2 • aprile-giugno 2018
Rivista trimestrale 2 • aprile-giugno 2018
Il diritto penale
globalizzazione della
ISSN 2532-8433
Il diritto penale della globalizzazione
Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini
In evidenza: Rating reputazionale e rating di legalità tra condizioni di ammissione ed elementi di ponderazione Giovanni Tartaglia Polcini Marilisa De Nigris La verifica dei crediti nei procedimenti di prevenzione patrimoniale dopo la Riforma del Codice Antimafia Graziella Luparello I danni punitivi nel diritto internazionale e nel case-law in materia di investimenti esteri Nico Longo La tutela del cultural heritage. Riflessioni in attesa dell’introduzione della riforma penale Andrea Racca - Marco Zaia
Pacini
Indice In evidenza A cura di Giovanni Tartaglia Polcini, 1° anno de EL PAcCTO ............................................................p. 145
Editoriale A cura di Adelmo Manna, Daniele Labianca, La legge Severino (e le sue conseguenze): Il “rompicapo” dell’irretroattività......................................................................................................» 149
Saggi Giovanni Tartaglia Polcini - Marilisa De Nigris Rating reputazionale e rating di legalità tra condizioni di ammissione ed elementi di ponderazione................................................................» Graziella Luparello, La verifica dei crediti nei procedimenti di prevenzione patrimoniale dopo la Riforma del Codice Antimafia.......................................................................................................» Simone Faiella, L’aggravante mafiosa nella stagione del trionfo della prevenzione generale............» Nico Longo, I danni punitivi nel diritto internazionale e nel case-law in materia di investimenti esteri.............................................................................................................................................» Andrea Racca - Marco Zaia, La tutela del cultural heritage. Riflessioni in attesa dell’introduzione della riforma penale......................................................................................................................»
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Giurisprudenza Nazionale Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2018, (dep. 29 marzo 2018), n. 14505, con nota di Nikita Micieli de Biase, Rapporti giurisdizionali con autorità straniere: la Cassazione fa il punto sui criteri di determinazione della pena ai fini di esecuzione della pena..........................................................» 211 Cass. pen., sez. II, 17 gennaio 2018 (dep. 18 aprile 2018), n. 17235 con nota di Marilisa De Nigris, Autoriciclaggio: il terzo che agevola la condotta risponde per il reato di riciclaggio............» 215 Corte di cassazione, 24 ottobre 2018 (dep. 6 aprile 2018), n. 2832 con nota di Domenica Loredana Novia, La sanzione dell’obbligo di motivazione e l’elevazione delle regole della logica a regole giuridiche......................................................................................................................................» 217
Internazionale Corte di Giustizia Europea, Grande sezione, sentenze 20 marzo 2018 n° C-524/15, C-537/16, C/596-16 e C/597-16, con nota di Andrea Racca, La limitazione del ne bis in idem a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e dei mercati finanziari? Brevi cenni sulle recenti valutazioni della Corte di Giustizia Europea.................................................................................» 221
Europea Corte di Giustizia UE, 17 aprile 2018, C-414/16, con nota di Antonio De Lucia, Discriminazione religiosa in ambito lavorativo e necessaria parità di trattamento..................................................» 227 CEDU, Sez. I, 22 febbraio 2018, Richiesta n. 65173/09, con nota di Marta Patacchiola, Corte EDU: caso Drassich c. Italia (n. 2)..........................................................................................................» 231
Indice
Osservatorio Internazionale Marta Patacchiola, La giurisdizione universale per le azioni civili di risarcimento danni per violazioni dei diritti umani: alcuni limiti dalla Corte Suprema USA..............................................» 235
Nazionale Miriam Ferrara, Inapplicabilità regola Taricco sulla prescrizione - Comunicato del 10/04/2018 ....» 237
Normativo Nikita Micieli de Biase, La riforma sui testimoni di giustizia: un concreto passo in avanti per il contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo................................................................» 241
Europeo Miriam Ferrara, Impedimento assoluto alla registrazione del marchio “LA MAFIA se sienta a la mesa” per contrarietà all’ordine pubblico......................................................................................» 243
Focus Giorgio Malfatti
di
Monte Tretto, Il traffico di droga in America Latina.......................................» 247
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evidenza
1° anno de EL PAcCTO Il 15 giugno è passato esattamente un anno da quando l’Italia ha avviato la sua concreta attività nel Programma EL PAcCTO. È, dunque, tempo di un primo bilancio sul lavoro svolto e sulle prime lessons learnt, tenendo in considerazione il dato che il Programma in esame integra la più importante iniziativa europea di lotta alla criminalità organizzata in America latina. Un’azione come quella de EL PAcCTO espone plasticamente le più significative linee del Diritto penale della globalizzazione. Si occupa, infatti, di crimine transnazionale; richiama azioni di diplomazia giuridica ed assistenza tecnica; tende infine all’armonizzazione ed ibridizzazione di sistemi e modelli. Il programma, denominato con un acronimo in lingua spagnola (EL PAcCTO), evoca nell’articolo l’intercontinentalità dell’azione (Europa-Latinoamerica) e nel sostantivo la definizione dell’iniziativa (Programma di Assistenza contro il Crimine Transnazionale Organizzato, per lo stato di diritto e la sicurezza cittadina). Si tratta di un progetto di assistenza tecnica europea, a guida di un consorzio formato da agenzie di Italia (IILA), Francia (Expertise France), Spagna (FIIAPP) e Portogallo (Instituto Camoes). Nasce con l’obiettivo di contrastare il crimine transnazionale organizzato in diciotto Paesi dell’America Latina (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Salvador, Uruguay, Venezuela). Il progetto risponde a un’esigenza espressa dai paesi latinoamericani nel corso della riunione dei Capi di Stato UE-CELAC del giugno 2015, e muove dalla consapevolezza che, in un mondo globalizzato, nessun paese è immune rispetto al crimine organizzato. Il capitolo 10 del piano di azione sulla Ceguridad de la ciudad, adottato nella stessa riunione, accolse quella richiesta e ne fece un impegno condiviso. L’America Latina è attualmente la regione più violenta al mondo. Si registrano ventitré omicidi ogni centomila abitanti, il doppio rispetto all’Africa e cinque volte superiori all’Asia. Nel sub continente avvengono il 30% delle uccisioni violente nel mondo. Molte di queste sono relazionate con il crimine organizzato. Ciò ha provocato una crescente sensazione di insicurezza nei cittadini e spinto gli Stati a fare della sicurezza una priorità. Nel corso degli ultimi anni i paesi latino americani hanno sperimentato diverse politiche per combattere il crimine organizzato. Alcune repressive ed altre morbide (in Guatemala sino al 2015 con le politiche “mano dura” e “mano blanda”), che non hanno raggiunto l’obiettivo prefissato. Erano, infatti, politiche cicliche, a breve termine, incapaci di incidere efficacemente. Servono invece politiche globali di lungo periodo per ridurre il clima di insicurezza nella stessa regione. La delinquenza è un fenomeno antico, quella transazionale organizzata moderno. Una criminalità senza frontiere, che rappresenta una seria minaccia per le istituzioni democratiche e lo sviluppo economico dei paesi. Per contrastarla, serve un impegno politico dei governi e una stretta collaborazione internazionale. Il concetto nuovo, emerso in sede internazionale, è che non può esservi un regolare sviluppo economico finché esista un tipo di criminalità cosi organizzata. Le organizzazioni criminali transnazionali operano più facilmente in realtà che non hanno sviluppato efficaci strumenti giuridici di contrasto. Ciò comporta che, qualunque Stato privo di sistemi di controllo e prevenzione, può causare indirettamente rischi di infiltrazione
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per gli altri sistemi. I governi hanno pertanto la responsabilità di lavorare in collaborazione per affrontare la minaccia globale del crimine organizzato. EL PAcCTO è un programma estremamente innovativo sia nel contenuto sia nella modalità di gestione, in quanto, per la prima volta, agisce sull’intera catena penale. La finalità è contribuire a rafforzare lo stato di diritto e la sicurezza cittadina in America latina. Il rafforzamento della sicurezza del cittadino nel rispetto dei diritti umani è un delicato tema politico. Si tratta di utilizzare norme e strumenti che non ledano le libertà individuali e democratiche. In questo, le esperienze di paesi europei che hanno saputo combattere forme di antica criminalità organizzata come la mafia o il terrorismo interno e internazionale, senza ricorrere a leggi coercitive, sono fondamentali. Il programma, che ha una durata di cinque anni, si basa sulla cooperazione in tre pilastri (il sistema di polizia, della giustizia e del penitenziario) e su quattro attività trasversali (corruzione, riciclaggio, cybercrime e politiche di genere). La struttura amministrativa è ugualmente complessa e prevede una co-direzione franco spagnola con la sede centrale a Madrid. Ciascuno dei tre pilastri è coordinato e gestito da uno dei Paesi attuatori: quello della Polizia dalla Francia; della Giustizia dalla Spagna e del Penitenziario dall’Italia. L’assistenza tecnica si sviluppa a partire dalle “best practices” di tutta la UE, con l’obiettivo di migliorare gli strumenti legali finalizzati alla lotta al crimine organizzato e rafforzare le reti latinoamericane, per un’azione intercontinentale efficace. Valorizzare le migliori realtà esistenti in loco – tanto a livello normativo come organizzativo e pratico – costituisce un’ulteriore azione strategica proposta dal programma. Elementi centrali del metodo d’azione proposto sono la “co-ownership”, l’approccio su misura e la valorizzazione delle realtà e delle buone pratiche esistenti. In base a questi principi tutte le azioni (analisi, sviluppo, monitoraggio) si realizzano in collaborazione costante con i soci latinoamericani. L’approccio su misura (che si oppone al tradizionale distinto modello del “one fit for all”) parte dalla consapevolezza che le iniziative destinate ai diversi paesi devono fondarsi su un’analisi dettagliata e personalizzata del fabbisogno, talvolta molto diverso per storia e contesto economico-sociale. La partecipazione italiana a EL PAcCTO rappresenta un’evoluzione dell’esperienza maturata nella cosiddetta diplomazia giuridica sviluppata nei progetti finanziati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, i cui positivi risultati sono stai riconosciuti a livello globale. In particolare, la linea di azione italiana si distingue ed è innovativa per la metodologia di assistenza tecnica, fondata su quattro pilastri di azione riguardanti la formazione (capacity building), gli aspetti organizzativi (istitutional building), il rafforzamento dei quadri normativi (law enforcement) e la diffusione di un consenso sui valori alla base delle iniziative proposte (consensus building). I quattro formanti della proposta italiana di assistenza tecnica consentono un approccio plasmabile alle necessità dei partners e sviluppano risultati concreti anche nel breve periodo, come hanno dimostrato iniziative come il “Plan de Apoyo all’ESCA” in America centrale. Il foro multilaterale globale con maggiori competenze in materia, l’Anti Corruption Working Group del G20, nell’“implementation plan” per il biennio in corso, ha voluto proprio riferirsi a questa metodologia facendola propria e rendendola un format da seguire sul piano globale. Nel mese di luglio 2017 si è svolto in Costa Rica il primo seminario che ha visto coinvolti i focal points indicati per competenza dai paesi latino americani beneficiari del programma. A seguito del seminario sono state effettuate missioni di identificazione delle necessità in 15 paesi dell’America Latina. Dopo l’elaborazione e successiva approvazione del Piano Annuale 2018, da parte della Commissione Europea, si sono susseguite le seguenti attività: - Argentina (11-15 dicembre 2017). Attività di assistenza tecnica per appoggiare il Mini-
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stero della Giustizia e dei Diritti Umani nell’elaborazione del capitolato di gara del Piano di Costruzione di Nuovi Istituti penitenziari 2019-2023. - Paraguay (5-9 febbraio 2018). Attività di assistenza tecnica per analizzare il fenomeno criminale riconducibile ad un gruppo armato noto come “Primeiro Comando da Capital” (PCC). - Bolivia (19-23 febbraio 2018). Attività di assistenza tecnica per appoggiare il paese nella formulazione di un disegno di legge di riforma del sistema penitenziario. - Costa Rica (26 febbraio – 2 marzo 2018). Attività di assistenza tecnica di supporto nell’elaborazione di modelli di costruzione di nuovi centri penitenziari. - Seminario sui gruppi criminali organizzati nel sistema penitenziario (Brasilia 4-6 aprile 2018) cui hanno partecipato sei paesi latinoamericani. - Conferenza di lancio del programma (Buenos Aires, 10-11 aprile 2018). - Attività di assistenza tecnica al sistema argentino di intelligence penitenziaria (Buenos Aires, 9-13 aprile 2018). - Seminario su misure alternative alla detenzione (Panama City 9 – 11 maggio 2018) cui hanno partecipato 12 paesi dell’AL. - Assistenze tecniche in favore di Costa Rica ed Ecuador per elaborazione di protocolli interistituzionali per l’utilizzo delle misure alternative alla detenzione (San Josè e Quito, 14-18 maggio). - Missioni di sostegno per il miglioramento della gestione dei dati penitenziari e dei relativi sistemi in Perù e Colombia (Lima e Bogotá, 4 – 15 giugno). - Attività di assistenza tecnica all’Ecuador per il miglioramento della classificazione dei detenuti (2-6 luglio Quito). - Seminario Regionale sulla lotta alla corruzione intesa quale key facilitator della criminalità organizzata. (4-6 luglio Quito). Per sviluppare nuove strategie di contrasto all’infiltrazione della criminalità organizzata nei sistemi penitenziari latinoamericani, si è in primo luogo seguito un approccio olistico basato su quattro aree d’intervento e rispettive linee di lavoro. Ci si è proposti pertanto di intervenire in primis - sulla Gestione Penitenziaria: con l’obiettivo di sostenere le amministrazioni della Regione nella progettazione ed organizzazione delle infrastrutture penitenziarie, - nel rafforzamento dei processi di classificazione dei detenuti, - nello sviluppo di sistemi di gestione di dati che permettano di disporre di elementi utili all’assunzione di decisioni più coerenti e di sistema dal punto di vista delle politiche criminali. Lo scopo finale è la predisposizione di misure ad hoc, volte a rafforzare trattamenti penitenziari speciali per i membri più pericolosi della criminalità organizzata in modo da separarli e differenziarli dai detenuti di criminalità “comune. - In secondo luogo si è puntato sull’incremento delle Capacità Operazionali delle Istituzioni Penitenziarie: con lo scopo strategico di influire sulla professionalità/specializzazione del personale penitenziario, sostenendo allo stesso tempo i governi latinoamericani in riforme legislative integrali rispetto alle normative penitenziarie attualmente vigenti. - Regime e trattamento dei detenuti: con questa linea di lavoro si vuole incidere sull’incremento dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione e sulla gestione specifica della popolazione carceraria minorile appartenente a gruppi criminali organizzati. - Lotta al Crimine Transnazionale Organizzato nel sistema penitenziario. Rispetto a questa area particolare attenzione è stata posta allo sviluppo di sistemi di intelligenza penitenziaria, sui trattamenti specifici per gruppi criminali organizzati come il terribile PCC brasiliano o le
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maras y pandillas centroamericane. Uguale attenzione è stata posta in materia di prevenzione del proselitismo, del reclutamento e della radicalizzazione all’interno delle carceri. Particolare energia è stata rivolta al contrasto alla corruzione, che permette l’infiltrazione di gruppi criminali nei sistemi penitenziari e consente ai cartelli del narcotraffico di gestire concretamente la vita nelle carceri. Tra i risultati più evidenti delle attività finora svolte, va senz’altro citata la decisione del MERCOSUR di costituire in forma stabile un Gruppo Specializzato sui Temi Penitenziari, su chiara influenza de EL PAcCTO. Il seminario sulla Corruzione come key factor dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel sistema penitenziario, in programma in questi giorni, è l’evento cui parteciperanno il maggior numero di istituzioni penitenziare latinoamericane della storia (15 paesi tra cui Cuba). Giovanni Tartaglia Polcini Si ringrazia per la collaborazione il Dott. Lorenzo Tordelli
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La legge Severino (e le sue conseguenze): Il “rompicapo” dell’irretroattività* 1. A distanza di oltre cinque anni dall’entrata in vigore del d. lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (emanato in esercizio della delega contenuta nella l. 190 del 2012, comunemente nota come “legge Severino”, dal nome dell’allora Guardasigilli proponente), le numerose innovazioni concernenti la disciplina dell’accesso e del mantenimento delle cariche pubbliche elettive continuano a suscitare un intenso dibattito tra gli operatori del diritto. La venatura politica che ha caratterizzato e conformato le riflessioni intervenute in ordine alle plurime questioni sollevate dall’introduzione della novella del 2012 è stata dovuta, evidentemente, ai riflessi pratici derivanti dall’applicazione del novum legislativo a soggetti posti al vertice di primarie formazioni politiche nazionali (e protagonisti da svariati anni delle vicende parlamentari italiane). Le rifrazioni politiche, tuttavia, si sono ben preste trasformate in argomentazioni strumentali, tendenti all’ideologismo precostituito, le quali hanno inesorabilmente ostacolato la formazione e lo sviluppo di un dialogo maturo e disinteressato, a causa dell’impossibilità di assumere una determinata posizione scientifica senza correre il rischio di essere tacciati di parteggiare per una certa fazione partitica. Tali accuse – spesso provenienti da soggetti professanti un credo politico opposto – hanno inevitabilmente “dopato” soprattutto il dibattito sull’ubi consistam della decadenza del parlamentare in conseguenza della pronuncia di determinate sentenze – definitive – di condanna, misura sconosciuta fino ad allora all’ordinamento italiano (ma non ad ordinamenti di altri Stati membri del Consiglio d’Europa) che ha rappresentato la novità di maggior rilievo contenuta nel d. lgs. 235 del 2012, sia per motivazioni di carattere strettamente tecnico-giuridico, che per ragioni di politica del diritto. 2. In questa sede, evidentemente, non si avrà l’occasione - per motivi di contenimento delle battute – di affrontare ex professo le molteplici e non ancora risolte quaestiones iuris suscitate da un articolato normativo foriero di annosi interrogativi ed implicante possibili contrasti con i principi costituzionali di uguaglianza-ragionevolezza, di libertà e parità di accesso alle cariche pubbliche elettive, di legalità amministrativa, di svolgimento di attività o funzioni che concorrano al progresso spirituale e materiale della società e – qualora si giunga alla qualificazione delle misure in oggetto come appartenenti allo ius puniendi – d’irretroattività delle norme che prevedano sanzioni penali. In disparte le cangianti conclusioni che potrebbero essere formulate in ordine agli svariati profili di compatibilità costituzionale appena enumerati, rileva in questa sede l’analisi di un profilo che, agli occhi dello studioso dello ius criminale, riveste importanza focale (tale da assorbire quasi del tutto le rimanenti tematiche): ci si riferisce, chiaramente al problema della natura giuridica della decadenza del parlamentare per effetto di determinate condanne passate in giudicato (come anche, ça va sans dire, delle limitrofe incandidabilità e sospensione dalla carica degli amministratori regionali locali).
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Entrambi gli Autori condividono l’intero saggio. Tuttavia, i §§ 1-2 e 8 sono da attribuire ad Adelmo Manna, mentre i restanti a Daniele Labianca.
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Detto aspetto trascina con sé, nell’ambito di una dicotomia concettuale ontologicamente inscindibile, l’interrogativo relativo alla disciplina intertemporale dei provvedimenti de quibus. Breve: il provvedimento di decadenza del parlamentare dalla carica rivestita, in conseguenza della sua condanna in via definitiva per certi reati, è validamente pronunciato pur se i fatti – oggetto del pronunciamento giurisdizionale – siano stati commessi prima dell’entrata in vigore della legge che la prevede (5 gennaio 2013)? Oppure, viceversa, deve ritenersi legittima la rimozione dalla carica di quanti, condannati in virtù di condotte realizzatesi nell’assenza della novella legislativa, si trovino semplicemente privi di un requisito imprescindibile per continuare a sedere nell’organo legislativo? La risoluzione del quesito implica il previo interrogarsi sull’effettiva natura giuridica della decadenza. In sostanza, è necessario chiedersi se essa possa ricondursi al diritto lato sensu punitivo-afflittivo (con la conseguente applicazione di tutte le garanzie tanto costituzionali quanto convenzionali, previste per la matiére pénale) oppure debba essere confinata nell’area delle conseguenze provocate dalla perdita di determinati requisiti soggettivi di appartenenza ai corpora parlamentari. In tal senso, un’analisi che voglia offrire prolifici spunti di riflessione non potrà limitarsi ad una fredda analisi del dato positivo, stante la contraddittorietà delle indicazioni promananti dalla littera legis e la loro conseguente inidoneità ad orientare l’ermeneuta in ordine allo statuto garantistico applicabile alle ipotesi di incandidabilità-sospensione-decadenza. D’altronde, se è vero che la repulsione delle etichette formalistico-nazionalistiche costituisce il leit-motiv della giurisprudenza della Corte EDU a far data – quantomeno – dall’ormai pluricitato caso Engel, adagiarsi sulle definizioni proposte dal legislatore – o, impresa ancor più improvvida, riporre fede nella congruenza del dato normativo – non è strada (più) percorribile. Ce lo insegna (anche) la criteriologia Engel: rifuggite dalle apparenze, ricercate la sostanza. Da quale materia sia composta, detta sostanza, è presto detto: per tacitare le disarmanti ed estenuanti disquisizioni sull’ubi consistam di una sanzione (in barba all’omnis definitio in iure periculosa) si è obbligati ad interrogarsi sulla natura delle conseguenze dell’illecito. Recenti ed approfondite opere monografiche hanno “fatto il punto” sulle riflessioni in subiecta materia: ciò che conta è il quia della reazione statuale, il suo telos, la finalizzazione. Si noti che, a partire da Bobbio, il teleologismo sanzionatorio è compendiabile nel trinomio punire, prevenire, riparare. Delineato il quadro, in via necessariamente ed estremamente superficiale (nel senso che non ci si è, volutamente, spinti nelle correnti sottostanti la tavola marina), si tenterà nelle seguenti righe una reductio ad unitatem delle cursorie affermazioni svolte in ordine a questi nuovi strumenti di “tutela della legalità nella Pubblica Amministrazione”, introdotti dall’austero Esecutivo Monti, poco prima della fine “eutanasica” della XVI Legislatura. 3. V’è da rilevare, in apicibus, che l’elaborazione giurisprudenziale intervenuta su diversi profili giuridici suscitati dalla novella de quo comprende ben due sentenze della Consulta, in aggiunta ad un pronunciamento delle Sezioni Unite civili (sull’attribuzione della giurisdizione relativa alla censura della decisione prefettizia sulla sospensione degli amministratori locali) ed a svariate sentenze di giudici amministrativi (anche di Palazzo Spada) e di Tribunali civili, spesso aditi sulla scorta di un – preteso – periculum in mora. Il Giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi (sentt. 236, del 2015, e 276, del 2016) sull’incompatibilità della sospensione di diritto dalla carica elettiva regionale con i diversi parametri costituzionali supra richiamati – sollecitato, in ciò, anche da noti esponenti politici rimasti invischiati, all’epoca, in differenti vicende giudiziarie, poi conclusesi definitivamente con esito fausto – ha perentoriamente ed apoditticamente concluso per la natura non penale (rectius, non punitiva) della sospensione dal munus publicum elettivo di livello regionale, stante l’in-
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quadramento alla stregua di conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche elettive. La sospensione, in particolare, risponderebbe ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presti servizio e costituirebbe, infine, una misura di tipo sicuramente cautelare. Precisazione duplice: gli inquilini di Palazzo della Consulta si concentrano (com’è ovvio) non su tutte le misure introdotte dal novum legislativo del 2012, bensì esclusivamente sulla sospensione di diritto per gli amministratori regionali, istituto diverso nei presupposti (sufficiente anche la sentenza di condanna non passata in giudicato) e nell’estensione temporale (non oltre i diciotto mesi) rispetto alla decadenza di diritto prevista per i senatori, i deputati e i parlamentari europei. Non sappiamo se l’esito sarebbe stato diverso, in presenza di petitum differente. Vero è che la Consulta non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sull’incostituzionalità dello statuto del parlamentare “incandidabile-decadente”; tuttavia, in altro consesso (quello strasburghese) sono giunti i lamenti di un Senatore della Repubblica (e già quattro volte capo di Palazzo Chigi), condannato in via definitiva per frode fiscale nell’agosto 2013 (dopo l’entrata in vigore della norma, ma per fatti commessi ben prima dell’effettiva vigenza della stessa): lamenti i cui echi risuonano da troppi anni. La Corte EDU, difatti, non ha ancora deciso il ricorso (datato settembre 2013) Berlusconi c. Italia, che pure era stato assegnato (in virtù delle delicatissime questioni di diritto sottese, che s’intersecano con incandescenti valutazioni di natura politica) alla Grande Chambre nel maggio 2017: probabilmente, la recente ordinanza del Tribunale meneghino con cui è stata concessa la riabilitazione all’uomo politico sarà in grado di disinnescare le eventuali «timidezze e le paure» dei giudici di Strasburgo, con il rischio, però, di non fornire un’imprescindibile lettura chiarificatrice, al metro della Cedu e dei suoi Protocolli, delle misure in discorso. 4. In secondo luogo, v’è da rilevare che le censure dei giudici a quibus (in particolare nei ricorsi decisi in seconda battuta dal giudice costituzionale) si appuntavano proprio sul preteso contrasto della normativa interna con il principio di legalità convenzionale (art. 7 CEDU, vivente nel nostro ordinamento per il tramite del “trasformatore” ex art. 117, comma 1, Cost.). Nello specifico, affermavano i rimettenti, una volta appurata la natura penale ai sensi della CEDU della sospensione del consigliere regionale, ne sarebbe dovuta conseguire l’applicazione ad essa di tutte le garanzie previste dalla Convenzione EDU per il diritto sanzionatorio, prima fra tutte la regola intertemporale della non retroattività della sospensione (id est l’impossibilità di sospendere i ricorrenti in virtù di sentenze di condanna pronunciate per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione). A ben considerare, è proprio tale aspetto a rivestire particolare rilevanza nel ricorso del sen. B. a Strasburgo, con cui lo stesso lamenta l’applicazione di una vera e propria sanzione (la decadenza dal mandato parlamentare) agganciata a fatti posti in essere prima dell’introduzione della stessa, con conseguente vulnus al fondamentale canone dell’irretroattività-necessaria calcolabilità delle conseguenze sfavorevoli delle proprie azioni, vero hard core della garanzia contenuta nell’art. 7 CEDU. 5. La radiografia del percorso motivazionale seguito dalla Consulta, in relazione alla negata riconducibilità della sospensione di diritto nell’alveo del “diritto penale convenzionale” si mostra non del tutto soddisfacente. Nell’utilizzare (almeno “a parole”) il secondo dei tre Engel criteria (ovverosia quello della natura dell’illecito e delle sue conseguenze), la Corte conclude per l’insussistenza del carattere punitivo della misura, posto che la stessa avrebbe l’obiettivo di tutelare la pubblica funzione in attesa che l’accertamento penale si consolidi nel giudicato, da cui deriverebbe il carattere di misura tipicamente interinale, consistente nella mera anticipa-
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zione dell’effetto interdittivo derivante dal giudicato, anch’esso parimenti non diretto a finalità punitive. Neppure ai sensi del criterio della gravità della misura (terzo ed ultimo dei criteri Engel) potrebbe predicarsi la natura penale della sospensione di diritto, posto che la severità della stessa appare limitata in un perimetro temporale ben definito (diciotto mesi), in modo tale da pregiudicare solo una parte del mandato elettivo. 6. La sensazione d’insoddisfazione, che consegue alla lettura della pronuncia, crediamo debba rinvenirsi non tanto nelle conclusioni in ordine alla non riconducibilità della misura al genus delle sanzioni punitivo-afflittive, quanto nell’estensione e nella concreta manifestazione della parte motiva della sentenza, laddove la stessa si confronta con la giurisprudenza di Strasburgo relativa alla nozione di matiére pénale. Absit iniuria verbis: la rilettura critica delle affermazioni provenienti dalla Consulta si basa sulla – probabilmente eccessiva – sbrigatività con cui sono stati affrontati i problemi di compatibilità della norma nazionale con le istanze CEDU. Sebbene, infatti, la sentenza dia sfoggio di una consapevole conoscenza dei precedenti convenzionali relativi alle restrizioni al diritto di elettorato passivo, ci si sarebbe dovuti interrogare con maggior vigore sull’effettiva sostanza della sospensione di diritto dell’amministratore regionale, a partire dalla finalità assolta dalla stessa e dalla natura dell’incisione sulla posizione giuridica soggettiva, a partire dai presupposti e dalle modalità applicative. Crediamo sia proprio questo il “nucleo duro” della nozione convenzionale di pena elaborata nell’acquis-CEDU: è pena tutto ciò – e solo ciò – che non solo sia semplicemente afflittivo, ma che debba essere avvertito come tale dal reo. Tutto ciò che deve punire, non prevenire o riparare. Conseguentemente, bene ha fatto la Consulta a confrontarsi apertamente con il secondo dei tre Engel criteria: ma avrebbe dovuto, a nostro sommesso avviso, prendere posizione definitivamente sulla decisività del canone della natura delle conseguenze dell’illecito, vero asse portante del secondo criterio elaborato nella sentenza Engel c. Paesi Bassi del 1976. È in base a questo, difatti, che l’interprete ben potrebbe ricavare una road map valida, se non per tutte le stagioni, quantomeno per gran parte di esse: fermo il rifiuto di una nozione univoca ed unitaria di “pena” e di “materia penale” (concetti graduabili in funzione dei diversi scopi sottesi agli interventi statuali), la presenza di una finalità preventiva prevalente (o, viceversa, di una edulcorazione punitiva preponderante) sarebbe idonea ad indirizzare in via definitiva le scelte dell’interprete in ordine allo statuto garantistico applicabile ad una data misura. 7. La non predicabilità della natura penale non tacita le problematiche connesse all’applicazione della legge Severino. In particolare, gli interrogativi legati al diritto intertemporale non paiono destinati a dissolversi una volta qualificate le misure alla stregua di provvedimenti conseguenti all’assenza di determinati requisiti di onorabilità e moralità, necessari per rivestire cariche pubbliche elettive. Infatti, il d. lgs. n. 235 del 2012 è, pur sempre, una legge ordinaria: come tale, deve sottostare – salvo deroghe apportate expressis verbis – alla regola aurea stabilita nell’articolo 11 delle Disposizioni sulla legge in generale (norma tanto rilevante, quanto negletta dalla dottrina penalistica): la legge dispone solo pro futuro. Una disposizione che, nella sua lapalissiana chiarezza, ben potrebbe tornare utile per la risoluzione di problemi connessi alla qualificazione giuridica di certe misure: se non è penale, non è detto che debba essere giocoforza retroattiva. La tesi che qui si vuole sostenere, e che non può che essere solo abbozzata, va nel senso di ritenere le nuove ipotesi d’incandidabilità e di decadenza dal mandato parlamentare (come anche i casi di sospensione/decadenza dall’incarico regionale per reati non previsti dalla disorganica normativa pre-2012) applicabili esclusivamente a soggetti resisi responsabili di reati
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commessi dopo il 5 gennaio 2013 (data di entrata in vigore della normativa). Ciò, si badi, in conseguenza non di una qualificazione delle misure introdotte in applicazione della “Severino” alla stregua di sanzioni punitivo-afflittive (conclusione che avrebbe implicato l’applicazione di tutte le garanzie costituzionali/convenzionali previste per la sanzione penale stricto sensu intesa), bensì in virtù di una piana applicazione dei principi che regolano ordinariamente l’epifania della legge nel tempo. Se, infatti, è retroattiva l’applicazione della disposizione a vicende costituite – in tutto o in parte – da elementi di fatto o di diritto, necessari per la verifica di una conseguenza giuridica, verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma, allora certamente deve concludersi per l’impossibilità di agganciare la decadenza del parlamentare a fatti verificatisi in un tempo in cui non vigeva la novella. 8. Non sfugge a chi scrive la discutibilità di tale argomentazione, laddove si dovesse assumere come termine di riferimento da cui far discendere gli effetti della misura non la commissione dell’azione tipica, bensì la pronuncia della sentenza o, addirittura, la convalida dell’elezione alla carica elettiva. Tesi, pur finemente argomentate da attenta dottrina, che tuttavia – crediamo – finiscano per perdere di vista il fatto che la limitazione al diritto di elettorato passivo consegue a determinate sentenze di condanna le quali non godono di “vita propria”, ma costituiscono pur sempre un provvedimento giurisdizionale necessitato a fronte della commissione di determinate condotte illecite. Condotte compiute in un arco temporale in cui, evidentemente, il soggetto poteva legittimamente fare affidamento sull’inesistenza di (ulteriori) limitazioni ai propri diritti politici (sub specie di diritti elettorali). Del resto, bisogna convincersi che l’irretroattività non sia appannaggio del solo ius criminale: l’esigenza di calcolabilità delle conseguenze penali della propria condotta, scolpita nella pietra delle garanzie costituzionali, si rinviene – mutatis mutandis – in forma “attenuata” (ma non per questo inesistente) nell’articolo 11 delle Preleggi, posto a fondamento di un “legittimo affidamento” delle posizioni giuridiche soggettive nei confronti dell’esercizio della potestà normativa statuale. La differenza tra il diritto intertemporale in criminalibus e le regola dell’irretroattività semplice ex art. 11 Preleggi è situata nella possibile deroga, ad opera di una legge ordinaria, al canone della non retroazione: operazione impossibile per il diritto lato sensu sanzionatorio (in ragione dell’istanza individual-garantista della legalità punitiva) e tuttavia consentita nell’ambito della legalità amministrativa: in presenza, beninteso, di una disciplina transitoria che sia espressamente volta ad affermare la retroattività della disposizione emananda, non potendosi la deroga ai principi dedurre da una scarna, insoddisfacente e contraddittoria disciplina positiva. Breve: nel dubbio, prevale il favor irretroactivitatis. 9. In questa sede è stato possibile apprezzare solo alcuni dei molteplici profili d’interesse suscitati dalla riformulazione dei limiti all’elettorato passivo avvenuta a cavallo tra il 2012 e il 2013. Altri e diversi profili entrano in gioco, allorché ci si accinga ad analizzare funditus la complessiva disciplina introdotta dal legislatore delegato e caratterizzata, come si è constatato, da un’evidente finalità “legalitaria”, di tutela del munus publicum, nell’ottica di una più generale riorganizzazione dei presupposti di moralità soggettiva richiesti per l’espletamento di cariche pubbliche. Dal presunto eccesso di delega dell’Esecutivo (in ragione dell’introduzione della sospensione dalle cariche regionali e locali in conseguenza di sentenza non definitiva di condanna) alla pretesa disparità di trattamento tra parlamentari ed amministratori di Regioni ed enti locali (stante la rilevanza, solo per i secondi, di accertamenti di responsabilità penale anche non passati in giudicato), senza tralasciare le insidiose problematiche suscitate da dati positivi
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contraddittori e privi di un reale disegno organico: si pensi alla rilevanza che il d. lgs. 235 del 2012 assegna alla riabilitazione (la quale, disciplinata dall’art. 178 c.p., in base all’art. 15 del d. lgs. cit. costituisce l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità) e alle sentenze di patteggiamento (le quali, se pronunciate prima del 5 gennaio 2013 in ordine ad un delitto da cui dovrebbe discendere una limitazione all’elettorato passivo, non costituiscono titolo idoneo a fondare l’incandidabilità, la sospensione o la decadenza). Un reticolato normativo illogico e incongruente, che non consente di formulare un giudizio chiaro in ordine alla natura giuridica delle nuove limitazioni al diritto di elettorato passivo: il fatto che la sentenza di riabilitazione sia idonea a far cessare gli effetti dell’incandidabilità, estinguendola, può essere utilizzato tanto dai fautori della natura penale della misura (poiché la riabilitazione è causa di estinzione della pena e di tutti gli effetti penali, le nuove misure rientrerebbero in toto nella materia penale), quanto dai detrattori del loro inquadramento criminale (se si fosse realmente trattato di pena, il legislatore non avrebbe avuto bisogno di specificare gli effetti sortiti dalla sentenza riabilitativa). A tacere, inoltre, degli interrogativi che permeano la dinamica dell’accertamento delle cause d’incandidabilità sopravvenute ad opera delle Giunte parlamentari per le elezioni e, successivamente, della Camera di appartenenza del parlamentare: che caratteri possiede il giudizio dinnanzi a tali organi? È possibile, per l’Aula, non recepire il giudizio della Giunta ed operare una valutazione differente? Recenti, emblematici, casi giudiziari implicanti parlamentari in carica dimostrerebbero la discrezionalità di cui godono le Camere nell’accertamento delle cause sopravvenute d’incandidabilità. 10. In conclusione preme rilevare come, anche a non voler ricondurre il divieto di ricoprire incarichi elettivi, conseguente all’accertamento di penali responsabilità, nell’alveo della legalità punitiva, sia possibile immaginare una legalità “altra”, che circondi l’applicazione del d. lgs. 235 del 2013 di determinate garanzie, in grado di assicurare una tutela proporzionata al rango dei diritti soggettivi incisi dal provvedimento. In altre parole, crediamo sia possibile agganciare le limitazioni al diritto di elettorato passivo introdotte dal Governo Monti alla diversa legalità – più tenue, ma non per questo eludibile – prevista dagli artt. 23 e 51 Cost. e, a livello convenzionale, dall’art. 3, Prot. n. 1, CEDU. In particolare quest’ultimo, prevedente il diritto dei cittadini degli Stati membri del Consiglio d’Europa a partecipare ad elezioni libere, costantemente interpretato dalla Corte EDU nel senso che sono consentite misure limitative del diritto di elettorato passivo solo ove conformi ad un canone di proporzione, ben potrebbe costituire il parametro convenzionale su cui fondare l’incompatibilità delle misure previste dal d. lgs. 235 del 2012, senza soffermarsi oltremodo sulle disquisizioni in ordine al loro ubi consistam. Difatti, non si comprende come si possa sostenere il carattere proporzionato di un’esclusione della possibilità di partecipare alle assemblee elettive che può arrivare – nei casi di delitti commessi con abuso dei poteri o in violazioni dei doveri connessi al mandato pubblico rappresentativo – fino a tredici anni e quattro mesi. Non a caso, una delle doglianze su cui s’incentra il ricorso nella causa Berlusconi c. Italia attiene proprio alla lamentata violazione del diritto del soggetto a partecipare a libere elezioni, ex art. 3 Prot. n. 1 CEDU. Nell’attesa di poter affermare che Strasburgo locuta, causa finita est, non rimane che affidarsi al denso e significativo adagio ripreso da Calamandrei: habent sua sidera lites… Adelmo Manna, Daniele Labianca
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Giovanni Tartaglia Polcini
e
Marilisa De Nigris
Rating reputazionale e rating di legalità tra condizioni di ammissione ed elementi di ponderazione Abstract The Legislative Decree 50/2016 introduced, operating in the same area of the c.d. Rating diImpresa, a new verification tool that has support and in some ways has overlap with the institution contemplated by art. 5-ter d.l. 1/2012. The new indicator is called the Corporate Legality Rating. As is well known, the legality rating allows access to credit bank, as well as the granting of funding by the PA and is attributed by the Antitrust Authority on the statements made by the company itself. This is the identical context in which ANAC takes into consideration the Company Rating system, which is based on the so-called reputational requirements, positive or negative elements that affect the reputational score assignable to the company. Il d.lgs. 50/2016 ha introdotto, operando nello stesso ambito del c.d. “Rating d’Impresa”, un nuovo strumento di verifica che si è andato ad affiancare e per certi versi a sovrapporre all’istituto contemplato dall’art. 5-ter d.l. 1/2012. Il nuovo indicatore è denominato Rating di Legalità delle Imprese. Come ben noto, il Rating di legalità consente l’accesso al credito bancario, nonché la concessione di finanziamenti da parte delle PA ed è attribuito dall’Autorità Antitrust sulla base delle dichiarazioni rese dall’impresa. In questo contesto poi l’ANAC prende in considerazione il sistema del Rating d’impresa, sistema che si fonda sui cosiddetti requisiti reputazionali, elementi positivi o negativi che incidono sul punteggio reputazionale assegnabile all’impresa medesima. Si tratta dell’identico contesto in cui ANAC prende in considerazione il sistema del Rating d’impresa, sistema che si fonda sui cosiddetti requisiti reputazionali, elementi positivi o negativi che incidono sul punteggio reputazionale assegnabile all’impresa.
