Il diritto penale della globalizzazione 1/2019

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1 • gennaio-marzo 2019

Rivista trimestrale 1 • gennaio-marzo 2019

Il diritto penale

globalizzazione della

Il diritto penale della globalizzazione

Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini

In evidenza: Resistenza opposta a più pubblici ufficiali: per le Sezioni Unite sussiste il concorso formale di reati Alessandro Quattrocchi I Tribunali Penali Internazionali e in particolare la Corte Penale Internazionale. Alcuni casi rilevanti Cesare Augusto Placanica Corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio: evoluzione della fattispecie alla luce della Riforma Severino (Cass. 4486/2019) Marilisa De Nigris Cass. SS.UU. ordinanza 29 gennaio 2019 n. 2441 in materia di permesso umanitario Miriam Ferrara

ISSN 2532-8433



Indice In evidenza A cura di Giovanni Tartaglia Polcini, Il superamento del Corruption Perception Index come obiettivo della rule of law globale........................................................................................................p.

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Editoriale A cura di Antonio Balsamo, Il meccanismo di revisione della Convenzione di Palermo..................»

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Saggi Cesare Augusto Placanica, I Tribunali Penali Internazionali e in particolare la Corte Penale Internazionale. Alcuni casi rilevanti.............................................................................................» Alessandro Quattrocchi, Resistenza opposta a più pubblici ufficiali: per le Sezioni Unite sussiste il concorso formale di reati...............................................................................................................» Marilisa De Nigris, Il d.lgs. 231 ed i suoi ambiti applicativi nel mondo dello sport..........................»

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Giurisprudenza Nazionale Corte di Cassazione, 11 dicembre 2018 (dep. 29 gennaio 2019), n. 4486, con nota di Marilisa De Nigris, Corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio: evoluzione della fattispecie alla luce della Riforma Severino (Cass. 4486/2019).............»

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Internazionale Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), con nota di Marta Patacchiola, La condanna dei Khmer Rossi: alcune riflessioni sui limiti della definizione di genocidio..................»

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Europea Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Sentenza Beuze c/ Belgio, 9 novembre 2018. Ricorso n. 71409/2010, con nota di Andrea Racca, Il fondamentale diritto alla difesa...........»

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Osservatorio Nazionale Miriam Ferrara, Cass. SS.UU. ordinanza 29 gennaio 2019 n. 2441 in materia di permesso umanitario....................................................................................................................................»

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Normativo Biase, Tribunale dei Ministri, funzioni e competenze............................................»

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Marilisa De Nigris, Arrestati e consegnati alla CPI due dei maggiori esponenti del movimento anti-balaka...................................................................................................................................»

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Nikita Micieli

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Internazionale Europeo Antonio De Lucia, Brexit: L’UE ribadisce la possibile revoca unilaterale dell’uscita dall’Unione europea previa volontà dello Stato membro...................................................................................»

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Indice

Focus Nicola D’Albasio, L’Italia e la Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale........................................................................................................................»

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In

evidenza

Il superamento del Corruption Perception Index come obiettivo della rule of law globale Sommario: 1. Premessa. – 2. Le ragioni della necessità di un indice di misurazione più accurato di quello percettivo. – 3. Lo stato del dibattito scientifico e delle iniziative sul piano internazionale. – 4. Il Paradosso di Trocadero. – 5. Le conclusioni.

1. Premessa. La recente ricerca EURISPES sulla misurazione della corruzione, che ho personalmente curato, evidenzia le ragioni per le quali il Corruption Perception Index di Transparency International non costituisce più, a mio avviso – ammesso che lo sia stato in passato –, un termine di riferimento “buono, robusto ed utile”, come invece sostenuto aliunde. Ritenendo di fare cosa utile per i lettori della Rivista, che non abbiano ancora avuto modo di conoscere direttamente i risultati di quella ricerca, dal titolo “La corruzione tra realtà e rappresentazione. Ovvero: come si può alterare la reputazione di un Paese”, ritengo opportuno offrire un contributo al dibattito, anche dalle pagine de “Il Diritto penale della globalizzazione”. Segnatamente mi preme evidenziare un diverso (rispettoso, ma distinto) punto di vista che, va qui sottolineato, lungi dall’essere isolato, trova riscontri consistenti ed importanti, oltre che progressivamente crescenti, sia in Italia che sul piano internazionale. Nondimeno, prima di procedere oltre ad approfondire la questione sul terreno della ricerca scientifica, è opportuno chiarire che lo scopo dello studio e di questo intervento non era e non è quello di sostenere che l’Italia non sia un Paese caratterizzato da un alto tasso di corruzione: tutt’altro. Le finalità della ricerca, in linea con l’agenda multilaterale globale, erano e sono piuttosto quelle di contribuire ad un maggiore approfondimento della problematica giurimetrica della misurazione della corruzione, secondo tre direttrici oggettivamente distinte dalla sottovalutazione del fenomeno e dalla sua eccessiva ed aprioristica semplificazione: a) la necessità di disporre di indicatori scientificamente affidabili, che consenta una comparazione tra ordinamenti e sistemi Paese più aderente alla realtà; b) l’utilità di una corretta misurazione della corruzione in grado di contribuire allo sviluppo nelle strategie di prevenzione e repressione degli illeciti, soprattutto dove questi restano latenti e non percepiti adeguatamente; c) l’opportunità di superare un approccio impreciso come quello soggettivo-percettivo che registra uno scostamento talmente significativo dalla realtà da risultare oggi inutile e superato1 e peraltro non offre metodi suscettibili di verifica oggettiva ab externo.

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Basta por mente al dato che se si chiede ad un campione di intervistati italiani quale sia la percentuale di immi-


In evidenza

2. Le ragioni della necessità di un indice di misurazione più accurato di quello percettivo. Se si riflette sul fatto che l’indice di percezione della corruzione è assurto a livello internazionale a parametro di riferimento sulla affidabilità dei Paesi e dei loro sistemi giuridici ed economici, si può ben comprendere come il benchè minimo errore nell’uso di certe misurazioni possa gravemente falsare la comparazione e la competizione tra intere Nazioni. La stessa Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico di Parigi (OCSE) ha voluto studiare ed approfondire le conseguenze del Corruption Perception Index sull’andamento delle economie. Ad un indice basso corrispondono minore affidabilità, minore attrattività per gli investimenti, tassi di interesse maggiori, danni di immagine e reputazionali su larga scala. Solo per inciso, va ricordato che la questione non attiene solo alla Pubblica amministrazione ed alle varie figure soggettive che la compongono: essa è difatti destinata a determinare effetti negativi anche sull’operatività dello stesso mercato interno e sulle performance delle imprese attive all’estero. Nell’epoca dello sviluppo sostenibile, dell’ambiente legalmente orientato in un ordinamento giuridico multilivello, del multilateralismo costruttivo, degli sforzi comuni per la creazione di un level playing field globale, della lotta ai paradisi normativi e della promozione di un’armonizzazione minima dei sistemi giuridici penali, se non della globalizzazione stessa del diritto penale, l’indice di percezione della corruzione è, a mio avviso, destinato a segnare il passo poiché scientificamente superato e non utile alla conoscenza del fenomeno corruttivo ed alla corretta comparazione tra sistemi giuridici ed socio-economici. Sul piano più concreto, dipingere un paese come corrotto o anche più corrotto di quanto realmente non sia, può avere – come in effetti ha– conseguenze indirette sull’economia. Attribuire un rating superiore ad ordinamenti che non dispongono di istituti giuridici ritenuti modello di riferimento globale costituisce operazione quantomeno illogica se non criticabile in sé. Andrebbe difatti spiegato ex adverso, ad esempio, il perché sistemi ritenuti a minor tasso di corruzione importino istituti giuridici e sistemi organizzativi ritenuti più avanzati in subjecta materia proprio da Paesi, come l’Italia, che li seguono di decine di posizioni nel citato rating CPI. Inoltre, lo ribadisco, definire esattamente le modalità concrete di realizzazione delle condotte corruttive, ben al di là di una non meglio indicata percezione del fenomeno, sicuramente aiuterebbe a meglio prevenire e reprimere gli illeciti, soprattutto laddove gli stessi non vengono percepiti. Ecco illustrate sinteticamente le ragioni per una svolta giurimetrica della misurazione della corruzione, per una più realistica comparazione tra sistemi e per il perseguimento di elementi di conoscenza utili allo sviluppo della rule of law in questa area decisiva.

grati sulla popolazione nazionale la risposta sarà 6/7 volte superiore rispetto al dato reale: che senso avrebbe ai fini della misurazione, fare riferimento ad un dato percepito talmente falsato? E quale rilievo, a tale riguardo, dovrebbe rivestire il riferimento alla fiducia nelle istituzioni, se la stessa fiducia dipende dall’indice di misurazione che tende a deprimere, nei risultati, proprio l’affidabilità di quelle istituzioni?

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Il superamento del Corruption Perception Index come obiettivo della rule of law globale

3. Lo stato del dibattito scientifico e delle iniziative sul piano internazionale. I difetti di un indice percettivo come quello paradigmatico di TI definito Corruption Perception Index sono facilmente enucleabili da innumerevoli pubblicazioni scientifiche italiane e straniere. Rinviando, ancora una volta, alla citata ed evocata ricerca, riporto qui i principali punti di criticità sollevati dagli studiosi del settore sugli indici percettivi: - la difficoltà di misurare il fenomeno della corruzione a causa di problematiche definitorie; - il fatto che gli indici sono fondati sulla percezione e non sull’esperienza diretta; - il dato che le stesse organizzazioni che ne promuovono lo sviluppo abbiano tentato più volte di correggere il problema dell’affidabilità degli indicatori aggregando informazioni di interviste e opinioni p rovenienti da fonti multiple per ciascun paese; - l’affidabilità degli indici potrebbe deteriorarsi nel tempo; - il fatto che il significato di corruzione è soggettivo e può variare sostanzialmente da un paese ad un altro e da un anno all’altro; - il fatto che i dati non possono essere comparati da un anno all’altro perché la metodologia e i campioni utilizzati a volte cambiano; - i dati possono variare in maniera considerevole a seconda della percezione soggettiva del fenomeno in ciascun paese, della completezza delle interviste e del campione, della metodologia usata; - i tipi di pratiche corruttive potrebbero essere sostanzialmente differenti in ciascun paese rendendo le analisi comparative particolarmente complesse; - il ruolo determinante dei media influenza le scelte e gli atteggiamenti individuali. - le percezioni sono spesso influenzate da crisi, tendenze a lungo termine, o altri fattori; - l’interpretazione delle domande nelle indagini è specifica per ogni contesto e cultura e questo dimostra come l’indipendenza delle fonti è molto più ridotta del previsto. L’elenco potrebbe continuare. Va ora dettagliato il riferimento al dato che le posizioni sin qui espresse non costituiscono un dato isolato sia a livello nazionale, sia - per quel che qui più rileva - sul piano internazionale. Sia l’Agenzia delle Nazioni Unite, deputata all’attuazione (tra l’altro) della Convenzione di Merida sul contrasto alla Corruzione (UNCAC), sia l’OCSE, che ha generato la Convenzione per il contrasto alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali (Foreign Bribery) sostengono la necessità di un superamento dell’approccio percettivo. Un simile ontologico assunto si rinviene anche nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con specifico riferimento all’obiettivo 16, in alcune delle sue declinazioni più importanti ed oggetto di implementazione (16.4 e 16.5). Nei piani di azione e nelle iniziative dei Fora multilaterali globali (G7 e G20), il passaggio ad una nuova generazione di indicatori di misurazione del fenomeno corruttivo costituisce una priorità condivisa. Ecco, per sommi capi enumerate le ragioni per le quali riteniamo che l’approccio di Transparency International in tema di misurazione della corruzione sia ormai superato ed il Corruption Perception Index non sia più suscettibile di una considerazione simile a quella attribuitagli in passato. In ordine alle policy, difatti, negli ultimi anni l’Italia, a dispetto delle posizioni attribuitegli dal citato rating, ha svolto un ruolo guida, propositivo e profilato, nei fori multilaterali, favorita dalla validità dei suoi istituti giuridici, delle prassi e dei modelli che si caratterizzano per forza ed efficienza originali e che assurgono a punto di riferimento sul piano globale. 5


In evidenza

4. Il Paradosso di Trocadero. Infine, un cenno al richiamato paradosso, per renderlo effettivamente “percepibile” ai lettori della Rivista, in modo da porli nella condizione di formarsi un’opinione consapevole. Secondo il citato ragionamento, più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno. Si tratta di un dato di fatto non revocabile in dubbio. Esso disvela, senza appello, la fallacia dell’indice di percezione. Questo, nato per il nobile scopo di essere superiore, sotto il profilo della detection, cede, sul piano della logica, alla realtà normativa e fattuale. L’omertà è insita nel pactum sceleris che caratterizza la corruzione, intesa in senso stretto e proprio. Il CPI (l’Indice di Percezione della Corruzione) aveva la missione, nel processo di misurazione della corruzione, di superare le difficoltà legate alla natura elusiva di un fenomeno che per sua natura non è direttamente osservabile. Col tempo, nondimeno, il CPI ha visto estendersi la sua sfera di operatività, ben oltre la bribery, finendo per coprire ogni aspetto della maladministration. L’effetto distorsivo collegato a suddetto ontologico assunto, corrispondente all’abuso dei rating asseritamente collegati all’applicazione dell’indice, ha concorso a penalizzare soprattutto gli ordinamenti più attivi dal punto di vista della reazione alla corruzione in tutte le sue forme. Dalla distorsione si è passati al paradosso vero e proprio, quando sono stati comparati ordinamenti, dal punto di vista della percezione della corruzione, senza tenere conto di quelle che erano le relative caratteristiche istituzionali e processual-penalistiche. Alludiamo, con ciò, alle peculiarità ordinamentali che disegnano il nostro ordinamento giuridico, come sistema a tenuta forte nel contrasto alla corruzione, caratterizzato da almeno quattro “formanti” di indiscutibile valore sul piano della lotta alla corruzione: - l’autonomia del pubblico ministero nel quadro dell’indipendenza della magistratura in genere, - l’obbligatorietà dell’azione penale, - l’assoluta libertà di stampa in ordine alla pubblicazione anche delle notizie di reato fin dalle prime battute dell’indagine, - l’assoluta indipendenza dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ed il suo complesso di poteri in materia di trasparenza e di prevenzione. Il nostro ordinamento giuridico, da ultimo, non solo ha rafforzato le misure di repressione, ma ha addirittura sviluppato una serie di interventi per strutturare una prevenzione generalizzata ed istituzionalmente organizzata della corruzione attraverso una serie di innesti sulla legislazione vigente ed un nuovo modello di compliance pubblica che ruota intorno all’Autorità Nazionale Anticorruzione, ai piani nazionali anticorruzione, alle linee guida ed agli strumenti correlati. Si tratta di interventi normativi considerati modello globale che, unitamente ad altre caratteristiche italiane, fungono da fonte di ispirazione per importanti riforme negli altri ordinamenti (non soltanto dei paesi in via di sviluppo). Tradotto sul piano pragmatico, l’arsenale costituzionale italiano pone effettivamente tutti i cittadini in una posizione di uguaglianza assoluta davanti alla legge. Nessuno è immune dalle investigazioni anticorruzione. Tutte le notizie di reato in materia di corruzione sono suscettibili di necessaria determinazione da parte del pubblico ministero. Non vi potrà mai essere valutazione di opportunità circa il procedere o meno nei confronti di un pubblico funzionario per fatti di corruzione così come per altri reati, fino alle più alte cariche dello Stato, fatte salve le prerogative del Presidente della Repubblica. Giammai vi sarà una valutazione, usuale in altri ordinamenti, sulla ricorrenza del cosiddetto 6


Il superamento del Corruption Perception Index come obiettivo della rule of law globale

interesse nazionale, nel perseguire una public company coinvolta in fatti di corruzione internazionale. A ciò si aggiunga il fatto che, nel nostro sistema giuridico, anche la semplice informazione di garanzia e l’iscrizione di un nominativo nel registro degli indagati, qualora oggetto di conoscenza legittima, possono essere pubblicate in tempo reale sui media. Ed anzi, la costante attenzione dell’opinione pubblica sui fatti di corruzione, alimentata da una stampa incline – spesso – al sensazionalismo, conferma l’esistenza di una relazione direttamente proporzionale tra regole forti, lotta alla corruzione e percezione della corruzione.

5. Le conclusioni. Non sempre gli esercizi di misurazione hanno contribuito ad un avanzamento della effettiva conoscenza degli scenari della corruzione medesima. Ed ancor più in linea con un’analisi funzionale del diritto, è corretto sostenere che la costruzione di indicatori validi ed efficaci a rappresentare i molteplici aspetti relativi al fenomeno “corruzione” integra il primo ed essenziale passo verso il controllo, la prevenzione e il contrasto alla stessa. Senza misure accurate e affidabili non solo diventa difficile cogliere l’estensione e l’ordine di grandezza del fenomeno, ma anche indirizzare strategie d’intervento istituzionale e politico di contrasto e repressione. In questo contesto si radica il convincimento secondo cui non può misurarsi un fenomeno sociale e criminologico, senza tenere nella dovuta considerazione i mezzi e gli strumenti di prevenzione e contrasto approntati dal sistema ordinamentale. Sarebbe come dire che non può “misurarsi” una malattia senza tener conto del dato scientifico secondo cui gli anticorpi ed i farmaci la slatentizzano portandola alla luce. Laddove invece altrove, in diversi organismi, la malattia resta nascosta e può risultare addirittura tollerata, senza emergere in tutta la sua virulenza. In buona sostanza, la serietà dell’azione italiana di contrasto alla corruzione ha anche l’effetto di disvelare, più che altrove, il fenomeno. Quello che è, indubbiamente un asset del nostro sistema Paese, non può, a fortiori, divenire ragione di stigma deteriore per l’Italia. L’Italia è un Paese caratterizzato da un significativo tasso di corruzione: si deve nondimeno sostenere con vigore che il giudizio espresso nei confronti del nostro ambiente legalmente orientato – a livello internazionale – è spesso ingeneroso, se non a tratti errato con notevoli conseguenze anche sul piano macroeconomico. Con riferimento al CPI, vi sono ampi margini di miglioramento per le tecniche di misurazione della corruzione, seriamente in grado di riscrivere le graduatorie più diffuse sul piano globale, con effetti dirompenti sulle stesse economie e sulla medesima effettiva conoscenza del fenomeno corruttivo. È perciò doveroso contribuire all’evoluzione del relativo dibattito scientifico, per favorire una fotografia comparativa della realtà globalizzata più rispondente a dati storici e reali. Oltre lo storytelling, la realtà deve imporsi sulla rappresentazione proprio attraverso l’edificazione di dashboard e panieri di indicatori non solo percettivi e, per ciò stesso, più attenti ai dati ordinamentali. Giovanni Tartaglia Polcini

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Editoriale

Il meccanismo di revisione della Convenzione di Palermo

Sommario: 1. La Convenzione di Palermo venti anni dopo. – 2. Le nuove prospettive aperte dal Meccanismo di Revisione. – 3. L’utilizzazione della Convenzione di Palermo ai fini dell’esecuzione all’estero delle misure di prevenzione patrimoniali. – 4. Un impegno per il futuro: valorizzare nel contesto internazionale il patrimonio di idee di Giovanni Falcone.

1. La Convenzione di Palermo venti anni dopo. La Convenzione di Palermo (conosciuta a livello internazionale con l’acronimo UNTOC: United Nations Convention against Transnational Organized Crime), firmata nel 2000, rivela oggi una straordinaria modernità e apre nuove prospettive per il futuro dell’attività giudiziaria e della reazione della società civile nel contrasto ai più pericolosi fenomeni criminali. Nel periodo storico in cui la Convenzione fu adottata, la sua reale efficacia formava oggetto di un diffuso scetticismo, anche da parte dei settori più impegnati della magistratura e dell’opinione pubblica. Questo atteggiamento di forte perplessità era motivato anche da ragioni di indubbia serietà, come il ritardo che accompagnò la entrata in vigore della Convenzione (avvenuta nel 2003) e la sua ratifica da parte dell’Italia (compiuta nel 2006), ed il vistoso paradosso che emergeva dal raffronto tra talune dichiarazioni trionfalistiche che descrivevano una mafia vicina alla fine e la ben diversa realtà nota a tutti i palermitani (si pensi che nella costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia di Palermo, nel quale la Convenzione venne aperta alla firma, erano impegnate direttamente o indirettamente, ad esempio con la fornitura dei materiali principali, anche imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria perché oggetto di sequestro di prevenzione motivato dalla presenza di indizi di appartenenza a “Cosa Nostra” dei loro titolari). Vi era però anche un ostacolo culturale che allora non consentiva di cogliere alcune importanti potenzialità della Convenzione e che oggi sembra venuto meno: un approccio “palermocentrico”, che avrebbe preferito vedere rispecchiati con maggiore chiarezza in questo nuovo strumento internazionale gli aspetti tipici della mafia siciliana, come “Stato nello Stato”, capace di esercitare un controllo diffuso sul territorio e su tutte le attività economiche in esso presenti. Questa forma mentis si accompagnava alla convinzione che il quadro normativo e giudiziario interno fosse, nel suo complesso, molto più avanzato di quello appena impiantato a livello internazionale. Era, inoltre, diffusa l’opinione che la “nuova frontiera” in cui collocare l’azione antimafia potesse essere rappresentata essenzialmente dalla dimensione europea. Di recente, si è assistito a un netto ampliamento di orizzonti nel dibattito giudiziario e internazionale, dove è maturata una triplice consapevolezza. Anzitutto, è divenuto evidente che la dimensione della criminalità organizzata transnazionale, dedita a molteplici traffici delittuosi che coinvolgono strutturalmente altri continenti, non può essere affrontata senza puntare sulla cooperazione rafforzata con i paesi “terzi”, posti al di fuori dell’Unione Europea; si pensi, ad esempio, allo smuggling of migrants gestito da orga-


Editoriale

nizzazioni criminali con modalità che non di rado si sovrappongono al traffico di esseri umani per fini di sfruttamento sessuale o lavorativo, determinando una riedizione postmoderna del fenomeno della schiavitù; o alla circolazione illegale di beni culturali provenienti da paesi dove una parte del territorio è controllato da organizzazioni terroristiche; o alle più varie forme di utilizzazione di internet per commettere reati gravi (dal reclutamento per fini di terrorismo al riciclaggio internazionale), spesso con modalità estremamente sofisticate; ma anche a settori più “tradizionali”, come il commercio illecito di armi e di stupefacenti. In secondo luogo, il mondo giudiziario si è reso conto che la valenza innovativa dell’esperienza italiana esce sensibilmente rafforzata dalla sinergia con le tendenze presenti nella realtà giuridica internazionale. Infine, sta affermandosi l’idea che anche la definizione, dal contenuto vistosamente generale, di “gruppo criminale organizzato”, accolta dalla Convenzione di Palermo, invece di rappresentare un fattore di debolezza, costituisce un importante punto di forza, perché consente di applicare la disciplina di questo strumento normativo in tutte le sedi dell’ONU in cui si elaborano strategie comuni di analisi e di contrasto delle nuove forme di manifestazione della criminalità, comprese quelle – come il cybercrime – che avevano caratteristiche e dimensioni del tutto diverse al momento in cui essa venne firmata. Nella prassi più recente, si sono riscontrati casi assai significativi di utilizzazione della Convenzione ai fini della cooperazione internazionale contro il terrorismo internazionale, ad esempio nel contesto sudamericano e nordafricano. La Convenzione è quindi divenuta uno strumento polivalente e in continua evoluzione, che consente di fronteggiare con metodi costantemente aggiornati una serie aperta di fenomeni criminali collettivi. Questa natura dinamica della Convenzione di Palermo costituisce un grande valore aggiunto rispetto a tutte le altre produzioni normative intervenute sulla medesima materia a livello nazionale e sopranazionale, e si ricollega a quattro caratteristiche di fondo di tale strumento: a) la sua tecnica normativa basata su “clausole generali”, idonee ad applicarsi a una vasta gamma di misure e di contesti, assicurando costantemente la modernità della disciplina e della sua implementazione anche nei settori a più alta evoluzione tecnologica (si pensi, ad esempio, al concetto di “sorveglianza elettronica”); b) l’ampiezza dell’ambito oggettivo di applicazione della Convenzione, che copre non solo i fenomeni della criminalità organizzata (per giunta, intesa in senso ampio), del riciclaggio, della corruzione e dell’intralcio alla giustizia, ma tutti gli altri reati gravi (nel senso di punibili con una pena detentiva massima di almeno quattro anni: una categoria, dunque, vastissima), purché abbiano natura transnazionale e vedano coinvolto un gruppo criminale organizzato; c) l’elevatissimo numero degli Stati che hanno aderito all’UNTOC (ben 189 su un totale di 193 Stati membri dell’ONU), che comporta una “universalità reale” dello strumento1; d) l’incisività e vastità delle obbligazioni imposte dalla Convenzione, che comprendono l’incriminazione di una serie di fenomeni delittuosi, rilevanti misure processuali, molteplici forme di cooperazione giudiziaria e di polizia, attività di prevenzione, di assistenza e tutela delle vittime, di protezione dei testimoni, di raccolta, scambio e analisi di informazioni, di formazione e assistenza tecnica, fino allo sviluppo economico.

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Cfr. G. Michelini - P. Polimeni, Il fenomeno del crimine transnazionale e la Convenzione della Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, in Criminalità organizzata transnazionale e sistema penale italiano: la Convenzione ONU di Palermo, Ipsoa, 2007, p. 3. 10


Editoriale

Per tutte queste ragioni, la Convenzione di Palermo (con i suoi Protocolli addizionali) viene da più parti considerata come lo strumento privilegiato per far compiere un salto di qualità alla lotta contro i più allarmanti fenomeni criminali, compresi quelli che non sono da essa espressamente contemplati ma, al contempo, non hanno formato neppure oggetto di analoghi strumenti internazionali. Si pensi, ad esempio, a varie attività delittuose connesse al terrorismo, su cui manca una Convenzione di portata generale, o al crimine informatico, rispetto al quale è in vigore la Convenzione di Budapest, che però ha un numero di Stati parte nettamente inferiore (al momento, 66, tra i quali non rientrano paesi come il Brasile, la Cina, la Russia).

2. Le nuove prospettive aperte dal Meccanismo di Revisione. L’elevato numero delle Parti della Convenzione di Palermo ne fa uno degli strumenti internazionali di più ampia portata soggettiva: soltanto pochi altri trattati – come, ad esempio, le Convenzioni di Ginevra del 1949 – hanno un numero maggiore di aderenti. Non si tratta, inoltre, di un impegno soltanto formale, come è dimostrato dalla recente approvazione del Meccanismo di Revisione (Review Mechanism) finalizzato a controllare l’attuazione in tutti gli ordinamenti nazionali degli obblighi assunti da ciascuno Stato mediante l’adesione all’UNTOC. In dottrina è stata sottolineata la stretta correlazione che intercorre tra la stessa “giuridicità” del diritto internazionale e l’esistenza di meccanismi che ne garantiscano l’applicazione2. Anche per assicurare l’effettività della Convenzione di Palermo e dei suoi Protocolli aggiuntivi, assume un ruolo centrale la previsione di adeguati meccanismi internazionali di controllo sull’osservanza degli impegni assunti dagli Stati-parte3. A questa esigenza si è provveduto attraverso un recentissimo sviluppo che ha dato finalmente attuazione alla previsione dell’art. 32 della Convenzione di Palermo, secondo cui la Conferenza degli Stati Parte deve adottare un meccanismo per la revisione periodica della implementazione della Convenzione. Si tratta di una disposizione analoga a quella contenuta in altri strumenti multilaterali (per esempio la Convenzione di Merida delle Nazioni Unite o la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la corruzione), che hanno condotto a importanti riforme negli ordinamenti di numerosi Stati membri. Nella Nona Conferenza degli Stati Parte, svoltasi a Vienna dal 15 al 19 ottobre 2018, è stata approvata la risoluzione, proposta dall’Italia insieme con altri paesi e co-sponsorizzata a livello universale, che istituisce il Meccanismo di revisione della implementazione della Convenzione di Palermo e dei relativi Protocolli, adottando altresì la Procedura e le Regole per il suo funzionamento. Si è trattato di un risultato di estrema importanza, ottenuto dalla delegazione italiana, guidata con una passione e una tenacia veramente eccezionali dall’Ambasciatore Maria Assunta Accili.

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G. Dimitropoulos, Compliance through collegiality: peer review in international law, in Max Planck Institute Luxembourg for International, European and Regulatory Procedural Law, Working Paper Series, 2014, n. 3. 3 S. Forlati, I meccanismi internazionali di controllo, in La lotta alla tratta di esseri umani. Fra dimensione internazionale e ordinamento interno, a cura di Forlati, Napoli, 2013. 11


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Il Meccanismo di revisione è, infatti, uno strumento di valenza fondamentale per “radiografare” la legislazione dei 189 Paesi che hanno aderito alla Convenzione; per scambiare le informazioni occorrenti ai fini del migliore funzionamento della cooperazione internazionale; per identificare le lacune che impediscono di contrastare efficacemente questi fenomeni delittuosi a livello globale; per promuovere le riforme legislative e organizzative necessarie in tutti i paesi coinvolti. Tale sistema di controllo comprende una revisione di carattere generale (general review), affidata alla Conferenza degli Stati parte nella sua composizione plenaria, e le revisioni riguardanti i singoli ordinamenti nazionali (country reviews), al fine di identificare la migliori prassi adottate, le lacune esistenti, le sfide da fronteggiare, le esigenze di assistenza tecnica. Le country reviews si svolgeranno secondo il metodo della peer review (idoneo a promuovere una sinergia su basi paritarie, fondata sulla fiducia reciproca, senza intenti punitivi), con la previsione che per ciascuno Stato parte l’attuazione della Convenzione e dei Protocolli verrà rivista da altri due Stati parte in un processo strutturato in quattro fasi tematiche in un arco di tempo di otto anni, con la adozione di rapporti intermedi al termine di ognuna delle fasi. Il sistema così costruito conserva la sua natura intergovernativa, suscettibile di agevolare una collaborazione fruttuosa con il Paese oggetto di esame4. In esso viene, però, particolarmente valorizzato il ruolo della società civile, che sarà coinvolta in una pluralità di fasi del procedimento di revisione e sarà protagonista di un dialogo costruttivo da sviluppare regolarmente con i Gruppi di lavoro delle Nazioni Unite. Tale modello di confronto costituisce un indubbio progresso rispetto a quello adottato nel contesto della Convenzione di Merida contro la corruzione. Nella Conferenza internazionale conclusasi con l’approvazione della risoluzione che lo istituisce, è stata espressa in modo unanime la valutazione che il meccanismo di revisione permetterà di rilanciare l’utilizzo della Convenzione di Palermo come “strumento vivente” (l’unico di natura universale) per la lotta al crimine organizzato internazionale. È evidente il particolare impulso che questo recentissimo sviluppo potrà dare al processo di progressiva armonizzazione delle legislazioni di tutti i paesi che hanno aderito alla Convenzione, eliminando quei vuoti di tutela e quelle diversità di regolamentazione che possono venire sfruttate dalle “mafie in movimento” per conseguire una sostanziale impunità5.

3. L’utilizzazione della Convenzione di Palermo ai fini dell’esecuzione all’estero delle misure di prevenzione patrimoniali. Tra i profili di maggiore modernità e efficacia della Convenzione di Palermo, nella prassi giudiziaria più recente sta emergendo con chiarezza l’importante contributo che essa può offrire per la soluzione di uno dei maggiori problemi finora incontrati nel contrasto alle più gravi forme di criminalità organizzata: precisamente, la cooperazione internazionale per la confisca di patrimoni situati, in tutto o in parte, all’estero.

4

Cfr. S. Forlati, op. cit., 31. Sul tema, per una più approfondita trattazione, si rinvia ad M.A. Accili - A. Balsamo, Verso un nuovo ruolo della Convenzione di Palermo nel contrasto alla criminalità transnazionale. Dopo l’approvazione del Meccanismo di Riesame ad opera della Conferenza delle Parti, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 12/2018. 5

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Sono ben note la difficoltà incontrate, fino a un recente passato, dalle autorità nazionali per ottenere l’esecuzione all’estero delle varie forme di non-conviction based confiscation, che costituiscono strumenti di primaria importanza per adeguare la risposta giudiziaria alla dimensione economica e collettiva che la criminalità del profitto sta assumendo con sempre maggiore estensione nell’epoca della globalizzazione. Si tratta di forme “moderne” di confisca, che vengono applicate all’esito di una procedura relativa al patrimonio (c.d. actio in rem), la quale non presenta come condizione indispensabile la pronunzia di una condanna penale, pur richiedendo l’accertamento della matrice illegale dei beni. In questo modo l’effetto ablativo non resta limitato al profitto ottenuto in virtù del singolo reato, in quanto l’oggetto del giudizio viene a concentrarsi sugli aspetti economici di un intero fenomeno criminale. Il prototipo di tale modello è rappresentato dalla civil forfeiture sempre più diffusa negli ordinamenti di common law (inglese, scozzese, irlandese, statunitense, australiano). Nella categoria della non-conviction based confiscation rientra a pieno titolo, dopo le riforme intervenute tra il 2008 e il 2011, il sistema italiano delle misure di prevenzione patrimoniali, che ha rappresentato il modello delle riforme recentemente introdotte in altri ordinamenti, come quello albanese. Secondo la stima effettuata in diverse occasioni dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, grazie alle figure “moderne” di confisca presenti nell’ordinamento italiano è stato possibile sottrarre alle organizzazioni criminali beni per un ammontare di decine di miliardi di euro. Risultati di questa portata sono stati conseguiti attraverso un sistema processuale e probatorio che, nelle sue linee essenziali, ha ricevuto una valutazione nettamente positiva da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale – muovendo dalla constatazione che «gli enormi profitti che le organizzazioni mafiose traggono dalle loro attività illecite conferiscono a tali organizzazioni un potere che mette in causa il primato del diritto all’interno dello Stato» – ha riconosciuto che la confisca di prevenzione rientra nel margine di apprezzamento spettante agli Stati nel regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale, particolarmente nel quadro di una politica criminale volta a combattere il fenomeno della grande criminalità. Nella stessa direzione si collocano le tendenze di fondo che caratterizzano l’evoluzione del “diritto dell’intervento patrimoniale” nei principali ordinamenti esposti al rischio di una pesante destabilizzazione per effetto dell’emergere del fenomeno del terrorismo internazionale. La trasposizione a tale settore di strumenti già collaudati contro la criminalità organizzata discende dalla necessità di adeguare la reazione giuridica all’attuale realtà del finanziamento del terrorismo, che si caratterizza per la diffusa compresenza di risorse lecite e illecite, l’utilizzo di canali informali e lo sfruttamento dell’economia legale6. È quindi evidente l’importanza della posta in gioco quando si affronta il problema della esecuzione all’estero delle forme moderne di confisca, tra cui le misure di prevenzione patrimoniali. Al livello dell’Unione Europea, questo tema è stato affrontato, e in modo non del tutto definitivo, soltanto con il recentissimo Regolamento (UE) 2018/1805 del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca. Se-

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A. Balsamo, La prevenzione ante-delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di R.E. Kostoris - R. Orlandi, Torino, 2006.

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condo la più autorevole dottrina7, infatti, la nuova normativa dovrebbe applicarsi anche ai provvedimenti di sequestro e di confisca emessi nell’ambito dei procedimenti di prevenzione, che possono rientrare sicuramente nella nozione di “procedimenti connessi ad un reato”, cui fa riferimento il “considerando” n. 13. Per eliminare ogni dubbio sulla inclusione delle misure di prevenzione patrimoniali nell’area di operatività del nuovo regolamento, la soluzione preferibile sembra essere quella di una estensione al relativo procedimento di tutte le garanzie previste dall’art. 6, § 1, della CEDU in rapporto alla materia penale. Finora lo strumento maggiormente utilizzato per attivare la cooperazione giudiziaria internazionale in relazione alle misure di prevenzione patrimoniali italiane è stato rappresentato dalla Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato. A tale Convenzione, tuttavia, hanno aderito soltanto 49 Stati, tutti membri del Consiglio d’Europa, eccetto l’Australia e il Kazakistan. Si tratta dunque di uno strumento che non consente di colpire i patrimoni di organizzazioni criminali situati fuori da questo, limitato, contesto territoriale. Nella più recente esperienza giudiziaria8, l’esigenza di assicurare il riconoscimento e l’esecuzione all’estero – anche al di fuori dei confini dell’Unione Europea - dei provvedimenti di confisca di qualsiasi natura (penale o extrapenale), purché conformi agli standard internazionali di tutela dei diritti fondamentali, sta trovando attuazione proprio grazie alla Convenzione di Palermo. L’art. 13 dell’UNTOC, infatti, impegna gli Stati-parte ad una intensa cooperazione internazionale ai fini della confisca. In particolare, lo Stato-parte, che abbia ricevuto da un altro una richiesta di confisca di “proventi di reato, beni, attrezzature o altri strumenti” situati sul suo territorio, dovrà presentarla “nella più ampia misura possibile nell’ambito del suo ordinamento giuridico interno” alle sue autorità competenti al fine di ottenere un provvedimento di confisca ovvero la esecuzione dell’ordine di confisca emesso dall’organo giurisdizionale dello Stato richiedente. Lo Statoparte, inoltre, dovrà adottare “misure per identificare, localizzare, congelare o sequestrare i proventi di reato, i beni, le attrezzature o altri strumenti” ai fini di un’eventuale confisca, disposta secondo le anzidette modalità. I suddetti obblighi prescindono del tutto dall’esistenza di una condanna e dalla natura penale del procedimento nel quale viene emesso l’ordine di confisca. Ciò si desume in modo inequivocabile dal tenore letterale dell’art. 13, che richiama esclusivamente la nozione di confisca contenuta nell’art. 2 della Convenzione, la quale, a sua volta, “include – laddove applicabile – l’ipotesi della forfeiture” (cioè il prototipo della categoria della non-conviction based confiscation) e “indica la definitiva ablazione di beni a seguito di decisione del tribunale o di altra autorità competente”. È questo il contenuto testuale della norma, che non contiene alcuna specificazione in ordine alla natura penale o extrapenale della decisione de qua o dell’autorità competente ad emetterla. Alle stesse conclusioni conduce il contenuto della Legislative Guide, che al n. 375 contem-

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A.M. Maugeri, Il Regolamento (UE) 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di congelamento e di confisca: una pietra angolare per la cooperazione e l’efficienza, in Diritto Penale Contemporaneo. Rivista Trimestrale, 2019. 8 Di particolare interesse è, al riguardo, la richiesta di assistenza giudiziaria trasmessa all’autorità svizzera dal Tribunale di Catania nel procedimento di prevenzione n. 8/15 RSS.

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pla espressamente la possibilità, per il legislatore nazionale, di “non richiedere una condanna penale come condizione per ottenere un ordine di confisca”. Attraverso la Convenzione di Palermo diviene quindi possibile ottenere l’esecuzione all’estero del sequestro e della confisca di prevenzione non soltanto in un ambito spaziale molto più esteso ma anche in misura nettamente più ampia sotto il profilo oggettivo di quanto sia consentito dalla Convenzione di Strasburgo (che comprende un numero di Stati molto inferiore e richiede pur sempre una condanna, anche se emessa in un diverso procedimento).

