa definizione vengono tipicamente definite Facebook, Amazon e Google. (14) Facebook ne è l’esempio principale, basti pensare allo scandalo Cambridge Analytica. Per approfondimenti vedi: <https://www.ilsole24ore.com/art/scandalo-cambridge-analytica-cosi-nostri-dati-facebook-finiscono-mercato-app-AEg3urJE>. Oggi poche oligarchiche piattaforme online competono in contesti di mercato a livello mondiale. Tutto ciò sta rivoluzionando la struttura dei mercati, anche di quelli di tipo tradizionale in cui sono entrate prepotentemente le aziende digitali che, sempre più spesso, espandono la loro influenza in ambiti dell’off-line. Facebook, Amazon, Google e Netflix, ma anche Microsoft e Apple rappresentano l’emblema della New Economy. Ormai sono dei veri grandi monopoli che generano enormi ricchezze che però non si diffondono, restando concentrate in mano a pochi. In questa parte della trattazione, per meglio comprendere le differenze di gestione e profilazione dei dati, si ritiene utile esaminare il core business e l’operatività delle aziende prese in esame. Principiando da Google occorre dire che l’azienda definisce così il suo core business: “Generates revenues primarly by delivering online advertising that consumers Find relevant and that advertisers Find cost-effective”. Tale attività di vendita pubblicitaria, come noto, trae origine da un motore di ricerca progettato dai fondatori di Google, i cui principi costitutivi sono stati messi appunto mentre, entrambi i creatori, erano ancora studenti dell’Università di Stanford. Quel motore di ricerca iniziale si è poi nel frattempo molto evoluto, sempre con l’obiettivo principale di accrescere le proprie quote di mercato nell’advertising. Come osserva Steve Faktor (15), un brillante blogger americano, la strategia di Google può essere riassunta in tre punti fondamentali. - Google è un network B2B che consente ai propri clienti di fare pubblicità mirate. - Ogni servizio offerto da Google ai propri utenti deve raggiungere un obiettivo principale: creare il più grande mercato possibile per distribuire pubblicità.
Ciò significa aumentare il numero degli utenti, la loro frequenza di visita, il tempo di permanenza (16). - Google si sta muovendo in varie direzioni: connettendo a Internet nuovi territori e intere popolazioni e, contestualmente, sta cercando di spingere gli utenti a trascorrere in quantità sempre maggiore il proprio tempo libero alla navigazione del web (esponendoli così alla visione delle inserzioni pubblicitarie). Potremmo dire che, ragionando su conseguenze estreme, Google immagina un mondo dove ogni cosa che tocchiamo sia connessa e percepita da un’intelligenza artificiale, la quale potrà discernere i comportamenti dell’individuo dalle sue azioni ed imparare ad anticipa-
(15) FAktor, Deconstructing Google’s Strategy, Forbes, Maggio 2013. (16) Questo spiega perché Google propone servizi gratuiti o economici che sembrano rendere le nostre vite più libere o più produttive. Essi servono a far accrescere il mercato dell’advertising.
re i suoi bisogni addirittura prima che gli si renda conto di averli. Google ha rivoluzionato i motori di ricerca da quando ha introdotto nel 1996, il suo famoso algoritmo “Page Rank Algorithm”. I motori di ricerca da allora si sono significativamente evoluti e oggi la maggior parte di essi è basata su “machine learning algorithms”. Google ha costituito una posizione di monopolio nel campo dei Big Data e ciò oltre a bloccare la concorrenza, rappresenta una minaccia per Google stessa la quale è stata oggetto di forti attenzioni da parte delle autorità anti-trust (17). Google, guidata dalla holding Alphabet, è nata sviluppando un motore di ricerca che si è presto affermato come leader di mercato. I motori di ricerca acquisiscono molti dati individuali che possono essere utilizzati, sia per lo scopo principale di business su cui si basa il finanziamento del servizio, la pubblicità online, sia per ulteriori, anche non previsti, usi. Successivamente, Google ha intrapreso una strategia di product envelopment volta ad allargare la platea dei servizi offerti. Nel corso del tempo, infatti, hanno inserito nuove attività come la gestione della posta elettronica (Gmail), la creazione di mappe gratuite (Google Maps), la predisposizione di servizi di navigazione satellitare ecc. In quest’ottica Google ha anche sviluppato e offre, attualmente, un browser di navigazione Web (Chrome), un sistema operativo per dispositivi mobili (Android), e uno store di app (Google Play). Fa parte di Alphabet anche la piattaforma YouTube, nata come piattaforma di ricerca e condivisione di contenuti musicali, ma poi estesasi ad ogni tipologia di contenuto. I servizi offerti si inseriscono nell’ambito di una complessiva strategia di acquisizione di dati individuali, che sostengono il modello di business (basato sull’offerta agli utenti di servizi per lo più gratuiti) adottato dalla piattaforma digitale. Per la nostra trattazione è utile individuare quali sono i dati profilativi tracciati da Google.
