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commento di Pasquale Mazza
IL COMMENTO
di Pasquale Mazza
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Rilievi critici. Davvero l’azione per risarcimento del danno extracontrattuale può rappresentare un’utile alternativa al rigetto in rito? – 3. Sulla restituzione dei dati personali. – 4. Le prospettive future e le perplessità attuali.
Sempre più spesso i giudici della cautela sono chiamati a statuire sulla riattivazione degli accounts rimossi dal social network Facebook. Finora, invero, sono state adottate soluzioni anche assai confliggenti, sia negli esiti che negli argomenti. La vicenda che qui si commenta ha visto respinte in rito le istanze avanzate dagli utenti ex art. 700 c.p.c., in virtù di una conclusione, pur corretta, posta al termine di una motivazione che suscita qualche perplessità. L’ordinanza offre dunque, da una duplice prospettiva sostanziale e processuale, l’occasione per meditare sulla tutela del diritto costituzionale di espressione, nell’apparente contrasto che sembra oggi emergere con il principio dell’autonomia privata reclamata dai providers. More and more often the judges are requested to rule on the reactivation of the accounts removed from the social network Facebook. Indeed, very conflicting solutions have bene adopted hitherto, both in terms of results and arguments displayed. The case annotated saw the claims for preliminary injunctions rejected, by virtue of a conclusion which, although correct, comes at the end of a motivation that raises some doubts. The decision therefore offers, from a dual substantive and procedural perspective, an opportunity to reflect on the protection of the constitutional right of expression, in the apparent conflict that seems to emerge with regard to the principle of private autonomy claimed by the providers.
1. La vicenda
L’ordinanza in epigrafe trae origine da un’istanza cautelare mirante al ripristino di alcuni diritti fondamentali asseritamente lesi a causa dell’oscuramento di pagine e profili da parte di un popolare social network. Di seguito si offre un compendio dell’episodio. La Federazione Nazionale Arditi d’Italia (d’ora in avanti, FNAI) ed altre due persone fisiche – agenti sia in proprio sia quali legali rappresentanti dell’associazione – chiedevano al Tribunale di Trieste la riattivazione della pagina Facebook facente riferimento alla FNAI e dei loro rispettivi profili personali, tutti cancellati dopo la pubblicazione di contenuti rievocanti il fascismo. Nella specie, si riteneva essere stato violato il diritto costituzionale alla libertà di associazione (art. 18), a fronte di messaggi considerati come non contrastanti con la gamma di contenuti rispetto ai quali Facebook reputa intollerabile la visualizzazione e agisce pertanto in autotutela. A puntellare la pretesa vi era il richiamo alla ben nota pronuncia emessa – sempre in sede cautelare ex art. 700 c.p.c.– dal Tribunale di Roma rispetto all’oscuramento della pagina Facebook dell’associazione CasaPound (1),
(1) Tribunale di Roma, sez. spec. impresa, 12 dicembre 2019, in questa Rivista, 2020, 63 ss., con commento di VenAnzoni, Pluralismo politico e dibattito pubblico alla prova dei social network, in Danno e resp., 2020, 487 ss., con nota di QuArtA, Disattivazione della pagina Facebook. Il caso CasaPound tra diritto dei contratti e bilanciamento dei diritti, e in Foro it., 2020, I, 722 ss. In sede di reclamo, il Tribunale di Roma, sez. XII, 29 aprile 2020, in questa Rivista (versione online), ha affermato la natura ordinaria del contratto con Facebook, però comunque arrivando al rigetto del ricorso giacché sarebbe preclusa all’autonomia privata la possibilità di comprimere l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Da tale assunto si è tratto che l’esercizio del recesso non può andare a detrimento della libertà di associazione e di espressione, dovendo altrimenti configurarsi laddove il giudice capitolino, per vero al termine di un ragionamento stringato e apodittico, ha qualificato il rapporto tra l’utente e la piattaforma social in termini non riducibili alla stregua di un comune rapporto privatistico, attesa la cruciale funzione che sembrano dispiegare oggigiorno questi nuovi strumenti di divulgazione (anche) del pensiero politico. Dalla natura simil-pubblicistica del ruolo dell’hosting provider, è disceso dunque l’asserto secondo cui quest’ultimo potrebbe disabilitare
– in assenza di una giustificazione oggettiva che in concreto non si è ravvisata – un recesso illegittimo, che dunque, similmente a quanto accade nell’ambito lavoristico, dà corso alla tutela manutentivo-ripristinatoria del rapporto contrattuale. In analoga direzione si era già mosso il Tribunale di Pordenone 10 dicembre 2018, n. 2139, in Juscivile, 2019, 292 ss., con nota di CALponA, Congelamento della pagina Facebook e lesione dei diritti all’identità e all’immagine. Nella fattispecie, era stato disattivato un account tramite cui l’utente aveva divulgato un video di una partita di tennis, chiaramente in violazione dei diritti riservati. Anche qui, in ragione di una ravvisata sproporzione nel rimedio della disattivazione, soprattutto in termini di lesione dei diritti costituzionali, il giudice ha ingiunto la riabilitazione del profilo, munendo peraltro l’istanza dell’astreinte. Facendo invece leva sul rischio di esclusione dal mercato per l’impresa il cui account su eBay era stato sospeso, vedi Tribunale di Catanzaro 30 aprile 2012, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2012, 1174 ss., con nota di ArAnGuenA, Sospensione di un account su eBay: il contratto telematico B2B tra accettazione point and click e tutela dell’accesso al mercato del commercio elettronico. In senso contrario alla possibilità di ripristinare l’account, ma per ragioni di merito anziché di rito come nell’ordinanza de qua, Tribunale di Roma, sez. diritti della persona e immigrazione civile, 23 febbraio 2020, e Tribunale di Siena, sez. unica civile, 19 gennaio 2020, in questa Rivista, 2020, 281 ss., con nota di SteLLA, Disattivazione ad nutum del profilo Faceboook: quale spazio per la tutela cautelare ex art. 700?. L’ordinanza romana è stata altresì pubblicata in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2020, 552 ss., con nota di MAzzoLAi, Hate speech e comportamenti d’odio in rete: il caso Forza Nuova c. Facebook.