Il rating reputazionale, individuabile in primis quale summa degli istituti del rating di impresa e del rating di legalità, è essenzialmente da intendersi come l’insieme delle qualità possedute da ciascun imprenditore operante sul mercato degli appalti pubblici. Se da un punto di vista meramente definitorio e lessicale tale istituto può essere così individuato, è sicuramente utile ricostruire l’excursus che ha portato alla sua elaborazione, e soprattutto, le finalità che esso intende perseguire. La Commissione dell’Unione Europea, nel novero delle attività volte a favorire il completamento del mercato unico di cui al Single Market Act, ha dato vita a varie iniziative tramutate poi in direttive e successivamente recepite dall’ordinamento italiano attraverso svariati interventi ad hoc, come il d.lgs. n. 50 del 2016. Gli appalti pubblici sono considerati strumentali alle politiche dell’Unione e strategici nell’ambito delle politiche EU, al fine di dare vita, come sostenuto dal legislatore europeo, ad una crescita sostenibile, intelligente ed inclusiva. Suddetta visione strategica è finalizzata al perfezionamento del Mercato Unico basato sul presupposto che crescita ed occupazione possano svilupparsi solo in mercati sani e ben collegati. In questo nuovo sistema è stato introdotto il DGUE, documento di gara unico europeo, consistente in un’autodichiarazione avente natura di prova documentale, preliminare ai fini della partecipazione alla gara, attraverso cui gli operatori possano partecipare con la semplice dichiarazione di possesso dei requisiti di partecipazione. Le stesse direttive, inoltre,
Giovanni Tartaglia Polcini e Marilisa De Nigris
elencano tutti gli elementi in forza dei quali i soggetti interessati possano prendere parte o meno alle gare. Le esigenze previste dalle direttive hanno, perciò, condotto ai concetti di rating d’impresa, rating di legalità e rating reputazionale. Tali elementi, a ben vedere, sono presenti nel nuovo Codice agli artt. 10 e 213 co. 7, sebbene fossero già contemplati dal nostro ordinamento precedentemente. In particolare, il co.10 dell’art.83, recante i criteri di selezione e soccorso istruttorio, stabilisce l’istituzione presso l’ANAC del “sistema del rating di impresa e delle relative penalità e premialità, da applicarsi ai soli fini della qualificazione delle imprese, per il quale l’autorità rilascia apposite certificazioni”. Il rating reputazionale, inoltre, da un punto di vista prettamente normativo trova disciplina nel combinato disposto dell’art. 213 co.7 con l’art. 83 co.10. Il nuovo Codice si ispira ad un modello di soft law di derivazione anglosassone e, quindi, la pubblica amministrazione potrà e dovrà scandagliare a fondo le imprese oggetto delle sue “attenzioni” al fine di individuare il rating. In questo contesto all’ANAC verrà dato ampio potere di svolgere a pieno le proprie attività, sempre finalizzate a stabilire l’affidabilità dell’impresa. Le linee guida, da seguire al fine di stabilire il rating di una impresa, porteranno presumibilmente all’introduzione di misure premiali “connesse a criteri reputazionali basati su parametri oggettivi e misurabili” e fondate su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell’esecuzione dei contratti e la gestione dei contenziosi”. Il rating, se si approfondisce l’analisi, però, rappresenta un criterio soggettivo, legato al curriculum dell’impresa e come tale non potrà entrare a far parte del ventaglio di parametri preordinati alla valutazione delle offerte. Secondo le direttive europee, infatti, i criteri di valutazione, che potranno essere presi in considerazione, prevedono solo elementi muniti di riscontro oggettivo e perciò riferibili solo esclusivamente alla proposta tecnico-economica elaborata da ciascuno dei concorrenti in gara. La problematica connessa alla qualificazione del rating era stata, a ben vedere, già fatta oggetto di attenzione nel nostro ordinamento: la stessa Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, l’ex AVCP ora ANAC, nella determinazione 7/2012 aveva fornito una sua interpretazione della problematica stabilendo che i requisiti soggettivi dell’offerente attengono alle capacità economiche, finanziarie e tecniche di cui agli artt. 41 e 42 del d.lgs. 163/2006, mentre l’offerta deve essere valutata sulla base del proprio contenuto qualitativo, direttamente attinente all’oggetto dell’appalto. In relazione a quanto esposto si può affermare, almeno approssimativamente, che istituti quali il rating di impresa e quello reputazionale possono essere utilizzati alla stregua di criteri per l’ammissione alla gara magari in fase di prequalifica, piuttosto che costituire elementi di valutazione idonei ad influenzare la scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa da parte delle stazioni appaltanti. Da ultimo, appare interessante stabilire come far fronte all’individuazione della natura giuridica delle linee guida adottate dall’ANAC in questo contesto; a ben vedere la loro natura è di tipo regolamentare nella sostanza, ma non nella forma. Qualche rilievo critico sulla nuova disciplina può essere preso in considerazione partendo dal presupposto che si rischia di vanificare, almeno in parte, gli sforzi che la Commissione europea sta compiendo per aprire effettivamente il mercato degli appalti pubblici alle piccole e medie imprese. Il sistema previsto dal nuovo codice risulta sempre più attento alle qualità dell’imprenditore e non alla genuinità della sua offerta. In detto contesto importante è considerare le interazioni del rating reputazionale con il Decreto legislativo n. 231 del 2001 che ha introdotto nel nostro Ordinamento una serie di ele-
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Rating reputazionale e rating di legalità tra condizioni di ammissione ed elementi di ponderazione
menti atti a punire i comportamenti illeciti posti in essere dalle società italiane operanti sia nel territorio nazionale, sia in ambito internazionale. In estrema sintesi, le Società potranno essere esentate dalla responsabilità prevista dal d.lgs. n. 231/01 solo se: • dimostrino di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, un Modello di Organizzazione e Gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi; • abbiano istituito un Organismo di Vigilanza (ODV) con il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del Modello e di curarne il suo aggiornamento; • attestino che il soggetto funzionalmente legato alla società abbia commesso il reato eludendo fraudolentemente il Modello. Quanto alle relazioni tra il Rating di Legalità ed il Rating d’Impresa, dall’analisi dell’art. 83, comma 10, del d.lgs. 50/2016, si evince che l’elemento di unione consiste nella considerazione degli elementi che impattano negativamente sull’impresa e che si possono enumerare come sanzioni, illeciti amministrativi ed inadempimenti contrattuali, nonché gli elementi di cui all’art. 80, comma 5, lettera c). Allo stesso modo fanno parte dei cosiddetti elementi positivi oltre all’effettiva regolarità contributiva di cui comm. 7 art 83, e all’attitudine al rispetto dei tempi e dei costi dell’esecuzione dei contratti e il “Modello Organizzativo 231” previsto dal d.lgs 231 del 2001. Il legislatore nel nuovo Codice degli Appalti fornisce un ulteriore input alle società appaltatrici prevedendo un nuovo vantaggio per le società possedenti rating di legalità e modello organizzativo 231, che consiste in uno sgravio del 30% dei costi della garanzia per la partecipazione alla procedure di gare pubbliche, come riportato dall’art. 93 comma 7 “(…) Nei contratti di servizi e forniture l’importo della garanzia e del suo eventuale rinnovo è ridotto del 30 per cento, non cumulabile con le riduzioni di cui ai periodi precedenti, per gli operatori economici in possesso del rating di legalità o della attestazione del modello organizzativo, ai sensi del decreto legislativo n. 231/2001 (…)”. Infine, per quanto riguarda i criteri reputazionali, l’ANAC rappresenta che tra questi vanno inseriti gli indici espressivi della capacità strutturale dell’impresa, il rispetto dei tempi e dei costi previsti per l’esecuzione, l’incidenza del contenzioso sia in sede di partecipazione alle gare che di esecuzione dei contratti, il Rating di Legalità rilevato dall’ANAC in collaborazione con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la regolarità contributiva negli ultimi tre anni, “la presenza di misure sanzionatorie amministrative per i casi di omessa o tardiva denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi”.
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Graziella Luparello
La verifica dei crediti nei procedimenti di prevenzione patrimoniale dopo la Riforma del Codice Antimafia Sommario: 1. Linee generali. – 2. La procedura di verifica dei crediti, di liquidazione e di pagamento dei creditori. Le novità.
Abstract The credit’s protection in the capital prevention proceedings intersects, in terms of sources supranational issues, the question of the protection of property rights, deduced from established jurisprudence of the European Court of Human Rights, which adopts an extended concept of property or good, comprehensive – under certain conditions – of the credit right (ex multis, sentence of 5/10/2017, First Section, Mazzeo against Italy: “The Court recalls that a” credit “can constitute a” good “within the meaning of Article 1 of the Protocol n. 1 if it is sufficiently proved to be collectable “). Therefore, the national legislation on this point can not disavow the principles that govern the protection of the third, in general, with respect to an ablative provision, between that of the effectiveness of judicial protection, adopted at Community level (see Framework Decision) 2005/212/GAI of the Council of the European Union of 24 February 2005, concerning the confiscation of assets, instruments and proceeds of crime, which admits confiscation to the detriment of persons – even legal – with whom “the biased has the closest relations “, provided they” have effective legal means to protect their rights “cfr. Directive 2014/42/EU of the European Parliament and of the Council of 3 April 2014 on freezing and confiscation of capital goods and proceeds from crime in the European Union, according to which co fiscation “is without prejudice the rights of bona fide third parties “who, on the contrary,” may claim a right of ownership or other property rights [...]), reaffirmed by the European Court of Human Rights, which legitimizes the prevention confiscation only if jurisdiction is given (for example, Decision of 26 June 2001, C. M. v. France, in Case 28078/95), as well as implemented by various international conventions (see the Strasbourg Convention of 8 November 1990 on the money laundering, research, seizure and confiscation of the proceeds of crime, ratified with Law n. 328/1993, which requires to each of the acceding States to adopt “any legislative or other measures that may be necessary to ensure that those who are affected by confiscation have effective legal means to protect them own rights “and the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, concluded in Palermo on 12-15 December 2000, according to which “The interpretation of the provisions” on seizure and confiscation “Must not harm the rights of third parties in good faith”). Of this principle of effectiveness of judicial protection must, therefore, take into account the assessment of legitimacy – also pursuant to art. 117 of the Constitution – of the current legislation on the protection of the third creditor, which we are going to examine.
Graziella Luparello
La tutela del credito nell’ambito dei procedimenti di prevenzione patrimoniali interseca, sul piano delle fonti sovranazionali, la questione della tutela del diritto di proprietà, come evincibile dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che adotta un concetto esteso di proprietà o di bene, comprensivo – a determinate condizioni – del diritto di credito (ex multis, sentenza del 5/10/2017, Prima Sezione, Mazzeo contro Italia: “La Corte rammenta che un «credito» può costituire un «bene» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 se è sufficientemente provato per essere esigibile”). Pertanto, la disciplina nazionale sul punto non può disconoscere i principi che governano la tutela del terzo, in genere, rispetto ad un provvedimento ablatorio, tra i quali quello della effettività della tutela giurisdizionale, adottato in sede comunitaria (cfr. Decisione Quadro 2005/212/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato, che ammette la confisca in danno delle persone – anche giuridiche – con cui “il prevenuto ha le relazioni più strette”, purché esse “dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti”; cfr. Direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea, secondo cui la confisca “non pregiudica i diritti dei terzi in buona fede”, i quali, anzi, “possono far valere un diritto di proprietà o altri diritti patrimoniali [...]”), ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che legittima la confisca di prevenzione solo se è data facoltà di ricorso giurisdizionale (per es. Decisione 26 giugno 2001, C.M. c. Francia, in causa 28078/95), nonché recepito da diverse convenzioni internazionali (vd. convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, ratificata con la L. n. 328/1993, che impone a ciascuno degli Stati aderenti di adottare “tutte le misure legislative o di altra natura eventualmente necessarie ad assicurare che coloro che siano interessati dalla confisca dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti”, e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, conclusa a Palermo il 12-15 dicembre 2000, secondo cui “L’interpretazione delle disposizioni” su sequestro e confisca “non deve ledere i diritti dei terzi in buona fede”). Di tale principio di effettività della tutela giurisdizionale deve, pertanto, tenersi conto nella valutazione della legittimità – anche ex art. 117 Cost. – della normativa vigente sulla tutela del terzo creditore, che andiamo ad esaminare.
1. Linee generali. Il tema della verifica dei crediti assume particolare importanza nella disciplina della prevenzione patrimoniale, in quanto costituisce una parte della più ampia regolamentazione della tutela del terzo, che, contenuta nel c.d. Codice antimafia (d.l. vo 159/2011), riscatta la normativa dalla primitiva clausura solipsistica, ritagliata esclusivamente intorno alla (cieca) ablazione dei patrimoni di formazione illecita, ed elabora un sistema moderno di riconoscimento dei diritti alieni, a beneficio di soggetti estranei a qualsivoglia pratica collusiva con il proposto. Si tratta di una normativa, tuttavia, nella quale il bilanciamento degli interessi ablatori statuali con la tutela dei diritti dei terzi costituisce una finalità meramente tendenziale, in quanto l’ordito normativo, anche dopo la recentissima riforma del Codice antimafia (legge del 17/10/2017, n. 161), conferma il carattere pur sempre recessivo dell’interesse dei terzi alla realizzazione della propria posizione giuridica rispetto all’interesse dello Stato alla detersione dell’economia dalla circolazione di risorse viziate da una genesi illecita. La legge di riforma, peraltro, intervenendo anche sulla disciplina della tutela del terzo (Libro I, titolo IV, artt. 52 e ss. del Codice antimafia), in alcuni casi ha apportato delle modifiche di carattere autenticamente novativo, in altri casi si è limitata ad un’operazione di lifting estetico, dagli esiti non sempre migliorativi. Molti degli interventi di natura novativa, peraltro, sebbene abbiano effettivamente mutato il contenuto della disposizione, hanno costituito la mera ratifica di pacifiche acquisizioni pretorie. L’attribuzione al giudice delegato nelle misure di prevenzione del compito di verificare tutti i crediti vantati dai terzi evoca il principio di esclusività del giudizio di verificazione del passivo
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La verifica dei crediti nei procedimenti di prevenzione patrimoniale dopo la Riforma del Codice Antimafia
proprio del procedimento fallimentare (art. 52 L.F.), che costituisce il principio cardine della concorsualità della esecuzione collettiva. L’assolutezza di tale principio è stata temperata dal legislatore della riforma, che, mediante l’introduzione nel Codice antimafia dell’art. 54-bis, ha previsto che “l’amministratore giudiziario può chiedere al giudice delegato di essere autorizzato al pagamento, anche parziale o rateale, dei crediti per prestazioni di beni o servizi, sorti anteriormente al provvedimento di sequestro, nei casi in cui tali prestazioni siano collegate a rapporti commerciali essenziali per la prosecuzione dell’attività.” La norma, che consente il pagamento anticipato dei debiti pregressi al di fuori della fase di verifica, introduce una sorta di doppio binario nel soddisfacimento dei creditori (ante sequestro): l’attesa, imposta alla generalità dei creditori pregressi, di definizione della verifica dei crediti, della liquidazione dei beni del proposto e del varo del progetto e del piano di pagamento, subisce una rilevante eccezione a vantaggio dei c.d. creditori strategici, in relazione ai quali l’eventuale cesura dei rapporti commerciali potrebbe condannare l’impresa in sequestro al declino economico. Pertanto, i creditori “ordinari” o “deboli” (weak creditors), titolari di un rapporto dispensabile per la vita dell’impresa sequestrata, subiscono una temporanea quiescenza nella realizzazione della propria pretesa, non potendo peraltro agire in executivis sui beni oggetto di ablazione (cfr. art. 55 del Codice antimafia); per converso, i creditori “forti” (strong creditors: es. il fornitore di acqua), legati all’impresa da un rapporto contrattuale la cui interruzione decreterebbe la perenzione di quest’ultima, possono essere soddisfatti – previa autorizzazione del giudice delegato – in via anticipata e al di fuori della procedura di verifica dei crediti. Si tratta di una norma che recepisce lo sforzo della giurisprudenza di adottare, sotto il vigore della vecchia disciplina, delle soluzioni ermeneutiche volte a giustificare il pagamento immediato degli strong creditors mediante la valorizzazione della finalità – propria dell’attività di amministrazione giudiziaria – di conservazione del patrimonio in sequestro (vd. l’art. 35, comma 5, del Codice, che attribuisce all’amministratore il compito, tra l’altro, di “provvedere […] alla conservazione dei beni sequestrati”, così come l’art. 42, comma 1, del Codice, che prevede il sostenimento, da parte dell’amministratore, delle “spese necessarie o utili per la conservazione [...] dei beni” mediante prelevamento dalle somme riscosse a qualunque titolo ovvero sequestrate, confiscate o comunque nella disponibilità del procedimento). La norma, evidentemente, introduce una summa divisio nell’ambito dell’insieme dei creditori sulla base di un criterio che non afferisce a profili di meritevolezza del credito (aequitas), ma a criteri meramente utilitaristici (utilitas), inducendo a privilegiare quei creditori che “servono” all’impresa al punto da esserne indispensabili. Infatti, costituisce un indubbio privilegio, per il creditore, una solutio non ulteriormente differita, sebbene non necessariamente di portata integralmente satisfattiva. Ed invero occorre rilevare che non sono chiari, nel vigore dell’attuale disciplina, i termini quantitativi del pagamento. In primo luogo, occorre osservare l’art. 54-bis del Codice, nella parte in cui stabilisce che l’amministratore giudiziario può “essere autorizzato al pagamento, anche parziale [...], dei crediti” pregressi, sembra prevedere che, a fronte dell’autorizzazione ad un pagamento parziale, le modalità del pagamento del debito residuo dovrebbero seguire la via ordinaria della verifica dei crediti. Non è chiaro, peraltro, il collegamento del primo comma con il secondo comma del medesimo articolo, secondo cui “Nel programma di prosecuzione o ripresa dell’attività di cui all’articolo 41, il tribunale può autorizzare l’amministratore giudiziario a rinegoziare le esposizioni debitorie dell’impresa e a provvedere ai conseguenti pagamenti.”
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Verosimilmente, tale ultima norma, in coerenza con la regola generale del regime autorizzatorio proprio delle transazioni (art. 40, comma 3, del Codice: “L’amministratore giudiziario non può [...] stipulare transazioni, […] senza autorizzazione scritta del giudice delegato.”), introduce la possibilità di un’autorizzazione omnibus ai pagamenti anticipati, per un ammontare che potrebbe essere non integrale, ma frutto in una rinegoziazione (per esempio, con rinuncia agli interessi da parte del creditore). In tal caso, tuttavia, a differenza dell’ipotesi del pagamento parziale di cui al primo comma, si addiverrebbe ad un accordo transattivo-novativo rispetto al quale non residuerebbero “porzioni” di credito da verificare in via differita e concorsuale. In ogni caso, occorre osservare che l’autorizzazione omnibus non potrebbe comunque riguardare genericamente, al di là dell’ampiezza testuale dell’art. 54-bis cit., “le esposizioni debitorie dell’impresa”, altrimenti la soluzione sarebbe eversiva rispetto al sistema della verifica concorsuale dei crediti, bensì, alla luce di una interpretazione sistematica della norma, dovrebbe concernere sempre e comunque le sole esposizioni debitorie verso i creditori strategici. La lettura integrata dei due commi dell’art. 54-bis, dunque, sembra offrire un quadro composito, nel quale i creditori pregressi possono essere soddisfatti o previa autorizzazione del giudice delegato rilasciata di volta in volta o sulla base di una autorizzazione emessa, a monte, con riferimento al gruppo degli strong creditors anteriori. In questa seconda ipotesi, nella quale è possibile la convergenza simultanea di più strong creditors, non è tuttavia prevista alcuna procedura sub-concorsuale, nella quale, in ipotesi, modellare i pagamenti “secondo criteri di graduazione e proporzionalità” previsti dall’art. 54 del Codice per i crediti prededucibili sorti nel corso del procedimento di prevenzione (e che siano liquidi, esigibili e non contestati), per cui l’unico criterio di conformazione del quantum di pagamento appare permeato da un certa elasticità, dipendendo dal risultato della rinegoziazione della esposizione debitoria. È chiaro che l’introduzione di diversi corridoi di pagamento alimenta il grado di entropia del sistema, poiché è possibile riconoscere, al suo interno, una vasta congerie di tipi e sottotipi creditologici. Nell’ambito dei creditori pregressi, infatti, occorre distinguere i creditori strategici o strong creditors dai creditori ordinari o weak creditors. I secondi possono essere pagati soltanto all’esito della procedura di verifica dei crediti, mentre i primi possono essere pagati al di fuori del piano di riparto, in misura integrale o nella misura concordata in sede di rinegoziazione del credito (art. 54-bis, comma 2), oppure, in caso di autorizzazione all’immediato pagamento parziale, solo parzialmente al di fuori del piano di riparto, mentre, per la parte residua, all’interno del piano di riparto (art. 54-bis, comma 1), previa verifica dei crediti. Inoltre, in una cornice più ampia che tenga conto non solo dei crediti anteriori alla procedura, ma anche dei crediti sorti nel corso della procedura, occorre distinguere tra crediti prededucibili e non prededucibili. Se questi ultimi (tendenzialmente i crediti anteriori) sono destinati alla verifica, fatta salva l’applicazione dell’art. 54-bis, i primi lo sono soltanto se si tratta di crediti prededucibili per definizione di legge, mentre, nell’ambito dei crediti prededucibili in quanto sorti nel corso del procedimento di prevenzione, i crediti che siano liquidi, esigibili e non contestati possono essere soddisfatti al di fuori del piano di riparto. Ancora una volta, tuttavia, il pagamento al di fuori del piano di riparto presuppone l’autorizzazione del giudice delegato, che potrebbe riguardare anche solo una parte dei crediti, sicché il residuo è destinato all’inserimento nel piano di riparto (art. 54). Infine, a rendere il quadro ancora più frastagliato concorre il comma 2 dell’art. 54 cit., a mente del quale il pagamento (totale o parziale) dei crediti prededucibili liquidi, esigibili e non contestati va ulteriormente differenziato a seconda che i beni in sequestro afferiscano o meno ad un complesso aziendale. Infatti, se i beni non riguardano complessi aziendali, il pa-
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gamento è eseguito utilizzando le somme disponibili e, in caso di incapienza, il pagamento è anticipato dallo Stato. Per converso, se si tratta di beni organizzati in azienda, “la distribuzione avviene mediante prelievo delle somme disponibili secondo criteri di graduazione e proporzionalità, conformemente all’ordine assegnato dalla legge”, senza alcun riferimento all’eventuale anticipazione da parte dello Stato. Com’è evidente, è arduo ricondurre il sistema creditologico a coordinate di organicità che consentano di demarcare – con nettezza manichea – il discrimen tra ciò che sta al di qua della verifica dei crediti e ciò che sta al di là di essa, perché la collocazione di un credito dentro o fuori rispetto al piano di riparto dipende da molteplici variabili. La prima e più importante conseguenza derivante dalla eventuale emancipazione del pagamento dalla verifica dei crediti riguarda l’applicabilità al credito del limite della garanzia patrimoniale di cui all’art. 53 del Codice, che, nella formulazione post-riforma, prevede il soddisfacimento, non oltre la soglia del 60 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati, “risultante dal valore di stima o dalla minor somma eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi, al netto delle spese del procedimento di confisca nonché di amministrazione dei beni sequestrati e di quelle sostenute nel procedimento di verifica dei crediti”. Ed invero, tale particolare forma di segregazione patrimoniale, che, preservando in favore dello Stato il 40 per cento del valore dei beni ablati, finisce per erodere la garanzia patrimoniale generica dei creditori anteriori (diversamente dagli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela di cui all’art. 2645-ter c.c.), si applica soltanto ai “crediti per titolo anteriore al sequestro, verificati ai sensi delle disposizioni di cui al capo II”, con la conseguenza che i creditori che, anteriori ma strategici, riescono a sottrarre la loro pretesa, in tutto o in parte, alla procedura di verifica, sfuggono al pericolo della falcidia ex art. 53 cit. Ciò comporta che la previsione di cui all’art. 54-bis cit., in quanto contenente una vistosa deroga al regime delle generale verificazione dei crediti con applicazione del limite della garanzia patrimoniale, ha carattere eccezionale e, pertanto, deve essere interpretata al di fuori da qualsivoglia tentazione analogica. In ogni caso, non può non rilevarsi come il sistema, articolato e complesso, dei crediti anteriori potrebbe esporsi a censure di legittimità ex art. 3 Cost., potendo profilarsi aspetti di irragionevolezza nella discriminazione, con riguardo ai crediti pregressi, tra strong creditors e weak creditors, atteso che, come anticipato, il criterio differenziale è rappresentato non già da connotati intrinseci del credito (certezza, liquidità, contestazione, meritevolezza, datazione), ma dal grado di dispensabilità della prestazione da cui esso sorge rispetto alle esigenze di prosecuzione dell’attività aziendale in sequestro. La novità afferente alla (possibile) sottrazione dei crediti pregressi – concernenti prestazioni essenziali per la prosecuzione dell’attività – alla procedura di verifica dei crediti è solo uno degli aspetti della tutela del terzo interessati dalla legge di riforma, la quale ha altresì inciso sulle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 52 del Codice. Con riguardo alle modifiche apportate alla lettera a) testé citata, giova segnalare la soppressione dell’onere di preventiva escussione del restante patrimonio del proposto, prima previsto in capo al creditore non assistito da cause legittime di prelazione sui beni oggetto di ablazione. Infatti, dopo la riforma, è sufficiente la impossidenza ulteriore del proposto (“che il proposto non disponga di altri beni sui quali esercitare la garanzia patrimoniale idonea al soddisfacimento del credito”) per giustificare, ricorrendo gli altri presupposti, l’insinuazione nel passivo. La scelta del legislatore, in parte anticipata dalle prassi degli uffici giudiziari, deve considerarsi condivisibile, in quanto pretendere l’assolvimento dell’onere di preventiva escussione, anche di fronte all’evidente inutilità dell’escussione per incapienza del patrimonio residuo del proposto, implica una ostruzione irragionevole del percorso satisfattorio del creditore, a
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fortiori se si considera il rischio di inconciliabilità della tempistica della escussione civile con quella della verifica dei crediti. Anche la lettera b) del comma 1 dell’art. 52 del Codice, come accennato supra, è stata modificata dalla legge di riforma, posto che il legislatore, nella enumerazione dei presupposti di ammissione del credito, ha apportato due novità relative al requisito della buona fede. La formulazione pre-riforma, infatti, prevedeva l’ammissione del credito che “non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego (c.d. buona fede oggettiva), a meno che il creditore non dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità (c.d. buona fede soggettiva)”, mentre la formulazione post-riforma stabilisce l’ammissione del credito che “non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego (c.d. buona fede oggettiva), sempre che il creditore dimostri la buona fede e l’inconsapevole affidamento (c.d. buona fede soggettiva)”. Come emerge chiaramente dalla comparazione diacronica delle due versioni della norma, in primo luogo il legislatore della riforma ha correlato la enunciazione della buona fede soggettiva (ignoranza incolpevole del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita o quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego) a quella della buona fede oggettiva (mancanza del nesso di strumentalità) non più mediante il ricorso ad una proposizione eccettuativa (“a meno che il creditore non dimostri...”), ma mediante l’adozione di una proposizione condizionale (“sempre che il creditore dimostri...”), in tal modo suggerendo la prescrizione della ricorrenza – additiva o cumulativa – di entrambi i presupposti relativi alla buona fede per l’ammissione del credito: alla buona fede oggettiva, intesa quale mancanza del predetto nesso di strumentalità, deve aggiungersi la buona fede soggettiva, intesa quale ignoranza incolpevole del nesso di strumentalità. Pertanto, secondo la lettera della legge, un credito può essere ammesso al passivo, ricorrendo gli altri presupposti, solo se esso non è strumentale all’attività illecita del proposto (o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego) e se il creditore è in buona fede. Tuttavia, la norma, così interpretata, cade nell’assurdo logico. Se la buona fede è ignoranza incolpevole del nesso di strumentalità, non ha senso aggiungere, al requisito della mancanza del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita, l’ulteriore requisito dell’ignoranza incolpevole, perché lo stato di inscientia sine culpa sarebbe privo del suo oggetto: non si può ignorare incolpevolmente l’esistenza di un nesso di strumentalità che non esiste. L’aporia non è risolta neppure dalla intervenuta modifica della locuzione legislativa relativa alla buona fede soggettiva, essendosi sostituita, alla prescrizione della ignoranza in buona fede del nesso di strumentalità, “la buona fede e l’inconsapevole affidamento”. Invero, la omessa precisazione dell’oggetto della buona fede, divenuta “buona fede e inconsapevole affidamento”, non comporta che possano esserci stati soggettivi, quali la scientia o l’inscientia, colposa o non colposa, privi di oggetto. Se poi l’oggetto volesse ravvisarsi non già nel nesso di strumentalità tra credito e attività illecita del proposto, che si presuppone mancante ai fini dell’ammissione del credito secondo la nuova formulazione testuale, ma nella qualità soggettiva del debitore (es. ignoranza incolpevole del suo status di indiziato di appartenenza alla mafia), si incorrerebbe nella conclusione per cui nessuno potrebbe negoziare con un soggetto candidabile alla misura di prevenzione (per esempio, un mafioso), neppure per attività estranee a quelle illecite di quest’ultimo, in quanto l’eventuale credito, benché scevro di nesso di strumentalità rispetto alle predette attività, non sarebbe ammesso al passivo a causa della consapevolezza, da parte del creditore, della qualità soggettiva del debitore (e dunque, non potrebbe essere concesso al mafioso neppure un credito per forniture alimentari per il sostentamento della sua famiglia). L’epilogo ermeneutico cui si perviene è chiaramente inaccettabile, in quanto si decretereb-
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be la morte civile del mafioso non già in applicazione di una sanzione inflitta allo stesso, ma di misure interdittorie imposte ai terzi, cui sarebbe vietato concedere una qualsivoglia forma di dilazione di pagamento al soggetto passibile di una misura di prevenzione. Perciò, ad avviso di chi scrive, la sostituzione – nel coordinamento del presupposto della buona fede oggettiva con quella soggettiva – della proposizione eccettuativa con quella condizionale è il portato di una esuberanza riformistica, che, sotto l’impulso di ritoccare e modificare diffusamente la normativa del codice antimafia, ha finito per apportare delle innovazioni espressive scevre di risvolti applicativi. La conclusione cui si perviene, dunque, è che il difetto della buona fede oggettiva, ossia l’esistenza di un nesso strumentale tra credito concesso e attività illecita, potrebbe tuttora essere colmato mediante la prova della buona fede soggettiva, id est l’ignoranza della sussistenza della predetta connessione funzionale tra credito del terzo e attività illecita del proposto. Un ultimo aspetto da esaminare è il contenuto specifico della buona fede (soggettiva), posto che il legislatore ha affiancato ad essa l’estremo dell’“inconsapevole affidamento”. Che la buona fede soggettiva possa essersi arricchita semanticamente per effetto della congiunzione testuale all’affidamento inconsapevole è controvertibile, posto che la buona fede, ex art. 1147 c.c., è costituita da uno stato cognitivo (ignoranza o inconsapevolezza) qualificato dalla incolpevolezza (mancanza di colpa grave), mentre l’affidamento in-consapevole si riferisce ad un mero stato cognitivo (ignoranza o inconsapevolezza) privo di qualificazioni ulteriori. Pertanto, deve ritenersi che l’allegazione alla buona fede (soggettiva) dell’ulteriore requisito dell’affidamento inconsapevole determina una connessione meramente endiadica tra i due elementi, priva di alcuna rilevanza autenticamente novativa della norma che li prevede.
2. La procedura di verifica dei crediti, di liquidazione e di pagamento dei creditori. Le novità. Il legislatore della riforma è intervenuto anche nella disciplina della procedura di tutela del terzo, determinando una severa diastasi tra la fase di accertamento del diritto del terzo e quella del soddisfacimento dello stesso. La fase di accertamento del diritto, a sua volta, è stata modificata, essendone stato posticipato il momento iniziale e avendone accelerato lo svolgimento, sebbene al prezzo di una evidente compressione del diritto di difesa del predetto terzo. Infatti, ai sensi del novellato art. 57, comma 2, del Codice, il giudice assegna un termine ai creditori per la presentazione delle istanze di insinuazione nel passivo non già “anche prima della confisca”, bensì “dopo il deposito del decreto di confisca di primo grado”. Lo slittamento del momento incoativo della verifica dei crediti costituisce una importante novità introdotta dalla riforma, in quanto l’esperimento della verifica “anche prima della confisca”, e dunque anche subito dopo il sequestro, importa la possibilità dello svolgimento di un accertamento dei diritti del terzo senza un’adeguata base conoscitiva, sulla base dei soli elementi addotti dall’organo proponente e in assenza di una visione completa delle attività illecite del proposto. Inoltre, l’ulteriore rischio è costituito dalla inutile dispersione delle energie processuali in caso di revoca del provvedimento di sequestro – emesso inaudita altera parte – all’esito del giudizio di primo grado. Il legislatore della riforma, tuttavia, dopo avere posticipato l’apertura della verifica dei crediti, imprime una evidente impronta acceleratoria al suo svolgimento, portando da novanta a sessanta giorni il termine massimo assegnato ai creditori per la presentazione delle istanze di insinuazione nel passivo (art. 57, comma 2, cit.) e rimodulando, coerentemente, il termine
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per la presentazione delle istanze tardive, che, ex art. 58, comma 5, del Codice, non è più non superiore ad un anno “dalla definitività del provvedimento di confisca”, ma non superiore ad un anno “dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo”. Inoltre, la riforma ha formalizzato l’apporto dell’amministratore giudiziario in seno alla verifica dei crediti, inserendo – in posizione caudale al pregresso art. 58 del Codice, relativo alla “Domanda del creditore” – i nuovi commi 5-bis e 5-ter. Al di là di ogni riserva critica su tale scelta topografica (la disciplina delle funzioni dell’amministratore giudiziario nell’accertamento del passivo meritava l’inserimento in un autonomo articolo di legge, e non già l’emarginazione sistematica in posizione appendicolare rispetto alla disciplina della domanda del creditore), giova rilevare che il calco di tale regolamentazione è costituito dalla normativa fallimentare, posto che, similmente a quanto previsto dall’art. 95, comma 1, primo periodo, della legge fallimentare per il curatore, il comma 5-bis dell’art. 58 attribuisce all’amministratore giudiziario il compito di esaminare le domande dei creditori e di redigere un progetto di stato passivo, con la enunciazione delle proprie conclusioni sull’ammissione o sull’esclusione di ciascuna domanda. La norma solleva una duplice riflessione. Sebbene la sua ispirazione fallimentare, ex art. 95, comma 1, cit., sia spiccata, la norma di cui comma 5-bis dell’art. 58 non mutua il secondo periodo del primo comma dell’art. 95, nella parte in cui prevede che “Il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione.” Ciò non implica, tuttavia, ad avviso di chi scrive, alcuna preclusione al potere di eccezione dell’amministratore giudiziario, intendendosi semplicemente riconoscere al giudice delegato in sede prevenzionale il potere di rilevazione d’ufficio dei fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché dell’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico alla ablazione dei beni connotati da eziopatogenesi, interesse ontologicamente diverso da quello, pur sempre privatistico, alla par condicio creditorum, perseguito in sede fallimentare. Inoltre, il legislatore della riforma ha attribuito particolare valenza alla funzione dell’amministratore giudiziario di “Rassegna[re] le proprie motivate conclusioni sull’ammissione o sull’esclusione di ciascuna domanda”. Infatti, come può agevolmente evincersi dalla lettura dell’art. 59, comma 1, del Codice riformato (e sul punto le modifiche rispetto al testo precedente sono di mero maquillage stilistico), mentre il giudice delegato, nel provvedimento con cui ammette o esclude un credito, è chiamato a motivare soltanto sulla esclusione e, per di più, in maniera succinta (“sommaria”, prima della riforma), l’amministratore giudiziario, nella elaborazione dello stato passivo, ha oneri motivazionali più estesi, dovendo esplicitare le motivazioni delle proprie conclusioni sia sull’ammissione sia sull’esclusione, e senza il limite del carattere “succinto” o “sommario” delle articolazioni motive. Si tratta di un adempimento estremamente importante perché, come vedremo a breve, entro termini brevi presidiati dalla decadenza i creditori eserciteranno il loro diritto di difesa controdeducendo rispetto alle conclusioni dell’amministratore giudiziario. Stabilisce, infatti, il neointrodotto art. 5-ter dell’art. 58 del Codice, pure qui sulla falsariga dell’art. 95, comma 2, l.f., che “L’amministratore giudiziario deposita il progetto di stato passivo almeno 20 giorni prima dell’udienza fissata per la verifica dei crediti. I creditori e i titolari dei diritti sui beni oggetto di confisca possono presentare osservazioni scritte e depositare documentazioni aggiuntive a pena di decadenza fino a cinque giorni prima dell’udienza”. Anche tale ultima norma, pur nella spiccata somiglianza con la omologa norma fallimen-
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tare, presenta un evidente elemento differenziale, costituito dalla previsione della decadenza correlata alla mancata presentazione, entro cinque giorni prima dell’udienza, di osservazioni scritte e al mancato deposito, entro lo stesso termine, di documentazioni aggiuntive. Nel diritto fallimentare, invece, ove manca ormai una analoga previsione decadenziale, “la mancata presentazione da parte del creditore di osservazioni al progetto di stato passivo depositato dal curatore non comporta acquiescenza alla proposta e conseguente decadenza dalla possibilità di proporre opposizione” (Corte di cassazione, ord. n. 19937 del 10/08/2017). Riemerge, dunque, nella neointrodotta norma prevenzionale, la finalità acceleratoria della procedura di verifica dei crediti quale strumento di compensazione rispetto alla posticipazione della verifica stessa. Le connotazioni pubblicistiche che permeano la verifica dei crediti prevenzionale si riflettono anche in una diversa disciplina dello svolgimento dell’udienza di verifica rispetto a quella fallimentare. Basti pensare alla partecipazione alla predetta udienza, sia pure in chiave facoltativa, del pubblico ministero (art. 59, comma 1, del Codice), che rappresenta l’interesse dello Stato alla ablazione dei patrimoni a genesi illecita e che può addurre al giudice importanti elementi di giudizio intorno alla buona fede dei creditori, nonché all’attribuzione, al giudice della prevenzione, del potere di decidere al di fuori dello schema tipicamente civilistico dello iuxta alligata et probata partium, che domina il giudizio fallimentare sulla verifica del passivo. Prevede, infatti, l’art. 95, comma 3, l.f. che “All’udienza fissata per l’esame dello stato passivo, il giudice delegato, anche in assenza delle parti, decide su ciascuna domanda, nei limiti delle conclusioni formulate ed avuto riguardo alle eccezioni del curatore, a quelle rilevabili d’ufficio ed a quelle formulate dagli altri interessati. Il giudice delegato può procedere ad atti di istruzione su richiesta delle parti, compatibilmente con le esigenze di speditezza del procedimento”. Il giudice della prevenzione, ex adverso, ai sensi dell’art. 59, comma 1, del Codice, “assunte anche d’ufficio le opportune informazioni, verifica le domande, indicando distintamente i crediti che ritiene di ammettere, con indicazione delle eventuali cause di prelazione, e quelli che ritiene di non ammettere, in tutto o in parte, esponendo succintamente i motivi dell’esclusione”. Com’è evidente, l’omesso riferimento alle eccezioni dell’amministratore giudiziario, parallelo a quello della norma fallimentare circa il vincolo del giudice alle eccezioni del curatore, conferma l’assunto sostenuto supra circa il potere del giudice della prevenzione di rilevare d’ufficio circostanze reiettive della pretesa del terzo, quand’anche civilisticamente integranti una eccezione pleno iure. D’altro canto, se il giudice delegato al fallimento può compiere i soli atti di istruzione richiesti dalle parti, il giudice delegato della prevenzione può assumere d’ufficio le opportune informazioni, salvo ad interrogarsi, poi, circa la possibilità di apertura, in seno alla verifica dei crediti prevenzionale, di un’autentica parentesi istruttoria con riconoscimento del diritto delle parti alla prova contraria. In ogni caso, non dovrebbe negarsi a queste ultime il diritto di avversare le risultanze delle “opportune informazioni” – assunte d’ufficio dal giudice – mediante allegazioni e deduzioni contrarie, e, all’occorrenza, anche mediante richieste di prove, con conseguente superamento della barriera decadenziale di cui all’art. 58, comma 5-ter, del Codice. Un’ultima annotazione riguarda la previsione del legislatore della riforma, a chiusura del primo comma dell’art. 59 cit., che il giudice motivi l’esclusione del credito non più “sommariamente”, ma “succintamente”. La modifica non ha una particolare pregnanza euristica, rispondendo verosimilmente soltanto all’esigenza stilistica di evitare l’uso di espressioni che possano legittimare motivazioni generiche o superficiali, richiedendosi per converso una motivazione
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che, pur nella sua essenzialità, risulti adeguata e specifica. Significative novità sono apportate dal legislatore della riforma anche al giudizio di opposizione contro i provvedimenti reiettivi del credito e di impugnazione contro i provvedimenti ammissivi del credito, emessi dal giudice delegato a conclusione dell’udienza di verifica. Si tratta di scelte coerenti con la già segnalata esigenza di speditezza del procedimento, che, in un’ottica di massima economia processuale, determina una macroscopica contrazione della fase istruttoria. Infatti, mentre nella versione pre-riforma del comma 8 dell’art. 59 del Codice, nel giudizio di opposizione-impugnazione ciascuna parte può chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile e proporre mezzi di prova, potendo chiedere anche prove ulteriori a seguito di eventuali accertamenti istruttori disposti d’ufficio, nella versione post-riforma scompare il diritto delle parti di chiedere elementi utili e di proporre mezzi di prova, così come è abrogato ogni riferimento all’esercizio di poteri istruttori officiosi. Ai sensi del novellato comma 8 dell’art. 59, infatti, la parte può “produrre documenti nuovi solo se prova di non esserne venuta in possesso tempestivamente per causa alla parte stessa non imputabile”. Alla luce di ciò non può non rilevarsi come della fase istruttoria prevista dalla vecchia normativa sopravviva soltanto una eventuale produzione documentale di parte, legittimata dalla impossibilità della produzione anteriore, mentre nessun riferimento è operato a prove diverse da quelle cartolari o a poteri istruttori officiosi. La norma non può non esporsi a serie riserve critiche, in quanto, avuto riguardo all’angustia della fase istruttoria anche nell’udienza di verifica innanzi al giudice delegato, angustia preceduta ed aggravata dalla previsione della decadenza di cui al comma 5-ter dell’art. 58, l’impressione che se ne ricava è di una severa stenosi dei canali istruttori per il compiuto esercizio del diritto di difesa, costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.), da parte del creditore. In maniera coerente con la esposta soppressione della fase istruttoria, il comma 9 dell’art. 59 cit. non prevede più l’assegnazione di un termine alle parti per il deposito di memorie scritte, in cui esporre le proprie conclusioni sulla scorta del patrimonio istruttorio, ma la chiusura sine ullo medio del giudizio con decreto del tribunale, per l’emissione del quale – parallelamente alla sostanziale amputazione dell’attività istruttoria – è stato persino abrogato il pregresso termine di sessanta giorni. Anche la fase della liquidazione dei beni, disciplinata dall’articolo 60 del codice antimafia, ha subito una profonda innovazione per mano del legislatore della riforma. Infatti, in primo luogo, la fase della liquidazione dei beni non avviene più dopo la conclusione dell’udienza di verifica, ma dopo l’irrevocabilità del provvedimento di confisca. Tale novità presenta dei risvolti positivi e dei risvolti negativi. Infatti, la liquidazione, se da un lato si svolge quando ormai il proposto ha perso ogni prospettiva di recuperare i propri beni, dall’altro finisce per soddisfare i creditori tardivamente, in quanto gli stessi, nonostante la speditezza della procedura di accertamento delle rispettive pretese, debbono comunque attendere che la confisca diventi definitiva per ottenere il pagamento delle proprie spettanze. La postergazione della liquidazione dei beni alla definitività della confisca comporta il trasferimento delle relative funzioni dall’amministratore giudiziario, la cui figura si eclissa ora con la confisca di secondo grado (art. 38, comma 3, del Codice, nuova formulazione), all’agenzia nazionale. Peraltro, a seguito della riforma, la liquidazione può essere ulteriormente differita ove essa abbia ad oggetto beni redditizi per i quali l’ulteriore messa a frutto può consentire di conseguire risorse maggiori e necessarie al pagamento dei creditori. Ciò, com’è ovvio, non significa
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che la liquidazione possa essere rinviata sine die, in quanto in ogni caso dovrà farsi luogo alla vendita dei beni per pagare i creditori non oltre un anno dalla irrevocabilità del provvedimento di confisca (art. 60, comma 1, ultimo periodo, del Codice). Lo slittamento in avanti della fase della liquidazione dei beni comporta, com’è ovvio, lo scivolamento anche delle fasi ulteriori, rappresentate dalla redazione del progetto di pagamento dei crediti e dalla determinazione del piano di pagamento. Ai sensi del novellato art. 61, infatti, la predisposizione del progetto di pagamento dei crediti non avviene più nei sessanta giorni successivi alla formazione dello stato passivo (ovvero nei dieci giorni successivi all’ultima vendita), bensì dopo l’irrevocabilità del provvedimento di confisca. E, conseguentemente, l’adempimento non è più rimesso all’amministratore giudiziario, bensì dell’agenzia. Ciò costituisce il preludio di una radicale metamorfosi della fase epilogica della procedura di tutela del terzo. Nella nuova formulazione dell’articolo 61 del Codice, infatti, il progetto di pagamento, una volta predisposto dall’agenzia, non viene più trasmesso al giudice delegato, ma ne è ordinato il deposito e ne è disposta la comunicazione a tutti i creditori per l’eventuale presentazione di osservazioni. Il giudice delegato, pertanto, perde lo ius variandi sul progetto di pagamento dei crediti, al quale, a norma del pregresso comma 4 dell’art. 61 cit., poteva apportare le modifiche ritenute necessarie od opportune, poiché tale progetto si colloca ormai in una fase post-giurisdizionale, successiva alla definitività della confisca. Naturalmente, il giudice delegato perde anche il conseguenziale potere di determinare il piano di pagamento tenendo conto delle osservazioni pervenute e sentito l’amministratore giudiziario, il pubblico ministero e l’agenzia, essendo quest’ultima adesso che, tenuto conto delle osservazioni eventualmente pervenute, determina il piano di pagamento in questione (art. 61, comma 6, del Codice). Com’è evidente, dunque, nella determinazione del piano di pagamento, l’agenzia si riscatta dal ruolo meramente consultivo (condiviso con il pubblico ministero e l’amministratore giudiziario) rispetto al giudice delegato, per assumere il potere di determinarlo personalmente. Il deficit di giurisdizionalità della procedura è colmato, in via successiva, dalla eventuale proposizione dell’opposizione avverso il piano di pagamento così come determinato dall’agenzia, opposizione per la quale alla competenza del tribunale della prevenzione, messo in non cale dalla definitività della confisca, si sostituisce quella della sezione civile della corte di appello del distretto della sezione specializzata (art. 61, comma 7, del Codice), con applicazione delle regole, improntate a maggiore speditezza processuale, del procedimento sommario di cognizione (art. 702-bis e ss. c.p.c.).
