2 • aprile-giugno 2020
Rivista trimestrale 2 • aprile-giugno 2020
Il diritto penale
globalizzazione della
Il diritto penale della globalizzazione
Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini
In evidenza: La corruzione “liquida”. La mafia contemporanea, silente e mercatista, non è meno pericolosa di quella violenta, soprattutto in tempi di crisi Giovanni Tartaglia Polcini Nella vicenda di “Mafia Capitale” non sono rinvenibili i segni della coercizione esercitata da una consorteria mafiosa (nazionale o transnazionale) (nota alla sentenza n. 18125/2020 emessa dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione) Alì Abukar Hayo L’eterno dilemma: dolo eventuale o colpa cosciente? Domenica Loredana Novia CEDU, sez. V, sent. 14 maggio 2020, ric. n. 5499/15, Trattamenti disumani e degradanti per detenzione in isolamento Andrea Racca
ISSN 2532-8433
Indice In evidenza A cura di Ranieri Razzante, I rischi di infiltrazioni criminali nel periodo Covid-19..........................p. 161
Editoriale A cura di Alessandro Parrotta, Covid-19: tra emergenza internazionale e garanzie di operatività parlamentare. Lo scenario europeo e le attività delle camere............................................................» 163
Saggi Giovanni Tartaglia Polcini, La corruzione “liquida”. La mafia contemporanea, silente e mercatista, non è meno pericolosa di quella violenta, soprattutto in tempi di crisi..........................» Ali Abukar Hayo, Il fenomeno internazionale del lobbismo tra democrazia partecipativa e traffico di influenze illecite..................................................................................................................» Ali Abukar Hayo, Nella vicenda di “Mafia Capitale” non sono rinvenibili i segni della coercizione esercitata da una consorteria mafiosa, nazionale o transnazionale. Nota alla sentenza n. 18125/2020 emessa dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione....................................................» Nicola d’Albasio, Scenari ed opportunità per sviluppi operativi e avanzamenti della convenzione di Budapest. Un cammino per una nuova convenzione in tema di crimine informatico................» Serena Scippa, Responsabilità medica d’equipe tra affidamento consapevole e cieco affidamento.....» Andrea Racca, L’estensione della causa di non punibilità per aver risarcito il danno erariale in materia di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti contabili (art. 2 D.lgs 74/2000)..................................................................................................................................»
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Giurisprudenza Giurisprudenza nazionale Corte di cassazione, 6 marzo 2020 (udienza 7 febbraio 2020), sentenza n. 9049, con nota di Domenica Loredana Novia, L’eterno dilemma: dolo eventuale o colpa cosciente?................................» 253 Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020, n. 10255, con nota di Marilisa De Nigris, Mafie autoctone: la Cassazione dà vita ad una riformulazione dell’associazione criminale di cui all’art. 416-bis c.p.....» 257
Giurisprudenza internazionale Camera d’Appello 9 marzo 2020 ICC-01/11-01/11-695, CR 2020_00904, con nota di Nikita Micieli de Biase, Processo Aja contro il figlio di Gheddafi...............................................................................» 261
Giurisprudenza europea CEDU, sez. V, sent. 14 maggio 2020, ric. n. 5499/15, con nota di Andrea Racca, Trattamenti disumani e degradanti per detenzione in isolamento........................................................................» 263
Indice
Osservatorio Osservatorio normativo Andrea Bernabale, Il d.l. 33/2020: cornice giuridica e disciplina della c.d. “fase 2”.........................» 269
Osservatorio internazionale Miriam Fiordellisi, Lo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente e la tutela attraverso il diritto penale........................................................................................................................................» 275
Osservatorio europeo Antonio De Lucia, Giornata internazionale in memoria delle vittime della Tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù. Sviluppi legislativi Italiani ed europei........................................................» 281
Osservatorio nazionale Elena Valguarnera, I reati tributari: focus su riciclaggio e autoriciglaggio..........................................» 285
Focus Paola Pisanelli Nero, L’istmo del Canale di Panama ai tempi del Covid-19.......................................» 289