(17) Google è stata oggetto di vari filoni di accertamenti per l’abuso di posizione dominante. Una prima volta nel 2007 con l’acquisizione del colosso DoubleClick leader mondiale del settore dell’ad-serving (ovvero l’inserimento di materiale pubblicitario on-line), in questo caso non vennero riscontrate violazioni. Una seconda situazione venne attenzionata quando, sempre nel 2007, Google cercò di ostacolare il tentativo di Microsoft di fare la scalata al colosso Yahoo!. La vicenda si concluse quando, ormai palese la situazione di abuso di posizione dominante posta in essere da Google, quest’ultima decise, poco prima della pronuncia dell’antitrust, di defilarsi dalla trattativa di mercato. Seguirono altri rilevanti casi riguardanti i servizi di Google Books e AdWords che, tuttavia dopo una estenuante ma infruttuosa trattativa con l’autorità anti-trust europea quest’ultima affermò che “Google ha abusato di tale posizione dominante sul mercato accordando un vantaggio illegale al suo servizio di acquisti comparativi”. Per approfondimenti ci si permette di rinviare a ContALdo – peLuSo, L’abuso di posizione dominante in internet, in Concorrenza, Mercato e Diritto dei consumatori, (a cura di CAtriCALà – CASSAno – CLAriziA), Torino, 2018.
tiene traccia dei seguenti dati:
- Tipo di browser - Impostazioni del browser - Tipo di dispositivo utilizzato - Impostazioni del dispositivo - Sistema operativo utilizzato - Operatore di rete mobile - Numero di telefono - Numero di versione dell’applicazione - Indirizzo IP - Attività del sistema del dispositivo - Video guardati - Informazioni vocali e audio - Attività di acquisto - Persone con cui condividi contenuti - Attività su siti di terze parti (quelli che utilizzano contenuti Google, ad esempio le inserzioni) - Numeri di telefono delle persone chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) - Numeri di telefono delle persone che chiamano (se effettuate tramite i servizi Google) - Ora/Data/Frequenza delle chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) - Tipi di chiamate (se effettuate tramite i servizi Google) - Posizione (con vari gradi di precisione a seconda dei servizi utilizzati e delle impostazioni del dispositivo).
Passando all’analisi di Amazon occorre dire che l’azienda è, oggi, uno dei maggiori retailer online del mondo. Agli albori il suo business era basato unicamente sulla vendita dei libri online, con il passare del tempo ha gradualmente ampliato le categorie merceologiche di prodotti venduti online introducendo materiale informatico ed elettronico per poi estendere ulteriormente a tantissimi altri settori. L’obbiettivo di fondo dell’azienda può essere sintetizzato nella volontà di vendere online tutto quello che è materialmente possibile acquistare per mezzo di un PC, un tablet od uno smartphone. Servizio che si è arricchito grazie ad una oculata ed efficiente capacità di sfruttare un sofisticato sistema di logistica che prevede la consegna entro un singolo giorno. Tuttavia definire Amazon solamente come un colosso del commercio elettronico è in realtà molto riduttivo se non addirittura fuorviante. Oltre al noto business della vendita online, l’azienda è anche un operatore leader nella fornitura di servizi di cloud alle imprese. Anzi, per essere sinceri, si potrebbe quasi dire che Amazon è prioritariamente un fornitore di servizi digitali che si occupa anche di e-commerce.
Infatti, come vedremo meglio nel proseguo, circa il 70% dell’utile aziendale deriva dai servizi digitali. Amazon è, infatti, come anticipato, leader nelle tecnologie e nelle infrastrutture di cloud computing (Amazon Web Services), ha sviluppato una tecnologia proprietaria, sia hardware che software, per la lettura dei libri digitali (Kindle), svolge e offre servizi di Web analytics (Alexa) e ha rivoluzionato il mondo della logistica (Amazon Prime). Le attività principali degli AWS (Amazon web services) sono le vendite globali di servizi, essenzialmente su cloud computing, legati a molte attività: dall’attività di calcolo ed elaborazione dati fino all’analisi degli stessi o alla gestione di database (solo per citarne alcune). Il tutto offerto a imprese, agenzie governative, startup e istituzioni accademiche. AWS costituisce oggi il settore più proficuo dell’azienda; essa ha registrato una crescita apparentemente inarrestabile negli ultimi anni, basti pensare che già nel 2015 arrivò a segnare un +70%, spingendo la stessa CIA (18) a siglare un accordo di 600milioni di dollari per usufruire di servizi sul cloud offerti da AWS. È proprio grazie ai profitti derivanti dai web services che Amazon può permettersi di vendere del retail a prezzi di costo o poco più alti, operando praticamente in perdita, pur riuscendo a reinvestire continuamente i dividendi per finanziare il proprio futuro. La strategia di Amazon nel retail è quella di comprare all’ingrosso e vendere al dettaglio con una politica molto aggressiva di sconti. Laddove Amazon nota che un inserzionista sta sviluppando un business altamente significativo, tenta di acquistare il settore facendo, a sua volta, una guerra commerciale contro quest’ultimo così da acquisire la nicchia di mercato. L’ingranaggio è tenuto quindi in piedi dai guadagni del mondo dei servizi sul web ed i numeri sono dalla parte di Amazon, lo dimostra il fatto che l’azienda risulta costantemente in crescita e che numerosi e importanti investitori continuano a puntare su di essa. Sembra doveroso ricordare che Amazon, fuori dai confini USA, è addirittura in netta perdita nel settore e-commerce. Infatti nel 2017 nel mercato UE “ha segnato una perdita di 876 milioni. In altri termini il più grande gruppo di vendite al dettaglio al mondo l’anno scorso ha segnato il suo record di vendite nel più grande mercato al mondo, l’Unione europea. Ma ha accettato di farlo perdendo 3,5 euro ogni cento euro di prodotti venduti ai propri clienti” (19). Da quanto brevemente descritto è chiaro che per Amazon, fuori dal nord America, non vede come prioritario l’immediato guadagno derivante dall’e-commerce. Questo paradosso può essere spiegato non l’intenzione di acquisire mercato e, con il tempo, estirpare il commercio al dettaglio e la grande distribuzione acquisendo una posizione pseudo-monopolista. Essenziale è l’espansione; tant’è vero che, nonostante le dure polemiche sulla web tax europea e sulle condizioni contrattuali dei suoi lavoratori, è trainata per ora dal cloud computing (20). Chiaramente tutta questa crescita non sarebbe possibile senza efficienti modelli di profilazione dei gusti degli utenti. Per tali ragioni il colosso americano ha costante bisogno di essere alimentato con informazioni acquisite dall’attività degli utenti. Nello schema che segue si verranno ad indicare le attività profilative svolte da Amazon.