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Simone Faiella
L’aggravante mafiosa nella stagione del trionfo della prevenzione generale* Sommario: 1. I possibili futuri inquietanti approdi. – 2. Una circostanza “a effetto speciale”: le conseguenze dell’applicazione dell’art. 7. – 3. Le infinite possibilità di applicazione dell’art. 7: genericità descrittiva della previsione. – 4. Una circostanza “comune”: la genericità funzionale. – 5. I cortocircuiti con le fattispecie “a portata servente”. – 6. Il “sub-accertamento” e i canoni di imputazione. – 7. La punizione del “tentativo di concorso”.
Abstract Art. 7 of the d.l. 152 of 13 May 1991 has introduced into our legal system a sanctioning mechanism whose legitimacy is highly dubious, both in terms of compliance with the major constitutional canons – first and foremost the principle of legal certainty; and in terms of application predictability in relation to the principles expressed by the other art. 7, that of the ECHR. The provision defines an aggravating circumstance whose applicability is unpredictable chiefly because of its generic descriptiveness. As is known, in order to be applicable, the provision presumes the existence either of a “mafia method”, and/or a “facilitation of a mafia-style coterie”. To define ex ante, as the rules would require, what exactly constitutes a “mafia method” is almost impossible. The impossibility is macroscopic when one takes into account that well-established case-law considers the aggravating circumstance as capable of existing despite the existence of a real and proper criminal association: the method without the mafia. The interpretative and normative framework is no less problematic with regard to the “sub-case” referring to the “facilitation of a mafia-style coterie”: if the mafia-style consortium is supposed to actually exist, a factual reconstructive limbo gapes open. This aspect of the aggravating circumstance is, moreover, partially rivalled by the norms regulating the, so called, “external accessory” (pursuant to art. 110 – 416-bis c.p.); the legislative discipline of which is also entrusted to the unfathomable criteria of causation. As can be imagined, these become literally inscrutable where applied to psychological reconstructions. To find a specific area of applicability, “facilitation” would need to be considered as a lesser degree of “external accessory”. Consequently, regardless of the afore mentioned principles of certainty and predictability, the causative and interpretative basis for application would become even more nuanced. The alternative is, of course, to apply the aggravating circumstance of “facilitation” in addition to that of “external accessory” – with the risk of violating the ne bis in idem principle as well. To make matters worse, this undeniable normative haze is appended with an extremely lax, and easily adaptable, piece of legislation. In both the aforementioned sub-cases, the aggravating circumstance is defined as being “common and with special effect”. Accordingly, its application can distort the legal sentencing parameters of any crime, with devastating results. As regulated, it affects not only on the prison term that can be inflicted, but also on the kind of detention regime to be enforced – especially with regard to measures alternative to incarceration. This constitutes a legal aberration which, given the period of hard-line justice that our country is going through, will not be corrected soon.
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Intervento al Convegno nazionale organizzato dall’Unione delle Camere Penali e dalla Camera Penale di Treviso dal titolo “Il “lavoro sporco” del diritto penale”, in Treviso il 24 marzo 2017.
Simone Faiella
Con l’art. 7 del d.l. 152 del 13 maggio 1991 è stato introdotto nel nostro ordinamento un meccanismo sanzionatorio di assai dubbia legittimità sia sul piano del rispetto dei principali canoni costituzionali, quali, primo fra tutti, quello della determinatezza sia sul piano della sua prevedibilità di applicazione, in rapporto ai principi espressi da altro art. 7, stavolta quello della CEDU. La disposizione anzidetta reca infatti un’aggravante che risulta non prevedibile quanto alle sue possibilità di applicazione, prima di tutto, per effetto della sua genericità descrittiva. Come noto, il dispositivo in esame vede quali suoi presupposti di applicazione, in via alternativa, il cd. “metodo mafioso” e “l’agevolazione di una consorteria di stampo mafioso”. Definire ex ante, come le regole del gioco imporrebbero, in cosa consista il “metodo mafioso”, è cosa pressoché impossibile. Tale impossibilità è resa peraltro ancor più manifesta, se si considera che l’aggravante anzidetta, in parte qua, è ritenuta in grado di operare pur a prescindere dall’esistenza di una vera e propria associazione criminale così connotata. Non meno problematico è il quadro dogmatico-ermeneutico riferibile alla “sotto-fattispecie” dell’“agevolazione”, poiché, se è vero che, con riferimento a questa seconda, la consorteria di stampo mafioso si ritiene debba effettivamente sussistere, è anche vero che anche in ordine ad essa si apre un vero e proprio limbo ricostruttivo. L’aggravante, in tale altra parte qua, trova infatti quale ulteriore disciplina evocabile quella del cd. “concorso esterno” ex art. 110 – 416-bis c.p. Come noto, anche tale disciplina è affidata al criterio della causalità. Quest’ultimo diventa letteralmente imperscrutabile, ove colto nella sua dimensione marcatamente psichica. L’aggravante in questione, pertanto, per trovare un suo spazio di applicazione autonomo, dovrebbe andare a collocarsi in una fascia “più bassa”, e perciò ancor più sfumata, quanto ai presupposti eziologici di applicazione. L’alternativa è il concorso (reale) di norme e quindi l’applicabilità dell’aggravante in aggiunta alla disciplina del cd. “concorso esterno”. Nella prima ipotesi ricorrerebbe il rischio della “sola” violazione dei principi di determinatezza e prevedibilità anzidetti; nella seconda ricorrerebbe anche il rischio di una possibile violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. A questa nebulosità dogmatico-ermeneutica, si associa uno snodo di disciplina estremamente lasso e adattabile ad ogni bisogna. L’aggravante anzidetta, in entrambe le due dette sotto-fattispecie, è infatti qualificabile come “comune e ad effetto speciale”. Pertanto essa è in grado di operare sulle conseguenze del reato, stravolgendone la disciplina, recando devastanti conseguenze non solo sul quantum di pena irrogabile, ma anche su tutto quello che può essere il regime penitenziario e, in particolare, le misure alternative alla detenzione. Si tratta di un vero e proprio “monstrum” giuridico che, però, vista l’epoca giustizialista che il nostro Paese sta attraversando, è ben lungi dall’essere abbattuto.
1. I possibili futuri inquietanti approdi. Il tema che mi accingo a trattare riguarda un meccanismo sanzionatorio inserito nel nostro ordinamento, ormai nel 1991, con il ruolo di semplice aggravante. Sì, perché, con l’art. 7 del d.l. 152 del 13 maggio 1991, oggi refluito nell’art. 416 bis 1 c.p., viene introdotta nel nostro sistema una previsione incriminatrice sui generis secondo cui, tra l’altro, “Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del Codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà”. Essa, sul terreno del diritto applicato, sta riscontrando una vera e propria impennata sotto il profilo statistico. Il sensibile aumento numerico dell’applicazione di simile dispositivo è dettato da una chiara intenzione, espressa anche dal legislatore in recenti interventi, di rendere una risposta contro il crimine organizzato più efficace. E tale maggiore efficacia viene ricercata attraverso un rincaro nei meccanismi sanzionatori attuato sia nel loro momento genetico sia nel loro momento funzionale (ermeneutico). Come è da sempre stato evidente la previsione in esame non brilla per chiarezza quanto ai suoi presupposti di applicazione. Per tali ragioni, nonostante siano trascorsi ormai ventisette anni dalla sua entrata in vigore, dobbiamo registrare attualmente, molto più di quanto non accadesse in origine, un vivo dibattito in ordine ai suoi reali perimetri di applicazione.
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Secondo la tradizionale impostazione ermeneutica, la citata previsione sarebbe divisibile in due sotto-fattispecie. La prima, riguarderebbe il metodo attraverso il quale verrebbe commesso il reato base. Quest’ultimo verrebbe appunto aggravato perché commesso mediante “le condizioni previste dall’articolo 416-bis del Codice penale”. L’aggravante, nella parte qua, avrebbe pertanto connotazione oggettiva. La seconda, invece, sarebbe incentrata sul fine della agevolazione dell’associazione criminale perseguito nella commissione del reato. Perciò essa sarebbe di marca soggettiva. Il reato base, attraverso la detta aggravante, verrebbe a connotarsi ulteriormente di una sorta di “dolo specifico aggiunto”. Si tratta invero di “specificazioni” che proprio in quanto giurisprudenziali, come constateremo, risultano prive di effettiva stabilità. Vale la pena ricordarlo, siamo sempre in un sistema dove non vige lo stare decisis1. L’aggravante in esame costituisce innegabilmente un ottimo meccanismo per mettere in atto la nuova linea di indirizzo preventivo-repressiva espressa sia in sede legislativa che in sede ermeneutica, in quanto ben si presta ad essere chiamata in causa in ogni procedimento inerente all’ormai amplissima zona grigia che intercorre tra fatti dotati di mafiosa rilevanza e fatti che ne sono privi2. La prevenzione così intesa costituisce secondo larga parte degli addetti il “nuovo” sistema attraverso cui garantire una più efficace risposta dell’ordinamento all’allarme dettato dal crimine organizzato. Dobbiamo prendere atto che la indicata tendenza, fortunatamente non incontrastata3, si riscontra anche nelle spinte volte ad abbassare gli standard probatori ben al di sotto dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”. I valori della prevenzione e della precauzione erodono ogni fronte, spingendo ad una sorta di “pan-prevenzione” della materia tutta penale o (apparentemente) non penale come voglia essere classificata. Il testo della norma diventa un’indicazione di principio e la fattispecie ben può essa essere adattata al caso concreto, con evidente inversione del procedimento di sussunzione che ha guidato fino ad oggi tutti gli studiosi e gli interpreti. Ragionare in questa “nuova” ottica, come in larga parte e a più livelli attualmente si propone, significa riconoscere legittimità ad un definitivo superamento proprio del testo della previsione e, con esso, di alcuni valori cardine del nostro sistema per un controvalore reso dalla asserita “garanzia di punizione”4.
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Vd. sul punto Cass., Sez. III, 30 aprile 2015, n. 47588, secondo cui “La configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991 n. 203, nella forma del «metodo mafioso», è subordinata alla sussistenza nel caso concreto di condotte specificamente evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, non potendo essere desunta unicamente dalla peculiare carica di intimidazione connessa allo strumento prescelto dal reo (nel caso di specie, la condotta degli agenti si era sostanziata nell’attentato ai danni dei mezzi operativi presenti nel cantiere della persona offesa)”. 2 Vd. in argomento, C. Visconti, “La mafia è dappertutto” Falso, Bari, 2016, 37 ss. 3 Vd. A. Manna, in Aa. Vv., a cura di S. Furfaro, Misure di prevenzione, Torino, 2013, 3 ss; vd. dello stesso Autore, in chiave critica, già nel ’97, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle “finzioni giuridiche” alla “terapia sociale”, Torino, 1997. Vd anche Gallo, Misure di prevenzione, voce in Enc. Giur. Treccani, Roma, Vol. XX, 1990, 3; Sul tema anche C. Visconti, Ancora una decisione innovativa del Tribunale di Milano sulla prevenzione antimafia nelle attività imprenditoriali, in www.penalecontemporaneo.it. 4 Sull’interpretazione della norma, in riferimento al citato indirizzo, vd. G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Bari-Roma, 2017, 114 e ss.
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Rimanere invece fedeli ai cardini della nostra tradizione liberale, significa mantenere quella logica convinzione secondo cui non v’è luogo per porre in crisi il rapporto fondamentale che deve intercorrere tra responsabilità e punizione, pena è il rendere quest’ultima una mera irrogazione di un male privo di alcuna effettiva e virtuosa funzione5. L’aggravante in questione, inutile nasconderlo, è assurta al ruolo di vera e propria protagonista in questa “nuova” concezione della prevenzione generale, condizionando dal profondo le dinamiche e la dialettica sia nella fase dell’accertamento che in quella dell’esecuzione della pena. Tale effetto è, evidentemente, da ricondursi alla grande capacità di un simile strumento di innestarsi quale meccanismo di law enforcement rispetto, appunto, a tutte le fattispecie concrete “border line” facenti capo all’anzidetta ampia “zona grigia”. Rispetto, infatti, a quelle, e sono la gran parte ormai, dato anche l’evolversi della criminalità verso forme di operatività anche distanti rispetto a reati-scopo di matrice violenta, siamo spesso in bilico tra l’art. 416 e l’art. 416-bis c.p. La tendenza espressa dalle più importanti Procure della Repubblica di conferire, ai fatti asseritamente dotati di maggiore allarme, la qualifica di mafia, ha trovato, proprio per il tramite dell’anzidetta aggravante, decisiva sponda nella sua innegabile genericità. Certamente in base alla “nuova ottica”, secondo cui il cd. “formante giurisprudenziale” è esso stesso fonte del diritto, la risposta sulla legittimità di una tale previsione non può che essere affermativa. Anzi, a ben considerare, proprio l’ampiezza delle maglie della stessa gioca a favore della delega al giudice del potere di interpretazione c.d. “estensiva” della fattispecie astratta. Sul piano della “politica giudiziaria”, infatti, proprio la sovrabbondante genericità della previsione costituisce, nell’attuale momento storico, non un deficit, ma, anzi, paradossalmente, un prezioso plus. È invero proprio questo uno dei principali motivi per cui essa è attualmente strumento così in voga e, allo stesso tempo, così in grado di segnare il discrimine tra chi è ancora convinto che il diritto penale inteso come “Magna charta” debba trovare il suo punto centrale nel reo (come anche che il codice di procedura lo debba individuare sull’indagato e sull’imputato) e chi, invece, è a favore di un diritto penale incentrato sulla tutela della vittima, a qualsiasi costo ed a scapito delle garanzie cui ci eravamo abituati. Se si vuole, come da parte nostra si vorrebbe, rimanere ancorati ai valori liberali e costituzionali cardine della nostra cultura giuridica e, soprattutto, affrontare l’indagine sulla previsione in chiave critica e tecnica, la risposta non può che essere di segno negativo. Se si ritiene di esprimere un giudizio realmente tecnico sulla previsione, non si può fare a meno di rimarcare quanto essa costituisca uno degli ormai troppi e “scadenti” prodotti della decretazione d’urgenza. Tale giudizio si scontra innegabilmente con la citata “nuova tendenza”, che a ben considerare di nuovo ha ben poco, proprio in quanto la demolizione in fatto delle categorie e dei principi che hanno nei secoli sempre più irrigimentato il “giure punitivo”, comporta un chiaro ritorno al passato6. Il paventato “trionfo” in subiecta materia della prevenzione generale sembra in effetti ormai comportare il superamento di quella sensibilità giuridica secondo la quale la norma penale dovrebbe essere sempre scritta attraverso la procedura “classica” della legge
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Non può non sottolinearsi anche in questa sede, con le parole di Roxin, che “la giustizia penale è un male necessario, se essa supera i limiti della necessità resta soltanto il male”, C. Roxin, Fragwürdige Tendenzen in der Strafrechtsreform, in Radius 1966, p. 37. 6 Vd. sull’argomento, S. Seminara, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano 1987.
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ordinaria (e non solo “di rango ordinario”). Anche questa è una “garanzia” superata e superabile in ragione dell’anzidetta lotta al crimine organizzato.
2. Una circostanza “ad effetto speciale”: le conseguenze dell’applicazione dell’art. 7. Se, come meglio osserveremo, vi è incertezza sui chiari presupposti di applicabilità della detta aggravante, ricorre invece ben maggiore certezza sulle conseguenze discendenti dalla sua applicazione. Esse hanno tutte una portata a dir poco dirompente, stravolgendo sia la fase del procedimento sia quella successiva del processo sia ancora quella dell’esecuzione. Si tratta di una circostanza ad effetto speciale ai sensi dell’art. 63 c.p. perché, prima di tutto sul piano quantitativo, legittima un aumento del trattamento sanzionatorio da un terzo fino alla metà della pena prevista per il reato base. Trattiamo peraltro di un’aggravante che non è bilanciabile. In base infatti al comma 2 dello stesso art. 7, “Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante”7. Tali effetti quantitativi in termini di pena si riflettono poi sui termini quantitativi del tempo a prescrivere ex art. 157 c.p. Essa, oltreché sulla quantità, incide profondamente sulla qualità del trattamento sanzionatorio. Sotto il profilo procedurale essa reca, in sede di indagini, la competenza della Procura Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo (art. 51 comma 3 bis c.p.p.), l’allungamento della durata massima delle stesse [art. 407 comma 2, lett. a) n. 3 c.p.p.], nonché, in sede dibattimentale, gravi limitazioni al diritto alla prova con riferimento all’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’articolo 210 c.p.p. Non solo. Per il tramite dell’art. 7 medesimo si può ottenere l’applicazione dell’art. 41-bis e, dunque, il cd. “carcere duro” già nella fase cautelare (art. 4-bis e art. 41-bis comma 2 L. 354/1975). L’aggravante reca anche una gravissima limitazione nella concessione dei cd. “benefici” in sede di espiazione di pena e condiziona, ove applicata al reato presupposto, l’identificazione della forbice edittale per fattispecie quali quelle afferenti al delitto di auto riciclaggio, ex art. 648 ter1 c.p.
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Comma così modificato dall’articolo 5, comma 1, della legge 14 febbraio 2003, n. 34. Il testo originario della circostanza del metodo e dell’agevolazione mafiosi prevedeva quale eccezione all’esclusione del giudizio di bilanciamento il solo riferimento all’art. 98 c.p. Vd. in argomento, S. Ardita, Partecipazione all’associazione mafiosa e aggravante speciale dell’art. 7, d.l. n. 152/1991. Concorso di aggravanti di mafia nel delitto di estorsione. Problemi di compatibilità tecnicogiuridica e intenzione del legislatore, in Cass. pen., 2001, 2669 ss.; D. Fondaroli, Le circostanze aggravanti previste dagli artt. 7 e 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modifiche nella legge 12 luglio 1991, n. 203, in Mafia e criminalità organizzata, Aa. Vv., a cura di P. Corso-G. Insolera-L. Stortoni, vol. II, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, (diretta da) F. Bricola-V. Zagrebelsky, Torino, 1995, 662 ss.; E. Belfiore, voce Criminalità organizzata-Mafia, a cura di C. E. Palazzo-F. C. Paliero, Commentario breve alle leggi penali complementari, 2ᵃ, Padova, 2007, 817 ss.
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3. Le infinite possibilità di applicazione dell’art. 7: genericità descrittiva della previsione. Volendo approfondire gli aspetti strutturali dobbiamo prendere atto che, uno dei temi cruciali ai fini dell’applicazione della indicata aggravante riguarda il ricorrere o meno, nel concreto, di un’associazione di stampo mafioso propriamente intesa. Sul punto si sostiene che, per quanto riguarda la sotto-fattispecie oggettiva, appunto relativa al metodo mafioso, non sarebbe necessario il ricorrere effettivo, e in atto, di essa, bastando, ad esempio, anche una semplice millanteria (peraltro addirittura anche implicita) di avere aderenze nell’ambito di una non definita pretesa accolita criminale8. Con riferimento, invece, all’altra sotto-fattispecie, quella dell’agevolazione, evidentemente non si è giunti a tanto. È del resto fin troppo chiaro comprendere come un’agevolazione finalizzata verso un qualcosa, presupponga necessariamente che questo qualcosa esista veramente nella realtà. Quindi, solo con riferimento a quella delle due che viene ad essere indicata come sottofattispecie soggettiva, si afferma debba ricorrere, in atto e a tutti gli effetti, un’associazione per delinquere di stampo mafioso propriamente intesa9. Da qui dunque una prima evidenza per cui l’aggravante in questione, nella sotto-fattispecie non riguarda fatti di mafia che possano dirsi tali, in quanto ben può essere applicata in casi nei quali della mafia nulla sussista. La mafia, infatti, la troviamo come elemento indefettibile solo nella sotto-fattispecie soggettiva (dell’agevolazione). Quanto tutto ciò pesi sotto il profilo della “conoscenza parallela nella sfera laica” dell’agente è cosa, anche questa, che sembrerebbe passi in secondo piano, in ragione della anzidetta lotta alla criminalità organizzata. Al di là del nomen iuris utilizzato in dottrina e giurisprudenza per distinguere la “oggettiva” dalla “soggettiva”, la prima ha comunque veramente ben poco di “oggettivo”. A minare l’assenza di riferimenti cui affidare la sua determinatezza è, non solo l’ormai univocamente affermata non necessarietà di una associazione realmente sussistente, ma anche un altro fattore di grande portata.
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Cfr. sulla annosa “questione della c.d. “minaccia mafiosa” in termini più rigorosi e restrittivi, Cass., Sez. VI, 1 marzo 2017, n. 14249, F. Barbieri, con nota di L. Ninni, Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, in Diritto penale Contemporaneo (rivista on-line), 19 settembre 2017, www.dirittopenalecontemporaneo.it. 9 Vd. sul terrendo della prova, oltrechè della regola, Corte di Appello di Napoli, Sez. II, 30 novembre 2011, in Ius Sit, 15 dicembre 2011, www.iussit.com, secondo cui “in tema di estorsione aggravata ex art. 7 L. 203/91, il riferimento generico agli “amici”, non accompagnato da nessun elemento specifico che possa far ritenere che con detta locuzione fosse assolutamente evidente e percepibile il riferimento a strutture organizzate di tipo camorristico, non rende univoca e certa la provenienza camorristica della richiesta, con esclusione della predetta circostanza aggravante”. Sempre con riferimento alla sotto-fattispecie “oggettiva”, Cass., Sez. II, 29 aprile 2013, n. 18745, in Nel diritto (rivista online), 29 aprile 2013, www.neldiritto.it, secondo cui “La circostanza aggravante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203 (…) è legittimamente desumibile di per sé, sul piano indiziario, dalla appartenenza degli autori del fatto ad un sodalizio di stampo camorristico, salvo che non ricorrano elementi indicativi della riconducibilità degli episodi ad un alveo “intimidatorio” di tutt’altra natura”. La Suprema Corte a tale riguardo espressamente richiama, come precedente, Cass. sez. II, 30 novembre 2011 n. 47404, in C.E.D. Cass., n. 251607, 2012.
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Sappiamo bene quanto siano “mobili” i confini applicativi della fattispecie di cui all’art. 416bis c.p. Le vicende processuali di questi ultimi tempi ne danno piena prova in tal senso. Da qui la palmare evidenza per cui un “metodo mafioso” per come inteso dal legislatore del ’91 trova veramente insormontabili difficoltà a essere definito. Viene, infatti, da domandarsi come facciano ad identificarsi i crismi di un metodo mafioso, in questa situazione d’incertezza e, conseguentemente, come possano essere identificati i perimetri di un tale riferimento normativo, se proprio il prototipo, la mafia per come definita dall’art. 416-bis c.p., da cui esso dovrebbe trarre le forme è esso stesso estremamente vago, segnatamente nella “zona grigia” tra il si e il no della tipicità del fatto, posto che in mezzo a questo si e no si interpone l’art. 110 c.p. per come dovrebbe rapportarsi all’anzidetto reato associativo. Per la sotto-fattispecie oggettiva veramente ci riferiamo ad un qualcosa che è, in realtà, soggettivo, anzi “interiore homine”: il convincimento del singolo giudice di cosa debba essere inteso come simile alla mafia con una evidente “funzionalizzazione” dell’esegesi penalistica. Questa genericità della previsione dell’art. 7 che potremmo dire descrittiva (quanto ai perimetri dettati dalla semantica) e funzionale (quanto alle possibilità di essere applicata a qualsivoglia delitto) stride senz’altro con le analizzate conseguenze che detta norma è in grado di provocare, consentendo di giungere, anche ove di fondo ricorra solo un reato “minore”, ad effetti sanzionatori notevolmente più gravi. E, infatti, non v’è chi non veda come quanto più la norma sia severa sul piano della forza intimidatrice, tanto più essa dovrebbe essere certa quanto ai propri perimetri applicativi. Da qui il circolo vizioso. Le due sotto-fattispecie, di cui, appunto, una connotata sotto il profilo oggettivo (quella del metodo) e l’altra di marca soggettiva (finalità di agevolazione), finiscono inevitabilmente per scontare una inevitabile conseguenza: al mancato rispetto del principio di determinatezza, si associa, questa volta da parte del giudice, il conseguente mancato rispetto del canone della tassatività. Non può, del resto, esservi tassatività ove non vi sussista sufficiente determinatezza. Si tratta, evidentemente, di profondi vulnera contro i ben noti principi costituzionali in materia penale. Certamente i deficit di determinatezza e tassatività sono tanto più inaccettabili quanto più il meccanismo rechi conseguenze qualitativamente e quantitativamente pregiudizievoli. E questo è certamente il caso dell’aggravante di cui all’art. 7. Essa, anche in ragione della sua difficile perimetrabilità, è dunque in grado di operare oltre il prevedibile, ex art. 7 CEDU, con ciò ponendosi in violazione del principio di determinatezza e di prevedibilità in ordine alla sua applicazione, anche alla luce della elaborazione resa dalla Corte E.D.U.10.
4. Una circostanza “comune”: la genericità funzionale. Alla indicata genericità descrittiva della norma si associa, altrettanto improvvidamente, una sua genericità che stavolta potremmo definire “funzionale”. Il primo dato che deve, infatti, saltare
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Vd. al riguardo, C.E.D.U., Sez. IV, 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta, con nota di F. Mazzacuva, La Corte europea sul principio di legalità della pena, in Diritto penale contemporaneo, 19 febbraio 2013. Come osserva l’Autore, “la Corte (…) ribadisce le consuete affermazioni di principio secondo le quali la nozione di ‘legge’ (law) abbraccia tanto il diritto scritto, quanto quello di origine giurisprudenziale, sottolineando dunque come il principio di legalità si declini in un’esigenza di ‘accessibilità’ e ‘prevedibilità’ delle decisioni giudiziali alla luce delle leggi vigenti e dei precedenti in materia”.
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all’occhio è che trattasi di un’aggravante “comune”. Ed invero non ci riferiamo ad un’aggravante ad effetto speciale inserita in un decalogo predefinito di reati base, ma di un’aggravante applicabile a qualsiasi delitto, con la sola esclusione dei casi in cui sia prevista la pena dell’ergastolo. Sul piano funzionale ed operativo tale dispositivo lo troviamo oramai evocato sovente: qualsiasi delitto può essere “condito” con questa “nuova spezia”, con l’effetto che, rispetto ad un reato che nella forma base contempli una sanzione assoggettabile a tutti i possibili benefici, si può giungere a anni di carcere, non solo effettivi, ma anche da espiare nelle famigerate forme dell’art. 41 bis c.p. Ad una verifica ad ampio spettro emerge come le circostanze aggravanti comuni ad effetto speciale nell’ambito del nostro ordinamento costituiscano però una vera e propria rarità. Ne ricorrono infatti pochissime altre. Tra di esse possiamo annoverare l’aggravante di cui all’art. 1 d.l. 15 dicembre 1979 n. 625 riferita alla finalità di terrorismo11; quella introdotta con l’art. 3 della l. 25 giugno ’93, n. 205 (cd. “legge Mancino”) sulla finalità di discriminazione razziale12 e, infine, quella riferita alla transnazionalità del reato prevista dall’art. 4 della l. 16 marzo 2006, n. 14613. In ogni caso nessuna di esse è dotata della portata dirompente che qualifica l’aggravante in esame. Le circostanze comuni ad effetto speciale sono, invero, un prodotto della legislazione speciale. Non compaiono nel codice e sono, palesemente, fuori da un disegno di sistema organi-
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D.l. 15 dicembre 1979, n. 625, (G.U. del 17 dicembre 1979, n. 342) Conv. l. 6 febbraio 1980, n. 15 (G. U. del 7 febbraio 1980, n. 97) recante “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”, art. 1: “1. Per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con pena diversa dall’ergastolo, la pena è sempre aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato. Quando concorrono altre circostanze aggravanti, si applica per primo l’aumento di pena previsto per la circostanza aggravante di cui al comma precedente. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa ed alle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato, e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti (Comma così modificato da ultimo dall’articolo 4 della legge 14 febbraio 2003, n. 34.)”. Vd. in dottrina sul punto, A. Valsecchi, “I requisiti oggettivi della condotta terroristica ai sensi dell’art. 270-sexies c.p. (prendendo spunto da un’azione dimostrativa dell’Animal Liberation Front)”, 21 febbraio 2013, nota a Tribunale Firenze, ord. G.I.P., 9 gennaio 2013; R. Kostoris-F. Viganò, Le modifiche alle norme incriminatrici in materia di terrorismo, Il nuovo ‘pacchetto’ antiterrorismo, Torino, 2015. 12 L. 25 giugno 1993, n. 205 di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, art. 3: “(Circostanza aggravante) 1. Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà”. 13 L. 16 marzo 2006, n. 146 di “Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001”, in G.U., n. 85 dell’11 aprile 2006 – Supplemento ordinario n. 91, Art. 4.: (Circostanza aggravante) “1. Per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. Si applica altresì il comma 2 dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni”.
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co e profondamente meditato. Simili “innovazioni” sono il frutto di una volontà di intervento occasionale e, come tale, frutto di spinte emotive poco elaborate e soprattutto metabolizzate. Nel caso dell’aggravante che ci occupa essa, come ricordavamo, è stata varata mediante il ricorso alla decretazione d’urgenza. Si auto dichiara dunque essa stessa frutto dell’emergenza14. Si tratta di interventi che, fortunatamente, costituiscono ancora una rara avis. Essi rappresentano quindi una rarità ma, si potrebbe affermare, senza tema di smentita, anche un’anomalia nel sistema. Certamente tale anomalia è certificata quanto all’aggravante in esame, in ragione proprio della sua capacità di stravolgere completamente sia il piano del procedimento e del processo sia quello della pena. L’aggravante in esame costituisce un’anomalia altresì a nostro avviso difficilmente accettabile, in ragione della problematica identificazione dei relativi presupposti di applicazione, ancor prima che delle preoccupanti conseguenze che essa è in grado di provocare. È un dato innegabile che il dispositivo in questione è dotato di una portata veramente allarmante, proprio in quanto in grado di percorrere trasversalmente tutto il nostro ordinamento, capace com’è di comparire “in ogni dove”, connettendosi a qualsivoglia delitto. È fin troppo evidente come anche la caratteristica dell’essere questa una aggravante “comune”, anche sotto questo fronte faccia entrare in crisi il principio di prevedibilità dei suoi margini operativi15.
5. I cortocircuiti con le fattispecie “a portata servente”. La difficoltà tecnica di identificazione dei presupposti di applicazione dell’aggravante in esame si misura in maniera evidente con riferimento a certo tipo di reati che rivelano una portata servente rispetto ad altro reato. Facciamo riferimento, ad esempio, a fattispecie quali quella di cui all’art. 12-quinquies l. 7 agosto 1992, n. 356 e successive modifiche, denominata “Trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori”16, come a anche quella di favoreggiamento personale o reale (artt. 378 e 379 c.p.), a quella di ricettazione (art. 648 c.p.), di riciclaggio (art. 648-bis c.p.), di procurata evasione (art. 386), di procurata inosservanza di pena (art. 390 c.p.). Sono tutti reati questi che rivelano un ruolo tendenzialmente satellitare rispetto ad altro reato e, quest’ultimo, ai fini che in questa sede interessa, ben può essere costituito dalla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. Proprio in ragione della detta funzione servente, quando ricorra una contestazione per associazione mafiosa è giocoforza che tali illeciti siano intesi come finalizzati a favorire l’associazione stessa. Già sul piano meramente concettuale e astratto è veramente difficile immaginare situazioni in cui questo non accada e, a maggior ragione, ciò rileva in sede di prassi. Ne
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S. Moccia, La perenne emergenza, Napoli, 2000. Vd. al riguardo ancora C.E.D.U., Sez. IV, 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta, con nota di F. Mazzacuva, La Corte europea sul principio di legalità della pena, cit. 16 Art. 12-quinquies d.l. 8-6-1992 n. 306 (Pubbl. in Gazz. Uff. 8 giugno 1992, n. 133 e convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 1992, n. 356 – Gazz. Uff. 7 agosto 1992, n. 185), dichiarato illegittimo dalla Consulta quanto al comma 2 con sentenza del 9-17 febbraio 1994, n. 48 (Gazz. Uff. 23 febbraio 1994, n. 9 – Serie speciale). 15
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deriva l’automatica applicazione dell’aggravante in esame, ogniqualvolta ricorra, ad esempio, una procurata inosservanza di pena verso un aderente ad un’associazione di stampo mafioso17. Si tratta in questi casi di un effetto immediato e difficilmente revocabile in dubbio, proprio in ragione della funzione servente di tali illeciti. Ne deriva dunque che un elemento accidentale quale appunto l’aggravante in argomento, finisce per assumere, improvvidamente, il ruolo di elemento “immanente”. Sul fronte del thema probandum è chiaro che è quasi impossibile concepire una prova negativa della finalità agevolatoria per come tipizzata dall’art. 7, riguardo, per fare un altro esempio, ad una condotta di riciclaggio verso un’associazione mafiosa. Invero, pur ove sul piano della speculazione astratta dovessimo scorgere degli spazi, non va dimenticato che le norme servono per giudicare fatti concreti. Ed infatti, basta scorrere un po’ di giurisprudenza per accorgersi che, di fatto, non c’è possibilità in tali casi di negare l’applicazione dell’aggravante18. Si tratta, evidentemente, sul piano della logica, di un concorso apparente di norme recato dal deficit tecnico attraverso cui è stata concepita e confezionata la previsione dell’art. 7 citato. Ci troviamo dinanzi a un concorso apparente di norme che è al contempo negato per legge contro la “Natur der Sache”. Come infatti possiamo provare che, ad esempio, un’intestazione fittizia di un bene facente capo all’organo apicale di una organizzazione mafiosa non agevoli l’associazione mafiosa? Pensiamo anche al favoreggiamento mendace, al favoreggiamento reale e via discorrendo. Non solo. Sul piano sistematico è di tutta evidenza come questa norma entri in conflitto con altre, quali, per esempio, quella di cui all’art. 61 n. 2 c.p., o anche, per fare un altro esempio, quella di cui all’art. 81 cpv., c.p.