una pagina solamente ove sia patente la violazione di principi costituzionali e ordinamentali, valutazione che si è comunque ritenuto preferibile demandare al giudice della cognizione piena. Rispetto all’altro presupposto indefettibile in sede cautelare, si prospettava la funzione di celebrazione e di memoria storica assolta dalla FNAI quale cagione di periculum in mora, dal momento che l’irreperibilità della pagina avrebbe potuto arrecare pregiudizio a quanti avessero voluto eseguire ricerche o approfondire gli accadimenti connessi alle guerre del secolo scorso. Donde si delineava la natura anticipatoria «nonché» conservativa del provvedimento domandato, e si chiosava che esso avrebbe funto da preliminare ad una successiva richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non. La convenuta Facebook Ireland Limited, da par suo, adduceva vari (ormai classici) argomenti al proprio usbergo: la gratuità e il rilievo non pubblico del servizio offerto dalla piattaforma, la regolarità procedurale dell’oscuramento ad nutum, la possibilità data a ciascuno di utilizzare altri social networks per propalare i messaggi. Dopo aver affermato (correttamente, ma senza spiegare bene il perché) la giurisdizione italiana e la locale competenza (2), al termine di una meditata analisi, il giudice
(2) Proviamo a dare una spiegazione più precisa. L’ordinanza ha qualificato le due persone fisiche come consumatori (richiamando in nota la sentenza CGUE 25 gennaio 2018, in causa 498/16, caso Schrems c. Facebook), che dunque a norma dell’art. 17, comma 1, n. 1, Reg. 2012/1215, possono giovarsi del foro speciale di protezione. Rispetto invece alla FNAI, non intesa come consumatore, la possibilità di adire il forum actoris c’è, ma segue una strada un poco più tortuosa. Infatti, successivamente alla sentenza eDate Advertising (25 ottobre 2011, in cause riunite 509/09 e 161/10, in Corr. giur., 2012, 757 ss., con nota di roLFi, Dalla competenza alla giurisdizione: le “mobili frontiere” di internet, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2012, 247 ss., con nota di pAStore, La lesione dei diritti della personalità online: la prospettiva della Corte di giustizia, in Resp. civ. e prev., 2012, 796 ss., con nota di winkLer, Giurisdizione e diritto applicabile agli illeciti via web: nuovi importanti chiarimenti della Corte di giustizia, in Revue critique de droit international privé, 2012, 389 ss., con nota di Muir wAtt, e in Juristenzeitung, 2012, 189 ss., con nota di heSS, Der Schutz der Privatsphäre im Europäischen Zivilverfahrensrecht), che ha rivoluzionariamente ammesso il foro dell’attore quale foro del centro degli interessi del danneggiato (oggi ex art. 7 n. 2 Reg. 2012/1215), non era chiaro se di questo vantaggio potessero giovarsi anche gli enti. Sul punto, è sopraggiunta la sentenza Ilsjan (17 ottobre, in causa 194/16, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2017, 710 ss., e commentata in Riv. dir. int. priv. proc., 2018, da MoniCo, Il foro in materia di diffamazione online alla luce della sentenza Ilsjan), in cui i giudici hanno esteso la ratio del foro del centro del danno, ritenendo che rispetto alle società si debba tener conto soprattutto del luogo della sede o del luogo di svolgimento della parte essenziale delle attività economiche. Niente però è stato detto riguardo agli enti che non operano a fini di lucro, ed infatti SteLLA, Profili processuali degli illeciti via internet. I. Giurisdizione, competenza, onere della prova, Milano, 2020, 121 s., ritiene che si debba attendere un successivo chiarimento. Nel frattempo, da parte nostra, non vediamo ostacoli a che la ratio del foro centrale per le persone fisiche si estenda anche agli enti non aventi finalità di lucro (come la FNAI). Rispetto invece al profilo della competenza del tribunale triestino ex art. 669 ter c.p.c., è senz’altro condivisibile la tesi dottrinale secondo cui i fori rigettava l’istanza cautelare in ragione della natura contrattuale del rapporto tra l’utente e il provider, da cui deriverebbe la possibilità di esercitare il recesso e – pregiudizialmente – l’impossibilità di avvalersi della misura di cui all’art. 700 c.p.c. Il ragionamento seguìto è molto lineare: da un lato, si staglia l’orientamento che caratterizza il rapporto con Facebook secondo non meglio precisati connotati di specialità, che imporrebbero al gestore della piattaforma il rispetto di alcuni principi costituzionali, comprimendo difatti l’autonomia negoziale successiva (ma forse anche preventiva) al sorgere del rapporto. Dall’altro, vi è l’indirizzo secondo cui l’utente stipula – all’atto dei pochi e veloci passaggi richiesti per l’iscrizione al social – nulla più che un contratto di adesione, consistente nello scambio atipico dati personali (dall’utente)-fornitura del servizio digitale (da Facebook). Che questa fosse la lettura corretta lo si inferiva dalla direttiva UE 2019/770, richiamata nell’occasione, il cui art. 3, comma 1, cpv., configura il contratto di fornitura digitale anche sulla base di una controprestazione riducibile alla sola cessione dei propri dati personali. Posta la natura contrattuale del rapporto, e rammentata l’opzione liberale che permea diffusamente le relazioni giuridiche tra privati, si esponeva essere una facoltà di Facebook l’esercizio del recesso, esercizio che quando pure si qualificasse come illegittimo, non ammetterebbe per il contraente receduto l’accesso ad una forma di tutela reale. Se quindi l’unica protezione che l’utente può vantare è di tipo risarcitorio, verrebbe meno – in radice – la possibilità di avvalersi dello strumento cautelare di cui all’art. 700 c.p.c., che presuppone invece che il diritto di cui si garantisce l’anticipazione sia lo stesso cui si potrebbe accedere all’esito della cognizione piena. Nondimeno, veniva fatta salva l’eventualità di un utilizzo dell’art. 700 c.p.c. nel caso di lesione di diritti costituzionali e conseguente pretesa di risarcimento del danno extracontrattuale, ma non si chiariva in che senso e in che modo, dacché le parti non avevano avanzato domande ulteriori rispetto al recesso. A tale ultimo riguardo, infine, il giudice qualificava come legittima la disabilitazione ad nutum, sia perché
speciali previsti nella ex Convenzione di Bruxelles del 1968 siano oggi da intendersi come distributivi non solo della giurisdizione, ma altresì direttamente della competenza. Così, cfr. LuzzAtto, Giurisdizione e competenza nel sistema della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, in Jus, 1990, 14 s. e 17 s., BoSChiero, Appunti sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, Torino, 1996, 100 s., poCAr, Le rôle des critères de compétence judiciaire de la Convention de Bruxelles dans le nouveau droit international privé italien, in E pluribus unum. Liber amicorum Georges A.L. Droz, The Hague-Boston-London, 1996, 363 ss., id, Il nuovo diritto internazionale privato italiano, Milano, 1997, 24 s., MAri, Il diritto processuale civile della Convenzione di Bruxelles, I, Padova, 1999, 159 ss., de CriStoFAro, Il foro delle obbligazioni, Torino, 1999, 12 s., CArBone in CArBone-tuo, Il nuovo spazio giudiziario europeo in materia civile e commerciale, Torino, 2016, 76 s.