4. Un impegno per il futuro: valorizzare nel contesto internazionale il patrimonio di idee di Giovanni Falcone. Se la Convenzione di Palermo appare sempre più come uno strumento progettato guardando al futuro, ciò dipende soprattutto dal fatto che essa costituisce la realizzazione delle idee dell’Uomo che, nella storia recente, ha più di tutti rappresentato nel contesto internazionale i grandi valori che un paese come l’Italia ha saputo portare avanti di fronte alle sfide più difficili: Giovanni Falcone. Non è un caso che il commento più significativo sull’approvazione del Meccanismo di Revisione sia stato espresso proprio da Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione a lui intitolata: “Oggi si realizza il sogno di Giovanni di una piena cooperazione tra gli Stati nella lotta alla criminalità organizzata. Davanti a mafie globali che operano ben oltre i confini nazionali, dare piena attuazione e migliorare la Convenzione di Palermo del 2000 era fondamentale. Giovanni aveva intuito quanto fosse importante un’azione comune a tutti i Paesi contro la criminalità organizzata già negli anni ‘80, quando, da pioniere, avviò la sua collaborazione con gli investigatori americani nell’inchiesta Pizza Connection. Il risultato raggiunto oggi è la realizzazione di una sua lungimirante visione”. In effetti, alle radici della Convenzione di Palermo, e della sua speciale modernità, vi è la visione anticipatrice di Giovanni Falcone, che, proprio un mese prima della strage di Capaci, partecipò alla Prima Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla Prevenzione della Criminalità e sulla Giustizia Penale, organizzata a Vienna dal 21 al 30 aprile 1992. Proprio in tale occasione, Giovanni Falcone riuscì a costruire un ampio consenso internazionale sull’idea di una conferenza mondiale di alto livello politico per porre le fondamenta di una cooperazione internazionale contro la criminalità organizzata. Le Nazioni Unite hanno poi dato realizzazione al suo pensiero attraverso una serie di iniziative e di negoziati che hanno condotto, otto anni dopo, all’adozione della Convenzione di Palermo. L’impulso dato da Giovanni Falcone a queste iniziative internazionali fu il momento finale di una serie di attività da lui svolte, a partire dal 1983, presso le Nazioni Unite, che presentano un importantissimo tratto in comune: il passaggio da una visione “individualistica” ad una analisi in termini collettivi, strutturali ed economici dei fenomeni criminali più gravi. Si trattò, in effetti, di un’autentica rivoluzione copernicana, con il passaggio dalla logica della repressione delle condotte illecite del singolo alla progettazione di una strategia capace di incidere con forza sulle basi economiche del crimine organizzato, cioè su quella vastissima rete di beni e rapporti economici destinati alla conservazione ed all’esercizio dei poteri criminali. Il segno lasciato dal pensiero di Giovanni Falcone – che non si stancava di insistere sul rinnovamento delle tecniche di indagine ed era un forte sostenitore dell’informatizzazione della giustizia – è evidente anche nelle disposizioni della Convenzione da Palermo che favoriscono lo sviluppo di investigazioni comuni, imperniate sui nuovi mezzi di ricerca della prova resi

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possibili dall’evoluzione tecnologica, come la “sorveglianza elettronica”. È chiaro che simili strumenti sono indispensabili in una fase storica che ha conosciuto una rapidissima trasformazione sia del sistema globale delle comunicazioni, sia delle metodologie operative degli ambienti criminali, sempre più caratterizzate da un uso avanzato della tecnologia informatica. Uno sviluppo, questo, che è visibilissimo nel campo del riciclaggio o del terrorismo internazionale, ma anche in settori come il traffico di esseri umani. È, però, altrettanto evidente il bisogno di evitare un uso abnorme delle nuove tecniche di indagine, al cui sviluppo deve accompagnarsi un corrispondente rafforzamento del sistema delle garanzie individuali. Anche per questo resta attualissima la lezione di Giovanni Falcone, con il suo forte richiamo allo Stato di diritto proprio nei momenti in cui l’accresciuta pericolosità delle mafie e del terrorismo potrebbe far sorgere la tentazione di interventi autoritari e leggi eccezionali, con la sua fiducia in una giustizia al servizio del cittadino, con il suo rispetto profondo (e non solo formale) della dignità e dei diritti di ogni persona coinvolta nel processo penale. La celebrazione del ventesimo anniversario della Convenzione di Palermo rappresenta una importante occasione per focalizzare l’attenzione sul contributo, di rilevanza veramente essenziale, che l’Italia ha dato alla sua elaborazione, e potrà dare al suo futuro sviluppo. Il modo migliore in cui il nostro Paese può presentarsi a questo appuntamento è quello di valorizzare nel contesto internazionale il patrimonio di idee di Giovanni Falcone. I valori a cui Lui ha ispirato coerentemente la sua esperienza professionale, e tutta la sua vita, rappresentano la base più solida su cui costruire la lotta alla criminalità, e il rafforzamento della democrazia, negli anni a venire. È importante che diventino sempre più un patrimonio di tutti, anche al di fuori dei confini nazionali. Antonio Balsamo

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I Tribunali Penali Internazionali e in particolare la Corte Penale Internazionale. Alcuni casi rilevanti Sommario: 1. Introduzione – 2. Le tipologie di Tribunali Internazionali – 3. I criteri di competenza e giurisdizione della Corte Penale Internazionale – 4. Modalità di esercizio dell’azione penale – 5. La giurisdizione universale. il caso del Bangladesh – 6. La guerra in Siria – 7. Conclusioni. Abstract This article deals with the International Criminal Justice and examines the types of International Criminal Courts. Particular attention is paid to “International Criminal Court” (ICC) established by Rome Statute (1998) and to rules regulating the competence of this body. The present contribution points to some cases of Courts action: Sierra Leone, Lebanon, Cambodia, Bangladesh, and to the situation in Syria following General Assembly resolution 71-248. However, the practice of International Criminal Courts is still very far from ensuring that the officials of any state are prosecuted and double standards are routine. But international criminal Justice can help to spread a sense of legality and accountability in the international public opinion. Questo articolo tratta della Giustizia penale Internazionale e esamina i vari tipi di Corte Penale Internazionale. Particolare attenzione è rivolta alla Corte Penale Internazionale costituita a mezzo dello Statuto di Roma (1998) e alle regole giuridiche relative alla sua competenza. Il presente contributo focalizza la sua attenzione su alcuni casi di azione delle Corti: Sierra Leone, Libano, Cambogia, Bangladesh e alla situazione venutasi a creare in Siria dopo la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu n. 71-248. Pur tuttavia la pratica delle Corti Internazionali Penali è ancora ben lungi dall’assicurare che i rappresentanti di ogni stato possono essere sottoposti a procedimento penale e il trattamento differenziato tra stato e stato costituisce la routine. Ma la giustizia penale internazionale può aiutare a diffondere un senso di trasparenza e legalità nell’opinione pubblica.

1. Introduzione. Il 17 luglio 1998 fu, dagli Stati firmatari, adottato lo strumento costitutivo della Corte penale Internazionale, noto come “Statuto di Roma” dal luogo di sottoscrizione, con la previsione della sua entrata in vigore il primo luglio 2002. La Convenzione, inizialmente, fu ratificata da circa sessanta Paesi. Tra gli Stati più importanti che fin dall’inizio non provvidero a questo adempimento, vi erano gli Stati Uniti d’America, la Russia, la Cina, quasi tutti i paesi arabi (esclusa la Giordania che invece lo ha ratificato), Israele. È oggi operativo in tutta Europa (eccetto la Russia, come si diceva), l’Africa centrale e meridionale. In Asia la firma al trattato è stata apposta da Giappone, Australia, Nuova Zelanda. Ad oggi i paesi che vi aderiscono sono circa 130.


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2. Le tipologie di Tribunali internazionali. Il Trattato istituisce un Tribunale internazionale, detto Corte Penale Internazionale che punisce i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio e la tortura. I Tribunali internazionali sono costituiti secondo diverse tipologie. La prima categoria è quella rappresentata dalla Corte penale Internazionale che rappresenta una sorta di Tribunale Universale, aperto alla giudicabilità di tutti gli stati e che applica le norme procedurali e sostanziali dello statuto di Roma. Si creano disposizioni e di tipo sostanziale (es. sui crimini di guerra) e nello stesso tempo un apparato giurisdizionale volto ad applicarle. Vi è, in questo senso, una differenza rispetto ad analoghe norme di diritto umanitario. Le quattro convenzioni di Ginevra ad esempio stabiliscono che le: “Infrazioni gravi” costituiscono norme penali giustiziabili, ma non provvedono ad istituire, un apparato giurisdizionale completo, come lo “Statuto di Roma” perciò esse debbono essere applicate e giudicate dai singoli Tribunali nazionali. Un altro modello di tribunale internazionale è costituito dai c.d. “Tribunali ad hoc”. Essi non si fondano sul consenso degli stati, ma su una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, mentre nella tipologia costituita dalla Corte penale Internazionale, la giurisdizione è basata sul consenso dato dall’adesione e dalla firma del trattato. Il “Tribunale ad hoc” è giurisdizione imposta, che deriva la sua autorità dal capo VII della Carta delle Nazioni Unite. Può però disporre delle misure coercitive personali. Esempi di Tribunali ad hoc erano quelli per l’ex Iugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994). Una terza tipologia è quella dei c.d. “Tribunali misti” per metà Tribunali Internazionali e per metà Tribunali nazionali. Esempio emblematico di Corti di questo tipo è stato il “Tribunale internazionale per la Sierra Leone”. Dopo il conflitto in questo paese, tra il 2000 e il 2002, le autorità della Sierra Leone chiesero aiuto alle Nazioni Unite. Il Tribunale applicava e il diritto internazionale e il diritto interno; ad esempio nelle fattispecie, che punivano la distruzione dei villaggi. Dal punto di vista della sua composizione, questo tipo di Corte era mista; il Procuratore o Pubblico ministero era internazionale, il che attribuiva al suo operato maggiore credibilità, rispetto ad un conflitto come quello in Sierra Leone che pur aveva caratteristiche di internazionalità. Trattandosi di un organo giurisdizionale misto, nasceva da un accordo tra il segretario delle Nazioni Unite e il governo della Sierra Leone. Si è dovuto perseguire un capo di stato estero, quel Charles Taylor che era Presidente della Liberia. Nel caso concreto, si trattava di processare uno straniero, pertanto era necessario adoperare uno strumento che avesse una certa credibilità internazionale. Il Tribunale aveva sede in Sierra Leone, ma il processo a Charles Taylor si svolse all’Aja. Altro esempio di Corte mista era quella creata per i crimini in Cambogia (2001). Quest’ultima aveva caratteristiche internazionali più deboli. Un altro Tribunale “misto” si può considerare quello del Libano (2009), costituito dopo l’omicidio Hariri. Il Libano chiese che si formasse un’istanza giurisdizionale internazionale, perché si dava per scontato che nell’omicidio di Hariri fossero coinvolte autorità straniere in particolare agenti di Hezbollah. Il primo statuto del Tribunale per il Libano è del 2007. Non applicava le norme internazionali, ma quelle del codice penale libanese in materia di terrorismo e omicidio. I Giudici erano misti, i procuratori erano uno libanese e uno straniero. Altra tipologia di Corte internazionale è quella che si stabilì, per chiudere una vicenda politica drammatica, quella dell’Iraq, dove venne costituito un Tribunale interno, ma assistito da esperti internazionali, segnalati da altri stati (in particolare USA).

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Altra modalità che è stata adottata che prescinde da una Corte Internazionale, ma prevede una commissione di conciliazione, che non giudica secondo la legge penale. È quello che accadeva nel 1996 in Sud Africa, dopo la fine dell’apartheid. Nel paese, il regime segregazionista, aveva dato motivo di applicare, col suo comportamento, norme di diritto penale internazionale. In questa situazione, l’interesse a fare giustizia cedeva di fronte alla necessità di riconciliarsi e di non perpetuare il conflitto. Un’altra alternativa a leggi punitive che avrebbero incancrenito i conflitti, era quella di dar corso a “leggi di amnistia”. È stata una via di mezzo tra la punizione generale che poteva dar luogo a situazioni ingestibili e l’istituire un processo solo per chi voleva esser giudicato, per provare la sua non responsabilità (antesignana di questa scelta è l’amnistia del 1947 voluta da Togliatti in Italia per fascisti e collaborazionisti). Attraverso l’amnistia e le commissioni di conciliazione, dunque, da un lato si poteva accertare la verità e dall’altro si ponevano basi solide ad una convivenza futura. Anche in Perù dopo la Guerra civile si sono costituite “Commissioni di conciliazione”, che non hanno avuto un grande impatto nel Paese e, sono sembrate un modo per assicurare l’impunità ai responsabili.

3. I criteri di competenza e giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Ma tornando al prototipo fondamentale di Tribunale internazionale, la Corte Penale, vorrei ora fornire alcune informazioni, sulla sua competenza e sui criteri su cui si basa la sua giurisdizione. La Corte penale Internazionale ha una competenza e giurisdizione identificabili ratione materiae, rationae temporis, rationae loci e rationae personae. A) Rationae materiae. Essa si occupa di crimini di guerra, di genocidio, di crimini contro l’umanità. All’interno dei crimini di guerra persegue quelli che sono parte di un piano sistematico, di una policy, quindi di fatti di una certa gravità e che hanno un rilievo politico particolare. B) Rationae temporis. La Corte si occupa dei fatti accaduti in uno stato, ma solo dopo che questo ha ratificato ed aderito al Trattato di Roma. Se il reato è avvenuto prima della ratifica o prima della entrata in vigore della convenzione, la Corte non ha giurisdizione. Abbiamo visto che lo “Statuto di Roma” per i primi sessanta paesi è entrato in vigore il 1.7.2002. C) Rationae loci o criterio geografico. La Corte non ha giurisdizione ovunque nel mondo, ma solo nel territorio degli stati che hanno ratificato lo statuto. Quando uno stato ratifica, esso accetta che la Corte possa indagare, per reati definiti rationae materiae e che sono avvenuti entro i suoi confini. La Corte penale Internazionale tendenzialmente, dunque, non ha una giurisdizione universale. Essa, per fare un esempio, non ha potuto indagare sull’Iraq. A questa regola esiste un’eccezione. Ai sensi dell’art. 12 terzo comma del relativo trattato istitutivo, uno stato che non è parte dello statuto, perché non ha ratificato, può accettare la giurisdizione della Corte in relazione a singoli casi. Ciò può accadere, quando ci si voglia sottoporre alla sua giurisdizione non in via generale, non intendendosi costituire un Tribunale ad hoc, dunque ponendosi volontariamente sotto la giurisdizione della Corte. D) Rationae personae. Trattasi di un criterio alternativo. La Corte può occuparsi di fattispecie che avvengono, quando il reato è attribuibile al cittadino di uno stato che ha ratificato, anche quando si trova nel territorio di uno stato che non ha ratificato, ad esempio, fatto di reato commesso da un cittadino italiano (stato che ha ratificato) commesso in Cina (stato che non ha ratificato). In questo caso la Corte potrà così indagare.

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La giurisdizione personale fa riferimento alla dimensione attiva del reato (soggetto che ha commesso il fatto) e non alla dimensione passiva (vittima o parte offesa del reato), per contenere l’ampiezza della giurisdizione e non estenderla in maniera artificiale o surrettizia.

4. Modalità di esercizio dell’azione penale. Sappiamo che in Italia esiste l’obbligo generale di esercizio dell’azione penale, per ogni fatto di reato, che viene a conoscenza dell’autorità giudiziaria. Criterio alternativo è quello per il quale l’azione penale è esercitata discrezionalmente dalle Procure, ad esempio sulla base di priorità predeterminate dall’autorità legislativa o di governo. Ma come è esercitata l’azione penale presso la Corte Penale Internazionale e quali sono le modalità con le quali le notitiae criminis sono trattate dal suo Procuratore? Nel sistema della Corte, la circostanza che sia di pubblico dominio che si stiano commettendo dei crimini ricompresi tra quelli perseguibili, non è motivo sufficiente per aprire un’inchiesta, ma a tal fine deve esservi una denuncia particolarmente qualificata. La denuncia (referral) può provenire: A) dagli stati che si autodenunciano o denunciano altro stato, B) da una valutazione discrezionale del Procuratore presso la Corte penale Internazionale, C) da una richiesta di intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Esaminiamo le singole ipotesi. A) La denuncia degli stati parte. Gli Stati possono segnalare una situazione generale in cui si stanno commettendo dei crimini. Inizialmente, il referral degli Stati fu inteso nel senso della denuncia reciproca. Bisogna dire che ciò è accaduto raramente. Più spesso, invece, che uno Stato abbia segnalato che sul suo territorio si stavano verificando dei crimini. È il cosiddetto autoreferral. È avvenuto per il Congo (2004), la Repubblica Centroafricana (1997), l’Uganda (2004). Questo meccanismo poteva portare ad alcuni problemi, come quelli emersi in Uganda. Il Paese chiese al Procuratore di iniziare le indagini; furono così reperiti alcuni casi rilevanti. Ma ad un certo punto il Presidente dell’Uganda intervenne presso la Corte perché questa bloccasse la sua attività, perché impediva che si potessero intavolare, tra le varie fazioni, trattative di pace. Il meccanismo dell’autoreferral era ritenuto di per sé ambiguo, specie quando emergevano delle responsabilità a carico di chi auspicò l’indagine, che, in seguito, chiedeva che le stesse venissero a cessare. Nel caso dell’Uganda il Procuratore ha accertato responsabilità non solo a carico dei ribelli, ma anche delle forze armate regolari dunque del governo di quel Paese e, quest’ultimo, quando l’indagine fu approfondita, non ebbe più interesse che essa accertasse la verità. B) L’iniziativa del Procuratore presso la Corte. Il Procuratore presso la Corte esercita l’azione penale. L’organo oltre che dal titolare dell’ufficio e dai suoi sostituti è composto di circa duecento persone. Può, discrezionalmente decidere che alcuni fatti, segnalati ad esempio da organizzazioni non governative, associazioni o di pubblico dominio, siano rilevanti a rappresentare l’esistenza in un dato territorio di crimini di competenza della Corte. Il Procuratore può dunque di sua iniziativa avviare un’indagine. Gli USA hanno sempre avversato questa modalità di azione, posta a base di giustificazione della loro mancata adesione alla convenzione. C) La richiesta di intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il Consiglio di Sicurezza ha la possibilità di adire la Corte penale, in un processo che coinvolga un qualsiasi territorio del mondo, anche a prescindere dai normali criteri di giurisdizione ratione loci e ratione personae. È un caso di esercizio di poteri di Giurisdizione Universale. Ciò è accaduto nel caso del Sudan (2005). Questo paese non ha mai aderito allo Statuto della Corte, ma vi fu un referral che lo coinvolgeva. Ad esso seguì la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, che diede,

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al Procuratore presso la Corte, il compito di aprire un’indagine su quel paese. La risoluzione non imponeva agli stati l’obbligo di collaborare alle indagini e, il Procuratore decise di non chiedere al paese di parteciparvi. Anzi i Giudici stabilirono di non recarsi sul posto, ma di sentire le persone coinvolte lontano da quel territorio. Il caso descritto è particolare, perché grazie allo intervento del Consiglio di Sicurezza, non solo si indagò su uno stato che non era parte della convenzione ma anche su suoi cittadini, pur non avendo l’autorità politico-costituzionale ratificato la stessa.

5. La giurisdizione universale. Il caso del Bangladesh. Nei vari ordinamenti nazionali si è affermato, nel tempo il principio di territorialità nella punizione del reato. Esso fu teorizzato dal Beccaria che affermava che il luogo dove un crimine dovesse esser perseguito o giudicato, doveva coincidere con quello ove esso era stato compiuto. Un delitto commesso a Costantinopoli non poteva esser punito a Parigi. Ma i crimini internazionali non possono essere puniti territorialmente. Innanzitutto generalmente sono commessi da organi statali o con l’avallo o l’istigazione dello Stato. Inoltre, hanno una natura sistemica e non individuale, sono messi in atto da organizzazioni, che operano su più di un confine. Infine, generalmente, sono collegati alla violenza bellica. Pertanto, le singole autorità statali sono in difficoltà nel processare autorità politiche, organizzazioni transnazionali. In passato si era già tentato di andare oltre il principio di territorialità. Già nel diritto umanitario delle quattro convenzioni di Ginevra, a partire dal 1949, era stata applicata la “clausola comune”, perciò le “infrazioni gravi” potevano essere perseguite, anche se non si era costituito un legame col territorio della vittima, non appartenendo questa, allo stato dove il fatto era stato commesso. Il diritto delle convenzioni di Ginevra prevedeva, che ogni parte contraente avesse l’obbligo di ricercare le persone imputate, per questi delitti, qualunque fosse la loro nazionalità e di deferirle ai suoi propri Tribunali nazionali. Questa clausola, fu però ignorata per motivi politici e riscoperta in ambito internazionale, per la punizione dei crimini commessi nella ex Jugoslavia, con la costituzione del relativo Tribunale internazionale. Le convenzioni di Ginevra furono le prime ad affermare il principio della giurisdizione universale, seguite dalla Convenzione contro la tortura del 1984. In queste norme si stabilisce che ogni stato parte prende i provvedimenti necessari al fine di stabilire la propria competenza, per conoscere di questi reati, qualora il presunto autore si trovi sul territorio che è sotto la sua giurisdizione. Lo stato deve, in questi casi, custodire l’autore, processarlo e, se ritenuto colpevole, punirlo. Gli Stati, generalmente, in questi casi preferiscono incriminare reati con definizioni ben specifiche come è previsto, ad esempio, nella “convenzione per la repressione degli attentati terroristici con esplosivo” o nella “convenzione per la repressione del finanziamento al terrorismo”. Dunque nei casi descritti lo stato esercita la giurisdizione, attraverso giudici nazionali, senza creare Tribunali penali internazionali. Così, per rimanere nell’ambito delle convenzioni di Ginevra, per i crimini commessi all’estero da cittadini stranieri contro altri cittadini stranieri, se si tratta di infrazioni gravi e lo stato del reo, per incapacità o mancanza di volontà, non li persegue, l’altro stato-parte può procedere, se gli autori si trovano nel suo territorio. Nella legislazione del Belgio in questi casi si prevede addirittura di esercitare l’azione penale, anche se il reo non si trova nel territorio nazionale; si parla in questi casi di giurisdizione universale assoluta.

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In questo senso a dire il vero, le singole legislazioni degli Stati parte differiscono tra loro; vi sono legislazioni che prevedono che non è possibile iniziare il procedimento se il presunto autore non si trova nel territorio, già nella fase dibattimentale del giudizio. Altre, invece, che il colpevole debba trovarvicisi, almeno nel momento dell’esercizio dell’azione penale. Comunque l’avvenire della giurisdizione penale universale è incerto. Gli Stati sono riluttanti a perseguire fatti avvenuti all’estero da parte di cittadini di altri Stati perché non vogliono intromettersi, in vicende proprie di altri territori e regolate dalla “domestic iurisdiction”. È, ad esempio, emblematica la vicenda vissuta dal Pakistan orientale o Bangladesh. Nel 1947 venne dall’Inghilterra concessa l’indipendenza dell’India. Si innescò un focolaio di conflitti. L’India era induista, ma il vicino Pakistan era musulmano e diviso in due parti: l’occidentale dominato dalle etnie Punjab e Pastun e l’orientale in cui vivevano le etnie bengalesi di religione induista. Le prime si sentivano etnicamente superiori. Nel Pakistan orientale si svilupparono dei movimenti indipendentisti, guidati dalla lega Awami, che aveva vinto le elezioni politiche e dichiarato nel 1971 l’indipendenza del Pakistan orientale. Ma il 25 marzo 1971 il Pakistan occidentale invadeva quello orientale. Era attaccata la popolazione e i civili, uccisi gli intellettuali, e si registravano numerose vittime tra i seguaci del credo induista e messi a morte i giovani maschi di etnia bengalese. Il conflitto coinvolse l’India, perché si registrarono dieci milioni di profughi. L’India, anche a causa di ciò, entrò in guerra col Pakistan occidentale; le sue truppe invasero il Bangladesh e lo liberarono. Finita la guerra si decise di perseguire chi aveva commesso i gravi crimini di guerra e contro l’umanità; costoro erano prigionieri di guerra, per lo più ufficiali dell’esercito del Pakistan occidentale. Si istituirono accordi tra Pakistan occidentale e India affinché reciprocamente si liberassero i prigionieri di guerra. Ma gli Indiani non intesero accogliere le richieste dei Bengalesi di punizione dei criminali di guerra facenti parte dell’esercito del Pakistan occidentale. Il Bangladesh aprì una questione giuridica contro l’India avanti alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja, sulla base dell’art. VI della convenzione sul genocidio. I delitti, però, erano stati commessi in un territorio controllato militarmente dal Pakistan occidentale da agenti dello stesso. In base al precitato articolo della convenzione, i militari della parte occidentale non potevano essere giudicati dal Bangladesh; solo il Pakistan occidentale poteva farlo. Ma quest’ultimo paese ritenne di non applicare le norme sui crimini di guerra. India e Pakistan risolsero la questione politicamente con un accordo. Il Bangladesh, però, insisteva nel voler punire i responsabili dei crimini che si trovavano sul suo territorio. Nel 1972 venne varato il “collaborators act” una legge che perseguiva coloro che avevano collaborato con gli agenti del Pakistan occidentale, nel perpetrare i crimini di guerra dell’anno precedente. Nel 1973 era approvato “l’international criminal act” che prevedeva la messa in stato di accusa dei responsabili dei crimini più gravi. Questa legge affermava il principio che poteva esser sottoposto a processo chi avesse commesso crimini di guerra, a prescindere dalla nazionalità e sul territorio del Pakistan orientale, considerandosi territorio nazionale quello orientale, per effetto della dichiarazione di indipendenza. La questione però finì nel nulla; in Bangladesh un nuovo governo vinse le elezioni politiche, ponendo la questione nel dimenticatoio e nessuno fu punito.

6. La guerra in Siria. Il 21 dicembre 2016, con la risoluzione 71/248, l’Assemblea delle Nazioni Unite prevedeva l’istituzione del: “meccanismo internazionale, imparziale e indipendente di sostegno alle indagini e all’azione penale nei confronti di persone responsabili dei più gravi crimini di diritto

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I Tribunali Penali Internazionali e in particolare la Corte Penale Internazionale. Alcuni casi rilevanti

internazionale commessi nella Repubblica araba siriana a partire da marzo 2011”. Era dato incarico al Segretario Generale dell’ONU di definire, nel termine di venti giorni, il mandato, la struttura la composizione e le modalità di funzionamento dell’organo riferendo sull’attuazione delle delibere, entro quarantacinque giorni. Nel termine anzidetto, venivano pubblicati i “terms of reference” del Meccanismo e un rapporto del Segretario Generale. L’istituzione di questo organismo ha suscitato molte speranze in coloro che auspicavano che venissero perseguiti i crimini perpetrati nel drammatico conflitto che riguardava il martoriato paese arabo. In precedenza, infatti, la Francia aveva presentato, al Consiglio di Sicurezza, un progetto di risoluzione, con il quale si stabiliva di deferire alla Corte Penale internazionale la situazione siriana, ma era stata bloccata (nel 2014) dal doppio veto cinese e russo. Attualmente, questo auspicio può essere riposto solo nelle iniziative dei Giudici nazionali; in effetti, alcuni processi si sono svolti a carico di membri delle forze governative, gruppi terroristici, ribelli, in alcuni paesi europei come Svizzera, Francia, Germania e Spagna, ma solo in pochissimi casi si è giunti a pronunce di condanna. Ciò a causa dei limiti, che l’azione penale, nei confronti di crimini internazionali, incontra, da parte di Giudici interni. Il Meccanismo ha rianimato le speranze di giustizia, ma varie organizzazioni siriane, operanti nell’ambito dei diritti umani, hanno avanzato dubbi sulla sua imparzialità e autonomia rispetto agli interessi politici coinvolti, potendo funzionare, come organo neutrale nei confronti delle parti in conflitto. Il governo siriano ha denunciato di essere stato estromesso nella presentazione e nell’elaborazione dell’iniziativa, che ha dato corso alla risoluzione 71/248, e che tra gli stati sostenitori di essa, ve ne sono alcuni, che hanno interessi o sono coinvolti nel conflitto, in quanto sostenitori di gruppi terroristici. Alcuni osservatori hanno d’altronde ritenuto che, l’attivazione di questa forma di giustizia internazionale, che vede nello strumento così costituito, una sorta di Pubblico Ministero, delegato alla raccolta di prove, possa incidere negativamente sulle trattative di pace in corso a Ginevra.

7. Conclusioni. La giustizia internazionale è una realtà che si è affermata, nel secondo dopoguerra, con difficoltà e a costo di sacrifici, da parte dei suoi operatori e con risultati spesso parziali. Alcuni commentatori hanno criticato le modalità con cui sono state svolte le inchieste e la circostanza che tra gli imputati non figurano mai i leader degli stati più forti come l’Inghilterra o gli Stati Uniti D’America. Questi ultimi non solo non hanno ratificato lo Statuto istitutivo della Corte, ma anche concluso accordi bilaterali con molti paesi deboli dell’Africa, di “esenzione” per i quali, si impegnavano a non consegnare presunti criminali statunitensi (spesso contractors o ex-funzionari governativi) alla Corte Penale Internazionale, senza il consenso del governo della superpotenza. In alcuni casi trattati dalle Corti, come quelli del Ruanda e dell’ex Jugoslavia, però l’azione della giustizia internazionale è stata efficace, realizzando obiettivi di pacificazione e di punizione degli autori di efferati delitti. Pertanto, l’auspicio è quello che i Tribunali e le Corti Internazionali possano vedere ampliata la loro operatività sulla spinta dell’interesse della comunità politica degli stati, delle organizzazioni internazionali regionali, dell’opinione pubblica internazionale.

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Bibliografia A. Cassese, Lineamenti di diritto penale internazionale. Diritto sostanziale, Bologna, 2005. A. Cassese, Lineamenti di diritto penale internazionale. Diritto processuale, Bologna, 2006. C. Focarelli, Trattato di diritto internazionale, Alphen aan den Rijn, 2015. Natalino Ronzitti - Elena Sciso (a cura di), I conflitti in Siria e Libia. Possibili equilibri e sfide del diritto internazionale, Torino, 2018.

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Resistenza opposta a più pubblici ufficiali: per le Sezioni Unite sussiste il concorso formale di reati Sommario: 1. Notazioni introduttive: il caso concreto – 2. I contrapposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – 3. La composizione del contrasto – 4. Osservazioni conclusive. Abstract Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite ritengono sussistere il concorso formale tra più reati di resistenza a pubblico ufficiale laddove la condotta di violenza o minaccia sia utilizzata per opporsi a una pluralità di pubblici ufficiali. Il presente contributo, delineando preliminarmente i connotati tipici del reato di resistenza, affronta le problematiche degli istituti del concorso formale e della continuazione tra reati per vagliare la bontà della soluzione adottata dalla Suprema Corte, proponendo una conclusione alternativa.

The United Sections of the Supreme Court of Cassation affirm the formal concurrence of offences related to crimes of resistance to public official committed against a plurality of public officials. The purpose of this contribution, through the analysis of the crime of resistance, of the formal concurrence of offences and of the continuing crime, is to evaluate the correctness of the chosen solution and to offer an alternative conclusion.

1. Notazioni introduttive: il caso concreto. La Sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 57249 del 12.12.2017 (depositata il 21.12.2017), ha rimesso alle Sezioni unite la composizione del contrasto ermeneutico, rilevato in essere tra le sezioni semplici del medesimo supremo consesso, circa la commissione di una o più violazioni dell’art. 337 c.p., laddove il soggetto attivo, con la propria condotta violenta o minacciosa, si opponga a più pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio) nel compimento di un atto del loro ufficio (o servizio). La vicenda processuale prende le mosse dal ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, che aveva confermato la decisione del giudice di prime cure con cui l’imputato era stato riconosciuto colpevole del reato di cui agli artt. 81 e 337 c.p. per avere rivolto minacce gravi e usato violenza contro gli agenti di polizia giudiziaria intervenuti per impedirgli di aggredire un terzo soggetto. Con il ricorso veniva censurata l’inosservanza o erronea applicazione delle disposizioni summenzionate, nonché il vizio della motivazione in ordine all’applicazione dell’aumento di pena per la continuazione. Ciò in quanto la Corte di merito, nella prospettazione difensiva, avrebbe erroneamente giustificato l’applicazione della disciplina del reato continuato in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale in considerazione della pluralità di soggetti nei cui confronti la condotta delittuosa era stata indirizzata. Sul punto, il ricorrente invocava l’opposto orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, individuandosi il bene tutelato dall’art. 337 c.p. nella regolare attività dell’amministrazione, sarebbe irrilevante il numero dei pubblici ufficiali destinatari della condotta di


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resistenza, essendo necessaria una pluralità di processi volitivi affinché si abbia pluralità di reati; viceversa, se l’azione è unica e unico è l’atteggiamento psicologico dell’agente, come si asserisce essere nel caso di specie, unico è il reato commesso e difetterebbe, dunque, il presupposto applicativo della continuazione di cui all’art. 81 cpv. c.p.1.

2. I contrapposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità. La Sesta sezione della Corte di Cassazione, investita del ricorso, manifesta piena consapevolezza circa il contrasto interpretativo esistente in sede di legittimità in relazione all’unicità o pluralità di violazioni dell’art. 337 c.p. nel caso in cui l’azione minacciosa o violenta sia perpetrata in danno di una pluralità di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio o, ancora, di soggetti che, richiesti, vi prestino assistenza. In questa prospettiva ricostruttiva, un primo indirizzo ermeneutico, cui aderisce la sentenza impugnata, ritiene la pluralità di reati in ragione dell’esistenza di una molteplicità di pubblici ufficiali nei confronti dei quali è rivolta l’azione tipica del soggetto attivo. Secondo questo orientamento giurisprudenziale, “la resistenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma tanti distinti reati – eventualmente uniti dal vincolo della continuazione – quanti sono i pubblici ufficiali operanti, giacché la condotta criminosa si perfeziona con l’offesa al libero espletamento dell’attività di ciascuno di essi”2. Tale interpretazione si colloca nell’alveo di una più risalente giurisprudenza, secondo la quale, laddove la funzione pubblica sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni, minacciose o violente, con cui l’autore realizza la resistenza, rientra nel paradigma del reato continuato3. L’opzione ermeneutica che ritiene plurimi i reati integrati risulta sostanzialmente confermata, anche in tempi recenti, da quegli arresti giurisprudenziali per i quali la resistenza adoperata nel medesimo contesto fattuale per opporsi a più pubblici ufficiali configura non un concorso materiale di reati unificati sotto il vincolo della continuazione bensì un concorso formale omogeneo di reati, consistente di tante distinte ipotesi di resistenza quanti sono i pubblici ufficiali operanti. Ciò sulla scorta della considerazione che la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in

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Si allude a Cass. Pen., Sez. VI, n. 37727 del 09/05.2014, in Ced, rv. 260374, alla cui stregua “In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio”. 2 Così Cass. Pen., Sez. VI, n. 26173 del 17/05/2012, in Ced, rv. 253111. 3 In termini, Cass. Pen., Sez. VI, n. 3546 del 07/04/1988, in Ced, Rv. 180728. Cfr. Cass. Pen, Sez. 6, n. 3085 del 27/11/1981, in Ced, rv. 152871, secondo cui: “Nel caso di offesa verbale rivolta contemporaneamente a più persone, l’Azione unica è in realtà plurima sotto l’aspetto della sua idoneità offensiva e quindi equivale, anche sotto il profilo oggettivo alla pronuncia reiterata nella stessa frase rivolta al singolare alle persone presenti. In tal caso è, pertanto, applicabile l’istituto della continuazione, in quanto l’unicità del disegno criminoso, che caratterizza tale istituto, e insita nella modalità stessa di esecuzione dell’Azione illecita. (applicazione in tema di oltraggio a pubblico ufficiale)”. Cfr. altresì Cass. Pen., Sez. VI, n. 1202 del 15/10/1985, in Ced, rv. 17175601.

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altrettante autonome offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale, sicché ricorrerebbe un concorso formale omogeneo di reati laddove l’agente, con un’unica azione, commetta più violazioni della medesima disposizione incriminatrice nella consapevolezza di contrastare l’azione di ciascun pubblico ufficiale. In tale prospettiva interpretativa, l’opposto indirizzo postulante l’unicità del reato anche in presenza di una pluralità di pubblici ufficiali attinti dalla condotta di resistenza finisce per svalutare “la tutela della libertà di azione del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio” e trascura che “la pubblica amministrazione è un’entità astratta, che agisce per mezzo di persone fisiche, ciascuna delle quali, pur operando come organo della stessa, conserva una distinta identità, suscettibile di offesa”4. E invero, pur costituendo delitto contro la pubblica amministrazione, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, nella sua esplicazione tipica, è connotato da violenza o minaccia alla persona, condotta che conferisce “centralità all’opposizione violenta all’azione del singolo pubblico ufficiale” e che consente, inoltre, di “individuare l’interesse protetto in quello della pubblica amministrazione a non subire intralci nel momento in cui, per assolvere ai compiti istituzionali, deve attuare la sua volontà tramite i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio e per tale ragione, cioè per garantire la sicurezza e la libertà di azione dei singoli contro fatti di opposizione violenta, la norma assicura tutela al pubblico ufficiale”5. Il secondo e contrapposto orientamento interpretativo, di più recente emersione, ritiene diversamente che “in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra un unico reato, e non una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, la violenza o la minaccia posta in essere nel medesimo contesto fattuale per opporsi al compimento di uno stesso atto di ufficio o di servizio, anche se nei confronti di più pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio”6. La difforme soluzione prospettata trae argomento dalla struttura del reato, atteso che la formulazione letterale della disposizione incriminatrice descrive, quale obiettivo della condotta criminosa, l’opposizione all’atto e non la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale. Di talché, il bene giuridico tutelato dall’art. 337 c.p. viene rinvenuto nella regolare attività dell’amministrazione, rispetto alla quale l’offesa al pubblico ufficiale rappresenta un mero “danno collaterale”. Nel solco di questo secondo indirizzo si iscrivono le recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità secondo cui, concludendo nel senso della pluralità di reati, si perde di vista proprio l’oggetto giuridico della tutela prestata dall’art. 337 c.p., vale a dire il regolare svolgimento dell’attività della P.A. e il carattere meramente strumentale dell’offesa rivolta ai singoli pubblici funzionari rispetto all’interesse complessivamente salvaguardato. Ciò anche in considerazione del rilievo che, laddove l’offesa indirizzata al pubblico ufficiale singolarmente considerato supera lo stadio minimale delle percosse o della minaccia semplice – integranti elemento costitutivo della “violenza o minaccia” di cui all’art. 337 c.p., rimanendone pertanto assorbite – entrano in gioco (anche) le incriminazioni poste a presidio dell’integrità fisica e psichica dell’individuo7.

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Così Cass. Pen., Sez. VI, n. 35227 del 25/05/2017, in Ced, rv. 270545. Ibidem. 6 Cass. Pen., Sez. VI, n. 37727 del 09/05/2014, in Ced, rv. 260374. 7 Cass. Pen., Sez. VI, n. 4123 del 14/12/2016, in Ced, rv. 269005. Cfr., altresì, Cass. Pen., Sez. VI, n. 27703 del 15/04/2008, in Ced, rv. 240880, secondo cui “Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo 5

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Infine, quale ulteriore argomento a suffragio dell’interpretazione che ravvisa un’unica violazione dell’art. 337 c.p. anche a fronte della resistenza opposta a una pluralità di pubblici ufficiali, la più recente giurisprudenza di legittimità ha osservato che l’uso della violenza o della minaccia per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio non è necessariamente quello rivolto contro la persona del pubblico ufficiale, potendosi anche manifestare nella violenza o minaccia c.d. impropria, che, pur non attingendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente sull’esplicazione della sua funzione, ostacolandola o impedendola8. Stante l’attualità del contrasto così delineato e la sua portata dirimente rispetto alla decisione sul ricorso proposto, ai sensi dell’art. 618 c.p.p. è stata rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: “se commetta più violazioni dell’art. 337 cod. pen. l’agente che, con una sola azione usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o a più incaricati di pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza”.

3. La composizione del contrasto. La soluzione al contrasto interpretativo cui pervengono le Sezioni Unite, adesiva al primo dei due indirizzi citati, è compendiata nel seguente principio di diritto: “In tema di resistenza a un pubblico ufficiale, ex art. 337 cod. pen., integra il concorso formale di reati, a norma dell’art. 81, primo comma, cod. pen., la condotta di chi usa violenza o minaccia per opporsi a più pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio mentre compiono un atto del loro ufficio o servizio”. A tale conclusione il Supremo Collegio perviene attraverso l’analisi della struttura della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 337 c.p., dalla quale si prendono le mosse per l’individuazione della ratio della disposizione e, quindi, del bene giuridico dalla stessa tutelato, preceduta dalla perimetrazione dell’ambito di operatività del concorso formale omogeneo di reati di cui all’art. 81, comma 1, c.p., che nel caso prospettato viene ritenuto sussistere. Quest’ultima disposizione, come puntualizzato dalla sentenza in commento, concerne tanto il concorso formale eterogeneo, nel caso che una sola azione violi più norme incriminatrici, quanto il concorso formale omogeneo, ricorrente ove l’azione violi più volte la stessa norma penale9. Con la fondamentale precisazione che, nel concetto di singola azione10, vanno sus-

di violenza che si concreta nelle percosse, non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali in danno dell’interessato. In quest’ultima ipotesi, il delitto di lesioni concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale”. 8 Cass. Pen., Sez. VI, n. 39341 del 12/07/2017, in Ced, rv. 270939. Cfr. S. Riccio, Violenza o minaccia e resistenza alla pubblica amministrazione, in N.ss. D.I., XX, Torino, 1975, p. 980, secondo cui l’art. 337 c.p. non esige per la sua configurabilità che la violenza o la minaccia sia usata sulla persona del pubblico ufficiale, ma richiede soltanto che sia usata per opporsi a quest’ultimo nel compimento dell’attività funzionale. 9 Cfr. S. Prosdocimi, Concorso di reati e di pene, in Dig. Disc. Pen., Vol. II, Torino, 1988, 508 ss. 10 Secondo l’orientamento dottrinario tradizionale, il concetto di azione, previsto dall’art. 81, co. 1, c.p. deve essere inteso in senso normativo, con riferimento cioè all’azione tipica penalmente rilevante; cfr. G. Bettiol - L. Pettoello Mantovani, Diritto penale, Padova, 1986; C. Fiore - S. Fiore, Diritto penale, Torino, 2004, 614; A. Frosali, Concorso di norme e concorso di reati, Milano, 1971, 488; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale parte generale, Bologna, 2019, 700; F. Mantovani, op. ult. cit., 463 ss.

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sunte sia quella che si risolva in un “unico atto” sia quella che si concretizzi in una “pluralità di atti”, purché realizzati in un unico contesto spazio-temporale e diretti a un medesimo fine11. La disciplina del concorso formale omogeneo, dunque, trova applicazione laddove il bene giuridico tutelato dalla norma penale venga leso più volte dalla stessa azione. Indagine, in prospettiva applicativa, da effettuare scindendo idealmente la vicenda di fatto in ragione degli eventi giuridici occorsi, verificando se ciascuno sia sussumibile nella fattispecie incriminatrice. Ciò postula, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, che esso investa ciascun frammento del fatto. Laddove la pluralità di violazioni dell’incriminazione si ripercuota su una molteplicità di persone offese, occorre quindi verificare la sussistenza di un coefficiente psicologico diretto a realizzare l’evento tipico nei confronti di ciascuna. Solo in caso di esito positivo di tale verifica, potrà affermarsi la ricorrenza di una fattispecie di concorso formale omogeneo12. Tanto premesso in via generale, in merito al reato di resistenza a pubblico ufficiale le Sezioni Unite osservano che l’idea che l’individuazione della condotta tipica, specie ai fini della verifica del concorso di reati, debba prendere le mosse dall’individuazione del bene giuridico protetto e imperniarsi su di esso vada ripudiata in quanto non conforme alle regole sull’interpretazione delle leggi e, inoltre, incorrente nel vizio logico di confondere oggetto materiale e oggetto giuridico della tutela, violando per ciò stesso i principi di tassatività e materialità e senza offrire maggior garanzia del rispetto del principio di offensività13.