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Vd. sul punto L. Rovini, “Sulla compatibilità tra reato di intestazione fittizia di beni (art. 12-quinquies L. 356/92) e l’aggravante de ‘l’aver agito al fine di agevolare l’associazione mafiosa’”, in Diritto penale contemporaneo, 28 giugno 2017, nota a Cass., Sez. I, 9 novembre 2016, n. 17546, Martino. La Suprema Corte in tema di fattispecie di intestazione fittizia di beni prevista dall’art. 12-quinquies L. 356/1992 e di sua compatibilità con l’aggravante ad effetto speciale prevista dall’art.7 L. 203/1991, dell’aver agito al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, afferma che non vi sono dubbi che la circostanza possa trovare applicazione anche in relazione al delitto previsto dall’art. 12-quinquies L. 356/1992, qualora l’occultamento giuridico dell’attività imprenditoriale di un soggetto, attraverso la fittizia intestazione ad altri, sia funzionale ad implementare la forza del sodalizio di stampo mafioso, determinando un accrescimento della sua posizione sul territorio attraverso il controllo di un’attività economica. Non è, però, ritenuto sufficiente alla configurazione dell’aggravante, secondo la Suprema Corte, che l’attività di interposizione fittizia posta in essere dal soggetto attivo, persegua gli interessi di un singolo associato, quand’anche si tratti di un esponente apicale della cosca, né che quest’ultima possa trarre benefici indiretti dalla finalizzazione della condotta a favorire il singolo compartecipe, ove non siano esplicitate le ragioni per le quali l’obiettivo (direttamente) perseguito dall’imputata con la sua condotta sarebbe stato non solo e non tanto quello di favorire l’interesse personale del socio (occulto), e gli appartenenti alla sua cerchia familiare, ad evitare la confisca dell’attività di proprietà, quanto quello di favorire la cosca di riferimento del correo e l’interesse collettivo degli associati, attraverso il rafforzamento delle relative capacità operative. L’Autore segnala con favore come la Suprema Corte in tale occasione abbia espresso la volontà di evitare, quantomeno in via di principio, “il rischio della diluizione (ndr. degli elementi della fattispecie) nella semplice contestualità ambientale”. 18 Vd. Cass., Sez. V, 4 febbraio 2015, n. 11101; Cass., Sez. III, 13 gennaio 2016, n. 9142; Cass., Sez. II, 11 marzo 2016, n. 13707, secondo la disamina di L. Ninni, Aggravante dell’agevolazione mafiosa: perduranti incertezze applicative sulla circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, nota a Cass., sez. III, 13 gennaio 2016, n. 9142, F. Basile, in Diritto penale Contemporaneo (rivista on-line), 23 dicembre 2016, www.dirittopenalecontemporaneo.it.
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Qual è il ruolo di queste altre norme? Già è complicato comprendere quale tra le due (artt. 61 n. 2 e 81 cpv., c.p.) si applichi al caso concreto. Ebbene, quid iuris in un ambito nel quale è contestata la finalizzazione di agevolazione del sodalizio mafioso in capo ad un partecipe resosi, altresì, autore di una condotta criminosa quale, ad esempio, una procurata inosservanza di pena verso un esponente apicale? In tali casi, oltre ad essere evocate previsioni criminose quali quelle di cui agli artt. 416bis e 390 c.p., si pone il problema di come “collegare” le stesse tra loro. Si tratta di un reato continuato e quindi va esclusa l’aggravante ex art. 61 n. 2 c.p.? Se allora è così, è possibile poi aggravare il trattamento sanzionatorio (in controtendenza con la più mite linea prescelta appunto della continuazione), mediante l’art. 7, in ragione del carattere servente del secondo reato verso il primo? Se invece si segue il cammino opposto e dunque si esclude la continuazione, si deve allora applicare sia l’aggravante comune (art. 61 n. 2 c.p.) sia l’aggravante speciale (art. 7) oppure (e sembrerebbe in effetti una interpretazione più fondata) si deve ritenere che ricorra un rapporto di specialità tra le due previsioni in favore della seconda? Su tali fronti è chiaro che può diventare estremamente difficile individuare quello che può risultare il percorso ermeneutico seguito da ogni singolo giudice. Egli si trova dinanzi un sistema normativo che è evidentemente contraddittorio, in quanto privo di una vera razionalità di insieme. Altro elemento che a nostro avviso suscita serie perplessità è il fatto che l’aggravante dell’art. 7, sia ove colta sotto la prospettiva della finalità agevolatoria che ove colta sotto il profilo del metodo mafioso, viene ritenuta applicabile anche al soggetto che fa parte dell’associazione mafiosa. La prassi applicativa più recente sta infatti offrendo significativa prova dell’ampiezza degli spazi di manovra che possono essere riconosciuti al dispositivo in questione, dimostrando di applicarlo ben oltre i limiti soggettivi della zona “border line” già (improvvidamente) affidati all’art. 110 c.p. L’art. 7 è infatti oramai contestato e applicato “senza frontiere”: agli organizzatori, ai partecipi, agli esterni, senza alcuna distinzione, spinto com’è da quell’onda ermeneutica che oggi trova il suo punto di picco nell’anzidetta rinnovata spinta verso una “lotta” al crimine organizzato. Al riguardo è utile richiamare alcune pronunce rese dalla giurisprudenza più recente19, secondo cui, ad esempio, la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 nelle due differenti forme dell’impiego del metodo mafioso nella commissione dei singoli reati e della finalità di agevolazione anzidetta, sarebbe configurabile anche con riferimento ai reati fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso. In questa stessa linea ermeneutica rinveniamo anche una importante decisione della Corte d’Appello di Roma sul caso F... Parliamo nella sostanza di una sorta di “costola” del processo Mafia Capitale20. Cosa viene affermato in questa sentenza? Viene applicato al capo della presunta associazione il delitto di cui al citato articolo 12-quinquies aggravato dall’art. 7, perché, si afferma, il delitto qualificato ai sensi dell’art. 12-quinquies è finalizzato ad agevolare l’associazione mafiosa. Si è, quindi, applicato il delitto di cui all’art. 12-quinquies aggravato dall’art. 7. Ciò è stato reso possibile, in quanto la fattispecie di cui, appunto, all’art. 12 quinquies (diversamente da quanto accadesse fino a prima del 2014 in ambito di autoriciclaggio), è da
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Cass., Sez. I, 19 dicembre 2014, n. 3137, in Italgiure.giustizia.it, sentenzeweb 2015. Corte di Appello di Roma, Sez. I, 16 dicembre 2016, n. 11046, Fasciani ed altri, inedita.
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sempre stata ritenuta che tale previsione fosse in grado di operare sia nei confronti del dante causa, sia dell’avente causa e, quindi, sia verso chi dà in intestazione, sia verso chi riceve quale soggetto intestatario. Ne deriva che il soggetto che agevola se stesso (intestando a terzi una attività) viene punito ex art. 12-quinquies aggravato ex art. 7, senza che nemmeno ci si ponga concretamente il quesito dell’eventuale violazione del principio del nemo tenetur se detegere. Non solo. Non v’è chi non veda come non venga nemmeno sollevata una questione di concorso apparente di norme con l’art. 416-bis c.p., nonostante sia fin troppo chiaro come un’intestazione a terzi finalizzata a favorire l’associazione rientri appieno nella normale condotta del capo di essa: agevolare appunto la propria associazione criminale, ergo sembrerebbe sufficiente il criterio codicistico della specialità strutturale, senza nemmeno dover ricorrere a criteri valoriali. Tale indirizzo è stato più recentemente, e più ad ampio spettro, ribadito da parte della Suprema Corte, che ha affermato come l’aggravante di cui all’art. 7, sia nella sotto-fattispecie oggettiva sia in quella soggettiva, sarebbe sempre configurabile anche quando vi sia concorso di reati tra il delitto così aggravato e quello di cui all’art. 416-bis c.p.21. Il Supremo Collegio è giunto a tali conclusioni sostenendo che “appare evidente, che le due norme coprono frazioni di condotta del tutto differenti sicché non vi è spazio operativo per l’assorbimento; il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. è fattispecie per definizione di pericolo mirata a reprimere le condotte di chi si associ al fine di commettere una pluralità di delitti fine sfruttando il metodo intimidatorio connesso all’appartenenza ad un gruppo mafioso, sicché, la sua integrazione, è del tutto indipendente dalla effettiva consumazione dei delitti attuativi il predetto programma. L’aggravante di cui al citato art. 7 mira invece alla maggiore repressione penale di quei fatti commessi sfruttando il metodo mafioso ovvero finalizzati ad agevolare l’organizzazione di cui all’art. 416-bis cod. pen. e punisce maggiormente la singola condotta criminosa al momento di consumazione del reato fine. Mentre il 416-bis cod. pen. punisce la condotta di partecipazione al gruppo mafioso prima della consumazione dei singoli delitti fine, l’aggravante citata riguarda la fase esecutiva del programma delittuoso e quindi la successiva, indipendente ed anche eventuale, attività delittuosa dell’associazione portata a termine attraverso la consumazione di uno o più fatti di reato che si assumono di maggiore gravità proprio in quanto realizzativi il generico ed indistinto programma criminale represso ex art. 416-bis cod.pen.”. Anche attraverso tale ragionamento si pone in atto un inevitabile “cortocircuito ermeneutico”. È nel concreto e alla prova dei fatti praticamente impossibile concepire un reato commesso dall’aderente alla societas sceleris che non utilizzi il metodo mafioso o che comunque non agevoli l’associazione stessa. Sia il metodo sia l’agevolazione, già ampli nella descrizione dettatane dal legislatore, sono, come rilevato, tanto resi “rarefatti” dall’ermeneusi, specie giudiziaria, che è veramente arduo non configurare almeno uno dei due nel concreto. Ecco che dunque anche in tali versanti l’aggravante in questione viene implicata necessariamente senza alcuna effettiva possibilità di essere negata.
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Cass, Sez. II, 7 aprile 2017, n. 20935, in Italgiure.giustizia.it, sentenzeweb 2017. La Suprema Corte ha con tale decisione consolidato un orientamento già in precedenza espresso (vd. Cass., Sez. II, 4 marzo 1998), secondo cui l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 è configurabile anche quando il delitto cui accede concorra con quello di cui all’art. 416-bis c.p.
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6. Il “sub-accertamento” e i canoni di imputazione. La previsione incriminatrice dell’art. 7, proprio in quanto strutturata secondo le forme della circostanza, favorisce l’invalersi a suo riguardo di livelli di accertamento e di imputazione che, naturalmente quanto pericolosamente, possono essere quelli minori propri dell’elemento accidentale. Non può sfuggire infatti come, sul piano del diritto applicato, il relegare le descritte conseguenze al meccanismo di una mera aggravante, significhi affidare l’esame dei presupposti di fatto per la sua applicazione ad un accertamento che certamente finisce per essere una sorta di “sub-accertamento”, meno attento, meno rigoroso, meno approfondito, anche in ragione dei più sfumati standard di imputazione. È del resto proprio della struttura del nostro sistema penale, come è ragionevole che sia, riconoscere un ruolo relativamente marginale alle circostanze aggravanti. Non possiamo dimenticare che, fino a parecchio tempo dopo la riforma del ’74, le aggravanti venivano imputate, come le attenuanti, su base semplicemente oggettiva. Il legislatore del ’90 introdusse a loro riguardo l’imputazione quanto meno per colpa, in ciò applicando i contenuti delle note sentenze della Consulta n. 364 e 1085 del 1988, ma comunque, nei reati dolosi, l’aggravante, proprio perché tale, non entra nel cd. “fuoco del dolo” che rimane chiuso negli elementi costitutivi di fattispecie. Cosa accade dunque per un elemento “aggravatore” quale quello dell’art. 7? È legittimo che esso utilizzi appieno il ventaglio di imputazione offerto dall’art. 59 rendendo compatibile con esso anche la mera colpa? Sul punto possiamo richiamare quanto statuito in una recente sentenza della Suprema Corte. Il percorso argomentativo seguito dagli “ermellini” trae avvio, alle prime apparenze, da un rilievo tutt’altro che di “vocazione punitiva”, in quanto anche quella che viene indicata come sotto-fattispecie soggettiva possiederebbe, in realtà, secondo l’indirizzo espresso in tale sede, una caratura oggettiva. Questo prima facie avrebbe potuto far pensare ad una rinnovata sensibilità del Supremo Collegio nel voler scongiurare l’eventualità che conseguenze così pregiudizievoli quali quelle discendenti dall’applicazione dell’art. 7 possano essere affidate alla mera proiezione della volontà dell’agente. È da rammentare la dottrina che si è spesa, affinché fosse riconosciuto un sostrato oggettivo a quelle figure di reato costruite secondo la struttura del dolo specifico, ove tale ultimo incentri in sé tutto, o anche solo in parte, il disvalore penale del fatto22, per evitare che in esse proprio il citato disvalore fosse tutto, o anche solo in parte, affidato appunto al mero “atteggiamento interiore” dell’agente. L’idoneità oggettiva della condotta è infatti un quid di diverso rispetto alla mera proiezione della (spesso imperscrutabile) volontà dell’agente. Con un tale approccio rientriamo appieno nei canoni classici del diritto penale del fatto. Se su questo fronte, dunque, non avremmo potuto che essere soddisfatti e rincuorati, giunge a fermare ogni entusiasmo, come una sorta di “contrappeso”, la conclusione di tale iter argomentativo, secondo cui questa idoneità oggettiva
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G. Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto penale, Parte Generale, Milano, 2006, 351; e già, in particolare, L. Picotti, Il dolo specifico. Un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, Milano, 1993.
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della condotta potrebbe essere imputata, appunto in quanto a titolo di aggravante, anche in base ad una sua mera conoscibilità, in linea con i canoni di cui all’art. 59, comma 2, c.p. Ciò è stato affermato, sempre nella medesima occasione dalla Suprema Corte, riguardo ad un reato base anche concettualmente distante dalla congerie di reati che, secondo l’id quod plaerumque accidit, possono dirsi limitrofi all’ambito dei reati scopo normalmente afferenti all’art. 416-bis c.p. Si trattava, infatti, di una emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)23. Alla luce di quanto osservato, dobbiamo pertanto prendere atto di come, per quanto attiene alla sotto-fattispecie asseritamente “soggettiva”, si sia giunti, in definitiva alla imputazione a fronte della mera colpa per di più orientata a privilegiare la sola misura oggettiva. Se questo può accadere per la soggettiva, figuriamoci cosa potrà avvenire per la oggettiva, nella quale i tratti descrittivi dell’elemento soggettivo risultano ancora più sfumati. Le conclusioni cui approda la giurisprudenza indicata appaiono tuttavia affatto convincenti e per più ordini di ragioni. È ben noto che in tema di aggravanti, nel silenzio della norma che le descrive, valgono appieno, i principi espressi dall’art. 59 e, pertanto, il limite minimo di penale rilevanza è costituito dalla colpa. La previsione della singola aggravante può però certamente derogare a tale principio posto che ben possono sussistere aggravanti strutturalmente dolose. Orbene, per l’aggravante in questione, in entrambe le due relative sotto-fattispecie, ricorrono indicazioni chiare del legislatore volte a farne una aggravante strutturalmente dolosa. Si tratta di tratti di pena affatto sibillini. Essi sono certamente più decisi con riferimento alla sotto-fattispecie soggettiva, ove la norma, come più volte indicato, stigmatizza la commissione del reato base con il “fine di agevolare”. Non v’è chi non veda come il legislatore a tale riguardo abbia concepito l’aggravante come incentrata su di un “dolo specifico aggiunto”, rispetto al reato-base. Abbiamo osservato come la mera proiezione della volontà non possa essere ritenuta sufficiente ad incentrare su di sé il disvalore penale del fatto, essendo necessario un sostrato oggettivo e, dunque, quantomeno, una idoneità oggettiva della condotta verso il perseguimento del medesimo fine. Tale idoneità oggettiva non deve però, ove affermata, legittimare un degradare dell’elemento soggettivo alla colpa. Del resto non è così che accade in ordine ai reati a dolo specifico il cui dolo, per come descritto dal legislatore, è sovente significativo di una maggiore portata offensiva (es. sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 c.p. rispetto al sequestro di persona semplice ex art. 605 c.p.). Se è vero che in merito agli elementi costitutivi del reato vale il disposto dell’art. 42, comma 2, c.p. secondo cui “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”, è anche vero che, ove una circostanza è descritta come dolosa, come nel caso di specie accade, non v’è luogo per manipolarla ermeneuticamente tanto da renderla operante anche a fronte della colpa. Per quanto attiene, dunque, all’aggravante soggettiva deve concludersi che per essa, semmai, la necessaria idoneità oggettiva della condotta, richiesta appunto in un’ottica di inter-
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Cass., Sez. III, 17 giugno 2015, n. 25353, in Diritto e Giustizia (rivista on-line), 18 Giugno 2015, www.dirittoegiustizia.it.
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pretazione costituzionalmente orientata, renda il dolo ad essa afferente specifico, nel senso che ricorre appunto un sostrato oggettivo interamente aderente rispetto alla proiezione della volontà del soggetto agente. Ne deriva dunque che quando si indica la citata sotto-fattispecie come “soggettiva” si deve tenere a mente che essa riveste anche un importante sostrato oggettivo. Il nomen iuris affibbiato alla previsione nella parte qua risulta invece fuorviante. Per quanto attiene all’altra sotto-fattispecie che, sempre in sede di prassi, ha al contrario visto conferitole il nomen di “oggettiva” deve essere osservato quanto segue. La previsione nella parte qua riguarda “… i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del Codice penale”. Ebbene, non v’è chi non veda come la norma faccia, prima di tutto, per quanto implicitamente, riferimento a delitti esclusivamente dolosi. Non risulta infatti possa esservi un quivis, in dottrina o in giurisprudenza, che possa aver mai sostenuto che l’aggravante indicata possa riguardare delitti colposi. Non solo, non v’è chi non veda come il commettere detti delitti “avvalendosi delle condizioni” indicate, significhi porre in essere una condotta necessariamente dolosa. L’“avvalersi delle” è in tali casi sinonimo di “approfittare delle” e pertanto tale previsione è riferibile esclusivamente alle ipotesi dolose. Ogni estensione della previsione a ipotesi meramente colpose è frutto di applicazione analogica e, con essa, di “arbitrio ermeneutico”, in contrasto con la legalità penale, ex art. 25, comma 2, Cost. Del resto, non può negarsi come la previsione dell’art. 7 indichi necessariamente due sottofattispecie omogenee. Se questo è vero, una volta indicata la necessaria dolosità della sotto-fattispecie soggettiva (quella riferita al fine di agevolazione), non si può fare a meno di concludere negli stessi termini con riferimento alla sotto-fattispecie oggettiva (quella del metodo). Ciò è tanto più vero se si considera che la cd. “oggettiva” è “orfana di madre”, in quanto, come rilevato, è priva della necessaria sussistenza di una fattispecie associativa di rango mafioso. Ne deriva dunque che proprio l’identità del trattamento sanzionatorio che ne deriva a fronte dell’una o dell’altra delle due sotto-fattispecie e con esso di tutte le dirompenti conseguenze sopra descritte, non può darsi luogo a uno scolorimento della citata sotto-fattispecie anche sul fronte dell’elemento soggettivo, pena, soprattutto, la violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Nondimeno, al contrario di quanto affermato dalla Suprema Corte nella decisione sopra richiamata24, non deve ritenersi percorribile la strada della colpa, proprio in ragione della portata punitiva di essa e della sua contiguità rispetto al meccanismo dell’art. 110 c.p. Su tale fronte la previsione sembra in effetti indicare una, su questo punto chiara, necessità di un dolo pieno, nel momento in cui esprime gli incisi seguenti: “avvalendosi”, nella sotto-fattispecie soggettiva, e “al fine di” nella sotto-fattispecie oggettiva.
7. La punizione del “tentativo di concorso”. A questo punto della disamina è certamente d’obbligo svolgere alcune riflessioni sui rapporti intercorrenti tra l’ambito di applicazione dell’aggravante in questione e la figura del cd. “concorso esterno”.
24
Vd., ancora, Cass., Sez. III, 17 giugno 2015, n. 25353, in Diritto e Giustizia, cit.
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È d’uopo, infatti, chiedersi se un’aggravante quale l’anzidetta si atteggi, o no, in apparente concorso di norme rispetto ad un altro riferimento normativo quale quello dell’art. 110 c.p. per come ritenuto in grado di operare verso la fattispecie associativa di cui all’art. 416-bis c.p. Se si ritiene, come da gran parte della dottrina e della giurisprudenza, che l’art. 110 c.p. possa estendere l’ambito di applicazione dell’art. 416-bis c.p. alle ipotesi di rafforzamento o conservazione “ab externo” dell’associazione nel suo complesso, il raffronto tra i due meccanismi normativi è, invero, d’obbligo. Non può sfuggire, infatti, il ricorrere di una innegabile analogia di fondo tra il cd. “concorso esterno” e il sistema di operatività dell’aggravante mafiosa nella sotto-fattispecie dell’agevolazione dell’associazione, in quanto la figura del cd. “concorso esterno” è incentrata su condotte causalmente orientate verso i citati effetti di rafforzamento o conservazione ed essi costituiscono certamente un omologo dell’agevolazione. La domanda di fondo è, pertanto, la seguente: un reato commesso con il fine di agevolare l’associazione, reca, oltre ad una ovvia responsabilità per il reato medesimo, anche una responsabilità per “concorso esterno” oppure quest’ultimo non ricorre e opera, invece, l’aggravante anzidetta? Per evitare una sovrapposizione tra le previsioni in oggetto, che, in quanto tale, non sarebbe superabile nemmeno attraverso il più ricercato sistema di risoluzione del concorso apparente di norme, possiamo percorrere solo una strada. Una strada volta a riconoscere diversità di ambito di applicazione alle due “fattispecie”, quella dell’aggravante da una parte e quella del “concorso esterno”, dall’altra. Con riferimento all’aggravante, deve a tal fine essere valorizzato l’aspetto della mera finalità di agevolazione, mentre per il “concorso esterno” si deve valorizzare l’effetto di rafforzamento o consolidamento come eventi alternativi realmente realizzatisi. Se, infatti, nell’art. 7 ricorre una mera finalizzazione della condotta verso il citato fine e, dunque, detta finalizzazione viene colpita ancora quando in potenza, riguardo all’art. 110 c.p. si deve, invece, ritenere ricorra un’agevolazione giunta in atto, cioè produttiva di due eventi alternativi, quelli, appunto, di rafforzamento, oppure di conservazione. In questo modo i due meccanismi normativi trovano un diverso spazio di applicazione: la previsione di cui all’art. 7 si pone in una fascia inferiore di operatività rispetto all’ambito di applicazione dell’art. 110 c.p. È del resto innegabile che l’aggravante in esame sia ritenuta applicabile a fronte di condotte dotate, al più, di una mera idoneità verso il suddetto fine. Ne deriverebbe, sul piano operativo, che al reato servente (ad es., favoreggiamento reale), commesso con il fine di agevolare l’associazione criminale di stampo mafioso, si dovrebbe applicare, in difetto di prova che detto fine sia stato effettivamente raggiunto (ma con la prova dell’idoneità in concreto della condotta), il solo art. 7 agganciato alla detta fattispecie base. Se invece dovesse ricorrere la prova del nesso di agevolazione con uno dei due eventi suddescritti (rafforzamento o conservazione), allora si dovrebbe configurare, oltre al reato servente anzidetto (non più aggravato ex art. 7), il cd. “concorso esterno”, appunto, ai sensi degli artt. art. 110 e 416 bis c.p. Se si vuole accedere a simile impostazione, la norma dell’art. 7, andandosi a porre in una fascia inferiore rispetto al margine minimo di applicabilità dell’art. 110 c.p., andrebbe a colpire tutte quelle condotte che, in concreto, non rivelino una efficienza causale tradotta in atto, ma che riproducono i crismi dell’idoneità e della univocità del tentativo ai sensi dell’art. 56 c.p. Non v’è chi non veda, infatti, come la menzionata aggravante, connotata da un “tentativo di agevolazione”, andrebbe a rapportarsi alla “fattispecie” ex artt. 110 – 416-bis c.p. come una sorta di art. 56 c.p. “speciale”. Speciale in quanto relativo proprio alla “subiecta materia” e,
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inoltre, in ragione della sua natura circostanziale, in quanto richiedente di essere realizzata attraverso un reato. Quanto questo distinguo sia veramente difficile da rendere in atto è inutile sottolinearlo. Non dimentichiamoci che su tale fronte siamo molto spesso appieno nell’ambito della mera causalità cd. “psichica” con tutti gli handicap – sia dogmatici sia ermeneutici – che ne derivano, già con riferimento all’art. 110 c.p.25. In ogni caso il tentativo di agevolazione rispetto a un reato permanente a concorso necessario quale quello di cui all’art. 416-bis c.p. si traduce immediatamente in un “tentativo di concorso”. Da qui la palmare evidenza dei “vizi di legalità” che attanagliano comunque la citata aggravante. Se, infatti, come riteniamo, i principi cardine del nostro sistema costituiscono un valore irrinunciabile, come ha riconosciuto, da ultimo, anche la CGCE nella c.d. “Taricco II”, non può disconoscersi quanto essa, nonostante il detto make up, vada a punire un pericolo di un pericolo, con buona pace del principio di offensività. Non può, infatti, non sottolinearsi come una figura criminosa così concepita costituisca una palese violazione dell’imperativo della non punibilità del tentativo di concorso, retto, come noto da principi costituzionali quali, appunto, quello di materialità e offensività. Peraltro, a voler essere rigorosi, sarebbe da verificare se, in questi casi, si debba o meno trattare di un tentativo di concorso tout court o, addirittura, di un tentativo di “concorso esterno”. Tale ulteriore nodo dovrebbe allora essere sciolto attraverso i noti sistemi ermeneutici secondo cui, a detta di molti, sarebbe possibile accedere al non agevole discrimine tra intraneità ed estraneità al reato associativo di stampo mafioso. Volendo concludere sul punto deve rilevarsi come, se da una parte questa analisi dimostri come l’aggravante consumata vada necessariamente rimeditata quanto alla sua asserita mera soggettività (nella sotto-fattispecie “soggettiva” dell’agevolazione), posto che proprio tale mera soggettività reca fatalmente un ulteriore sfarinamento dei suoi confini di applicazione, rendendola dipendente dalla mera proiezione della volontà del soggetto agente, non si possa comunque mancare di riconoscere come, proprio detta analisi, dimostri quanto l’aggravante in questione dia prova di essere “fuori dal contesto ordina mentale”, nonostante questo “riempimento ermeneutico” di contenuti obiettivi. Ma vi è di più. Se da una parte è certo che l’art. 110 c.p. rispetto a quello di cui all’art. 416bis c.p. ponga problemi di sufficiente determinatezza, non può disconoscersi quanto questi stessi problemi siano moltiplicati con riferimento all’art. 7, siccome norma afferente ad un ambito di materia ancora più sfumato, quello, appunto, della mera idoneità verso il fine. Se infatti suscita non poche perplessità sotto il profilo della determinatezza e della tassatività il cd. “concorso esterno”, che è costituito dalla agevolazione “vera e propria”, qui saremmo addirittura in una fascia più “ambigua”, costituita appunto dal “tentativo di agevolazione”. Proprio in ragione della sua funzione anticipatoria della soglia di rilevanza penale del fatto, la fattispecie così aggravata vede in se stessa grandemente amplificati tutti i deficit di determinatezza e tassatività innegabilmente espressi già dalla figura del cd. “concorso esterno”. La previsione di cui all’art. 7, in sintesi, non si salva nemmeno mediante l’iniezione del sostrato oggettivo costituito dalla idoneità (e univocità) della condotta verso il fine, risultando
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La causalità psichica tra determinazione e partecipazione, L. Risicato, Torino, 2007; M. Billi, La causalità psichica nei reati colposi, Ariccia, 2017.
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innegabilmente affetta da gravi ed irreparabili deficit sia sul terreno della materialità e dell’offensività sia su quello, altrettanto dirimente, della determinatezza, ancor più di quanto non accada nel cd. “concorso esterno” (art. 110 e 416-bis c.p.). Ciò posto, si torna dunque al primo quesito del presente approfondimento: qual è l’orizzonte verso il quale punta la nostra rotta? Valgono ancora i principi cardine del sistema penale o essi debbono essere considerati come una sorta di “oggetto vintage” in quanto siamo ormai entrati in una “nuova stagione”? È fin troppo evidente come se si ritengono desueti i c.d. “controlimiti”, i gravissimi deficit cui risulta affetta la previsione non solo non risultano più un handicap ma, anzi, divengono una vera e propria chance per la citata “lotta senza quartiere” al crimine organizzato. Se entriamo nella stagione del trionfo della prevenzione generale tutto è legittimo. Anche fuori dalla lotta alla mafia, come per gran parte accade, secondo quanto rilevato, per lo stesso art. 7, tutto diventa ragionevole e utile: cadono i principi; il testo della norma diviene esso stesso una indicazione di principio; si abbassano gli standard probatori; ogni mezzo insomma diviene lecito e possibile in ragione del fine. Se così è, non solo difficilmente potranno essere espunte dal nostro ordinamento norme quale quella in esame, ma, anzi, se ne aggiungeranno altre, ancor più vaghe e foriere di ogni imprevedibile conseguenza. A nulla varrà più chiedersi se il regime ordinario delle aggravanti possa valere anche per un meccanismo portatore di un simile microcosmo di effetti quale quello dell’art. 7; a nulla varrà dimostrare per quali ragioni una aggravante “comune ad effetto speciale”, dotata di simile speciale efficacia, non possa esistere in un ordinamento che voglia dirsi liberale: nella citata “nuova” stagione, il fine giustifica l’impiego di ogni mezzo. Queste nostre critiche, che per alcuni potranno anche possedere un sapore retrò, sono invece volte a sottolineare il livello di una realtà quale l’odierna che, in definitiva e al di là degli asseriti nobili intenti, è, già nella fase della produzione normativa, irrimediabilmente connotata da “sciatteria giuridica”. In favore di questa regressione ed involuzione hanno giocato, innegabilmente, fattori assai potenti nella portata dei loro effetti sulla coscienza sociale. Fattori questi come l’allarme terrorismo, che ha letteralmente mutato la percezione che gran parte della collettività ha della propria sicurezza; l’allarme-crisi economica, che ha devastato ampi settori della nostra economia; l’allarme-mafia, la quale ha dimostrato e dimostra di saper approfittare dell’uno e dell’altra e, non da ultimo, l’allarme-degenerazione della classe politica. Quest’ultima è tutta protesa ad intercettare, ormai da anni, il consenso popolare, parlando alla sfera emotiva degli elettori. Il gioco è fin troppo facile visto che i media non perdono occasione di fare da gran cassa a questa situazione e rappresentare criticità ed emergenze o inesistenti o grandemente di minore entità. Sembrerebbe essere ad un punto di non ritorno nel quale, per quanto possa risultare assurdo, per difendere i principi liberali bisogna fare ragionamenti reazionari, ma un interrogativo di fondo resta: una testata è sempre (e solo) una testata, oppure no?26
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Nelle more della pubblicazione del presente lavoro l’aggravante in esame è stata collocata nel neo costituito art. 416-bis1 ad opera del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”.
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I danni punitivi nel diritto internazionale e nel case-law in materia di investimenti esteri Sommario: 1. Definizione di danni punitivi. – 2. I danni punitivi nel diritto internazionale. – 3. I danni punitivi nel diritto internazionale degli investimenti.. – 4. I danni morali: una “back door” per i danni punitivi ? – 5. Conclusioni.
Abstract The article analyzes the contributions of the relevant international doctrine and the jurisprudential case-law about the admissibility of disguised punitive damages in arbitration awards in the field of international investment law. The analysis focuses on some punitive aspects that would emerge from the award of moral damages, granted in some rare, exceptional cases to foreign investors. Analogies are traced, in particular, with the malicious, frivolous claims provided for by art.96 of the Italian Code of Civil Procedure. Overall, the study finds renewed interest in the recent recognition of punitive damages in the Italian law system, within the limits and scenarios outlined by the United Sections judgement of the Italian Court of Cassation n. 16601/17. L’articolo analizza gli apporti della dottrina internazionale ed il case-law giurisprudenziale circa l’ammissibilità o meno di irrogare, come forma sanzionatoria, i danni punitivi nei lodi arbitrali nel settore del diritto internazionale degli investimenti. L’analisi si concentra su alcuni aspetti punitivi che emergerebbero dal risarcimento dei danni morali, concessi in alcuni rari ed eccezionali casi a favore degli investitori stranieri. Vengono tracciati dei parallelismi, in particolare, con le ipotesi di “lite temeraria” previste dall’art. 96 c.p.c. e l’intero studio trova rinnovato stimolo nella riconoscibilità nell’ordinamento italiano dei danni punitivi, nei limiti e negli scenari delineati dalla sentenza della Corte di Cassazione-Sezioni Unite civili n.16601/17.
1. Definizione di danni punitivi. I punitive damages sono un istituto di common law in virtù del quale si riconosce al danneggiato un risarcimento ulteriore rispetto a quello necessario per reintegrare il danno subito, se prova che il danneggiante abbia agito con malice -concetto avvicinabile al dolo- o gross negligence (colpa grave). I danni punitivi – o meglio traducibili come “risarcimento punitivo”1 – introducono una concezione polifunzionale della responsabilità civile. Il risarcimento del danno assolve non solo
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Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche-PHD in Legal Studies presso l’Università di Bologna. Le opinioni sono espresse dall’autore a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 1 M. Schirripa, I danni punitivi nel panorama internazionale e nella situazione italiana: verso il loro riconoscimento? in www.comparazionedirittocivile.it, ed. Marzo 2017.
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una funzione compensativa, ma anche deterrente, tesa a dissuadere l’autore od altri soggetti dal commettere in futuro violazioni analoghe, nonché sanzionatoria-punitiva, molto simile a quella esercitata dalle norme penali. La polifunzionalità risponde più in generale ad un’esigenza di effettività afflittiva, in modo da rendere la condanna adeguata al disvalore del fatto commesso. Il presente articolo si interroga sull’ammissibilità dei danni punitivi nel diritto internazionale, con un particolare approfondimento al settore degli investimenti, per capire se di fronte a condotte particolarmente biasimevoli dell’Host State (lo Stato che “ospita” l’investimento straniero) o degli stessi investitori, si possa irrogare un risarcimento punitivo, con funzione sanzionatoria per stigmatizzare un comportamento particolarmente riprovevole, ed in funzione di deterrenza contro future violazioni. L’analisi trova rinnovata attualità dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 16601 del 5 luglio 2017 che – prendendo le mosse da un caso di riconoscimento di una sentenza statunitense comminatoria di danni punitivi –, ha enunciato il principio di diritto secondo cui “non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi”2. Le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite per guidare tale conclusione contengono una riflessione più ampia su limiti e possibilità di interiorizzazione del diritto straniero nel nostro ordinamento: “[l]a sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale. […] Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro “fiato corto”, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca”3. Nel panorama internazionale verso un “diritto penale della globalizzazione”, è quindi un utile esercizio analizzare la valenza dei punitive damages, in un’ottica di dialogo e “crossfertilization” tra diverse tradizioni ed istituti giuridici stranieri che bussano alla nostra porta, grazie alle sempre più strette interrelazioni fra Stati che la globalizzazione comporta.
2. I danni punitivi nel diritto internazionale. Per rispondere alla domanda se i danni punitivi siano riconosciuti ed ammessi nel diritto internazionale, il punto di partenza, quale autorevole riferimento in materia, è il Progetto di articoli sulla Responsabilità internazionale degli Stati, adottato sotto forma di Risoluzione dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2001, frutto del lavoro condotto dalla Commissione del Diritto Internazionale (CDI) dell’ONU.4 Il Progetto non è quindi una Convenzione internazionale, ma uno strumento di soft law. Pur essendo sprovvisto di carattere giuridica-
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Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 05/07/2017 n. 16601, cfr. punto n.8. Cassazione Civile, SS.UU., ibidem, cfr. punto 6. 4 International Law Commission (2001), Draft Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, with Commentaries. UNGA 56th Session, U.N. Doc. A/56/10. 3
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mente vincolante, è il risultato di un’attenta opera di ricognizione delle regole esistenti nel diritto internazionale in materia. In esso non figurano, come rimedio, i danni punitivi. L’art. 31 del Progetto consacra l’obbligo di “full reparation” come obbligazione discendente dall’illecito e caratterizzante il rapporto di responsabilità tra lo Stato leso e lo Stato autore dell’illecito. Si tratta di un obbligo di riparazione teso a riequilibrare tutte le conseguenze negative provocate, e che come tale abbraccia “any damage, whether material or moral”. È un principio che si rinviene fin dal caso “Fabbrica di Chorzów” deciso nel 1928 dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale (CPGI), che così lo enunciò: “reparation must wipe out all the consequences of the illegal act and re-establish the situation which would, in all probability, have existed if that act had not been committed”5. Tale “riparazione piena”, come codificata all’art. 31 del Progetto, comprende pertanto sia i danni materiali che morali, e può assumere tre forme -da sole o combinate tra loro- elencate al successivo art. 34 (“restitution, compensation, satisfaction”). La prima consiste nei comportamenti necessari alla rimessione in pristino, al ristabilimento della situazione esistente quo ante; la seconda è il risarcimento dei danni provocati (art. 36) mentre si ricorre alla soddisfazione (art. 37) quando non si è potuto ottenere riparazione nelle due precedenti modalità, ed è quindi un rimedio eventuale, rivolto ai danni di tipo immateriale (attraverso forme di riconoscimento della violazione compiuta, presentazione di pubbliche scuse, ecc.). Nel Commentario al Progetto, la CDI in relazione all’art. 36 sulla funzione del risarcimento del danno, sostiene che: “[c]ompensation corresponds to the financially assessable damage suffered by the injured State or its nationals. It is not concerned to punish the responsible State, nor does compensation have an expressive or exemplary character”. Nel commento all’art. 37 circa la soddisfazione, viene analogamente statuito che: “satisfaction is not intended to be punitive in character, nor does it include punitive damages”. Il mancato riconoscimento dei danni punitivi nel diritto internazionale emergeva già nello storico caso “Lusitania”, relativo al risarcimento del danno per l’affondamento nel 1915 di un transatlantico britannico da parte di un sottomarino tedesco. Il Tribunale arbitrale chiamato a risolvere la controversia tra Germania e USA, sostenne che: “the words exemplary, vindictive or punitive as applied to damages are misnomers. The fundamental concept of ‘damages’ is satisfaction, reparation for a loss suffered; a judicially ascertained compensation for the wrong”6. La ragione del non riconoscimento dei danni punitivi sta nel fatto che la loro irrogazione violerebbe il principio di sovrana uguaglianza formale tra Stati.7 Inoltre, essendo diretti a stigmatizzare e rimproverare la condotta statuale, finiscono per mettere l’accento sull’atteggiamento biasimevole tenuto dallo Stato responsabile, contro il principio secondo cui la colpa non è elemento costitutivo dell’illecito internazionale.
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Factory at Chorzów (Germany v. Poland), sentenza del 13.9.1928, in P.C.I.J. Publications, Series A, n.17. Lusitania, Mixed Claims Commission (US, Germany). Arbitral award, 1939. UNRIAA, Vol. VII, 32,39. 7 A. C. Smutny, (2006), Principles relating to compensation in the investment treaty context, IBA Annual Conference, Chicago Investment Treaty Arbitration Workshop September 19, 2006, laddove a 6 afferma: “[t]here is a lot of authority that punitive damages are not permitted in international law on the basis that it is not a proper basis for an award against a sovereign State.” 6
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3. I danni punitivi nel diritto internazionale degli investimenti. I danni punitivi non sono, del pari, contemplati nel più specifico ambito del diritto internazionale degli investimenti. Anche qui, il risarcimento del danno non riveste carattere polifunzionale, ma svolge unicamente funzioni riparatorie-compensative, è una “compensation for the loss”, dal momento che –come ben sintetizzano Ripinsky e Williams – “[g]iven the compensatory function of damages, the objective is to recompense the aggrevied party, rather than to punish the responsible”8. Questa conclusione rimane suffragata dall’analisi svolta da molti autori circa il contenuto pattizio degli Accordi bilaterali per la promozione e protezione degli investimenti, conclusi tra lo Stato che riceve l’investimento (cd. Host State) e lo Stato di cittadinanza dell’investitore (cd. Home State). Tali accordi sono conosciuti con l’acronimo BIT, cd. Bilateral Investment Agreement. Per dirimere le liti che possono sorgere tra gli investitori stranieri e lo Stato ospite dell’investimento, i BITs contengono generalmente una clausola che prevede appositi meccanismi di soluzione delle controversie (cd. ISDS, Investor-State Dispute Settlement) che l’investitore potrà, a sua scelta, attivare. In questo modo, l’investitore che ritiene di aver subito un pregiudizio potrà quindi, attenendosi alle modalità previste in tale clausola compromissoria, citare direttamente in giudizio l’Host State. Tra le varie opzioni per la composizione della controversia, attivabili a scelta dell’investitore e contenute nella clausola arbitrale, quella più frequente consiste nell’avvalersi delle procedure arbitrali offerte dal Centro ICSID, acronimo di “International Centre for Settlement of Investment Disputes” (Centro Internazionale per la Composizione delle Controversie relative agli Investimenti) con sede a Washington. Il Centro è stato istituito presso la Banca Mondiale dalla Convenzione per la composizione delle controversie relative agli investimenti fra Stati e cittadini d’altri Stati (cd. “Convenzione di Washington”) del 1965. Dall’esame di tali norme pattizie, emerge che solo pochi BITs proibiscono espressamente i danni punitivi. Ne sono esempio il NAFTA (North American Free Trade Agreement, il cui Capitolo XI contiene una parte sulla protezione degli investimenti) che così dispone all’art. 1135(3): “[a] tribunal may not order a Party to pay punitive damages”9, ma anche il BIT Canada-Perù del 2008 ed il BIT USA-Uruguay del 200510. Generalmente, il testo dei BITs mantiene il silenzio sui danni punitivi. Tale silenzio della fonte pattizia si accompagna al loro mancato riconoscimento – come abbiamo visto analizzando il Progetto di articoli CDI – da parte del diritto internazionale consuetudinario. A tale conclusione giunge sia la dottrina11 che il case-law in materia di investimenti. I Tribunali arbitrali, nella loro opera interpretativa dei BITs, hanno finora escluso i danni punitivi. In alcune cause davanti all’Iran-United States Claims Tribunal, taluni ricorrenti ave-
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S. Ripinsky-K. Williams, Damages in International Investment Law. British Institute of International and Comparative Law, 116-117. 9 NAFTA (1992), trattato stipulato tra Canada, Messico e USA, in vigore dal 1994. 10 J. A. VanDuzer-P. Simons-G. Mayeda, Integrating Sustainable Development Into International Investment Agreements: A Guide for Developing Country Negotiators, London, cfr. 166. 11 Ex multis, M. Reisman-R. Sloane, Indirect Expropriaton and its valuation in the BIT generation, 74 BYIL 115, 2004, 138, che confermano “no basis for such a punitive award under customary international law at this time”.