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In
evidenza
I rischi di infiltrazioni criminali nel periodo Covid-19 Carissimi, la pandemia sanitaria ed economica che stiamo vivendo in questo momento storico è terreno fertile per la recrudescenza delle organizzazioni criminali. Le mafie sono già infiltrate nel settore sanitario attraverso appalti, approvvigionamenti di dispositivi di protezione individuale (DPI), ma si comincia ora ad assistere – come, peraltro, già preannunciato in diverse interviste rilasciate dal sottoscritto – a reati di riciclaggio, usura, contraffazione, estorsione e reati informatici in genere. In questo momento di grave crisi economica, gli imprenditori di tutti i settori hanno necessità, innanzitutto, di liquidità. E a chi rivolgersi, di fronte ai ritardi degli aiuti statali, se non a mafia s.p.a che macina ogni anno circa 400 miliardi di euro? I pericoli di infiltrazioni criminali sono, dunque, concreti. Recentemente, sono stati ben evidenziati da diverse voci a livello internazionale: prime fra tutte, il GAFI e il Parlamento europeo. Oltre alla risposta sanitaria alla minaccia del Covid-19, il GAFI, nel documento Covid-19-related Money Laundering and Terrorist Financing. Risks and Policy Responses (maggio 2020), allerta governi e settore privato su un’ulteriore sfida sul fronte dell’adeguata applicazione degli obblighi di lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo (AML/CFT), in settori come: vigilanza, regolamentazione, segnalazione delle operazioni sospette e cooperazione internazionale. L’emergenza in corso potrebbe portare “in superficie” vulnerabilità dei presidi che potrebbero indurre i criminali a trovare modi per: bypassare le misure di adeguata verifica della clientela; aumentare l’uso improprio di servizi finanziari online e risorse virtuali per spostare e nascondere fondi illeciti; sfruttare le misure di incentivazione economica e i regimi di insolvenza, come mezzo per consentire alle persone fisiche e giuridiche di nascondere e riciclare i proventi illeciti; aumentare l’uso del settore finanziario non regolamentato creando ulteriori opportunità per i criminali di riciclare fondi illeciti; accedere impropriamente ad aiuti finanziari nazionali e internazionali e finanziamenti di emergenza; sfruttare la pandemia Covid-19, e la recessione economica associata, per passare a nuove linee di business ad alti livelli di liquidità nei paesi in via di sviluppo. Il GAFI suggerisce, quindi, di trovare soluzioni nelle policy AML/CFT interne dei soggetti obbligati che possano aiutare a supportare l’implementazione rapida ed efficace delle misure per rispondere alla crisi Covid-19, gestendo al contempo nuovi rischi e vulnerabilità. Questo documento fornisce esempi di tali risposte, che includono: coordinamento nazionale per valutare l’impatto di Covid-19 su rischi e sistemi AML/CFT; comunicazione rafforzata con il settore privato; incoraggiamento del pieno utilizzo di un approccio basato sul rischio all’adeguata verifica della clientela; supporto delle opzioni di pagamento elettronico e digitale. In particolare, il GAFI favorisce il ricorso all’uso di tecnologie che sfruttino l’identità digitale e altre soluzioni innovative affidabili per identificare i clienti ed eseguire le operazioni a distanza. Da consultare, a tal riguardo, anche la recente guida GAFI sull’ID digitale GAFI, che evidenzia che l’onboarding e le operazioni da remoto, condotte utilizzando un ID digitale affidabile, non sono necessariamente ad alto rischio e possono essere standard addirittura a rischio inferiore. Oltre ai rischi di riciclaggio e di infiltrazione della criminalità organizzata segnalati dal GAFI, è opportuno evidenziare un articolo pubblicato sul sito del Parlamento europeo (1° aprile 2020) sulle nuove opportunità, create dalla paura e dalla confusione delle persone per la situazione attuale, della criminalità informatica per la sottrazione di dati. I malintenzionati, infatti,
In evidenza