AMAZON
tiene traccia di:
- Interazione con i contenuti Amazon (acquisti, streaming, download, inclusi tempi di interazione) - Caricamenti di contatti - Comunicazioni con Amazon - Playlist compilate, liste di controllo, liste dei desideri e registri dei regali - Promemoria di occasioni speciali - Dettagli delle persone a cui sono stati inviati oggetti/regali (inclusi indirizzi e numeri di telefono) - Indirizzi email di amici e altri soggetti (se connessi in qualche modo con i servizi Amazon) - Registrazioni vocali da dispositivi Alexa - Immagini e video memorizzati in connessione con
Amazon Services - Informazioni sullo storico del credito presso gli istituti di credito - File di log e configurazioni del dispositivo (incluse le credenziali Wi-Fi) - Indirizzo IP - Posizione del dispositivo o del computer - Utilizzo dell’applicazione - Dati di connettività - Preferenze impostazioni sito/app - Cronologia degli acquisti e dell’utilizzo dei contenuti
(18) Per approfondimenti vedi: Ecco il vero mondo di Amazon: dalla Cia alle nuove attività in Italia, <https://it.insideover.com/politica/mondo-amazon-dagli-usa-allindia-tutte-le-sfide-del-colosso-del-web.html>. (19) Cit. FuBini, I conti segreti di Amazon, <https://www.corriere.it/ economia/leconomia/18_settembre_04/i-conti-segreti-amazon-perde-europa-ma-intanto-fa-chiudere-negozi-8f2717da-b012-11e8-943d-6f 0a93576229.shtml>. (20) CArLini, Altro che e-commerce: ecco i servizi che fanno guadagnare Amazon, in Il sole24ore <https://st.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-05-07/altro-che-e-commerce--ecco-servizi-che-fanno-guadagnare-amazon-151209.shtml>.
- Numeri di telefono utilizzati per chiamare il servizio clienti - Pagine di riferimento/uscita - Movimenti del mouse - Informazioni sulla consegna (compresi gli indirizzi più dettagliati) - Risultati della ricerca sul sito - Informazioni sui dispositivi e i servizi connessi a Internet collegati ad Alexa
Un altro gigante digitale dell’economia dei dati è Facebook, il social network e social media, lanciato nel 2004, che offre ai propri utenti prodotti, funzioni, app, servizi, tecnologie e software. Il fatturato consolidato di Facebook Inc., già al 31 dicembre 2017, risultava pari a 33,9 miliardi di euro. Facebook conta circa 2,2 miliardi di utenti mensili attivi in tutto il mondo, con circa 31 milioni di utenti in Italia. Il gruppo ha esteso la propria attività alla piattaforma di condivisione immagini Instagram (quasi un miliardo di utenti registrati), alle piattaforme di messaggistica privata di singoli utenti e gruppi Facebook Messenger (circa 1,3 miliardi di utenti) e WhatsApp (circa 1,5 miliardi di utenti). La missione di Facebook recita: “To give people the power to share and make the world more open and connected” (21). In realtà più che una missione questo statement è un mezzo: ampliare il numero di persone che si connette a Internet ed in particolare a Facebook, per incrementare i propri guadagni, basati sulla vendita di spazi pubblicitari sulle sue piattaforme di social networking. Se Google e Facebook dipendono entrambe dalle informazioni immesse dagli utenti, oltre che da quelle offerte da vari siti di informazione e imprese multimediali, è l’engagement, cioè la partecipazione e la condivisione sociale, la caratteristica distintiva di Facebook e Instagram. Una caratteristica che, dal lato della quantità e della qualità dei dati, permette di profilare con maggiore velocità gruppi di utenti e ampliare così le categorie dei dati di riferimento, dotandole di maggiore granularità. La profilazione non dipende ovviamente dalle informazioni che gli individui rivelano di sé agli altri, le quali talvolta sono artefatte dal narcisismo online, ma dalla sintesi che gli algoritmi riescono a realizzare in base alla natura multidimensionale dei nostri “sentimenti” e comportamenti online, su Facebook e fuori dalla piattaforma. Se usando Google l’impulso alla navigazione nasce da una ricerca, da uno stimolo che proviene dal singolo utente molto diverso è l’impulso sui social media. In quest’ultimo caso, infatti, l’attività online è generata principalmente dagli altri utenti. Le nostre interazioni,
(21) Facebook Annual Report, 31 dicembre 2014. così, possono generarsi da un nostro feedback a contenuti realizzati da altri. Sicché l’engagement cresce all’incrementarsi del coinvolgimento, positivo o negativo che sia. Tutto questo meccanismo concorre a definire non solo il livello della nostra attenzione, ma anche l’oggetto di essa: ciò che ci interessa, ciò che ci attrae, ciò che ci infastidisce. Anche le espressioni d’odio stimolano la partecipazione e, in genere, una società divisa e polarizzata favorisce l’engagement e rende più semplice ed efficace anche la profilazione a fini commerciali (22). D’altronde il prodotto che Facebook vende alle aziende inserzioniste è proprio la possibilità di raggiungere gli utenti grazie a meccanismi di profilazione. Quindi, in linea di principio, più è elevata l’interazione sociale fra utenti e maggiore sarà la capacità di tenere traccia dei dati acquisiti. Per la nostra analisi è utile elencare nella tabella che segue i dati profilativi trattati da Facebook.