conforme al protocollo che la piattaforma si è autoimposta sia perché con essa il provider intende esimersi da possibili responsabilità di carattere penale (3), e concludeva a favore della restituzione ai rispettivi titolari dei contenuti pubblicati sulla pagina FNAI e sui due accounts personali.
I profili di maggiore interesse sono due. Un primo attiene all’esperibilità del rimedio ex art. 700 c.p.c., un secondo riguarda invece la restituzione dei dati personali successivamente alla cancellazione delle pagine dall’account.
(3) Responsabilità che però sembrerebbe configurarsi in casi assai difficili. Nel pluricommentato caso Google-Vivi Down, la Suprema Corte (Cass. 3 febbraio 2014, n. 5107, in Foro it., 2014, II, 336 ss., con nota di di CioMMo, Google/Vivi Down, atto finale: l’hosting provider non risponde quale titolare del trattamento dei dati, in Giur. it., 2014, 2016 ss., con nota di MACriLLò, Punti fermi della Cassazione sulla responsabilità dell’internet provider per il reato ex art. 167, d.lgs. n. 196/03, in Corriere giur., 2014, 798 ss., con nota di FALLetti, Cassazione e Corte di giustizia alle prese con la tutela della privacy sui servizi di Google, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2014, 225 ss., con nota di reStA, La rete e le utopie regressive (sulla conclusione del caso Google/Vividown), in Cass. penale, 2014, 2052 ss., con nota di tronCone, Il caso Google (e non solo), il trattamento dei dati personali e i controversi requisiti di rilevanza penale del fatto, in Dir. famiglia e persone, 2014, 674 ss., con nota di de GiorGi, La tutela del minore non passa attraverso la condanna del provider Google) ha infatti statuito, anche con riferimento agli hosting providers, che non esiste da parte del soggetto ospite un dovere generalizzato di sorveglianza dei dati immessi da terzi. Precedentemente, già il Tribunale di Milano (sez. IV, 12 aprile 2010, in Giur. cost., 2010, 1840 ss., con nota di MAnnA, La prima affermazione, a livello giurisprudenziale, della responsabilità penale dell’internet provider: spunti di riflessione tra diritto e tecnica, in Resp. civ. prev., 2010, 1556 ss., con nota di BuGioLACChi, (Dis)orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità degli internet provider (ovvero del difficile rapporto tra assenza di obblighi di controllo e conoscenza dell’illecito), in Cass. penale, 2010, 3986 ss., con nota di Lotierzo, Il caso Google – Vivi Down quale emblema del difficile rapporto degli internet providers con il codice della privacy, in Foro it., 2010, II, 279 ss., con annotazione di pALMieri-pArdoLeSi, e in Corriere del merito, 2010, 960 ss., con commento di BeduSChi, Caso Google: libertà d’espressione in internet e tutela penale dell’onore e della riservatezza), poi anche la Corte d’appello (sez. I, 27 febbraio 2013, n. 8611, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2013, 479 ss., con nota di reStA, Libertà della rete e protezione dei dati personali: ancora sul caso Google-Vivi Down, in Corriere giur., 2013, 921 ss., con nota di FALLetti, Google v. Vivi Down, Atto II: il service provider assolto anche per violazione della privacy, in Cass. penale, 2013, 3244 ss., con nota di CAtuLLo, Atto secondo dell’affaire Google Vivi Down: società della registrazione e consenso sociale, in Corriere del merito, 2013, 766 ss., con commento di inGrASSiA, La decisione d’Appello nel caso Google vs Vivi Down: assolti i manager, ripensato il ruolo del provider in rete, e in Foro it., 2013, II, 593 ss.), avevano escluso la responsabilità penale di Google per il reato di diffamazione. Più in generale, sulla (difficilmente ravvisabile) responsabilità penale dei providers, cfr. ACCinni, Profili di responsabilità dell’hosting provider “attivo”, in Arch. penale, 2017, 2, 1 ss., piCotti, Fondamento e limiti della responsabilità penale dei service-providers in Internet, in Dir. penale e proc., 1999, 379 ss., e SeMinArA, La responsabilità degli operatori su Internet, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 1998, 745 ss. Partendo dall’utile impiego dell’art. 700 c.p.c., occorre far presente il pensiero di quell’Autore che di recente su queste colonne si è espresso nel senso di un rigetto in rito della domanda cautelare volta ad ottenere un rimedio che non potrebbe darsi, poiché sarebbe impensabile di anticipare col provvedimento d’urgenza quanto nemmeno la piena cognizione di merito può assicurare (4). Il motivo risiede appunto nell’impossibilità di ripristinare il rapporto contrattuale con Facebook, che – legittimamente o meno nel modus o nel merito – ha diritto, secondo le regole comuni, a recedere unilateralmente senza che la controparte possa chiedere in via giudiziale una tutela costitutiva carente già nella tipicità (art. 2908 c.c.), non essendo contemplata dal legislatore una soluzione ulteriore al mero risarcimento (5). O almeno non essendo contemplata in queste fattispecie, diversamente sovvenendo altri rapporti contrattuali, tipicamente quello lavoristico, per i quali ad un recesso illegittimo può seguire una tutela ripristinatoria del contratto. Il giudice triestino sembra aver apprezzato questa riflessione, che rende irricevibile il ricorso a monte di qualsiasi valutazione di bilanciamento dei valori costituzionali confliggenti. Tuttavia, quantunque ad esclusivo beneficio dei futuri ricorrenti per i motivi anzidetti di corrispondenza del chiesto e pronunciato, il Tribunale si è spinto oltre nel prefigurare una presunta diversa tutela qualora, accanto o a prescindere dall’azione contrattuale, l’istante avanzi richiesta di risarcimento del danno