fanno ricorso spesso al phishing (un particolare tipo di truffa online realizzata attraverso l’inganno dell’utente) ed all’installazione di malware (programmi informatici usati per disturbare le operazioni svolte da un utilizzatore del computer), per rubare dati personali e accedere a vari dispositivi, riuscendo così a entrare, ad esempio, nei conti correnti bancari e nelle banche dati delle organizzazioni. Tra le pratiche più ricorrenti, ad esempio, l’invio di “messaggi e collegamenti a siti web dannosi o che includono malware, con notizie su cure miracolose, mappe falsificate sulla diffusione del virus, richieste di donazioni, email che sostengono di rappresentare organizzazioni sanitarie”. L’UE, dal canto proprio, si dice stia esercitando pressioni sugli operatori di telecomunicazioni per proteggere le reti dell’Unione contro gli attacchi informatici. Inoltre, la Commissione europea, l’Agenzia dell’UE per la cybersicurezza, la squadra di pronto intervento informatico delle istituzioni, degli organi e delle agenzie europee (CERT-UE), Europol e altre istituzioni europee sono impegnate nella lotta contro la criminalità informatica. In una dichiarazione comune (Joint Statement European Commission, ENISA, CERT-EU and Europol del 20 marzo 2020) hanno affermato che “a fronte della crisi attuale continueranno a monitorare la situazione e proteggere i cittadini e le imprese contro gli attacchi informatici”. di Ranieri Razzante
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Editoriale
Covid-19: tra emergenza internazionale e garanzie di operatività parlamentare. Lo scenario europeo e le attività delle camere Ormai quasi due mesi fa, esattamente l’11 marzo scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente classificato l’infezione da Covid-19 come pandemia. Il passaggio formale dalla definizione di epidemia a quella di pandemia non ha soltanto un valore letterale ma porta con sé rilevanti ripercussioni sul piano pratico: il monito lanciato dal Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante il briefing di Ginevra era, infatti, un avvertimento a tutti i paesi del mondo in ordine al fatto che la crisi epidemiologica, che oggi – finalmente – sta progressivamente rallentato la sua diffusione, si sarebbe brevemente estesa in tutti i continenti. Su questo presupposto – all’alba dell’esordio della c.d. fase 2 in Italia ed ormai pressoché in tutti i paesi dell’Unione Europea – risulta allora interessante osservare – comparandole – quali misure, a livello europeo, i vari paesi hanno adottato negli ultimi due mesi per contenere il contagio e la diffusione del virus. In altre parole, il presente contributo, soprattutto alla luce delle polemiche sorte in Italia sull’uso del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, si pone l’obiettivo di analizzare gli strumenti attivati dai maggiori stati del vecchio continente per gestire e contrastare una situazione di emergenza straordinaria, in un contesto di ordinamenti democratici accomunati dalla presenza di principi costituzionali fondamentali, quali la libertà di movimento, che proprio in questo frangente sono stati fortemente limitati. Ed allora, come anticipato, il primo passo di questo percorso non può che essere mosso dal nostro paese, uno dei più toccati dalla crisi sanitaria e che fino a poco tempo fa deteneva il tragico primato del numero delle vittime. Paradossalmente, però, l’esecutivo italiano è stato il primo a muoversi a livello europeo, bloccando, fin da gennaio, i voli diretti da e per la Cina e dichiarando quasi contestualmente (il 31 gennaio) lo stato di emergenza, circostanza fondamentale per attivare una serie di processi in deroga al regolare decorso burocratico e legislativo. In seguito, dalla notizia dei primi contagi nel nord del paese, la strategia governativa è stata quella di adottare misure gradualmente più restrittive – che hanno fin da subito limitato alcuni diritti fondamentali – mediante gli strumenti del Decreto Legge e dell’inedito Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. In particolare, con nove Decreti Legge emanati tra febbraio ed aprile, il Consiglio dei Ministri, seguendo le direttive dell’Istituto Superiore di Sanità, ha gradualmente limitato gli spostamenti dei cittadini fino ad arrivare al definitivo lockdown (cessato in data 4 maggio con l’inizio di una nuova fase in cui sono previsti maggiori spostamenti ma solo per talune circostanze) con la previsione della chiusura anche di tutte le aziende non collegate a servizi essenziali o beni di prima necessità con la conseguente impossibilità per coloro che non operano in tali settori di muoversi all’interno del proprio comune di residenza se non per comprovate ragioni d’urgenza, di necessità o di salute. La strada tracciata dall’Italia, seppur inizialmente con qualche ritardo dovuto a scetticismi sulla reale pericolosità e letalità del virus, è stata seguita anche dagli altri paesi europei (ed anche extra-europei come gli Stati Uniti), che hanno adattato – chi aumentandole e chi atte-
Editoriale