FACEBOOK tiene traccia di:
- Contenuti utente (foto, commenti, ecc.) - Comunicazioni con il servizio Facebook - Se i messaggi di posta elettronica del servizio vengono aperti dagli utenti - Elenco contatti (dove usato per trovare amici) - Componenti aggiuntivi dispositivo/browser - Indirizzo IP - Tipo di browser - Indirizzi web di accesso o di uscita - Numero di clic - Pagine visualizzate sul sito - Sistema operativo - Versioni software - Versioni hardware - Livello della batteria - Potenza del segnale di rete - Spazio di archiviazione disponibile - Nomi di app e file - Plugin - Latitudine/Longitudine in cui le foto sono geo-taggate - Interazioni con gli utenti (pagine, hashtag, account, gruppi) - Tempi/date di utilizzo del prodotto - Informazioni che altri forniscono sull’utente (Condivisione di foto, commenti sulle foto, invio di mes-
(22) MenGhini, Le FANGs - Facebook, Amazon, Netflix, Google, Firenze, 2017.
saggi all’utente e uploads, sincronizzazione, importazione delle informazioni di contatto) - Se le finestre sono in primo piano o in background - Movimenti del mouse - Segnali Bluetooth locali - Punti di accesso Wi-Fi nelle vicinanze - Ripetitori della rete telefonica mobile nelle vicinanze - Operatore di rete mobile - Numero di telefono - Lingua - Attività su siti di terze parti (quelli che utilizzano contenuti di Facebook, ad esempio un pulsante “Mi piace” o un sistema di accesso basato su Facebook) inclusi acquisti, annunci visti, siti visitati, informazioni sul dispositivo e utilizzo del servizio. - Posizione corrente - Indirizzo di casa - Località visitate comunemente - Aziende e persone vicine a te - Riconoscimento facciale (se consentito)
Come abbiamo anticipato nel corso della trattazione, il nostro sublime vantaggio del “vivere connessi” espande i nostri orizzonti, apre le nostre menti e permette di risolvere i problemi di asimmetrie informative a netto vantaggio del consumatore. Tuttavia ogni cosa ha un suo prezzo. Ciò che realmente paghiamo per questa emancipazione, nonché per la disponibilità di questi servizi è apparentemente sfumato nell’ambiguità. Infatti è difficile rendersi conto che ogni volta che utilizziamo Facebook, Instagram, WhatsApp, Amazon o uno dei tantissimi servizi di Google, stiamo cedendo a queste aziende una parte della nostra vita. Forse sarebbe più corretto dire un piccolo tassello del puzzle che trasferisce informazioni su di noi, sui nostri gusti, sulle nostre relazioni, sulla nostra emotività, sulla nostra esistenza. Chiaramente questi dati sono processati su autorizzazione dell’utente che, spesso, ignora l’importanza degli stessi. Ciò non in senso assoluto, è chiaro che ogni utente è ovviamente in grado di comprendere quale sia il valore dei propri dati, ma li percepisce in un’ottica quasi utopistica. L’utente, purtroppo, non ha la preparazione per focalizzare tre elementi cruciali. In primo luogo non ha contezza che i suoi dati siano stratificati, ogni singola attività svolta sul portale ovvero attraverso una app o semplicemente con il device non è fine a sé stessa ma alimenta la conoscenza profilativa dell’utente. In altre parole la sommatoria di piccole informazioni (es. ogni like, ogni commento, ogni click, ogni azione, ogni visualizzazione, ogni interruzione del processo di discesa nel funnel commerciale) prodotte decine di volte al giorno, durante tutto il giorno acquisite in mesi o anni; possono intrecciarsi assieme e creare un profilo ben delineato. In secondo luogo l’utente non è stato edotto che dall’analisi dei dati di migliaia, se non milioni di utenti, si possono costruire strumenti di marketing di eccezionale potenza. Si pensi agli sviluppi del neuromarketing che studia la scia comportamentale dei consumatori proiettandoli verso delle scelte (23). In fondo “conoscere i meccanismi che regolano il cervello umano, per poter prevedere come veicolare un messaggio nel modo più preciso possibile, così come innescare le reazioni desiderate in risposta a stimoli o provocazioni mirate” (24) è la discriminante per rendere di successo una azienda. In terzo luogo l’utente non si rende conto che la profilazione è costante, in ogni momento, anche il “non fare qualcosa” trasferisce informazioni, garantisce la possibilità di acquisire le abitudini e questo avviene in assenza di processi gestiti da operatori umani. Gli algoritmi di profilazione scrutano e seguono la scia di dati costantemente lasciata dagli utenti. Gli algoritmi processano tutte le informazioni che immettiamo, non si stancano, lavorano senza sosta, costantemente. Ogni volta che consultiamo un servizio offerto dalle tre aziende poc’anzi presentate, offriamo informazioni. Spesso ciò avviene indipendentemente dalla nostra attività. Paradossalmente anche se teniamo inerte il nostro device stiamo trasferendo informazioni. Infatti potrebbe avere il GPS attivo e segnalare la posizione, avere il Wi-fi e condividere dati utili, potremmo aver autorizzato l’attivazione del microfono o quant’altro. Purtroppo quasi sempre la formulazione dell’informativa sulla privacy è talmente dettagliata e contorta che quasi nessuno la legge davvero (25). In realtà, l’informativa creata da queste aziende ha una visione abbastanza essenziale che può essere schematizzata in modo brutale: acquisire i dati degli utenti al fine di sfruttarli per fini commerciali. Anziché analizzare una per una le privacy policies delle tre maggiori realtà mondiali dell’high tech, attività che richiederebbe un’elencazione assai prolissa ed estremamente poco proficua rispetto all’obiettivo che quest’opera si pone, appare più interessante analizzare gli schemi