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Invero, l’orientamento dottrinario prevalente valuta l’unità dell’azione alla stregua della coincidenza totale o parziale del processo esecutivo, ove interamente riconducibile allo schema astratto di una pluralità di fattispecie (cfr. F. Mantovani, ult. op. cit., 461; A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 600; A. Pagliaro, Concorso di reati, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 665); nondimeno, secondo un orientamento minoritario, l’unicità dell’azione è data dall’unicità dell’atto volitivo teleologicamente orientato, che giustifica la considerazione unitaria dell’azione come unico momento di ribellione all’ordinamento (in questo senso cfr. A. Moro, Unità e pluralità di reati, Padova, 1951, 145; V.B. Muscatiello, Pluralità e unità di reati. Per una microfisica del molteplice, Padova, 2002, 141). Si obietta, tuttavia, che la tesi dell’unitarietà del processo volitivo limiterebbe indebitamente l’applicazione del concorso formale ai soli reati dolosi, con arbitraria esclusione del concorso fra reati colposi, o fra quelli dolosi e colposi (M. Romano, Comm. sist. del cod. pen., Milano, 1987, 727). 12 Cfr. Cass. Pen., Sez. II, n. 12027 del 23/09/1997, in Ced, rv. 210458; Cass. Pen., Sez. I, n. 5016 del 07/12/1987, in Ced, rv. 178225, secondo cui “perché si abbia concorso formale di reati è necessario che l’azione unica sia accompagnata e sorretta dall’elemento soggettivo tipico proprio di ciascuna fattispecie criminosa. Ciò significa che, non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese, è necessario un quid pluris, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone”. 13 Mentre oggetto materiale del reato è “la persona o la cosa sulla quale ricade l’attività fisica del reo” (G. Fiandaca - E. Musco, op. ult. cit., 196), quale riflesso materiale e naturalistico dell’oggetto giuridico (M. Donini, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, 265 ss.), anche se oggetto materiale del reato può essere anche una entità non fisica su cui cade la condotta tipica (F. Mantovani, Diritto Penale, Vicenza, 2015, 193); oggetto giuridico della tutela penale è, appunto, il bene particolare che viene tutelato dalla singola norma incriminatrice e ne esprime la funzione nel sistema penale (A. Pagliaro, Principi di diritto penale, Milano, 2003, 226). La distinzione tra oggetto giuridico e oggetto materiale, potendo entrambi riguardare sia il mondo fattuale sia quello normativo, va intesa non già in senso strutturale bensì in accezione funzionale, attenendo il primo all’oggetto della tutela e l’altro all’oggetto della condotta tipica: ne consegue che più oggetti giuridici possono avere identico oggetto materiale e diversi oggetti materiali avere un identico oggetto giuridico (F. Mantovani, op. ult. cit., 203).

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Muovendo da tale prospettiva ermeneutica, il Supremo Collegio rileva che la struttura della fattispecie di resistenza postula una condotta commissiva-oppositiva connotata: a) sul piano oggettivo, dalla violenza o dalla minaccia (esclusa la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) contro il pubblico ufficiale (o il soggetto normativamente ad esso equiparato), teleologicamente diretta a coartarne o a impedirne l’agire funzionale al compimento dell’atto di ufficio o di servizio; b) sotto il profilo soggettivo, dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell’esercizio della funzione pubblica. L’espressione adoperata dal legislatore per tipizzare la condotta penalmente rilevante (“mentre compie un atto di ufficio o di servizio”) individua quindi contesto e finalità dell’azione, perimetrando l’oggetto materiale del reato sulle direttrici del nesso funzionale oppositivo e dell’arco temporale ricompreso tra l’inizio e la fine dell’esecuzione dell’atto di ufficio (al di fuori del quale, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale configurano fattispecie diverse, come ad esempio l’art. 336 c.p. laddove violenza e minaccia siano antecedenti all’atto di ufficio14). Le Sezioni Unite evocano infine, per delineare compiutamente l’oggetto materiale del reato, la risalente ma ancora attuale pronuncia della Corte costituzionale15, secondo cui l’art. 337 c.p. non mira a punire la violazione di una privilegiata posizione personale connessa ad una ormai obsoleta configurazione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, ma la maggior offesa arrecata alla pubblica amministrazione da una condotta volta ad impedire, con violenza o minaccia, l’attuazione della sua volontà: all’evidenza sottintendendo l’esistenza di una compenetrazione tra la persona fisica del pubblico ufficiale e la pubblica amministrazione per la quale quello agisce. Determinati in questi termini la condotta tipica e l’oggetto materiale su cui la stessa si riverbera, le Sezioni Unite si soffermano nell’individuazione del bene giuridico tutelato dalla disposizione, rinvenuto nel “regolare funzionamento della pubblica amministrazione”, come riprovato dalla collocazione sistematica e dell’intitolazione della disposizione, escludendo viceversa la possibilità di rinvenire nell’incriminazione la tutela di plurimi interessi giuridici di pari rango contestualmente protetti, quale emblematicamente la tutela del pubblico ufficiale. Prendendo le mosse dalla definizione di la pubblica amministrazione quale organizzazione complessa, costituita sia dai beni materiali strumentali al raggiungimento delle finalità pubbliche sia dalle persone che per essa agiscono, le Sezioni Unite evidenziano che la relazione giuridica intercorrente tra la persona fisica e la pubblica amministrazione in cui la prima è incardinata è definito “rapporto organico”. Alla stregua di quest’ultimo, la persona fisica che ricopre l’ufficio o la funzione pubblica viene identificata con la stessa pubblica amministrazione, sicché il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio è esso stesso pubblica amministrazione, costituendo il mezzo della sua estrinsecazione nel mondo giuridico tanto sul piano volitivo che su quello esecutivo. Proseguono le Sezioni Unite rilevando che, anche nel campo del diritto penale, il testo dell’art. 337 c.p. presuppone quest’ultimo assunto, assimilando la figura del pubblico ufficiale al concreto esercizio della funzione espletata.

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G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, pt. spec., I, III ed., Bologna, 2002, 286. Corte Cost., ord. n. 425 del 27/12/1996, in Cass. pen., 1997, p. 957.

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Ne deriva che il regolare andamento della pubblica amministrazione postula tanto la mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione per il perseguimento di scopi diversi da quelli istituzionali, quanto la mancanza di interferenze nel procedimento volitivo od esecutivo di colui che, incardinato nell’amministrazione, la personifica esprimendone le determinazioni. Ne consegue che l’interesse al regolare funzionamento della P.A. va inteso in senso ampio, ricomprendente altresì la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che ne esercitano le funzioni o ne adempiono i servizi, senza che ciò si traduca nella duplicazione dei beni giuridici tutelati dall’incriminazione. In forza di tali considerazioni, la tesi per la quale l’opposizione sarebbe perpetrata nei confronti dell’atto e non del pubblico ufficiale non è ritenuta valida, in quanto non tiene conto della tipizzazione dell’illecito dettata dal tenore letterale della disposizione. Né appare dirimente l’obiezione che il delitto di resistenza assorbirebbe soltanto il minimo di violenza in cui si estrinseca l’opposizione, venendo in considerazione altre incriminazioni per la tutela fisica o morale del pubblico ufficiale allorché l’offesa superi il quantum minimo assorbito dalla resistenza. Per le Sezioni Unite, quest’ultima interpretazione finisce per ritenere subvalente e collaterale l’offesa al pubblico ufficiale, ponendosi in contrasto con la lettera della legge. Infatti, proprio la circostanza che l’elemento oggettivo del reato di resistenza sia integrato dalla violenza o dalla minaccia al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio, conferisce centralità alla persona del singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della pubblica amministrazione. Parimenti, non viene attribuita significatività al raffronto tra l’art. 337 c.p. e l’art. 338 c.p., che collega alla violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello riservato ai responsabili della violazione degli artt. 336 e 337 c.p., con l’affermazione che per conseguenza sarebbe del tutto irragionevole applicare ex art. 81 c.p. una pena maggiore al soggetto che rivolgesse minacce nei confronti di più pubblici ufficiali per opporsi al compimento dell’atto dell’ufficio ex art. 337 c.p. rispetto a colui che agisce nei confronti di un organo collegiale della P.A. tutelato ex art. 338 c.p.16. Si tratta, infatti, di fattispecie diversamente strutturate e la sanzione più grave prevista dall’art. 338 c.p. rispetto a quella di cui all’art. 337 c.p. risponde a criteri di ragionevolezza, posto che nella prima fattispecie è prevista la violenza o la minaccia verso l’unità indistinta dall’organo pubblico collettivo, oggetto di aggressione, piuttosto che la tutela dei singoli componenti. In conclusione, oggetto materiale dell’opposizione punita dall’art. 337 c.p. non è ritenuto l’atto pubblico in sé ma l’azione di ogni singolo pubblico ufficiale, attesa la modalità di realizzazione del reato (violenza o minaccia) che conferiscono “centralità al singolo soggetto pubblico chiamato a manifestare la volontà della pubblica amministrazione”; oggetto materiale che, in ragione del rapporto di immedesimazione con la P.A., riverbera la lesione sull’unico bene giuridico tutelato dall’art. 337 c.p., vale a dire il buon andamento della pubblica amministrazione.

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V., fra le altre, Cass. Pen., Sez. 6, n. 4123 del 14/12/2016, in Ced, rv. 269005.

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Per l’effetto, le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento interpretativo che ritiene sussistente una pluralità di reati di resistenza a pubblico ufficiale nel caso in cui l’azione si dispieghi verso una pluralità di soggetti pubblici, dando vita a un concorso formale omogeneo di reati. Conseguentemente, nel caso di specie, avendo l’imputato esercitato violenza e minaccia, nel medesimo contesto spazio-temporale, nei confronti di due pubblici ufficiali nello svolgimento di un atto d’ufficio, l’aumento di pena conseguente all’applicazione dell’art. 81 c.p. era legittimo (ancorché, nella fattispecie concreta, applicato in virtù della ritenuta continuazione tra più resistente commesse con più azioni).

4. Osservazioni conclusive. La soluzione interpretativa cui pervengono le Sezioni Unite, senz’altro apprezzabile per lo sforzo ricostruttivo profuso, non appare del tutto convincente né nel percorso argomentativo seguito né nel risultato ermeneutico raggiunto. Quanto al primo profilo, le Sezioni Unite muovono preliminarmente e direttamente dalla perimetrazione dell’istituto del concorso formale di reati, ricorrendo innanzitutto al criterio della pluralità di lesioni inferte al bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice per ritenere integrata una pluralità di reati, per poi liquidare il distinto (ancorché connesso) tema della commissione di essi con una o più azioni – pregiudiziale rispetto all’applicazione della disciplina del concorso formale o materiale di reati – sulla scorta del criterio della contestualità spazio-temporale e dell’unicità del fine perseguito dall’agente. Ebbene, la preliminare – e affatto esplicata – opzione effettuata dalle Sezioni Unite in favore del ritenuto concorso formale di reati avrebbe probabilmente meritato maggiore attenzione, considerato che il caso di specie, da cui ha preso le mosse il ricorso di legittimità, concerneva proprio la contestazione di più reati di resistenza avvinti dal nesso della continuazione (e, dunque, in concorso materiale). Vero è che, dal punto di vista applicativo, dopo la riforma del 197417, che ha esteso la disciplina del reato continuato anche ai casi di concorso formale di reati, la questione dell’unità o pluralità di azioni ha perso gran parte del suo rilievo pratico, posto che, anche negando che l’azione sia unica, la disciplina sanzionatoria applicabile è, in virtù del riconoscimento del vincolo della continuazione, quella del cumulo giuridico della pena. Tuttavia, allo scarso rilievo pratico del tema se ne contrappone uno teorico molto rilevante, costituendo la materia dell’unità o pluralità di reati crocevia ed intreccio di numerosi profili sistematici e di altrettante problematiche, di talché la pronuncia in commento ha perso l’occasione per dare un autorevole contributo al dibattito interpretativo. Le Sezioni Unite, al riguardo, si sono limitate a ratificare il tradizionale criterio della contestualità degli atti e dell’unicità del fine18, senza tenere conto delle fondate critiche dottrinarie secondo cui peccherebbe di scarsa determinatezza, in quanto non sempre idoneo a fornire soluzioni univoche, soggettivizzando un problema che andrebbe viceversa risolto sul piano oggettivo.

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Si allude all’art. 8, d.l. 11.4.1974, n. 99, convertito, con modificazioni, dalla l. 7.6.1974, n. 220. Cfr. F. Antolisei - L. Conti, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 221 ss.

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Resistenza opposta a più pubblici ufficiali: per le Sezioni Unite sussiste il concorso formale di reati

Neppure condivisibile appare, in ordine al secondo profilo, la scelta delle Sezioni Unite di individuare, quale unico bene giuridico tutelato dall’art. 337 c.p., l’interesse al regolare andamento della pubblica amministrazione, sul quale si ripercuote negativamente ogni atto oppositivo di resistenza perpetrato nei confronti dei singoli pubblici ufficiali nell’esperimento di un atto d’ufficio in ragione del rapporto organico di immedesimazione intrattenuto da ciascuno di essi con la P.A. di appartenenza. Tale interpretazione, da un lato, non valorizza le modalità tipiche di realizzazione del reato di resistenza come tratteggiate testualmente dall’art. 337 c.p., quali violenza e minaccia, che postulano per definizione un’offesa del bene giuridico dell’integrità fisica o psichica dell’individuo, che non può esaurirsi o essere interamente assorbita nella lesione al buon andamento della pubblica amministrazione, neanche a fronte dell’affermato rapporto di immedesimazione organica. Dall’altro lato, detta opzione ermeneutica appare contraddittoria rispetto alla conclusione alla quale perviene, e cioè quella di ritenere integrati più reati di resistenza, quanti sono i pubblici ufficiali attinti dalla condotta oppositiva, pur ritenendo il reato di cui all’art. 337 c.p. monoffensivo. O si ritiene la plurioffensività del reato, contemporaneamente lesivo del buon andamento dell’amministrazione e delle sfere individuali dei pubblici ufficiali, di talché dalla loro pluralità scaturiscono più violazioni dell’art. 337 c.p.; oppure si afferma l’unicità del bene giuridico leso a cui, però, deve corrispondere, giocoforza, la realizzazione di un unico reato di resistenza. Quest’ultima soluzione, per le ragioni già evidenziate dalla giurisprudenza di legittimità delle sezioni semplici che hanno sposato la tesi dell’unicità del reato perfezionato a dispetto della pluralità dei pubblici ufficiali coinvolti, sarebbe apparsa preferibile nella prospettiva della monooffensività del bene giuridico tutelato dall’art. 337 c.p. E invero, la realizzazione di più atti contestuali, succedutisi in uno spazio temporale tale da non frammentare l’unità d’azione, concretizza un solo reato, poiché si risolve in un’unica lesione del bene giuridico tutelato, a dispetto della pluralità dei materiali destinatari della resistenza, a pena di addivenire a una indebita moltiplicazione del trattamento sanzionatorio in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità. Nondimeno, pur ritenendo la natura plurioffensiva del reato in questione19 (che, peraltro, nella prassi giudiziaria legittima la costituzione di parte civile dei soggetti pubblici che hanno subito la reazione all’atto d’ufficio), essa non appare dirimente al fine di ritenere automaticamente integrata una pluralità dei reati: esistono, infatti, reati sicuramente plurioffensivi che, tuttavia, costituiscono reato unico anche se plurime sono le persone offese su cui materialmente si ripercuote la condotta attiva (così accade, paradigmaticamente, nel reato di strage). Inoltre, l’uso della violenza o della minaccia considerato dall’art. 337 c.p. per opporsi al compimento di un atto di ufficio o di servizio, sebbene fattualmente nella gran parte dei casi si risolva in una violenza o minaccia alla persona del pubblico ufficiale, non necessariamente vi si identifica perché l’opposizione al compimento dell’atto dell’ufficio e del servizio può espri-

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Cfr. A. Pagliaro - M. Parodi Giusino, Principi di diritto penale, pt. spec., Delitti contro la pubblica amministrazione, I, Milano, 2008, 412, secondo cui, in via principale, soggetto passivo del reato in commento è senz’altro la P.A., atteso che di questa viene offeso il buon andamento; solo in via secondaria possono considerarsi soggetti passivi il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, venendone contestualmente offesa la libertà di esercizio delle funzioni o del servizio.

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mersi anche in forme diverse da quelle riconducibili alle previsioni degli artt. 610 o 612 c.p., come nel caso della fuga in condizioni tali da scoraggiare l’inseguimento per evitare danni alle persone o nell’ipotesi della violenza o minaccia c.d. improprie, che, pur non rivolgendosi direttamente al pubblico ufficiale, si ripercuotono negativamente sull’esplicazione della sua funzione, impedendola od ostacolandola. Per le suesposte ragioni, il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite in via omnicomprensiva, secondo cui la violenza o la minaccia usate per opporsi a più pubblici ufficiali nel compimento di un atto d’ufficio integra automaticamente il concorso formale di reati di resistenza, avrebbe potuto essere graduato tenendo in debita considerazione le molteplici e pluriformi declinazioni fattuali che il reato di cui all’art. 337 c.p. può assumere in concreto, rischiando nella formulazione attuale di risolversi in una astratta petizione di principio destinata incontrare evidenti difficoltà applicative.

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Il d.lgs. 231 ed i suoi ambiti applicativi nel mondo dello sport Sommario: 1. Il d.lgs. 231 e le sue applicazioni alle imprese ed enti no profit – 2. Modelli organizzativi nelle società sportive – 2.1. Il valore del capitale umano nello sport – 2.2. Obblighi sicurezza associazioni sportive dilettantistiche a.s.d. – 2.3. Obblighi – 3. Le Federazioni sportive e la compliance – le discipline sportive e la compliance – 4. Prospettive de iure condendo – 5. Conclusioni Abstract L’evoluzione della regolamentazione in ambito associativo-sportivo trova nel d.lgs 231/2001 uno dei maggiori interventi normativi idonei a regolare il fenomeno, ponendo nuove norme volte a disciplinarlo. L’art. 1, comma 2, del decreto 231/2001 circoscrive l’ambito di applicazione delle disposizioni rivolte a tutti gli enti forniti di personalità giuridica, alle società e alle associazioni anche prive di personalità giuridica. Dunque, sono soggetti, secondo la norma in commento, le persone giuridiche private, le società di persone, di capitali, cooperative, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici economici. Si assiste alla nascita, in capo alle società sportive, di una sorta di responsabilità penale-amministrativa. Evidente è il tentativo di prevenire l’illecita condotta degli enti sportivi. Dal d.lgs in esame emerge una forma di attenzione concreta verso i comportamenti illeciti dei dipendenti e delle società nel loro complesso. Il modello proposto sarebbe finalizzato a fornire un cambiamento ed un miglioramento delle società sportive. Ai fini dell’assoggettamento alla norma appare corretto che la discriminante non debba essere ricercata nella tipologia di soggetto, bensì nell’attività da esso in concreto svolta.

The associative-sports field finds in Legislative Decree 231/2001 one of the major regulatory interventions suitable for regulating the phenomenon, setting new rules to regulate it. Article 1, paragraph 2, of Decree 231/2001 limits the scope of application of the provisions to the global entities with legal personality, companies and associations, including those without legal personality. Therefore, according to the regulation in question, private legal persons, partnerships, corporations, cooperatives, non-recognised associations and public economic entities are subjects of this phenomenon. Sporting clubs are seeing as a sort of criminal-administrative responsibility in each case, so is important to prevent the illegal activities of sports organisations. The legislative decree shows concrete attentions to the illegal conduct of employees and companies. The proposed model would be aimed at providing a change and improvement of sports clubs. In order to be subject to the law, it seems correct that the discriminant must not be sought in the type of subject, but in the activity it actually carries out.

1. Il d.lgs 231 e le sue applicazioni alle imprese ed enti no profit. Il d.lgs. n. 231/200111 ha introdotto nel nostro ordinamento un peculiare meccanismo di imputazione della responsabilità a soggetti diversi dalle persone fisiche quali enti forniti di

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D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della L. 29 settembre 2000,


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personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica. In virtù di detto meccanismo si configura l’imputazione in capo all’ente della responsabilità derivante dalla commissione di alcuni reati, i cui autori sono sempre persone fisiche, in considerazione del particolare legame che esiste tra lo stesso ente ed il soggetto che ha materialmente commesso l’illecito. L’art. 1, comma 2, del decreto 231/2011 circoscrive l’ambito di applicazione delle disposizioni che contiene a tutti gli enti forniti di personalità giuridica, alle società e alle associazioni anche prive di personalità giuridica. Dunque, sono soggetti alla norma in commento le persone giuridiche private, le società di persone, di capitali, cooperative, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici economici. Si ritiene, inoltre, che la norma debba essere indirizzata ad ogni tipo di soggetto collettivo, ponendo l’attenzione sulla natura effettiva dell’ente. Ai fini dell’assoggettamento alla norma appare corretto che la discriminante non debba essere ricercata nella tipologia di soggetto, bensì nell’attività da esso in concreto svolta. Il terzo comma dell’art. 1 delimita una vera e propria zona franca, escludendo dall’ambito applicativo del decreto lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali (Comuni, Regioni, Province), essendo gli stessi titolari di poteri pubblicistici, gli altri enti pubblici non economici, in quanto esercitano pubblici poteri, tutti gli altri enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (es. sindacati), in quanto l’interdizione allo svolgimento dell’attività sindacale verrebbe a limitare in modo significativo la loro rappresentatività, ponendo in pericolo le libertà costituzionali da essi tutelate. La responsabilità amministrativa delle imprese insorge in relazione alla commissione dei reati sopra elencati da parte dei seguenti soggetti-persone fisiche ad essi legati: a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (cd. “soggetti in posizione apicale”); b) persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti in posizione apicale, le quali eseguono nell’interesse dell’ente le decisioni intraprese dal vertice (cd. “soggetti sottoposti all’altrui direzione”). Con riferimento al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità delle imprese il legislatore ha cercato, da un lato, di ancorarla a parametri di carattere soggettivo e, dall’altro, di attribuirle una natura autonoma rispetto a quella degli autori materiali del reato. Così, in caso di reato compiuto da soggetto in posizione apicale, l’ente non è responsabile se prima della commissione del fatto ha adottato ed attuato modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati analoghi a quello verificatosi, ha affidato ad un organismo dell’ente, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, il compito di vigilare sul funzionamento di detti modelli e di curare il loro aggiornamento, a fronte del reato è stata riscontrata l’elusione fraudolenta dei modelli organizzativi, il menzionato organismo di vigilanza ha espletato le sue funzioni nel modo corretto. Se ne deduce che il legislatore ha individuato nei modelli organizzativi e gestionali un’imprescindibile fattispecie esimente dal reato, realizzando una vera e propria inversione dell’onere della prova; infatti, ove il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale, sarà la società a dover dimostrare che essi hanno violato il divieto da essa imposto ed eluso i modelli

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predisposti per la sua tutela. Appare subito chiaro come il relativo accertamento sia tutt’altro che agevole. L’ente, infatti, dovrà dimostrare non solo che la volontà criminale è riconducibile esclusivamente al soggetto che materialmente ha compiuto l’illecito, ma anche di avere efficacemente implementato un sistema idoneo a realizzare gli effetti preventivi previsti dalla norma. L’adozione dei modelli, la nomina dell’organismo di vigilanza e l’efficace esercizio delle funzioni di controllo da parte di quest’ultimo, l’elusione fraudolenta da parte dell’autore materiale del reato sono gli elementi di prova che l’ente dovrà produrre al fine di sottrarsi all’applicazione delle sanzioni. La relativa verifica dovrà essere effettuata dal giudice penale tenuto ad accertare post factum non solo la colpevolezza dell’autore materiale del reato, ma anche la sussistenza delle suddette circostanze esimenti, valutando discrezionalmente l’adeguatezza del modello. Dalla giurisprudenza sviluppatasi sull’argomento emerge peraltro, un orientamento volto a valutare favorevolmente l’adozione di modelli che, ancorché successiva alla commissione del reato, sia anteriore all’apertura del dibattimento di primo grado (art. 12, comma 2 e art. 17, comma 1, del decreto). In tali ipotesi, nei confronti dell’ente colpevole che si “ravvede” non troveranno applicazione le sanzioni interdittive e saranno applicate in misura ridotta quelle pecuniarie. Al contrario, ove il reato sia stato compiuto da soggetti sottoposti all’altrui direzione, la responsabilità dell’ente sussiste se lo stesso sia stato reso possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza. Ciò in quanto la diversa posizione di tali soggetti nell’ambito della gerarchia aziendale induce a ritenere che la volontà criminale degli stessi non possa essere ricondotta direttamente in capo all’ente, essendo a tal fine necessaria l’inosservanza, da parte degli organi dirigenti, degli obblighi di direzione e vigilanza ad essi imposti. Anche in tal caso, tuttavia, detta inosservanza è esclusa se l’ente ha adottato modelli organizzativi che prevedono misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge, nonché ad eliminare le eventuali situazioni reputate a rischio. La differenza rispetto all’ipotesi di reato commesso da soggetto in posizione apicale sta nell’onere della prova, che nel primo caso grava sull’ente, presunto colpevole, mentre in quest’ultima circostanza grava sull’accusa, alla quale spetterà il compito di dimostrare la mancata adozione o attuazione del modello da parte dell’ente. In altre parole il legislatore pone a favore dell’ente una presunzione relativa, il cui superamento è a carico dell’accusa. Il catalogo dei reati dalla cui commissione deriva la responsabilità amministrativa dell’ente è stato oggetto di numerosi interventi integrativi. Si tratta evidentemente di un catalogo destinato ad ampliarsi, attesa la volontà del legislatore di compiere un’opera di “riempimento” del decreto, attraverso una progressiva e graduale integrazione dei reati presupposto. Ad ogni modo, la sua composizione attuale è la seguente: art. 24 (Indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico) - art. 24-bis (Delitti informatici e trattamento illecito di dati) - art. 24-ter (Delitti di criminalità organizzata) - art. 25 (Concussione e corruzione) - art. 25-bis (Falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti o segni di riconoscimento) - art. 25-bis.1 (Delitti contro l’industria e il commercio) - art. 25-ter (Reati societari) - art. 25-quater (Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico) - art. 25-quater.1 (Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili) - art. 25-quinquies (Delitti contro la personalità individuale) - art. 25-sexies (Abusi di mercato) - art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) - art. 25-octies (Ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita) - art. 25-novies (Delitti in materia di violazione del diritto d’autore) - art. 25-decies (Induzione a non rendere dichia-

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razioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria) - art. 25-undecies (Reati ambientali) - art. 25-duodecies(Impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare). Il D.lgs. 231/2001, introduzione di un modello organizzativo facoltativo, ma con finalità esimente. Prima di analizzare quale modello organizzativo sia più idoneo per una società calcistica e quali siano le possibili e specifiche aree di rischio, esaminiamo in sintesi i dettami della normativa in oggetto. Il D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, recante «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300», ha introdotto la previsione di una responsabilità personale e diretta dell’ente collettivo, inteso come società, associazione riconosciuta e non, ente pubblico per la commissione di una serie di reati commessi dalle persone fisiche ad esso legate, che abbiano agito «nell’interesse o a vantaggio dell’ente». La ratio della legge, che si conforma a normative e convenzioni internazionali in materia di lotta alla criminalità d’impresa, è quella di sensibilizzare gli enti alla prevenzione dei reati economici, sancendo la loro responsabilità personale per il caso di omissione o negligenza. Il D.lgs. 231/2001 identifica una fattispecie complessa, poiché aggiuntiva e dipendente da reato. La responsabilità dell’ente, infatti, presuppone la commissione di un reato da parte della persona fisica appartenente all’ente. Tale fattispecie di responsabilità si affianca a quella della persona fisica autrice del reato, poiché postula, quale presupposto per la sua configurazione, la commissione di talune fattispecie di reato da parte dei soggetti che hanno agito per conto, nell’interesse o a vantaggio dell’ente. La disciplina dei criteri di addebito, oggettivi e soggettivi, è dettata agli articoli 5 e ss. del citato decreto legislativo. In particolare, la responsabilità della società si caratterizza per la ricorrenza di tre condizioni: a) l’esistenza di una espressa previsione del reato come tipico per tale tipo di sanzione; b) la qualifica dell’agente in posizione cosiddetta «apicale» oppure in quella di «sottoposto»; c) il compimento di tale reato da parte dell’agente nell’interesse oppure a vantaggio dell’ente. In primo luogo, occorre la commissione di un reato presupposto, qualificato e cioè ricompreso tra le fattispecie indicate dagli articoli 25 e ss. del D.lgs. 231/2001. Ne deriva che solo alla commissione di talune fattispecie di reato consegue la configurabilità della responsabilità dell’ente. In secondo luogo, è necessario che il reato sia commesso da un soggetto qualificato, e cioè appartenente alle categorie enunciate dall’art. 5. Nell’ambito di tali categorie sono ricompresi oltre ai vertici statutari, e cioè i soggetti che rivestono formalmente funzioni di rappresentanza, amministrazione e decisione, anche i soggetti che rivestono anche di fatto funzioni di controllo o di gestione, nonché le persone sottoposte alla direzione e alla vigilanza dei soggetti enunciati precedentemente. Rispetto alla diversa connotazione degli agenti, vi è, pertanto, una netta differenziazione sulla posizione, ed anche sulla gravità degli atti attribuiti. La diversità è riscontrabile anche dal punto di vista processuale. Nel caso delle figure apicali, è prevista l’inversione dell’onere della prova per cui la società non risponde del fatto «se prova» di aver adottato ad attuato un modello idoneo a prevenire i fatti verificatisi, di aver attivato e reso operativo a tal riguardo un apposito organismo interno dotato di autonomia e, soprattutto, che il soggetto agente abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente tali modelli adottati. Nel caso del soggetto sottoposto, invece, non vi è alcuna presunzione e deve esserci in sede di giudizio l’effettiva dimostrazione della mancata adozione oppure della inefficace attuazione del modello prescritto. A norma dell’art. 5, comma 2 del citato decreto, l’ente non risponde dei fatti se l’azione si è avuta nell’interesse proprio del soggetto oppure addirittura di terzi. Il legislatore, inoltre, ha aderito ad una impostazione funzionale e pragmatica nell’individuazione dei vertici apicali, riconoscendo l’appartenenza a tale categoria non solo dei sog-

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getti formalmente investiti di tali incarichi, ma anche dei soggetti che materialmente e di fatto svolgono tali funzioni. In terzo luogo, occorre ai fini dell’addebito della responsabilità dell’ente che il reato sia commesso a vantaggio o nell’interesse dell’ente. Il primo elemento richiede un’indagine diagnostica ex post, al fine di verificare l’effettiva utilità per l’ente della commissione del reato da parte della persona fisica; il secondo invece, deve essere valutato con un’indagine prognostica ex ante. Tali criteri sono ontologicamente differenziati e alternativi. Ai fini della configurazione della responsabilità dell’ente occorre inoltre la sussistenza del criterio di addebito soggettivo, che si identifica con la colpa organizzativa. Questa presunzione di colpa è giustificata dalla mancata disposizione da parte dell’ente di un idoneo modello organizzativo in grado di prevenire le condotte delittuose. La necessaria colpevolezza dell’ente si evince, al contrario, dalla disposizione dell’art. 6 del D.lgs. 231/2001, il quale sancisce che l’ente può essere esentato dalla responsabilità se dimostra di aver adottato un modello organizzativo idoneo. L’ente, pertanto, è chiamato a dimostrare di avere adottato, ed efficacemente attuato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli previsti dal decreto e che le persone che hanno commesso un reato, lo abbiano fatto eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione. L’adozione del modello di organizzazione e gestione è prevista in termini di facoltatività, ma è tuttavia indispensabile se non si vuole esporre l’ente alla responsabilità per gli illeciti commessi da amministratori e dipendenti, c.d. esimente. L’assunzione e l’implementazione preventiva di codici comportamentali e di programmazione dell’attività decisionale in specifiche aree e funzioni aziendali, oltre all’attivazione di un organismo di controllo, autonomo ed indipendente, configurano comportamenti preventivi del reato che, se assunti congruamente dalla società, sono ritenuti dal giudice penale idonei ad escludere la sua responsabilità diretta per i reati realizzatisi. Per tale motivo, la valutazione della validità del modello adottato e della sua efficace attuazione si ha solo in sede di accertamento penale, ed è formulata dal giudice (ovvero, la prova della solidità del modello si ha solo nel malaugurato caso di procedimento penale per uno dei reati considerati). Ricostruita la disciplina dei criteri di addebito della responsabilità, esaminiamo brevemente il tema dibattuto della natura giuridica di tale fattispecie di responsabilità. Il D.lgs. 231/2001, dunque, disciplinando la responsabilità degli enti collettivi e individuali, come ha stabilito recentemente la Cassazione, per «gli illeciti amministrativi dipendenti da reato» commesso dalle figure apicali o dai sottoposti dell’ente, rappresenta «l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare il fenomeno della criminalità d’impresa, attraverso il superamento del principio, insito nella tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest e nella prospettiva di omogeneizzare la normativa interna a quella internazionale di matrice prevalentemente anglosassone, ispirata al c.d. pragmatismo giuridico». La normativa in oggetto configura, per la prima volta nell’ordinamento italiano, la responsabilità delle persone giuridiche per i comportamenti di chi agisce per proprio conto. Questa presunzione di colpa è giustificata dalla mancata disposizione da parte dell’ente di un idoneo modello organizzativo in grado di prevenire le condotte delittuose. Una responsabilità che ha caratteri molto simili a quella penale, anche se la natura prevista per la violazione è di tipo amministrativo (sanzioni pecuniarie ed interdittive). In realtà, si tratta di una responsabilità in cui coesistono i caratteri penali e quelli amministrativi, adottandosi ai fini dell’accertamento il procedimento penale, mentre una parte della dottrina ritiene che vi sia la costituzione di un tertium genus, né penale e neppure amministrativo. Sembra quasi inutile negare la vistosa somiglianza di tale previsione legislativa con quella impostata dalla giustizia sportiva per collegare le condotte dei tesserati (e talvolta anche degli estranei) al club calcistico, cioè quella cosiddetta «responsabilità oggettiva» ritenuta dal mondo dottrinale come una sorta di mostruosità giuridica.

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L’obiettivo del legislatore è quello di spingere le persone giuridiche a dotarsi di una organizzazione interna in grado di prevenire le condotte pericolose, proponendo una specifica esimente di responsabilità per l’ente che riesce a dimostrare di aver adottato, attraverso un modello gestionale ed organizzativo coerente, tutte le accortezze necessarie ritenute idonee a fungere da elemento preventivo. Il D.lgs. 231/2001 nasce, essenzialmente, per assegnare una responsabilità amministrativa alle aziende che dimostrino di non rendersi parte attiva nella prevenzione di alcuni reati. Non viene previsto un obbligo di adozione (facoltà e non obbligatorietà) di un modello di organizzazione, gestione e controllo, ma si prevede che solo la sua esistenza ed efficace implementazione, in caso di contestazione, possa fungere da esimente per evitare che il reato commesso da un singolo dipendente possa estendersi anche alla società. L’adozione di congrui modelli si rende necessaria per scongiurare reati eterogenei, connessi a processi decisionali realizzati in vari ambiti aziendali, sovente presenti nel contesto di una media impresa: dall’aggiudicazione di gare di pubblico appalto alla contrattazione con la P.A. per la fornitura di beni e servizi, dall’ottenimento di autorizzazioni, licenze, concessioni e finanziamenti alla commissione dei reati penali di natura societaria (violazione di obblighi degli organi ed operazioni sul capitale), dalla irregolare gestione finanziaria alla frode informatica. Inoltre, i reati presupposto, sebbene inizialmente tassativi, sono stati incrementati nel tempo da altre fattispecie, infatti, ad esempio, recentemente sono stati aggiunti i reati ambientali ed in materia di sicurezza e salute dei lavoratori ex D.lgs. n. 81/2008. Dal quadro qui sommariamente tratteggiato, risulta evidente l’intento del legislatore, il quale, conscio dell’inadeguatezza dell’azione pubblica di contrasto del crescente fenomeno della criminalità d’impresa, ha ritenuto di voler coinvolgere direttamente gli operatori economici, sollecitandoli ad una «efficace azione di prevenzione» all’interno delle proprie realtà aziendali, pena la loro responsabilità diretta ove, a causa della loro negligenza, si fosse realizzato un reato. Ne risulta una nuova cultura aziendale, una moderna modalità di fare impresa conformemente ai principi dell’etica e della trasparenza. L’azienda che si sia uniformata al D.lgs. 231/2001 dotandosi, volontariamente, di efficaci strumenti di prevenzione dei reati, oltre al possibile beneficio dell’esimente acquista anche una patente di «impresa doc», un nuovo marchio di qualità capace di dare una peculiare connotazione all’azienda, favorendola nel confronto con la concorrenza sul mercato, anche internazionale.

2. Modelli organizzativi nelle società sportive. Prendendo in considerazione il modello organizzativo delle società sportive è opportuno fare innanzi tutto delle precisazioni terminologiche per evitare confusioni. Per quanto riguarda le società sportive si fa riferimento all’art. 2247 del C.C, “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni e servizi per l’esercizio in comune dell’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”; le associazioni sportive e le società sportive dilettantistiche, al contrario, non hanno, ne possono avere, quale scopo sociale la divisione degli utili discendenti dalla loro attività2.

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Aspetto Fiscale delle Associazioni Una delle norme di carattere fiscale che ha riscosso più successo nel mondo sportivo è stata quella portata dalla legge n. 398 del 16/12/91, tale disposizione garantisce ai tutte le associazioni senza fini di lucro, la possibilità sul

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Si definisce associazione un’unione o un raggruppamento di più soggetti che a mezzo di apposito contratto (“comunione di scopo”, “associativo”, “di organizzazione”) conferiscono beni e servizi in comunione e si organizzano per il perseguimento di uno scopo non economico. I caratteri distintivi di un’associazione sia non riconosciuta che con personalità giuridica, sono: - Pluralità dei soggetti: che danno vita e compongono l’organismo, siano essi persone fisiche, società o associazioni. - Natura contrattuale del rapporto che si instaura con gli associati: tramite contratto plurilaterale con comunione di scopo, formato da un atto costitutivo e uno statuto. - Conferimento dei beni e/o servizi in comune per il perseguimento dello scopo sociale e formazione di un fondo comune (Capitale dell’associazione) - Stabilità dell’organizzazione che si viene a costituire, organizzazione di tipo operativo articolata in organi deliberativi, amministrativi ed eventualmente di controllo. - Presenza di uno scopo comune di natura non economica L’associazione con personalità giuridica è caratterizzata da autonomia patrimoniale perfetta, possibilità di essere proprietari di immobili e di ricevere per testamento e per donazione (previa autorizzazione governativa), disciplina legislativa dettagliata (art.13 e art.15 codice civile), penetranti controlli statali. L’associazione non riconosciuta si distingue per autonomia patrimoniale imperfetta, impossibilità di ricevere per testamento e per donazione, titolarità di beni immobili solo con intestazione di tali beni al presidente, scarsa disciplina legislativa con ampia autonomia in tema di organizzazione interna, scarsi controlli statali. Nonostante il legislatore continui a dare una definizione di attività sportiva dilettantistica, si ritiene che debba considerarsi dilettantistica, per differenza, tutta quella che non rientra nella previsione di cui dall’art.2 della legge 91/1981 sul professionismo sportivo. “Società professionistiche” sono definite quelle società che svolgono attività considerate come tali nell’ambito delle discipline del calcio, del ciclismo, del pugilato, della pallacanestro, ecc. Tali società, prive della denominazione “dilettantistica”, con l’entrata in vigore della legge

piano contabile di determinare forfetariamente le imposte sui redditi e l’Iva da versare. Questa disciplina è stata aggiornata a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 25 della legge 139/99 e in ultimo dell’art. 37 della legge 342/2000. Possono applicare tale regime tutte le associazioni che abbiano conseguito nel precedente periodo d’imposta, proventi di natura commerciale non superiori ai 360 milioni di lire. Per effetto delle recenti modifiche normative sono stati incrementati gli adempimenti contabili, che consistevano in origine nell’esonero integrale dagli obblighi di tenuta delle scritture contabili ai fini dell’Irpeg e dell’Iva. Le associazioni per il regime di cui alla legge 398/91 devono annotare anche in un’unica registrazione, entro il giorno 15 del mese successivo, l’ammontare dei corrispettivi e di qualsiasi provento, conseguiti nell’esercizio di attività commerciali con riferimento al mese precedente. Sul prospetto devono essere indicati i proventi che non costituiscono reddito imponibile, le plusvalenze patrimoniali. Su tale prospetto devono essere indicati anche i proventi derivanti da attività commerciali occasionali e raccolta fondi. Questo documento compilato è quindi vidimato a cura dell’Ufficio di Registro o delle Entrate. I proventi sono assoggettati ad aliquota Iva ordinaria 20% e ad aliquota speciale 10%, la detrazione varia in ragione dell’operazione effettuata:10% sponsorizzazioni 33.33% cessione diritti televisivi. Le associazioni sono tenute inoltre a presentare le dichiarazioni ai fini Irpeg e Irap.In riferimento agli obblighi contabili, le associazioni sono tenute in base all’art 111 del TUIR, a redigere un rendiconto annuale. A partire dal 2000, chi è in regime 398/91 non deve più compilare la dichiarazione d’incasso: non è più previsto l’obbligo di versare l’Iva direttamente alla Siae. L’Iva viene determinata forfetariamente, e l’imposta va versata ogni tre mesi utilizzando il modulo F24.