(4) SteLLA, Disattivazione ad nutum del profilo Facebook, cit., 288 ss., cui viepiù si rinvia per una (condivisibile) critica alle tesi che ravvisa nella disattivazione del profilo una sanzione privata tipica dei contesti associativi. (5) Basti citare Cass. 18 settembre 2009, n. 20106 (in Foro it., 2010, I, 85 ss., con nota di pALMieri-pArdoLeSi, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa, in Giur. it., 2010, 556 ss., con nota di MonteLeone, Clausola di recesso ad nutum dal contratto e abuso di diritto, e SCAGLione, Abuso di potere contrattuale e dipendenza economica, e ibidem, 2010, 809 ss., con nota di SALerno, Abuso del diritto, buona fede, proporzionalità: i limiti del diritto di recesso in un esempio di jus dicere “per princìpi”, in Riv. dir. civ., 2010, 653 ss., con nota di pAnetti, Buona fede, recesso ad nutum e investimenti non recuperabili dell’affiliato nella disciplina dei contratti di distribuzione: in margine a Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in Resp. civ. prev., 2010, 345 ss., con nota di GentiLi, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Giur. comm., 2010, II, 828 ss., con nota di deLLi priSCoLi, Abuso del diritto e mercato, e ibidem, 2011, II, 286 ss., con nota di BArCeLLonA, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, in Giust. civ., 2010, I, 2547 ss., con nota di niGro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), e commentata in Riv. dir. civ., 2010, 147 ss., da orLAndi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106), nonché in Contratto e Impresa, 2010, 41 ss., da BArALdi, Il recesso ad nutum non è, dunque, recesso ad libitum. La Cassazione di nuovo sull’abuso del diritto), in cui gli ermellini, ancorché contestando la tendenza ad un eccessivo risalto dell’autonomia privata, e ancorché ritenendo che si debbano contemperare gli interessi delle parti in un’accezione anche di riequilibrio delle disparità contrattuali, non hanno riconosciuto al receduto alcun diritto ulteriore al risarcimento.
ex art. 2043 c.c. per effetto della lesione di un diritto assoluto di portata costituzionale. Il tema della responsabilità extracontrattuale sorta per mezzo di un vincolo contrattuale è antico (6) e complesso (7). Il giudice l’ha tratteggiato nella fattispecie ritenendo plausibile una doppia responsabilità ove il contraente receduto dimostri che non solo vi è stata inadempienza ai doveri contrattuali, ma anche un pregiudizio ai diritti della persona direttamente garantiti in Costituzione (così scaturigine di una responsabilità per fatto illecito). Ora, al netto di una pur prospettabile lettura che cerchi di ampliare la sfera di protezione dell’utente di una piattaforma che – è inutile negarlo – attende ad una funzione insostituibile per chi voglia propagandare un prodotto o un pensiero (8), non è ben comprensibile come l’accesso a quest’altra faccia della tutela civilistica possa cambiare l’esito del rigetto in rito. Se tale ultimo giudizio discende dal dato dell’impossibilità di anticipare un diritto (quello alla riabilitazione dell’account) che non c’è, non vediamo infatti quale cambiamento possa intervenire per il tramite di una responsabilità ex delicto che, comunque, darebbe vita ad un altro diritto di credito che sarebbe non salvaguardabile con una condanna alla reintegrazione dello status quo ante. Anche perché altrimenti opinando si cadrebbe nell’errore che in premessa si dichiarava di voler evitare e, per certi versi, nell’incoerenza. La contraddizione sarebbe in ciò che la tutela derivante dall’azione extracontrattuale porterebbe ad un risultato più intenso rispetto all’azione contrattuale (9), perché
(6) Di esso v’è traccia già nelle parole di Ulpiano: «Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere actionem» (passo ripreso da BiAnCA, Diritto civile, V, 1994, 552, nt. 58). (7) In dottrina, su tutti, SCoGnAMiGLio, Responsabilità contrattale ed extracontrattuale, in Novissimo Digesto it., XV, Torino, 1968, 670 ss. (8) Anche in un’ottica di protezione dei «diritti «nuovi», specialmente non patrimoniali, i quali [..] apparirebbero, quanto a concreta efficienza e consistenza, «meno uguali» degli altri, meno nuovi e perciò già configurati come oggetti di quelle giustizie» (MonteSAno, Problemi attuali su limiti e contenuti (anche non patrimoniali) delle inibitorie, normali e urgenti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, 783, sulla funzione dell’art. 700 c.p.c., ricordando Virgilio Andrioli). (9) Ci si dimentica, però, che non sempre è evidente quale azione il ricorrente intenda far valere, e ammettendo che debba essere rimessa al giudice la scelta (così, BiAnCA, Diritto civile, op. cit., 555), a quest’ultimo verrebbe assegnato un potere probabilmente eccessivo. Il giudice triestino chiaramente aderisce alla lettura che intravede tra le due responsabilità un concorso di azioni (analogamente, SCoGnAMiGLio, Responsabilità contrattale ed extracontrattuale, cit., 678 s., e toSCAno, Concorso di norme o concorso di azioni?, nota a Trib. di Catania 29 febbraio 1980, in Giust. civ., 1980, I, 2814 ss.), rispetto a cui si potrebbe avere anche un cumulo condizionale di domande (amplius sull’argomento, passim, ConSoLo, Il cumulo condizionale di domande, voll. I e II, Padova, 1985). Sebbene non sia da dimenticare che altra dottrina (de CupiS, Dei fatti illeciti, in Commentario del Codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, mentre quest’ultima non sarebbe idonea a ripristinare il vincolo negoziale su cui poggiano i presupposti dell’azione risarcitoria, la tutela reale sarebbe invece ammissibile spostando il giudizio dal piano dell’inadempimento a quello della lesione di diritti assoluti. Ma così, in pratica, si finisce per aderire al contestato orientamento che intravedeva nella relazione utente-provider qualcosa di più di un rapporto di rilievo privatistico. Difatti, si riscontrerebbe quello stesso carattere di specialità ravvisato dal giudice capitolino nella vicenda CasaPound, specialità sottesa non al dato della possibile duplicazione delle azioni di danno (contrattuale e extra-contrattuale), che ravvisandosi anche in rapporti contrattuali comuni non darebbe corso ad una tale congettura, bensì nella possibilità – questa sì caratterizzante – di potersi giovare di un rimedio peculiare che deroga al generale principio di autonomia privata e permette di ripristinare quel rapporto contrattuale che il diritto comune vuole irrecuperabile dopo l’esercizio del recesso (10).