(23) Vedi thALer – SuStein, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Milano, 2014. (24) SALetti, Neuromarketing e scienze cognitive per vendere di più sul web, Palermo, 2019. (25) Bisogna ammettere che negli ultimi anni, anche alla luce dei recenti scandali es. Facebook-Cambridege Analytica su tutti, le informative sono state elaborate in maniera più chiara e comprensibile.
presentati in precedenza grazie a un interessante strumento creato da “Vpnmentor” (26). Il confronto dei sistemi di profilazione delle Big 3 evidenzia che Facebook è l’azienda che traccia la più vasta eterogeneità di dati e che quindi sembrerebbe presentare il più alto rischio di intrusione nella privacy degli utenti. In effetti ciò non stupisce più di tanto se solo riflettiamo sul fatto che Facebook, proprio per la sua natura di social network (a maggior ragione se si considera anche Instagram e WhatsApp sue controllate) si pone l’obbiettivo di mettere in contatto fra loro le persone. Del resto, i comportamenti e le azioni che poniamo in essere sui social network, in particolar modo su Facebook, sono spesso dettati dall’emotività e dall’istintività del momento, fattori che ci inducono senza alcun dubbio a rilasciare informazioni, private e non, anche inconsciamente e molto probabilmente con una certa leggerezza. Secondo alcuni (27) non esiste unicamente il caso del Cambridge Analytica ma ce ne sarebbero molti altri ancora ignoti. Tuttavia lo scandalo appena citato resta il più noto. È bene ricordare che fece precipitare Facebook in un’enorme crisi di pubbliche relazioni, dopo l’elezione di Donald Trump come presidente americano. I dati raccolti da Cambridge Analytica riguardavano anche, banalmente, i like delle persone su Facebook. Incluso il modo in cui sono stati utilizzati come terreno per alcune campagne pubblicitarie prima delle elezioni negli Stati Uniti (28). Quanto agli elementi comuni tracciati dalle “Big 3”, troviamo certamente il tracciamento della “posizione”, elemento essenziale per ogni attività di advertising e le “informazioni sul dispositivo e il suo utilizzo”. Se per alcuni contenuti generalmente diamo per acclarato che la nostra posizione venga tracciata solo con il GPS per altri non è così. Nel primo caso possiamo fare l’esempio del tracciamento GPS usato da Google Maps ovvero il sistema di tag di geolocalizzazione di Facebook per mostrare ai nostri amici dove ci troviamo (29). Ben differente è la situazione di servizi che, apparentemente, non ci fanno ragionare sulla tracciabilità. Essa
(26) “Who’s watching you?” By vpnMentor: <https://www.vpnmentor. com/research/whos-watching-you/#/>. (27) noor, There are plenty more like Cambridge Analytica. I know – I’ve used the data, In The Guardian Fonte: <https://www.theguardian.com/ commentisfree/2018/mar/23/plenty-more-like-cambridge-analytica-data-facebook>. (28) MeineCk, Nove cose che Amazon sa su di te - e che non pensavi potesse sapere, in Motherboard Tech by Vice, <https://www.vice.com/it/article/ a3a5xa/amazon-prime-day-privacy-data-tracking>. (29) Stessa cosa può dirsi per la condivisione della posizione con WhatsApp. può avvenire anche attraverso meccanismi più subdoli. Per esempio, Facebook tiene conto, oltre alla posizione corrente rilevata con il GPS, anche dei segnali Bluetooth locali, di tutti i punti di accesso Wi-Fi nelle vicinanze, i ripetitori della rete telefonica mobile attivati, l’indirizzo della propria abitazione, le località più comunemente visitate e le aziende e le persone vicine. Parimenti opera Google, tant’è vero che nella loro privacy policy dell’azienda si può leggere “Quando un utente utilizza servizi Google, potremmo raccogliere ed elaborare informazioni sulla sua posizione. Utilizziamo varie tecnologie per stabilire la posizione, inclusi indirizzo IP, GPS e altri sensori che potrebbero, ad esempio, fornire a Google informazioni sui dispositivi, sui punti di accesso Wi-Fi e sui ripetitori di segnale dei cellulari nelle vicinanze”. Relativamente ad Amazon occorre dire che, di default non richiedono la geolocalizzazione e non vi è uno specifico richiamo nella loro privacy policy. Tuttavia, l’uso dell’app Amazon shopping utile per una più completa fruizione dei servizi su dispositivi mobile, richiede esplicitamente l’autorizzazione all’uso di strumenti adatti a rilevare la posizione. Visto che oltre i ¾ della navigazione web mondiale avviene da mobile la geolocalizzazione di Amazon è quasi scontata. Nello specifico vengono usati strumenti di rilevazione delle reti wi-fi, delle connessioni Bluetooth, GPS e celle telefoniche, ovviamente su autorizzazione del cliente. Per quanto riguarda le “informazioni