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586/96 possono avere finalità di lucro con conseguente possibilità di ridistribuire gli utili tra gli azionisti (lucro soggettivo). Tutto ciò si discosta dai sodalizi sportivi dilettantistici, in quanto questi ultimi perseguono uno scopo che non ha natura economica, ma ideale diffusione e promozione dell’attività sportiva. L’organizzazione abitualmente è chiamata a mettere ordine, a dividere e a coordinare, ma se mette troppo ordine viene a mancare una sufficiente flessibilità. Oggi l’obiettivo principale di una società non è più l’ordine, il problema vero è quello di convivere con il disordine, con il “caos”. Non un “caos” derivato da una disorganizzazione, ma un caos organizzato, previsto, gestito. Così, da sempre, si è comportato lo sport. Nel futuro il valore dell’impresa tenderà a risiedere non tanto nei beni materiali quanto nella conoscenza diffusa nelle persone. Quando nello sport parliamo di “stile Juventus”, del “pride dei Boston Celtics”, degli “occhi da tigre della nazionale di volley di Velasco”, non facciamo altro che riferirci ai valori, al knowhow di quel gruppo. Sarà utile allora immaginare un’impresa come dotata di un “recipiente” in cui confluiscono tutte le competenze elaborate nel tempo. La struttura di una società va sempre declinata con la strategia. Non ha senso disegnare un organigramma se non si sa chi dirige una data attività e che cosa intende ottenere (spettacolo, agonismo, passione, beneficenza, altri interessi…). Ad esempio, se una squadra di calcio opera in un contesto fisiologicamente di scarso pubblico e decide di sopravvivere curando attentamente i giovani calciatori per cederli ai grandi club, nel suo organigramma non metterà l’enfasi sul direttore marketing. Dovrà, invece, evidenziare i migliori allenatori delle squadre giovanili1. In sintesi, una società può benissimo concepirsi come una piramide, meglio ancora però sarebbe intenderla come un cerchio, al centro del quale collocare il capo clan. Sulla circonferenza, ben correlati tra di loro, trovano posto i principali collaboratori2. Il motto della struttura organizzativa di una società sportiva dovrebbe essere: “Distinguere per unire”. L’impresa sportiva ideale è quella dotata di tante competenze che convergono verso un centro che le sollecita in continuità. Spetta al capo clan fare le mosse vitali che ritiene più opportune, quando vuole, ascoltando o non ascoltando i propri collaboratori.

2.1. Il valore del capitale umano nello sport. Il forte legame tra ambiente sportivo e principi aziendali è ulteriormente accentuato dall’importanza, sempre crescente, che stanno assumendo termini come Management delle risorse umane, Vantaggio competitivo, Responsabilità sociale, Total Quality Management, Processi di selezione, Cultura organizzativa, ecc… Fino a poco tempo fa era impensabile la possibilità di sentire espressioni, come quelle appena citate, riferite all’ambiente dello sport (seppur di alto livello), mentre oggi nella maggioranza dei casi si tratta di una vera e propria necessità. Per cominciare, basti pensare alle Risorse Umane che sono la chiave delle organizzazioni forti ed efficaci, e nel caso specifico dello sport svolgono una funzione predominante, dal momento che la struttura portante di una qualsiasi società o associazione sportiva è rappresentata da giocatori, allenatori, personale volontario o stipendiato, staff tecnico, manager, medici sportivi, proprietari e tanti altri. Tuttavia, è sorprendente osservare che sia stato scritto veramente poco a proposito del Management delle risorse umane nel contesto dello sport. Le organizzazioni che si occupano di sport si trovano davanti ad un’ampia varietà di ambienti rappresentati da competizioni, mercati in continuo cambiamento, ricerca di risorse finanziarie sempre nuove, regolamenti e contesti istituzionali. Per poter fronteggiare al meglio situazioni così dinamiche e scarsamente prevedibili, i manager che si occupano di sport ne42


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cessitano di una grande sensibilità nei confronti delle persone con le quali si trovano ad interagire, per poterne individuare abilità, difetti, valori, differenze. Sebbene siano necessarie strutture organizzative ben definite insieme a strategie finanziarie e di marketing, esse non sono comunque condizioni sufficienti di successo. La vera possibilità di successo futuro per le organizzazioni sportive si trova nella capacità dei manager sportivi di avere a che fare con le risorse umane da diversi punti di vista3. L’area dell’amministrazione del personale presenta come obiettivo peculiare il controllo dei costi per le seguenti ragioni: gli stipendi sono spesso la voce di spesa più rilevante di molte organizzazioni; la produttività tende a decrescere quando si verifica una bassa soddisfazione nell’ambiente di lavoro; numerosi sono i costi associati all’attività di ricerca, selezione e addestramento delle nuove “forze di lavoro”; alle azioni legali da parte di lavoratori che si sentono “vittime” di comportamenti ingiusti da parte dei datori di lavoro. In aggiunta al controllo dei costi a cui si è accennato, ci sono molte altre ragioni per le quali i manager considerano le risorse umane la loro risorsa più critica del mondo del calcio. Tali ragioni possono essere così riassunte in via generale: collegamenti tra Management delle risorse umane e vantaggio competitivo; trasformazione in una società basata sulla informazione e sulla conoscenza; responsabilità sociali che i datori di lavoro hanno nei confronti dei lavoratori; collegamenti tra Management delle risorse umane e soddisfazione dei clienti; considerazioni di carattere legale4. Per quello che riguarda il vantaggio competitivo, Pfeffer conclude i suoi studi sulle performance di diverse imprese statunitensi di successo tra il 1972 e il 1992, affermando che è la gestione delle risorse umane l’elemento fondamentale che differenzia i top performer dai propri concorrenti. La chiave del successo competitivo, secondo Pfeffer, è la creazione di una cultura organizzativa nella quale le capacità umane vengono massimizzate. Argomentazioni simili possono essere svolte per quanto riguarda lo sport, dove in effetti il successo di molte società è determinato dalla combinazione tra persone che creano una visione di ciò che è necessario fare e altre persone che pongono in azione le strategie richieste per giungere alla effettiva realizzazione di tali progetti5. Il Total quality management (TQM) è un concetto che è stato recentemente incorporato nel vocabolario in uso per il Management delle risorse umane. Secondo Mawson (1993), i tre fondamentali elementi costituenti il TQM sono focalizzati sulla soddisfazione del cliente, sulla ricerca di continui e costanti miglioramenti, sulla garanzia di pieno coinvolgimento dell’intera organizzazione nel migliorare la qualità. Ad un livello molto più pratico, i vari aspetti della gestione delle risorse umane sono regolati da una serie di leggi e regole, alle quali i manager sportivi devono attenersi in modo molto rigoroso, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti salariali, i rapporti umani e le relazioni di tipo professionale. I manager sportivi si trovano a fronteggiare spesso sfide e competizioni dei generi più disparati e più diversi fra loro. Essi lavorano con la più ampia gamma possibile di risorse umane in termini di età, educazione ed esperienza. Bisogna considerare il fatto che lo sport si sviluppa in una grande varietà di ambienti, alcuni dei quali si rivelano profit-oriented (sport professionistico, industria dello sport, sport collegato al turismo), altri presentano un orientamento marcatamente non-profit (le associazioni sportive locali, le scuole, le organizzazioni che hanno a che fare con associazioni varie, o direttamente con lo Stato). Pertanto, gli obiettivi perseguiti e le risorse umane necessarie per queste differenti tipologie di organizzazioni sportive sono spesso abbastanza diverse tra loro.

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2.2. Obblighi sicurezza associazioni sportive dilettantistiche a.s.d. L’Associazione Sportiva Dilettantistica (ASD), indipendentemente dalla sua specificità, dalla sua struttura gerarchica e organizzativa, nonché dalla sua dimensione, è soggetta all’applicazione del D.Lgs. 81/08 e quindi deve individuare e valutare i rischi connessi ai processi di supporto all’attività sportiva, equiparabili alle attività di tipo occupazionale (es. attività di segreteria, di movimentazione materiali, di preparazione degli attrezzi sportivi, di trasporto atleti, di manutenzione locali, attrezzature e impianti sportivi, etc.) negli specifici luoghi di lavoro sede dell’Associazione Sportiva e/o altri luoghi di svolgimento delle attività. Si tratta quindi di individuare e valutare i rischi complementari all’evento agonistico, alle sedute di preparazione o di allenamento. Le principali norme cogenti che impattano sulla sicurezza nei luoghi di lavoro in cui si praticano attività sportive sono essenzialmente due: 1) Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi (D.M. Interno 18.30.1996 integrato dal D.M. 6.6.2005) 2) Tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs 81/08 del 9.04.2008 integrato e corretto dal D.Lgs 106/09 del 3 agosto 2009) La prima norma è competenza del “proprietario” dell’impianto sportivo che deve comunque garantire al “Gestore” dello stesso (nel caso in cui si tratta di figure giuridiche diverse) la tracciabilità di tutta la documentazione relativa alla conformità legislativa della struttura e degli annessi impianti (es. agibilità, dichiarazione di conformità degli impianti, denunce e verifica degli impianti di messa a terra e scariche atmosferiche,…). Tale documentazione deve essere inoltre resa disponibile in fase di “audit” iniziale e periodico della sicurezza da parte del gestore. La seconda norma cogente (D.Lgs. 81/08 s.m.i.) è di competenza del Gestore e/o dell’Associazione Sportiva che deve garantire il rispetto della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. L’art. 3 del D.Lgs. 81/08 s.m.i. al paragrafo 1 così recita: “Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio”. Lo stesso art. 3 nel prosieguo individua attività specifiche che, sulla base di “… particolari esigenze connesse al servizio espletato o alla peculiarità organizzativa …”, richiedono una applicazione nel rispetto anche di altre leggi e/o decreti. Poiché in questo articolo non vengono citate le attività sportive, ad esse si applicano unicamente gli articoli del D.Lgs. 81/08.

2.3. Obblighi. In ordine cronologico questi sono gli obblighi che devono essere assolti dalle Associazioni Sportive nell’ambito del D.Lgs. 81/08: - Individuazione del “Datore di Lavoro” nella figura del Presidente o del Delegato nominato dal Consiglio Direttivo, o dal Socio nominato dall’Assemblea del Soci, e comunque in funzione della specifica organizzazione. Con il termine datore di lavoro l’art. 2 comma b del D.Lgs. 81/08 così recita: “datore di lavoro”, soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa; - Designazione del “Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione” (RSPP) che può identificarsi anche con il “Datore di Lavoro”. L’art. 2 comma f del D.Lgs. 81/08 s.m.i. così recita “Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione”, persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’articolo 32 designata dal Datore di Lavoro, a cui risponde per coordinare il servizio di prevenzione e di protezione dai rischi;

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- Individuazione dei Preposti nelle persone che sovrintendono all’attività lavorativa e ne controllano la corretta esecuzione. Ad esempio, l’allenatore e/o l’istruttore è un preposto; - Individuazione dei “lavoratori” delle “attività sportive” delle Associazioni Sportive ai sensi dell’art. 2 e art. 3 del D.Lgs. 81/08. L’art. 2 comma a del D.Lgs. 81/08 così recita: “lavoratore”, persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari… I Lavoratori possono essere dipendenti, istruttori/allenatori, …, ovvero lavoratori subordinati, atleti dilettanti subordinati di fatto e volontari. Nell’ambito delle società sportive esiste anche il lavoratore che opera come “attività di volontariato”. L’attività di volontariato è disciplinata dalla legge 266/91 (legge quadro sul volontario), e prevede all’art. 2 che “..per attività di volontariato deve intendersi quell’attività prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”. Il comma successivo così recita: “l’attività di volontariato non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata, entro i limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse”. Pertanto il Volontario di una Associazione Sportiva è un soggetto obbligato (ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. 81/08) e quindi non soggetto a tutela. L’unica “tutela” è data dall’art. 3 comma 12 bis. L’articolo prevede che “ove il volontario svolga la propria prestazione nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al volontario dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti in cui è chiamato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”. Egli è altresì tenuto ad adottare le misure utili ad eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze tra la prestazione del volontario e altre attività che si svolgono nell’ambito della medesima organizzazione. Sono previsti poi elezione interna del “Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza” (RLS) o sua individuazione a livello territoriale o “comparto sportivo” secondo gli artt. 57 e 48 del D.Lgs. 81/08; eventuale nomina del “Medico Competente” in funzione della “tipologia di rischio” presente nell’ambito dell’attività svolta; individuazione dei soggetti con compiti speciali: “primo soccorso”, “gestione emergenze”, “addetti antincendio”; valutazione dei Rischi e redazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR). Ai sensi dell’art. 29 comma 1 “…il Datore di Lavoro (DL) effettua la valutazione ed elabora il documento …” (DVR), ma i DL che occupano fino a 10 lavoratori possono autocertificare di aver effettuato la valutazione dei rischi. Ai fini della determinazione del numero dei lavoratori si veda l’art. 4 del D.Lgs. 81/08 e s.m.i. Tale articolo precisa che: “…ai fini della determinazione del numero dal quale il presente D.Lgs. fa discendere particolari obblighi, non sono computati i lavoratori in prova, i collaboratori familiari, … ove la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del committente, i tirocinanti, gli allievi di istituti e università, i lavoratori assunti con contratto a t.d. per sostituzioni, i lavoratori che svolgono prestazioni occasionali di tipo accessorio, i lavoratori di cui alla legge n. 877 del 18.12.1973, i volontari, i lavoratori utilizzati nei lavori socialmente utili, i lavoratori autonomi, i collaboratori coordinati e continuativi e i lavoratori a progetto … ove la loro attività non sia svolta in forma esclusiva a favore del committente. Quindi fino a 10 lavoratori computati secondo l’art. 4 del D.Lgs. 81/08 s.m.i., il datore di lavoro, sotto la sua responsabilità, “…autocertifica di aver valutato i rischi per la

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sicurezza e la salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro…” allegando tutta la documentazione atta a dimostrare quanto dichiarato.

3. Le federazioni sportive e le compliance. Una federazione sportiva è un ente cui competono l’organizzazione e lo svolgimento dello sport a livello agonistico. Esistono federazioni di carattere nazionale, continentale e internazionale cui è demandata la gestione della disciplina in base all’area geografica di interesse. Per la partecipazione alle competizioni organizzate da una federazione, all’atleta sono richiesti il tesseramento presso la stessa e l’iscrizione ad una società affiliata alla federazione. Il CONI, Comitato Nazionale Olimpico Italiano, fondato a Roma il 9 e 10 giugno 1914, è un’articolazione del grande movimento olimpico che fa capo al Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ed ha come obiettivo l’organizzazione ed il potenziamento dello sport nazionale. In particolare si interessa della preparazione degli atleti al fine di partecipare ai Giochi Olimpici e a tutte le altre manifestazioni sportive nazionali o internazionali finalizzate alla preparazione olimpica, e promuove la massima diffusione della pratica sportiva. Le federazioni sportive riconosciute dal CONI sono 45. A seguito dell’intervento del legislatore il CONI, a differenza di altri analoghi organi di altri paesi, viene configurato come un ente pubblico al quale è stato attribuito un determinato potere, che si estrinseca nell’organizzazione e nel potenziamento dello sport nazionale, che mira al perfezionamento atletico degli associati ed è possibile che tali fenomeni di potenziamento ed indirizzo dello sport siano “delegati” alle singole Federazioni. Il CONI, ente pubblico soggetto alla disciplina del parastato (L. n 70 del 1975), viene comunemente considerato ente federativo a base associativa in quanto ricomprende enti che non hanno delimitazioni territoriali di competenza. In buona sostanza il CONI è una Federazione delle Federazioni in cui gli interessi originari delle federazioni si esprimono attraverso la presenza del Presidente di ciascuna federazione in seno al Consiglio Nazionale del CONI. Al CONI spetta associare le Federazioni Sportive che raggruppano associazioni o associazioni di persone e che hanno la caratteristica di occuparsi di una sola disciplina sportiva. La legislazione più recente ha sancito, in via definitiva, il carattere privatistico delle federazioni sportive nazionali indicando che queste hanno natura di associazione con personalità giuridica di diritto privato, intendendole definitivamente assoggettare al diritto comune, anche se occorrerà approfondire, in taluni casi, la possibilità di permangano ancora connotazioni pubblicistiche tali da farle rientrare nella più ampia categoria degli organismi di diritto pubblico di derivazione comunitaria. Tuttavia, come abbiamo visto, la pubblicizzazione del CONI ha determinato una estensione dei poteri pubblicistici anche alle Federazioni. Fino a che la riforma non entrerà a regime, la giurisprudenza è costante nel ritenere che le Federazioni sportive nazionali riconosciute, in quanto operano per la finalità proprie del C.O.N.I., sono organi in senso tecnico di tale comitato e quindi partecipano della sua natura pubblica. Queste ultime, quali organi dell’ente pubblico di riferimento, pongono in essere anche un’attività di natura pubblicistica, come tale rilevante per l’ordinamento statale, massimamente sotto due direttrici.

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La prima attiene all’esercizio di potere regolamentare quando disciplinano normativamente le attività suddette, la seconda attraverso l’estrinsecazione di potere di emanare provvedimenti amministrativi tutte le volte che materialmente vengono svolte tali attività. Accanto a questo riconosciuto potere pubblico esiste un’ampia sfera di autonomia riservata all’Ordinamento sportivo che esula dalla rilevanza generale per l’ordinamento statale. Si tratta di tutta quella materia dell’ordinamento sportivo che disciplina l’attività sportiva ed agonistica vera e propria e il potere disciplinare che non rileva per l’ordinamento statale per il suo peculiare contenuto, salvo che non si ponga in contrasto con il medesimo ordinamento statale e non vada ad incidere sullo “status” di membro dell’ordinamento sportivo. Da questa rapida rassegna emerge allora che l’ordinamento sportivo, pur essendo stato definito “ordinamento derivato di settore” e conseguentemente non dotato di sovranità, gode comunque di una vasta autonomia sotto il profilo dell’organizzazione e della normazione interna. Peraltro, va sottolineato che è assai arduo, una volta riconosciuta la coabitazione tra i due ordinamenti, stabilire con esattezza i limiti delle reciproche interferenze tra gli ordinamenti stessi. La discussione teorica sui rapporti tra ordinamento giuridico statuale e ordinamento giuridico sportivo non è mai riuscita a tracciare in modo rigoroso ed univoco i confini tra i due ordinamenti. In realtà, occorre riconoscere l’impossibilità di individuare criteri univoci per distinguere gli ambiti dei due ordinamenti e per risolvere eventuali conflitti di norme. Forse solo attraverso un’attenta opera di valutazione e ponderazione degli interessi di volta in volta in gioco appare possibile stabilire, pur con tutte le incertezze e l’opinabilità di questo tipo di operazioni, la preminenza dell’uno o dell’altro ordinamento. Tuttavia, il diritto vivente si è sforzato, e si sforza continuamente, di cercare punti fermi, che oggi probabilmente andranno rivisitati alla luce della recente normativa. In ogni caso, sino a questo momento, dottrina e giurisprudenza hanno individuato una serie di aspetti generali che possono essere riassunti in quattro diversi profili, ferma restando l’assoluta autonomia dell’ordinamento sportivo in merito ai provvedimenti emanati in applicazione delle regole tecniche per lo svolgimento dell’attività agonistica e la omologazione dei risultati. In primo luogo, si prende atto che la legislazione del settore sportivo non si limita solo a riconoscere l’ordinamento sportivo, ma esplica anche la funzione amministrativa nella materia sportiva. A sua volta a sua volta l’ordinamento giuridico sportivo, quale insieme di norme distinte, è strumentale per l’ordinamento statale al fine di esercitare in via indiretta le funzioni amministrative nel settore sportivo, di modo che gli atti amministrativi e regolamentari estendano i loro effetti, rectius facendo ricadere gli effetti anche nell’ambito dell’ordinamento statale. La “potestà normativa” viene attribuita all’ordinamento sportivo nei limiti dell’esercizio della funzione amministrativa riconosciutagli ai sensi dell’art.5, L. 426/42. Infine, il potere attinente alla regolamentazione dei rapporti intersoggettivi privati, il quale deve essere esercitato con atti aventi l’efficacia di legge, non rientra tra le potestà riconosciute all’ordinamento sportivo nell’ambito dell’ordinamento dello stato, esistendo al riguardo una riserva di legge che è stata esercitata, come è noto, con la L. n.91 del 1981, che reca norme in materia di rapporti tra la società e gli sportivi professionisti. Accanto a tali principi regolatori dei rapporti tra ordinamenti assume parimenti rilevanza la normativa comunitaria. Infatti, come ha avuto modo di precisare la Corte Costituzionale, le norme di diritto comunitario direttamente applicabili sono destinate a prevalere sulle disposizioni di diritto interno

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anche successive, dovendo queste ultime, in caso di contrasto con le prime, essere disapplicate dai giudici nazionali e dalle stesse amministrazioni. La parte che più direttamente ci interessa, regolamentata dal diritto comunitario, è quella relativa al divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità dei lavoratori degli stati membri. Per quanto riguarda specificamente il trasferimento dei giocatori, l’Assemblea di Strasburgo, a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia del 1974 e del 1976, ha approvato una risoluzione sulla libera circolazione dei calciatori professionisti della CEE, la n.A2-15/88, depositata il 1/3/1989. Tale risoluzione sostiene l’illegittimità dei limiti alla libera circolazione in base alle sentenze citate, affermando che gli artt.7, 48 e 59 del Trattato sul divieto di discriminazione basato sulla cittadinanza si applicano anche ai giocatori. E ciò ancor prima della più nota sentenza Bosman i cui effetti, condivisibili o meno, hanno toccato l’assetto organizzativo delle federazioni sportive e delle Leghe. Tra le varie aree a rischio, ve ne sono alcune che meglio si prestano ad una esemplificazione. Nell’ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, si possono selezionare quelle relative alla gestione dei rapporti con le forze dell’ordine, con gli organismi federali (FIGC, CONI, Associazione Italiana Arbitri, Commissione di Vigilanza delle società di calcio professionistiche), con gli organi di giustizia sportiva e con le amministrazioni locali, nonchè con le attività connesse a procedure di concessione di appalti o servizi, all’ottenimento di licenze o a procedure di verifiche/ispezioni sull’adempimento di determinati obblighi, quali l’ottenimento delle licenze UEFA o le richieste di erogazione di contributi federali. Per quanto concerne il rischio di reati societari, si può pensare alla produzione di dati contabili falsi (si pensi alle ipotesi delle c.d. plusvalenze gonfiate), alla compravendita dei diritti pluriennali, alle prestazioni dei calciatori oltre alla gestione dei flussi informativi verso gli organi di controllo interni, le società di revisione e le Autorità di vigilanza. Senza dimenticare per quanto riguarda le società quotate la gestione delle informazioni c.d. pricesentitive e le altre operazioni su azioni e quote sociali con l’annesso rischio di abusi di mercato. Altra area a rischio riguarda la gestione degli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro relativamente sia allo stadio ed ai centri di allenamento, sia ai centri di formazione tecnica per minori presenti in Paesi in via di sviluppo. In quest’ultimo specifico contesto, peraltro, nell’ambito della formazione dei giovani, svolta mediante i settori giovanili, emerge l’ulteriore profilo relativo all’acquisto delle prestazioni sportive di minorenni, che può evocare addirittura potenziali delitti contro la personalità individuale. Di una certa significatività appare altresì l’organizzazione dell’evento sportivo, ricomprendente lo sviluppo di iniziative commerciali e la gestione dei mezzi di comunicazione e dei diritti televisivi e radiofonici sugli eventi stessi. Ma soprattutto, come è evidente, vanno considerate particolarmente rischiose, in chiave di riciclaggio e di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, tutte le operazioni relative alle prestazioni dei giocatori. Non meno problematici sono i rapporti con i fornitori e gli sponsor, con l’amministrazione degli introiti finanziari, tra i quali gli incassi di biglietteria in contanti, con la gestione dei rapporti con agenti, procuratori e, più in generale, le possibili relazioni con soggetti a rischio, oltre la pianificazione degli investimenti. Non a caso, con riferimento a quest’ultima categoria di reati vi è stata una presa di posizione del ‘‘Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale’’ (GAFI) – l’organismo di coordinamento internazionale della lotta al riciclaggio –, con uno specifico Rapporto avente ad oggetto la penetrazione del fenomeno riciclaggio all’interno del mondo del calcio. In tale documento, dopo aver ricordato come già la Commissione europea nel 2007 avesse segnalato il rischio di infiltrazione criminale nell’at-

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tività sportiva in Europa, vengono avanzate proposte volte da un lato ad estendere l’applicazione della direttiva 2005/60/CE (c.d. III Direttiva anti-riciclaggio), dall’altro ad intervenire con iniziative mirate, tra le quali una migliore regolamentazione dell’attività degli agenti ed una maggiore trasparenza e possibilità di controllo sugli aspetti finanziari dell’attività delle squadre di calcio. Questa ricostruzione sin qui compiuta ha trovato ampio riscontro nella prassi, con pronunce che hanno interessato o potenzialmente avrebbero potuto interessare la responsabilità delle società sportive. Basti pensare al recente intervento della Cassazione penale, avente ad oggetto una contestazione di «false comunicazioni sociali» nella redazione del bilancio di esercizio a carico, secondo la ricostruzione accusatoria, degli amministratori della A.S. Roma. In particolare, costoro avrebbero gestito illecitamente la cessione di alcuni giocatori – omettendo dettagli relativi al valore delle operazioni – al fine di abbassare i risultati di esercizio, così da ottenere sensibili risparmi fiscali. Il Tribunale di Roma, in primo grado, aveva condannato la società, ai sensi degli artt. 25 ter e 69, D.Lgs. n. 231/2001 (decisione poi confermata anche in sede d’appello); la Cassazione, di contro, ritenendo non provate la ricorrenza dell’interesse dell’ente alla commissione del reato e l’inadeguatezza del modello organizzativo adottato per prevenire quel reato, ha annullato la sentenza di condanna e rimesso nuovamente la questione al vaglio della Corte d’Appello di Roma. Combattere la corruzione nello sport costituisce un problema di fondamentale importanza. L’agenzia per la compliance in ambito sportivo I Trust Sport è convinta che lo sport possa essere una forza promotrice di valori positivi. Purtroppo, a volte la corruzione può impedire allo sport di dispiegare tutto il suo potenziale a favore di individui e società. La corruzione nello sport, in buona sostanza, può riguardare la competizione sportiva e la sua gestione. Tra gli esempi di corruzione nella gestione vi sono la concussione e la manipolazione delle elezioni. Nei casi più gravi, la corruzione a livello gestionale costituisce anche un reato penale perseguito dalle forze dell’ordine. I Trust Sport si concentra sul panorama più ampio della governance in ambito sportivo, che spazia dai casi di non buona governance ai casi di best practice. Le forme più comuni di corruzione nelle competizioni sono costituite dal doping e dalla manipolazione delle competizioni, che comprende gli accordi volti a “truccare” intere gare o singoli elementi di una gara e tutte le attività correlate, sia a scopo di lucro, sia per ragioni di natura sportiva (per esempio, per evitare una retrocessione). Per doping intendiamo l’uso di farmaci e doping nello sport. Le violazioni alla norma che l’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) definisce possono essere così riassunte: - la presenza di sostanze proibite nel sangue o nelle urine di un atleta; - lL’utilizzo di metodi o sostanze proibite; - il sottrarsi a un test antidoping; - il possesso o la gestione di una sostanza o di metodi proibiti; - assistere altri a mettere in atto una violazione alla normativa antidoping o essere in rapporti con una persona che abbia violato tale normativa. Per ciò che attiene, invece, alla manipolazione delle competizioni, come combine, corruzione legata a scommesse e gioco d’azzardo nello sport, la Convenzione sulla manipolazione delle competizioni sportive del Consiglio d’Europa (2014) definisce la manipolazione delle competizioni sportive come: “Un accordo, atto od omissione intenzionali mirati ad alterare in modo improprio il risultato o l’andamento di una competizione sportiva al fine di rimuovere in tutto o in parte la componente di imprevedibilità della sopra citata competizione sportiva con l’obiettivo di conseguire un indebito vantaggio per sé o altri.” La definizione include, quindi, gli sforzi compiuti per alterare il corso di un evento “truccando” alcuni elementi di una competizione, così come il suo risultato finale. La definizione

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include la manipolazione di una competizione sia per motivi sportivi, sia a scopo di lucro. Lo status della manipolazione delle competizioni, secondo la legge, è una questione complessa che varia da Paese a Paese. Su una scala di standard relativi alla governance, la corruzione a livello gestionale si trova ad un estremo, mentre i casi di best practice all’altro estremo. L’autorevole Cadbury Report on Corporate Governance (1992) ha definito la governance come “il sistema attraverso cui le aziende sono dirette e controllate”. Nel 2013 il gruppo di esperti sulla “Good governance” della UE ha elaborato una propria versione dei Principles of good governance in sport, definendoli come “Il quadro e la cultura entro cui un ente sportivo definisce politiche, stabilisce obiettivi strategici, interagisce con i vari portatori di interesse, controlla le prestazioni, valuta e gestisce i rischi e riferisce ai propri membri circa le proprie attività e progressi, compresa la definizione di politiche e normative sportive efficaci, adeguate e sostenibili.” L’AMA fu istituita nel 1999 come agenzia internazionale indipendente, composta e finanziata in modo eguale dal movimento sportivo e governi. Le sue attività principali comprendono ricerca scientifica, educazione, sviluppo di capacità antidoping e controllo del Codice mondiale antidoping, documento che armonizza le politiche antidoping in tutti i paesi e per tutti gli sport. Il Codice mondiale antidoping è obbligatorio per il movimento olimpico ed è stato adottato anche da molti sport non olimpici. Molte organizzazioni sportive a livello nazionale ed internazionale sono responsabili per l’organizzazione di iniziative antidoping, compresi i programmi educativi e di controllo. Il Codice mondiale antidoping stabilisce le sanzioni per la violazione delle norme e dispone la sospensione di 1 anno, 2 anni, 4 anni o a tempo indeterminato, a seconda delle circostanze. Esiste ora la possibilità di ridurre il periodo di sospensione se il soggetto fornisce un’assistenza sostanziale in relazione ad una violazione delle norme compiuta da un altro soggetto. È, inoltre, possibile l’annullamento dei risultati conseguiti in un determinato periodo di tempo da parte di un atleta, così come l’imposizione di sanzioni pecuniarie. È in atto una corsa infinita tra la tecnologia dei controlli antidoping e chi assiste gli atleti a imbrogliare, sfruttando la ricerca medica. L’AMA e altri soggetti conducono ricerche per migliorare le procedure di controllo delle sostanze nuove o già esistenti che sono in grado di migliorare le prestazioni. L’attuale attenzione alla lotta contro il rischio di combine risale agli anni immediatamente successivi al 2000. Le risposte provenienti dal movimento sportivo includono il Early Warning System (2007), una compagnia organizzata dalla FIFA per controllare le scommesse sui tornei FIFA. Anche il CIO dispone oggi del suo Integrity Betting Intelligence System (IBIS) con scopi simili. Diverse discipline sportive a livello nazionale e internazionale hanno organizzato delle proprie “squadre per l’integrità”, come il Tennis Integrity Unit (2008), che ha il compito di combattere la corruzione legata al gioco d’azzardo. La minaccia della manipolazione delle competizioni è stata, inoltre, riconosciuta anche da governi e istituzioni internazionali. Nel Regno Unito lo Sports Betting Group riunisce rappresentanti di tutti gli sport, si propone come guida per contrastare il rischio di corruzione presente nelle scommesse sportive ed adotta un Codice di Condotta ad uso degli organi direttivi. Una recente Convenzione sulla manipolazione delle competizioni sportive del Consiglio d’Europa (2014) contiene misure dettagliate provenienti dagli stati membri sia all’interno dell’Europa, sia potenzialmente oltre i suoi confini. Si sta sviluppando un piccolo settore formato da consulenti sulla corruzione nello sport e da organizzazioni non profit, che mira a fornire servizi a organismi sportivi per aiutarli a ridurre il rischio di manipolazione delle com-

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petizioni. Si è, inoltre, da più parti convenuto che la forma delle competizioni sportive dovrebbe essere regolata per fare in modo che non si incentivi involontariamente la manipolazione delle competizioni. La governance dello sport è stata per la prima volta oggetto di un serio esame come argomento a sé stante negli anni ‘90, grazie al lavoro di accademici, di giornalisti investigativi e di organizzazioni promotrici, come Play the Game. Tra i diversi punti sulla governance contenute nell’Agenda 2020 del CIO vi è l’esigenza da parte delle organizzazioni appartenenti al Movimento Olimpico di accettare e rispettare i principi universali di base della buona governance del Movimento sportivo olimpico. Successivamente, le Association of Summer Olympic International Federations (ASOIF) hanno sviluppato uno strumento di valutazione della governance per federazioni internazionali. Alcune organizzazioni sportive hanno intrapreso processi di riforma della governance, in seguito al verificarsi di una crisi. Tuttavia, la velocità dei progressi nel settore sportivo nel suo insieme è lenta. In aggiunta ai vari codici per la good governance che sono stati pubblicati, governi e organismi di regolamentazione di molti paesi hanno iniziato a definire standard di governance che gli organismi sportivi dovranno impegnarsi a raggiungere per poter ricevere finanziamenti pubblici. Anche la UE è stata attiva nel settore della governance dello sport, infatti, oltre ad aver istituito l’Expert Group sopra citato, la UE ha finanziato una serie di progetti legati alla governance ed anche il Consiglio Europeo è stato sempre attivo nel settore. In seguito a una riunione dei ministri dello sport nel novembre del 2016 è stata richiesta più cooperazione tra organizzazioni governative e le parti interessate nel settore dello sport. Dunque, la corruzione ostacola lo sport e minaccia il suo benessere economico. L’implementazione di programmi antidoping di best practice è un procedimento necessariamente complesso e costoso, che richiede l’uso delle più recenti tecnologie per le analisi mediche, una logistica sofisticata, i processi legali rigorosi e volontà politica di punire i soggetti che violano il codice. Il punto di vista di I Trust Sport su alcune delle attuali priorità dei programmi antidoping riguardano: 1. qualità piuttosto che quantità. Destinare le risorse dove è possono produrre il maggior effetto possibile; 2. raccolta di informazioni come ausilio ai test. Alcuni dei casi di doping più importanti sono stati scoperti grazie a informatori piuttosto che attraverso i test antidoping; 3. rispetto dei diritti degli atleti. Anche se gli atleti devono accettare di sottoporsi ai test antidoping per poter competere, i regolamenti sui test devono essere adeguati ed efficaci e devono rispettare i diritti degli atleti; 4. finanziamenti necessari. Sia i governi sia gli sponsor più responsabili hanno il dovere di pagare per difendere la pulizia dello sport da cui sperano di trarre vantaggio; 5. indipendenza. Troppo spesso le entità sportive nazionali o internazionali e persino governi sono sembrati restii a sanzionare le proprie star, invece, l’effettuazione dei test e delle sanzioni dovrebbe essere svolta indipendentemente dall’intervento delle entità sportive; 6. test di campioni storici delle sostanze organiche. I campioni raccolti sia durante sia fuori dalle competizioni dovrebbero essere congelati per eseguire nuovi test ad anni di distanza, allorquando la tecnica scientifica potrebbe essere migliorata; 7. responsabilità più chiare. Le responsabilità dei diversi attori nazionali ed internazionali nell’antidoping non sono chiare. Se i “beneficiari” ultimi del regime antidoping sono identificati (atleti, il grande pubblico e/o un altro gruppo) allora il disegno istituzionale del regime antidoping può prenderli pienamente in considerazione. Bisognerebbe definire con maggior precisione il ruolo e il raggio d’azione di ogni stakeholder.

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Anche se il problema delle combine è riconosciuto in tutto il movimento sportivo e siano stati elaborati programmi educativi e altre misure, la limitata risposta riscontrata in molti casi suggerisce che non sempre la gravità del rischio venga riconosciuta. Il punto di vista di I Trust Sport su alcune delle attuali priorità nella lotta alla manipolazione delle competizioni è così classificabile: 1. sono necessari una maggior cooperazione e condivisione di informazioni a livello internazionale tra governi e forze dell’ordine, tra organismi sportivi con controlli dell’industria del gioco d’azzardo; 2. la good governance a livello generale è una componente importante nella lotta alla manipolazione delle competizioni, sia essa legata al gioco d’azzardo o a obiettivi di natura sportiva; 3. Attualmente è in corso un certo tipo di monitoraggio nelle maggiori leghe sportive per individuare schemi sospetti di scommesse. È necessario continuare la strada intrapresa ed evolvere la lotta; 4. lo status legale della corruzione nell’ambito dei risultati sportivi varia considerevolmente in base al mercato, rendendone difficile il perseguimento. L’obiettivo finale dovrebbe essere l’armonizzazione della legislazione; 5. l’industria del gioco d’azzardo dovrà pagare una quota rilevante dei costi legati alla lotta alla manipolazione delle competizioni.