Libro quarto: delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1971, 42, e id, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, 116) ritiene invece esistente un mero concorso di norme (cfr. anche Cass. 5 ottobre 1994, n. 8090, in Danno e resp., 1996, 614 ss., con commento di SiMone, Concorso di responsabilità: a proposito di un ritorno alla tipicità dei fatti illeciti), a fronte del quale sarebbe addirittura possibile non solo la modifica successiva della domanda, ma addirittura una pronuncia del giudice in applicazione di una norma diversa da quella invocata dalla parte. Tuttavia, è da tener presente che tra i due orientamenti è il primo a prevalere (sul divieto di mutatio libelli, vedi infatti Cass. 8 giugno 2018, n. 14910, in Guida al diritto, 2018, Cass. 19 settembre 2016, n. 18299, in Giust. civ. Mass., 2016, Cass. 10 maggio 2013, n. 11118, in Giust. civ. Mass., 2013, e Cass. 14 febbraio 2001, n. 2080, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 311 ss., con nota di SoLinAS, Il divieto dei nova in appello e sua applicazione in materia di risarcimento danni). (10) Nei principali precedenti giurisprudenziali in cui si è ravvisata una responsabilità extracontrattuale a latere di quella contrattuale, non ci risulta si sia mai andati oltre il riconoscimento della tutela risarcitoria. Così, Cass. 13 marzo 1980, n. 1696, in Giust. civ., 1980, I, 1914 ss., con nota di ALpA, Garanzie della vendita e responsabilità per danni da prodotti. In margine a un leading precedent della Corte di Cassazione, Cass. 7 agosto 1982, n. 4437, in Resp. civ. prev., 1984, 78 ss., con nota di SoMAré, Alcune considerazioni in tema di diligenza, e in Giust. civ. Mass., 1982, Cass. 20 aprile 1989, n. 1855, in Foro it., 1990, I, 1970 ss., con nota di CArBone, Vettore per caso, Cass. 19 gennaio 1996, n. 418, in Danno e resp., 1996, 611 ss., con commento di SiMone, Concorso di responsabilità, cit., Cass. 8 maggio 2008, n. 11410, in Giust. civ. Mass., 2008, Cass. 11 febbraio 2014, n. 3021, in dejure.it, Cass. 6 luglio 2017, n. 16654, in Giust. civ. Mass., 2017, e Cass. 24 giugno 2020, n. 12420, in Giust. civ. Mass., 2020. Va detto che di recente, presso la corte euro-unitaria, si è tastata l’insidia nascente dall’esigenza di comprendere se l’obbligazione fatta valere in giudizio – pur in presenza di un contratto con la controparte – sia di natura contrattuale o extracontrattuale. La corte si è orientata nel senso di affermare la natura extracontrattuale dell’azione laddove, malgrado esista un contratto tra le parti in causa, «non risulta indispensabile esaminare il contenuto del contratto concluso con il convenuto per valutare la liceità o l’illiceità del comportamento contestato a quest’ultimo, poiché tale obbligazione incombeva al convenuto indipendentemente da tale contratto» (sentenza 24 novembre 2020, in causa 59/19, punto 33, in una fattispecie di abuso di posizione dominante da parte di Booking.com; cfr. inoltre sentenza 13 marzo 2014, in causa 548/12, per una vicenda di concorrenza sleale). L’ambito di responsabilità cui viene ricondotta l’azione assume rilievo già
Ed ancor più manifesto sarebbe l’errore, dal momento che si tratterebbe di allestire una tutela reale, rectius costitutiva, che non essendo contemplata da alcuna legge si porrebbe in insanabile attrito con l’art. 2908 c.c. Ogni giudice chiamato a decidere sulle domande di riattivazione dei profili social potrà ponderare come meglio ritiene i valori costituzionali in conflitto, ma fin quando il diritto positivo non riconoscerà all’utente una tutela di tipo manutentivo-ripristinatorio, la tipicità dell’azione costitutiva osterà sempre all’accoglimento dell’istanza. Diverso se si dicesse che l’obbligo di Facebook non è nel dover ripristinare il contratto sciolto, bensì nel doverne stipulare uno nuovo a garanzia dei diritti costituzionali emergenti in rete, applicando l’art. 2058 c.c. (11). Nel qual caso, però, sarebbe come dichiarare che l’autonomia privata del provider è preminente nella decisione di sciogliere il contratto ma soccombente nella decisione di stipularlo. Da entrambe le prospettive la si guardi, quindi, riteniamo che la tesi avanzata dal giudice della cautela sia irricevibile.