sul dispositivo e il suo utilizzo” si ritiene giusto soffermarsi sulla loro importanza specialmente dal punto di vista dell’enorme utilità che esse rivestono per quanto riguarda le indagini di mercato. Parimenti sono altamente rilevanti per l’indirizzamento degli advertiser pubblicitari oltre a contribuire, seppur in maniera meno diretta, su indagini per lo sviluppo tecnologico. Informazioni come il modello di smartphone o altro device che stiamo utilizzando e le sue relative impostazioni, tipo di browser utilizzato e le sue relative impostazioni, la potenza del segnale ricevuto, il nostro operatore di rete mobile, lo spazio di archiviazione che abbiamo disponibile, i nomi delle app e dei files che abbiamo sul nostro smartphone, le attività su siti di terze parti, possono risultare essenziali per profilare l’utente al fine di renderlo un perfetto bersaglio per una efficiente operazione di web marketing. Facciamo un esempio chiarificatore, ipotizziamo di utilizzare uno smartphone obsoleto, in questo caso sarà molto probabile ricevere banner pubblicitari attinenti modelli nuovi di zecca a prezzi concorrenziali, come è altrettanto probabile essere invitati ad utilizzare frequentemente un browser diverso rispetto a quello che utilizziamo più abitudinariamente. Persino informazioni come il “numero di click” o i “movimenti del mouse”, che possono sembrare ad un primo
approccio poco significativi, potrebbero rivelarsi fondamentali per capire in che modo “scrolliamo” le pagine web e quindi anche quanto tempo mediamente ci soffermiamo su un’inserzione pubblicitaria. Nel mondo della profilazione, anche i piccoli gesti, apparentemente ininfluenti sono analizzati. Parlando di Amazon, trattandosi di un’azienda che svolge attività di e-commerce, dobbiamo dare per scontato che sappia il nostro indirizzo e il numero della nostra carta di credito, in quanto sono requisiti essenziali per fare acquisti e per far arrivare la merce ordinata presso la nostra abitazione. Può stupire il fatto che Amazon conservi tutte le registrazioni vocali avute da dispositivi Alexa e le informazioni sui dispositivi e servizi connessi ad Internet ad essa collegati (30). Si pensi solo che nell’estate 2019 la casa di Seattle è stata accusata negli Usa di violare la privacy dei bambini con gli smart speaker “Echo Dot Kids”; in un altro caso, è emerso che una app (di Amazon: “Neighbours”) collegata ai citofoni intelligenti di Amazon: c.d. “Ring”, consentiva agli utenti di ricevere informazioni su attività sospette e crimini commessi nel proprio quartiere, notificate in tempo reale (31). Amazon conosce meglio di ogni altra piattaforma i nostri gusti personali, i nostri hobby e può arrivare a conoscere perfino alcuni aspetti del nostro stato di salute dato che tra i vari prodotti acquistabili ci sono anche prodotti di bellezza, per il corpo e anche parafarmaceutici. Amazon non solo sa quello che abbiamo comprato nel corso degli anni, ma anche quello che non abbiamo comprato ma ci interessava. L’azienda salva e analizza tutti i prodotti e le pagine che visitate, anche se poi non è stato comprato nulla. Comprese tutte le cose che erano troppo costose o troppo imbarazzanti per premere “acquista”. Ne consegue che il tracciamento, rileva ogni singola azione compiuta, anche se non ha portato ad un effettivo acquisto di prodotti. Così, la società di Jeff Bezos è in grado di conoscere, con buona accuratezza, i nostri interessi culturali e spesso anche i nostri orientamenti politici. Teniamo sempre a mente che Amazon nacque come piattaforma di vendita di libri online e che questo è tutt’oggi uno dei suoi business primari. Quindi, considerando anche l’introduzione degli ebook e della sua tecnologia proprietaria per il proprio Ebook reader “Kindle”, è facile intuire come,
(30) Si noti che la stessa cosa fa Google per quanto riguarda tutte le registrazioni vocali legate al suo Google Assistant relative agli smartphone e i dispositivi Google Home. (31) CASAti – penniSi, Privacy e concorrenza, ecco perché Amazon è il «nuovo grande indiziato, in Corriere della Sera <https://www.corriere.it/economia/ consumi/19_giugno_03/privacy-concorrenza-ecco-perche-amazon-nuovo-grande-indiziato-7b833fea-8377-11e9-89bd-2f20504508c1.shtml>. oltre a sapere molto bene cosa leggiamo, l’azienda sia anche in grado di condizionare i nostri gusti dato che consiglia determinati libri in base al profilo. Attenzione, attraverso i Kindle non solo sono in grado di capire i volumi che abbiamo acquistato ma anche quante pagine abbiamo letto, in che punto del volume ci siamo fermati, a quale ora lo leggiamo e da quanto tempo non riapriamo il file. Amazon inoltre inserisce nei propri database qualsiasi numero telefono da cui viene chiamata l’assistenza clienti e può arrivare a conoscere con un discreto livello di esattezza persino le fasi della nostra vita. Amazon non memorizza solamente l’indirizzo di consegna attuale ma salva anche quelli precedenti tant’è vero che nella loro informativa privacy si può leggere “Quando aggiorni le informazioni, di solito conserviamo una copia delle tue informazioni originali nei nostri archivi”. Se