4. Prospettive de iure condendo. Nell’ambito dell’ordinamento sportivo si era segnalata la non perfetta omogeneità tra gli Organi di Giustizia delle Federazioni e gli Organi di Giustizia del CONI. Il punto da risolvere riguardava lo “strapotere del CONI”, che doveva essere amalgamato con le funzioni delle Federazioni, allo scopo di evitare che le decisioni adottate da queste ultime fossero ritenute un semplice “passaggio procedurale” prima dell’approdo alla definitiva soluzione delle questioni insorte. In breve, TNAS e Alta Corte di Giustizia Sportiva non hanno reso secondo le previsioni. Da qui la necessità di istituire due organi in sostituzione di quelli precedenti anche indicati: nascono, così, la Procura Generale dello Sport e il Collegio di Garanzia dello Sport. Dopo anni di immobilismo, finalmente la Giunta CONI compie il primo passo verso la riforma della Giustizia Sportiva. Lo scopo da perseguire, e possibilmente da raggiungere, risultava quello di limitare le controversie complesse, i cui effetti si propagavano sia nell’ordinamento sportivo, sia nell’ordinamento statale. Viene dunque istituito presso il CONI, in posizione di autonomia e di indipendenza, il Collegio di Garanzia dello Sport, organo di ultimo grado della giustizia sportiva, cui è demandata la cognizione di controversie decise in via definitiva in ambito federale, ad esclusione di quelle in -materia di doping; -l’irrogazione di sanzioni tecnico/sportive di durata inferiore a 90 gg. e di sanzioni pecuniarie fino a 10.000 Euro. In sostanza, ora l’ultimo grado di giustizia in materia sportiva è rappresentato dal Collegio di Garanzia dello Sport, cui è possibile proporre ricorso avverso tutte le decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento sportivo, emesse dagli Organi di Giustizia Federale per: 1) violazione delle norme del diritto 2) omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Quando il Collegio di Garanzia dello Sport riforma la decisione impugnata, decide in tutto o in parte la controversia, oppure la rinvia all’organo di giustizia federale competente che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi entro 60 giorni, applicando il principio dichiarato

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dalla Corte. In tal caso non è ammesso nuovo ricorso salvo che per violazione del principio di diritto. La riforma della giustizia sportiva varata dal CONI si è mossa in una duplice direzione: da una parte l’istituzione di due nuovi organi di giustizia sportiva operanti presso il CONI, cioè il Collegio di Garanzia dello Sport e la Procura Generale dello Sport, destinati a sostituire l’Alta Corte di Giustizia Sportiva ed il Tnas, dall’altra, l’adozione del Nuovo Codice di Giustizia Sportiva. L’esigenza che ha condotto il legislatore ad attuare tale riforma risiede nella necessità di dettare regole univoche per tutte le Federazioni sportive Nazionali. Il processo sportivo, dunque, dovrà svolgersi secondo le stesse regole in tutti i vari ordinamenti federali. D’ora in poi le Federazioni continueranno a mantenere ciascuna un proprio codice di giustizia e a stabilire specifiche previsioni in materia di diritto sostanziale, in funzione della peculiarità delle discipline sportive di riferimento, ma tutte saranno assoggettate alla disciplina univoca prevista dal nuovo Codice della Giustizia Sportiva. La recente riforma si caratterizza per un impatto diretto e immediato nei confronti dei sistemi di giustizia previsti dalle singole Federazioni. Il compito del legislatore è, appunto, quello di uniformare il più possibile gli ordinamenti di tutte le Federazioni e di assicurare la massima celerità possibile quanto alla definizione dei procedimenti, con la determinazione di tempi certi, abbreviati ed uniformi. In tutte le Federazioni saranno previsti non più di due gradi di giustizia. A garantire la celerità dei procedimenti e la certezza dei tempi del giudizio, si segnala la determinazione di limiti chiari, di rinvii delle udienze e la possibilità di ricorrere al “patteggiamento”, sia a seguito del deferimento che a fronte di mera attività di indagine. Un ulteriore aspetto sul quale si è focalizzata l’attenzione del legislatore sportivo riguarda la necessità di garantire un processo il più equo e giusto possibile, mediante la possibilità di impugnare le delibere federali. I PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO: Le Federazioni sportive nazionali e le discipline sportive associate sono tenute, dunque, ad adeguare i propri Statuti e Regolamenti ai Principi di Giustizia Sportiva emanati dal Consiglio Nazionale del CONI. Gli Statuti ed i Regolamenti Federali devono assicurare la corretta organizzazione delle attività sportive, il rispetto del “fair play”, la decisa opposizione ad ogni forma di illecito sportivo, di frode sportiva, di violenza fisica e verbale e di corruzione. A tal fine, sono istituiti specifici organi e sono regolati appositi procedimenti di giustizia sportiva, secondo le modalità definite dal Codice di giustizia sportiva. Altra novità di rilevanza capitale concerne la punibilità di coloro che, seppur non più tesserati, siano responsabili della violazione dello Statuto e delle norme Federali per i fatti commessi in costanza di tesseramento. Inutile sottolineare l’importanza di questa disposizione che, concretamente, vanifica l’allontanamento volontario dall’ordinamento sportivo con l’unico scopo di sottrarsi alle sanzioni previste a seguito del compimento di un determinato comportamento. La norma rubricata “Principi del giusto processo” costituisce la disciplina più importante in tema di giustizia sportiva, in quanto capace di edificare intorno ad una giurisprudenza di stampo domestico alcuni fattori solitamente legati all’esercizio della giurisdizione ad opera dello Stato. Si assiste ad una sorta di “civilizzazione” della giustizia sportiva, attraverso la quale creare una rete di garanzie idonee a sostenere un procedimento, sì autonomo ed indipendente rispetto a quello statale, ma accomunato ad esso dall’adozione di massime costituzionali. Tutti i procedimenti di giustizia sportiva, infatti, garantiscono l’effettiva osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo e la piena tutela dei diritti e degli interessi dei tesserati, degli affiliati e degli altri soggetti dal medesimo riconosciuti. Nello specifico, in ciascun processo sportivo devono trovare applicazione i principi della parità delle parti, del contraddittorio, del diritto di difesa, della terzietà ed imparzialità degli organi giudicanti, della ragionevole durata del pro-

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cesso e gli altri principi del giusto processo. Tendenzialmente, però, tali principi non hanno trovato piena attuazione rispetto agli obiettivi perseguiti dallo Statuto. Da qui l’esigenza di revisioni periodiche del sistema per un adeguamento alle esigenze dell’intero settore sportivo ed ai principi ispiratori del sistema di giustizia ordinaria. Tutte le decisioni devono sempre essere motivate e pubbliche. Il giudice e le parti sono tenuti a redigere i provvedimenti in maniera chiara e sintetica. Per quanto non disciplinato, gli organi di giustizia conformano la propria attività ai principi ed alle norme generali del processo civile. LE NECESSITÀ DELLA RIFORMA: Il processo sportivo è un tipico esempio di processo inquisitorio, in quanto l’Accusa, rappresentata dal Procuratore Federale, detiene poteri decisori. Primo tra questi è il potere di archiviazione, e in tal caso il Procuratore è anche giudice e decide egli stesso. Vi è una piena identificazione tra Accusa e Giudice. C’è poi il potere di deferimento, nel senso che il Procuratore Federale non chiede ad un Giudice (in quanto non previsto nel processo sportivo) il rinvio a giudizio, ma lo effettua egli stesso. L’unico potere che manca al potere di riferimento è quello di pronunciare sentenze di condanna o di assoluzione dei deferiti. Egli decide se e chi mandare a processo, quindi con l’archiviazione assolve senza processo, con il deferimento manda a processo per ottenere la condanna da un Giudice. Queste funzioni, però, dovrebbero essere ricoperte dal Giudice delle Indagini, figura non contemplata dall’ordinamento sportivo ma importante perché controlla le richieste della stessa Procura Federale ed evita molti deferimenti, garantendo maggiore celerità al giudizio sportivo. Con l’udienza filtro, quindi, il processo sportivo, finora contraddistinto dalla segretezza e dall’esclusività delle indagini della Procura Federale, spalancherebbe le porte al contraddittorio tra le parti prima di decidere se sia necessario il deferimento dell’incolpato davanti al Collegio Giudicante. Ecco che farebbe la sua comparsa, per la prima volta, la Difesa per contrastare le richieste della Procura Federale. Il processo sportivo, come anticipato, è basato inizialmente sul modello inquisitorio, quindi i verbali della Procura Federale e le informative di polizia costituiscono prove utilizzabili. Non vige l’obbligo del contraddittorio per deferire a giudizio, né l’obbligo di accertamenti su quanto dichiarato dall’incolpato, inoltre, il collegio giudicante è libero di pronunciare una condanna e non esiste una lista di testi da sentire in contraddittorio con le difese. Tutto ciò è escluso per motivi di celerità. Ma allora, se non sussiste contraddittorio sulla formazione delle prove, come è possibile parlare di imputato e difensore? Ci sono le prove costruite dall’Accusa, con domande fatte e non fatte agli indagati, ma del processo inquisitorio resta solo il valore di prova delle indagini dell’Accusa. I NUOVI ORGANI DELLA GIUSTIZIA SPORTIVA: Come già in parte anticipato, per garantire l’autonomia delle singole Federazioni, responsabilizzare gli organi di giustizia Federale e favorire il rispetto del principio di legalità dell’ordinamento, sono state introdotte importanti novità in seno allo Statuto del CONI, prima tra tutte l’abolizione dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva e del TNAS, che lasciano spazio al Collegio di Garanzia dello Sport ed alla Procura Generale dello Sport. Quali fattori hanno determinato il cambiamento? Di certo le numerose critiche piovute sui primi due organi, rei di infliggere pene troppo levi. E come trascurare l’anomalia dei tre giudizi di merito, in contrapposizione ad un sistema che invece esige una fase di legittimità in funzione nomofilattica? Prima della riforma, infatti, l’ordinamento sportivo risultava l’unico a portare in dote tre gradi di giudizio di merito.

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Con l’istituzione dei nuovi organi vengono poste le basi per un sistema sanzionatorio che assicuri giustizia e sia nel contempo celere ed efficiente. Da un lato, quindi, ciascuna Federazione è dotata di Giudici Sportivi, nazionali e territoriali, che si pronunciano su fatti accorsi durante la gara e sulla regolarità della medesima. Parallelamente, il CONI prevede l’istituzione di Giudici Federali, presso ciascuna Federazione, individuati nel Tribunale Federale in primo grado e nella Corte Federale d’Appello. Tali organi giudicano sui deferimenti presentati dalla Procura Federale e su tutte le altre controversie diverse da quelle riservate ai Giudici Sportivi. Per la prima volta i gradi interni ad ogni singola disciplina saranno inderogabilmente due. Il terzo grado, costituito dal Collegio di Garanzia, valuterà solo la legittimità del percorso della giustizia federale-endofederale e ricalcherà le funzioni che nell’ordinamento dello Stato sono proprie della Corte di Cassazione. In ordine alla Procura Generale si tratta di una struttura istituita, in piena autonomia ed indipendenza, per coordinare e vigilare le attività inquirenti e requirenti svolte dalle procure federali. Nei casi in cui emerga un’omissione che può compromettere l’esercizio dell’azione disciplinare o se vi sia un’archiviazione non ritenuta ragionevole, la stessa Procura potrà avocare a sé il processo, senza però ledere l’autonomia della singola federazione. L’ INVERSIONE DELL’ONERE PROBATORIO: Una sostanziale differenza tra gli ordinamenti, sportivo e statale, riguarda l’onere della prova. Nell’ambito della giustizia ordinaria il presupposto necessario da cui partire è la presunzione di innocenza dell’imputato. Sarà dunque compito dell’accusa dimostrare la colpevolezza dello stesso. Nell’alveo dell’ordinamento sportivo, invece, vale il principio inverso, secondo cui è l’incolpato a dover provare la propria innocenza. Nel processo sportivo, inoltre, la pena è immediatamente esecutiva e non sussiste l’obbligo di contraddittorio tra le parti in aula, neppure se richiesto dalla difesa, ma è a discrezione dell’accusa.

5. Conclusioni. Alla luce di quanto finora esposto, ritengo opportuno giungere ad alcune personali considerazioni in ordine all’importanza della riforma. Nel processo sportivo, l’esigenza di arrivare al pronunciamento di sentenza in tempi celeri, onde evitare possibili slittamenti dei campionati di categoria, deve essere maggiormente coordinata col rispetto dell’art. 111 Cost. e con le garanzie difensive dei soggetti inquisiti. Questi ultimi hanno il diritto di predisporre una concreta attività difensiva, come accade nella fase dibattimentale del processo penale. È proprio la mancanza di un’effettiva linea difensiva a determinare la discrasia tra le risultanze dei processi sportivi, già terminati, e quelle dei processi ordinari, che si concluderanno molto più tardi. Risulta quantomeno necessario consentire l’audizione di testimoni chiave e incolpati accusatori, nel contraddittorio tra le parti, allo scopo di favorire il confronto tra accusa e difesa e di evitare disparità. E come non sottolineare l’importanza della presenza di un giudice delle indagini deputato a svolgere valutazioni preliminari circa la fondatezza delle richieste di archiviazione o deferimento della Procura Federale? Andrebbe inoltre rivisto il principio dell’inversione dell’onere probatorio, che comporta una disparità di trattamento a favore dell’accusa, e dovrebbero essere vagliate con maggiore attenzione le dichiarazioni rilasciate dai cd. “collaboratori”. Alcuni di essi hanno chiesto ed ottenuto pene lievi, scegliendo di non difendersi e basando la propria linea difensiva su affermazioni poco attendibili, ma che non possono essere contrastate se non mediante la parola altrui, a discapito di altri che invece si sono difesi e hanno ricevuto un trattamento più severo. Benvenuti nel paradosso della giustizia sportiva. 55



Giurisprudenza

nazionale

Corte di Cassazione, sez. VI penale, sentenza 11 dicembre 2018 n. 4486 (dep. 29 gennaio 2019), Pres. Fidelbo – Rel. Calvanese Corruzione per l’esercizio della funzione – Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – Legge Severino Gli eventi di sistematica corruzione noti all’esercizio giudiziario come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, essenzialmente caratterizzati da un accordo corruttivo che vede sempre coinvolto il pubblico ufficiale nel compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, devono essere rapportati alla previsione della nuova fattispecie dell’art. 318 cod. pen., sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano riconducibili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio.

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista

Corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio: evoluzione della fattispecie alla luce della Riforma Severino (Cass. 4486/2019) Con la Pronuncia n. 4486 del 2019 la sesta sezione della Corte di Cassazione si è espressa sul rapporto tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) alla luce delle modifiche apportate dalla cd. Legge Severino (Legge 6 novembre 2012, n. 190). La Suprema Corte evidenzia, anzitutto, la riformulazione operata dalla Legge 6 novembre 2012, n. 190, secondo cui il discrimine tra le due ipotesi corruttive è dato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità passando da una situazione di pericolo ad una fattispecie di danno, in cui si esplicita la massima offesa del reato. In effetti, mentre la corruzione così come prevista dall’ art. 318 c.p. incide sull’esercizio della funzione del pubblico impiegato che si pone a disposizione del privato previo ricevimento di una dazione indebita condizionando, di contro l’art. 319 c.p. prevede il compimento di uno specifico atto contrapposto agli obblighi cui è tenuto l’impiegato realizzando una attività corruttiva, uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio e meritando quindi una pena più severa. In concreto, in riferimento allo specifico caso in esame, il Tribunale di Roma confermava il provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Roma che aveva applicato ad un consigliere regionale la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui


Giurisprudenza nazionale

agli artt. 110, 319 e 321 c.p., avendo lo stesso ricevuto da un imprenditore la somma di 25.000 euro per il compimento di singoli atti e comportamenti riconducibili al suo ufficio di consigliere regionale e in generale per l’asservimento delle sue funzioni agli interessi del gruppo imprenditoriale a lui riconducibile, in violazione dei propri doveri istituzionali di imparzialità e correttezza. A fronte di tale pronuncia l’imputato, a mezzo dei suoi legali, proponeva ricorso in Cassazione, adducendo che la violazione di legge in relazione all’art. 319 c.p. non poteva essere ritenuta conforme a quanto concretamente verificatosi, e sostenendo che la sua condotta avrebbe al più configurato il delitto ex art. 318 c.p., trattandosi, a suo dire, di una generica ed indefinita messa a disposizione per il futuro per una funzione che in ogni caso il ricorrente non avrebbe rivestito (quella assessorile) e che all’atto del presunto accordo corruttivo non risultava neppure utile all’imprenditore in quanto lo stesso non avrebbe avuto bisogno di nulla dalla Regione in quella circostanza. Al Consigliere regionale, imputato, inoltre, era stata disposta la misura degli arresti domiciliari in quanto ritenuta sussistente, sia dal GIP che dal Tribunale del Riesame di Roma nel provvedimento ricorso in Cassazione, l’ipotesi corruttiva più grave descritta dall’art. 319 c.p., legata all’atto contrario ai doveri del suo ufficio pubblico, per aver ricevuto dall’ imprenditore il contributo di 25.000 euro, a mezzo di versamento di tale somma ad una società a lui direttamente riconducibile, per il compimento di atti propri del suo ufficio di Consigliere regionale; ed in generale all’asservimento delle sue funzioni agli interessi del corrompente e del suo gruppo imprenditoriale. In tale prospettiva, la tesi difensiva del ricorrente mirava, essenzialmente, proprio a sostenere l’impossibilità di fornire all’imprenditore alcuna utilità. Nel corso del giudizio di legittimità la misura cautelare era stata poi mutata nell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e con la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio dell’ufficio pubblico ricoperto. Tuttavia, l’interesse dell’indagato all’impugnazione era comunque giustificabile anche se durante l’iter processuale, la misura restrittiva era stata sostituita con altra, chiaramente, meno afflittiva. Il principio di diritto affermato dalla Sesta Sezione della Corte Suprema nella vicenda avente ad oggetto, secondo quanto prospettato dall’accusa, il c.d. metodo P., ossia un programma illecito finalizzato ad elargire somme di denaro ai politici fino a quando i vari progetti in corso, tra i quali quelli del “Nuovo stadio della Roma” non avessero ottenuto tutte le autorizzazioni è stato così interpretato: i fenomeni di corruzione sistematica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come «messa a libro paga del pubblico funzionario» o «asservimento della funzione pubblica agli interessi privati» o «messa a disposizione del proprio ufficio», tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata – sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie della corruzione propria, per atti contrari al proprio ufficio, prevista dall’art. 319 c.p. – devono essere ricondotti alla previsione di corruzione impropria ex art. 318 c.p., sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 4486/2019, depositata il 29.1.2019). La nuova formulazione della fattispecie, rubricata “corruzione per l’esercizio della funzione”, ha inciso notevolmente nella struttura della stessa, mutandone la natura. Nella nuova tipizzazione il legislatore ha voluto ricondurre ad essa tutte le forme di “compravendita della funzione”, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. In quest’ottica è quantomeno doveroso ricordare che antecedentemente alla riforma non era del tutto chiara la qualificazione di quelle condotte di “asservimento” della funzione da parte

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Corruzione per l’esercizio della funzione e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio

del pubblico ufficiale che si poneva, dietro compenso, “a disposizione” del privato in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza. Con la Pronuncia in esame si può asserire che la Corte ha tentato di far fronte ai limiti applicativi desumibili dalla previgente normativa codicistica, così da rimpiazzare l’evidente differenza tra diritto positivo e diritto vivente generatosi in relazione al concetto di atto di ufficio, nonché individuando in senso sanzionatorio tutte quelle ipotesi di “traffici” senza dubbio riconducibili all’esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario. La Suprema Corte con la sua attività evidenzia come il nuovo testo dell’art. 318 cod. pen. non ha proceduto, in effetti, ad alcun tipo di cancellazione o sostituzione della figura delittuosa in esame, né le condotte previste dalla precedente formulazione neanche in modo parziale e ha, invece, chiaramente determinato un’estensione dello spazio di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell’ufficio, oggetto di “retribuzione”, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319 cod. pen, una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata in sé da una logica basata su una sorta di rapporto di interdipendenza tra prestazione e controprestazione atta a far fronte ai limiti applicativi che il vecchio testo presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di taluni comportamenti pubblici oggetto di mercimonio. Il nuovo input applicativo desumibile dalla Pronuncia è, dunque, riscontrabile in un “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, prescindendo dal fatto che tale esercizio possa avere carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio. In definitiva, l’art. 318 cod. pen. contiene i divieti diretti al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli. Così, il legislatore ha chiaramente voluto, secondo la logica del pericolo presunto, prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e garantire di contro il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318 cod. pen., rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio. Il discrimine tra le due ipotesi corruttive si ferma pertanto rispetto alla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato. Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che in modo “generico” a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa. Con la sentenza in esame dunque in tema di corruzione per l’esercizio della funzione a seguito della riformulazione operata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190, la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen., si caratterizza essenzialmente come reato di pericolo presunto volto a prevenire la compravendita degli atti di ufficio e a garantire il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, distinguendosi, così in relazione ad una sorta di criterio di progressione criminosa, dalla fattispecie di cui all’art. 319 cod. pen. che integra, invece, un reato di danno, nel quale la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza la concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando perciò una pena più severa.

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Giurisprudenza nazionale

La nuova formulazione dell’art. 318 c.p. non ha eleminato delle condotte prima sanzionate, ma tracciando e marcando in maniera definita i confini tra i vari accordi corruttivi, in adesione della richiesta determinatezza della legge penale, ha esteso l’area della punibilità in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto d’ufficio, il più generico collegamento della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio delle funzioni o poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In tal modo, si sono configurati i fenomeni corruttivi, prima non riconducibili nell’area dell’art. 319 c.p., in una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata da una logica di sinallagma, così superando i limiti applicativi in quelle ipotesi dove sembrava più sfumato il comportamento pubblico oggetto del mercimonio. In definitiva, si sposta l’attenzione dall’atto e dal pactum sceleris all’esercizio contra legem della funzione. Non avendo fatto corretta applicazione dei suindicati principi, la gravata ordinanza viene annullata con rinvio per un nuovo esame al Tribunale del riesame di Roma. Marilisa De Nigris

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internazionale

Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC) Genocidio – crimini contro l’umanità – Tribunale penale misto – Convenzione di Ginevra 1948 – Khmer Rossi La condanna per genocidio dei leader dei Khmer rossi, pur rappresentando un precedente significativo per il diritto penale internazionale, mostra alcuni limiti di una definizione del crimine probabilmente in parte insoddisfacente per le esigenze di giustizia contemporanee.

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La condanna dei Khmer Rossi: alcune riflessioni sui limiti della definizione di genocidio Lo scorso novembre sono stati condannati per genocidio, dalla Pre-Trial Chamber del Tribunale speciale della Cambogia1, xxx, braccio destro di Pol Pot, e xxx, capo di Stato cambogiano. I due erano già stati sanzionati con l’ergastolo in un separato caso (Case 002/01), davanti al medesimo Tribunale, per crimini contro l’umanità. La sentenza (ancora non pubblicata) rappresenta una decisione di fondamentale importanza per la giustizia internazionale, in quanto è la prima condanna per genocidio emessa da un tribunale misto2. Nel Summary of Judgement (sintesi di quella che sarà la sentenza definitiva) vengono brevemente riportate le motivazioni alla base del provvedimento del quale può essere evidenziato, in prima battuta, un limite di fondo. In particolare, un aspetto critico riguarda la circostanza del riconoscimento del genocidio per i crimini commessi nei confronti di sole due delle (diverse) “minoranze” perseguitate: il gruppo vietnamita e quello musulmano dei Cham. Peraltro per i reati contro quest’ultimo gruppo non è stata riconosciuta la responsabilità di xxx.

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Il Tribunale in parola (ECCC – Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia) è un tribunale misto, istituito nel 2006 a seguito di accordo tra il Regno di Cambogia e le Nazioni Unite per la persecuzione di crimini commessi durante il periodo della Kampuchea Democratica (tra il 17 aprile 1975 al 6 gennaio 1979). G.A., Resolution 57/228(B),13 maggio 2003. 2 Sul crimine di genocidio si rimanda alla giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e del Tribunale penale internazionale per il Ruanda: ICTR, Akayesu, TC Judgement, 1998, para. 512-514; ICTR, Kayishema & Ruzindana TC Judgement, 2001, para. 98; ICTY, Krstic AC Judgement, 2004, para. 25-26; ICTY, Krstic TC Judgement, 2001, para. 589-590; ICTY, Stakic AC Judgement, 2006, para. 80; ICT, R Seromba, TC Judgement, 2006, para. 319; ICTR, Ndindabahiz AC Judgement, 2007, para. 135; ICTY, Jelisic TC Judgement, 1999, para. 80; ICTR, Niyitegeka AC Judgement, 2004, para. 50.


Giurisprudenza internazionale

La questione attiene la definizione stessa del crimine di genocidio e le sue implicazioni. La Convenzione di Ginevra del 1948 sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio prevede che “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c)sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti ad impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro” (art. 2). Dalla lettura dell’articolo si evince che, oltre al dolo specifico dell’intenzione di distruggere un determinato gruppo, è richiesto che quest’ultimo sia stato preso di mira sulla base di un’appartenenza nazionale, etnica, razziale o religiosa. Ed è soprattutto per quest’ultimo aspetto che il Tribunale speciale non ha riconosciuto come genocidio parte dei crimini commessi dal regime dei Khmer Rossi, in quanto non ricadenti nell’ambito di applicazione della Convenzione. Si pensi ad esempio alle persecuzioni del gruppo delle persone “istruite e abitanti delle città”, appartenenti alla borghesia, definite “il popolo nuovo” dai Khmer Rossi. A differenza del “vecchio popolo”, “il nuovo popolo” non aveva aderito alla rivoluzione del 1975 e pertanto, in un’ottica di “epurazione” sociale, venne trasferito forzatamente in massa nelle campagne cambogiane. Questo gruppo, tuttavia, non rientra nella classificazione elencata nella Convenzione del 1948, poiché la distinzione operata dai Khmer Rossi era basata sulla “classe sociale” degli individui3 e non sulla religione, sulla nazionalità, sull’etnia o sulla razza. La definizione del crimine di genocidio, infatti, è troppo “restrittiva” per poter ricomprendere tutti i fatti criminali dei Khmer rossi. Quindi, sebbene le politiche di discriminazione siano state le medesime sia nei confronti delle minoranze che verso determinati gruppi all’interno della maggioranza Khmer, il genocidio è stato riconosciuto solo per i delitti perpetrati contro le prime. Da notare che nel Summary of Judgement si legge “La Camera rileva che durante il periodo della Kampuchea Democratica esisteva una politica di discriminazione contro i seguenti gruppi, al fine di creare una società atea e omogenea senza divisioni di classe abolendo tutte le differenze etniche, nazionali, religiose, razziali, di classe e culturali: Cham, Vietnamiti, Buddisti ed ex funzionari della Repubblica Khmer (inclusi funzionari pubblici e personale militare) e le loro famiglie”4. I giudici, quindi, sembrerebbero all’inizio riconoscere come possibili (ed ulteriori rispetto alla definizione convenzionale) caratteri distintivi dei gruppi perseguitati quello della classe sociale di appartenenza e quello culturale. Sarebbe potuto rientrare in dette categorie il “nuovo popolo” dei borghesi. Tuttavia, nel prosieguo del ragionamento (sintetizzato), i gruppi di fatto poi individuati dalla Corte come target di genocidio appartengono “solamente” a minoranze

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“Le persone costrette a lasciare Phnom Penh erano prevalentemente civili tra cui uomini, donne, anziani, bambini e monaci. Anche i medici e gli infermieri furono fatti partire; così come i pazienti ospedalieri, i feriti e gli ammalati e le madri che avevano appena partorito. Intere famiglie furono costrette a lasciare Phnom Penh sebbene spesso i membri della famiglia fossero separati l’uno dall’altro”, Indictment – Closing Order 002/19-09-2007-ECCCNo:D427, para. 225. 4 ECCC, Trial Chamber – Summary of Judgement Case 002/02, 16 novembre 2018, para. 26.

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La condanna dei Khmer Rossi: alcune riflessioni sui limiti della definizione di genocidio

religiose (Cham) e nazionali (Vietnamiti), mentre per gli altri due vengono riconosciuti i crimini contro l’umanità. Il limite risiede, come detto, nella definizione stessa della Convenzione del 1948 e, soprattutto, in quella contenuta nello “Statuto” della ECCC (art.4)5 che riproduce le stesse classificazioni dei gruppi della prima e che sono, per il principio del nullum crimen sine lege, vincolanti per la Corte stessa6. Non può, quindi, essere mosso un “rimprovero” concreto al Tribunale; semmai la sentenza stessa dovrebbe essere un motivo per ripensare alla categorie target che appaiono per alcuni versi inadeguate ai tempi odierni7. Solo per citare un esempio, si pensi ai desaparecidos ed alla repressione massiva degli oppositori politici in alcuni Paesi dell’America Latina. Marta Patacchiola

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“The acts of genocide, which have no statute of limitations, mean any acts committed with the intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group […]” (art. 4), Law on the Establishment of the Extraordinary Chambers, with inclusion of amendments as promulgated on 27 October 2004 NS/RKM/1004/006). 6 In dottrina diversi Autori hanno proposto una definizione di genocidio che ricomprendesse anche i gruppi “politici”, Cfr. L. Kuper, The prevention of genocide, Londra, 1985, 16; H. Fein, Genocide: a sociological perspective, Londra, 1993, 23-24 7 Il mancato inserimento dei gruppi politici tra le “minoranze” discriminabili nella Convenzione è il risultato di un compromesso durante i lavori preparatori alla stessa. Alcune delegazione temevano che la previsione della discriminazione per motivi politici anche per il crimine di genocidio avrebbe comportato una pericolosa ingerenza della comunità internazionale negli affari statali interni, v. L. Kuper, Genocide. Its political use in the twentieth century, New Haven, 1981, 19-39.

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Giurisprudenza

europea

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Sentenza Beuze c/ Belgio, 9 novembre 2018. Ricorso n. 71409/2010 Diritto alla difesa – difesa tecnica – Art. 6 CEDU – Presenza del difensore – Giusto processo Sussiste la violazione dell’art. 6 par. 1 e 3 CEDU nei casi in cui, nella fase delle indagini, la legislazione nazionale deroghi, senza giustificati motivi, alla necessaria presenza di una difensore, quindi della difesa tecnica, prima e durante l’interrogatorio di un indagato. Il diritto alla difesa tecnica sussiste infatti sin dal primo interrogatorio di garanzia.

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Il fondamentale diritto alla difesa Riflessioni a seguito della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera, Sentenza Beuze c/ Belgio, 9 novembre 2018. Ricorso n. 71409/2010 Sommario: 1. Il Caso. – 2. Il diritto alla difesa secondo la Corte EDU. – 3. Conclusioni.

1. Il Caso. Il diritto sancito al nostro art. 24 Cost., ovvero il diritto all’assistenza e difesa tecnica di un avvocato in ogni stato e grado del procedimento, che trova riscontro a livello europeo nell’art. 6 comma III lett. C), non ha trovato ugual applicazione ed interpretazione all’interno del territorio europeo. Lo dimostrano le sentenze del 11 febbraio 2008, Salduz c. Turchia1, e del 18 febbraio 2014, Bayram Güçlü c. Turchia2, in cui il Giudice europeo aveva ravvisato, la violazione

Grande Camera, sentenza del 27 novembre 2008, ricorso n. 36391/02, Salduz c. Turchia. Il Ricorrente all’epoca dei fatti ancora minore veniva accusato di favoreggiamento del PKK (organizzazione curda illegale in Turchia) – Competenza delle corti di sicurezza, innanzi alle quali non v’è diritto all’assistenza legale sin dal momento dell’arresto in deroga alle disposizioni generali . Condanna sulla base delle dichiarazioni rese sotto pressione alla polizia per violazione del diritto ad un equo processo (art. 6, par. 1, CEDU) – La Convenzione obbliga a garantire l’assistenza di un legale sin dal primo interrogatorio a meno che circostanze particolari non giustifichino una restrizione di tale diritto. Anche in quest’ultima ipotesi le garanzie della difesa non possono essere eccessivamente limitate, come nel caso in cui dichiarazioni rese in sede di interrogatorio di polizia, senza possibilità di accedere ad un legale, costituiscono la base di una condanna. 2 CEDU sent. 18 febbraio 2014 Ricorso 31535/04. Bayram Güçlü è un cittadino turco condannato per 1


Giurisprudenza europea

dell’art. 6 comma 1 e 3 lett. C) della Convenzione, a causa dell’assenza del difensore durante gli interrogatori svolti dalla polizia nelle fasi preliminari di alcuni procedimenti nei confronti di sospetti terroristi. Ancora recentemente la Gran Camera con la sentenza del 9 novembre 2018 è tornata su questo tema, condannando il Belgio per violazione all’art. 6 CEDU per non aver garantito l’indisponibile assistenza di un difensore ad un soggetto imputato di omicidio. Il caso trae, infatti, origine dal ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di P. B., cittadino belga arrestato in Francia il 17 dicembre 2007, in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dal Belgio, dove era stato accusato di aver premeditatamente assassinato la sua ex compagna. Il sig. B., sin dal processo del merito, aveva lamentato la violazione dell’art. 6 CEDU, poiché a seguito dell’arresto, ricondotto alle autorità belghe, era stato sottoposto ad interrogatorio, nel corso del quel, a dire dell’imputato, sotto pressioni da parte dell’autorità, aveva rilasciato dichiarazioni auto-incriminatorie o comunque idonee a confermare i fatti per ci si procedeva. Nello stesso giorno veniva esaminato anche dal Giudice delle indagini preliminari, al quale il sig. B. confermava le dichiarazioni rilasciate alla polizia e negava di aver provveduto alla nomina di un difensore. Il Giudice disposto l’espletamento di un esame psichiatrico, formulava l’imputazione di omicidio premeditato a carico del ricorrente ed ordinava il trattenimento in custodia, soltanto a seguito della formulazione dell’imputazione, veniva consentito al sig. B. consultare il proprio legale. Occorre, infatti, ricordare come la giurisprudenza della CEDU ha avuto grande influenza sull’evoluzione delle norme del codice di procedura penale belga, soprattutto in materia di diritto di difesa. Nel periodo dei fatti di causa, e cioè prima della pubblicazione della summenzionata sentenza Salduz, la legislazione belga non prevedeva infatti che l’arrestato, nelle 24 ore precedenti al giudizio di convalida, potesse essere assistito da un avvocato, nemmeno durante gli interrogatori o nel primo esame da parte del giudice delle indagini, né tanto meno che potesse ricevere una consulenza legale che potesse aiutarlo nel corso degli stessi. Tornando ai fatti di causa, il Ricorrente veniva ulteriormente sottoposto ad indagini per nuovi fatti di reato nei primi mesi del 2008 ed esaminato nuovamente dal Giudice per le indagini il 17 marzo 2008, il Ricorrente affermava di aver preso contatti con un avvocato di Bruxelles. Nei successivi interrogatori B. rilasciava dichiarazioni contraddittorie e gli veniva diagnosticato un disturbo sociale della personalità; a giugno 2008 si teneva così una ricostruzione degli eventi sulla scena del crimine, sempre in assenza del difensore, in quanto la legge Belga non richiedeva la presenza di un avvocato nel compimento di alcun atto investigativo. A seguito di ciò, su richiesta del Procuratore, i capi di accusa a carico di B. venivano aumentati a tre. Il ricorrente veniva così rinviato a giudizio avanti alla Corte d’Assise, in quanto la divisione investigativa aveva accertato che, alla luce delle dichiarazioni dei testimoni, dalle risultanze investigative, dalle prove raccolte e dagli esami medico-legali e psichiatrici, vi erano seri indizi della sua colpevolezza. Dinnanzi alla Corte d’Assise, il Sig. B. richiedeva la produzione dei verbali degli interrogatori condotti senza l’assistenza legale, insistendo affinché i successivi atti

traffico di sostanze stupefacenti prima in Olanda – dove sconta 33 mesi di carcere – e poi in Turchia – dove è condannato a 36 anni. Il Sign. Güçlü lamenta un processo ingiusto in Turchia: per un certo periodo non ha avuto possibilità di ricorrere ad un avvocato e la sua condanna si è fondata sulla testimonianze decisive di testimoni che non sono stati sottoposti ad un esame incrociato.

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Il fondamentale diritto alla difesa

processuali venissero annullati e che le richieste della Procura fossero dichiarate inammissibili, per violazione del diritto alla difesa. Egli sosteneva, che il mancato accesso ad un legale, mentre si trovava in custodia della polizia il 31 dicembre 2007 e nei successivi interrogatori ed esami, costituiva una violazione fondamentale dei suoi diritti alla difesa e di conseguenza aveva viziato irreparabilmente il mandato d’arresto a suo carico. Richiamandosi alla giurisprudenza della Corte EDU, ed in particolare alla sentenza Salduz c. Turchia (ricorso n. 36391/2002), B. assumeva che si era consolidato un principio assoluto secondo il quale, dal momento che le restrizioni al diritto di difesa previste dalla legislazione belga avevano natura generale ed obbligatoria e che tali previsioni non rispettavano i parametri dettati dalla Convenzione in materia, non era ammessa, né necessaria alcuna valutazione ad hoc del caso. Tuttavia, la Corte d’Assise rigettava le sue istanze affermando che la giurisprudenza CEDU non garantiva, in maniera assoluta, la presenza di un difensore in tutte le fasi del procedimento penale, che era necessario considerare la correttezza del procedimento nel suo complesso e che il diritto alla difesa sarebbe stato direttamente violato solo nel caso in cui non fosse stato garantito un giusto processo. Sulla base di queste ed altre considerazioni la Corte belga ordinava la prosecuzione del procedimento, che terminava il 9 febbraio 2010 con sentenza di condanna. Il ricorrente proponeva allora ricorso in Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 6.1 e 6.3(c) della Convenzione europea per i diritti dell’uomo, tuttavia la Corte belga di legittimità rigettava il ricorso, ritenendo che le previsioni legislative interne non potevano essere considerate di per sé lesive del diritto al giusto processo, e che al contrario le restrizioni dovevano essere esaminate alla luce di una serie di garanzie legali disponibili al ricorrente, pertanto il processo svolto a carico del sig. B. nel complesso doveva considerarsi equo, anche se nella fase delle indagini, non era stato garantito all’imputato il diritto alla difesa, in considerazioni delle altre garanzie processuali di cui il Ricorrente aveva potuto fruire nel corso del giudizio3.

2. Il diritto alla difesa secondo la Corte EDU. La Corte di Strasburgo già da tempo, con precedenti pronunce, tuttavia aveva sancito l’interpretazione, che l’effettivo esercizio del diritto alla difesa comprenda la c.d. difesa tecnica in ogni stato e grado del procedimento, sia durante la fase delle indagini, si durante lo svolgimento processuale, irrogando sanzioni non soltanto alla Turchia con i casi Salduz e Güçlü, ma anche al Regno Unito, che nel 20164 era stato condannato per aver imposto restrizioni temporanee all’accesso ad un avvo-

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Questa problema era già stato sollevato alla Corte europea, in merito al rispetto dell’art. 6 CEDU, emerge nella già dal 1975 con la sentenza Golder contro Regno Unito. In quell’occasione, la Corte europea si preoccupava di verificare se il primo paragrafo dell’articolo 6 facesse riferimento alla garanzia del giusto processo solo in una istanza già pendente o se riconosceva, in maniera implicita, un diritto d’accesso ai tribunali a tutte le persone per contestare l’applicazione dei loro diritti di carattere civile. Al termine delle proprie valutazioni, la Corte dichiarò che il disposto dell’art. 6 par. 1 offra garanzia non solo in una procedura già in corso, ma che “esso è applicabile a tutte le procedure davanti gli organi che ‘decidono’ sia in materia civile, sia in materia penale, anche quando questi organi non sono delle ‘giurisdizioni’ secondo il diritto interno” (F. SUDRE et C. PICHERAL (dir.), L’extension des garanties du procès équitable hors les juridictions ordinaires : les contraintes européennes, Institut de droit européen des droits de l’Homme, 1992, p. 10). 4 CEDU, Gran Camera, Sentenza Ibrahim e altri contro il Regno Unito del 13 settembre 2016 (n. 50541/08,

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Giurisprudenza europea

cato durante gli interrogatori di polizia degli attentatori di Londra del 2005. Occorre, infatti, ricordare come già dal 10 settembre 2013 il Parlamento europeo aveva approvato la proposta di direttiva della Commissione UE per la disciplina di standard minimi per l’accesso alla difesa, comuni ai 28 Paesi UE. La direttiva 2016/343/UE, emessa il 9 marzo 2016 (in G.U.U.E., 11 marzo 2016, L 65/1)5, disciplina proprio il diritto di accesso al proprio avvocato da parte di un indagato o di un imputato in una procedura penale e rappresenta la terza direttiva volta a determinare una disciplina comune per tutti i Paesi membri, nel processo penale, dopo quelle relative al diritto alla traduzione e interpretazione (2010) e al diritto di informazione nel processo penale (2012). D’altro canto in Belgio, il diritto all’assistenza da parte di un difensore tecnico era molto ristretto, se non del tutto precluso nella fase investigativa, giustificando tale impostazione soprattutto per esigenze di segretezza delle indagini. Tuttavia, a seguito della sentenza Salduz la Corte di Cassazione belga fu più volte chiamata a pronunciarsi su asserite violazioni dell’art. 6 para. 1 e 3 CEDU per l’impossibilità degli accusati di consultare un avvocato durante il periodo di custodia cautelare, nel corso degli interrogatori della polizia e durante il primo esame del giudice. Nel decidere su questo tipo di ricorsi, i Giudici di legittimità affermarono che tale restrizione non costituiva in sé una violazione ai diritti di difesa dell’accusato, ma che il rispetto degli stessi dovesse essere valutato alla luce del procedimento penale nel suo complesso, per mezzo dell’esame delle numerose garanzie procedurali poste a tutela dell’individuo6. In ogni caso, al fine di adempiere ai dettami europei, la legislazione belga venne riformata nel 2011 con il cd. “Salduz Act” e nel 2016 con il cd. “Salduz bis Act”, che introdussero il diritto dell’accusato di consultare un avvocato prima e durante gli interrogatori investigativi, l’avviso di godere del diritto di non auto incriminarsi e di poter scegliere se rendere dichiarazioni, rispondere alle domande oppure rimanere in silenzio durante gli interrogatori. Nel caso di specie, il Ricorrente Sig. B. si doleva del fatto che l’assenza di un difensore durante l’interrogatorio successivo alla consegna alle autorità belghe gli avesse di fatto impedito di essere informato sul diritto a non auto-incriminarsi e sul possibile utilizzo delle sue dichiarazione come prove contro di lui. Come precedentemente affermato, la possibilità di limitare in alcune fasi inziali del procedimento il diritto all’assistenza legale può essere ammissibile solo se giustificato da particolari e motivate esigenze di sicurezza individuale o collettiva, tanto da imporre maggiore segretezza alla fase delle indagini, in ogni caso le prove raccolte in tal modo non saranno comunque utilizzabili nel procedimento. Secondo la sentenza Ibrahim c. Regno Unito, l’assenza di validi motivi darebbe di per sé origine ad una presunzione di violazione dell’art. 6 CEDU. Nel caso di specie, quindi, il semplice accertamento di una restrizione generale ed obbligatoria del diritto all’assistenza legale diveniva sufficiente per stabilire, che vi fosse stata una violazione dei requisiti stabiliti dall’art. 6 della Convenzione. Per B., dal momento che la restrizione aveva carattere normativo, essa aveva dunque irreparabilmente pregiudicato la legalità del procedimento nel suo complesso, anche alla luce del particolare stato di vulnerabilità al momento

50571/08, 50573/08 e 40351/09). 5 Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. 6 Questo era un tentativo di legittimare la limitazione dl diritto alla difesa nella fase iniziale del procedimento, sul complesso della procedura svolta proprio in questa fase le formalità imposte per gli interrogatori, la brevità del periodo di custodia, la possibilità per l’accusato di accedere al fascicolo.

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Il fondamentale diritto alla difesa

dell’arresto e del suo stato psicologico in generale, che lo aveva portato a fare dichiarazioni confuse e contrastanti tra loro. Nell’esaminare il caso di specie, la Corte di Strasburgo ha infatti colto l’occasione per ribadire alcuni principi generali in materia di diritto di difesa: ovvero l’equità del procedimento deve essere valutata alla luce del suo svolgersi complessivo, tuttavia senza escludere che vi possano essere dei fattori specifici decisivi già dalle prime fasi processuali, come l’ingiustificata limitazione al diritto alla difesa L’art. 6 paragrafo 3 esplica infatti i cd. “diritti minimi”, che possono essere considerati quali aspetti specifici del concetto di equo processo ai sensi dell’art. 6 paragrafo 1. Nello specifico, afferma la Corte, il diritto di accesso ad un avvocato, decorre dal momento dell’arresto e costituisce un importante bilanciamento alla vulnerabilità della persona sottoposta a custodia. Se la sentenza Salduz aveva dimostrato che l’applicazione sistematica/codicistica della limitazione al diritto all’accesso ad un avvocato nella fase pregiudiziale non poteva mai essere considerata quale “compelling reason”, ossia un valido motivo giustificante della limitazione, nella sentenza Ibrahim c. Regno Unito si era invece consolidata la qualificazione di un test bifasico da parte della Corte, che prevedeva: i) la verifica di validi motivi per la limitazione all’accesso; ii) nel caso della presenza di validi motivi da ammettere la restrizione, se questa non presentava carattere generale ed obbligatorio, si procedeva all’analisi dell’equità del procedimento nel suo complesso sulla base di una lista non esaustiva di fattori (caso Ibrahim c. Regno Unito), mentre se la restrizione presentava carattere statutario e sistematico, essa era sufficiente ad affermare in via presuntiva la presenza di una violazione all’art. 6 CEDU (Salduz c. Turchia). Con riguardo al caso Beuze, la grande Camera prende, poi, in considerazione il fatto che l’epoca dei fatti risultava precedente alle riforme legislative derivanti dalla giurisprudenza della Corte, esprimendosi così a favore delle riforme adeguatrici del sistema penale belga. Nel esame del caso B., tuttavia, i Giudici europei accertano che nella fattispecie le restrizioni alla difesa erano state particolarmente estese, sia nel contenuto, sia nella durata, affermando così che il Ricorrente non avesse potuto godere del diritto all’accesso ad un avvocato, come previsto dall’art. 6 CEDU, per tutto il tempo della custodia e che pertanto il suo diritto alla difesa fosse stato di conseguenza compromesso in tutta la fase investigativa pregiudiziale. Siffatte restrizioni sono ammissibili solo in circostanze eccezionali, cioè devono essere di natura temporanea e dettate da una valutazione individuale delle peculiarità del caso: esame che in tutta evidenza non c’è stato per B., né, nel processo, il Governo belga aveva fornito prova della sussistenza di particolari circostanze giustificative dell’applicazione della misura restrittiva. Quindi in sostanza, per la Corte, il processo a carico del sig. B. era stato viziato da una violazione all’art. 6 paragrafi 1 e 3, tuttavia hanno rimesso ai giudici nazionali la valutazione dell’esecuzione della sentenza.