3. Sulla restituzione dei dati personali
Benché l’esercizio del recesso non legittimi la pretesa di restituzione delle prestazioni già eseguite (art. 1373, comma 2, c.c.), l’ordinanza ha accolto la richiesta di intimare a Facebook la restituzione alla FNAI e ai due ricorrenti i contenuti dei rispettivi profili, motivando tanto sulla scorta delle condizioni contrattuali incise nel modulo di adesione al social network, quanto sull’assunto per cui si tratterebbe di un «effetto conseguente allo scioglimento del vincolo».
nel momento in cui bisogna considerare l’applicabilità della eventuale clausola di scelta del foro. (11) E così dotando l’utente di un’azione di condanna, non di un’azione costitutiva, come invece afferma il giudice dell’ordinanza in commento, appurato che la tutela costitutiva non solo sconterebbe del pari i menzionati limiti derivanti dalla carenza di tipicità, ma legittimi sarebbero pure i dubbi (evocati peraltro dal giudice triestino) sulla possibilità di anticiparla in sede cautelare. A quest’ultimo proposito, è soprattutto nelle cause di lavoro (in special modo per le domande di riassunzione successive al licenziamento) che la giurisprudenza di merito appare più disinvolta nella concessione della tutela costitutiva ex art. 700 c.p.c. (tra le altre, Pretura di Torino, sez. Chivasso, 18 maggio 1999, in Guida al lavoro, 2000, fasc. 2, 32 s., Tribunale di Modena, sez. lavoro, 9 gennaio 2006, in banca dati dejure, Tribunale di Nola, sez. lavoro, 28 dicembre 2011, ined., Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 10 settembre 2014, ined.). Talora, servendosi dell’artificio insito nell’ammettere il rimedio d’urgenza ove il lavoratore abbia chiesto non già la costituzione del rapporto di lavoro, bensì la condanna alla riassunzione (così, Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 25 maggio 2015, ined.; confermata, in parte qua, dal giudice del reclamo, Tribunale di Napoli, sez. lavoro, 28 luglio 2015, ined.). Sull’argomento, cfr. zuMpAno, Tutela di urgenza e rapporto di lavoro, in Riv. dir. proc., 1989, 831 ss. Il punto merita di essere approfondito poiché, al netto della correttezza o meno della conclusione raggiunta, parrebbe configurarsi un possibile contrasto tra la disciplina di diritto comune e il dettato del Regolamento UE 2016/679. Il codice civile, infatti, esclude che nei contratti a esecuzione continuata il recesso possa avere effetti retroattivi (art. 1373, comma 2) (12), e se pertanto riteniamo che la controprestazione dovuta dall’utente consista nella cessione dei propri dati personali (come si evince dalla supra citata direttiva 2019/770), non si comprende – all’apparenza – perché il soggetto receduto debba vedersi restituito quanto reso, peraltro in scia ad un recesso che – per quanto ciò possa rilevare, stante la decisione risoltasi in rito – è stato comunque giudicato non abusivo in virtù del chiaro contenuto fascista delle pubblicazioni ablate. Il giudice si è appellato alle condizioni contrattuali poste da Facebook, riprodotte in nota all’ordinanza, laddove è scritto che l’utente «può scaricare una copia dei propri dati in qualsiasi momento prima di eliminare il suo account». Orbene, di là dal constatare una certa equivocità nelle parole utilizzate nel prontuario, parole che parrebbero voler assicurare all’utente non tanto la restituzione dei dati quanto la garanzia di ottenere una semplice copia utile per un riuso delle informazioni (magari anche in funzione probatoria), sovviene piuttosto il dubbio sul perché il giudice non abbia evocato l’art. 20 Reg. UE 2016/679. Per la verità, non è chiaro se l’ordinanza intendesse riconoscere una forma di oblio (il che appare paradossale se solo si pensa al tenore dell’istanza avanzata dai ricorrenti), oppure – più verosimilmente – se volesse tutelare il diritto alla c.d. portabilità dei dati. Tale essendo l’interpretazione più convincente, è la disposizione di cui all’art. 20 Reg. 2016/679 che riconosce il diritto del soggetto interessato a ricevere indietro i dati forniti al titolare del trattamento, anche al fine di disporne a vantaggio di un altro soggetto titolare del trattamento (13).
(12) La società resistente aveva sostenuto che lo scioglimento del rapporto fosse una conseguenza dell’attivazione delle clausole risolutive espresse, previste nel contratto per il caso di violazione dei cc.dd. “Standards della community”. Il giudice ha però diversamente interpretato la fattispecie, affermando che ai fini della clausola risolutiva espressa occorre un inadempimento in senso tecnico, presupposto che – pur pacifica la rilevanza giuridica del comportamento dell’utente rispetto all’interesse della controparte alla prosecuzione del rapporto – non si è ravvisato, giacché i fatti contestati non configurerebbero un vero e proprio inadempimento. Ai fini della restituzione dei dati all’utente, comunque sia, non cambia nulla, posto che anche l’art. 1458, comma 1, c.c. esclude la retroattività degli effetti per i contratti a esecuzione continuata. (13) Vedi funditus GiorGiAnni, Il «nuovo» diritto alla portabilità dei dati personali. Profili di diritto comparato, in Contratto e impresa, 2019, 1387 ss., spec. 1396 ss., che qualifica questo come un diritto dinamico di controllo, e CAtALAno, Il diritto alla portabilità dei dati tra interessi individuali e
La stessa direttiva 2019/770, all’art. 16, comma 2, conferma del resto che in caso di scioglimento del contratto «[p]er quanto riguarda i dati personali del consumatore, l’operatore economico rispetta gli obblighi applicabili a norma del regolamento (UE) 2016/679» (14). Sarebbe stato quindi più confacente un rinvio al regolamento sulla privacy, viepiù in funzione di disapplicazione dell’art. 1373, comma 2, c.c., che non il richiamo alle ambigue condizioni contrattuali.