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vano chiesto il riconoscimento dei danni punitivi, ma senza successo. Tale Tribunale arbitrale era uno degli strumenti contemplati dalle Dichiarazioni di Algeri del 1981 per risolvere i contenziosi sorti a seguito della crisi tra Iran e USA, causata dalla presa di ostaggi nel 1979 presso l’Ambasciata USA a Teheran. Nel caso “Amoco International Finance Corporation v. Iran”, relativo ad una richiesta risarcitoria per espropriazione, il predetto Tribunale arbitrale escluse tale tipo di danni: “even in case of unlawful expropriation the damage actually sustained is the measure of reparation, and there is no indication that ‘punitive damages’ could be considered”12. La giurisprudenza dei Tribunali arbitrali costituiti avvalendosi delle strutture e procedure dell’ICSID va anch’essa nel senso di non riconoscere i danni punitivi. Il lodo “CMS gas v. Argentina” del 2005 rifiuta di concedere i danni punitivi sotto forma di così alti interessi sulle somme dovute, tali da inglobare una componente punitiva: “[d]ecisions concerning interest also cover a broad spectrum of alternatives, provided it is strictly related to reparation and not used as a tool to award punitive damages or to achieve other ends”13. La stessa linea è seguita dal lodo arbitrale “Kardassopoulos v. Georgia” del 2010, ove il Tribunale arbitrale dell’ICSID ritiene che gli interessi non possano essere richiesti ad un tasso tale da trasformarli da compensativi a punitivi: “[a]ny such recovery must, furthermore, measure the damage sustained and not impose punitive damages on the Respondent State”14.
4. I danni morali: una “back door” per i danni punitivi? Di fronte a tale quadro di chiusura ai danni punitivi, l’analisi della dottrina si è incentrata su alcuni aspetti punitivi che emergerebbero dal risarcimento dei danni morali a favore degli investitori (danni per stress mentale, ansietà cagionata da atti intimidatori, minacce, arresti, perdita reputazionale). In tale ambito, i danni morali possono avere una qualche funzione punitiva? Dobbiamo prima di tutto chiederci se i danni morali siano risarcibili come tali nel diritto internazionale degli investimenti, un settore – quello delle Investor-State disputes – normalmente incentrato sul risarcimento di perdite economiche (atti espropriativi, mancate corresponsioni di pagamenti ed interessi, ecc.). Se fossero risarcibili, i danni morali potrebbero costituire una porta di ingresso, sebbene a certe anguste condizioni, per far entrare dal “retro” (back door) ed in maniera “cammuffata”15 i danni punitivi nei lodi arbitrali. Dalla prassi del case-law, si ricava una risposta positiva, anche se il riconoscimento di danni morali, liquidati in aggiunta al risarcimento del danno, non costituisce la regola, ma piuttosto l’eccezione. Nel caso “Desert Line Projects LLC v. Republic of Yemen” del 2008, il Tribunale arbitrale ICSID osservava come i BITs non li escludano: “[e]ven if investment treaties primarily aim at
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Partial Award, 14 July 1987, IS Iran-US CTR 189, 248. CMS Gas Transmission Company v. Argentina, ICSID Case No. ARB/01/8, par. 404. 14 Ioannis Kardassopoulos v. Georgia, ICSID Case No. ARB/05/18, par. 513. 15 S. Jagusch-T. Sebastian, Moral Damages in Investment Arbitration: Punitive Damages in Compensatory Clothing? in 29:1 Arbitration International, 2013, 59: “[a]s any explicit award of punitive damages is impermissible under public international law, tribunals might seek to camouflage awards of punitive damages by using the terminology of moral damages. Indeed, the tribunal in Siag v. Egypt suggested that this is precisely what the Desert Line tribunal did”. 13
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protecting property and economic values, they do not exclude, as such, that a party may, in exceptional circumstances, ask for compensation for moral damages. It is generally accepted in most legal systems that moral damages may also be recovered besides pure economic damages. There are indeed no reasons to exclude them.”16. Nel caso “Cementownia v. Turkey” del 2009, un altro Tribunale arbitrale ICSID constatava che: “there is nothing in the ICSID Convention, Arbitration Rules and Additional Facility which prevents an arbitral tribunal from granting moral damages”17. Resta il fatto che i danni morali sono stati concessi nel case-law ICSID in via eccezionale, in pochissimi casi e liquidati in modo discrezionale, per un ammontare simbolico. Invero, ad oggi si contano solo due casi in cui sono stati riconosciuti. Si tratta dei casi “Benvenuti & Bonfant v. Congo” (del 1980)18 e “Desert Line v. Yemen” (2008). Nel caso Benvenuti, alcuni investitori italiani avevano creato in joint venture con il Governo del Congo una fabbrica per la produzione di acqua in bottiglia, ma a seguito dell’emanazione di norme e atti amministrativi volti a controllare la società, gli investitori lamentano di aver subito una espropriazione indiretta e, a seguito di atti intimidatori contro i propri amministratori ed il resto del personale, vennero costretti a lasciare il Paese. Analoga situazione si verificò nel caso Desert Line, una società di costruzioni dell’Oman che ottenne dallo Yemen diversi appalti per la costruzione di strade. Col tempo i rapporti si guastorono, con pagamenti non rispettati, con atti intimidatori da parte dell’esercito e di milizie tribali, culminati con l’arresto di alcuni dirigenti della società investitrice. I due casi sono accomunati da minacce di costrizioni fisiche (physical duress) e condotte particolarmente biasimevoli da parte di organi dell’Host State contro gli investitori stranieri. In entrambi i casi, inoltre, i danni morali sono stati concessi in un ammontare simbolico: rispettivamente il 2% in Benvenuti (con 25.000 USD) e l’1% in Desert Line (circa 1 milione USD) della somma chiesta dagli investitori. Va in proposito notato che nel caso Benvenuti la liquidazione del danno morale venne riconosciuta senza motivare in punto di diritto, ma basandosi su un giudizio secondo equità, ex bono et aequo, consensualmente accettato dalle parti. Tali sono le osservazioni di alcuni autori19, per i quali i danni morali riconosciuti nei due suesposti casi conterrebbero in sé un elemento punitivo, come segnale di disapprovazione per la condotta oltremodo biasimevole (“egregious”) tenuta dall’Host State. Il linguaggio del lodo Desert Line richiama invero gli elementi soggettivi di malice, fault che ricorrono nei danni punitivi: “the physical duress exerted on the executives of the Claimant, was malicious and is therefore constitutive of a fault-based liability.”20 Il lodo arbitrale del caso “Siag v. Egypt” del 2009 sembra confermare tale linea intepretativa della dottrina, laddove afferma che “it appears that the recovery of punitive or moral damages
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Desert Line Projects LLC v. The Republic of Yemen, ICSID Case No. ARB/05/17, Award (6 February 2008), par. 289. Cementownia “Nowa Huta” S.A. v. Republic of Turkey, ICSID Case No. ARB(AF)/06/2, Award (17 September 2009), par. 169. 18 S.A.R.L. Benvenuti et Bonfant v. People’s Republic of the Congo (ICSID Case No. ARB/77/2), Award (8 August 1980). 19 T. Parish-K. Newlson-B.Rosenberg, Awarding Moral Damages to Respondent States in Investment Arbitration, in Berkeley Journal of International Law, 225, 2011; P. Dumberry, Compensation for Moral Damages in Investor-State Arbitration Disputes, in Journal of International Arbitration, Vol. 27, No. 3., 2010. 20 Desert Line Projects LLC v. The Republic of Yemen, ICSID Case No. ARB/05/17, par. 290. 17
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is reserved for extreme cases of egregious behaviour”21. Peraltro, nessun danno punitivo venne riconosciuto in capo ai ricorrenti, due cittadini italiani che, avendo investito nella costruzione di un villaggio turistico sul Mar Rosso, si erano visti sequestrare con la forza le loro proprietà da parte delle forze di sicurezza governative. Durante le operazioni di sequestro, la Polizia egiziana picchiò duramente uno degli impiegati del sig. Siag. Inoltre, tre suoi avvocati difensori vennero fatti arrestare. Stupisce pertanto la posizione del Tribunale arbitrale di non pronunciarsi sulla gravità di simili fatti che l’anno prima, nel 2008, un altro Tribunale arbitrale ICSID aveva invece stigmatizzato nel lodo Desert Line22. Sarà solo nel 2011, nel caso “Lemire v. Ukraine”, che i requisiti per la risarcibilità dei danni morali a favore dell’investitore vengono definiti in modo compiuto. Il Sig. Lemire era un cittadino statunitense operante da decenni in Ucraina, con una leadership pionieristica nel settore radiofonico privato. Quando il governo decise di liberalizzare le frequenze radio, riservò allo stesso una sola frequenza e tra l’altro in un remoto villaggio, quasi a voler mortificare gli investimenti che per anni aveva intrapreso23. Da qui la richiesta dei danni morali da parte del Lemire contro l’Host State. Il lodo stabilisce che i danni morali possono essere accordati, in aggiunta al classico risarcimento del danno, ma solo in circostanze eccezionali (“exceptional circumstances”) in presenza dei seguenti requisiti: a) un’azione dello Stato che comporti una minaccia fisica (detenzione illegale, maltrattamenti); b) un’azione dello Stato che provochi uno stress psichico (ansia, sofferenze mentali, umiliazioni, perdita di reputazione sociale); c) tali azioni statali ed i loro effetti (in termini di pregiudizio arrecato) devono essere “grave or substantial”24. L’onere della prova di tali elementi grava sull’investitore ricorrente. Si tratta di un onere particolarmente stringente, specie nel provare la condotta e la lesione “grave o sostanziale” cagionata dallo Stato, che va al di là della prova di aver semplicemente violato le disposizioni del BIT. Ditalché una simile soglia della prova – che nel caso in esame non venne raggiunta dal Lemire - finisce inevitabilmente col coincidere con la prova del dolo o colpa grave con cui lo Stato abbia agito. Nei casi eccezionali di raggiungimento della prova, i danni morali che
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Waguih Elie George Siag and Clorinda Vecchi v. The Arab Republic of Egypt, ICSID Case No. ARB/05/15, Award (1 June 2009), par. 545. 22 A. W. Rovine, Contemporary Issues in International Arbitration and Mediation: The Fordham Papers (2012), Leida, 2013 il quale rileva che “both cases involved the arrest of personnel while only Siag also included a violent battering, but I offer the hitherto unremarkable proposition that being beaten senseless is at least as egregious as being locked up for a few days”, 86. 23 Joseph Charles Lemire v. Ukraine, ICSID Case No. ARB/06/18, Award (28 March 2011). I danni morali sono richiesti dal ricorrente per aver sofferto “constant indignity, frustration, stress, shock, affront, humiliation, shame, degradation” con relativo danno d’immagine, cfr. par. 315. 24 Cfr. par. 333 che contiene il cd. “Lemire test” ovvero gli standard risarcitori del danno morale: “moral damages can be awarded in exceptional cases, provided that – the State’s actions imply physical threat, illegal detention or other analogous situations in which the ill-treatment contravenes the norms according to which civilized nations are expected to act; – the State’s actions cause a deterioration of health, stress, anxiety, other mental suffering such as humiliation, shame and degradation, or loss of reputation, credit and social position; and – both cause and effect are grave or substantial”.
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venissero riconosciuti sarebbero a ben vedere caratterizzati da una natura punitiva, piuttosto che compensativa25. E se ad invocare i danni morali fosse invece lo Stato? Ad oggi, nessun Tribunale arbitrale dell’ICSID ha mai accordato un risarcimento per danni morali a favore dell’Host State convenuto. In due casi del 2009, tra loro simili, “Europe Cement v. Turkey”26 e il già sopra citato “Cementownia v. Turkey”, alcuni investitori polacchi sostenevano di possedere quote nelle succitate società turche e ricorrevano contro l’illegittima revoca governativa delle licenze e concessioni edilizie. La Turchia chiese i danni morali, ritenendo che le cause intentate fossero prive di fondamento, orchestrate dai ricorrenti con documenti contraffatti, con frode e in mala fede. I danni morali venivano indicati nella perdita di reputazione e prestigio dello Stato (international standing) ripercuotendosi in termini di mancata attrazione e perdite di investimenti diretti esteri, anche in conseguenza dei tempi lunghi di attesa per arrivare ad una decisione dei Tribunali arbitrali ICSID. In entrambi i casi, il lodo arbitrale non accolse la richiesta statale dei danni morali, ritenendo sufficienti due forme di soddisfazione a favore della Turchia: l’accertamento giudiziale dell’illecito accompagnato da un “award of costs”, consistente in una pesante condanna alle spese legali e a tutti i costi dell’arbitrato ICSID, posti a carico degli investitori ricorrenti. Secondo parte della dottrina, questa forma di soddisfazione era già di per sé una condanna punitiva27. Il case-law ICSID in materia di investimenti confermerebbe il diritto consuetudinario, per cui il rimedio tradizionale per i danni morali sofferti da uno Stato è la soddisfazione28. Si ritiene peraltro di condividere quanto espresso da una parte della dottrina, che sostiene come i danni morali andrebbero risarciti anche a favore degli Stati, in aggiunta alla dichiarazione di responsabilità e alla condanna alle spese legali e costi. Secondo la condivisibile tesi del Parish, si tratta di riconoscere i danni morali in “certain limited and particularly egregious cases […] where a claim is vexatious or has been brought fraudulently or in bad faith”29. Si tratterebbe di casi circoscritti in cui il ricorso sia stato intentato e portato avanti dagli investitori con “abuse of process”, con fini maliziosi, in mala fede, unicamente come mezzo vessatorio. Il riconoscimento dei danni morali in favore dello Stato assumerebbe in tali casi una funzione deterrente ed anche punitiva. Il rischio per gli investitori di venire condannati, in aggiunta alle predette forme di soddisfazione (la declaratoria più tutte le spese legali ed i costi della procedura presso ICSID), ad un’ulteriore somma per danni morali costituirebbe un disincentivo all’uso vessatorio dell’arbitrato e ad un tempo una punizione per la loro “lite temeraria”.
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R. J. Laird, Moral damages and the punitive question in ICSID Arbitration, in ICSID Review – Foreign Investment Law Journal, Volume 26, Issue 2, 1 October 2011, 171-183, ritiene che il lodo Lemire “essentially converts malice and fault into moral damages. This may indicate that punitive damages have merged with moral damages, but with a threshold so hard to reach that they will almost never actually be awarded”, cfr. 183. 26 Europe Cement Investment & Trade S.A. v. Republic of Turkey, ICSID Case No. ARB(AF)/07/2. Award (13 August 2009). 27 R. J. Laird, ibidem, secondo il quale nei due casi “the tribunals clearly took advantage of the notion of fault and applied it to the allocation of costs essentially to provide a punitive award”, pag. 182. 28 A. Champagne, Moral Damages Left in Limbo, in McGill Journal of Dispute Resolution, Vol. 1:2, 33:“In sum, as it stands now, reparation by satisfaction is the norm for moral damages to States”. 29 T. Parish-K. Newlson-B. Rosenberg, ibidem, 238.
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I danni punitivi nel diritto internazionale e nel case-law in materia di investimenti esteri
A ben vedere, questi casi assomigliano – se osservati in un’ottica comparativa – alla ratio che ispira la responsabilità aggravata prevista dall’art. 96 comma 3 c.p.c. Tale norma prevede una pena pecuniaria – irrogata anche d’ufficio ed equitativamente stabilita dal giudice – che prescinde dalla necessità di provare un danno di controparte. Essa è una fattispecie di danno punitivo, intesa a scoraggiare la lite temeraria, l’abuso o l’uso puramente dilatorio del processo, ogni qual volta la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave30.
5. Conclusioni. I danni punitivi non sono riconosciuti nel diritto internazionale degli investimenti, ma dall’analisi del case-law è emerso che di fronte a casi eccezionali di mala fede e dolo (fault, malice) o comunque di condotte gravemente biasimevoli (egregious behaviour) perpetrate dagli investitori (ad es. l’abuso del processo) o dall’Host State (ad es. casi di physical duress contro gli investitori, che rasentino violazioni di diritti umani fondamentali) possono essere concessi i danni morali, i quali però in tali casi si ibridizzano e tendono ad aprirsi a funzioni punitive31. Come ben ha sintetizzato il Champagne: “[s]imply put, as soon as the award of moral damages depends on the presence of fault or egregious behaviour and is said to have a deterrence function, moral damages undeniably begin to take some punitive color”32. Se così fosse, il lodo arbitrale o la sentenza straniera che inglobino nei danni morali una componente sostanzialmente punitiva, sarebbero riconoscibili nel nostro ordinamento, nei limiti delineati dalla sentenza n.16601/’17 delle Sezioni Unite per i risarcimenti punitivi33.
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F. Nicotra, Responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.: una fattispecie di danno punitivo, in Altalex online (www. altalex.com, consultato il 28.3.2018). La citata sentenza SS.UU. n. 16601 in relazione all’art.96 c.p.c. così riferisce: “Corte Cost. n. 152 del 2016, investita di questione relativa all’art. 96 c.p.c., ha sancito la natura ‘non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive’ di questa disposizione e dell’abrogato art. 385 c.p.c.”, cfr.punto 5.3. 31 G. Zarra, The Doctrine of Punitive Damages and International Arbitration, in Diritto del commercio internazionale, 991: “[i]t seems, therefore, possible only to discuss about an autonomous figure of moral damages in international investment law […] that may involve also a punitive element”. R. J. Laird, ibidem, 183, sostiene che “moral damages are clearly now being entertained by ICSID Tribunals, but in a way that makes them look very much like punitive damages”. 32 A. Champagne, ibidem, 37. 33 Si tratterà di verificare, in sede di delibazione, l’esistenza di una norma di copertura nell’ordinamento straniero che espressamente preveda i danni punitivi (“[i]l riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna”, cfr. punto n. 8 della sentenza).
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La tutela del cultural heritage Riflessioni in attesa dell’introduzione della riforma penale
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La proposta delle nuove disposizioni in materia penale. – 3. L. 124/2017 nuove norme in tema di circolazione di opere d’arte. – 4. Conclusioni.
Abstract The article aims at examining the current protection offered to cultural and artistic heritage, as an autonomous legal asset already defined by the Constitution, with a perspective look at the reform currently being approved in Parliament, which unless otherwise amended, will worsen the penalties in aversion to these goods, systematically introducing the title VIII bis in the Penal Code, with new specific crimes on the subject. Finally, in the concluding part, critical considerations will be offered on the current legislation on the subject of transnational circulation of artistic assets, as recently amended with Law 124/2017. L’articolo si propone di esaminare l’attuale tutela offerta al patrimonio culturale ed artistico, quale autonomo bene giuridico definito sin già dalla Costituzione, con uno sguardo prospettico alla riforma attualmente in corso di approvazione in Parlamento, che salvo diverse ed ulteriori modifiche, inasprirà maggiormente le pene in avversione a detti beni, introducendo sistematicamente il titolo VIII bis nel Codice Penale, con nuovi specifici reati in tema. Nella parte conclusiva si offriranno, infine, considerazioni critiche in ordine all’attuale normativa in tema di circolazione transnazionale dei beni artistici, così come recentemente modificata con la L. 124/2017.
1. Introduzione. La nostra Penisola è conosciuta in tutto il mondo per il suo patrimonio artistico e culturale che l’ordinamento tutela a livello costituzionale sin già dall’art. 9 Cost. secondo comma, ove programmaticamente si proteggono il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico della Nazione. Questi due beni giuridici, sebbene si possano identificare come distinti, in sostanza vengono accomunanti dalla stessa cifra valoriale, ovvero dall’essere patrimonio collettivo, sintomo di civiltà, tanto da costituire un unitario bene giuridico a titolarità diffusa. La qualificazione costituzionale dei beni ricompresi nel patrimonio storico-culturale-artistico, confermata sostanzialmente dalla ratifica della Convenzione europea del paesaggio1, permette di considerare la tutela di questi beni come strumentale a quella della persona. La Convenzione europea ha
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La Convenzione Europea del Paesaggio è un documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000, ufficialmente sottoscritto nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze il 20 ottobre 2000.
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offerto, infatti, un’interpretazione personalistica di siffatta tutela, in superamento di una concezione meramente materialistica, che permette di considerare il c.d. cultural heritage quale «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale, nonché fondamento della loro identità». Dati questi presupposti di ordine generale, la normativa speciale del settore ha da sempre cercato di attuare norme volte a garantire il c.d. principio di conservazione dei beni culturali, ovvero di preservare dalle incurie, dal deterioramento e dal deturpamento il nostro patrimonio artistico e culturale. La normativa in tema fonda le sue origini sin dal Regno d’Italia, che con una prima norma del 1883 (legge n. 1461) prevedeva l’alienazione dei beni d’arte o di antichità a solo vantaggio dello Stato ed una seconda del 1865 (legge n. 2359) sanciva la possibilità di espropriare i monumenti appartenenti a privati se mandati in rovina per incuria. Successivamente la tutela dei beni culturali venne poi ad essere assicurata con la legge n. 364 del 1909 “Legge Rosadi”, la quale si preoccupò di colpire i comportamenti illeciti, che mettevano a rischio la conservazione del patrimonio culturale e infine con la Legge Bottai n.1089 del 1.06.1939, che costituirà la prima norma quadro volta a garantire tutte le «cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi il carattere di rarità e di pregio»2. D’altra parte, il codice penale del 1930 aveva introdotto la contravvenzione ex art. 733 c.p. in forza della quale: “chiunque distrugge, deteriora o comunque danneggia un monumento o un’altra cosa propria di cui gli sia noto il rilevante pregio, è punito, se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda non inferiore a 2.065,00 euro”. Tale norma, attualmente vigente, ha lo scopo di rafforzare il principio di conservazione con un’apposita sanzione penale, che integra al comma secondo anche la confisca della cosa deteriorata o comunque danneggiata. Questa previsione, come confermato anche dalla Corte di Cassazione, individua, nella parte precettiva, la specifica posizione di garanzia in capo a chi ha la disponibilità di beni storicoartistici di prevenirne ogni forma di danneggiamento, oltre a doverne curare la loro buona conservazione3. Il principio di conservazione ha, poi, subito un’ulteriore implementazione sul finire egli anni ’90, dapprima con il Testo unico in materia di beni culturali e ambientali previsto dal D.lgs. n. 490/1999 e poi attraverso il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, introdotto con il D.lgs. n.42 del 22 gennaio 2004, riorganizzando così l’intera materia del settore4. Il codice introduce
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Legge n. 1 giugno 1939 n. 1089 “Tutela delle cose d’interesse artistico o Storico” pubblicata in G.U. n. 184 del 8 agosto 1939, nota anche come legge Bottai, dal nome del suo relatore, rileva per aver affermato il principio del godimento pubblico dei beni culturali, l’indipendenza dei beni culturali dai Piani Regolatori, disponendo sulle autorizzazioni in caso di intervento sul bene culturale, imponendo il principio della conservazione anche ai privati possessori di cose di interesse culturale; regolando le alienazioni, i prestiti, i trasferimenti, le importazioni e le esportazioni dei beni culturali; disciplinando i ritrovamenti e le scoperte e stabilendo le sanzioni in caso di contravvenzione di detti principi. 3 Cass. Pen., Sez. III, 12 Maggio 1993. 4 Il sistema di repressione penale che si è sin qui descritto è già stato oggetto in tempi abbastanza recenti di alcuni interventi modificativi. In particolare: l’art. 1, comma 36 della Legge 15 dicembre 2004, n. 308 ha introdotto alcune
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infatti un sistema di tutela misto a seconda che si tratti di beni culturali di proprietà pubblica oppure privata. Mentre, infatti i beni pubblici5 godono sempre delle tutele previste dal codice, la proprietà privata nei soli casi in cui sul bene sia intervenuta una dichiarazione di interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico, da parte della Soprintendenza. Inoltre, il decreto legislativo n. 42 del 2004 introduce nella parte quarta un sistema di “Sanzioni”, nell’ambito del quale il Titolo II, dedicato alle “Sanzioni penali”, a sua volta articolato in due Capi: il primo concernente le sanzioni per le violazioni delle disposizioni della Parte seconda del Codice e il secondo recante le sanzioni per le condotte poste in essere in violazione delle disposizioni della Parte terza del Codice, rimarcando in tal modo l’importanza della repressione delle condotte volte ad aggredire i beni appartenenti alle categorie individuate. Le fattispecie di reato contemplate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio non esauriscono, in ogni caso, il sistema sanzionatorio penale nei confronti delle condotte lesive dell’interesse culturale o paesaggistico, rimandando al Codice Penale per altre ipotesi specifiche di reato. La collocazione non sistematica delle norme incriminatrici in tema è dovuta al fatto che nel Codice dei beni culturali e del paesaggio sono contenute disposizioni volte a rendere effettiva la disciplina di tutela prevista dal medesimo Codice, sanzionando le relative trasgressioni, mentre il Codice penale colpisce, d’altro canto, quelle condotte che si caratterizzano per l’aggressione del bene, anche indipendentemente dalla violazione delle norme di tutela e dei provvedimenti emanati dall’autorità amministrativa in attuazione delle stesse. Proprio da questo secondo punto vista, ovvero la repressione al fenomeno deturpativo generico, la tutela offerta dall’ordinamento penale può ritenersi del tutto inadeguata in relazione al rango del bene giuridico tutelato, sebbene da sempre la dottrina abbia cercato di riconoscere specifiche aggravanti all’aggressione del c.d. cultural heritage6. In tal guisa, il Legislatore non è rimasto impassivo, tentando nelle ultime tre legislature di riorganizzare il quadro
modifiche all’articolo 181 del Codice di settore, concernente le opere eseguite in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; i decreti legislativi 24 marzo 2006, n. 156 e n. 157 hanno apportato alcune modifiche, rispettivamente, alle disposizioni del Capo I e del Capo II della Parte quarta, Titolo II, del Codice dei beni culturali e del paesaggio; l’art. 3, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63 ha anch’esso introdotto modifiche al citato art. 181 del Codice; infine, l’art. 2, comma 1, lett. l) del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, ha sostituito l’art. 635 del codice penale in materia di danneggiamento. 5 L’articolo 12 D.lgs. 42/2004 indica quali beni culturali pubblici le cose mobili o immobili appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente od istituto pubblico, ma anche persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici, che presentino un “interesse storico, artistico, archeologico o etnoantropologico”. 6 Cfr. G. Azzali, Esportazione di opere d’arte, in Aa.Vv., La tutela penale del patrimonio artistico, Milano, 1977, 120; P. Carpentieri, La tutela penale dei beni culturali in Italia e le prospettive di riforma: i profili sostanziali, in S. Manacorda - A. Visconti (a cura di), Beni culturali e sistema penale, Vita e pensiero, Milano, 2013, 31; G. P. Demuro, Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, 2002; D. Di Vico, Sul possesso ingiustificato dei beni culturali, in Cass. pen., 2001, 1591; V. Manes, La tutela penale, in, C. Barbati e al. (a cura di), Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, 308; A. Manna, Introduzione al settore penalistico del codice dei beni culturali e del paesaggio, in A. Manna (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2005, 19; F. Mantovani, Lineamenti di tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 73; S. Moccia, Riflessioni sulla tutela penale dei beni culturali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 1297; G. Pioletti, voce Beni culturali - Diritto penale, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 2005, 16; M. Savino, La circolazione illecita, in L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna, 2010, 141.
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sanzionatorio penale a tutela del nostro patrimonio storico-artistico, sin dal 2008 quando fu avviato all’esame della Camera il disegno di legge AC28067, nella cui relazione illustrativa già si sottolineava che «l’esigenza di un intervento normativo organico e sistematico nella materia è resa indefettibile non solo dalle rilevanti criticità emerse nella prassi applicativa in riferimento alle disposizioni legislative vigenti, ma anche e soprattutto dalla circostanza che le previsioni normative in materia di repressione dei reati contro il patrimonio culturale (…) risultano attualmente inadeguate rispetto al sistema di valori delineato dalla Carta fondamentale. La Costituzione, infatti, in base al chiaro disposto degli articoli 9 e 42, richiede che alla tutela penale del patrimonio culturale sia assegnato un rilievo preminente e differenziato nell’ambito dell’ordinamento giuridico e colloca con tutta evidenza la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione ad un livello superiore rispetto alla mera difesa del diritto all’integrità del patrimonio individuale dei consociati». D’altro parte, in ambito internazionalistico la repressione dei reati posti in essere a danno del patrimonio culturale ha trovato una sua significativa rappresentazione mediante l’adozione delle prime Linee Guida internazionali per la lotta al traffico dei beni culturali. L’emanazione di questo atto è il frutto del lavoro svolto da un gruppo di esperti insediatosi a Vienna in seno alla Commissione Crimine delle Nazioni Unite8. Le Linee Guida sono state definitivamente adottate dall’Assemblea Generale, sulla base di una risoluzione approvata dalla predetta Commissione, nel maggio 2014 su proposta proprio dell’Italia, che ha esercitato un ruolo cruciale, fornendo un contributo determinante per la loro elaborazione. Obiettivo primario delle Linee Guida risulta, infatti, quello di promuovere l’adattamento delle legislazioni degli Stati membri intorno a principi e regole condivise e di implementare la cooperazione internazionale, nonché l’assistenza giudiziaria, con la promozione dell’applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità Organizzata9, nello specifico al contrasto al traffico illegale di beni culturali, tematiche che indubbiamente necessitano di una sistematica disciplina sanzionatoria a livello internazionale, sia per tutelare i siti archeologici situati nelle aree belliche, sia per il contrasto del traffico di opere d’arte, spesso finalizzato al finanziamento delle azioni di matrice terroristica internazionale.
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Senato della Repubblica, XVI legislatura Disegno di Legge. 962, iniziativa dei Senatori Rutelli e Zanda – Comunicato alla presidenza il 30 luglio 2008 – Delega al Governo per la riforma della disciplina sanzionatoria penale in materia di reati contro il patrimonio culturale. 8 La Commissione Crimine delle Nazioni Unite (CCPCJ – Commission for Crime Prevention and Criminal Justice) si riunisce annualmente a Vienna con l’obiettivo di promuovere la cooperazione internazionale per la prevenzione ed il contrasto al crimine, nelle sue varie forme: criminalità organizzata transnazionale, corruzione, terrorismo, c.d. crimini emergenti, quali il cybercrime, la contraffazione, il traffico di beni culturali ed i reati ambientali. La Commissione lavora in stretto coordinamento con le altre entità competenti in ambito ONU in materia di crimine e giustizia penale, tra cui le Conferenze delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato Transnazionale e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Corruzione. La Commissione funge inoltre anche da organo preparatorio ai Congressi delle Nazioni Unite sul Crimine (Crime Congress), che si tengono ogni cinque anni. Dopo il Congresso tenutosi a Doha nell’aprile 2015, il prossimo Congresso Crimine si terrà in Giappone nel 2020. 9 La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale è un trattato multilaterale promosso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, adottato a Palermo nel 2000 ed entrato in vigore nel 2003, attualmente ratificato da 188 Paesi, si compone di tre protocolli: i) Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani; ii) Protocollo contro il traffico di migranti via terra, mare, aria; iii) Protocollo contro la fabbricazione e il traffico illecito di armi da fuoco.
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2. La proposta delle nuove disposizioni in materia penale. Da un punto di vista sistematico, emerge, soprattutto dalla casistica giurisprudenziale come le condotte in odio ai beni culturali o paesaggistici risultino spesso plurioffensive, in quanto lesive anche di altri interessi giuridici penalmente tutelati, in primis l’integrità del patrimonio del proprietario del bene. Conseguentemente, molte delle condotte aventi ad oggetto beni culturali e paesaggistici ricadono nelle comuni fattispecie di reati contro il patrimonio e solo occasionalmente risultano distinte ed assoggettate ad un trattamento differenziato rispetto alle condotte aventi ad oggetto beni privi di tale interesse10. La riforma penale, che è in corso di approvazione in Parlamento, ponendosi in continuità con le predette prospettive internazionali, così come strutturata nel disegno di legge C422011 approvato dalla Camera dei Deputati in data 22 giugno 2017, si propone proprio di riformare e riorganizzare le disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale, che si trovano oggi contenute parzialmente nel codice penale e in parte nel Codice dei beni culturali, con un inasprimento delle sanzioni penali in materia. Il provvedimento, originariamente presentato come delega al Governo il 23 dicembre 2016 in Consiglio dei Ministri dal Ministro Franceschini e dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, è stato modificato in sede referente presso la Commissione Giustizia della Camera trasformando la delega in disposizioni di diretta modifica del codice penale e lasciando immutati i principi della riforma. La modifica in sede referente del provvedimento, che originariamente delegava il Governo ad operare la riforma, ha infatti trasformato la delega in disposizioni di diretta modifica del codice penale, mantenendo sostanzialmente inalterati gli obiettivi della riforma, volti a: a) favorire la coerenza sistematica del quadro sanzionatorio penale, attualmente ripartito tra codice penale e codice dei beni culturali; b) introdurre nuove fattispecie di reato; c) innalzare le pene edittali vigenti, così da attuare pienamente il disposto costituzionale in forza del quale il patrimonio culturale e paesaggistico necessita di una tutela differenziata e preminente rispetto a quella offerta alla tutela della proprietà privata; d) introdurre aggravanti specifiche quando oggetto di reati comuni siano beni culturali. In particolare, i sei articoli del nuovo Titolo VIII-bis del Codice penale “Dei delitti contro il patrimonio culturale” offrendo coerenza ed organicità al sistema delle sanzioni penali in tema, salvo diverse previsioni, introdurranno nuovi delitti a tutela del patrimonio culturale, innalzano le pene esistenti, con l’introduzione di aggravanti se i reati comuni saranno commessi contro dei beni artistico-culturali12. L’aumento delle pene, oltre a rafforzare
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Per esempio si pone la connessione tra il delitto di deturpamento e imbrattamento di cose altrui, “se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico” (art. 639, secondo comma, c.p.), di cui al comma due è stata prevista l’aggravante per beni di interesse storico o artistico ex art. 13 L. 352/1997, e la contravvenzioni di cui all’articolo 733 c.p. (Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale) e all’articolo e 734 c.p. (Distruzione o deturpamento di bellezze naturali). 11 Camera dei Deputati, Disegno di Legge C4220, presentato l 12 gennaio 2017, approvato in data 22.06.2017 e trasmesso al Senato il 23 giugno 2017 con DdL S2864. 12 Le fattispecie di reato ora previste sono: furto di beni culturali, appropriazione indebita di beni culturali, ricettazione di beni culturali, riciclaggio di beni culturali, illecita detenzione di beni culturali, violazioni in materia di alienazione di beni culturali, uscita o esportazione illecita di beni culturali, possesso ingiustificato di metal detector, danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici, devastazione e sac-
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la deterrenza, avrà anche effetti sugli strumenti processuali, tra i quali l’arresto in flagranza, il processo per direttissima, le intercettazioni telefoniche. Sarà, inoltre, razionalizzata la materia degli sconti di pena e dei benefici per chi collabora con la giustizia e permetterà il recupero di beni trafugati, introducendo la confisca penale obbligatoria ed una pena per mendaci dichiarazioni in sede di esportazione di beni culturali. Infine, il disegno di legge prevede che le forze dell’ordine e gli ufficiali di polizia giudiziaria saranno dotati di strumenti di maggiore efficacia nel perseguire i reati contro il patrimonio culturale: saranno infatti estese al delitto di attività organizzata finalizzata al traffico di beni culturali le operazioni sotto copertura ed i siti civetta su internet, già previsti per altre gravi tipologie di delitti. La riforma si pone, dunque, lo scopo di introdurre strumenti e precise fattispecie penali volti ad offrire una tutela diretta alle forme di aggressione ai beni culturali, contrariamente a quanto finora in vigore, che solamente in un’ottica meramente patrimonialistica e per lo più attraverso un’interpretazione adeguatrice permetteva forme di repressione maggiormente punitive. La proposta attualmente al vaglio del Senato, così come approvata alla Camera, salvo diverse ed ulteriori modifiche, si propone quindi di inserire tra i delitti l’apposito titolo VIII-bis, rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, al quale saranno riconducibili specifiche fattispecie penali13 e precisamente: • furto di beni culturali (art. 518-bis), punito con la reclusione da 2 a 8 anni (pena significativamente più elevata rispetto a quella prevista per il furto); in presenza di circostanze aggravanti, quali quelle già individuate dal codice penale o dal Codice dei beni culturali, la pena della reclusione salirà dal minimo di 4 al massimo di 12 anni. • appropriazione indebita di beni culturali (art. 518-ter), punito con la reclusione da 1 a 4 anni. Con questa fattispecie si punirà chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria di un bene culturale altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Il delitto è aggravato se il possesso dei beni è a titolo di deposito necessario. La disposizione riproduce, aumentando la pena, la fattispecie di appropriazione indebita di cui all’art. 646 del codice penale;
cheggio di beni culturali, contraffazione di opere d’arte, attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali. 13 La Commissione Giustizia ha preferito configurare nuovi delitti a tutela del patrimonio culturale, in luogo di aggravanti di fattispecie esistenti. Il disegno di legge inserisce nel codice penale, al di fuori del nuovo titolo VIII-bis, anche l’art. 707-bis, rubricato “Possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o per la rilevazione dei metalli”. La contravvenzione dovrà punire con l’arresto fino a 2 anni chiunque sarà ingiustificatamente colto in possesso di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli in aree di interesse archeologico. Il possesso ingiustificato degli attrezzi dovrà realizzarsi all’interno dei seguenti luoghi: aree e parchi archeologici (art. 101, comma 2, lettere d) ed e), del Codice dei beni culturali); zone di interesse archeologico (art. 142, comma 1, lettera m), del Codice); aree sottoposte a verifica preventiva dell’interesse archeologico (art. 28, comma 4, del Codice e art. 25 del D.lgs. n. 50 del 2016, Codice dei contratti pubblici).Inoltre, l’articolo 2 della riforma, secondo quanto approvato alla Camera, modificherà anche l’art. 51 del codice di procedura penale per inserire il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali, di cui al nuovo art. 518-quaterdecies c.p., nel catalogo dei delitti per i quali le indagini sono di competenza della procura distrettuale. Mentre l’articolo 3 modificherà il decreto legislativo n. 231 del 2001, prevedendo la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche quando i delitti contro il patrimonio culturale siano commessi da determinati soggetti nel loro interesse o a loro vantaggio. Viene a tal fine integrato il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa degli enti, con l’inserimento di due nuovi articoli, l’art. 25-terdecies e l’art. 25-quaterdecies.