ne evince che l’azienda archivia tutte le informazioni storiche dell’utente. Il colosso dell’e-commerce può facilmente risalire alle persone che hanno un peso nella nostra vita. Ciò è possibile in quanto Amazon permette di fare regali o comunque di far recapitare il pacco a casa di qualcun altro o presso il luogo di lavoro e ovviamente anche queste informazioni saranno opportunamente memorizzate. Da ultimo, ma certamente non per importanza, bisogna sottolineare che Amazon ha un grande interesse a scoprire quanto denaro ipoteticamente possiedono i propri clienti e la loro propensione alla spesa. Questo perché il suo scopo principale è vendere. Ufficialmente può essere utile anche per riconoscere truffatori che non vogliono pagare i loro acquisti. A seconda dell’affidabilità dei pagamenti effettuati, infatti, Amazon può suggerire altri metodi. L’azienda, però, non memorizza solo l’entità di quanto abbiamo speso ma può attivamente anche chiedere informazioni sullo stato delle finanze dei clienti alle agenzie di credito. Dunque, come si è cercato di mostrare, seppur nella brevità della trattazione, i modelli di profilazione delle Big 3 si dipanano su idee molto diverse.
Rilevato quanto precede è il caso di fare qualche riflessione sul Regolamento europeo sulla Privacy. Il GDPR sancisce un generale divieto di sottoporre un individuo a processi decisionali automatizzati compresa la profilazione. Tuttavia l’articolo 22 del GDPR, par. 1, recita testualmente: “l’interessato ha diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”.
Il termine “diritto” contenuto nella disposizione non sta però a significare che tale divieto generale si applica soltanto se invocato direttamente dall’interessato ma, al contrario, esso trova applicazione indipendentemente dal fatto che l’interessato intraprenda un’azione in merito al trattamento dei propri dati personali. Esso in sostanza chiarisce l’ambito di applicazione delle norme in materia, che è limitato alle sole ipotesi in cui l’attività di processo decisionale automatizzato: - produce effetti giuridici; - oppure incide in modo significativo sulla persona dell’utente; - e la decisione è basata interamente (solely) sul trattamento automatizzato dei dati. Esempi concreti di importanti effetti legali del processo decisionale automatizzato possono essere: l’adozione di misure di sicurezza, il diniego di attraversamento di una frontiera, il diniego di forme di assistenza sociale, il rifiuto di un impiego, il rifiuto della concessione di un prestito ecc. L’avverbio “unicamente” di cui al par. 1 sembrerebbe escludere le decisioni non esclusivamente automatizzate, incluse quelle in cui l’utilizzo di sistemi decisionali automatizzati sia combinato con determinazioni umane. Per quanto riguarda il rilievo dell’apporto umano le linee guida europee hanno chiarito che non qualsiasi intervento umano è idoneo a sottrarre una decisione automatizzata all’alveo dell’art.22, ma è tale solo quello posto in essere da chi sia dotato dei poteri per modificare la decisione, prendendone in considerazione tutti i dati pertinenti. L’intervento umano presuppone, quindi, la comprensione della logica sottostante alla decisione da parte dell’operatore. Per aversi un coinvolgimento umano il titolare del trattamento deve garantire che qualsiasi controllo della decisione sia significativo e non costituisca un semplice gesto simbolico. Pertanto il controllo dovrebbe essere effettuato da una persona che dispone dell’autorità e della competenza per modificare la decisione. Nel contesto di cui stiamo trattando, tale individuo dovrebbe prendere in considerazione tutti i dati pertinenti. L’art. 22 GDPR disciplina profili decisivi nel rapporto tra uomo e macchina e riveste, perciò, un ruolo assolutamente centrale negli assetti della società digitale. È disposizione applicabile in caso di utilizzo di sistemi decisionali di intelligenza artificiale e di machine learning. In questo caso l’ambito di applicazione materiale è talmente ampio che comprende, ad esempio attività risk-assessment che abbiano effetti rilevanti sulla sfera giuridica di persone fisiche (si pensi alla cd. “polizia predittiva”) ma anche la soluzione di situazioni contenziose interamente affidata a processi informatici (cd. “giustizia predittiva”). Occorre, comunque, rilevare che esistono delle eccezioni. L’articolo 22, paragrafo 1, stabilisce un divieto generale all’adozione di un processo decisionale unicamente automatizzato, nello specifico laddove sia relativo alle persone fisiche con effetti giuridici o che incidano in modo analogo. Tuttavia, come previsto dal par. 2 dello stesso articolo, esistono delle eccezioni al divieto per cui un interessato può essere sottoposto ad un processo decisionale automatizzato, compreso la profilazione, quando: 1) il trattamento è necessario per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e il titolare (32) ma tale eccezione non si applica in caso di trattamento di dati sanitari; 2) vi è esplicito consenso al trattamento (33). 3) il trattamento è autorizzato da una legge o regolamento, che prevede altresì misure idonee a tutelare i diritti dei soggetti interessati;