3. Conclusioni. In via comparativa con un caso che aveva vista condannata l’Italia proprio per violazione dell’art. 6 CEDU, ovvero il caso Cafagna7, i giudici di Strasburgo con sentenza della prima sezio-

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Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 12 ottobre 2017 - Ricorso n. 26073/13 - Causa Cafagna contro Italia. La vicenda giudiziaria ha origine da una presunta aggressione a scopo di rapina, e conseguente denuncia presentata

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Giurisprudenza europea

ne, pubblicata il 12 ottobre 2017 (ricorso n. 26073/2013), si erano pronunciati sulla compatibilità della condanna dell’imputato sulla base delle dichiarazioni unilateralmente raccolte del teste unico o determinante in assenza di contraddittorio, con i principi del giusto processo. Come specificamente dichiarato, ai sensi dell’art. 6 CEDU, affinché un imputato possa essere dichiarato colpevole è necessario che tutti gli elementi a suo carico vengano prodotti in pubblica udienza, così da garantire il contraddittorio e quindi l’esercizio del diritto di difesa. Se, pertanto, alcune prove vengono raccolte al di fuori del contraddittorio ed utilizzate nel procedimento e tanto più a fondamento della decisione, si radicherà una palese violazione dell’art. 6 CEDU, con una lesione dei principi del giusto processo, per cui la prova si deve formare inderogabilmente nel contradditorio tre le Parti, avanti un Giudice terzo ed imparziale. Nel predetto caso avverso l’Italia, i Giudici, pur applicando i criteri già delineati nella precedente sentenza del 23 giugno 2016 relativa alla causa Ben Moumen contro Italia (ricorso 3977/13), erano giunti ad una conclusione diametralmente opposta, rilevando la responsabilità dello Stato Italiano per violazione dell’art. 6 par. 1 e 3 lett. d della Convenzione e condannandolo al risarcimento dei danni morali a favore del ricorrente, proprio perché la condanna era derivata da una prova non formata nel contraddittorio. In definitiva, ritornando al caso B., la Corte, avendo accertato la presenza di una restrizione di carattere generale ed obbligatorio non giustificata da validi motivi, conclude il suo scrutinio decidendo per la sussistenza di violazione all’art. 6 CEDU. Tuttavia, i Giudici della Grande Camera non arrestano la loro valutazione, continuando il loro sindacato all’intero procedimento svoltosi a carico del Ricorrente. Mediante i criteri elaborati nella precedente giurisprudenza della Corte e in particolare nel caso Ibrahim, i Giudici europei constatano nel complesso l’equità del processo, con valutazione di molteplici profili quali: (i.) lo stato di vulnerabilità dell’accusato; (ii.) le circostanze in cui sono state ottenute le prove ammesse in giudizio; (iii.) il quadro normativo e la capacità dell’accusato di confutare le prove a suo carico; (iv.) la natura incriminatoria o meno delle dichiarazioni rese da B. in assenza del suo avvocato; (v.) le informazioni di cui la giuria si è servita per giungere al verdetto e molti altri elementi. In considerazione della combinazione dei fattori menzionati, la Grande Camera conclude, quindi, che non tutte le prove a carico del Ricorrente sono state prodotte in violazione dei principi del giusto processo, tanto da dichiararne l’illegittimità della sentenza impugnata, ma solo a compensare la violazione dell’art. 6 paragrafi 1 e 3 lett. c) della Convenzione come misura di equa soddisfazione per il danno non patrimoniale sofferto dal Ricorrente, rimettendo in definitiva ai Giudici nazionali di valutare le migliori misure correttive per siffatta violazione, come per esempio la riapertura del processo o la non esecuzione della condanna. Andrea Racca

dall’aggredito nel 1996 nei confronti del sig. Cafagna, per essersi quest’ultimo impossessato del suo portafogli con l’aiuto di un complice, e per aver da questi ricevuto un colpo sul volto nell’intento di impedirne l’inseguimento. La denuncia veniva raccolta e verbalizzata da un carabiniere. In tale occasione il denunciante procedeva al riconoscimento fotografico degli aggressori. Nonostante i numerosi tentativi di assicurarsi la comparizione in udienza del denunciante, non fu possibile procedere all’audizione di quest’ultimo, in quanto risultava irreperibile per aver abbandonato il proprio domicilio.

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Osservatorio

nazionale

Cass. SS.UU. ordinanza 29 gennaio 2019 n. 2441 in materia di permesso umanitario Con l’ordinanza del 29 gennaio 2019 n.2441, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno messo un punto ad un dibattito riguardante la giurisdizione in materia di permesso umanitario. Prima di analizzare la pronuncia in esame, appare opportuno soffermarsi sull’istituto, considerando anche che la materia è stata oggetto di recente modifica da parte del Governo. Il permesso di soggiorno è un provvedimento che consente ai cittadini residenti in Paesi extraeuropei (e agli apolidi) di soggiornare in Italia per un periodo di tempo e alle condizioni previste dalla legge. Esistono molte tipologie di permesso di soggiorno, in riferimento ai tanti motivi per i quali questo viene rilasciato (turistici, lavorativi, per motivi familiari ecc…). Tra queste vi rientra anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari, disciplinato dall’art 5.co. 6 del D.Lgs 286/1998. La norma, prima della recente riforma, stabiliva che “il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Tale istituto, di validità annuale, configurava la c.d. protezione umanitaria, attuabile ogni volta che le Commissioni Territoriali, pur non ravvisando gli estremi della protezione internazionale (ovvero quella del soggetto rifugiato1 e del titolare della protezione sussidiaria), rilevavano la sussistenza dei “gravi motivi di carattere umanitario” a carico del richiedente asilo. Il permesso di soggiorno in parola doveva fondarsi su “seri motivi di carattere umanitario”, intendendo con tale espressione che “Il riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dall’art. 5, comma 6; art. 19, comma 2 T.U. n. 286 del 1998 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, dovendosi fondare su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”2.

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Il rifugiato è un cittadino straniero o un apolide il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Fonte: http://www.interno.gov.it/it/temi/immigrazione-e-asilo/protezione-internazionale 2 Sentenza Corte di Cassazione n. 4455/2018.


Osservatorio nazionale

La valutazione comparativa ai fini della concessione del permesso per motivi umanitari doveva quindi essere effettuata by steps. Prima di tutto era necessario studiare la situazione oggettiva del Paese d’origine e quella soggettiva di pericolo del richiedente; in secondo luogo bisognava verificare l’integrazione sociale in Italia (nota 3), comparandola poi con quella esistente nel Paese d’origine; infine occorreva valutare la sussistenza o meno di un’incolmabile sproporzione tra le due situazioni nel godimento dei diritti fondamentali. Come sottolineato anche nella relazione illustrativa del d.l. 113/2018 convertito con la l. 132/2018, la tutela umanitaria, nonostante rappresentasse una forma di tutela complementare e sussidiaria, da riconoscersi solo in casi di eccezionale e temporanea gravità, è stata, fin dalla sua introduzione nel sistema, la forma di protezione più accordata allo straniero. Per porre un freno all’utilizzo indebito di tale istituto, e per arginare le criticità dell’attuale fenomeno migratorio, il Governo è intervenuto sull’istituto in esame attraverso un’abrogazione dello stesso con contestuale tipizzazione delle tipologie di tutela complementare. Da un lato è stato quindi abrogato l’istituto generale, dall’altro, oltre ad essere state ridefinite le fattispecie di permessi di soggiorno “speciali” (permesso per vittime di violenza domestica e di grave sfruttamento lavorativo), sono state aggiunte altre tre tipologie di permesso di soggiorno temporaneo. Si tratta in particolare del permesso di soggiorno per cure mediche3, quello per situazioni contingenti di calamità naturali nel Paese d’origine, che impediscono temporaneamente il rientro del soggetto in condizioni di sicurezza ed infine quello per atti di particolare valore civile, disciplinato ora nell’art. 42 bis del Testo Unico. È chiaro che si è notevolmente ristretto l’ambito applicativo della tutela complementare, prima assorbita di fatti in una previsione ampia e generica, oggi invece tipizzata solo in ipotesi specifiche e tassative. Chiarito il quadro generale del permesso di soggiorno per motivi umanitari, è opportuno ora soffermarsi sulla pronuncia delle Sezioni Unite. Innanzitutto, la vicenda al vaglio della Corte ha riguardato il permesso di soggiorno per motivi umanitari in relazione ad ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo, disciplinato dall’art. 22 comma 12 quater del D.Lgs. n.286/1988. La norma rappresenta un’ipotesi già tipizzata prima del “Decreto Sicurezza” e stabilisce che il Questore, su proposta o previo parere favorevole del procuratore della Repubblica, rilascia un permesso di soggiorno allo straniero che presenta denuncia e coopera nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro. La Corte prende quindi in esame il classico caso dello straniero lavorativamente sfruttato dal datore di lavoro che, oltre ad assumere alle proprie dipendenze soggetti stranieri privi di permesso di soggiorno, consuma uno dei reati aggravati previsti dal comma 12-bis dell’art.22 TU Immigrazione4. La Cassazione sottolinea che, al pari dell’ipotesi generale di permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 5 comma 6 T.U. IMM., anche l’ipotesi speciale riferita alle ipotesi di

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Nel caso in cui il soggetto versi in “una condizione di salute estremamente grave, tale per cui può arrecare un irreparabile pregiudizio alla sua salute in caso di rientro nel Paese di origine”. Relazione illustrativa 4 Le pene per il fatto previsto dal comma 12 sono aumentate da un terzo alla metà: a) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre; b) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa; c) se i lavoratori occupati sono sottoposti alle condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’art. 603-bis del codice penale.

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Cass. SS.UU. ordinanza 29 gennaio 2019 n. 2441 in materia di permesso umanitario

particolare sfruttamento lavorativo non presuppone alcuna una valutazione discrezionale da parte dell’Autorità amministrativa. Difatti, il rilascio del permesso da parte del Questore costituisce un’attività vincolata al parere del Pubblico Ministero, il quale, al più, possiede una discrezionalità tecnica. Questi si limita a verificare la sussistenza dei due presupposti richiesti dalla norma: la denuncia del fatto e la cooperazione attiva nel procedimento penale a carico del datore di lavoro. Sulla base di tale premessa, la sentenza ribadisce quanto già affermato precedentemente in altre pronunce5. Trattandosi di attività vincolata, le controversie relative al diniego del permesso per motivi umanitari sono devolute alla cognizione del giudice ordinario, in particolare alle sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea. Tale soluzione è coerente con il criterio di riparto ordinario della giurisdizione, basato sulla causa petendi. Il diritto alla protezione umanitaria rappresenta infatti un diritto soggettivo sorretto dalle garanzie costituzionali previste dagli artt. 2 e 10 Cost6 e, come tale, di competenza del giudice ordinario. Trattandosi di diritti umani fondamentali, anzi di diritti inviolabili del singolo, questi sono tutelati in modo assoluto e non possono in nessun caso essere degradati ad interessi legittimi per effetto di valutazioni amministrative discrezionali. Per tale motivo appare totalmente coerente con il nostro sistema costituzionale ed amministrativo la devoluzione delle controversie in esame alla giurisdizione del giudice ordinario, unico giudice in grado di assicurare quella tutela che la nostra costituzione riconosce allo straniero. Miriam Ferrara

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SS. UU. ord. n.30658/2018 e anche Cass. n.4451/2018 Cassazione . SS UU., sent. N. 11535/2009, n 19393/2009, 19577/2010 “La situazione giuridica soggettiva dello straniero che richieda il permesso di soggiorno per motivi umanitari gode quanto meno della garanzia costituzionale di cui all’articolo 2 Cost., sulla base della quale, anche ad ammettere, sul piano generale, la possibilità di bilanciamento con altre situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate esclude che tale bilanciamento possa essere rimesso al potere discrezionale della pubblica amministrazione, potendo eventualmente essere effettuato solo dal legislatore, nel rispetto dei limiti costituzionali. 6

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Osservatorio

normativo

Tribunale dei Ministri, funzioni e competenze Nikita Micieli de Biase L’art. 96 Cost. il cui testo è stato modificato dalla Legge costituzionale 1989, n. 1, disciplina la responsabilità penale per i reati commessi dal Presidente del Consiglio o dai Ministri nell’esercizio delle proprie funzioni prevedendo la devoluzione delle controversie penali alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale. Il testo della Carta costituzionale previgente prescriveva che il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri sono posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. L’art. 12 della Legge costituzionale 1953 n. 1 specificava che la messa in stato di accusa dei Ministri, al pari del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei Ministri, è deliberata dal Parlamento in seduta comune su relazione di una Commissione, costituita di dieci deputati e di dieci senatori, eletti da ciascuna delle due Camere, ogni volta che si rinnovava, con deliberazione adottata a maggioranza, in conformità del proprio regolamento. In caso di parità prevale il voto del Presidente eletto dalla Commissione tra i suoi componenti. Il disegno di Legge Costituzionale è stato approvato in un testo unificato dal Senato il 28 gennaio 1988 in prima lettura dalla Camera il 12 maggio e dal Senato il 1° luglio. In sede di seconda deliberazione è da rilevare che il relatore della 1° Commissione Permanente Affari Costituzionali della Camera, ha evidenziato le seguenti linee fondamentali della riforma: nell’innovare l’allora sistema di giustizia politica, attribuisce all’autorità giurisdizionale ordinaria la competenza in tema di reati commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni; al Parlamento è attribuito la competenza di concedere o meno l’autorizzazione a procedere fondata su una valutazione non generica, bensì ancorata a determinate cause esimenti; l’autorizzazione può essere negata solo ove si ritenga che il soggetto abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo1. Il giudizio è svolto presso una sola delle Camere; ai fini della valutazione della fondatezza della notitia criminis e della istruzione dei reati ministeriali è istituito un apposito organo giudiziario costituito da un collegio di tre giudici istituito presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’Appello competente per territorio che detiene la competenza giudicante di primo grado; le norme sul giudizio di primo grado come per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio sono quelle del codice di procedura penale. La riforma recepisce alcune indi-

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I lavori preparatori sono consultabili al seguente link del sito istituzionale della Camera dei Deputati: http:// legislature.camera.it/_dati/leg10/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?pdl=2288.


Osservatorio normativo

cazioni emerse dal referendum abrogativo della legge ordinaria in tema di procedimenti d’accusa del 1987 effettuando un bilanciamento tra il principio di uguaglianza e quello di garanzia di funzionamento della funzione di governo prevedendo la prevalenza del secondo non per i reati comuni ma per quelli connessi all’esercizio di una funzione ministeriale. L’autorità giudiziaria può sollevare dinnanzi alla Corte Costituzionale conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato qualora valuti che il reato commesso dal ministro non sia connesso all’esercizio delle proprie funzioni. Qualora la Corte Costituzionale affermi che il reato non sia funzionale, il Ministro può essere sottoposto ad un processo penale ai sensi dell’art. 64 Cost. Ulteriori obiettivi della riforma del 1989 sono quelli di porre fine alle strumentazioni politiche nella fase di avvio manifestabili con la relazione della Commissione bicamerale e di ridurre l’eventuale contenzioso dinnanzi alla Corte Costituzionale che durante il processo Lockheed ha determinato un notevole ostacolo al suo normale funzionamento. L’assimilazione alla giustizia comune non è stata totale ma adattata dall’esigenza di salvaguardare le prerogative del Ministro attraverso la previsione dell’autorizzazione a procedere da parte di una delle due Camere ai sensi dell’art. 5 della L. cost. 1989 n. 12 e l’istituzione del Tribunale dei Ministri di cui al successivo art. 73. Le fasi del procedimento sono identiche a quelle regolate dal codice di procedura penale con alcune particolarità dettate dall’esigenza di garantire una celerità delle indagini. L’art. 8 della L. Cost. 1989, n. 1 dispone che il Tribunale dei Ministri, entro il termine di 90 giorni dal ricevimento degli atti, compiute indagini preliminari e sentito il Pubblico ministero, se non ritiene che si debba disporre l’archiviazione, trasmette gli atti con relazione motivata al Procuratore della Repubblica per la loro immediata rimessione al Presidente della Camera. Qualora i fatti accertati non costituiscano reato, il collegio, sentito il Pubblico ministero, dispone l’archiviazione con decreto non impugnabile. Prima del provvedimento di archiviazione, il Procuratore della Repubblica può chiedere al collegio, precisandone i motivi, di svolgere ulteriori indagini; il collegio adotta le sue decisioni entro il termine ulteriore di 60 giorni. Il Procuratore della Repubblica dà comunicazione dell’avvenuta archiviazione al Presidente della Camera competente. Il Presidente della Camera competente invia immediatamente alla giunta competente per le autorizzazioni a procedere in base al regolamento della Camera stessa gli atti trasmessi.

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Ai sensi dell’art. 5, l’autorizzazione prevista dall’articolo 96 Cost. spetta alla Camera cui appartengono le persone nei cui confronti si deve procedere, anche se il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati. Spetta al Senato della Repubblica se le persone appartengono a Camere diverse o si deve procedere esclusivamente nei confronti di soggetti che non sono membri della Camere. 3 L’art. 7 prevede l’istituzione presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio di un collegio composto di tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte tra tutti i magistrati in servizio nei tribunali del distretto che abbiano da almeno cinque anni la qualifica di magistrato di tribunale o abbiano qualifica superiore. Il collegio è presieduto dal magistrato con funzioni più elevate, o, in caso di parità di funzioni, da quello più anziano d’età. Il collegio si rinnova ogni due anni ed è immediatamente integrato, con la procedura di cui al comma 1, in caso di cessazione o di impedimento grave di uno o più dei suoi componenti. Alla scadenza del biennio, per i procedimenti non definiti, è prorogata la funzione del collegio nella composizione con cui ha iniziato le indagini.

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Tribunale dei Ministri, funzioni e competenze

La giunta riferisce all’assemblea della Camera competente con relazione scritta, dopo aver sentito i soggetti interessati ove lo ritenga opportuno o se questi lo richiedano; i soggetti interessati possono altresì ottenere di prendere visione degli atti. L’assemblea si riunisce entro sessanta giorni dalla data in cui gli atti sono pervenuti al Presidente della Camera competente e può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo. L’assemblea, ove conceda l’autorizzazione, rimette gli atti al Tribunale dei Ministri collegio perché continui il procedimento secondo le norme del codice di procedura penale. La competenza nella gestione del processo di primo grado appartiene al Tribunale del capoluogo del Distretto di Corte di Appello competente per territorio. Non possono partecipare al procedimento i magistrati che hanno fatto parte del Tribunale dei Ministri nel tempo in cui questo ha svolto indagini sui fatti oggetto dello stesso procedimento. Le misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche o sequestro o violazione di corrispondenza ovvero a perquisizioni personali o domiciliari sono sottoposte all’autorizzazione di una delle Camere, salvo il caso di arresto in flagranza per un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. Il Tribunale dei Ministri di Catania aveva chiesto alla Camera di appartenenza ovvero il Senato l’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno Salvini per accertare il delitto di sequestro di persona dei 177 migranti della nave Diciotti a cui per giorni il Ministro aveva vietato lo sbarco. La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari aveva respinto tale richiesta per la valutazione positiva sulla sussistenza dell’interesse dello Stato costituzionalmente rilevante rappresentato dalla sicurezza e che l’atto del Ministro è un atto politico attuativo dell’indirizzo politico collegialmente assunto dal Governo. L’aula del Senato lo scorso 20 marzo ha approvato la relazione della Giunta confermando di non concedere l’autorizzazione a procedere.

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Osservatorio Internazionale

Arrestati e consegnati alla CPI due dei maggiori esponenti del movimento anti-balaka Marilisa De Nigris P-E. N., ex coordinatore della milizia armata cristiana “anti-balaka”, ex Ministro e Presidente della Federazione calcistica della Repubblica Centrafricana, era parte di una lista compilata da Amnesty International di 20 presunti responsabili di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi nel conflitto interno scoppiato alla fine del 2013 nel Paese africano. Il 12 dicembre 2018 N. è stato tratto in arresto a Parigi a seguito di un mandato di cattura emesso dal Tribunale Penale Internazionale sulla base di un mandato emesso dalla Corte Penale Internazionale mentre si recava a visitare la sua famiglia nell’Île-de-France. Nel mandato d’arresto, emesso il 7 dicembre, lo si accusa di crimini di guerra (omicidio, tortura, trattamento crudele, mutilazione, ecc.) e crimini contro l’umanità (omicidio, sterminio, deportazione, ecc.) presumibilmente commessi nella Repubblica centrafricana occidentale, nel contesto di un conflitto di carattere non internazionale tra la coalizione di gruppi armati “Seleka”, composta prevalentemente da musulmani, e la fazione “Anti-Balaka”1 prevalentemente cristiana. N. leader e coordinatore nazionale generale della fazione “Anti-Balaka” è ritenuto responsabile per crimini asseritamente commessi in diverse località della Repubblica Centrafricana (comprese Bangui, Bossangoa, Lobaye Prefecture, Yaloké, Gaga, Bossemptélé, Boda, Carnot e Berberati) in concorso con altri soggetti. I fatti, come detto, risalirebbero al settembre 2013 e si sono protratti fino almeno dicembre 2014 quando P. E. N. era uno dei leader più anziani del movimento anti-Balaka e rivestiva la carica di coordinatore generale nazionale. Nel periodo in esame, la Corte ha rilevato che almeno un attacco è stato effettuato dagli anti-Balaka contro la popolazione civile musulmana e tutti coloro che sembravano sostenere il gruppo armato ex-Seleka. Il suo arresto arriva poche settimane dopo l’arresto dell’ex leader anti-Balaka, A. Y., soprannominato Rambo, anch’egli consegnato alla Cpi, consegnato alla CPI dalle autorità della Repubblica Centrafricana, in esecuzione del mandato di arresto emesso dalla PTC II2 in data 11 novembre 2018 in relazione a crimini di guerra e crimini contro l’umanità asseritamente commessi nella parte orientale della Repubblica Centrafricana tra il dicembre 2013 e l’agosto 2014, nel contesto di un conflitto di carattere non internazionale tra la coalizione di gruppi

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Gli anti-balaka, termine solitamente tradotto con “anti-machete”, ma che in realtà significa “antidoto”, alla coalizione islamista Seleka, che al seguito del presidente golpista Djotodia ha saccheggiato e depredato il paese (soprattutto i cristiani «in modo terrificante») fin dal marzo scorso. 2 Pre-Trial Chamber II; Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI).


Osservatorio Internazionale

armati “Seleka”, composta prevalentemente da musulmani, e la fazione “Anti-Balaka” prevalentemente cristiana. La PTC II ha ritenuto sussistenti ragionevoli motivi per credere che, almeno dal settembre 2013 ed almeno fino al dicembre 2014, un attacco esteso e sistematico sia stato condotto dalla fazione “Anti-Balaka” ai danni della popolazione civile musulmana e di chiunque fosse percepito come sostenitore della coalizione Seleka. In particolare, si ritiene che Y. fosse al comando di un gruppo composto da circa 3.000 membri che operava all’interno del movimento “Anti-Balaka” e che si sia reso responsabile di crimini commessi in diverse località della Repubblica Centrafricana (comprese Bangui e Lobaye Prefecture) tra il 5 dicembre 2013 e l’agosto 2014. La PTC II ha ritenuto sussistenti ragionevoli motivi per credere che egli abbia commesso direttamente o, in altro modo, ordinato, sollecitato, indotto o facilitato la commissione di tali crimini in virtù della sua posizione di comandante militare. In data 23 novembre 2018, si è tenuta l’udienza di prima comparizione dinanzi alla PTC II mentre l’udienza di conferma delle accuse è stata fissata al 30 aprile 2019. Le Nazioni Unite si sono concentrate in particolare sulla denuncia delle vittime civili del conflitto. Secondo il Rapporto presentato dalla missione MINUSCA, almeno 133 civili sono stati uccisi nelle regioni di Ouaka e Haute-Kotto, durante gli scontri tra le fazioni rivali. Secondo gli investigatori che hanno lavorato al rapporto, almeno 82 uomini, 16 donne, 10 bambini e 25 persone non ancora identificate, sono stati massacrati dalle milizie nell’ambito degli scontri. Il Centraafrica è un Paese che dal 2013 è dilaniato dalle violenze tra milizie musulmane ex Seleka e i cristiani anti-balaka e dagli scontri tra gruppi armati che si contendono il controllo del territorio e le sue risorse. Secondo le Nazioni Unite, le violenze hanno costretto migliaia di persone a fuggire dalle proprie case e a cercare rifugio in altri Paesi. Nel Paese, stima l’Onu, circa 2,5 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Gli abusi e le violazioni dei diritti umani documentate e denunciate nel rapporto ONU rappresentano solo alcune delle violazioni riconducibili a tale situazione. La maggior parte delle violenze ha avuto luogo nelle città di Bria e Bakala, in particolare, quest’ultima, è stata più volte contesa tra le due fazioni che si sono avvicendate al Governo della stessa, essendo conquistata e riconquistata da entrambe le fazioni in lotta tra loro. Appare, dunque di fondamentale rilevanza l’atto posto in essere dalla PTC II, organo ufficiale della CPI (Corte penale internazionale) che in merito alla questione ha emesso il Corrigendum of “Decision setting the date for the initial appearance of P.-E. N.” ICC-01/14-02/1812-Corr 24 January 2019 | Pre-Trial Chamber II | Decision Case: The Prosecutor v. P.-E. N. Situation: Situation in the Central African Republic II.

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Osservatorio

europeo

Brexit: l’UE ribadisce la possibile revoca unilaterale dell’uscita dall’Unione europea previa volontà dello Stato membro Antonio De Lucia Con la pronuncia relativa al case C-621/18 del 10 dicembre 2018 Wightman e altri c. Secretary of State for Exiting the European Union, la Corte di Giustizia UE si è soffermata sul tema attualissimo della c.d. Brexit e sulla possibilità per il Regno Unito di revocare, anche unilateralmente, la notifica di recesso dall’Unione Europea. La Corte UE, nella sua pronuncia, ha infatti evidenziato come l’art. 50 TUE, in forza del quale la Gran Bretagna aveva notificato al Presidente del Consiglio UE l’intenzione di recedere dall’Unione sia interpretabile anche nel senso di poter revocare, in maniera unilaterale il recesso a certe condizioni. Argomento centrale della questione è che la Corte di Giustizia ha stabilito, in seduta plenaria, che l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), sulla base del quale il 29 marzo 2017 il Governo del Regno Unito aveva notificato al Presidente del Consiglio Europeo l’intenzione di recedere dall’Unione, deve essere interpretato altresì nel senso di consentire allo Stato notificante di revocare unilateralmente il recesso, previo l’esistenza di alcune condizioni. Soffermandosi sulla Pronuncia, brevemente, è possibile notare che la Corte nella sua disamina del caso sottolinea come la norma presa a base della questione espliciti solo la procedura di recesso ribadendo il diritto sovrano di uno Stato membro di recedere dall’Unione. Ciò rappresenterebbe, secondo i giudici europei, la base giuridica per revocare la notifica di recesso e per conservare lo status di Stato Membro. In concreto, il rinvio pregiudiziale, in esame, si inserisce in un procedimento instaurato dinanzi alla Court of Session scozzese – nei confronti del Secretary of State for Exiting the European Union – per mezzo di una petition for judicial review presentata da un membro del Parlamento della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, due membri del Parlamento scozzese e tre membri del Parlamento europeo, teso ad ottenere una declaratoria circa la possibilità, i tempi, le modalità e gli effetti di una revoca unilaterale della notifica dell’intenzione di recedere. Il giudice di primo grado, declinata la richiesta di proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e di garantire la petition for judicial review, si soffermava sul carattere ipotetico della questione rilevando, inoltre, che questa interferiva sulla sovranità parlamentare e prevaricava la giurisdizione del giudice nazionale. Successivamente, il giudice dell’appello, investito della questione, sulla base delle medesime premesse ha dato vita ad un quesito pregiudiziale innanzi alla Corte Europea, ritenendo che la risposta avrebbe consentito ai richiedenti di stabilire l’esistenza di una ulteriore opzione alternativa al recesso in base all’accordo con l’Unione che sarebbe stato ad essi presentato oppure al recesso in assenza di qualsiasi accordo.


Osservatorio europeo

La decisione in merito alla questione in oggetto è stata quindi riproposta innanzi alla Corte di giustizia UE, dove hanno preso parte al giudizio anche il Consiglio e la Commissione europea. Entrambe le istituzioni hanno prospettato, dal canto loro, una interpretazione restrittiva dell’articolo 50 TUE, asserendo che lo stesso, nella sua interpretazione, evidenzia caratteristiche radicalmente diverse a seconda che venga proposto nella fase iniziale, nella fase intermedia o in quella finale della procedura di recesso. Secondo i succitati organi, la fase iniziale è del tutto “autonoma ed unilaterale” nel senso che è ascrivibile esclusivamente all’attività dello Stato membro. La fase intermedia, invece, sarebbe caratterizzata da attività di tipo bilaterale o multilaterale, in cui significativa è l’attività degli Organi dell’Unione coinvolti; in effetti, da un punto prettamente procedurale e pragmatico, con l’avvio della seconda fase, lo Stato membro notificante perde il controllo sulla procedura, così da non poter più revocare unilateralmente la propria notifica di recesso. Pertanto, la decisione del giudice del rinvio non avrebbe comunque avuto effetti giuridici vincolanti nel procedimento principale. Nel procedimento instaurato davanti al Tribunale UE il governo del Regno Unito, anch’esso costituitosi, ha contestato l’ammissibilità del quesito pregiudiziale, argomentando in ordine al suo carattere ipotetico e all’assenza di una vera e propria controversia dinanzi al giudice del rinvio, dal momento che il quesito avrebbe avuto ad oggetto fatti non ancora verificatisi e comunque eventuali, quali il tentativo del Regno Unito di revocare la notifica dell’intenzione di recedere e l’opposizione a tale atto da parte della Commissione europea o di uno degli altri Stati membri. La Corte di giustizia, in merito alla vicenda, dopo aver ricordato, da un lato, la presunzione di rilevanza che supporta le questioni pregiudiziali, e, dall’altro, gli argomenti del giudice del rinvio circa l’utilità della risposta, ha escluso di poter rimettere in discussione la rilevanza del quesito, relativo all’interpretazione di una disposizione del diritto primario dell’Unione e centrale rispetto all’oggetto del procedimento principale. Durante l’iter processuale la Corte ha poi ribadito, replicando al rilievo mosso dalla Commissione europea, che la natura solo declaratoria del rimedio richiesto tramite la petition for judicial review non osta a una pronuncia pregiudiziale, se il diritto nazionale contempla un tale rimedio. Nel merito, sia i proponenti della petition for judicial review, sia il Consiglio e la Commissione europea concordavano circa la possibilità per lo Stato membro di revocare la notifica di recesso. Tuttavia, i primi configuravano tale possibilità come un vero e proprio diritto al recesso unilaterale, nel solo rispetto delle norme costituzionali, le istituzioni europee invece ritenevano necessario il consenso unanime degli altri Stati membri in seno al Consiglio europeo, al fine di evitare un utilizzo abusivo dell’art. 50 TUE, il governo del Regno Unito, invece, si era limitato a contestare l’ammissibilità del quesito pregiudiziale, senza argomentare in alcun modo. La Corte, con il suo intervento ha, dunque, anzitutto sottolineato la “mancanza” di indicazioni esplicite, ossia la revoca è consentita, ma di contro, non è esclusa, la mera intenzione, né definitiva, né irrevocabile, inoltre la decisione in tale contesto non deve essere concertata con gli altri Stati Membri, dovendo solo formarsi in conformità alle norme costituzionali nazionali dello Stato membro interessato. Con l’analisi dei paragrafi dell’art. 50 TUE, la Corte ha poi affermato che questa disposizione persegue il duplice obiettivo di assicurare il diritto sovrano di uno Stato membro di recedere dall’Unione e di stabilire una procedura che consenta un recesso ordinato; la natura del diritto di recedere implica il diritto di revocare la notifica dell’intenzione di avvalersi di quella possibilità, esprimendo la decisione sovrana di rimanere nell’Unione; nell’assenza di indicazioni esplicite, la revoca deve essere assoggettata alla stessa condizione della conformità della decisione alle norme costituzionali nazionali, prevista per la notifica dell’intenzione di recedere. A sostegno della sua tesi la Corte ha evidenziato, poi, come dai vari riferimenti

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Brexit: l’UE ribadisce la possibile revoca unilaterale dell’uscita dall’Unione europea previa volontà dello Stato membro

presenti nel TUE e nel TFUE si evince, chiaramente, l’obiettivo di creare “un’Unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa” sulla base di valori fondanti quali quelli della libertà e della democrazia di cui all’art. 2 TUE. Ha poi ricordato che, secondo quanto emerge dall’art. 49 TUE, la decisione di uno Stato di entrare a far parte dell’Unione esprime l’impegno libero e volontario di quest’ultimo di vincolarsi ai valori sui quali l’Unione si fonda e che l’uscita dall’Unione comporta delle ripercussioni significative per i cittadini dello Stato che recede. Da ultimo, la Corte ha ricordato che, durante la redazione della disposizione sul recesso, inserita per la prima volta nel Trattato che stabiliva una Costituzione per l’Europa, erano stati respinti alcuni emendamenti volti a consentire l’espulsione dello Stato, proprio al fine di salvaguardare il carattere unilaterale e volontario del recesso. A ulteriore conferma è stato richiamato l’art. 68 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, tenuta in considerazione durante l’elaborazione del Trattato-Costituzione, che prevede espressamente, nell’ipotesi in cui un trattato contempli il recesso unilaterale, la possibilità di revocare la notifica dell’intenzione di recedere, in qualunque momento fino a che il recesso non abbia avuto effetti. Quanto agli argomenti legati alla tempistica della revoca, si può poi constatare che sarebbe possibile per lo Stato decidere fino a quando non è entrato in vigore l’accordo di recesso o, in sua assenza, fino allo spirare del termine di due anni dalla notifica dell’intenzione di recedere previsto dall’art. 50, par. 3, TUE. La notifica, dunque, deve fare seguito a una decisione formatasi in conformità alle norme costituzionali dello Stato membro in questione, deve avere forma scritta, deve essere indirizzata al Consiglio europeo e deve esprimere in modo inequivoco e incondizionato l’intenzione di confermare la propria partecipazione all’Unione, in termini inalterati rispetto allo status di membro del quale lo Stato godeva prima dell’avvio della procedura di recesso, della quale una notifica siffatta determina la conclusione. Essenzialmente con questa “nuova interpretazione” dell’art. 50 TUE, si eccepisce che ogni Stato membro ha la facoltà di revocare unilateralmente la sua precedente decisione di recedere dall’Unione, a condizione che tale revoca sia notificata al Consiglio europeo in maniera univoca, incondizionata e nel rispetto delle proprie regole costituzionali. In effetti l’articolo in esame è incluso nel titolo VI, tra le cosiddette “disposizioni finali”, fra cui – oltre al già citato art. 49 – si annovera anche l’art.48 sulla revisione dei trattati. Il suo contenuto evidenzia che, la decisione di recedere è unilaterale e volontaria per lo Stato membro, che avrà modo di stabilire le modalità di procedere a tale scelta sulla base delle norme costituzionali dello stesso. Quindi, nella fase di decisione, l’Unione Europea seppur ovviamente interessata e informata non riveste nessun ruolo. L’Unione, una volta notificata la volontà di recedere da parte dello Stato, diviene parte attiva del procedimento con una attività svolta direttamente dalle sue istituzioni in particolare dal Consiglio Europeo, Consiglio dell’Unione Europea e Parlamento Europeo e dalla Commissione. Il procedimento per giungere ad un accordo sulla Brexit è stato finora caratterizzato da contrattazioni lente e macchinose, in quanto in quanto orientate a causare meno danni possibile ad entrambe le parti. Inoltre, va tenuto presente che tale accordo non è da confondere con un eventuale accordo che regoli i rapporti tra UE e l’ex Stato membro. Infatti, sebbene l’accordo di recesso debba tenere conto del quadro delle future relazioni con l’Unione, accordi specifici su sudette relazioni saranno stipulati successivamente, sulla base di quanto previsto dai trattati per la conclusione di accordi con Stati terzi. A fronte quindi di una uscita caratterizzata dal c.d. “No-deal” sempre più concreta nella più totale incertezza circa i termini e la sempre più plausibile richiesta di una proroga del termine per la conclusione dell’accordo di recesso, il rinvio pregiudiziale della vicenda nata in Scozia ha certamente dato l’occasione alla Corte di giustizia di interpretare e dare nuove delucidazioni alla disciplina prevista dall’art. 50 TUE.

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L’Italia e la Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale Nicola D’Albasio

Sommario: 1. Mandato e obiettivi della Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale. – Funzioni sostanziali: 1.1. Identificazione e definizione delle principali sfide per la cooperazione internazionale in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale. – 1.2. Definizione di politiche per rafforzare la cooperazione internazionale in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale. – 1.3. Scambio di informazioni in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale. – 1.4. Sviluppo e trasferimento di competenze tecniche e conoscenza. – 1.5. Mobilitazione delle risorse finanziarie. – 1.6. Fornitura di assistenza tecnica a favore degli Stati Membri delle Nazioni Unite. – 1.7. Funzioni relative ai trattati e al diritto internazionale. – Funzioni procedurali: 1.8. Raggiungimento e gestione del consensus. – 1.9. Coordinazione fra istituzioni. – 1.10. Definizione delle priorità nel lavoro della Commissione. – 1.11. Pianificazione strategica delle attività del Programma Crimine, del Segretariato e della stessa Commissione. – 2. Rapporti e sinergie nel più ampio quadro delle Nazioni Unite. – 2.1. Il ruolo della Commissione rispetto a UNODC. – 2.2. Ruolo rispetto alle Conferenze degli Stati Parte alle Convenzioni di Palermo e di Merida. – 2.3. Il Segretariato. – 2.4. Il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC). – 2.5. L’Assemblea Generale. – 2.6. I Congressi sul Crimine. – 2. 7 Gli Istituti della rete sulla Prevenzione Criminale e la Giustizia Penale (CPCJPN). – 2.8. La Rete di Informazione delle Nazioni Unite per la Giustizia Penale (UNCJIN) (the United Nations Criminal Justice Information Network). – 2.9. La rete globale di biblioteche per la Giustizia Penale. – 3. I gruppi di lavoro attivati nell’ambito della Commissione Crimine Gruppo di lavoro intergovernativo sul miglioramento della governance e della situazione finanziaria di UNODC (FINGOV). – 4. Considerazioni conclusive.

1. Mandato e obiettivi della Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale. La Commissione Crimine (CCPCJ) (Commission on Crime Prevention and Criminal Justice) è stata concepita per essere l’organo più attivo del sistema istituito in funzione del Programma delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale, ruolo precedentemente occupato dai Congressi sul crimine1. I sostenitori della sua istituzione enfatizzavano il fatto che, in virtù della sua qualità di organo composto da rappresentanti governativi, essa avrebbe galvanizzato la partecipazione degli Stati al processo di lotta al crimine organizzato nel quadro multilaterale istituito dalle Nazioni Unite.

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Cfr. O. Schachter, The invisible College of International Lawyers, 72 Nw. U. L. Rev. 217, 217 (1997).