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• ricettazione di beni culturali (art. 518-quater), punito con la reclusione da 3 a 12 anni. Questa fattispecie di ricettazione dovrà trovare applicazione anche quando l’autore del delitto da cui i beni culturali provengono non è imputabile o non è punibile, ovvero quando manca una condizione di procedibilità. La disposizione riproduce, inasprendo la sanzione penale ed eliminando le circostanze aggravanti e attenuanti, il contenuto dell’art. 648 c.p. (ricettazione); • riciclaggio di beni culturali (art. 518-quinquies), con pena della reclusione da 5 a 14 anni; la fattispecie riproduce, eliminando un’attenuante ed inasprendo la pena, il delitto di riciclaggio di cui all’art. 648-bis c.p.; • illecita detenzione di beni culturali (art. 518-sexies); fattispecie, punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni e con la multa fino a 20.000 euro, al momento estranea all’ordinamento, che ricorre quando il fatto non integri gli estremi della più grave ricettazione e consiste nel fatto di detenere un bene culturale conoscendone la provenienza illecita; • violazioni in materia di alienazione di beni culturali (art. 518-septies), punito con la reclusione fino a 2 anni e la multa fino a 80.000 euro; il disegno di legge sposta nel codice penale, innalzandone la pena, l’attuale fattispecie contenuta nell’art. 173 del Codice dei beni culturali; • uscita od esportazione illecite di beni culturali (art. 518-octies): il disegno di legge sposta nel codice penale, conservando la pena da 1 a 4 anni di reclusione o con la multa da 258 a 5.165 euro, il delitto di cui all’art. 174 del Codice dei beni culturali, che punisce l’illecita uscita o esportazione (trasferimento all’estero) di beni culturali, senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, ovvero il mancato rientro dei beni di cui sia stata autorizzata l’uscita, alla scadenza del termine previsto. Tuttavia viene prevista la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato. Nel caso in cui il reato sia commesso da «chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di oggetti culturali, è prevista la pena accessoria dell’interdizione da una professione o da un’arte, ex articolo 30 c.p.». Rispetto all’attuale fattispecie, la riforma prevede un’aggravante quando il delitto ha ad oggetto beni culturali di rilevante valore; • danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici (art. 518-novies): la fattispecie punisce con la reclusione da 1 a 5 anni, chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende non fruibili beni culturali o paesaggistici; colui che invece fa di tali beni un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico o pregiudizievole della loro conservazione è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. La riforma qualifica dunque come autonome fattispecie penali, di natura delittuosa, le aggravanti e le contravvenzioni attualmente previste dal codice penale e subordina la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. In caso di condotta colposa, si applica la reclusione fino a 2 anni (art. 518-decies); • devastazione e saccheggio di beni culturali (art. 518-undecies): la fattispecie penale, prevedendo la pena della reclusone da 10 a 18 anni, troverà applicazione al di fuori delle ipotesi di devastazione, saccheggio e strage di cui all’art. 285 c.p. quando ad essere colpiti siano beni culturali ovvero istituti e luoghi della cultura. • contraffazione di opere d’arte (art. 518-duodecies): la riforma inasprisce la sanzione con la reclusione da 1 a 6 anni e la multa fino a 10.000 euro e sposta nel codice penale l’attuale delitto di contraffazione previsto dall’art. 178 del Codice dei beni culturali. Al tempo
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stesso il nuovo testo dell’AC.4220 esclude la punibilità (art. 518-terdecies) di colui che produce, detiene, vende o diffonde opere, copie o imitazioni dichiarando espressamente la loro non autenticità (analogamente a quanto oggi prevede l’art. 179 del Codice dei beni culturali); • attività organizzate per il traffico illecito di beni culturali (art. 518-quaterdecies): la fattispecie punisce con la reclusione da 2 a 8 anni, chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto o vantaggio, con più operazioni ed attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, trasferisce, aliena, scava clandestinamente e comunque gestisce illecitamente beni culturali. Inoltre, il nuovo titolo VIII-bis del codice penale introdurrà anche: A) un’aggravante da applicare a qualsiasi altro reato che, avendo ad oggetto beni culturali o paesaggistici, cagioni un danno di rilevante gravità oppure sia commesso nell’esercizio di un’attività professionale o commerciale (art. 518-quinquiesdecies). La pena dovrà essere aumentata da un terzo alla metà e, in caso di esercizio di un’attività professionale, dovrà essere applicata anche la pena accessoria dell’interdizione da una professione o da un’arte (art. 30 c.p.); B) la riduzione delle pene in caso di ravvedimento operoso (art. 518-sexiesdecies), ovvero le pene potranno essere ridotte dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato o per l’individuazione degli altri responsabili ovvero dei beni provenienti dal delitto; C) la confisca penale obbligatoria - anche per equivalente - delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto, il profitto o il prezzo, in caso di condanna o patteggiamento per uno dei delitti previsti dal nuovo titolo (art. 518-septiesdecies); D) l’applicabilità delle disposizioni penali a tutela dei beni culturali anche ai fatti commessi all’estero in danno del patrimonio culturale nazionale (art. 518-octiesdecies). Il disegno di legge prevede, infine, all’art. 4 dell’approvando testo di legge l’applicabilità della disciplina delle attività sotto-copertura (art. 9 della legge n. 146 del 2006) anche alle indagini sul delitto di attività organizzata finalizzata al traffico di beni culturali (art. 518-quaterdecies), mentre l’articolo 5 abrogherà alcune disposizioni vigenti, con finalità di coordinamento del nuovo quadro sanzionatorio penale con la normativa vigente14.
In particolare, nel codice penale sono abrogate le seguenti previsioni: I) art. 635, secondo comma, n. 1; II) l’art. 639, secondo comma, secondo periodo, ovvero il deturpamento e l’imbrattamento di cose di interesse storico o artistico; III) l’art. 733, che punisce a titolo di contravvenzione chiunque distrugge, deteriora o comunque danneggia un monumento o un’altra cosa propria di cui gli sia noto il rilevante pregio; IV) l’art. 734, che punisce a titolo di contravvenzione la distruzione o il deturpamento di bellezze naturali, commessi mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo. Nel Codice dei beni culturali, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, sono abrogati: I)l’art. 170, che punisce «chiunque destina i beni culturali ad uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico o pregiudizievole per la loro conservazione o integrità». La contravvenzione è punita con l’arresto da sei mesi ad un anno e l’ammenda da 775 a 38.774 euro; II) l’art. 173, che punisce con la reclusione fino a un anno e con la multa da 1.549,50 a 77.469 euro le violazioni delle disposizioni esistenti in materia di alienazione. Nello specifico, commette il reato: a) chiunque aliena beni culturali senza autorizzazione (ivi compresi beni ecclesiastici); b) chiunque, essendovi tenuto, non presenta la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali; c) l’alienante di un bene culturale che consegna la cosa soggetta a prelazione, in pendenza del termine 14
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3. L. 124/2017 nuove norme in tema di circolazione di opere d’arte. La prossima promulgazione dell’emanando Titolo VIII-bis del Codice Penale “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, nella speranza che l’attuale disegno di legge non venga stravolto nella sua ultima approvazione, introduce, infatti, a parere degli operatori del settore, delle importanti previsioni ed aggravanti nei casi in cui il reato di uscita od esportazione illecita di bene culturale sia commesso da “chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di oggetti culturali” interdicendo il reo dalla professione o dall’arte che esercita, previsione che unita alla confisca del bene o del patrimonio per equivalente, rappresentano ottimi strumenti repressivi per una tutela diretta e di contrasto a quei fenomeni internazionali di illecito trafugamento delle opere d’arte. Il legislatore, tuttavia, già con l’approvazione della legge n.124 del 04/08/2017 “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”, ha introdotto importanti modifiche al Codice dei Beni Culturali, in particolare: 1) l’elevazione da 50 a 70 anni del limite per la libera esportazione e vendita di opere di autore non più vivente, con riserva comunque del Ministero di riconoscere lo status di “rilievo eccezionale” dell’opera15; 2) l’introduzione di una soglia economica (tredicimilacinquecento euro) al di sotto della quale il bene culturale può circolare liberamente, con la semplice presentazione alla Soprintendenza competente di un’autocertificazione, per la libera circolazione delle opere e degli oggetti d’arte; 3) l’estensione, infine, da sei mesi ad un anno la validità della licenza di esportazione dei beni culturali al di fuori del territorio dell’Unione Europea e da 30 a 48 mesi il termine che può intercorrere fra il rilascio dell’attestato di libera circolazione e il rilascio della licenza. Questa introduzione in tema di circolazione delle opere d’arte nella legge annuale sulla concorrenza è infatti il frutto di un lungo confronto tra i promotori del progetto Apollo, ovvero degli operatori commerciali del mondo dell’arte16, che da tempo chiedevano la liberalizzazione del mercato, e numerosi esponenti delle principali forze politiche, nonché la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT). Tuttavia, la novella necessita ancora dei relativi decreti attuativi, ad oggi non varati, a cui gli uffici di esportazione dovranno attenersi per valutare il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione, rendendo così di fatto non operativa la previsione ed ampliando il clima di incertezze nel settore.
previsto per l’esercizio del relativo diritto. III) l’art. 174, che punisce l’illecita uscita o esportazione (trasferimento all’estero) di beni culturali, senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, ovvero il mancato rientro dei beni di cui sia stata autorizzata l’uscita, alla scadenza del termine previsto. IV) l’art. 176, che punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa da 31 a 516 euro, l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato; V) l’art. 177, che stabilisce, per l’uscita o l’esportazione illecite e per l’impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato (artt. 174 e 176 del Codice), una riduzione della pena da uno a due terzi qualora il colpevole fornisca una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni illecitamente sottratti o trasferiti all’estero; VI) l’art. 178, che punisce a titolo di delitto la contraffazione di opere d’arte e l’art. 179, che esclude la punibilità per tale delitto quando la non autenticità dell’opera sia espressamente dichiarata. 15 La modifica dell’art. 68 del Codice eleva da 50 a 70 anni l’età dell’opera oltre la quale, se l’artista è scomparso, diviene passibile di provvedimenti di tutela secondo il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.lgs. n. 42/2004). 16 Associazione nazionale Case d’Asta, Christie’s, Sotheby’s, Associazione nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea e Art Defender.
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L’intento dei promotori era indubbiamente quello di adeguarsi alle soglie già previste dal Regolamento del Consiglio Europeo n. 116/200917, ma il Ministero ha comunque preferito fissare una soglia di valore molto bassa ed un regime di autocertificazione, sicuramente per responsabilizzare i proprietari esportatori delle opere, così penalmente perseguibili nei casi di false dichiarazione; in ogni caso questo limite resta il più basso di tutta Europa e non facilita di certo il mercato, tanto più che da questa soglia restano sempre esclusi i reperti archeologici, gli archivi, gli incunaboli e i manoscritti. La legge annuale sul mercato del 2017 ha poi previsto che il registro ex art. 63 del Codice dei beni culturali, relativo al commercio di “cose antiche o usate” venga tenuto in via informatica, fonte che indubbiamente incrociata con i previsti registri on line delle gallerie d’arte e degli antiquari, se consultabili anche dalle autorità straniere, permetterà di certo di monitorare costantemente questo specifico mercato, anche in chiara adesione alla “Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata”, che impone la cooperazione internazionale sui traffici illeciti. La corretta tenuta di questi registri, se da un lato imporrà maggiore rigore al mercato, dall’altro consentirà una migliore catalogazione degli oggetti e dei reperti, nonché la verifica delle fluttuazioni dei valori, che spesso hanno celato speculazioni o strumenti di pagamento per contropartite illecite. Si tratta di manipolazioni facilmente realizzabili, soprattutto nel caso dell’arte contemporanea, che spesso è risultata utilizzata quale forma di pagamento per traffici criminali o modalità per veicolare capitali “neri”, in molti casi volti ad alimentare casi di corruzione o di estorsione.
4. Conclusioni. In conclusione, in una realtà densa di arte e cultura come quella italiana in cui risulta impossibile, e spesso insensato, pensare di controllare minuziosamente i movimenti del mercato dell’arte, ad una pregiatissima intenzione del Legislatore, in parte ancora in corso di approvazione, ovvero di offrire maggiore rigore in un mercato lasciato per troppo tempo in balia di se stesso, segue attualmente un’oggettiva difficoltà di applicazione, acuita da una regolamentazione delle attività di fatto inesistente o ancora non operante, per cui allo stato chiunque può essere rigattiere, antiquario o gallerista indipendentemente dalle proprie qualità soggettive: capacità, competenze, esperienza nel settore e indipendentemente da qualsivoglia precedente penale. Allo stesso modo, sebbene l’articolo 64 del Codice dei beni Culturali18 preveda che il venditore professionale debba attestare l’autenticità e la provenienza del bene venduto, tale previsione è ampiamente disattesa, anche in considerazione che non sono attual-
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Regolamento (CE) n. 116/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo all’esportazione di beni culturali (Versione codificata). 18 Art. 64 D.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 «Chiunque esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica ovvero di oggetti d’antichità o di interesse storico od archeologico, o comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti medesimi, ha l’obbligo di consegnare all’acquirente la documentazione che ne attesti l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza delle opere medesime; ovvero, in mancanza, di rilasciare, con le modalità previste dalle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Tale dichiarazione, ove possibile in relazione alla natura dell’opera o dell’oggetto, è apposta su copia fotografica degli stessi».
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mente previste sanzioni in caso di inottemperanza, consentendo così al professionista di non assumersi responsabilità in ordine alla vendita di beni non autentici o di illecite provenienze. Ne conseguono inquietanti paradossi: rigattieri che maneggiano opere di alto antiquariato, soggetti pregiudicati per reati in avversione alle norme in tema, che gestiscono fiorenti attività di commercio d’opere artistiche o d’antiquariato, beni di illecita provenienza che vengono inopinatamente venduti nei mercatini dell’antiquariato ed infine prosperosa vendita di opere non autentiche che alimenta il mercato della contraffazione19. In questo clima di grande disordine, risulta quanto mai necessaria, sia per adeguarsi alle richieste europee, sia nella logica di una maggior repressione della criminalità in generale, la celere entrata in vigore della riforma penale in tema di beni culturali ed artistici, affinché il c.d. principio di conservazione del patrimonio nazionale non resti più solamente una norma di carattere astratto e programmatico, ma acquisti così specifica e concreta applicazione, sia sanzionando ad hoc le varie aggressioni a questo bene giuridico di elevata importanza, sia regolamentando nello specifico il mercato del settore, offrendo maggiori tutele per tutti i fruitori e appassionati.
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In ogni caso, si rimanda ai criteri dell’Authentication in Art Congress dell’Aja del 2014 «[...] for the purpose of stablishing standard requirements in the market for reports of this nature [...] facilitate the market’s good faith [...], enable courts and judicial tribunals to assess the admissibility of expert reports under the applicable rules of evidence and law [...]». Al punto 3 si descrivono 9 criteria for expert opinions mettendo in luce le tecnologie che possono essere applicate a un’opera d’arte e specificando che «if the witness’s methodology is based solely on observations, his or her methods of analysis may be deemed reliable only if the observations are based on relevant, extensive and specialized experience. Typically, experience-based observations without further explanation or preparation (such as recognition of the observation-only technique by others in the same field) are not generally acceptable». Di modo che «conclusion based on the standard criteria – especially those which apply different acceptable, reliable methodologies but reach diametrically opposed opinions about the same painting – are inherently credible. With the same underlying structure, these differing opinions of observationalist vis-à-vis observationalist, scientist vis-àvis scientist or observationalist vis-à-vis scientist can easily and effectively be compared so that stakeholders can best determine authenticity».
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nazionale
Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2018 (dep. 29 marzo 2018), n. 14505 – Pres. Paolini – Rel. Cavanese Cooperazione penale internazionale – Esecuzione penale – Consiglio d’Europa – Sanzione penale – Condannati – Trasferimento – Ne bis in idem – Specialità In forza del regime della “continuazione dell’esecuzione”, previsto dall’art. 10 della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate del 21 marzo 1983, ratificata dalla legge 25 luglio 1988, n. 334, lo Stato di esecuzione è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione come stabilite dallo Stato di condanna, potendo procedere al suo adattamento con una decisione giudiziaria solo quando essa sia incompatibile, per natura o durata, con quella prevista dalla propria legge interna per lo stesso tipo di reato ovvero ecceda il massimo fissato dalla sua legislazione.
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Rapporti giurisdizionali con autorità straniere: la Cassazione fa il punto sui criteri di determinazione della pena ai fini di esecuzione della pena La Cass. VI sez. pen., con sentenza 29 marzo 20181, n. 14505 analizza i limiti applicativi della Convenzione del Consiglio d’Europa di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate2, ratificata dall’Italia mediante la l. 25 luglio 1988, n. 334. La Convenzione la cooperazione giudiziaria in materia penale basata sul riconoscimento delle sentenze definitive di condanna consente al condannato che sta già scontando la pena in un paese di presentare domanda per il trasferimento nel proprio Paese d’origine per l’esecuzione della parte rimanente della pena. La finalità del trasferimento, a differenza ad esempio dell’estradizione, è prevalentemente di carattere umanitario, in quanto può favorire il reinserimento sociale delle persone condannate avvicinandole al loro paese d’origine, in modo tale da superare tutte quelle difficoltà che, su un piano umano, sociale e culturale, oltreché per l’assenza di contatti con i familiari, possono derivare dall’esecuzione della pena in un paese straniero. Nel caso in esame, la Suprema Corte respinge il ricorso presentato da un cittadino italiano condannato in Armenia con una pena di 12 anni di reclusione per aver commesso, ivi, il delitto di traffico di stupefacenti. Il condannato aveva impugnato la sentenza della Corte di Appello
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La Cass. Sez. U. Sentenza 10 luglio 2008, n. 36522 (consultabile al seguente link avevano sostenuto l’applicabilità dell’indulto sulla condanna da straniera scontata in Italia dato che, ai sensi dell’art. 9 par. 3 della Convenzione di Strasburgo, l’esecuzione della pena è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione 2 Il testo della Convenzione è consultabile al seguente link del sito istituzionale del Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_3.page;jsessionid=SZycpqf0ySZaOuGenBwnmtXZ?tabait=y&tab=a&aia=A IA32750&detail=y
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dell’Aquila deducendo, tra l’altro, le violazioni degli art. 10 della Convenzione di Strasburgo e l’art. 3 della l. 3 luglio 1989, n. 257 recante le norme attuative della stessa Convenzione. L’Armenia aveva ratificata la Convenzione approvando una legge l’11 maggio 2001 entrata in vigore il 1 settembre 2001. L’art. 10 della Convenzione disciplina la continuazione della condanna regime giuridico optato dall’Italia in sede di ratifica, disponendo che lo Stato d’esecuzione è vincolato dalla natura giuridica e dalla durata della sanzione quali risultano dalla condanna. Tuttavia, qualora la natura o la durata di questa sanzione fossero incompatibili con la sua legislazione, o se la sua legislazione lo esigesse, lo Stato di esecuzione può, mediante una decisione giudiziaria o amministrativa, adattare questa sanzione alla pena o alla misura previste dalla propria legge per reati della stessa natura. Quanto alla sua natura, tale pena o misura corrisponde, per quanto possibile, a quella inflitta dalla condanna da eseguire. Essa non può aggravare, per sua natura o durata, la sanzione pronunciata nello Stato di condanna, né eccedere il massimo previsto dalla legge dello Stato d’esecuzione. L’art. 3 della l. n. 257/1989, in esecuzione della Convenzione di Strasburgo, stabilisce la competenza della Corte di Appello di determinare, con sentenza di riconoscimento, sulla base della pena stabilita nella sentenza straniera, la pena, prevista dalla legge italiana, che deve essere ancora eseguita. Essa prevede, inoltre, che, quando l’entità della pena non è stabilita nella sentenza straniera, la Corte la determina sulla base dei criteri legali soggettivi ed oggettivi disciplinanti la discrezionalità del giudice nel determinazione della pena di cui agli artt. 133, 133-bis e 133-ter c.p.3. La Suprema Corte ha rilevato la correttezza del metodo di quantificazione della pena da parte della Corte di appello nel massimo edittale, in quanto è stato proceduto l’adattamento della pena facendo riferimento alla pena massima prevista per il delitto agli artt. 73 comma 1 e 80 comma 2 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, Testo unico sulla droga4, fattispecie che presentano
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L’art. 133 c.p. dispone che nell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. L’art. 133-bis prescrive che nella determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice deve tener conto, oltre che dei criteri indicati dall’articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo. Il giudice può aumentare la multa o l’ammenda stabilite dalla legge sino al triplo o diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa. L’art. 133-ter, nel regolare il pagamento rateale della multa o dell’ammenda statuisce che il giudice, con la sentenza di condanna o con il decreto penale, può disporre, in relazione alle condizioni economiche del condannato, che la multa o l’ammenda venga pagata in rate mensili da tre a trenta. Ciascuna rata tuttavia non può essere inferiore a euro 15. In ogni momento il condannato può estinguere la pena mediante un unico pagamento. 4 L’art. 73 del d.p.r. n. 309/1990 sanziona penalmente la produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, mentre l’art. 80 comma 1 disciplina le aggravanti specifiche ad effetti speciali che possono determinare un aumento della pena da un terzo alla metà in quanto espressive di un maggiore disvalore sociale ricavabile dalle modalità di compimento del reato e dalle particolari condizioni soggettive della vittima.
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la medesima natura giuridica dei reati per cui il giudice armeno ha inflitto la condanna. Non rileva la possibilità in concreto di ridurre la pena per la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato, che postula la riapertura del processo incompatibile con le finalità della Convenzione. Il giudice dello Stato di esecuzione è chiamato, non a convertire, ma adattare la parte rimanente della pena mediante un’opera ermeneutica di adattamento incentrato sull’individuazione della pena prevista per il reato della stessa natura disciplinata dall’ordinamento dello Stato di esecuzione allo scopo di quantificare la parte rimanente della pena in modo più corrispondente a quella individuata dalla sentenza di condanna. In conclusione, il ricorrente è onerato di provare che la sentenza dello Stato di condanna contenga disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato come, ad esempio, il ne bis in idem (ovvero il divieto di essere processato più volte “per lo stesso fatto”) o la violazione dell’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 Cost.), nonché il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. Nikita Micieli
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Biase
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Cass. pen., sez. II, 17 gennaio 2018 (dep. 18 aprile 2018), n. 17235 – Pres. Diotallevi – Rel. Beltrani Riciclaggio – Autoriciclaggio La Seconda Sezione ha affermato, in tema di autoriciclaggio, che il soggetto il quale, non essendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’“intraneus”, cioè dell’autore del reato – fonte, delle condotte indicate dall’art. 648-ter.1 cod. pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel meno grave delitto di autoriciclaggio, configurabile nella specie solo nei confronti dell’ intraneus1.
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Autoriciclaggio: il terzo che agevola la condotta risponde per il reato di riciclaggio La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17235, II sezione penale del 18/04/2018, interviene per la prima volta sul tema dell’autoriciclaggio, a seguito dell’introduzione dell’art. 648-ter nel nostro Codice penale, che ha rubricato la forma di reato. Nello specifico, detto articolo è stato inserito nel nostro codice al fine di contrastare la forma criminosa su citata e di adeguare e rendere più performante la normativa nazionale con i dettami comunitari. La Suprema Corte è intervenuta in merito all’operato posto in essere da una commercialista nell’espletamento del suo lavoro. La professionista, infatti, avvalendosi dello scudo fiscale, aveva dato vita ad una serie di operazioni commerciali, finanziarie e societarie, con il chiaro intento di favorire il rientro in Italia di considerevoli somme di denaro di provenienza illecita riconducibili ad un suo assistito. La Corte di Cassazione, nel suo intervento, delinea una netta distinzione tra chi compie operazioni di riciclaggio per sé, ricadendo nella fattispecie dell’autoriciclaggio, e chi, invece, concorre a reinvestire il denaro illecito di altra persona, agevolandolo in tale attività. Il tenore letterale della sentenza tende a mettere in luce anzitutto una distinzione tra chi compie operazioni di riciclaggio per sé, ricadendo nella nuova fattispecie dell’autoriciclaggio, e chi, invece, concorre a reinvestire il denaro illecito di altra persona, agevolandolo in tale attività; ossia è possibile fare una netta distinzione tra chi ricicla per sé compiendo autoriciclaggio e chi, invece, aiuta a reinvestire i soldi “sporchi” altrui. Nel primo caso, se il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto non colposo, vengono impiegati, sostituiti, trasferiti, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative dal medesimo soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della lo-
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ro provenienza illecita, si applica l’articolo 648-ter del Codice penale (autoriciclaggio) a tenore del quale “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.493. La pena aumenta quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. La pena diminuisce nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’articolo 648. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648 [c.p. 648-quater]”. Mentre, se le stesse condotte vengono poste in essere da un altro soggetto possono trovare applicazione reati diversi, a seconda dei casi, come per esempio i reati di ricettazione, riciclaggio o reimpiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita. Pertanto, colui che ha aiutato a commettere il reato di reinvestire i denari illeciti deve rispondere di una pena più grave, come quella del riciclaggio. A tenore della sentenza, quindi, chi agevola deve essere punito con pene più severe di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso del reato e in modo autonomo, continuando a rispondere del reato di riciclaggio e non del meno grave concorso nell’autoriciclaggio. Ciò in quanto, secondo la Corte di Cassazione, il nuovo articolo 648-ter.1. c.p. prevede e punisce unicamente quelle condotte che in precedenza non potevano integrare un reato. Linea dura della Cassazione, dunque. Nel caso di specie, come detto, il professionista deve essere infatti sanzionato non tanto a titolo di concorso, ma a titolo autonomo e per il reato di riciclaggio. Del resto, differenziare i titoli di reato con riferimento a condotte concorrenti non deve stupire, sottolinea la sentenza, visto che il sistema penale già ricorre a questa soluzione in alcuni casi. Con riferimento al delitto di evasione, per esempio, il concorso di terzi estranei non detenuti è incriminato autonomamente a titolo di procurata evasione. Anche la previsione di sanzioni più miti per l’autoriciclaggio «trova giustificazione unicamente con la considerazione del minor disvalore che anima la condotta incriminata, se posta in essere (non da un extraneus, bensì) dal responsabile del reato presupposto, il quale abbia conseguito disponibilità di beni, denaro ed altre utilità ed abbia inteso giovarsene, pur nei modi oggi vietati dalla predetta norma incriminatrice, risultando responsabile di almeno due delitti (quello non colposo presupposto e l’autoriciclaggio) non necessariamente in concorso ex articolo 8i Codice penale». Per la Corte, poi, non è d’ostacolo la conclusione raggiunta dal comma 7 dell’articolo 648 ter. del Codice, con la previsione che le disposizioni materia di autoriciclaggio, come quelle sulla ricettazione, si applicano anche quando l’autore del delitto da cui provengono il denaro o le cose non è imputabile o punibile oppure quando manca una condizione di procedibilità. In conclusione, secondo gli ermellini il soggetto che con la sua attività favorisce la commissione di un reato, nel caso di specie reinvestimento di denaro illecito, deve rispondere del più grave delitto di riciclaggio: infatti, colui che agevola deve essere punito più severamente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di reato e in modo autonomi, rispondendo di riciclaggio e non di autoriciclaggio, in considerazione del fatto che l’art. 648-ter c.p. punisce solo quelle condotte che prima non potevano integrare reato. Marilisa De Nigris
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Corte di cassazione, 6 aprile 2018 (udienza 24 ottobre 2017), sentenza n. 2832, Pres. Fiale – Red. Di Nicola Violenza sessuale di gruppo - Testimonianza della persona offesa - Motivi di ricorso - Violazione dell’obbligo di motivazione Alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno.
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La sanzione dell’obbligo di motivazione e l’elevazione delle regole della logica a regole giuridiche Questo è quanto affermato dalla Suprema Corte a seguito di ricorso presento, a mezzo dei loro difensori, da S.T. e G.F., al fine di far annullare la impugnata sentenza della Corte d’appello di Roma, la quale aveva contestato, per quanto qui di interesse, il reato previsto dall’art. 609-octies del codice penale, perché in partecipazione tra loro, mediante violenza, consistita nell’immobilizzare con la forza la vittima denudandola e distendendola su un letto, costringevano la persona offesa a subire plurimi atti sessuali, toccandola e palpeggiandola in più parti, anche intime del corpo nonché penetrandola e consumando così rapporti sessuali completi. La linea difensiva dei due imputati faceva leva sul fatto che l’intera vicenda processuale si fondasse esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile, sulla inattendibilità delle dichiarazioni della vittima, sul consenso prestato al compimento dell’atto sessuale, inoltre, si rimproverava alla Corte del merito di aver eseguito una disamina parcellizzata degli aspetti salienti del materiale probatorio essendo state tralasciate prove a discarico fondamentali. Le doglianze mosse alla Corte di appello venivano riproposte con il ricorso per Cassazione. I motivi di ricorso presentati da S.T. e da G.F. venivano considerati infondati e, in larga parte, non consentiti. Tra i possibili motivi di ricorso previsti, il comma 1 dell’art. 606 c.p.p., nella sua versione più recente, alla lettera e) recita testualmente “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”. Detta disposizione ha come obiettivo di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il Giudice del merito quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto e se è certo che l’obbligo della motivazione è coessenziale al principio di legalità e di soggezione del giudice alla legge, è altrettanto certo che il controllo di legittimità trova titolo nei medesimi princìpi, onde è senz’altro giustificata l’affermazione che, nel sistema garantistico delineato dalla Costituzione, l’enunciazione dell’obbligo di motivazione è considerata come corollario del principio di le-
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galità sancito dall’art. 101 comma 2, e della generalizzazione del sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali, espressa dall’art. 111. Per quanto osservato, la posizione assunta dalla Suprema Corte non risulta essere condivisibile. La Suprema Corte non convince, infatti, quando afferma che la Corte di appello ha scrutinato tutte le obiezioni difensive, sostanzialmente poi riproposte nel ricorso. Dalla lettura della sentenza in esame si evince, infatti, che i motivi di ricorso presentati risultano essere fondati, pertanto, andavano accolti in quanto, in più punti, la sentenza per la quale si chiede la nullità risulta essere carente, contraddittoria e illogica nella sua motivazione. Uno dei motivi di doglianza dei ricorrenti è che l’intera vicenda processuale si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile. La deposizione della persona offesa è astrattamente idonea a fondare da sola la prova del fatto rappresentato, postulando la mancata previsione da parte del legislatore di alcuna deroga della sua capacità a testimoniare, ma risulta essere inammissibile un “atto di fede” nei confronti della stessa quando, dagli atti di causa, emerge che risulta essere portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, in tal caso si rende necessaria una rigorosa e penetrante indagine positiva sulla sua credibilità. Nel caso che ci occupa la parte offesa aveva una relazione sentimentale con il sig. M.P., poi teste, amico degli imputati. Il teste M.P. riferiva che era rimasto contrariato dal fatto che la vittima fosse uscita con altri invece che con lui e le aveva manifestato la sua intenzione di chiudere la relazione; solo a tal punto la vittima racconta dell’abuso subìto. La ricostruzione del fatto operata dal sig. M.P., porta all’emersione di un interesse della parte offesa ad accusare gli imputati; nonostante ciò il Giudice del merito deduce “semplicemente” che la parte offesa non aveva motivo di accusare falsamente i tre imputati. Il Giudice di merito non può sottrarsi al dovere di esaminare i motivi di sospetto rispetto alla testimonianza della persona offesa limitandosi ad affermare, puramente e semplicemente, che la vittima non aveva motivo per dire il falso, perché è evidente la carenza di motivazione su questioni devolute e rilevanti ai fini del decidere. Con troppa facilità, ed in modo alquanto contraddittorio, la Corte di appello liquida le specifiche questioni poste dagli imputati in ordine alla credibilità della persona offesa. Con altrettanta facilità la Suprema Corte, a nostro avviso, tralascia di prendere in considerazione il fatto che la parte offesa era portatrice di un interesse inquinante; trattasi di una presunzione iuris tantum che impone un maggior rigore di indagine della sua credibilità oggettiva e soggettiva rispetto a quella cui vengano sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, necessità altresì di una concreta verifica della reale terzietà proprio quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli degli imputati. Che il fatto contestato fosse avvenuto con il consenso, al più putativo, della vittima è un ulteriore motivo di doglianza dei ricorrenti. Dagli atti di causa emerge che gli imputati, quando videro “stranita” la vittima e costei espresse dissenso, si fermarono. Inoltre, dal referto del pronto soccorso non emergono segni di violenza se non delle ecchimosi, all’interno delle cosce, autoprodotte dalla p. o. per sua espressa ammissione e, soprattutto, la totale mancanza di lesioni vaginali, dopo ben tre rapporti sessuali completi. È quindi evidente la illogicità del convincimento della Corte di merito che il racconto della parte offesa fosse congruo e credibile. Nel caso che ci occupa il consenso prestato ab initio si è modificato in itinere nel corso della congiunzione carnale. Il consenso nel reato di violenza sessuale ha una particolare valenza strutturale, esso non è un consenso giustificante quale quello previsto dall’art. 50 c.p. ma ha carattere strutturante – c.d. consenso improprio – dal momento che se vi è consenso non vi è reato e non già se vi è consenso il reato è giustificato. I risvolti di detta distinzione sono anche di carattere processuale: in presenza di consenso c.d. improprio avremmo una pronuncia
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assolutoria perché il fatto non sussiste mentre nell’altro perché il fatto non costituirebbe reato con eventuale applicazione dell’erronea supposizione del consenso ex art. 59 comma IV c.p. Quanto alla doglianza mossa dai ricorrenti circa la disamina parcellizzata degli aspetti salienti del materiale probatorio essendo state tralasciate prove a discarico fondamentali. Nel valutare i fatti e le prove il Giudice del merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli stessi, né procedere ad una loro mera sommatoria. Deve valutare, anzitutto, i singoli elementi per verificarne la certezza, saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa, in una visione unitaria, risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Dalla lettura della sentenza in esame emerge che la Corte territoriale si è adagiata, apoditticamente, sul racconto della persona offesa senza affrontare le numerose questioni poste dagli imputati sulla credibilità di quest’ultima. Il compito del giudice di legittimità non è, quindi, quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì: di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, fornendone una corretta interpretazione; di dare esaustiva e convincente risposta alla deduzione delle parti; di applicare esattamente le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Il sindacato della Corte di cassazione sulla struttura logica del ragionamento probatorio e sull’osservanza delle regole di inferenza attraverso le quali esso si articola, trae base dall’esplicita previsione dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., come modificato dall’art. 8 della 1. n. 46 del 2006, che, col prevedere come vizio della sentenza la “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione”, ha l’indubbio effetto di sanzionare le violazioni dell’obbligo della motivazione e di elevare le regole della logica a regole giuridiche, alla cui osservanza è vincolato il Giudice di merito quando procede alla valutazione delle prove e alla ricostruzione del fatto. Lo scrutinio dei vizi logici della motivazione tende a verificare il grado di plausibilità razionale dell’asserzione probatoria ed a realizzare il sindacato ab estrinseco sul metodo di valutazione della prova. In altri termini, il controllo è esercitato accertando quali siano le regole logiche cui si è uniformato il ragionamento probatorio ed attuando il vaglio della struttura razionale della motivazione e della corrispondenza del discorso giustificativo ai comuni canoni epistemologici. In tale operazione deve tenersi costantemente presente che il controllo della motivazione è agganciato a specifiche regulae iuris che, pur avendo ad oggetto il giudizio sul fatto, si traducono in regole metodologiche a base del legale convincimento in fatto: sicché la decisione non conforme ai criteri ed al metodo prescritti dall’ordinamento giuridico è viziata da un error iuris poiché l’obbligo del Giudice di merito di dare al suo convincimento una base razionale si sostanzia nell’obbligo di rispettare norme e principi giuridici. Condividere quanto statuito dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, equivarrebbe ad accettare una “impotenza difensiva” dinnanzi a decisioni di merito contrassegnate da apparati argomentati ben confezionati nella forma, ma privi di reale corrispondenza con le risultanze del processo. Domenica Loredana Novia
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Corte di Giustizia Europea, Grande sezione, sentenze 20 marzo 2018 n° C-524/15, C-537/16, C/596-16 e C/597-16 – Pres. Lenaerts - Rel. von Danwitz Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2003/6/CE – Manipolazione del mercato – Sanzioni – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 50 – Principio del ne bis in idem – Natura penale della sanzione amministrativa – Esistenza di uno stesso reato – Articolo 52, paragrafo 1 – Limitazioni apportate al principio del ne bis in idem. L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. Il principio del ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferisce ai soggetti dell’ordinamento un diritto direttamente applicabile nell’ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale.