4. Le prospettive future e le perplessità attuali
Certo è che quando sono in gioco diritti costituzionali di prim’ordine, il giungere ad un rigetto in rito per ragioni neppure eludibili mediante una diversa impostazione del ricorso, risulta inappagante agli occhi di coloro che dal potere giudiziario attendono pronunciamenti meritali rispetto a quel mondo parallelo ed invasivo che i social ormai rappresentano in tanti ambiti della nostra quotidianità. Ma come si potrebbe aggirare l’ostacolo di una tutela processuale inattivabile, allorquando un diritto alla reintegrazione dell’account giammai potrà esistere se si principia dal postulato della autonomia privata, di cui il recesso è espressione insopprimibile negli effetti? La de-giurisdizionalizzazione dei processi di ponderazione dei valori costituzionali è una deriva pericolosa, tanto più se si lascia nelle mani dei giganti (stranieri, peraltro) del web un potere così delicato. Paradossalmente, avvertita una certa ritrosia degli stessi providers a farsi guardiani della legalità, d’altronde non avendo essi interesse a comprimere gli spazi di espressione nell’agorà virtuale (perché consapevoli dell’importanza che la sregolatezza dei contenuti ha avuto nel decretarne il successo), un’alternativa potrebbe essere nell’incenti-
prospettiva concorrenziale, in Europa e dir. priv., 2019, 833 ss., per uno studio più connesso agli effetti di siffatto diritto sul mercato. Il Considerando 68 del regolamento lascia intendere la differenza tra il diritto alla portabilità e quello più radicale all’oblio in ciò che «tale diritto non dovrebbe pregiudicare il diritto dell’interessato di ottenere la cancellazione dei dati personali [..] e non dovrebbe segnatamente implicare la cancellazione dei dati personali riguardanti l’interessato forniti da quest’ultimo per l’esecuzione di un contratto, nella misura in cui e fintantoché i dati personali siano necessari all’esecuzione di tale contratto». Ed infatti, secondo le linee guida sull’art. 20 elaborate dal “Gruppo di lavoro articolo 29”, «the primary aim of data portability is to facilitate switching from one service provider to another, thus enhancing competition between services» (pag. 4). (14) Rispetto alla bozza di questa direttiva, CAtALAno, Il diritto alla portabilità dei dati, cit., 864, asseriva che il diritto alla portabilità così come si andava configurando nella direttiva sarebbe stato diverso da quello del regolamento sulla privacy, sia per l’aspetto attinente alla comprensibilità di un novero di dati più ampio giacché inclusivo di tutti quelli forniti dall’utente, sia per la garanzia di una più radicale tutela che il Reg. 2016/679 assicurerebbe soltanto assieme al diritto all’oblio. La lettura così offerta è ovviamente non più proponibile, dal momento che il testo licenziato della direttiva – in punto di restituzione dei dati – realizza un totale rinvio al regolamento sulla privacy. vare il ruolo di controllo degli utenti, oggi relegati alla funzione di delatori. C’è tuttavia da prendere atto di come il legislatore europeo si sia recentemente mosso in tutt’altra direzione. Dapprima in Germania, dove è stata approvata una legge (chiamata Netzwerkdurchsetzungsgesetz, in breve NetzDG) che per ripulire il web dalle false notizie e dai contenuti di odio, dal 2018 prevede che ogni utente possa inviare segnalazioni ai social networks e che questi debbano entro 24 ore (o non più di una settimana, quando l’illegalità è meno ovvia) rimuovere il contenuto (§ 3). In caso di non adeguamento, l’ammenda (trattandosi di Ordnungswidrigkeit, un illecito amministrativo) può arrivare fino a 5 milioni di euro (§ 4, il cui comma 3 espressamente stabilisce che la sanzione opera anche quando la condotta illecita si è tenuta all’estero). Ma ancor più si è industriato il parlamento francese (15), che il 13 maggio 2020, al termine di un iter travagliato, ha approvato la Loi contre la haine en ligne, n. 419/20 (nota altrimenti come loi Avia, dal cognome della deputata che ha presentato il progetto). Si prevedeva che dalla sua entrata in vigore, i gestori delle grandi piattaforme social, dei motori di ricerca o dei siti che raccolgono una grande porzione di internauti, avrebbero dovuto rimuovere entro 24 ore e su istanza di qualsiasi utilisateur tutti i contenuti segnalati per odio e ingiuria (addirittura entro 1 ora laddove il contenuto avesse avuto una matrice terroristica o pedopornografica). In ogni ipotesi non era richiesto l’intervento del giudice, nonostante le sanzioni previste fossero altissime: di base 250.000 euro, ma con la possibilità di arrivare fino al 4% del fatturato globale della società entro un plafond di 20 milioni di euro. Sarebbe stata una naturale conseguenza di questa discutibile legge la predisposizione, da parte degli operatori interessati, di algoritmi in grado meccanicamente (con le molte imperfezioni pronosticabili) di rimuovere i contenuti additati. Il timore di sanzioni così severe avrebbe portato verosimilmente ad accogliere quasi sempre le segnalazioni, ed il tutto senza le tradizionali garanzie processuali di indipendenza del giudicante (il quale terzo certo non è, agendo sotto minaccia di sanzione anche penale) e di contraddittorio (né avrebbe senso in questi casi parlare di violazione del giusto processo, ché ingiusto non può essere ciò che non c’è). Oltre al dato della de-giurisdizionalizzazione dell’ordine ingiuntivo alla rimozione e a quello ancora più inquietante della futura automatizzazione dei procedimenti (16),
(15) Leggi woitier-GuiChArd, La loi contre la haine en ligne adoptée sans enthousiasme, in Le Figaro, 13 maggio 2020, online. (16) Tra le letture consigliate sull’argomento, segnaliamo principalmente, CArrAttA, Decisione robotica e valori del processo, in Riv. dir. proc., 2020, 491 ss., BAtteLLi, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in
affiora altresì l’eterogeneità di contenuti elencati dalla legge: dalla diffamazione al terrorismo, dal non meglio precisato contenuto di odio alla pedopornografia e l’antisemitismo. Insomma, un pot-pourri che sotto l’egida del materiale sconveniente faceva confluire nelle mani dell’utente un potere davvero eccessivo, che se non ben controbilanciato nella pur prevista fase successiva di intervento dell’autorità pubblica (al momento dell’emanazione della sanzione da parte del Conseil supérieur de l’audiovisuel) rischiava di compromettere la libertà di espressione sul web (17). Ad ogni modo, in sede di controllo preventivo di costituzionalità – dopo poco più di un mese dall’approvazione del testo – il Consiglio costituzionale ha dichiarato illegittima la legge, censurando l’inopportunità dei termini di rimozione e la compressione della libertà di espressione e comunicazione attraverso mezzi sproporzionatamente severi (18). Resta come monito l’approvazione di una riforma a tal punto criticabile, non potendosi escludere che prossimamente altri legislatori nazionali seguano un analogo itinerario riformatore. Probabilmente non in Italia, dove per quanto la sregolatezza dei contenuti pubblicati in rete sia da un po’ di tempo all’attenzione del dibattito politico (19), non è in cantiere un progetto simile. Il diritto alla cancellazione è oggi direttamente disciplinato dall’art. 17 Reg. UE 2016/679, ove si prevede che la richiesta vada indirizzata allo stesso titolare del trattamento (come già accadeva precedentemente, in vigore gli artt. 7-8 d.lgs. 196/03), il quale deve evadere la pratica (c.d. notice-and-take-down) «senza ingiustificato ritardo» (20).