Focus

L’art. 68 dalla Carta delle Nazioni Unite conferisce al Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC) il potere di istituire Commissioni ausiliare per lo svolgimento delle funzioni ad esso attribuite. Questi organi sono noti col termine “commissioni funzionali” (functional commissions) e operano secondo il regolamento adottato dall’ECOSOC (Rules of procedure of the funcional Commisions of the Economic and Social Council)2. Nel febbraio del 1992 l’Assemblea Generale attraverso una Risoluzione volta alla ristrutturazione del Programma richiese a ECOSOC di istituire la Commissione Crimine3. I suoi termini di riferimento corrispondono a quelli elencati nei paragrafi 12-26 del Programma d’Azione e Dichiarazione di Principii (Statement of Principles and Programme of Action) allegati alla Ris. 1991 dell’Assemblea Generale4. La Commissione è costituita da quaranta Stati Membri delle Nazioni Unite, eletti secondo il principio dell’equilibrio geografico per un mandato di tre anni. L’Assemblea Generale nella sua Ris. 46/152 invitava gli Stati Membri a compiere tutti gli sforzi necessari ad assicurare che le proprie delegazioni includessero esperti invitati e alti funzionari che avessero acquisito esperienza pratica nel campo della prevenzione del crimine e della giustizia penale e in particolare avessero ricoperto ruoli di responsabilità nella formulazione di politiche in materia5. La Commissione ha il potere di istituire gruppi di lavoro ad hoc e, se necessario, di nominare un Relatore Speciale6. Le sue sessioni annuali si tengono a Vienna alla fine del mese di aprile e durano non più di cinque giorni lavorativi, quindi per un’intera settimana7. Le regole delle Commissioni funzionali dell’ECOSOC prevedono inoltre la partecipazione di “osservatori”. Questo ruolo può essere ricoperto da agenzie specializzate delle Nazioni Unite, altre organizzazioni internazionali ovvero organizzazioni non governative con uno statuto “consultivo”8. Altre entità facenti parte del Segretariato delle Nazioni Unite, quali il Comitato Diritti Umani e il Programma Droga, sono anch’esse rappresentate. La Commissione è il principale organo delle Nazioni Unite incaricato dell’adozione di politiche in materia di prevenzione del crimine e di giustizia penale9 ed ha una competenza onnicomprensiva in relazione ad ogni tipo di problematica in questa materia. Ciò include l’elaborazione di politiche di prevenzione o in risposta a fenomeni criminali che si manifestano a livello transnazionale o che interferiscano con la sfera interna di uno degli Stati membri10.

2

U.N. Doc. E/1992/92 (1992). G.A. Res. 46/152, U.N. GAOR, 46th Sess., Supp. No.1, at 11, U.N. Doc E/1992/92 (1992). 4 Ibidem. 5 Cfr. Ibidem par. 24. 6 Cfr. Ibidem par. 26. 7 Cfr. Ibidem. Par.25. 8 Cfr. Rules of Procedure of Functional Commisions of the Economic and Social Council, R.69. 9 A/RES/1992/22, parte 4, paragrafo 4. 10 Si veda ad esempio il linguaggio adottato dall’Assemblea Generale nella Ris. GA/RES/46/152, paragrafo sette del preambolo che si riferisce all’assistenza agli Stati nel combattere il crimine organizzato transnazionale o nazionale “…assistance to States in combating both national and transnational crime…”, e il paragrafo operativo 3 (“… Whose aim will be to respond to the most pressing priorities and needs of the international community in the face of both national and transnational criminality” e 5 (“…in order to achieve to goals of preventing crime within and among t States…”). Riferimenti del genere appaiono anche Nell’allegato alle dichiarazioni di Principi, paragrafo 15, sottoparagrafi 16(a) e (b). paragrafo 17, sottoparagrafi 17(e). 3

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Il suo mandato consiste nell’affrontare qualsiasi problematica possa riferirsi a all’interesse degli Stati membri in queste due aree, competenza che rimane valida anche nei casi in cui il tema in esame sia soggetto all’attenzione di altri fora delle Nazioni Unite provvisti di un più specifico mandato, quali per esempio la Commissione sulle Droghe Narcotiche (CND) (Commission on Narcotic Drugs) o le Conferenze degli Stati Parte alle Convenzioni delle Nazioni Unite sulla Criminalità Organizzata Transnazionale (UNTOC o Convenzione di Palermo) (United Nations Convention against Transnational Organised Crime) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione (UNCAC o convenzione di Merida) (United Nations Convention against Corruption)11. La Commissione è tuttavia libera di prendere in considerazione l’opportunità di evitare questa sovrapposizione12. L’ampiezza dello spettro del mandato della Commissione Crimine è probabilmente da mettersi in relazione alle difficoltà nel tracciare una linea netta tra problematiche puramente inerenti al concetto di “crimine” e situazioni che suggeriscano l’uso del codice penale in sostegno delle politiche contro la criminalità. Quest’aspetto non è risultato tuttavia privo di effetti problematici sul piano dell’efficienza dato che, oltre a poter contribuire a una situazione di inutile sovrapposizione tra i lavori dei vari organi, può anche fornire un’occasione di “forum-shopping” a delegazioni che una volta vista rifiutata una delle proprie proposte, possono ripresentarla sotto altre vesti presso altri fora13. L’ampiezza delle problematiche sostanziali abbracciate dal mandato e dei temi di volta in volta presi in esame sono stati definiti nelle risoluzioni e le dichiarazioni di principi che hanno istituito un Programma Crimine delle Nazioni Unite, e hanno incaricato la Commissione di fornivi una supervisione politica. I principali obiettivi del Programma sono: • la prevenzione del crimine tra gli Stati membri e al loro interno; • il monitoraggio delle attività criminali a livello nazionale e internazionale in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale; • il rafforzamento della cooperazione regionale e internazionale; • il consolidamento e l’integrazione degli sforzi degli Stati Membri; • un’amministrazione della giustizia più efficiente ed efficace, nella quale si garantisca il rispetto per i diritti umani e la promozione dei più alti standard di condotta professionale e di giustizia imparziale. La Dichiarazione di Principi (Programma d’Azione e Dichiarazione di Principii) (Statement of Principles and Programme of Action) allegati alla Ris. 1991 dell’Assemblea Generale pone la sua attenzione anche a specifici collegamenti tra le problematiche inerenti alla prevenzione

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La commissione può prendere in considerazione delle problematiche la cui cura si sovrappone al lavoro d’altri organi delle Nazioni Unite, ma il paragrafo 17 e il sotto paragrafo 21 della Ris. dell’Assemblea Generale GA/ RES/46/152 richiamano a che, nello stabilire le proprie priorità, la Commissione cerchi di evitare questo tipo di situazione. 12 La commissione può prendere in considerazione problematiche la cui cura si sovrappone al lavoro d’altri organi delle Nazioni Unite, ma il paragrafo 17 e il sottoparagrafo 21 della Ris. dell’Assemblea Generale GA/RES/46/152 richiamano a che, nello stabilire le proprie priorità, la Commissione cerchi di evitare questo tipo di situazione. 13 Cfr C.D. Ram, Meeting the Challenge of Crime in Global Village: An assessment of the role and future of United Nation Commission on Crime Prevention and Criminal Justice, Heuni, 2012, 52.

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criminale e giustizia penale e una vasta gamma di altre tematiche oggetto di preoccupazione da parte della comunità internazionale, tra queste vi sono: il sostegno, la protezione e lo sviluppo dello stato di diritto,14 l’equità e lo sviluppo e la giustizia sociale15, i diritti umani16, la democrazia17, la pace, la sicurezza e miglioramento delle condizioni sociali18. Il documento indica anche la necessità di elaborare risposte nuove alla crescente internazionalizzazione del crimine e all’utilizzo che i gruppi di criminalità organizzata fanno di essa19. Nel documento gli Stati ribadiscono la vitale importanza del far corrispondere all’espansione del crimine un’espansione delle capacità di risposta dei sistemi di giustizia, con particolare attenzione per i più vulnerabili Stati in via di sviluppo. Nel 2003 è stato ampliato il lavoro svolto dal Segretariato sotto il mandato della Commissione, del Consiglio Economico e Sociale e dell’Assemblea Generale, per rincludervi la prevenzione del terrorismo, e certi aspetti inerenti al lavoro sulla lotta al traffico di droga svolto sotto il mandato della Commissione sulle Droghe Narcotiche. Nel 2007, all’interno del documento contenente la strategia di UNODC adottata dal Consiglio Economico e Sociale, è stato riassunto il mandato della Commissione Crimine attraverso l’utilizzo di tre categorie principali: “i servizi normativi” che includono il sostegno necessario ai vari strumenti legali e gli strumenti di “soft law”, così come il sostegno allo sviluppo di nuovi strumenti legali; le funzioni di ricerca e analisi; lo sviluppo di assistenza tecnica20. La lista dei temi affrontati nelle varie sessioni della Commissione dal 1992 ad oggi è estremamente ampia. Una panoramica è disponibile nella seguente tabella

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A/RES/46/152, Allegato, par. 2. Cfr. Ibidem, par. 4 e 8. 16 Cfr. Ibidem, par. 1. 17 Cfr. Ibidem, par. 1 e 7. 18 Cfr. Ibidem, par. 3. 19 Cfr. Ibidem, par. 5. 20 UNODC Strategy 2008-2011 E/RES/2007/12 Allegato. 15

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Tabella riassuntiva delle tematiche oggetto delle varie sessioni della Commissione Crimine21 Reati informatici e affini Cooperazione tra il Centro per l’Informazione e la Prevenzione del Crimine/UNODC e altre entità e organi delle Nazioni Unite Problematiche legate alla corruzione (reati di corruzione, corruzione transnazionale, corruzione nei sistemi di giustizia penale, cooperazione internazionale, procedure e recupero dei proventi) Reati contro i bambini /adulti giovani (rapimenti, sfruttamenti di natura sessuale o di altro tipo, traffico di minori) e protezione delle vittime e dei testimoni Reati contro i beni culturali e traffico di beni culturali Congressi sul Crimine (organizzazione generale, periodicità, definizione del programma dei lavori e della documentazione di ogni riunione.) Dati e statistiche relativi al crimine: raccolta, resoconti, elaborazione statistica e analisi Prevenzione del crimine: crimini specifici o generali, prevenzione incentrata sul ruolo delle comunità (comunity based prevention) Pena di morte Crimini ambientali Problematiche legate a crimini di natura economica, incluso il riciclaggio di denaro sporco, ricavi di attività criminali, frodi e altri crimini di natura economica Disciplina delle armi da fuoco Buon governo (governance) (delitti) dell’odio/ basati sulla discriminazione /...di stampo razziale, o incitazioni all’odio razziale o al fanatismo religioso Diritti umani e giustizia penale

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Reati d’identità Uso di tecnologie d’informazione nella giustizia penale e la prevenzione del crimine Raccolta, archiviazione, uso e condivisione di informazioni in materia di giustizia criminale Problematiche inerenti alla cooperazione internazionale (estradizione, mutua assistenza legale, cooperazione informale) Corte Penale Internazionale Problematiche inerenti alla giustizia minorile e ai bambini vittime, testimoni o colpevoli di reati Rapimenti Assistenza legale e problematiche inerenti all’accesso alla giustizia Amministrazione dei sistemi di giustizia penale Problematiche medico-legali in materia di certificazione, prevenzione e trattamento Traffico di migranti Misure cautelari personali, diversione della pena dalla custodia, riduzione delle detenzioni pre-processuali Crimine organizzato (domestico, transnazionale, incluso quello delle bande criminali) Peacekeeping e ricostruzione post bellica (problematiche di giustizia criminale, ricostruzione delle istituzioni, ruolo dei Programmi ONU) Problematiche legate alla detenzione e alle alternative al carcere (custodia preventiva, libertà vigilata o condizionale, diversione e riduzione, condizione delle carceri, lotta all’HIV/AIDS presso i detenuti) Riforma dei sistemi di giustizia penale Giustizia riparativa mediazione e tematiche inerenti

Ram, op cit., 55. La lista non è necessariamente esaustiva.

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Problematiche inerenti alla ricerca e rapporti tematici (ricerca e analisi sulle tendenze di reati specifici, proposte per il “Rapporto Mondiale sulla Droga”, etc.) Ruolo dei funzionari di giustizia penale (avvocati, giudici, pubblici ministeri, funzionari delle strutture penitenziarie etc.) Ricerche e metodologie di ricerca (statistiche criminali, uso dei questionari e altre metodologie di ricerca) Stato di diritto, trasparenza, integrità e problematiche correlate Standard e leggi su: punizioni capitali; bambini vittima e testimoni; diritti umani; cooperazione internazionale (leggi modello e trattati) Giustizia minorile Individuazione e repressione (codici di condotta e linee guida); misure di cautelari non detentive; indipendenza giudiziaria; ruolo dei partecipanti alla giustizia penale (avvocati, giudici, pubblici ministeri, funzionari delle strutture penitenziarie etc.); tortura; trattamento dei detenuti Assistenza tecnica, servizi internazionali di consulenza e mobilitazione delle risorse Problematiche legate al terrorismo (relazioni fra crimine organizzato e terrorismo, lavorse del CICP e della divisione antiterrorismo di UNODC, applicazione dei trattati) Traffico di esseri umani Traffico illecito di merci, inclusi: beni pubblici, esplosivi, armi da fuoco, tessuti ed organi umani, veicoli a motore, prodotti forestali, materiale genetico, flora e fauna Problematiche relative a trattati (sviluppo dei mandati legati ai trattati, applicazione nei confronti degli Stati successori, sostegno alla ratifica e l’applicazione delle Convenzioni del 2000 e del 2003) Criminalità urbana Vittime del crimine Violenza contro le donne e le ragazze crimini violenti


Focus

Il tema dell’assistenza tecnica agli Stati e la mobilitazione delle risorse necessarie allo sviluppo dei progetti è spesso ricorso nelle sessioni della Commissione essendo uno dei veicoli principali dell’assistenza delle Nazioni Unite22. Per il resto, i temi considerati variano tra problematiche di ampio respiro come l’analisi del ruolo del Segretariato nella promozione delle Convenzioni del 2000 e del 2003, l’assistenza agli Stati nella loro ratifica, e tematiche specifiche come per le più recenti discussioni sul crimine informatico e i furti d’identità. Come indicato dal mandato nel sottoparagrafo C della Ris. E/RES/1992/22, strumento con il quale ECOSOC applicava quanto gli ordini operativi della Ris. 46/152 dell’Assemblea Generale, la responsabilità di “…pianificare, rendere effettivi e monitorare progetti in materia di prevenzione del crimine e di giustizia penale…” è parte della più vasta responsabilità di sovraintenza e mobilitazione del sostegno al Programma di Prevenzione Criminale e Giustizia Penale delle Nazioni Unite. Attraverso questo processo vengono analizzate le richieste e le priorità nell’area dell’assistenza tecnica per poi provvedere al suo esercizio. Tra le specifiche responsabilità della Commissione vi sono anche la mobilitazione delle risorse e del sostegno al Programma, la supervisione delle attività del Segretariato, di altri elementi del Programma23, e del loro ruolo nell’assistenza tecnica. Il Programma Crimine stesso include l’utilizzo dell’assistenza tecnica agli Stati membri in materia prevenzione del crimine e di giustizia penale, il lavoro del Segretariato riguarda invece in particolar modo la mobilizzazione delle risorse, la riunione dei potenziali donatori e l’assistenza generale alla Commissione. Dal 1992 ad oggi ci sono stati due sostanziali cambiamenti nel mandato e nel conseguente lavoro della Commissione. Confrontando i temi analizzati dal Commette sul controllo e la prevenzione criminale e dal suo predecessore dei primi periodi delle Nazioni Unite con quelli successivi al 1992, si può rilevare un progressivo slittamento da tematiche legate alla prevenzione del crimine verso problemi maggiormente legati alla reazione al fenomeno criminale, all’adozione di leggi etc. Si ritiene che ciò sia attribuibile alla diversa composizione della Commissione stessa, prima costituita in via principale da esperti criminologi e ora per lo più da esperti diplomatici24. Durante i primi dieci anni di lavoro della Commissione il tema del crimine organizzato transnazionale e molti aspetti della corruzione che erano già inclusi nei primi mandati sono stati spesso al centro dei dibattiti e dei lavori. In questo periodo hanno avuto luogo anche molte delle attività a favore della promozione del consenso a favore della Convenzione di Palermo (2000) e di quella di Merida (2003). L’elaborazione delle due Convenzioni “sorelle” ha parzialmente modificato il mandato, gli argomenti riguardanti l’area di applicazione delle Convenzioni sono infatti ricaduti nella sfera d’interesse delle rispettive Conferenze degli Stati Parte, mentre la Commissione ha mantenuto una giurisdizione complementare sulle problematiche relative al crimine organizzato e alla corruzione, ciò nonostante, possono sempre essere sollevate discussioni in materia e, spesso, questo tipo di dibattiti avviene presso entrambi gli organi, la mole di lavoro della Commissione non è di conseguenza significativamente diminuita.

22

L’assistenza tecnica è un tema a sé nell’agenda della Commissione, vedi E/RES/1992/22, Parte VII, par. 2. A/RES/46/152, Allegato, sottoparagrafo 26(d) e E/RES/1992/22, parte V. 24 Cfr. C.D. Ram, op. cit., p. 56. 23

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Come accennato, non è raro che Stati Membri che non siano state in grado di promuovere sufficiente sostegno a favore di uno specifico tema, lo rinominino per poi presentarlo nuovamente presso un altro organo, prassi che ha contribuito ad intensificare il lavoro del Segretariato. Un secondo cambiamento è avvenuto in seguito alle azioni prese dal Consiglio di Sicurezza nel 2001 che hanno provveduto a espandere le misure in materia di prevenzione del terrorismo. Il lavoro in questo campo ha riscosso un ampio successo e, ad oggi, UNODC detiene un mandato esclusivo nel fornire assistenza tecnica per l’applicazione degli strumenti giuridici esistenti in materia25. Il preambolo e i paragrafi operativi della Ris. 46/152 (OO.PP. 1, 2, 6, 10 e 11 del preambolo e O.P. 8) menzionano i legami tra il crimine in sé, la prevenzione del crimine, le risposte della giustizia penale, il lavoro della nuova Commissione, i diritti umani, la democrazia, l’applicazione della legge, la sicurezza, sia a livello statale che individuale, lo sviluppo e le condizioni sociali dei popoli, i differenti interessi degli Paesi sviluppati e in via di sviluppo e dei loro popoli, il bisogno di affrontare il crimine transnazionale e quello nazionale e il coinvolgimento di altre agenzie specializzate, di altri istituti e della società civile. Nonostante le progressive evoluzioni nell’approccio a queste problematiche e gli stessi cambiamenti avvenuti nel sistema Nazioni Unite dal ’45 ad oggi, il crimine, ha, da sempre implicazioni che sono al contempo sociali, economiche, politiche e di sicurezza, con impatti che a livello locale, nazionale, regionale e globale. In relazione a questo aspetto, la più essenziale delle Funzioni della Commissione consiste proprio nel fornire agli Stati membri uno strumento per lo scambio d’informazioni e di esperienze, idoneo a rendere possibile discutere collettivamente sullo sviluppo di strategie appropriate, identificare priorità nella lotta al crimine e tessere insieme gli interessi di individui, Stati membri e della comunità internazionale nel suo complesso. Lo stesso concetto di scambio di esperienze e di buone pratiche nell’applicazione delle Convenzioni non è da sottovalutare. L’accesso a informazioni riguardo al crimine in altri Paesi, alle politiche di risposta e alle leggi impiegate è un utile mezzo per l’adozione di un miglior sistema di applicazione dei trattati e costituisce un modo per coordinare gli sforzi politici a livello regionale e globale. Lo scambio d’informazioni fra Stato e Stato è considerata una funzione primaria della Commissione. Le sue mansioni vanno ovviamente oltre. Essa costituisce infatti uno strumento per il confronto con altri enti delle Nazioni Unite che abbiano interesse nella prevenzione criminale e nella giustizia penale e siano provviste di un mandato parzialmente corrispondente alle aree tematiche della Commissione. La Commissione costituisce, inoltre, punto d’incontro di vari esperti con diverse formazioni specialistiche secondo quanto richiesto dai temi all’ordine del giorno.

25

E/CN.15/2009/5; E/CN/2010/9 e E/CN. 152011/4 e i rapporti precedenti.

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Funzioni sostanziali 1.1. Identificazione e definizione delle principali sfide per la cooperazione internazionale in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale.

Come detto, la Commissione Crimine costituisce un forum presso cui tutti gli Stati che identifichino un problema inerente alla prevenzione criminale e la giustizia penale possono sollevare la questione. Lo Stato Membro ha quindi l’opportunità di introdurre qualsiasi argomento per il quale ritenga necessario adottare una risposta a livello internazionale. L’identificazione di un crimine a livello nazionale piuttosto che internazionale e la scelta del meccanismo di giustizia da impiegare in risposta può risultare non semplice. Il ruolo della Commissione come forum per la definizione dei crimini e il loro campo d’applicazione è quindi un elemento di grande importanza. La Commissione fornisce dunque agli Stati un canale per proporre le proprie eventuali preoccupazioni in merito a nuove forme di criminalità e informare gli altri membri. Costituisce poi un’occasione per inquadrare la stessa definizione del fenomeno criminale e analizzare i suoi sviluppi attraverso le prospettive globali offerte dai vari partecipanti al lavoro della Commissione. Il confronto fra prospettive può, inoltre, fornire un’utile base per la ricerca, per l’assistenza tecnica e per una curata preparazione di progetti di cooperazione internazionale. Data la fluida evoluzione dei fenomeni criminali, questi aspetti di ridefinizione e inquadramento risultano essere cruciali, l’evoluzione delle definizioni e tipologie chiave progredisce attraverso una dialettica fra le varie prospettive politiche, criminologiche e i mutamenti stessi dei fenomeni criminali.

1.2.

Definizione di politiche per rafforzare la cooperazione internazionale in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale. Una volta identificate le problematiche, la Commissione, come detto, costituisce il principale organo delle Nazioni Unite dove vengono sviluppate le politiche ritenute necessarie. A seconda della fase “storica”, l’individuazione delle politiche può variare dalla semplice discussione di un tema e la creazione di consenso internazionale su ciò che appaia necessario fare, fino alla più ampia e libera discussione fra esperti volta alla ricerca di approcci innovativi attraverso i quali aiutare il coordinamento delle politiche nazionali e ridurre quelle lacune che lasciano spazio alla manovra dei gruppi criminali26. La Commissione è quindi il luogo dove sono sviluppate, periodicamente valutate e revisionate le risposte collettive o multilaterali. Segretariato e Commissione assistono inoltre gli Stati membri nell’adozione delle politiche interne così da assicurarne la conformità e con le Convenzioni internazionali.

1.3. Scambio di informazioni in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale. La Commissione costituisce un forum d’incontro in cui gli esperti in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale possono riunirsi regolarmente e scambiare un’ampia gamma

26

Cfr. C.D. Ram, op cit. p. 60

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d’informazioni. Una volta identificato un aspetto di specifico interesse riguardante vari Stati ed inserito il punto nel programma di lavoro, i rappresentanti degli Stati esperti tecnici in materia procedono all’apertura di colloqui formali e informali e alle condivisioni di ogni tipo d’informazione utile; dalle valutazioni più teoretiche ad esempi di politiche e risposte legali financo allo scambio d’informazioni d’intelligence o investigative. Solitamente anche lo stesso scambio d’informazioni generali porta, nel giro di qualche anno, a considerazioni più specificamente orientate e reazioni su temi specifici27.

1.4. Sviluppo e trasferimento di competenze tecniche e conoscenza. Lo scambio di competenze tecniche e di conoscenza all’interno della Commissione è aspetto che riveste grande importanza, consente infatti un più celere sviluppo di conoscenze e prospettive di ampio respiro, utili per un’efficace risposta al crimine. Uno stesso fenomeno criminale può infatti assumere diverse forme adattandosi alle occasioni fornite dal contesto socioeconomico nel quale agisce, assumendo determinate caratteristiche a seconda sia compiuto in un Paese in via di sviluppo o in uno industrializzato, così come nei suoi diversi momenti. Attraverso lo scambio di resoconti da parte dei vari Stati membri avviene inevitabilmente un arricchimento: (si pensi al confluire delle informazioni di uno Stato il cui territorio costituisce il mercato d’arrivo di un bene illecito con quelle di un altro che è attraversato dai flussi del traffico e di un terzo dal cui territorio operano alcuni dei gruppi criminali organizzati coinvolti). Questo processo contribuisce, inoltre, a favorire una buona cooperazione internazionale incentivando gli Stati a sviluppare politiche che siano tra loro sufficientemente coerenti. La creazione di sapere specialistico su nuovi fenomeni criminali viene spesso promossa da uno o alcuni Stati che per primi hanno dovuto affrontare il nuovo fenomeno criminale, dando il via a un processo di confronto fra gli esperti dello Stato e o della regione di massima esposizione e le loro controparti. Può altresì avvenire che siano quegli Stati che hanno avuto più mezzi per finanziare ricerca e studi a portare le loro conoscenze alla Commissione. In ogni caso, l’interazione in seno alla Commissione è pensata come un meccanismo volto a innalzare le capacità dei singoli Stati consentendo loro di operare in maniera più efficace sia sul piano interno che in ambito multilaterale. Inoltre, attraverso le attività svolte nei gruppi di lavoro della Commissione, negli incontri sull’assistenza tecnica ovvero attraverso il lavoro nell’assemblea plenaria della Commissione, i singoli esperti nazionali accrescono inevitabilmente il proprio livello di conoscenza e specializzazione, fattore che, per così dire, è enumerabile tra le esternalità positive del lavoro presso la Commissione Crimine. Al di là del fatto che Paesi con migliori apparati di ricerca accademica e più risorse possano sembrare potenzialmente più adeguati a contribuire a questo processo, vi è da considerare che il bagaglio di esperienza di ciascun esperto è inevitabilmente diverso e il confronto tra essi non potrà che accrescere le competenze di tutti i partecipanti.

1.5. Mobilitazione delle risorse finanziarie. Un obiettivo primario della Commissione già esplicitamente dichiarato nelle note del Segretario Generale nel 1991 (vedi Report of the Ministerial Meeting on the Creation of an Effective

27

Cfr. ibidem.

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Crime Prevention and Criminal Justice Programme, Paris 21-23 november 1991),28 era quello di contribuire ad un aumento della mobilitazione di risorse, incoraggiare gli Stati ad usufruire dell’assistenza tecnica e promuovere il riconoscimento del fatto che il crimine costituisce un ostacolo allo sviluppo e alla governance. Il perseguimento di questi obiettivi è stato al centro dell’attenzione della Commissione sin dall’inizio dei suoi lavori. Il lavoro della Commissione in questo settore include problematiche quali il livello complessivo del bilancio; l’amministrazione dei contributi da destinarsi a progetti specifici; e il quesito sul se la responsabilità finanziaria debba ricadere sulla Commissione nel suo complesso o individualmente sugli Stati su base dei vari progetti29.

1.6. Fornitura di assistenza tecnica a favore degli Stati Membri delle Nazioni Unite. Il termine assistenza tecnica allude all’assistenza fornita ai Paesi membri da altri Stati membri, ovvero dalle Nazioni Unite stesse o da altri enti come gli istituti indicati nella rete del Programma secondo gli auspici dell’organizzazione. Questa forma d’assistenza che nella dizione tecnica è chiamata “capacity building” può variare dalla semplice fornitura di risorse materiali o finanziarie fino all’invio di esperti tecnici. Nel contesto del Programma per la prevenzione del crimine e della giustizia penale, la maggior parte dei casi di assistenza tecnica riguardano entrambi gli elementi30. Un progetto può ad esempio essere caratterizzato dalla fornitura di attrezzature scientifiche, fino all’organizzazione di corsi di formazione e di aggiornamento per esperti legali o giudici. La Commissione Crimine, come già indicato, non fornisce direttamente questi servizi ma è il forum principale del sistema Nazioni Unite dove la domanda di assistenza si congiunge all’ offerta. Molti documenti, tra i quali la stessa la risoluzione contenente il mandato della Commissione, si riferiscono a questa funzione col termine “clearing house function”, espressione valida anche nel caso dell’assistenza nell’ottenimento di servizi31.

1.7. Funzioni relative ai trattati e al diritto internazionale. Nonostante la Commissione Crimine abbia svolto un ruolo nello sviluppo di entrambe le Convenzioni (Palermo e Merida), le sue funzioni rispetto a queste sono tuttavia più limitate di quanto alcuni ritengano. In generale, l’utilizzo del diritto internazionale e di altri strumenti legali costituisce un’importante strumento per contrastare il crimine internazionale, tuttavia, l’alto grado di consenso e gli alti costi in termine di tempo e di risorse materiali necessari alla costruzione del medesimo fanno sì che l’elaborazione di uno strumento legale sia considerata quasi una risorsa di ultima istanza; la grande maggioranza delle attività previste nel mandato della Commissione

28

Cfr C.D. Ram, op cit., 62. Cfr. ibidem. 30 Cfr. ibidem. 31 I primi testi in proposito si riferiscono a ciò col termine “cooperazione tecnica” “technical cooperation”. Si veda la nota del Segretario Generale “Transmitting the Report of the Ministerial Meeting on the Creation of an Effective Crime Prevention and Criminal Justice Programme (Paris, 21-23 November 1991)”, A/46/703, paragrafo 48, 52 e58. Si veda inoltre la Ris. E/RES/1992/22, Parte I, sottoparagrafo 3(e). L’assistenza tecnica è poi diventata un capitolo a sé dell’agenda della Commissione si veda in proposito la Ris. E/ RES/1992/22, parte VII, paragrafo 2. 29

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non prevedono infatti una fase di creazione di trattati e tra centinaia di risoluzioni adottate dalla Commissione solo pochissime hanno riguardato la loro negoziazione32. La stessa Commissione non è stata stabilita da un trattato e a differenza di quanto avvenuto per la sua controparte la Commissione sulle Droghe Narcotiche (CND) il suo mandato non prevede la vigilanza di nessuno dei trattati per il quale il Segretariato è responsabile. Le Convenzioni del 1961, 1971 e 1988 che si occupano di droghe narcotiche attribuiscono infatti alla CND il compito di vigilanza e all’Organo Internazionale per il Controllo degli Stupefacenti (INCB) il compito di monitorare la conformità degli ordinamenti degli Stati membri alle loro indicazioni33. Al momento della negoziazione delle Convenzioni di Palermo e Merida gli Stati decisero di istituire per ognuna delle Convenzioni un nuovo organo ad hoc con compiti in materia di implementazione, decidendo che la sua composizione avrebbe riflettuto quella degli Stati parte all’accordo piuttosto che delle Nazioni Unite nel loro complesso. Gli stessi negoziati di entrambe le Convenzioni sono stati avviati da comitati dell’Assemblea Generale stabiliti ad hoc e gli stadi successivi, corrispondenti all’effettivo inizio dei negoziati formali sono stati portati a termine da un gruppo intergovernativo di esperti all’interno del quale si cercò di garantire la partecipazione del maggior numero di Stati possibile. Dunque, la funzione principale della Commissione Crimine resta quella di costituire un forum primario per le politiche in materia di prevenzione del crimine e di giustizia penale mentre le Convenzioni sono state sviluppate presso altri organi per i loro specifici fini. La Commissione resta perciò il luogo dove vengono prese iniziative che possono potenzialmente sfociare nell’istituzione di uno strumento legale, ma questo non è né l’unico né il più ricorrente sviluppo dei suoi lavori. Si consideri infatti che di 55 argomenti generali affrontati dalla Commissione durante le sue prime 15 sessioni, solo in quattro casi si è dato il via all’adozione di un trattato34; e, per quanto questa pratica possa essere importante, non dovrebbe essere considerata la sola misura di successo delle attività della Commissione Crimine; le risposte al crimine organizzato partono spesso da un momento di riflessione costruttiva sui dati e le prove mostrate in seno alla Commissione affinché su di essi si fondi la costruzione di consenso intorno al tipo di risposte più adeguate.

Funzioni procedurali 1.8. Raggiungimento e gestione del consensus. La Commissione Crimine, in qualità di organo intergovernativo ha la funzione fondamentale di ricercare e produrre un consenso internazionale circa le risposte più adeguate alle sfide della criminalità organizzata, questo sforzo si sviluppa attraverso la ricerca di una chiara comprensione delle problematiche tesa all’adozione di vie che portino progressivamente ad un rinforzo

32

Cfr C.D. Ram, op. cit., 60. Vedi gli articoli 21-22 della Convenzione del 1988 e i Commentari sulla Convenzione delle Nazioni Unite contro i Traffici Illeciti di Droghe Narcotiche e Sostanze Psicotrope E/CN. 7/590, U.N. Publication Sales No. E.98.XI.5, 36886. 34 Cfr. C.D. Ram, op.cit., 64. 33

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dell’efficienza dei sistemi di prevenzione del crimine e di giustizia penale. Su questo fronte si incrociano diverse prospettive e che nel complesso vanno a costituire un momento cruciale. È infatti anche il primo momento d’incontro tra le prospettive (eventualmente divergenti) degli esperti criminologi e le tendenze dei governi degli Stati membri nell’interpretare e attribuire diverse priorità alla lotta contro il crimine, è necessario che si crei al contempo un’intesa tra Stati con diversi orientamenti politici e tra gli esperti; trovare un giusto mix di questi interessi e punti di vista costituisce il cuore dell’avanzata della cooperazione internazionale. Negli Stati democratici l’alternanza tra governi che si pongono alla sinistra e alla destra dello spettrogramma dei partiti ha un impatto significativo anche sulle conseguenti opinioni in materia di prevenzione del crimine e di utilizzo della giustizia penale, la discrasia tra l’alternanza dei governi e il progredire dell’intesa internazionale fa sì che, in organi come la Commissione, le posizioni più estreme siano spesso sacrificate e che si avanzi attraverso un compromesso espressione più tipica di posizioni “centriste” e moderate. La CCPCJ non è comunque totalmente insensibile al cambiamento dei governi degli Stati membri e ciascun periodo è stato ciclicamente caratterizzato dal crearsi di alcuni equilibri che diventano per un dato tempo un terreno fertile per l’avanzata dei lavori della Commissione in quelle sue aree di priorità dove il periodo consente una più facile convergenza di interessi che si sintetizzino in un consensus solido. Oltre alla delicatezza stessa delle trattative nel raggiungimento del consenso necessario vi è poi da considerare il fatto che la Commissione deve rispondere a una domanda di legittimità, come gli organi politici nazionali dovrebbero riflettere il mandato fornitogli dalla maggioranza dei propri elettori, la Commissione deve riflettere le posizioni della comunità internazionale a livello globale. Nello sviluppo di consenso su ciascun problema, l’articolarsi delle posizioni e i loro aggiustamenti nel corso dei negoziati si esprimono attraverso diverse forme, limitano per esempio l’estensione di alcune proposte politiche ovvero ne scartano altre. Così che i diversi interessi vengono poi riconciliati intorno a ciò che rimane dell’iniziale strategia. Nelle negoziazioni la Commissione ambisce a raggiungere un accordo tale da far sentire alle varie delegazioni che il proprio punto di vista si è riflesso sufficientemente nel compromesso individuato. L’incontro tra prospettive politiche, diplomatiche e sostanziali è anch’esso di delicata sintesi. Il buon funzionamento dell’organo vorrebbe che si mantenesse un equilibrio tra le prospettive appena menzionate, la presenza del sapere tecnico necessario ad assicurare una valida e pragmatica analisi delle politiche e quell’ influenza politica necessaria a dare legittimità alle iniziative che si vogliono prendere. Il compromesso e la conciliazione tra policies e politics è quindi un elemento centrale. Un momento cruciale del lavoro della Commissione è lo sviluppo di politiche efficaci nella lotta alla criminalità organizzata, obiettivo che la Commissione Crimine cerca di raggiungere attraverso la ricomposizione delle distanze d’opinione a livello tecnico criminologico, le distanze nelle opinioni economiche, sociali e ideologiche riflesso della vita politica interna dei Paesi, nonché attraverso un compromesso fra le diverse opinioni dei rappresentanti degli Stati.

1.9. Coordinazione fra istituzioni. Può accadere che altri organi delle Nazioni Unite o che alcuni temi di cui il Segretariato è incaricato trattino materie che hanno aspetti di interesse dal punto di vista della prevenzione del crimine e la giustizia penale; non è infatti un caso che alcuni degli esperti che lavorano al Segretariato si occupino di crimine in determinati settori o in riferimento a particolari tematiche.

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In questi casi la Commissione costituisce un nodo di giuntura in cui possano essere coordinati lavori e mandati di natura multidisciplinare, costituendo questa una solida base dove le competenze tecniche in materia di giustizia penale possono essere utilizzate. Il fatto che un tema venga trattato e categorizzato come problematica legata ai diritti umani avente elementi di prevenzione del crimine e giustizia penale o viceversa può infatti dipendere da vari fattori, ma è necessario che la Commissione assicuri che i lavori su temi inerenti alla giustizia penale siano affrontati in coerenza con i cardini del suo mandato e che si sfrutti la conoscenza tecnica delle varie discipline necessaria all’invio di una buona assistenza tecnica.

1.10. Definizione delle priorità nel lavoro della Commissione. La Commissione costituisce il luogo primario dove è attribuito un ordine di una priorità ai problemi relativi alla prevenzione del crimine e alla giustizia penale. Questo processo avviene attraverso l’analisi dei dati forniti dai vari esperti e delle priorità riferite dei vari Stati membri. La Commissione è direttamente responsabile per l’individuazione di priorità nel Programma per la prevenzione del Crimine e la giustizia penale delle Nazioni Unite35, ma, nei fatti, le sue delibere assistono anche l’individuazione di priorità di altre entità delle Nazioni Unite, nonché, in una certa misura, delle priorità interne all’ordinamento degli Stati membri nelle sue materie di competenza. Le sue scelte sono, tuttavia, soggette all’approvazione del Consiglio Economico e Sociale e talvolta dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite36. (Attività che viene svolta su base annuale). Per trovare un accordo tra gli Stati membri e allargare la base di consenso alle varie proposte vengono create lunghe liste contenenti ogni tipo di crimine o timore espresso dai rappresentanti degli Stati membri in materia di sviluppi della criminalità, il processo va a avanti saturandosi finché non arriva una proposta di “rivitalizzazione” e il processo di elencazione delle priorità riinizia37. Le due Commissioni (CND e CCPCJ) hanno entrambe autorità esclusiva nell’individuazione delle proprie priorità e la loro Strategia si basa sui rispettivi mandati e non li modifica, preservando così in un certo senso le priorità originali. La Commissione potrebbe in ogni caso stabilire nuovi mandati o fissare nuove priorità dal momento che essa è un organo sovrano.

1.11. Pianificazione strategica delle attività del Programma Crimine, del Segretariato e della stessa Commissione.

Tra le funzioni in materia di gestione e supervisione, vi è quella di pianificazione strategica del Programma Crimine per il Segretariato. La capacità della Commissione di pianificare strategie pluriennali per il proprio lavoro è invece più limitata. Elementi quali l’improvviso emergere di una problematica, le priorità annuali e il contenuto delle risoluzioni di ogni anno non sono facilmente anticipabili. Talvolta la Commissione è riuscita ad indicare anticipatamente temi che dovessero ricorrere durante i suoi lavori o che vi dovessero prendessero uno spazio a sé, ma la maggior parte delle attività non

35

E/RES/1992/22, Parte I, paragrafo 3, sottoparagrafo 1. E/RES/1992/22 Parte VI. 37 Cfr. C.D. Ram, op. cit., 68. 36

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sono facilmente pianificabili con grande anticipo essendo queste espressione della reazione a mutamenti nel campo della criminalità. Solitamente le funzioni di fissazione delle priorità devono costituire un compromesso tra due fattori confliggenti. Se da un lato una pianificazione anticipata è necessaria affinché gli Stati membri siano in grado di considerare le implicazioni interne relative a certe tematiche, le possibili opzioni, consultarsi con altri Stati e preparare la delegazione a discussioni dai contenuti sostanziali è possibile se la problematica è anticipatamente chiarita tramite il sostegno di una buona documentazione da parte del Segretariato. Dall’altro rimane il fatto che l’evoluzione delle attività criminali e le stesse priorità politiche degli Stati sono per definizione difficili da prevedere, e molte delegazioni preferiscono quindi poter mantenere una certa flessibilità e poter sollevare problematiche con poco o nessun anticipo38. Nel 2011 sono state fatte alcune riforme in proposito e la Commissione ha indicato che le bozze di risoluzioni dovessero essere presentate con un mese d’anticipo per permettere al Segretariato di provvedere alla traduzione e disseminazione dei testi nelle varie lingue, e permettere agli Stati membri di selezionare i propri esperti; nello stesso periodo si è anche deciso di che dovessero esserci intervalli sufficienti fra le sessioni della CND (solitamente tenute in Marzo) e quelle della CCPCJ (solitamente tenute in Aprile), così da permettere al Segretariato e agli Stati membri di prepararsi adeguatamente39. Le due Commissioni costituiscono il meccanismo attraverso il quale gli Stati Membri supervisionano e indirizzano il lavoro di UNODC. Qualsiasi cosa il Segretariato sia chiamato a fare, le Commissioni ne sono supervisori. Questo controllo può essere sintetizzato in alcuni aspetti principali che corrispondono a: supervisione e indirizzo nello sviluppo di politiche di sviluppo, pianificazione dei programmi e fissaggio delle priorità, supervisione del modo in cui i progetti e altri lavori vengono condotti, e supervisione finanziaria. La Commissione esercita poi un ruolo di controllo più limitato nelle azioni inerenti ad aree tematiche la cui trattazione è inclusa contemporaneamente anche nel mandato di altri organi delle Nazioni Unite. Il volume delle funzioni di supervisione e l’attenzione posta a queste problematiche sono cresciuti in maniera sostanziale dall’inizio dei suoi lavori. Ciò è stato possibile grazie all’espansione delle sue risorse finanziarie e dei mandati in attività di prevenzione criminale e giustizia penale. Fattore in parte dovuto alla diffusa tendenza a percepire il lavoro della Commissione

38

Cfr. Ibidem. Vedi E/2011/30, la Bozza di Decisione 20/1, Report of the Commission on Crime Prevention and Criminal Justice on its twentieth session, provisional agenda for its twenty-first session and organization of work of its future sessions. Vedi anche la discussione sul “thematic planning” della Commissione stessa, Parte G, raccomandazione 5. “Generally, the timing of the two Commissions must balance among ensuring that Member States have enough time to prepare, the conflicting demands of crime, drug and other Vienna based processes (notably those of the International Atomic Energy Agency) for document translation and other Secretariat support, and the need to ensure that the Reports of both bodies, including resolutions addressed to the ECOSOC and/or General Assembly, are processed and disseminated early enough to permit consideration and the next annual sessions of the ECOSOC, which usually take up the crime and drug subject matter in June or early July each year”. 39

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come sufficientemente serio e importante e al fatto che riuscita sia per questo motivo ad attrarre la sensibilità del mondo politico40. Il bisogno di coerenza e continuità nella supervisione lavoro del Segretariato da parte delle due Commissioni ha portato all’istituzione nel 2009 di un gruppo di lavoro permanente sulla gestione della governance e delle risorse finanziarie (altresì noto come Fingov), il suo mandato, come vedremo in seguito, è stato istituito da alcune risoluzioni congiunte durante il 201141.