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La limitazione al ne bis in idem a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e dei mercati finanziari? Brevi cenni sulle recenti valutazioni della Corte di Giustizia Europea Con tre pronunce pubblicate in data 20 marzo 2018 la Corte di Giustizia europea in Grande Sezione è tornata in tema di ne bis in idem e specificatamente sulla sua applicabilità ai rapporti tra sanzioni penali e sanzioni amministrative. Nei casi di specie: - nella causa C/524-15: l’amministrazione finanziaria aveva inflitto al Ricorrente una sanzione amministrativa per omesso versamento dell’IVA per l’anno 2011, in seguito era stato avviato un procedimento penale per i stessi fatti davanti al Tribunale di Bergamo; - nella causa C/537-16: la CONSOB nel 2007 aveva inflitto una sanzione amministrativa a uno dei Ricorrenti per manipolazioni del mercato e nel corso del giudizio di Cassazione veniva rilevata presunta violazione del ne bis in idem, poiché lo stesso nel 2008 lo steso aveva già riportato condanna definitiva per i medesimi fatti; - nella causa C/596-16 e C/597-16: la CONSOB nel 2012 aveva inflitto sanzioni amministrative ai Ricorrenti per abuso di informazioni privilegiate. I ricorrenti nel corso del giudizio di Cassazione rilevavano che nel procedimento penale per i medesimi fatti avviato parallelamente al procedimento amministrativo, il Giudice penale aveva constatato che gli abusi di
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informazioni privilegiate non erano sussistenti. Dal punto di vista del diritto nazionale la sentenza di assoluzione passata in giudicato impedisce la prosecuzione del procedimento amministrativo per gli stessi fatti, tuttavia la Corte di Cassazione sottoponeva alla Corte di Giustizia europea la congruità al dettato della direttiva sui mercati finanziari (2004/39/EC). Date queste premesse, pare doveroso ricordare come il nucleo stanziale di detto principio fondamentale di diritto consista nel divieto di essere giudicati o condannati due volte per lo stesso reato sia riconosciuto tanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quanto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) e già plurime volte oggetto di vaglio da parte della Corte lussemburghese. Rileva all’analisi giurisprudenziale come il principio sia stato più volte riconsiderato dai Giudici, poiché la valutazione dell’identità dell’interesse giuridico tutelato da una norma figura tra gli elementi costitutivi del ne bis in idem solo nell’ambito dei procedimenti per la violazione delle regole sulla concorrenza, mentre tale profilo non viene preso in considerazione ove si tratti di affrontare i problemi legati alla possibile duplicazione dei procedimenti penali (Corte di giustizia, Aalborg Portland, C-204/00, C-205/00, C-211/00, C-213/00 e C-217/00, 7 gennaio 2004). Dal punto di vista ermeneutico occorre, infatti, recuperare due precedenti rilevanti in tema: la sent. C-617/10 - Åklagaren. C. Hans Åkerberg Fransson del 26.02.2013, ove il caso riguarda un pescatore svedese che avendo compiuto frode IVA aveva già subito una sanzione amministrativa punitiva per le cosiddette Tasse e Sovrattasse e si vedeva essere soggetto ad un procedimento penale per il medesimo fatto. La fattispecie addebitata al sig. Fransson era infatti c.d. a doppio binario, poiché la norma prevedeva al superamento di certe soglie di frode fiscale, l’addebito di responsabilità penale. Il Giudice nazionale svedese in dubbio se ciò fosse o meno legittimo rinviava in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La Corte riconfermando il divieto di ne bis in idem, attribuiva ai Giudici nazionali di comprendere la natura della sanzione amministrativa, mediante i criteri individuati nella sentenza “Bonda”, nei casi del c.d. doppio binario. La Corte stabiliva infatti che: «l’articolo 50 della Carta non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse e sanzioni penali. Infatti, per assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione, gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili. Esse possono quindi essere inflitte sotto forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due. Solo qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona. (…) Ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie, sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito e il terzo nella natura nonché nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (sentenza del 5 giugno 2012, Bonda, C-489/10, punto 37). Spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi del punto 29 della presente sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive». Dall’altra parte, la seconda pronuncia in tema che occorre richiamare è la sentenza c.d. Corte CEDU di Strasburgo (ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10) depositata il 4.03.2014 che si è specificatamente occupata dell’equiparazione del giudicato amministrativo e penale per la determinazione del ne bis in idem. La CEDU ritiene, infatti, prevalente la sostanza delle sanzioni sulla loro forma: la reale natura delle misure sanzionatorie previste negli ordina-
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La limitazione al ne bis in idem a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e dei mercati finanziari
menti nazionali viene apprezzata alla luce delle loro concrete peculiarità e conseguenze, non in forza di una mera qualificazione giuridica ad esse riconosciuta. In particolare, la Corte recuperando i c.d. “Criteri di Engels” (che rappresentano i corrispettivi CEDU dei criteri individuati nella sentenza “Bonda” da parte della Corte di giustizia Europea) che fungono da parametri idonei a rivelare la sostanziale essenza penale di un determinato provvedimento, determina il discrimen nella valutazione del c.d. doppio binario al fine dell’applicazione del divieto di ne bis in idem. Alla luce di questi principi la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarava incompatibile con la garanzia del ne bis idem, riconosciuta dall’art. 4, prot. 7, CEDU, il sistema di doppio binario, amministrativo e penale, attorno al quale è strutturata nel nostro Paese la repressione degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate dalla l. 18.4.2005, n. 62 al d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria T.U.F.) nella misura in cui tale sistema strutturalmente prevede la possibilità di un doppio procedimento sanzionatorio avente ad oggetto lo stesso fatto storico, pur se diversamente qualificato (come illecito amministrativo o come reato), poiché nella sostanza la sanzione amministrativa equiparabile ad una penale. Ritornando ai casi di recente vaglio da parte della Corte di giustizia, atteso che nel rinvio pregiudiziale delle richiamate cause in epigrafe le questioni oggetto di domanda riguardavano proprio la legittimità, alla luce del suddetto principio, di una normativa nazionale volta a consentire l’insinuazione di un doppio binario che non violasse il principio sostanziale e non meramente formale del ne bis in idem, i quesiti a cui la Corte ha dovuto porsi sono risultati i seguenti: I. l’ammissibilità dell’avvio di un procedimento penale a carico di un soggetto al quale fosse già stata comminata per gli stessi fatti una sanzione amministrativa definitiva (per omesso versamento dell’Iva, causa C-524/25); II. l’ammissibilità dell’avvio di un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per cui il medesimo soggetto avesse già riportato condanna penale irrevocabile (C-537/16); III. l’ammissibilità dell’avvio o della prosecuzione del procedimento finalizzato all’irrogazione di sanzioni da qualificarsi come penali per natura e gravità, in presenza di previo definitivo accertamento dell’insussistenza della condotta integrativa dell’illecito penale per i medesimi fatti (abuso di informazioni privilegiate, C-596-597/16 cause riunite). Inevitabilmente, dato il sostanziale divieto di cumulo si sanzioni penali, sia esse di natura criminale oppure di derivazione amministrativistica, per i medesimi fatti e nei confronti della stessa persona, la Corte europea si è preliminarmente interrogata proprio sulla natura penale o meno, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, della sanzione amministrativa pecuniaria e del procedimento amministrativo oggetto dei giudizi principali. Per quanto riguarda la valutazione della natura penale di procedimenti e di sanzioni come quelli, come anticipato, la Corte ha recuperato i c.d criteri Bonda, di cui si vuole offrire una breve analisi. Al fine della valutazione dell’omogeneità penale sostanziale tra le sanzioni che scaturiscono dai due procedimenti (penale e amministrativo) occorre rilevare: 1. qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale: ovvero qualificare dal punto di vista interno se alla sanzione è attribuita valenza penale, la cui funzione principale è quella afflittiva. La Corte CEDU si è più volte espressa sul concetto di “valenza penale” della controversia al fine di superare la varietà delle impostazioni di politica criminale seguite dai vari ordinamenti nazionali, con l’obiettivo di garantire all’individuo una protezione rafforzata di fronte all’esercizio dello ius puniendi da parte delle autorità statali: da questo punto di vista non rileva la qualificazione formale della sanzione ma occorre rilevare alla sua sostanza, verificando in concreto la sua finalità. Ne consegue che una sanzione avente finalità repressiva presenta natura penale ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e che la mera circostanza che essa persegua
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Giurisprudenza internazionale
parimenti una finalità preventiva non è idonea a privarla della sua qualificazione di sanzione penale. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 64 delle sue conclusioni, rientra nella natura stessa delle sanzioni penali che esse tendano sia alla prevenzione sia alla repressione di comportamenti illeciti. Per contro, una misura che si limiti a risarcire il danno causato dall’illecito in questione non riveste natura penale; 2. natura dell’illecito: la garanzia sancita all’articolo 4 del protocollo n.7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. In questa fase, gli elementi del fascicolo comprenderanno ovviamente la decisione con la quale si è concluso il “primo” procedimento penale e la lista delle accuse mosse o degli illeciti attribuiti nei confronti dal ricorrente nell’ambito del nuovo procedimento. Tali documenti includono ovviamente un’esposizione dei fatti relativi all’illecito per cui il ricorrente è già stato giudicato e una descrizione del secondo illecito di cui è accusato. Per l’accertamento della sussistenza dell’idem factum occorre, quindi, fare riferimento esclusivamente al criterio della identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato, essendo a tal fine irrilevante la qualificazione giuridica data a quel fatto dall’ordinamento nazionale; 3. grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere: occorre rilevare che una sanzione amministrativa pecuniaria che può raggiungere l’importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito con la condotta illecita (per es. manipolazioni di mercato) presenta un grado di gravità elevato, tale da corroborare la tesi secondo cui tale sanzione riveste natura penale ai sensi dell’articolo 50 della Carta, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare. In ogni caso, spetta al giudice nazionale verificare se tali requisiti siano soddisfatti nei casi di specie e del pari sincerarsi che gli oneri risultanti concretamente da detto cumulo a carico dell’interessato non siano eccessivi rispetto alla gravità dell’illecito commesso. La Corte dichiara, che i requisiti cui il diritto dell’Unione assoggetta un eventuale cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale garantiscono un livello di tutela del principio del ne bis in idem che non disconosce quello garantito dalla CEDU. Sulla base delle menzionate considerazioni, la Corte rileva, nella sentenza C/524-16, che l’obiettivo consistente nell’assicurare la riscossione integrale dell’IVA dovuta nei territori degli Stati membri è idoneo a giustificare un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale. Con riguardo alla normativa nazionale che consente di avviare procedimenti penali anche dopo l’irrogazione di una sanzione amministrativa di natura penale definitiva, la Corte osserva che, con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, detta normativa consente segnatamente di garantire che il cumulo di procedimenti e di sanzioni che essa autorizza non ecceda quanto è strettamente necessario ai fini della realizzazione dell’obiettivo. Nella sentenza C/537/16, la Corte constata invece che l’obiettivo di tutelare l’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e la fiducia del pubblico negli strumenti finanziari è idoneo a giustificare un cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale. Nondimeno, essa osserva che, con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, la normativa italiana che sanziona le manipolazioni del mercato non sembra rispettare il principio di proporzionalità. Tale normativa nazionale, infatti, autorizza l’avvio di un procedimento amministrativo di natura penale per i medesimi fatti che hanno già costituito l’oggetto di una condanna penale. Orbene, la sanzione penale sembra essere idonea a reprimere essa stessa l’infrazione in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. In condizioni del genere, proseguire un procedimento amministrativo di natura penale per i medesimi fatti che hanno già costituito oggetto di una simile condanna penale eccederebbe quanto strettamente necessario a conseguire l’obiettivo di tutela dei mercati. Più precisamente, la Corte afferma: «Ciò considerato, risulta che la normativa nazionale di cui al
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procedimento principale consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale ai sensi dell’articolo 50 della Carta nei confronti di una persona […] per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato per le quali è già stata pronunciata a suo carico una condanna penale definitiva. Orbene, un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni costituisce una limitazione del diritto garantito da detto articolo 50. Risulta comunque al contempo riconosciuta agli Stati membri la facoltà di prevedere comunque il doppio binario penale ed amministrativo per reprimere un medesimo fatto: il cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale ed amministrativa può essere giustificato qualora tali procedimenti e tali sanzioni perseguano, ai fini del conseguimento di un simile obiettivo, scopi complementari riguardanti, eventualmente, aspetti diversi del medesimo comportamento illecito interessato, circostanza che spetta al Giudice del rinvio verificare». Tuttavia, il doppio binario deve pur sempre garantire il rispetto del principio di proporzionalità, il quale impone che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale «non ecceda i limiti di ciò che è idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti da tale normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati dalla stessa non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti». In definitiva, la presenza di una sentenza di patteggiamento passata in giudicato, a detta della Corte, di fatto già di per sé potrebbe denotare l’insussistenza di tale presupposto, qualora si riscontri che la sentenza stessa sia già di per sé idonea a reprimere il reato contestato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. Mentre, infine, la Corte nella sentenza delle cause riunite C-596/16 e C-597/16 precisa che laddove vi sia una sentenza penale definitiva di assoluzione che dichiara l’assenza dell’infrazione, la prosecuzione di un procedimento di sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale sarebbe incompatibile con il principio del ne bis in idem, poiché in una situazione simile, la prosecuzione di tale procedimento eccederebbe manifestamente quanto necessario per conseguire l’obiettivo di proteggere l’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e la fiducia del pubblico negli strumenti finanziari. In definitiva, nonostante la CEDU con la sentenza “Grande Stevens” avesse di fatto consacrato quale fondamento di diritto sostanziale a il principio del ne bis in idem, qualità che in parte era già stata evidenziata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza “Fransson”, allo stesso modo le ricadute concrete sono state deboli e queste non sono andate a risolvere il problema della valutazione in concreto del doppio binario, il quale pare venire risolto con il principio della deduzione applicativa, ovvero valutare se il cumulo delle pene (penale e amministrativa) rispetti il principio della proporzione, rispetto alla finalità che il Legislatore (nazionale) intende perseguire, rimettendo quindi molte valutazione nella logica della politica criminale. D’altra parte, come molto spesso accade per i principi affermati dalla giurisprudenza europea, anche il ne bis in idem nel c.d diritto vivente subisce oggi una parabola discendente nella sua affermazione, tanto che la Corte dei Diritti dell’Uomo è pure giunta a negarlo nella sentenza del 15.11.2016 (Grande Camera), sent. 15 novembre 2016, A E B C. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11, ritenendo ammissibile una doppia sanzione se complessivamente ciò non risulti iniquo. Andrea Racca
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Giurisprudenza
europea
Corte di Giustizia UE, 17 aprile 2018, n. C-414/16, Pres. Lenaerts - Rel. Biltgen Attività lavorativa – discriminazione – religione – Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista – Parità di trattamento: la religione potrebbe essere motivo discriminante La Corte di Giustizia UE, con sentenza del 17 aprile 2018, nella causa C 414/16 ha dichiarato che una Chiesa o un’altra organizzazione la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali può prevedere un requisito connesso alla religione o alle convinzioni personali qualora, tenuto conto della natura dell’attività di cui trattasi o del contesto in cui essa è espletata, “la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione”. In caso di controversia, un bilanciamento dei diritti delle parti, deve poter essere oggetto, se del caso, di un controllo giurisdizionale effettivo. Con sentenza relativa alla causa C-414/16 del 17 aprile 2018, la Corte Europea di Giustizia, decidendo su un ricorso che ha visto coinvolta una Chiesa Evangelica tedesca, ha affermato che le organizzazioni e le Chiese che hanno tra i loro valori fondanti la religione, possono subordinare l’instaurazione di un rapporto di lavoro con tali requisiti, soltanto se essenziali per lo svolgimento della prestazione lavorativa. Il giudice è tenuto a disapplicare l’eventuale diritto interno contrario alla Direttiva comunitaria sul divieto di discriminazione.
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Discriminazione religiosa in ambito lavorativo e necessaria parità di trattamento Sommario: 1. Il fatto. – 2. La sentenza. – 3. Il caso trattato dalla Corte. – 4. La questione. – 5. Il quadro normativo comunitario. – 6. Non può demandarsi all’organizzazione religiosa il controllo dei requisiti. – 7. La necessità di un controllo giurisdizionale effettivo. – 8. Come interpretare i requisiti che giustificano una disparità di trattamento? – 9. Concludendo.
1. Il fatto. Una donna tedesca risponde ad un’offerta di lavoro proposta da una Chiesa evangelica, pur non possedendo il requisito richiesto dell’appartenenza alla chiesa stessa o ad un ente dell’associazione delle chiese cristiane tedesche. La donna, non invitata a prendere parte al colloquio, presenta ricorso al Tribunale del lavoro di Berlino, al fine di veder riconosciuto un risarcimento del danno sulla base della discriminazione subita a causa della sua non appartenenza religiosa. In grado di appello, la Corte federale del lavoro, investita della questione, solleva alla CGUE una questione interpretativa in ordine all’art. 4 della direttiva 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
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2. La sentenza. La Corte di Giustizia afferma che l’art. 4 della citata direttiva 2000/78/CE, secondo una lettura che tenga in considerazione le altre norme comunitarie inerenti il divieto di discriminazione, concede alla chiesa o alle altre organizzazioni fondate sulla religione la possibilità di subordinare l’assunzione di un dipendente all’esistenza di requisiti quali le convinzioni personali od il credo. Condicio sine qua non per l’esercizio di detto potere, però, è che, per la natura delle attività di cui trattasi o per il contesto in cui tali attività devono essere espletate, la religione costituisca un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il suddetto requisito, oltre ad essere conforme al principio di proporzionalità, deve essere necessario ed oggettivamente dettato, tenuto conto dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione di cui trattasi, dalla natura o dalle condizioni di esercizio dell’attività professionale in questione, e non può includere considerazioni estranee a tale etica o al diritto all’autonomia di detta Chiesa o di detta organizzazione. Per non incorrere in una discriminazione fondata sul credo religioso vietata dal diritto comunitario è necessario, altresì, che l’aspirante al posto di lavoro possa ricorrere in sede giurisdizionale, ove il giudice nazionale, qualora non gli sia possibile interpretare il diritto interno vigente in modo conforme all’articolo 4 della citata direttiva 2000/78, deve provvedere a disapplicare qualsivoglia disposizione contraria al principio di non discriminazione.
3. Il caso trattato dalla Corte. La fattispecie vedeva l’Opera della Chiesa evangelica tedesca pubblicare un’offerta di lavoro per un progetto relativo alla stesura di una relazione sulla convenzione internazionale sull’eliminazione delle discriminazioni razziali. In tale offerta si richiedeva come requisiti sia l’appartenenza ad una Chiesa evangelica o ad una Chiesa rientrante nell’Associazione delle Chiese cristiane in Germania, sia di indicare la confessione religiosa. Una cittadina non appartenente ad alcuna confessione ha avanzato la propria candidatura e, vedendosi negato il posto di lavoro, ritenendo che la candidatura fosse stata respinta per la mancata appartenenza ad una confessione religiosa, ha promosso ricorso al Tribunale del lavoro, eccependo il divieto di discriminazione previsto dalla legge generale tedesca sulla parità di trattamento che recepisce la direttiva 2000/78.
4. La questione. La causa, in seguito all’appello dell’Opera della Chiesa evangelica, giungeva davanti alla Corte federale del lavoro che ha rinviato alla Corte di Giustizia la questione se la distinzione a seconda dell’appartenenza religiosa sia o meno lecita a seconda dell’interpretazione dell’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 che è volta a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate, in particolare, sulla religione o sulle convinzioni personali per quanto riguarda l’occupazione e le condizioni di lavoro, allo scopo di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento sancito dall’art. 21 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali – direttiva trasposta nella legge tedesca sulla parità di trattamento.
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Discriminazione religiosa in ambito lavorativo e necessaria parità di trattamento
5. Il quadro normativo comunitario. L’art. 4 di tale direttiva consente agli Stati membri di stabilire che una differenza di trattamento basata su religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione nel caso in cui, «per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato». Pertanto, in forza del c.d. privilegio di autodeterminazione delle Chiese, sarebbe conforme al diritto comunitario una previsione legislativa che preveda una differenza di trattamento in base alla religione o alle convinzioni personali purché per la natura delle attività professionali o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali integrino un «requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione».
6. Non può demandarsi all’organizzazione religiosa il controllo dei requisiti. La Corte di Giustizia, in primo luogo, osserva che, in forza di un principio di coerenza e di ragionevolezza della norma, affinché quanto previsto dal citato art. 4 della direttiva conservi un significato, la verifica sul rispetto dei criteri previsti per ritenere legittima una differenza di trattamento su base confessionale non può essere demandato alla Chiesa o all’organizzazione che intende mettere in atto una differenza di trattamento, ma ad un’autorità indipendente.
7. La necessità di un controllo giurisdizionale effettivo. Secondo la Corte, l’art. 4 della direttiva 2000/78 mira ad assicurare un giusto equilibrio tra il diritto all’autonomia delle Chiese e delle altre organizzazioni la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, da un lato, e il diritto del lavoratore a non essere oggetto al momento della sua assunzione di una discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dall’altro. Poiché tale bilanciamento deve effettuarsi sulla base dei criteri stabiliti dalla stessa norma (ossia che la religione o le convinzioni personali costituiscano un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa) gli Stati membri devono sottoporre ad un controllo giurisdizionale effettivo il rispetto di tali criteri.
8. Come interpretare i requisiti che giustificano una disparità di trattamento? Infine, la Corte di Giustizia fornisce le indicazioni ermeneutiche necessarie per accertare quando, in concreto, la religione o le convinzioni personali integrino un requisito essenziale. In primo luogo la legittimità di una differenza di trattamento è subordinata all’esistenza oggettivamente verificabile di un nesso diretto tra il requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa imposto dal datore di lavoro e l’attività in questione, derivante dalla natura di tale attività o dalle condizioni in cui tale attività deve essere espletata. Inoltre, il carattere «essenziale» del requisito deve essere interpretato, secondo la Corte, nel senso che l’appartenenza alla religione o l’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione deve apparire necessaria per l’affermazione di tale etica o l’esercizio da parte di tale Chiesa o di tale organizzazione del proprio diritto all’autonomia. Con la previsio-
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ne del carattere «legittimo» del requisito relativo all’appartenenza alla religione si intende che tale appartenenza non deve essere piegata ad una finalità estranea all’etica della stessa Chiesa. Dunque, il carattere «giustificato» del requisito comporta che il controllo del rispetto dei criteri possa essere effettuato sia da un giudice nazionale, sia dalla stessa Chiesa che ha previsto tale requisito, la quale deve provare che il presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio, tanto da rendersi necessaria l’introduzione di un tale requisito discriminatorio.
9. Concludendo. In conclusione, secondo la Corte, l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che, conformemente al principio di proporzionalità (quale principio generale del diritto comunitario), il requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, per cui sia lecita la disparità di trattamento, deve essere costituito da un requisito necessario e oggettivamente dettato dalla natura o dalle condizioni di esercizio dell’attività professionale in questione, senza che possa comprendere considerazioni estranee all’etica della Chiesa.
Antonio De Lucia
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europea
CEDU, Sez. I, 22 febbraio 2018, Richiesta n. 65173/09 – Pres. Linos-Alexandre Siciliano Art. 6 CEDU – Diritto all’equo processo – Riqualificazione giuridica del fatto – Art. 630 c.p.p. – Corruzione in atti giudiziari – Diritto di difesa – Revisione europea Le disposizioni dell’art. 6, comma 3, lett. a), non impongono alcuna forma particolare riguardo al modo in cui l’imputato deve essere informato della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico*.
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Corte EDU: caso Drassich c. Italia (n. 2) Sommario: 1. Il “caso Drassich n. 1”. – 2. Il “caso Drassich n. 2”. – 3. La decisione della Corte.
1. Il “caso Drassich n. 1”. L’imputato era stato accusato di corruzione (art. 319 c.p.) nei primi due gradi di giudizio; impugnando la sentenza della Corte di Appello di Venezia, questi aveva sostenuto l’avvenuta prescrizione del reato de quo. I giudici di legittimità, ai sensi dell’art. 521, comma 1, c.p.p. avevano riqualificato il fatto come “corruzione in atti giudiziari” (art. 319 ter c.p.), che prevede un termine di prescrizione più ampio, negando, quindi, l’applicabilità della causa estintiva. Drassich è ricorso alla Corte Edu denunciando la violazione dell’art. 6, commi 1 e 3, lett. (a) e (b) della Convenzione sulla base del fatto che egli non fosse stato informato dettagliatamente della natura e dei motivi dell’accusa a suo carico e non avesse avuto il tempo e i mezzi necessari per preparare la sua difesa a causa della riqualificazione del reato da parte della Cassazione. I giudici di Strasburgo, con sentenza dell’11 dicembre 2007, hanno acclto il ricorso dell’imputato, statuendo che, nel caso di condanna in seguito a una procedura che non abbia rispettato i requisiti di cui all’art. 6 della Convenzione, per rimediare alla violazione un possibile mezzo appropriato sia un nuovo processo o la riapertura del procedimento.
2. Il “caso Drassich n. 2”. Sulla base di tale sentenza, il 19 febbraio 2008 l’imputato ha depositato una domanda presso la Corte d’Appello di Venezia per ottenere l’annullamento della sua condanna e, in subordine, l’annullamento della parte riguardante gli atti di corruzione in atti giudiziari. La Corte d’appello di Venezia, dopo aver riconosciuto l’interesse del ricorrente ad agire e dichiarare la condanna inapplicabile (per la parte relativa agli atti di corruzione), ha ritenuto che fosse necessario un rimedio restitutorio pieno, vale a dire una decisione che dichiarasse il reato di
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Non si tratta di “massima” nel senso tecnico del termine, ma di un estratto, ritenuto rilevante, della sentenza in commento
Giurisprudenza europea
corruzione prescritto. Pertanto, i giudici d’Appello hanno trasmesso il fascicolo alla Corte di Cassazione per determinare le modalità di adeguamento del procedimento in corso alla sentenza resa dalla Corte EDU. La Corte di legittimità ha ritenuto che lo strumento utilizzabile, in assenza di altri rimedi all’epoca percorribili1, fosse il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 625-bis c.p.p.2. É stato, pertanto, riaperto il processo sulla base del mezzo indicato e con sentenza del 25 maggio 2009, depositata in cancelleria il 18 settembre 2009, la Corte di Cassazione, precisando che l’imputato fosse stato informato della riqualificazione dei fatti con decisione del 12 novembre 2008 e avesse anche avuto il tempo sufficiente per preparare la sua difesa, ha ritenuto che i fatti fossero stati correttamente e logicamente stabiliti dalla Corte d’Appello configurandoli come corruzione in atti giudiziari. Pertanto, non essendo intervenuta la prescrizione, la Corte ha respinto l’impugnazione dell’imputato. Il 29 luglio 2011, Drassich ha nuovamente presentato un ricorso di revisione ai sensi del dell’art. 630 c.p.p., come modificato in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale 73/2011. Il 15 maggio 2013, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso dell’opponente e confermato la sentenza impugnata. L’imputato ha deciso, così, di ricorrere nuovamente alla Corte EDU, lamentando che la Corte di Cassazione avesse nuovamente violato l’art. 6 della Convenzione per non aver garantito i propri diritti al contraddittorio ed alla difesa; egli ha sostenuto, in particolare, di non essere stato adeguatamente informato sulla natura e sui motivi dell’accusa a suo carico e di non aver potuto preparare adeguatamente la propria difesa.
3. La decisione della Corte. La Corte EDU premette che l’equità del processo deve essere valutata alla luce del procedimento nel suo insieme3. Inoltre, precisa che l’art. 6, comma 3, lettera a), della Convenzione richiede un’estrema attenzione nel portare a conoscenza la persona interessata delle “accuse” a suo carico. Tuttavia, i giudici di Strasburgo ribadiscono che tali disposizioni “non impongono alcuna forma particolare sulle modalità attraverso le quali l’imputato debba essere informato della natura e dei motivi dell’accusa”4. Riguardo al caso in esame, in primo luogo la Corte EDU analizza le motivazioni per la riapertura del processo e le informazioni contenute nella sentenza della Corte di Cassazione del 2008, notando che il ricorrente sia stato in grado di prevedere la possibile riqualificazione giuridica dei fatti addebitatigli. Quanto all’argomento secondo cui il principio del contraddittorio non sarebbe stato rispettato in considerazione dell’impossibilità di discutere questioni di fatto davanti Corte di Cassazione, la Corte evidenzia che nei cinque mesi successivi alla revoca parziale della condanna e alla riapertura del processo, i difensori
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Si ricorda che al momento della sentenza della Corte EDU sul “caso Drassich n. 1”, nel nostro ordinamento non era prevista a livello normativo la possibilità di chiedere una revisione del processo sulla base di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Solo successivamente, con sentenza n.73 del 7 aprile 2011 della Corte costituzionale, l’articolo 630 c.p.p. (rubricato “casi di revisione”) è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevedeva la possibilità di chiedere una revisione della sentenza al fine di ottenere la riapertura del processo per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo. L’art. 630 c.p.p. prevede, quindi, attualmente la possibilità di revisione del processo sulla base di una sentenza della Corte EDU, c.d. “revisione europea”. 2 Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 2008, Drassich, in Cass. pen., 2009, 1457. 3 Cfr. CEDU, Miailhe c. Francia (n.2), 26 settembre 1996, para. 43. 4 CEDU, Drassich c. Italia (n.2), para 66.
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Corte EDU: caso Drassich c. Italia (n. 2)
dell’imputato abbiano potuto depositare ben due memorie scritte e tenere una discussine orale davanti alla Corte di Cassazione. Inoltre, i giudici di Strasburgo segnalano che l’imputato nelle proprie difese non abbia mai contestato, neanche in via subordinata, il modo in cui il Tribunale e la Corte d’appello avevano accertato i fatti della causa; né dall’analisi del fascicolo emerge che l’imputato abbia mai richiesto la riapertura del dibattimento al fine di ottenere nuovi elementi a discarico. Considerato ciò, a parere della Corte EDU, nemmeno poteva richiedersi alla Corte di Cassazione il rinvio della causa ad un tribunale di merito di propria iniziativa. Per tali ragioni, la Corte EDU conclude ritenendo che non siano stati trascurati i diritti del ricorrente ad essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico e ad avere avuto tempo e mezzi adeguati per la preparazione della propria difesa e ha rigettato, pertanto, il ricorso. Marta Patacchiola
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Osservatorio
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La giurisdizione universale per le azioni civili di risarcimento danni per violazioni dei diritti umani: alcuni limiti dalla Corte Suprema USA Marta Patacchiola Lo scorso 24 aprile la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito nella causa Jesner v. Arab Bank1 che davanti alle corti USA alle società straniere (non statunitensi) non possono essere richiesti i danni civili da parte di cittadini stranieri per gravi violazioni del diritto internazionale. Il caso origina da un’azione avviata sulla base dell’Alien Tort Statute (ATS) da parte di alcuni soggetti nei confronti della Arab Bank, un istituto finanziario giordano con una filiale a New York che, secondo i ricorrenti, avrebbe in parte finanziato o facilitato atti terroristici all’estero, nei quali gli stessi erano rimasti (direttamente o indirettamente) coinvolti. Gli attori, in particolare, hanno tentato di imputare la responsabilità alla banca per le condotte dei propri dipendenti; questi ultimi, attraverso la filiale di New York avrebbero cancellato le transazioni denominate in dollari in favore dei terroristi tramite il Sistema Clearing House Interbank Payments (CHIPS) e riciclato denaro per un ente benefico con sede in Texas, presumibilmente affiliato ad Hamas. Occorre ricordare che nelle more del contenzioso in esame, la Corte Suprema aveva esteso una decisione, Kiobel v. Royal Dutch Petroleum Co.2, nella quale era stato precisato che non si può invocare l’ATS nelle cause contro le società straniere quando “tutta la condotta rilevante è avvenuta fuori dagli Stati Uniti”3. Con la sentenza Jesner i giudici federali si spingono oltre, statuendo che le imprese straniere non possono essere chiamate in giudizio attraverso l’ATS. Nello specifico, la Corte ha dichiarato che la responsabilità per danni causati dalla violazione del diritto internazionale può tutt’al più applicarsi alle persone fisiche e alle società degli Stati Uniti. La Corte ha raggiunto tale decisione con cinque giudici favorevoli, due dei quali hanno scritto pareri concorrenti, concordando con la conclusione ma sulla base di diverse motivazioni, e quattro dissenzienti. L’opinione di maggioranza ha evidenziato come, ai fini del decidere, siano stati presi in considerazione due fattori principali: il principio della separazione dei poteri ed il potenziale impatto della
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Corte Suprema Usa, Jesner et al. v. Arab Bank, Plc. 16-499. Discussa 11 ottobre 2017 - Decisa 24 aprile 2018. Il caso riguardava dei cittadini nigeriani residenti negli Stati Uniti che avevano citato per danni davanti ad un tribunale, federale ai sensi dell’ATS, alcune società olandesi, britanniche e nigeriane con l’accusa di aver aiutato il governo nigeriano a commettere violazioni del diritto internazionale in Nigeria. Kiobel, individually and on behalf of her late husband kiobel, et al. v. Royal Dutch Petroleum co. et al. No. 10-1491. Discussa 28 febbraio 2012 - Decisa 17 aprile 2013. 3 Jesner et al. V. Arab Bank, p. 124. 2
Osservatorio internazionale
sentenza sugli interessi delle società statunitensi. Infatti, quanto al primo argomento, i giudici segnalano che la creazione di una causa di azione nei confronti di società straniere inciderebbe sull’autorità degli altri due poteri dello Stato. La Corte mette in dubbio il potere dei tribunali di estendere o introdurre nuove cause di azione private anche nel campo della domestic law, preferendo lasciare la scelta, per questioni di opportunità, al potere legislativo4. Inoltre, riguardo al secondo fattore, stante la mancanza di accordo a livello internazionale sul riconoscimento della giurisdizione universale per la responsabilità d’impresa, la Corte ha analizzato le conseguenze di una sentenza a favore di tale riconoscimento sulle relazioni con gli altri Stati. In particolare, il rischio nell’affermare la responsabilità delle società estere sarebbe insito nella circostanza che tale assunto potrebbe dare adito ad altri Paesi di ritenere responsabili le società statunitensi davanti ai propri tribunali nazionali5. I giudici, soppesando le conseguenze negative di una tale possibilità sugli investimenti esteri e sulle relazioni internazionali, hanno ritenuto che il Congresso fosse l’organo più adatto e con le “strutture necessarie” per prendere decisioni politiche comportanti possibili discordie internazionali ovvero azioni di rivalsa6. Il caso in esame si inserisce nel dibattito riguardante la giurisdizione universale in relazione alle richieste civili di risarcimento per i danni subiti a causa della violazione dei diritti umani. Come anticipato, l’argomento è oggetto di diverse interpretazioni a livello internazionale. Gli Stati Uniti riconoscono la giurisdizione delle corti federali per “qualsiasi azione civile da parte di uno straniero solo per un atto illecito, commesso in violazione del diritto internazionale o di un trattato degli Stati Uniti”; unico requisito è che l’atto impugnato sia stato commesso nel territorio degli Stati Uniti o da un cittadino di quello Stato7. Attualmente, i Paesi Bassi sono l’unico Paese a riconoscere la giurisdizione civile universale per il risarcimento, ma solo per i danni causati da atti di tortura. Ad esempio nel caso Akpan8, il tribunale olandese ha accordato il risarcimento in favore di soggetti di etnia Ogoni nei confronti di una controllata della società olandese Shell, ritenendo che avesse violato il suo obbligo di fornire protezione alla popolazione, ai sensi della legge nigeriana, nel corso delle sue attività di estrazione del petrolio. In Italia non si rilevano una normativa ad hoc né “una chiara giurisprudenza che riconosca la giurisdizione universale dei tribunali civili per le richieste di risarcimento in caso di crimini contro l’umanità”9. Un precedente potrebbe forse essere rappresentato dal caso Ferrini10, nel quale la Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità della Germania per l’arresto del ricorrente in Italia e la sua deportazione in Germania durante la seconda guerra mondiale. Tuttavia, nel nostro Paese, come rilevato anche dalla Corte Edu nel caso Naït-Liman v. Switzerland, la strada verso il riconoscimento di una giurisdizione civile universale per violazione del diritto internazionale è ancora alle prime fasi11.
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Jesner et al. V. Arab Bank, p. 124. Ibidem, p. 24 ss. 6 Ibidem. 7 Sul punto si rimanda alla ricostruzione di alcune giurisdizioni europee ed extraeuropee in tema di risarcimento per i danni causati da atti di tortura effettuata dai giudici della Corte EDU nella decisione Naït-Liman v. Switzerland del 15 marzo 2018, para. 69 ss. 8 Causa C / 09/337050/HA, 30 gennaio 2013. 9 Corte EDU, Naït-Liman v. Switzerland, para. 79. 10 Cass, 6 novembre 2003 - 11 marzo 2004, n. 5044. 11 Corte EDU, Naït-Liman v. Switzerland, para. 79. 5
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Osservatorio
nazionale
Inapplicabilità regola Taricco sulla prescrizione - Comunicato del 10/04/2018 Miriam Ferrara Come ormai noto, il diritto penale sta vivendo una fase di profonda trasformazione mossa dalle spinte internazionali ed europee. Tali spinte possono avere tanto effetti limitativi quanto espansivi. Nonostante rappresentino casi più marginali, gli effetti espansivi della potestà punitiva nazionale ad opera dell’Unione Europea sono il risultato della consacrazione di “nuovi” diritti, che devono essere opportunamente tutelati dagli ordinamenti nazionali attraverso misure efficaci ed adeguate. Il “Caso Taricco”, che, come si vedrà, ha avuto l’effetto di ampliare l’area del penalmente rilevante, si inserisce quindi in un’ottica di evoluzione della materia penale. Il dieci aprile 2018 la Corte Costituzionale pare aver finalmente messo un punto alla vicenda iniziata con l’ordinanza del Tribunale di Cuneo del 17/01/2014. Prima di procedere all’analisi dell’ultimo dictat della Consulta, appare opportuno chiarire brevemente i termini della questione. In primo luogo è fondamentale ricordare il significato attribuito all’espressione “Regola Taricco”. Con tale formula ci si riferisce al principio affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea1 secondo il quale i giudici nazionali, in esecuzione dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, non dovrebbero applicare la normativa italiana in materia di prescrizione, stabilita dal combinato disposto degli artt. 160 ultimo comma e 161 c.p., ai procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA quando riscontrino che, in un numero significativo di casi gravi, la disciplina italiana in tema di prescrizione osterebbe ad un’adeguata repressione delle condotte fraudolenti. Pertanto, la Corte sovranazionale, nella sentenza c.d. “Taricco I”, ribadendo il primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale, ha ritenuto che la normativa italiana in materia di prescrizione non consente, in alcuni casi, di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari dell’Unione (nel caso di specie l’interesse alla riscossione dell’IVA) imposti dall’art. 325 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea2, poiché, a causa del termine
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Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione), 08/09/2015, in causa C-105/14. Art. 325 TFUE 1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. 3. Fatte salve altre disposizioni dei trattati, gli Stati membri coordinano l’azione diretta a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione contro la frode. A tale fine essi organizzano, assieme alla Commissione, una stretta e regolare cooperazione tra le autorità 2
Osservatorio nazionale
prescrizionale eccessivamente breve, non vengono in concreto assicurate sanzioni dissuasive ed efficaci. A partire dalla sentenza del 2015 è quindi iniziato un acceso dibattito sia nazionale che sovranazionale, avente ad oggetto alcuni dei principi fondamentali del diritto penale e dell’ordinamento costituzionale in generale. Prima di analizzare i singoli principi chiamati in causa sia dalla giurisprudenza di merito che da quella di legittimità, è fondamentale capire l’origine del contrasto. A parere di chi scrive, tutto nasce dalla diversa natura giuridica attribuita all’istituto della prescrizione dalla giurisprudenza costituzionale da un lato, e da quella europea dall’altro. Difatti, mentre secondo la tradizione giuridica italiana la prescrizione è un istituto di diritto sostanziale che incide sulla punibilità e che conseguentemente ricade nella copertura costituzionale dell’art. 25 Cost., per effetto del quale non è ammessa la disapplicazione in malam partem, la Corte di Giustizia considera invece la stessa un istituto di diritto processuale, alla stregua delle condizioni di procedibilità, che pertanto attiene all’azione penale e non alla struttura del reato e al quale non si applica il principio del nullum crimen sine lege, con conseguente possibilità di applicazione retroattiva sfavorevole delle norme. Pertanto, secondo parte della giurisprudenza e della dottrina italiana, la sentenza “Taricco I”, imponendo ai giudici nazionali di disapplicare l’art. 161 comma c.p., compromette il principio di legalità nelle sue varie declinazioni. In primo luogo sarebbe leso il principio di irretroattività sancito dagli artt. 25 Cost. e 1 c.p., dal momento che la Corte impone l’applicazione di una normativa più sfavorevole a fatti commessi durante la vigenza di una disciplina più vantaggiosa per l’imputato. In secondo luogo, stando alla lettera della sentenza in esame, sarebbe violato anche il principio di tassatività, in quanto l’applicazione di un altro termine prescrizionale dipenderebbe dalla discrezionalità del singolo giudice, soprattutto in ragione dell’utilizzo di concetti estremamente indeterminati quali quello di “numero significativo” e di “gravità della frode”. Partendo da queste considerazioni, sia la Corte di Appello di Milano nel 20153 che la Corte di Cassazione nel 20164 hanno sollevato questione di legittimità costituzionale, chiedendo alla Consulta da un lato di opporre la teoria dei contro-limiti5, dall’altro di chiarire le zone oscure della “Taricco I”. In particolare, le questioni sollevate dalla Corte nomofilattica possono brevemente riassumersi in tre punti.
competenti. 4. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, previa consultazione della Corte dei conti, adottano le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 5. La Commissione, in cooperazione con gli Stati membri, presenta ogni anno al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sulle misure adottate ai fini dell’attuazione del presente articolo. 3 C. App. Milano, sez. 2, ord. 18.09.2015. 4 Cass. pen., sez. III, ord. 30 marzo 2016 (dep. 8 luglio 2016), n. 28346. 5 Per una definizione si vedano le Sentenze della Corte Costituzionale n.49/1979 e n.73/2001. “...i princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un limite all’ingresso [...] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’articolo 10, primo comma, della Costituzione”.
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Inapplicabilità regola Taricco sulla prescrizione - Comunicato del 10/04/2018
Anzitutto si chiede di chiarire sulla base di quali conoscenze un giudice di merito dovrebbe ritenere che l’attuale disciplina sulla prescrizione determini l’impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive, posto che ciò presuppone la conoscenza di dati statistici nazionali aventi ad oggetto la percentuale di reati di frode IVA che si concludono con una declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Secondariamente, la Corte invita a specificare quale parametro utilizzare per valutare la gravità della frode; in tale contesto, alcuni si sono domandati se è possibile applicare come soglia minima di gravità quella prevista dall’art. 2 della Direttiva PIF 20176, dovendo il giudice nazionale in tale evenienza disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p. quando il valore della frode supera i 10.000.000 euro. Infine, qualora la disapplicazione delle regole prescrizionali in malam partem fosse ritenuta lecita dalla Consulta, la Cassazione pone una questione di efficacia temporale, domandando se la “Regola Taricco” possa essere applicata anche per reati commessi prima dell’entrata in vigore di tale novum, ovvero prima della “Taricco I”, non ancora giudicati in via definitiva. Consapevole dell’importanza che avrebbe avuto una risposta definitiva alle questioni sopra citate, prima di pronunciarsi la Corte Costituzionale ha nuovamente rimesso alla Corte di Giustizia una doppia questione interpretativa, avente ad oggetto il principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie e il principio di determinatezza. A dispetto dei più scettici, la Corte Europea, con la sentenza c.d. “Taricco II” del 5/12/2017, ha fatto un passo indietro e ha adottato una soluzione estremamente diplomatica, che sarà poi la base giustificativa della decisione presa dalla Consulta nel comunicato in esame. In particolare, dopo aver ribadito il principio di assimilazione stabilito nell’art. 325 TFUE e l’obbligo per il legislatore nazionale di adottare norme in materia di prescrizione che consentano di ottemperare gli obblighi scaturenti dall’articolo prima citato, la CGUE ha affermato l’importanza cruciale del principio di legalità in tutte le sue declinazioni all’interno degli ordinamenti costituzionali degli Stati Membri. Posto che per un’analisi compiuta è necessario attendere il deposito delle motivazioni della Consulta, da quanto emerge nel Comunicato della Corte Costituzionale, questa sembra riprendere fedelmente le conclusioni della Corte Europea laddove afferma che “l’articolo 325 TFUE (come interpretato dalla Corte di Giustizia nel 2015) non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 (e dunque nei giudizi a quibus) né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale”7. La “Regola Taricco” non è quindi applicabile in due casi: ai fatti commessi prima della “Taricco I” e quando il giudice nazionale constata un contrasto con il principio di legalità. Per quanto riguarda il primo caso, è chiaro come la Corte, sempre sulla scia delle conclusioni della “Taricco II”, afferma la primazia del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole ex art. 2 comma 1 della Cost.