Giust. civ., 2020, 280 ss., GABeLLini, La «comodità nel giudicare»: la decisione robotica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 1305 ss., BArBAro, Uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari: verso al definizione di principi etici condivisi a livello europeo?, in Questione Giustizia, fasc. 4, 2018, 189 ss., e SeLA, The Effect of Online Technologies on Dispute Resolution System Design: Antecedents, Current Trends and Future Directions, in Lewis & Clark Law Review, vol. 21, 2017, 634 ss. (17) L’iniziativa del legislatore francese ha infatti attirato il biasimo di numerose associazioni di categoria, ordini professionali, etc. Anche la Commissione europea si era detta avversa a che si approvasse l’originario progetto di legge, poi solo in piccola parte emendato. (18) Vedi koVACS, Le Conseil constitutionnel censure la loi Avia contre le «haine» en ligne, in Le Figaro, 18 giugno 2020, online. Il 24 giugno, il Presidente della Repubblica francese ha promulgato la legge depurata dai contenuti illegittimi, sì che dell’originario testo rimane ben poco (ad es., la creazione di un osservatorio sull’odio online o la semplificazione di alcune procedure di segnalazione e di rimozione). (19) Da una prospettiva di diritto pubblico, guarda ABBondAnte, Il ruolo dei social network nella lotta all’hate speech: un’analisi comparata fra l’esperienza statunitense e quella europea, in Informatica e diritto, 2017, fasc. 1-2, 41 ss. (20) Nonostante la considerevole mole di domande. Secondo il sito reputationup.com, soltanto Google avrebbe ricevuto dal 2014 circa 3 milioni e mezzo di richieste di deindicizzazione. Tale normativa non si estende ai contenuti che esulano dalla nozione di dati personali prevista all’art. 4 del Regolamento (ad esempio, un messaggio di odio non corredato da informazioni sulla persona perché genericamente rivolto ad un gruppo di individui), al che, fuoriuscendo dal perimetro della privacy, non esiste una norma che regoli la rimozione dei singoli contenuti o la cancellazione della pagina. Peraltro, mentre l’obliterazione del profilo o della pagina può almeno avere un inquadramento giuridico nella disciplina comune del recesso, non è invece chiaro se a fronte della rimozione di un singolo post o della disattivazione solo temporanea del profilo (21), l’utente possa lamentare l’inadempimento contrattuale e far ricorso alla tutela giudiziale. Semmai il legislatore decidesse di colmare l’attuale vuoto di disciplina rispetto al contenzioso non nascente dalla violazione dei dati personali, auspicabile è che si integrino gli strumenti di tutela collettiva, attribuendo al giudice civile – in raccordo con l’art. 840 sexiesdecies c.p.c., e dunque in camera di consiglio e con la possibile partecipazione del pubblico ministero – il potere di emanazione di un decreto motivato (22). Ad eccezione dei casi in cui la manifesta inopportunità di una pubblicazione renda ragionevole la condotta del provider che proceda senza indugio alla cancellazione/ disattivazione, sarebbe comunque determinante, nei casi in cui l’inopportunità del messaggio risulti invece opinabile, lasciare l’iniziativa giudiziale agli utenti. Perché così, ponendo la piattaforma social nel ruolo di contraddittore non (già) recedente dal contratto col soggetto che ha pubblicato i contenuti controversi, la domanda non potrebbe essere preclusa in rito, e una volta accertata la preminenza di un diritto costituzionale su di un altro, starebbe poi al provider – nel caso di condanna – l’esercizio del recesso sotto minaccia di astreinte.
(21) Sulla disattivazione temporanea, segnatamente, SteLLA, Disattivazione ad nutum del profilo Facebook, cit., 291. (22) Il rischio di un sovraccarico di lavoro per i giudici non dovrebbe esservi, dal momento che resterebbe comunque ferma la procedura che ciascuno già può avviare in via extra-giudiziale. L’intervento giurisdizionale andrebbe dunque, da un lato, ad operare per il cittadino come garanzia pubblica di pronto intervento, ma dall’altro farebbe comodo soprattutto agli operatori della rete, sollevandoli da una responsabilità cui in genere fanno fronte con relativo ritardo. Invero, in Italia si ha memoria di un unico progetto di legge, presentato alla Camera dei Deputati (n. 2455/09), che prevedeva il diritto alla rimozione dai siti Internet una volta trascorso un lasso di tempo più o meno lungo, a favore delle sole persone indagate o imputate in un processo penale. Il tema sembra essere oggi trascurato dalle forze politiche, non potendosi certo ritenere pienamente appagante l’approvazione del c.d. codice rosso (l. 69/09), se non altro per l’area circoscritta d’intervento in cui tale legge detta disciplina.