Si evidenzia che nei primi due casi il titolare di trattamento deve attuare misure appropriate per la tutela dei diritti, la libertà e i legittimi interessi dell’interessato. Difatti, secondo le linee guida europee del Gruppo di lavoro articolo 29, la profilazione può essere basata anche sui legittimi interessi del titolare del trattamento alla stregua del marketing diretto. Tuttavia occorre sempre effettuare un bilanciamento degli interessi per valutare l’eventuale prevalenza di quelli del titolare. Le linee guida suggeriscono di analizzare determinati parametri come: - il livello di dettaglio del profilo; - la completezza del profilo; - l’impatto della profilazione (ossia gli effetti nei confronti dell’interessato); - le misure di sicurezza volte ad assicurare equità, non discriminazione e accuratezza nel processo di profilazione. Per quanto riguarda i Cookie, se l’acquisizione dei dati avviene attraverso l’utilizzo di quest’ultimi, si applicherà la relativa normativa (Direttiva 2009/136/CE e successivi sviluppi a seguito del GDPR). Osservato quanto precede sembra ormai ovvio che potremmo continuare a disquisire a lungo sui compromessi che quotidianamente accettiamo per usufruire di servizi rapidi ed efficienti a discapito della nostra privacy
(32) La necessità deve essere interpretata in modo restrittivo, anche se i Garanti europei precisano che motivi di efficienza sono ritenuti sufficienti per giustificare l’utilizzo di sistemi decisionali basati su profilazione, a condizione che non vi siano metodi meno intrusivi che raggiungano lo stesso risultato. (33) È bene ricordare che il consenso alla profilazione deve essere distinto rispetto al consenso relativo ad altri trattamenti.
e dei nostri diritti alla riservatezza. Tale trattazione può, ovviamente acquisire sia toni allarmistici che utopistici a seconda dell’ottica. Tuttavia l’intento di questa trattazione è mantenere un profilo il più possibile obbiettivo. È opinione di chi scrive che risulta palese la necessità di una uniforme, continua e costante produzione normativa al passo coi tempi. Ciò risulta utile per regolare i mercati e i meccanismi della data economy al fine di tutelare soprattutto l’anello più debole della catena, costituito sicuramente dai singoli utenti. Questi ultimi, infatti, abbagliati dalle promesse e dei vantaggi offerti dalla tecnologia, appaiono rinunciare, giorno dopo giorno, quasi inconsciamente, a una piccola parte dei propri diritti di riservatezza. Dall’altro lato è certamente ben accolto il lavoro di grande pregio che le aziende, in particolare le Big 3, compiono per creare dei servizi sempre più customer oriented e completi. Lo sviluppo di conoscenze migliori sui meccanismi di scelta degli utenti, a patto che gli utenti siano pienamente consapevoli, può dare un forte impulso al tessuto produttivo. Infatti grazie a questi nuovi ritrovati tecnologici si può operare con un certo grado di conoscenza del mercato evitando lanci di prodotti che potrebbero essere totalmente fallimentari. Permane, tuttavia, la preoccupazione sulla concentrazione di queste informazioni di profilazione in capo ad un gruppo oligarchico di aziende come Google, Facebook ed Amazon. Questa situazione, già ora, sembra foriera di uno squilibrio che può generare la scomparsa dei competitor e pericoli sia in capo all’economia che all’occupazione. Scrivevano, più di dieci anni fa Erich Schmidt (34) e Jared Cohen (35): “Nel prossimo decennio, la popolazione virtuale mondiale supererò quella della Terra. Praticamente tutti avranno uno o più alter ego online. In futuro chi siamo nella vita di tutti i giorni sarà determinato sempre più da cosa facciamo e chi frequentiamo negli ambienti virtuali” (36). La relazione tra dati, algoritmi, profilazione, modelli predittivi e sfruttamento economico dell’informazione è ormai evidente. Ed è una relazione che si basa su un sistema di regole di selezione per la realizzazione di un perfetto incontro (matching) tra domanda e offerta, nei vari versanti dei mercati intermediati dalle piattaforme online. I benefici sono evidenti e li abbiamo richiamati. Ma ci sono anche i rischi, sotto il profilo della concorrenza, della libertà di scelta, del pluralismo, della protezione del dato, ecc. Le innovazioni tecnologiche, da sempre, producono una tensione sui diritti esistenti, a partire dai diritti di proprietà ed a questo conseguono degli attriti tra tutela della privacy e tutela della concorrenza nell’ecosistema digitale. A nostro avviso è dunque sul tema del matching, della profilazione algoritmica e della trasparenza agli utenti che bisogna lavorare, nonché su meccanismi di opt-in e opt-out che permettano all’utente di conoscere e scegliere autonomamente il grado di esposizione selettiva ai contenuti determinati dalla profilazione algoritmica.
(34) Erich Schmidt: è un dirigente d’azienda statunitense, amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011 e da allora presidente del consiglio di amministrazione. (35) Cohen è CEO di Jigsaw (ex Google Ideas). (36) SiMone, La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari 2006.