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“In materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA, la presente direttiva si applica unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA. Ai fini della presente direttiva, i reati contro il sistema comune dell’IVA sono considerati gravi qualora le azioni od omissioni di carattere intenzionale secondo la definizione di cui all’articolo 3, paragrafo 2, lettera d), siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10.000.000 EUR”. 7 Per prendere visione del Comunicato ufficiale si veda: https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20180410195603.pdf
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Osservatorio nazionale
Considerato che il novum espresso dalla “Regola Taricco” rende punibili fatti che prima non lo erano, una diversa soluzione contrasterebbe anche con il principio di prevedibilità, secondo il quale le pronunce giurisprudenziali (e più in generale la legge) intervenute dopo la commissione del fatto non possono essere applicate in modo sfavorevole all’imputato. In altre parole, in tale prima ipotesi, i soggetti accusati di frode IVA all’epoca dei fatti non potevano prevedere come la Corte europea avrebbe interpretato l’art. 325 TFUE in riferimento agli artt. 160 e 161 c.p., ovvero non potevano ragionevolmente presumere che avrebbe imposto al giudice di disapplicare le regole prescrizionali. Per quanto attiene invece la seconda ipotesi di inapplicabilità, pare che la Consulta abbia voluto affidare agli organi giurisdizionali la valutazione in ordine alla compatibilità del principio di legalità ai fatti commessi successivamente alla “Taricco I”. I giudici di merito dovranno quindi esaminare se nei casi di specie la disapplicazione del termine prescrizionale previsto negli artt. 160 e 161 c.p. non contrasti con il principio di prevedibilità e accessibilità quanto alla definizione del reato e della pena e con il principio di determinatezza quanto al regime prescrizionale. Infine, appare opportuno ricordare che fino alla Direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale8, i termini di prescrizione dei reati in materia di IVA non erano mai stati oggetto di armonizzazione a livello europeo. Pertanto, a partire dal 6 luglio 2019, data entro la quale gli Stati Membri dovranno conformarsi alla direttiva e a partire dalla quale i termini prescrizionali ivi previsti entreranno in vigore, probabilmente la giurisprudenza italiana non potrà più considerare la prescrizione dei reati in materia di IVA un istituto a natura sostanziale e, in ogni caso, dovrà applicare i termini specifici previsti dalla normativa europea disapplicando così gli artt. 160 e 161 c.p.
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Art. 12 Direttiva PIF 2017 “Termini di prescrizione per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione: Gli Stati membri adottano le misure necessarie a prevedere un termine di prescrizione che consenta di condurre le indagini, esercitare l’azione penale, svolgere il processo e prendere la decisione giudiziaria in merito ai reati di cui agli articoli 3, 4 e 5 entro un congruo lasso di tempo successivamente alla commissione di tali reati, al fine di contrastare tali reati efficacemente. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per permettere che le indagini, l’azione penale, il processo e la decisione giudiziaria per i reati di cui agli articoli 3, 4 e 5 punibili con una pena massima di almeno quattro anni di reclusione, possano intervenire per un periodo di almeno cinque anni dal momento in cui il reato è stato commesso. In deroga al paragrafo 2, gli Stati membri possono fissare un termine di prescrizione più breve di cinque anni, ma non inferiore a tre anni, purché prevedano che tale termine possa essere interrotto o sospeso in caso di determinati atti. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché: a) una pena superiore ad un anno di reclusione, o in alternativa, b) una pena detentiva, in caso di reato punibile con una pena massima di almeno quattro anni di reclusione,irrogata a seguito di condanna definitiva per uno dei reati di cui agli articoli 3, 4 o 5, possa essere eseguita per almeno cinque anni dalla data della condanna definitiva. Tale periodo può includere proroghe del termine di prescrizione derivanti da interruzione o da sospensione”.
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Osservatorio normativo
La riforma sui testimoni di giustizia: un concreto passo in avanti per il contrasto alla criminalità organizzata ed al terrorismo Nikita Micieli de Biase La l. 11 gennaio 2018, n. 6 è stata approvata definitivamente dal Senato all’unanimità il 21 dicembre 2017 in chiusura della XVII Legislatura ed è entrata in vigore lo scorso 21 febbraio. Essa, a differenza del previgente d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, in l. 15 marzo 1991, n. 82 modificato dalla l. 13 febbraio 2001, n. 45, distingue in modo netto la figura del testimone dal collaboratore di giustizia o pentito, pur essedo accomunati dal fatto di essere strumento a disposizione della pubblica accusa che consente una ricostruzione decisiva dei fatti nel processo penale in relazioni a delitti di notevole disvalore sociale come le associazioni di stampo mafioso e terroristico. Ai sensi dell’art. 2 della l. n. 6/2018 è testimone di giustizia colui che rende, nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca, rilevanti per le indagini o per il giudizio e assume, rispetto al fatto delittuoso oggetto delle sue dichiarazioni, la qualità di persona offesa dal reato ovvero di persona informata sui fatti o di testimone. Occorre che il testimone di giustizia, a differenza del pentito, non abbia riportato condanne per delitti non colposi connessi a quelli per cui si procede e non abbia rivolto a proprio profitto l’essere venuto in relazione con il contesto delittuoso su cui rende le dichiarazioni. Sono compatibili con la qualità di testimone di giustizia sia i comportamenti posti in essere in ragione dell’assoggettamento verso i singoli o le associazioni criminali oggetto delle dichiarazioni, sia i meri rapporti di parentela, di affinità o di coniugio con indagati o imputati per il delitto per cui si procede o per delitti ad esso connessi. Il Legislatore prescrive, invece, l’esclusione dalla categoria dei testimoni chi è o è stato sottoposto a misura di prevenzione od a un procedimento in corso nei suoi confronti per l’applicazione della stessa, ai sensi del codice delle leggi antimafia, da cui si desumano la persistente attualità della sua pericolosità sociale e la ragionevole probabilità che possa commettere delitti di grave allarme sociale. Il testimone di giustizia deve, inoltre, trovarsi in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo, rispetto alla quale risulti l’assoluta inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza, valutata tenendo conto di ogni utile elemento e in particolare della rilevanza e della qualità delle dichiarazioni rese, della natura del reato, dello stato e del grado del procedimento, nonché delle caratteristiche di reazione dei singoli o dei gruppi criminali oggetto delle dichiarazioni. Nel caso in cui la proposta di misure protettive straordinarie riguardi soggetti di minore età in condizioni di disagio familiare o sociale, essa è altresì trasmessa al tribunale per i minorenni territorialmente competente per l’adozione di eventuali determinazioni di sua competenza. Il programma definitivo è accettato e sottoscritto dagli interessati i quali, contestualmente, assumono i seguenti impegni: riferire tempestivamente all’autorità giudiziaria quanto a loro
Osservatorio normativo
conoscenza sui fatti di rilievo penale; non rilasciare dichiarazioni su tali fatti a soggetti diversi dall’autorità giudiziaria, dalle forze di polizia e dal proprio difensore; osservare le norme di sicurezza prescritte; di non rivelare o divulgare in qualsiasi modo elementi idonei a svelare la propria identità o il luogo di residenza qualora siano state applicate le misure di tutela quali il trasferimento in luoghi protetti, l’utilizzazione di documenti di copertura, il cambiamento delle generalità; collaborare attivamente all’esecuzione delle misure; non rientrare senza autorizzazione nei luoghi dai quali sono stati trasferiti; eleggere Il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la commissione centrale. La commissione centrale fissa il termine, non superiore a sei anni, di durata delle speciali misure di protezione, entro il quale si deve comunque procedere alle verifiche sull’attualità e gravità del pericolo e sull’idoneità delle misure adottate. La commissione centrale effettua le verifiche e assicura, ove necessario, le speciali misure di protezione oltre il termine di durata di cui al medesimo periodo, quando ne faccia motivata richiesta l’autorità che ha formulato la proposta. Il programma di protezione può essere modificato o revocato in ogni momento dalla commissione centrale, d’ufficio o su richiesta dell’autorità proponente o di quella preposta all’attuazione delle misure speciali di protezione, in relazione all’attualità, alla concretezza e alla gravità del pericolo, all’idoneità delle misure adottate, alle esigenze degli interessati, all’osservanza degli impegni da loro assunti, alla rinuncia espressa alle misure, al rifiuto di accettare l’offerta di adeguate opportunità di lavoro o di impresa. La commissione provvede nel termine di 20 giorni da considerarsi ordinatorio in mancanza di una disposizione attributiva del carattere perentorio.
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Osservatorio
europeo
Impedimento assoluto alla registrazione del marchio “LA MAFIA se sienta a la mesa” per contrarietà all’ordine pubblico Miriam Ferrara Con la sentenza del 15/03/2018, (Causa T-1/17), la nona sezione del Tribunale dell’Unione Europea ha respinto il ricorso presentato dalla società xxxxx avverso la dichiarazione di nullità dell’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO). Al fine di comprendere la questione analizzata dall’organo giurisdizionale europeo, appare necessario ripercorrere brevemente la vicenda. Il 30 novembre 2006 la società xxx, con sede a Saragozza (Spagna), ha presentato domanda di registrazione di marchio presso l’EUIPO1, sia per prodotti2 che per servizi di consulenza per la direzione e l’organizzazione commerciale3 e servizi di ristorazione4.
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Domanda di marchio pubblicata nel Bollettino dei marchi comunitari n.24/2007 dell’11 giugno 2007, registrato con numero 5510921. 2 Classe 25 dell’Accordo di Nizza relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi: Calzature, indumenti, t-shirt, berretti. 3 Classe 35 dell’Accordo di Nizza relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi. 4 Classe 43 dell’Accordo di Nizza relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi.
Osservatorio europeo
Successivamente, il 27 ottobre del 2016 la commissione di ricorso ha accolto la domanda di nullità del marchio presentata dalla Repubblica Italiana per contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume. L’Italia prima, e successivamente L’EUIPO, ritenevano infatti che nel marchio in questione dominasse l’elemento “Mafia”, richiamante la pericolosa e sanguinaria organizzazione criminale, che si pone in netto contrasto con i principi e i valori italiani ed europei. Al contrario, la società xxx sottolineava come il simbolo in esame non avesse lo scopo di promuovere alcuna organizzazione criminale, quanto piuttosto di rievocare i valori della famiglia e del corporativismo del film “Il Padrino” e, in tal senso, proponeva ricorso presso il Tribunale dell’Unione Europea. In tale contesto, i giudici europei hanno respinto il ricorso sulla base di molteplici argomenti, allineandosi così alle conclusioni già espresse dall’EUIPO. Innanzitutto è opportuno ricordare che il marchio è il segno distintivo che identifica un prodotto o un servizio offerto nell’ambito di un’attività imprenditoriale5. Attraverso la registrazione si acquisisce il diritto di esclusiva (ovvero di uso) del marchio oggetto di registrazione6, in virtù del quale i soggetti terzi non possono utilizzare marchi identici o simili per prodotti identici o simili a quelli per i quali la registrazione è stata chiesta. Tanto a livello nazionale7, quanto a livello europeo8, non è possibile procedere alla registrazione di marchi che utilizzano segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Nel caso in esame, il Tribunale richiama opportunamente l’art. 7 del Regolamento n.207/2009, ai sensi del quale la contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume costituiscono impedimento assoluto alla registrazione. Tale norma comprime chiaramente la libertà di espressione del titolare del marchio, la cui fantasia nella scelta del segno distintivo è limitata da interessi collettivi più ampi. Quindi, oltre a rispettare la legge, il soggetto deve anche considerare concetti più astratti e mutevoli, quali quelli di ordine pubblico e buon costume. Fermo restando che nel caso di specie non è stata contestata tanto l’offesa al buon costume quanto piuttosto la contrarietà all’ordine pubblico, risulta comunque interessante rilevare come la prima locuzione, strettamente connessa alla sfera dell’etica e della moralità, descriva un concetto sociale prima che normativo, che muta a seconda del contesto storico e geografico
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A livello italiano, l’art. 7 del Codice della Proprietà Industriale (D.lgs. n.30/2005) stabilisce che “Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”. 6 Art. 2569 c.c.: “Chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato. In mancanza di registrazione, il marchio è tutelato a norma dell’articolo 2571 c.c.” 7 Italia: art. 14 Codice della Proprietà industriale; Gran Bretagna: art. 3 Trade Marks Law 1994; Germania: paragrafo 8 Markengesetz; Francia: Art. L711-3 Code de la propriété intellectuelle. 8 Art. 7, paragrafo 1, lettera f del Regolamento n.207/2009, abrogato e sostituito dal Regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento Europeo e del Consiglio.
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Impedimento assoluto alla registrazione del marchio “LA MAFIA se sienta a la mesa” per contrarietà all’ordine pubblico
di riferimento9. Sulla base di ciò, sono stati ritenuti contrari al buon costume marchi dal contenuto osceno, razzista o volgare10. Per ordine pubblico si intende invece l’insieme dei principi fondamentali dell’ordinamento11, non più solamente italiano ma transnazionale, dovendo lo stesso essere considerato ormai “un veicolo di promozione della ricerca di principi comuni agli Stati Membri, in relazione ai diritti fondamentali”12. In tal senso, il mondo del diritto si interfaccia quindi con un concetto giuridico non solo indeterminato, ma anche “europeizzato”. Difatti, come sottolineato anche nella sentenza in esame, la valutazione dell’esistenza della violazione dell’ordine pubblico va condotta sotto vari punti di vista. A livello soggettivo, l’offesa, ovvero la lesione del principio fondamentale, deve essere considerata tale sulla base di criteri utilizzati da una persona ragionevole, di normale sensibilità e tolleranza13. In secondo luogo, con l’espressione “pubblico” si fa riferimento non soltanto alla platea di oggetti verso i quali i prodotti o i servizi sono diretti, ma anche a tutte le altre persone con le quali i prodotti o i servizi possono entrare quotidianamente in contatto. Infine, per delimitare i confini territoriali del concetto di ordine pubblico, non è più sufficiente considerare le circostanze specifiche, linguistiche, storiche, sociali o culturali che possono influenzare la percezione all’interno della popolazione del singolo Stato membro, ma è necessario valutare anche le circostanze comuni a tutti i Paesi europei. Un marchio deve quindi essere considerato contrario all’ordine pubblico non soltanto quando la sua diffusione integra gli estremi di un reato, ma anche quando il segno distintivo richiama attività illegali, organizzazioni terroristiche14 o quando si pone in contrasto con i valori veicolati dalle costituzioni e dai trattati europei. Sulla scorta di tali considerazioni, il Tribunale, nel caso di specie, ha ritenuto che l’utilizzo dell’espressione “mafia” contenesse un chiaro riferimento “ad un’organizzazione criminale
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Sentenza Cassazione, II Sezione Penale, n.14440/2007: “La nozione di buon costume comprende in via generale tutti quei principi e tutte quelle esigenze etiche che costituiscono la morale sociale, a cui i consociati, complessivamente, uniformano i propri comportamenti, in un determinato contesto storico”. 10 Tra la vasta casistica dell’EUIPO, si ricordano a titolo di esempio i casi T-417/10 “Hijoputa”, R 0703/2014-2 “Fuck Cancer”. 11 Sentenza Cassazione, III Sezione Civile, n.14905/2013: “I principi fondamentali della Costituzione ovvero quegli altri principi che rispondono all’esigenza universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, la cui lesione determina uno stravolgimento dei valori fondanti dell’ordinamento”. 12 Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.16601/2017. 13 Si veda la sentenza del Tribunale dell’Unione Europea T-417/10 del 9 marzo 2012, Cortés del Valle Lòpez/UAMI. 14 S. Fumagalli, Marchi, ordine pubblico e buon costume, in VQ n.5, 69 10/09/2014: “Fin dal 2001, il Fin dal 2001, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la posizione comune no. 2001/931/PESC relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, indicante peraltro una black list di individui e gruppi connessi all’attività terroristica. Pertanto, un marchio comunitario costituito da o contenente tali termini sarà respinto in quanto contrario all’ordine pubblico, poiché considerato come a favore di questa attività. In base a quanto sopra, è stata rigettata la registrazione del marchio BIN LADEN e invece sono stati registrati marchi come ESCOBAR (Pablo Escobar, noto trafficante di droga colombiano), POT (Pol Pot, Cambogia), LE- NIN, CASTRO, MAO and DADA (Idi Amin Dada, Ugan- da). Oltre a ciò, in Germania e Austria, l’uso di simboli e nomi di organizzazioni naziste è espressamente vietato dalle leggi in materia di marchi e altri segni distintivi”.
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con origini in Italia e le cui attività si sono estese a Stati diversi dalla Repubblica italiana, in particolare all’interno dell’Unione… tale organizzazione criminale ha fatto ricorso all’intimidazione, alla violenza fisica e all’omicidio al fine di svolgere le sue attività, che comprendono segnatamente il traffico illecito di droghe, il traffico illecito di armi, il riciclaggio di denaro e la corruzione”15. Le caratteristiche intrinseche di tale marchio si pongono quindi in netto contrasto sia con i principi contenuti nella Costituzione italiana che in quelli espressi nei Trattati europei16 banalizzando le azioni riprovevoli compiute dalle organizzazioni mafiose in tutto il mondo e veicolando un’immagine positiva delle stesse. Da ciò emerge quindi che, ai fini della valutazione circa l’impedimento assoluto del marchio, il comportamento e le intenzioni del soggetto che ha richiesto la registrazione del marchio non possono essere in alcun modo assunti come parametri valutativi pertinenti. In conclusione, il marchio “LA MAFIA se sienta a la mesa” è stato dichiarato nullo per impedimento assoluto alla registrazione a causa della mancanza di rispetto in primo luogo verso lo Stato Italiano e le vittime di mafia ed in seconda battuta nei confronti di tutti coloro, europei e non, che, a vario titolo, combattono quotidianamente le organizzazioni criminali di stampo mafioso.
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Sentenza del Tribunale dell’Unione Europea 15/03/2018, Nona Sezione, Causa T-1/17, p. 6 Art. 2 TUE; artt. 2,3,6, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 83 TFUE.
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Il traffico di droga in America Latina di Giorgio Malfatti di Monte Tretto
Sommario: 1. Messico. – 2. America Centrale. – 3. Colombia. – 4. Perù. – 5. Bolivia e Argentina. – 6. Brasile.
La fine della guerra fredda e la globalizzazione in America Latina hanno fatto emergere e rafforzare dei poteri autonomi dalla politica, tra questi le organizzazioni criminali, che da locali sono diventate transazionali estendendo la loro presenza per conseguire profitti e potere. Il sub continente è, quindi, diventato l’area più importante al mondo per il narcotraffico. L’America Latina e i Caraibi, benché ufficialmente esenti da conflitti, sono attualmente la regione più violenta del mondo. Si registrano ventitré omicidi ogni centomila abitanti, il doppio rispetto all’Africa e cinque volte rispetto all’Asia, con il 10% della popolazione mondiale, ha, infatti, il 30% delle uccisioni violente del pianeta. Molte di queste sono in connessione con il crimine organizzato che gestisce, soprattutto nell’America Centrale, il traffico di droga, di armi e di esseri umani. La maggior parte di questi fenomeni, uniti al riciclaggio, alla corruzione ed al cybercrime o crimine informatico, hanno assunto il carattere transazionale. Il crimine organizzato ha compiuto negli ultimi anni un salto di qualità, soggiogando con minacce l’iniziativa privata per assoggettarla alle sue strutture gerarchiche. Il commercio illegale di cocaina produce circa 500 miliardi di dollari di profitti annui, mentre il complesso dell’economia criminale rappresenta circa il 3% del Pil mondiale e si calcola il 10% di quello italiano. Un ruolo di primo piano, nel commercio della droga, è svolto dalla ‘ndrangheta, radicata in profondità nel tessuto latino e principale raccordo tra l’America e le rotte europee. La rete capillare e l’organizzazione familiare della mafia calabrese hanno contribuito a spodestare Cosa Nostra nei rapporti con i narcotrafficanti. Nella rotta verso l’Europa la ‘ndrangheta domina il mercato della polvere bianca nel vecchio continente svolgendo un ruolo strategico e fondamentale per le alleanze con i narcos messicani. Soppiantando Cosa Nostra, la ‘ndrangheta è divenuta un partner di rilievo grazie alla sua rete capillare che le consente di smerciare la droga su tutto il continente europeo. La organizzazione calabrese è stata preferita dai messicani a quella siciliana perché ritenuta più solida e affidabile, stante un legame familiare che lega tutti gli affiliati e che riduce notevolmente il pericolo di collaboratori di giustizia. La criminalità dedita al narcotraffico è un fenomeno che si va insinuando in modo sempre più profondo nelle economie in crescita e viene ormai considerato una nuova forma di potere geopolitico o meglio ancora geoeconomico transnazionale in grado di incidere in modo sostanziale tanto nell’economia quanto nella sfera politica, dilaniando il tessuto sociale e generando un circolo vizioso dove l’economia illegale finisce per diventare indispensabile rispetto a quella nazionale. Tale situazione, che sta incrementando il fenomeno dei “narcostati”, “narcocrazie” o “narcodemocrazie”, è in grado di contagiare non soltanto le economie dei Paesi
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in via di sviluppo, ma anche quelle dei Paesi avanzati inquinandone le istituzioni, le strutture della società civile, l’indipendenza dei Governi e delle istituzioni finanziarie. La nuova geomafiosità, che assume sempre maggior diffusione nelle economie in crescita in America latina, suscita un crescente allarme per la tenuta di quegli Stati, che per la loro estensione, sviluppo economico e posizione geografica, rappresentano dei veri e propri pilastri del continente indiolatino. Il Messico, unitamente a Brasile e Venezuela, oltre ad essere un importante attore geopolitico della regione e un protagonista economico dello scenario internazionale, è ritenuto uno dei principali centri del narcotraffico mondiale, nel quale ormai da anni è in corso una narco guerra, che conta fra i suoi caduti circa 100.000 persone nell’ultimo decennio. La concentrazione della produzione di cocaina nell’America meridionale fa di questa area il punto di partenza di tutte le rotte che, nella loro parte iniziale, sono dei macroflussi diretti ai mercati di consumo. Se il Nord America è il luogo di approdo del primo macroflusso, un secondo è quello europeo che transita attraverso il Venezuela e l’area caraibica o per il Sud del Continente. Decollando dalle coste dell’Atlantico, la droga diretta in Europa viaggia a bordo di narco voli, che spesso fanno scalo negli aeroporti dell’Africa occidentale. Nel territorio rimane il 20% della droga per incrementare il consumo locale, mentre la restante parte viene smistata e destinata al mercato europeo, a bordo di navi o altri mezzi di fortuna.
1. Messico. Il Messico è diventato l’epicentro dello spaccio negli anni ’90 quando, a seguito dell’indebolimento dei narcos colombiani, che erano i principali fornitori del mercato statunitense, ha smesso di essere solo un paese di transito assumendo un ruolo principale nella produzione, nella gestione dei traffici, nella determinazione del prezzo e nella decisione delle rotte. Questo stato di cose ha determinato un notevole cambiamento nel paradigma del traffico degli stupefacenti dovuto principalmente alla posizione geografica, che pone lo Stato messicano al confine con gli Stati Uniti (ad oggi il principale consumatore di stupefacenti a cui segue l’UE) dai quali transita l’80% della droga proveniente dall’America centrale e meridionale, il 50% della quale per via terrestre anche attraverso tunnel e treni merci. Con l’avvento degli anni 2000, due fattori determinarono la rottura della Pax Messicana, che fino a quel momento aveva retto gli equilibri mafiosi interni. Il primo fu rappresentato dalla fine dei settantuno anni di governo ininterrotto del PRI (Partido Revolucionario Istitucional), che ha causato un vuoto di potere politico nei territori e la fine di un certo controllo da parte delle forze dell’ordine federali sui gruppi criminali detentori di territori ben definiti all’interno dei quali potevano trafficare e realizzare i propri vantaggi illeciti. Il secondo è consistito nel calo della domanda di stupefacenti proveniente dagli Stati Uniti che, cagionando una riduzione nei ricavi, ha aumentato la concorrenza tra i cartelli. Questi eventi hanno sconvolto il sistema di alleanze che fino ad allora aveva garantito ai trafficanti la sicurezza dei corridoi e determinato l’affermazione di dieci grandi cartelli criminali messicani che hanno occupato la scena. Tra i più influenti si ricorda il cartello di Sinaloa o “cartello del Pacifico”, il “cartello del Golfo”, “La Familia” e il “cartello di Tijuana”. I cartelli, organizzati come una rete imprenditoriale, con accordi di vario genere che legano tra di loro gruppi e singoli soggetti senza assoggettarli ad una struttura piramidale, gestiscono le varie fasi dell’attività. La loro organizzazione è, infatti, in grado di assolvere diverse funzioni nei variegati settori riguardanti la coltivazione delle piante (con esigenze di protezione e mimetizzazione), l’acquisto di foglie e di sostanze chimiche, il trasporto delle materie prime nella zona dei laboratori, il confezionamento della cocaina
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e la vigilanza dei depositi. Attività queste che, unitamente alla protezione dei capi, hanno comportato la militarizzazione dei cartelli dotati di unità armate, impiegate nella protezione delle rotte, che, sempre più spesso, vengono minacciate dai gruppi dediti esclusivamente ad attività di tipo predatorio. Tra questi i più rinomati sono Los Zetas, Los Pelones e Los Negros; tutti nascono, per l’appunto, come gruppi armati al soldo dei cartelli. Sono fortemente attivi in numerose regioni del Messico e in vari Stati dell’America Latina, soprattutto per le attività di tipo predatorio, quali furti e tangenti sul passaggio dei carichi di droga e furti di petrolio dagli oleodotti, nonché sequestro dei migranti che dall’America centrale attraversano il Messico per giungere negli Stati Uniti. Tra le attività dei gruppi criminali si annoverano, anche quelle di intimidazione, perpetrate nei confronti delle comunità indigene, che popolano territori ricchi di risorse minerali, quali gas e petrolio.
2. America Centrale. I paesi del Centro America sono un importante corridoio di collegamento per il traffico che proviene da sud, diretto negli Stati Uniti e in Messico. Il crimine organizzato gestisce il traffico di droga, di armi e di esseri umani. Amnesty International definisce il Centro America come un teatro di guerra e le istituzioni dei paesi dell’area hanno via via perso la piena sovranità all’interno dei propri confini con amministrazioni corrotte ed incapaci di arginare la violenza. Soprattutto nel cosiddetto Triangolo del Nord, formato dal Guatemala, El Salvador e Honduras, la violenza è alla base della vita di tutti gli abitanti e la convivenza con le bande criminali è la normalità. Il fenomeno della violenza criminale, esistente da tempo, si è rafforzato con la fine delle guerre civili. I movimenti guerriglieri e le strutture paramilitari, protagonisti di efferate violenze, si sono sciolti a seguito della nascita dei governi democratici eletti dal popolo. Molti dei loro componenti, in gran parte giovani, non hanno deposto le armi, né si sono inseriti nella società civile ed hanno finito, per le scarse opportunità di lavoro, per essere attratti dalle organizzazioni criminali, veri poteri autonomi emergenti nei paesi di recente e debole democrazia. A ciò si è aggiunta la decisione degli Stati Uniti di deportare nei loro paesi di origine gli immigrati clandestini. La stragrande maggioranza di questi era composta da delinquenti comuni centroamericani. Nasce così il termine di gang, solitamente impiegato per definire gruppi formati da ragazzi di età compresa tra i 12 e i 24 anni. Ogni gang ha un suo nome e una sua identità, contraddistinta da una peculiare simbologia e gestualità. Si tratta di gruppi criminali organizzati, duraturi nel tempo e radicati nel territorio, coinvolti in attività illecite, quali spaccio di stupefacenti, vandalismo, rapine, riciclaggio di denaro, estorsioni e omicidi. Quando si parla delle gang che operano in Centro America si utilizza l’espressione pandillas o maras: per pandillas si intendono tutti i gruppi criminali locali, con maras si fa riferimento a un fenomeno più recente, che affonda le proprie radici tra i centroamericani emigrati negli Stati Uniti negli anni Sessanta. Nel Salvador, Guatemala e Honduras si sono diffuse le bande criminali tra le peggiori del continente, le maras, diverse e più violente di quelle messicane. Le maras non sono tenute insieme dagli affari, ma dal senso di comunità: hanno la tipica mentalità mafiosa con una struttura gerarchica interna e un territorio di riferimento. I suoi componenti sono per lo più giovani estremamente violenti e spregiudicati, con sul corpo il tatuaggio della propria banda di appartenenza. Le maggiori maras sono la “Mara Salvatrucha (MS-13)” e la “Mara 18” o “Barrio 18”, nate entrambe da emigranti salvadoregni e honduregni a Los Angeles e Washington, le due città di forte presenza di emigrazione da questi paesi negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70. Era l’epoca delle bande nelle periferie americane e i centroamericani, disprezzati dai più
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integrati messicani e portoricani, si organizzarono come forma d’autodifesa e di preservazione della propria identità. Col tempo, le bande si trasformarono in mafie locali, dedicate alla microcriminalità mediante estorsione e traffico di droga a piccola scala. Le due maras principali, la 13 e la 18, presero infatti il loro nome dalle strade che controllavano. Il “Barrio 18” conta oltre cinquantamila affiliati di diverse nazionalità, anche se in stragrande maggioranza ispanici. La sua attività principale è il narco traffico, che gli ha permesso di stringere stretti legami con i cartelli messicani e recluta i suoi membri nelle scuole con la promessa di denaro e rispetto, oltre che con il senso di identità. Il Barrio-18 si estende in diversi Stati centro americani. La “MS-13” ha un simile tipo di affiliati e di attività criminali, ma alleati molto diversi nella galassia mondiale del delitto; intrattiene addirittura affari con la mafia giapponese e quella del Golfo. È attiva anche nel traffico di esseri umani, soprattutto di cittadini centroamericani diretti clandestinamente negli USA e opera principalmente nelle aree urbane. La lotta per il territorio e per il controllo delle attività criminali provoca da sempre faide tra le due maras, che si risolvono in una spirale di sanguinosi omicidi e vendette. Le maras hanno creato all’interno dei rispettivi territori dei sistemi parastatali. In questo rapporto tra la popolazione e i boss va ricercata la difficoltà nella lotta al narcotraffico. L’economia dei paesi è praticamente inesistente, tolte le grandi industrie che sono nelle mani di holding straniere. L’alto tasso di disoccupazione e la facilità di rinvenire le armi hanno moltiplicato le possibilità di trovare reclute pronte a spargere sangue in cambio di qualcosa da mangiare. La polizia non ha le capacità di combattere una forza che assomiglia in tutto e per tutto a un esercito di aggressione. La risposta più in vigore è quindi stata quella militare. L’esercito è stato spesso utilizzato per finalità repressive e quando ha ottenuto risultati è stato controproducente. In paesi in cui le istituzioni sono deboli, i militari, che riescono a sconfiggere una parte della criminalità, si sono poi trasformati in dittatori, rendendo il paese ancora più instabile.
3. Colombia. La Colombia, pur avendo perso il primato assoluto nella detenzione di leggendari narcotrafficanti, rimane uno dei Paesi in cui la droga rappresenta un affare che produce una buona parte di tutta la ricchezza del Paese. La fine dei grandi cartelli degli anni ’90, infatti, non ha diminuito la quantità di cocaina coltivata nel territorio colombiano e gli introiti da essa derivanti. Al dominio dei grandi cartelli si è andato sostituendo un mercato frammentato, con gerarchie non marcate e caratterizzato dalla moltitudine di gruppi dalle dimensioni molto ristrette che ha indotto le autorità d’intelligence a definire il fenomeno col termine di “miniaturizzazione dei cartelli”. Tali gruppi, che operano sempre in più stretta alleanza con i narcos messicani, agiscono in modo molto discreto nello spendere il denaro e nell’eseguire investimenti. Una delle caratteristiche che da sempre ha contraddistinto i trafficanti colombiani è la loro capacità di individuare efficienti sistemi di spedizione della cocaina, nuovi itinerari di esportazione e metodi di occultamento. Ogni espediente è stato utilizzato per fare arrivare la sostanza a destinazione; la droga viene trasferita utilizzando sia corrieri umani che corrieri animali. Ma se i corrieri umani e animali sono ottimi per la spedizione di piccoli quantitativi, per i grossi carichi i colombiani hanno fatto ricorso alla progettazione e alla realizzazione di sottomarini avvalendosi del know how messo a disposizione da alcuni ingegneri russi. I sommergibili partono dalle coste colombiane, spesso scortati da una flotta di pescherecci e, secondo quanto emerso dalle indagini, seguono le rotte verso nord-ovest per giungere al punto d’incontro con la nave dei narcos messicani pronti a ricevere il carico che provvederanno a smistare nelle varie destinazioni. Vi sono casi in cui il sottomarino è addirittura radiocomandato da
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una nave d’appoggio che segue a prudenziale distanza e che, nel momento opportuno, consegna ai narcos messicani l’hardware per il successivo controllo delle operazioni. Per i grossi carichi vengono anche utilizzati dei piccoli aerei fatti atterrare e decollare su piste clandestine disseminati sui territori. Oltre alla rotta Pacifica, molto battuta è anche la rotta che passa per i Caraibi occidentali (Giamaica e isole Cayman) e arriva in Messico dall’America Centrale. I Caraibi sono snodi fondamentali anche per la via della Florida e la costa est. Fondamentale nel contesto colombiano è stato il ruolo giocato dalle FARC e dalle altre formazioni guerrigliere. Negli anni novanta, le FARC si interessarono al narcotraffico per finanziarsi, attraverso la pretesa del pagamento di una tassa in cambio della protezione alle coltivazioni illecite e al trasporto della merce. Successivamente, la protezione si estese anche ai laboratori e soprattutto alle piste clandestine di atterraggio e decollo dei piccoli velivoli che, imbottiti di sostanze stupefacenti, si alzavano in volo per raggiungere i mercati di destinazione. Negli ultimi anni la guerriglia decise di rompere con la linea pregressa, scegliendo di gestire direttamente le coltivazioni di coca e di oppio. I guerriglieri, in particolare, si sono insediati al confine con l’Ecuador occupando anche porzioni di territorio ecuadoregno, in zone di difficilissimo accesso, dove hanno realizzato propri punti di raffinazione della droga e di deposito. I recenti accordi di pace avrebbero dovuto cambiare la situazione. Le FARC si sono sciolte e trasformate in un movimento politico, ma molti ex guerriglieri non hanno abbandonato le coltivazioni e con l’aiuto dei contadini locali hanno mantenuto le produzioni. Ancora oggi la Colombia è uno dei maggiori paesi produttori di sostanze stupefacenti.
4. Perù. Il Perù fa parte dei Paesi interessati dal fenomeno di coltivazione e produzione degli stupefacenti. Come per le FARC in Colombia, così anche i guerriglieri del Sendero Luminoso ebbero un ruolo da protagonisti nella produzione e nel traffico di cocaina, con eccellenti introiti possibili grazie al fatto che negli ultimi anni il Paese ha aumentato la superficie destinata alla coltivazione, così balzando in testa alle classifiche per quantità di cocaina prodotta. Nonostante il governo abbia messo in atto una lotta senza quartiere contro quel che rimane dei guerriglieri, avvalendosi del supporto tecnico statunitense, vi è una loro fazione interna – denominata Proseguir – che rimanendo attiva nella regione del Vrae si è trasformata a tutti gli effetti in narcotrafficante. Tale regione, da sempre appannaggio del Sendero Luminoso, è ubicata a sud del Paese nel dipartimento di Ayacucho. La folta e inospitale vegetazione boschiva, coniugata all’alto tasso di umidità, hanno creato la perfetta situazione affinché quel luogo divenisse uno dei principali centri di coltivazione di coca al mondo, vantando le migliori qualità di piantagioni. I membri di Proseguir, ormai da anni stanziati nel territorio, esercitano un controllo radicale e, grazie al poderoso arsenale di cui dispongono, sono in grado di fronteggiare i numerosi tentativi di eradicazione messi in atto dall’esercito. Protetti dalla selva, gli ex senderisti manovrano lo smercio di tonnellate di coca in tutta la regione e ne curano il processo di produzione. Il trasporto avviene o per via terrestre verso l’Ecuador, attraversando la regione Guayaquil, o per via aerea principalmente dalla regione centrale del Bajo Huallanga e Yarina, dove circa cinque o sei volte al mese, su ogni volo, i narcotrafficanti trasportano in genere una tonnellata di coca. Negli ultimi tempi, causa i controlli da parte dell’esercito e della polizia peruviana, una via che viene maggiormente utilizzata è quella fluviale. I fiumi che i narcoterroristi utilizzano prevalentemente sono il Putumayo e il Leticia, per il trasporto che interessa la Colombia, e il Ucayali e Amazonas per il trasporto diretto negli altri paesi limitrofi.
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L’offensiva lanciata dalle autorità di Lima ha ottenuto risultati ragguardevoli per quanto concerne il numero di arresti, più deludenti, invece, circa la riduzione effettiva delle piantagioni.
5. Bolivia e Argentina. Nel fenomeno del narcotraffico si sono inserite anche Bolivia e Argentina. In particolare, la Bolivia si pone in terza posizione (dopo Perù e Colombia) per produzione di cocaina. Stime recenti affermano, infatti, che nel totale di circa 30.000 ettari di coltivazioni di coca, con una produzione annua di 120 tonnellate, solo 12.000 ettari sarebbero per legge autorizzati a coltivare lecitamente foglie per la masticazione e altri usi tradizionali. La maggior concentrazione di piantagioni si trova nella Valle di Cochabamba dove l’organismo antidroga boliviano FELCN ha scoperto dei laboratori – alcuni anche mobili – che attuano processi chimici addirittura più avanzati di quelli colombiani. Anche in Bolivia sono scomparse le grandi organizzazioni e i trafficanti hanno costituito una fitta rete di piccoli gruppi che controllano le spedizioni utilizzando sia gli aerei che i corrieri umani. Il Paese è il maggior fornitore dei mercati brasiliani, cileni e paraguayani, ma anche di quello nord americano ed europeo grazie alle ramificazioni nel Paese dei narcos messicani, in particolare del cartello di Sinaloa. Uno dei punti vulnerabili della Bolivia per quanto riguarda il transito della droga è la cittadina di Bolpreda, municipio appartenente al dipartimento amazzonico del Pando. Ubicato in un punto strategico del Paese, nella zona frontaliera tra Perù e Brasile, Bolpreda rappresenta un ottimo punto di snodo per il traffico di stupefacenti in entrata e in uscita dal Paese. Nell’ultimo decennio, anche l’Argentina sta avendo un ruolo chiave nell’industria manifatturiera globale degli stupefacenti. Pur non essendo coltivatore di piantagioni, causa le non favorevoli condizioni climatiche, il Paese da tradizionale luogo di transito ha via via sviluppato un’imponente industria chimica che fornisce a tutto il mercato sud americano e globale i precursori necessari alla manifattura della cocaina. Un business, quello della fornitura dei precursori, che è stato favorito dalla crisi economica argentina che ha consentito alle organizzazioni straniere di acquistare prodotti chimici ad un tasso di cambio favorevole. A ciò ha fatto seguito la creazione di una fittissima rete di laboratori clandestini che raffinano la cocaina grezza proveniente da Perù, Colombia e Bolivia e che producono droghe sintetiche come l’ATS. In particolare, la produzione di droghe sintetiche è stata sostenuta dal fiorente mercato dell’efedrina presente in Argentina e dalle numerose reti criminali, con una buona fetta di narcos messicani, che utilizzano il territorio argentino per triangolare la sostanza verso l’industria globale degli stupefacenti. Oltre all’Argentina anche Guatemala e Nicaragua hanno sviluppato una florida produzione di precursori chimici gestita dai cartelli messicani.
6. Brasile. Le organizzazioni criminali brasiliane sono nate all’interno del violento sistema penitenziario del Brasile. Il Primeiro Comando da Capital (PCC) e il Comando Vermelho sono cresciuti trasformandosi nella bande criminali con la maggiore espansione in Sudamerica, con operazioni di narcotraffico in Perù, Bolivia, Paraguay, Uruguay e Argentina. Queste bande criminali, in conflitto fra loro e protagoniste di sanguinose ribellioni carcerarie, non solo hanno mostrato una notevole capacità di organizzazione all’interno del Brasile, ma negli ultimi periodi hanno aumentato il loro raggio d’azione e il loro obiettivo per adoperarsi nel trasporto di cocaina dai Paesi produttori al Brasile, il secondo maggior mercato al mondo di questa droga dopo gli Usa, con 2,8 milioni di consumatori. In particolare il PCC è in
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fase espansiva. È stato implicato in una serie di sequestri in Bolivia, nel reclutamento di dissidenti delle FARC, nelle spedizioni di droga sequestrate in Uruguay e in vari assassinii in Paraguay, dove l’organizzazione è stata responsabile, inoltre, del più grande furto a mano armata della storia del Paese: circa 40 milioni di dollari rubati con esplosivi da un caveau di sicurezza. Per quanto concerne il Comando Vermelho, si stima che abbia perso potere negli ultimi anni dopo i conflitti con gruppi rivali e che, tuttavia abbia una importane presenza in Bolivia e Paraguay, quali centri operativi del traffico di cocaina. Si ritiene che sia il PCC che il Comando Vermelho abbiano cellule in Argentina, soprattutto nelle regioni di Misiones e Corrientes, dove sono stati trovate indizi della presenza di droga clandestina, così come nella città di Rosario, dove si è registrato un forte incremento del narcotraffico.
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