2. Rapporti e sinergie nel più ampio quadro delle Nazioni Unite. 2.1. Il ruolo della Commissione rispetto a UNODC. Assieme alla Commissione Narcotici, la Commissione Crimine agisce come organo di governo dell’Ufficio Droga e Crimine delle Nazioni Unite. Approva inoltre il bilancio del Fondo delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine che fornisce le risorse per la fornitura di assistenza tecnica in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale a livello globale.

2.2. Ruolo rispetto alle Conferenze degli Stati Parte alle Convenzioni di Palermo e di Merida. Come già accennato, la creazione delle Convenzioni di Palermo e di Merida e la nascita delle due Conferenze degli Stati Parte hanno modificato il mandato della Commissione Crimine solo parzialmente. I mandati di questi tre organi sono infatti diversi anche se parzialmente sovrapposti. Gli argomenti riguardanti l’area di applicazione delle Convenzioni sono ricaduti nella sfera d’interesse delle rispettive Conferenze degli Stati Parte, la Commissione ha però mantenuto una giurisdizione complementaria sulle problematiche riguardanti il crimine organizzato e la corruzione esterne dall’ombrello delle Convenzioni. Nonostante ciò, all’interno della Commissione possono sempre essere sollevate discussioni in materia, questo tipo di dibattiti avviene spesso presso entrambi gli organi e, come segnalato, la mole di lavoro della Commissione non è di conseguenza significativamente diminuita. Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato Transnazionale La Conferenza degli Stati Parte alla Convenzione di Palermo fu stabilita in accordo con l’art. 32 comma 1 di UNTOC attraverso la Ris. 55/25 dell’Assemblea Generale (all. 1). Secondo questo paragrafo i due principali obiettivi della Conferenza degli Stati Parte (CoP) corrispondono al miglioramento della capacita degli Stati nella lotta al cimine transnazionale, la promozione della Convenzione e l’assistenza alla sua applicazione. Come indicato dall’art. 1 comma 2 di ciascuno dei Protocolli complementari alla Convenzione, questo compito si applica mutatis mutandis anche ad essi. Secondo quanto previsto dall’art. 32, comma 3 di UNTOC, la CoP dovrà accordarsi circa un meccanismo volto ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi menzionati, questi includono: la facilitazione delle attività previste dagli artt. 29-31 della Convenzione, incluso l’incoraggiare la mobilitazione di contributi volontari da parte degli Stati; facilitare lo scambio di informazioni su nuove forme e tendenze della criminalità organizzata e delle pratiche di successo nella lotta al crimine; la cooperazione con le più rilevanti orga-

40

Cfr. C.D. Ram, op. cit., 68. Vedi le risoluzioni 52/13 della CND e 18/3 della CCPCJ. I documenti generati da questo gruppo, noto come “FinGov” sono reperibili all’indirizzo: http://www.unodc.org/unodc/en/commissions/wg-governance-finance-2.html. 41

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nizzazioni governative e non governative; la periodica revisione dell’applicazione della Convenzione e dei Protocolli aggiuntivi, nonché l’adozione di raccomandazioni sull’applicazione dei medesimi. Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione Similmente, secondo l’art. 63 comma 1 della Convenzione di Merida, la Conferenza degli Stati Parte deve rivolgere i propri sforzi al raggiungimento dei seguenti obiettivi: a. migliorare la capacità e la cooperazione fra Stati al pieno raggiungimento degli obiettivi stabiliti dalla Convenzione; b. promuoverne e revisionarne l’applicazione. Nell’art. 63 comma 4 è specificato che Conferenza degli Stati Parte dovrà accordarsi sulle attività, le procedure ed i metodi di lavoro atti conseguire gli obiettivi enunciati al comma 1 dell’art. 63, in particolare: a. agevolando le attività condotte dagli Stati Parte ai sensi degli articoli 60 e 62 e dei capitoli da II a V della Convenzione, anche incoraggiando l’apporto di contributi volontari; b. agevolando lo scambio di informazioni tra gli Stati Parte sui modelli e le tendenze della corruzione e sulle pratiche efficaci per prevenirla, combatterla e per restituire i proventi del crimine attraverso, tra l’altro, la pubblicazione delle informazioni pertinenti indicate nell’art. 63; c. cooperando con le organizzazioni e i meccanismi internazionali e regionali e con le organizzazioni non governative competenti; d. utilizzando adeguatamente le informazioni pertinenti prodotte da altri meccanismi internazionali regionali per la lotta e la prevenzione della corruzione al fine di evitare inutili duplicazioni delle attività; e. riesaminando periodicamente l’attuazione della Convenzione da parte dei suoi Stati Parte; f. formulando raccomandazioni per migliorare la Convenzione e la sua applicazione; g. prendendo nota dei bisogni degli Stati Parte in materia di assistenza tecnica relativa all’applicazione della Convenzione e raccomandando le misure che ritenga necessarie. La CoP acquisisce poi la necessaria conoscenza in merito alle misure adottate e le difficoltà incontrate dagli Stati Parte nell’attuazione della presente Convenzione attraverso le informazioni da questi fornite attraverso i meccanismi complementari di esame da essa eventualmente istituiti. Ciascuno Stato Parte fornisce alla CoP, secondo quanto richiesto dalla stessa, le informazioni sui suoi programmi, piani e pratiche e altresì sulle misure legislative ed amministrative per attuare la presente Convenzione. La Conferenza esamina il mezzo più efficace per ricevere e dar seguito alle informazioni, comprese in particolare le informazioni ricevute dagli Stati Parte e dalle organizzazioni internazionali competenti. I contributi ricevuti da organizzazioni non governative accreditate in conformità con le procedure dalla Conferenza possono anch’essi essere considerati. Nell’ultimo periodo dell’art. 63 si legge: “La Conferenza degli Stati Parte istituisce, se lo ritiene necessario, eventuali meccanismi o organi adeguati ad agevolare l’effettiva attuazione della Convenzione”. A riguardo, durante la sua terza sessione tenuta a Doha nel novembre 2009, la Conferenza degli Stati Parte ha adottato la Ris. 3/1 intitolata “meccanismo di revisione” (Review mechanism). Nella medesima sessione, la Conferenza ai sensi dell’art. 63, comma 7, ha adottato i “Terms of Reference of the Mechanism for the Review of Implementation of the United Nations Convention against Corruption” contenuti in allegato alle stessa risoluzione e la bozza di linee guida per gli esperti dei governi e il segretariato nella conduzione di revisioni sullo Stato di applicazione della Convenzione di Merida (guidelines for governmental experts and the secretariat in the conduct of country reviews and the draft blueprint for country review reports), documento

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che è stato poi finalizzato col nome “Gruppo di Lavoro sulla Revisione dell’Applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Corruzione” (IRG) (Implementation Review Group). Sempre nella stessa risoluzione, la Conferenza ha deciso che l’IRG sarebbe stato incaricato di seguire e continuare il lavoro precedentemente condotto dal Gruppo di lavoro Permanente Intergovernativo per l’Assistenza Tecnica.

2.3. Il Segretariato. Il Segretariato delle Nazioni Unite valorizza una delle più distinte caratteristiche delle odierne organizzazioni internazionali, essendo un Segretariato permanente i cui membri lavorano difendendo gli interessi e gli scopi dell’organizzazione piuttosto che quelli dei propri Stati d’origine. La Carta delle Nazioni Unite è esplicita nell’istituire il Segretariato come uno dei gli “organi principali” dell’intero sistema42. Il Segretariato è indicato comprendere un Segretario Generale e il personale cui l’organizzazione abbia bisogno. Il Segretario Generale è descritto come funzionario capo amministrativo dell’organizzazione “cheaf administrative officer of the Organization”43. Il personale è eletto dal Segretario Generale secondo le regole stabilite dall’Assemblea Generale44. Lo staff deve poi essere assegnato al Consiglio Economico e Sociale, al Consiglio di Amministrazione Fiduciaria e agli altri organi. La sezione per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale era composta di circa venti membri al momento dell’istituzione della Commissione Crimine ed oggi (...) Questa sezione, nota con il nome inglese di Crime Prevention and Criminale justice Branch, è stata a lungo parte del Centro per lo Sviluppo Sociale e gli Affari Umanitari (Centre for Social Development and Humanitarian Affairs), organo successivamente soppresso e il cui personale è stato per lo più spostato a New York. Il Crime Prevention and Criminale justice Branch resta a Vienna dove si riunisce la Commissione, è responsabile della stesura e della distribuzione dei documenti di lavoro, il cosidetto paper flow. La Ris. 46/152 dell’Assemblera Generale, che ha riorganizzato il Programma per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale, indica nei seguenti ternmini il ruolo del Segretariato: “Il Segretariato sarà l’organo permanente responsabile della facilitazione dell’applicazione del Programma Giustizia, le priorità del quale saranno stabilite dalla Commissione; sarà poi responsabile di assistere la Commissione nella conduzione delle valutazioni sui progressi raggiunti e sulle difficoltà incontrate. Per raggiungere questo obbiettivo il Segretariato dovrà: - mobilizzare le risorse esistenti, inclusi gli istituti, le organizzazioni intergovernative, le organizzazioni non governative, e altre autorità competenti all’applicazione del Programma; - coordinare la ricerca, i corsi di formazione, la raccolta di dati sul crimine e la giustizia, la procura di assistenza tecnica e di informazione pratica agli Stati Membri, in particolare attraverso la Rete d’informazione Globale sul Crimine e la Giustizia Penale (Global Information Network on Crime and Crinimal Justice);

42

Carta Nazioni Unite art. 7. Ibidem, art. 97. 44 Ibidem, art. 101, par. 1. 43

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- assicurare che i potenziali donatori di assistenza nell’ambito della giustizia penale siano messi in contatto con i Paesi che necessitano della medesima; - far sì che le tematiche di assistenza tecnica nell’area della giustizia penale siano presentate alle opportune agenzie di finanziamento45. In queste aree d’interesse l’assistenza agli Stati Membri ha spesso avuto luogo tramite l’invio di esperti o attraverso programmi di fellowship, che consentono a professionisti di condurre periodi di servizio in altri Paesi così da aver accesso a una più ampia formazione sui modi in cui vengono affrontate le tematiche in materia; altri progetti d’assistenza hanno riguardato l’invio d’esperti per periodi fino a due anni nei paesi richiedenti, la diffusione di questo tipo di attività suggerì, negli anni settanta, la creazione di posizioni quale quella del Consigliere Interregionale, un funzionario che si occupava proprio di accrescere efficienza e fluidità in questo tipo d’assistenza46.

2.4. Il Consiglio Economico e Sociale (ECOSOC). Come il Segretariato Generale, il Consiglio Economico e Sociale è stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite come uno dei principali organi del sistema Nazioni Unite47. Esso è costituito da 54 Stati membri eletti dall’Assemblea Generale48, 18 dei quali eletti ogni anno per un mandato di tre anni. Un membro uscente è comunque immediatamente rieleggibile. La distribuzione dei seggi dal punto di vista geografico prevede la presenza di 14 Stati africani, 11 asiatici, 10 dai Caraibi e dall’America Latina, 13 da Paesi dell’Europa occidentale e altri Stati e 6 dell’Europa orientale49. La Carta descrive così le principali funzioni dell’ECOSOC: 1. Il Consiglio Economico e Sociale può portare avanti o iniziare studi in materia di economia internazionale, negli ambiti sociale, culturale, dell’educazione, della salute ed in questioni affini. Può inoltre fare raccomandazioni in relazione a ognuna di queste tematiche all’Assemblea Generale, a membri delle Nazioni Unite e alle Agenzie specializzate interessate. 2. Può fare raccomandazioni per la promozione del rispetto e dell’osservanza dei diritti umani e le libertà fondamentali nei confronti di ogni individuo. 3. Può preparare bozze di Convenzioni da sottoporre all’Assemblea Generale nelle materie che rientrino nelle proprie competenze. 4. Può indire, in accordo con le regole prescritte dalle Nazioni Unite, conferenze internazionali su argomenti rientranti nella sua area di competenza. Il lavoro legislativo svolto da ECOSOC nell’area della giustizia penale rientra dunque nei poteri previsti dai primi due punti del suo mandato. I Congressi Crimine vengono indetti dal Consiglio Economico e Sociale secondo il potere previsto al comma quattro e in accordo con la Ris. dell’Assemblea Generale 415 (V) del 1950 che riguardava il trasferimento di competenze dal International Penal and Penitentiary Commission alle Nazioni Unite. La prevenzione del crimine e la giustizia penale non sono solite avere un alto profilo all’interno delle delibere di

45

G.A. Res. 46/152, Annex par. 31, traduzione non ufficiale. Cfr. R.S. Clark, The United Nations Crime Prevention and Criminal Justice Program Formulation of Standards and Efforts at Their Implementation, Philadelphia, 1994, 65. 47 Carta Nazioni Unite art. 7. 48 Carta Nazioni Unite art. 61. 49 G.A. Res, 2847, 1971. 46

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ECOSOC, inoltre, questo tema non appare spesso nell’agenda come argomento a sé stante. Era usualmente trattato come un aspetto interno alla più generale tematica dello sviluppo sociale. L’ECOSOC si riunisce ogni anno in brevi sessioni organizzative in gennaio/febbraio a New York e per una sessione sostanziale tra maggio e luglio, che si svolge in anni alternati a New York o a Ginevra. Solitamente ECOSOC, in una riunione plenaria adotta formalmente quanto è stato deciso nei Committee o nelle Commissioni senza tenere un vero e proprio dibattito. I rapporti della Commissione Crimine difficilmente ricevono in questa sede un’attenzione dettagliata50. Ovviamente, questo si basa sulla forte presunzione che la Commissione abbia operato in maniera consapevole e che il suo rapporto costituisca la sintesi dei compromessi individuati. Certamente può accadere che una bozza di risoluzione della Commissione venga rivista, modificata o sospesa tra le sessioni di ECOSOC, mentre la problematica viene debitamente affrontata. Accade talvolta che membri della Commissione Crimine o, precedentemente, membri del Committee trovino accesso a ECOSOC come rappresentanti dei rispettivi Stati o in veste di lobbisti informali. Al momento dell’adozione dei rapporti della Commissione Crimine da parte di ECOSOC non sono solitamente presenti gli autori ed è spesso il Segretariato a portare a temine il compito di fornire una breve introduzione ai testi. Occasionalmente al momento di dibattiti su questioni di giustizia può essere presente una delegazione di rappresentanti nazionali provenienti dai Ministeri dell’Interno o altri uffici, tradizionalmente questi compiti sono portati avanti da delegati provenienti dalle sedi di New York o Ginevra.

2.5. L’Assemblea Generale. L’Assemblea Generale tiene le sue riunioni annuali a New York tra il terzo martedì di settembre e metà dicembre. Essa funziona attraverso il lavoro presso l’assemblea plenaria e sei Commissioni (committees). La Terza Commissione si occupa delle tematiche in campo sociale, umanitario e culturale. È a questa che sono assegnate, inter alia, le tematiche in materia di diritti umani, prevenzione del crimine e giustizia penale. La prevenzione del crimine e la giustizia penale appaiono solitamente come un argomento a sé stante nell’agenda, nonostante il fatto che aspetti inerenti alla prevenzione del crimine vengano esaminati spesso anche in relazione a punti dell’agenda relativi ai diritti umani51. Accade frequentemente che i rappresentanti degli Stati che partecipano ai lavori della Terza Commissione siano gli stessi che operano all’interno di ECOSOC, spesso esperti in materia di diritti umani. Accade talvolta che in occasione delle sessioni successive a un Congresso sul crimine, la partecipazione dei rappresentanti degli Stati venga arricchita con ulteriori delegati dalle capitali al fine di meglio contribuire ai punti in materia di prevenzione del crimine e di giustizia penale; in questi casi, i rappresentanti del Paese che ha ospitato il Congresso tendono a giocare un ruolo di spicco nel guidare all’approvazione degli strumenti adottati dal Congresso. Può accadere anche che le raccomandazioni individuate durante un Congresso seguano l’iter che le porta poi alla Commissione Crimine in aprile, all’ECOSOC in luglio e se necessario all’Assemblea Generale a fine anno.

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Cfr. R.S. Clark, op. cit., 68 Cfr. R.S. Clark, op. cit., 80.

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2.6. I Congressi sul Crimine. I Congressi sono convocati ogni cinque anni dal Consiglio Economico e Sociale in linea con i poteri attribuiti dall’art. 61 della Carta delle Nazioni Unite e della Ris. 415 (V), il primo fu tenuto a Ginevra nel 1955. Nel Piano per il trasferimento delle funzioni della Commissione Penale e Penitenziaria Internazionale (CPPI) (International Penal and Penitentiary Commission) allegato alla risoluzione, si legge: “Le Nazioni Unite dovranno tenere ogni cinque anni un congresso internazionale simile a quelli precedentemente organizzati dalla CPPI. Le Risoluzioni adottate durante questi congressi internazionali dovranno essere comunicate al Segretario Generale e, se necessario, agli organi di “policy making” (per il tema prevenzione del crimine e giustizia penale è la CCPCJ). La Ris. 46/152 ha in questi termini cristallizzato la common law sui congressi: In qualità di organo consultivo del Programma Giustizia, il Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e il Trattamento dei Criminali dovrà fornire un forum per: (a) lo scambio di vedute tra Stati, organizzazioni intergovernative e i singoli esperti rappresentanti di diverse discipline e professioni; (b) lo scambio di esperienze nel campo della ricerca e dello sviluppo di leggi e politiche; (c) l’identificazione di tendenze emergenti e di problematiche nella prevenzione criminale e giustizia penale; (d) l’elaborazione di commenti e consigli su temi suggeriti dalla Commissione Crimine; (e) la presentazione di suggerimenti alla Commissione Crimine su possibili soggetti per il programma dei suoi lavori52. La risoluzione continua descrivendo alcune disposizioni che dovrebbero essere applicate al fine di ottenere buoni risultati e rinforzare la capacità operativa del Programma53. Il Congresso può durare tra i cinque e i dieci giorni lavorativi. La Commissione Crimine deve scegliere e definire con precisione i temi da trattare al fine di garantire una discussione produttiva e mirata. La risoluzione infine indica che debba essere incoraggiata l’organizzazione di seminari su temi parte del programma del Congresso suggeriti dalla Commissione, nonché di paralleli incontri con le organizzazioni non governative.

2.7. Gli Istituti della rete sulla Prevenzione Criminale e la Giustizia Penale (CPCJPN). Con il termine Istituti delle Nazioni Unite, o (CPCJPN) Crime Prevention and Criminal Justice Program Network, si allude a un’eterogenea serie d’istituti, ognuno dei quali ha degli accordi con il Segretariato, tuttavia non tutti contengono necessariamente il titolo di istituto all’interno del proprio nome. Tra questi vi sono: (a) l’Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia (UNICRI) (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute), con sede a Roma, un’entità delle Nazioni Unite che opera su base interregionale; (b) quattro istituti regionali affiliati: l’Istituto delle Nazioni Unite in Asia e Estremo Est per la Prevenzione e il Trattamento del Crimine (UNAFEI) (United Nations Asia and Far East Institute for Prevention of Crime and Treatment of Offenders), a Fuchu in Giappone (che copre l’Asia e

52 53

G.A. Res. 46/152, Annex, par. 29. Cfr. Ibidem, par. 30

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il Pacifico); l’Istituto delle Nazioni Unite in America Latina per la Prevenzione e il Trattamento dei Criminali (United Nations Latin America Institute for Prevention of Crime and Treatment of Offenders) (ILANUD), a San Jose in Costa Rica che copre l’area America Latina e i Caraibi; l’Istituto Europeo per il Controllo e la Prevenzione del Crimine (HEUNI) (European Institute for Crime Prevention and Control), affiliato alle Nazioni Unite, situato a Helsinki in Finlandia, copre l’Europa; l’Istituto Regionale Africano delle Nazioni Unite per la Prevenzione il Trattamento dei Criminali (United Nations African Regional Institute for the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders) (UNAFRI), situato a Kampala in Uganda, che copre l’Africa. (c) tre entità associate che cooperano anch’esse strettamente con le Nazioni Unite: il Centro Arabo per Corsi di Formazione e Studi e sulla Sicurezza (ASSTC) (Arab Security Studies and Training Center), a Riyadh in Arabia Saudita, che copre il mondo arabo; l’Istituto Australiano di Criminologia (Australian Institute of Criminology), a Wooden in Australia, un istituto sub regionale che copre il Pacifico; e il Centro Internazionale per la Riforma della Legge Penale e le Politihce di Giustizia (International Ceter for Criminal Law Reform and Criminal Justice Policy), a Vancuver, in Canada, che è un centro internazionale. Oltre a cooperare con la branca per la prevenzione del crimine e la giustizia penale, gli istituti collaborano con: le Commissioni Economiche e Sociali Regionali delle Nazioni Unite, altre organizzazioni, i governi degli Stati della loro regione di competenza, altre entità nonché con gli esperti. Già la Ris. 46/152 dell’Assemblea Generale auspicava che si facesse un crescente uso degli istituti a sostegno del Programma, esortava inoltre le organizzazioni e gli Stati Membri a supportare le loro attività, con particolare riferimento ai bisogni degli istituti aventi sede negli Stati in via di sviluppo. La risoluzione suggerisce che il loro contributo allo sviluppo e all’applicazione delle politiche debba essere il più possibile integrato nel Programma, in special modo quello dell’Istituto Regionale Africano delle Nazioni Unite per la Prevenzione il Trattamento dei Criminali54. La risoluzione stabilisce, inoltre, che la Commissione Crimine possa suggerire aree di collaborazione fra le attività dei vari istituti55. UNICRI è stato descritto come elemento centrale del Network56, stabilito per la prima volta come Istituto Sociale di Ricerca per la Difesa (UNSDRI) (United Nations Social Defense Research Institute) nel 1968, concepito come braccio di ricerca del Programma per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale. Il suo lavoro è poi andato espandendosi verso la preparazione di corsi di formazione e di attività sul campo, specialmente in Paesi in via di sviluppo. Nel 1989 fu adottato un nuovo statuto che ne istituiva le odierne sembianze. L’obiettivo dell’istituto sarebbe stato di contribuire, attraverso la ricerca, ai corsi di formazione, alle attività sul campo e alla collezione e scambio d’informazioni, alla formulazione e all’applicazione di politiche nell’area della prevenzione del crimine con particolare riferimento all’integrazione delle medesime nelle più ampie politiche per il cambiamento e lo sviluppo economico e sociale e per la protezione dei diritti umani.

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Cfr. G.A. Res. 46/152, Annex, par. 35. Cfr. Ibidem, par. 37. 56 United Nations, The United Nations and Crime Prevention 48, U.N. Doc. DPI/1143-41016, (1991). 55

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2.8. La Rete di Informazione delle Nazioni Unite per la Giustizia Penale (UNCJIN) (the United Nations Criminal Justice Information Network).

Nel 1986 il Consiglio Economico e Sociale invitò il Segretariato a stabilire, in collaborazione con gli istituti delle Nazioni Unite e altre entità interessate, una rete globale di informazione in materia di prevenzione del crimine e giustizia penale che includesse un sistema per la centralizzazione degli contributi provenienti dalle organizzazioni non governative e dalle istituzioni scientifiche. Il risultato fu la creazione di una rete globale di banche dati legata ad una organizzazione no profit chiamata Telecommunications Cooperative Network (TCN). Questa rete, nota col nome di United Nations Criminal Justice Information Network, cerca di facilitare lo scambio di informazioni fra politici, pianificatori, esperti, studenti, corrispondenti nazionali e gli istituti di ricerca delle Nazioni Unite. Fornisce vie per lo scambio di conoscenze e di risultati dal mondo della ricerca; unisce i centri di documentazione in materia di giustizia penale e le librerie di tutto il mondo e supporta lo stabilimento di sistemi computerizzati al servizio della giustizia a livello locale e nazionale57.

2.9. La rete globale di biblioteche per la Giustizia Penale. La rete globale di biblioteche per la Giustizia Penale (library network) è coordinata dalla scuola di giustizia penale della Rutgers University di Newark (New Jersey) ed è stata stabilita nel 1991 da una conferenza dell’università tenuta in collaborazione con il Crime Prevention and Criminal Justice Branch nel 1991. Lavora in stretto rapporto con UNCJI con lo scopo di rendere la letteratura accademica e scientifica accessibile a tutti i professionisti in materia di giustizia penale e prevenzione del crimine. Tra i suoi progetti ha provveduto alla creazione di liste di periodici sulla giustizia penale e piani per la condivisione di materiali bibliografici a livello globale.

3. I gruppi di lavoro attivati nell’ambito della Commissione Crimine Gruppo di lavoro intergovernativo sul miglioramento della governance e della situazione finanziaria di UNODC (FINGOV). Durante la 45° riunione plenaria del 2009, il Consiglio Economico e Sociale ha stabilito con la decisione 2009/5158 l’istituzione di un gruppo di lavoro permanente intergovernativo (standing open-ended group) per discutere e formulare raccomandazioni su come migliorare la struttura di governance e la situazione finanziaria di UNODC. Il FINGOV è un gruppo di lavoro comune alle due Commissioni (CCPCJ e CND). Nel 2011 ECOSOC ha adottato la decisione 2011/258 con la quale ha rinnovato il mandato di FINGOV fino al 2013. Raccomandazioni

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Cfr. R.S. Clark, op. cit., 90. Richiamandosi alla propria decisione1997/235 del luglio 1997, e all’‘undicesima sessione della Ris. dell’Assemblea Generale 61/252 del 22 dicembre del 2006, alla Ris. CCPCJ 16/3 dell’aprile del 2007, e prendendo atti della Ris. della CND 52/13 nonché della Ris. 18/3 della CCPCJ. 58

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riguardo ad un ulteriore rinnovo del mandato sono contenute nelle risoluzioni delle due Commissioni (nella Ris. 56/11 della CND e nella Ris. 22/2 della Commissione Crimine). Il gruppo si occupa al momento del bilancio di UNODC per il biennio in corso, della valutazione e del controllo sulle finanze nonché dell’analisi dei progressi realizzati nell’applicazione dei programmi regionali e tematici di UNODC. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sul femminicidio. L’Assemblea generale ha adottato la risoluzione 68/191, intitolata “Agire contro il femminicidio”, che ha avuto origine nella sessione 2013 della CPCJ. La risoluzione chiedeva al Segretario generale di convocare una riunione intergovernativa di esperti per discutere modi e mezzi per prevenire, indagare, perseguire e punire in modo più efficace il femminicidio. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sul crimine informatico. Durante il XII Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e la Giustizia penale tenuto in Brasile a Salvador nel 2010, gli Stati Membri hanno deciso d’invitare la Commissione Crimine alla creazione di un gruppo di lavoro intergovernativo di esperti per la conduzione di studi sul crimine informatico per uno studio di ambizioni onnicomprensive sulla criminalità informatiche e le risposte ad essa. Questa raccomandazione è stata adottata dalla Commissione Crimine e successivamente da ECOSOC nella Ris. 2010/18 e poi dall’Assemblea Generale nella Ris. 65/230. In linea con il paragrafo 42 della Dichiarazione di Salvador, lo studio dovrà focalizzarsi sul problema della criminalità informatica e sulle risposte ad essa da parte degli Stati membri, della comunità internazionale e del settore privato, curare lo scambio di informazioni sulle legislazioni nazionali, sulle migliori pratiche, sull’assistenza tecnica e la cooperazione internazionale, al fine di esaminare le opzioni per rafforzare gli sforzi esistenti e proporne di nuovi a livello di legislazioni nazionali e internazionali e fornire nuove risposte al crimine informatico. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sul traffico di beni culturali. ECOSO con la Ris. 2008/23 “Protezione contro il traffico di beni culturali” ha reiterato la richiesta già presentata nel 2004 a che l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, in stretta cooperazione con UNESCO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione Scientifica e Culturale), convocasse la prima riunione di un gruppo permanente intergovernativo di esperti per presentare alla Commissione Crimine raccomandazioni in materia di prevenzione del traffico di beni culturali. Si prevedeva che queste raccomandazioni dovessero includere l’analisi di metodi per produrre trattati più efficaci nel campo della prevenzione di quei crimini che ledono i patrimoni culturali pubblici attraverso il loro traffico. Il gruppo di esperti intergovernativo si è riunito per la prima volta a Vienna nel novembre 2009 e le sue raccomandazioni sono poi state presentate alla Commissione durante sua XIX sessione nel 2010 (E/CN.15 / 2010/5). Inoltre, nelle risoluzioni 2010/19, “Prevenzione del Crimine e risposte della giustizia penale per la protezione dei beni culturali, con particolare attenzione al loro traffico”, ECOSOC ha chiesto a UNODC di convocare almeno una riunione supplementare del gruppo di esperti al fine di discutere l’invio di proposte pratiche per l’applicazione delle raccomandazioni individuate dal gruppo di esperti nel 2009 alla XXII sessione della Commissione Crimine, con particolare attenzione agli aspetti di individuazione della pena, cooperazione internazionale e mutua assistenza legale. Nella Ris. 66/180, intitolata “Rafforzare la prevenzione del crimine e le risposte della giustizia penale per la protezione dei beni culturali, con particolare attenzione al loro traffico”, l’Assemblea Generale ha inoltre accolto favorevolmente questa decisione del Consiglio Economico e Sociale. Il Consiglio ha poi adottato la raccomandazione fatta dal gruppo di esperti nelle risoluzioni 2010/19 e 2011/42, invitando UNODC in collaborazione con UNESCO, l’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT), e altri organizzazioni

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competenti, a elaborare specifiche linee guida per la prevenzione delle attività criminali relative al traffico di beni culturali compresi, tra l’altro, i criteri di diligenza per l’acquisto di un bene culturale. L’ECOSOC ha inoltre invitato gli Stati membri a continuare a presentare, per iscritto, osservazioni sul modello di trattato per la prevenzione dei reati che violano il patrimonio culturale dei popoli al fine di assistere la Segreteria nella preparazione di un’analisi e una relazione da presentare al gruppo di esperti intergovernativo nonché alla Commissione Crimine nella prossima riunione. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sui servizi privati civili di sicurezza: ruolo, controllo, e contributo alla prevenzione del crimine e alla sicurezza comunitaria. Nella sua XVIII sessione tenuta a Vienna nel 2009, la Commissione Crimine ha rimarcato l’importanza del controllo sui servizi privati civili di sicurezza da parte delle competenti autorità statali al fine di vigilare che essi non siano infiltrati o strumentalizzati da elementi criminali. Ha notato anche come, in alcuni Stati, questo tipo di servizi civili affianchino i servizi di polizia pubblici contribuendo alla sicurezza della comunità e alla prevenzione del crimine. Con la Ris. 18/2 del 2009, la Commissione ha deciso di istituire un gruppo di lavoro ad hoc open-ended intergovernativo per studiare il ruolo dei servizi di sicurezza civili, i loro possibili contributi e la supervisione statale delle loro attività. In base alle regole ECOSOC in materia ha quindi invitato esperti universitari partecipanti del settore privato a prendere parte ai lavori del gruppo, incitando gli Stati membri e i gli altri Paesi donatori fornire contributi ad hoc fuori dal bilancio ordinario. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sul rafforzamento dell’accesso all’assistenza legale nei sistemi di giustizia penale. Nel 2007 il Consiglio Economico e Sociale ha indicato nella Ris. 2007/24 “International cooperation for the improvement of access to legal aid in criminal justice systems, particularly in Africa” le proprie preoccupazioni riguardo ai casi di prolungate incarcerazioni dei detenuti in attesa di giudizio e privi di alcuna assistenza legale. Esso ha ritenuto che il rinforzo dell’accesso all’assistenza legale nei sistemi di giustizia penale verso sospetti e prigionieri possa ridurre i tempi di detenzione e indirettamente contribuire a ridurre la sovrappopolazione delle carceri. In proposito ECOSOC ha chiesto a UNODC di organizzare un gruppo di lavoro per studiare metodi per il rinforzo dei servizi di assistenza legale, la possibilità di sviluppare uno strumento quale una dichiarazione di principi o una serie di linee guida per il miglioramento dell’assistenza legale nei sistemi di giustizia penali. Per facilitare i lavori del gruppo, UNODC ha poi preparato una bozza di “Principi e Linee Guida sull’accesso ai Servizi di Assistenza Legale nei Sistemi di Giustizia Penale”, cercando di riflettere sull’elaborazione di strumenti utile a questo fine di modo che il documento potesse essere riveduto del seguente incontro del gruppo di lavoro. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sulle Regole e gli Standard Minimi per il Trattamento dei detenuti. Nella Ris. 65/230 del 21 dicembre 2010 (“Twelfth United Nations Congress on Crime Prevention and Criminal Justice”), l’Assemblea Generale ha richiesto alla CCPCJ di attivare un gruppo di lavoro di esperti intergovernativi per scambiare informazioni e buone prassi sulle legislazioni nazionali, sul diritto internazionale e sulla revisione degli esistenti standard e regole minime delle Nazioni Unite in materia di trattamento dei prigionieri così che il gruppo possa riflettere sui recenti avanzamenti e le migliori pratiche, al fine poi di formulare raccomandazioni per la Commissione.

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Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sullo sviluppo di regole supplementari specifiche per il trattamento delle donne in detenzione e in ambito custodiale e non. Nella sua diciottesima sessione, la CCPCJ ha adottato la risoluzione 18/1 intitolata “Regole supplementari specifiche per il trattamento delle donne in detenzione e in ambito custodiale e non”. Con questa ha richiesto al direttore esecutivo di UNODC di convocare nel 2009 una riunione in merito allo sviluppo di norme supplementari specifiche per il trattamento delle donne detenute e in strutture detentive e non detentive, e ha invitato gli Stati membri e altri donatori a fornire contributi in conformità con le regole e le procedure delle Nazioni Unite. Gruppo di lavoro intergovernativo di esperti sullo sviluppo di modelli di strategie e misure pratiche per l’eliminazione della violenza contro i bambini nel campo della prevenzione della criminalità e della giustizia penale. Nel dicembre 2013 l’Assemblea Generale ha adottato la Risoluzione 68/189 intitolata “Strategie modello e misure pratiche per l’eliminazione della violenza nei confronti dei bambini nel campo della prevenzione della criminalità e della giustizia penale”, che chiede a UNODC di convocare un gruppo di lavoro intergovernativo di esperti per elaborare una bozza di modelli di strategie e misure pratiche per l’eliminazione della violenza nei confronti dei minori nel campo della prevenzione della criminalità e della giustizia penale. La riunione del gruppo di esperti è stata ospitata dal governo della Thailandia a Bangkok, in Tailandia, dal 18 al 21 febbraio 2014. Il gruppo di esperti ha sviluppato il progetto di strategie modello e misure pratiche delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro i bambini nel campo della prevenzione della criminalità e della giustizia penale, come contenuto nell’allegato alla relazione della riunione del gruppo di esperti tenutasi a Bangkok.

4. Considerazioni conclusive. A quasi venti anni dalla sua adozione, la Convenzione di Palermo (con i suoi Protocolli addizionali) è sul punto di assumere un nuovo ruolo nel contrasto ad una vasta gamma di fenomeni delittuosi, grazie alla recente unanime attuazione dell’art. 32 della stessa, secondo cui la Conferenza degli Stati Parte deve adottare un meccanismo per la revisione periodica della implementazione della Convenzione. Nel 2016, per effetto della risoluzione 8/2 adottata dalle Nazioni Unite su iniziativa congiunta Italia-Francia, erano state definite l’architettura complessiva del meccanismo (che sarà un esercizio di peer review tra gli Stati, sotto l’egida della Conferenza degli Stati Parte) e le aree tematiche in cui raggruppare le diverse disposizioni della Convenzione (criminalizzazione e giurisdizione; prevenzione, assistenza tecnica e misure di protezione; sistema giudiziario e forze di polizia; cooperazione internazionale, assistenza giudiziaria e confisca). Nella Nona Conferenza degli Stati Parte, svoltasi a Vienna dal 15 al 19 ottobre 2018, è stata approvata la risoluzione, proposta dall’Italia insieme con altri paesi e co- sponsorizzata da tutti gli Stati-parte, che istituisce il Meccanismo di revisione della implementazione della Convenzione di Palermo e dei relativi Protocolli, adottando altresì la Procedura e le Regole per il suo funzionamento. Tale sistema di controllo comprende una revisione di carattere generale (general review), affidata alla Conferenza degli Stati parte nella sua composizione plenaria, e le revisioni riguardanti i singoli ordinamenti nazionali (country reviews), al fine di identificare le migliori prassi adottate, le lacune esistenti, le sfide da fronteggiare, le esigenze di assistenza tecnica.

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Focus

Le country reviews si svolgeranno secondo il metodo della peer review, con la previsione che per ciascuno Stato parte l’attuazione della Convenzione e dei relativi Protocolli verrà rivista da altri due Stati parte in un processo strutturato in quattro fasi tematiche in un arco di tempo di otto anni, con la adozione di rapporti intermedi al termine di ognuna delle fasi59. Il sistema così costruito conserva la sua natura intergovernativa, suscettibile di agevolare una collaborazione fruttuosa con il Paese oggetto di esame. In esso viene, però, particolarmente valorizzato il ruolo della società civile, che sarà coinvolta in una pluralità di fasi del procedimento di revisione e sarà protagonista di un dialogo costruttivo da sviluppare regolarmente con i Gruppi di lavoro incaricati di formulare raccomandazioni di carattere generale sulla base delle liste di osservazioni relative ai singoli paesi. Tale modello di confronto costituisce un indubbio progresso rispetto a quello modello adottato nel contesto della Convenzione di Merida contro la corruzione. Nella Conferenza internazionale conclusasi con l’approvazione della risoluzione che lo istituisce, è stata espressa in modo unanime la valutazione che tale meccanismo di revisione permetterà di rilanciare l’utilizzo della Convenzione di Palermo come “strumento vivente” (l’unico di natura universale) per la lotta al crimine organizzato internazionale, dando nuova linfa alle attività della stessa Conferenza e dei relativi gruppi di lavoro. È evidente il particolare impulso che questo recentissimo sviluppo potrà dare al processo di progressiva armonizzazione delle legislazioni di tutti i paesi impegnati nel contrasto alle più gravi forme di criminalità, eliminando quei vuoti di tutela e quei disallineamenti di regolamentazione che ostacolano l’attività di contrasto a una vasta pluralità di fenomeni illeciti aventi sempre più una dimensione globale. Indice dei principali acronimi e dei relativi siti internet AIC (Australian Institute of Criminology) Istituto Australiano di Criminologia AG (General Assembly) Assemblea Generale ASSTC (Arab Security Studies and Training Center) Centro Arabo per Corsi di Formazione e Studi e sulla Sicurezza CND (Commision on Narcotics Drougs) Commissione sulle Droghe Narcotiche CoP (Conference of the State Parties) Conferenza degli Stati Parte CPPI (International Penal and Penitentiary Commission) Commissione Penale e Penitenziaria Internazionale ECOSOC (Economic and Social Council) Consiglio Economico e Sociale HEUNI (European Institute for Crime Prevention and Control) Istituto Europeo per il Controllo e la Prevenzione del Crimine ILANUD (United Nations Latin America Institute for Prevention of Crime and Treatment of Offenders)

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M.A. Accili Sabbatini - A. Balsamo, Verso un nuovo ruolo della convenzione di Palermo nel contrasto della criminalità transnazionale, in Diritto Penale Contemporaneo, 12/2018.

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Focus

Istituto delle Nazioni Unite in America Latina per la Prevenzione e il Trattamento dei Criminali INCB (International Narcotics Control Board) Organo Internazionale per il Controllo degli Stupefacenti IRG (Implementation Review Group) Gruppo di Lavoro sulla Revisione dell’Applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Corruzione. UNAFEI (United Nations Asia and Far East Institute for Prevention of Crime and Treatment of Offenders) Istituto delle Nazioni Unite in Asia e Estremo Est per la Prevenzione e il Trattamento del Crimine UNAFRI (United Nations African Regional Institute for the Prevention of Crime and the Treatment of Offenders) Istituto Regionale Africano delle Nazioni Unite per la Prevenzione il Trattamento dei Criminali UNCAC (United Nations Convention Aganst Corruption) Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione UNCJIN (the United Nations Criminal Justice Information Network) Rete di Informazione delle Nazioni Unite per la Giustizia Penale UNICRI (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute) Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura UNIDROIT (International Institute for the Unification of Private Law) Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Civile UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) Ufficio delle Nazioni Unite sulla Droga e il Crimine UNSDRI (United Nations Social Defense Research Institute) Istituto Sociale di Ricerca per la Difesa UNTOC (United Nations Convention on Trasnational Organized Crime) Convenzioni delle Nazioni Unite sulla Criminalità Organizzata Transnazionale TCN (Telecommunications Cooperative Network)

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