nuandole – le misure restrittive di stampo italiano nei loro territori. Ad oggi, solo la Svezia pare essere rimasto l’unico paese che ha continuato la sua regolare attività, non conformandosi, così, agli altri paesi occidentali. Sul punto, è interessante anche solo annotare la scelta operata da Israele, che ha fin da subito previsto diverse misure per fasce d’età, più o meno a rischio rispetto ad altre. Anche in questo caso, come in tutti gli altri avvenimenti drammatici che hanno segnato un’epoca (basti pensare all’incidente di Sarajevo del 1914), sarà la storia a dire chi ha avuto ragione tra chi ha optato per una chiusura totale, in aderenza a quanto consigliato dai tecnici e tra coloro che hanno preferito evitare una crisi economica continuando pressoché regolarmente tutte le attività. Per ora, come anticipato, possiamo limitarci ad analizzare gli strumenti adottati per far fronte alla crisi. Premessa necessaria alla presente trattazione risiede nell’art. 16 della Costituzione italiana, il quale demanda alla legge la determinazione dei casi di limitazioni – anche per motivi di sanità – alla libertà di circolare liberamente sul territorio nazionale. A fronte di questo presupposto normativo, in Italia, il governo presieduto dal Presidente Conte ha prevalentemente agito meditante l’uso del Decreto Legge, strumento legislativo che, a mente dell’art. 77, comma 2, della Costituzione può essere adottato proprio in casi straordinari di necessità e urgenza. Una simile scelta ha permesso all’esecutivo di poter di volta in volta adattare le misure restrittive in considerazione dell’evolversi della situazione in concreto, in maniera flessibile e veloce senza dover aspettare l’emanazione di un provvedimento del Parlamento. Una simile procedura – straordinaria – trova la sua ragion d’essere proprio nella peculiarità della situazione che stiamo vivendo ed è legittimata dalla circostanza per la quale il provvedimento così adottato dovrà passare al vaglio delle Camere, le quali rimangono, in quanto espressione della volontà popolare, l’unica sede che può emanare un atto avente forza di legge. Come anticipato, tuttavia nell’ultimo periodo si sono susseguite alcune polemiche in ordine all’uso del diverso DPCM: occorre però annotare come un discorso analogo valga anche per lo strumento del Decreto del Presidente del Consiglio, che, come attentamente annotato dal prof. Zagrebelsky, trova la sua fonte legittimatrice in due Decreti Legge, uno dei quali già convertito in Legge dal Parlamento. Anche in questo caso sono rispettati i principi sanciti dalla Costituzione. Dunque, il modello italiano, in linea con quanto configurato dalla Carta Costituzionale, ha, da un lato, permesso di velocizzare l’iter legislativo e, dall’altro lato, concesso all’esecutivo di limitare alcune libertà costituzionali, quali quella di movimento o di riunione, in maniera rapida, persistendo sulle Camere parlamentari delicati ruoli di controllo e garanzia sull’operato del Governo stesso. Concludendo, i dati rilevanti che permettono di dire che si è agito nei limiti democratici e costituzionali possono essere riassunti nella (i) indubbia presenza di fattori straordinari ed emergenziali nel caso concreto e (ii) nel necessario controllo della Camera e del Senato su ogni passaggio normativo. Esaminato lo schema italiano, appare interessante evidenziare gli altri modelli normativi usati fino ad oggi dai maggiori paesi europei, Spagna, Francia e Germania. La linea comune – oltre al pressoché medesimo stampo delle misure adottate – risiede nella circostanza che, dinanzi a tale emergenza, in tutti gli ordinamenti occidentali si è registrata un’inevitabile maggior attività dell’Esecutivo, in taluni casi anche grazie all’attivazione di particolari procedure di emergenza. Ad esempio in Spagna è stato immediatamente dichiarato lo
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stato di allarme ai sensi della Costituzione; in Francia, invece, per agevolare l’attività del Governo è stata aperta la procedura accelerata di esame dei provvedimenti. È evidente che questi protocolli straordinari di emergenza sono stati adottati, con diverse forme nei vari paesi, perché le misure restrittive limitano fortemente i diritti costituzionali dei cittadini, tra tutte la libertà di movimento e di riunirsi. Ed allora, è chiaro come servisse una base costituzionale per legittimare questa compressione di diritti. In questo contesto i parlamenti nazionali, espressione della volontà dei cittadini, continuano ad avere una fondamentale importanza perché garantiscono, in sede di conversione dei provvedimenti, la proporzionalità e l’attualità degli stessi in relazione all’emergenza sanitaria. In Italia proprio gli scorsi giorni le camere si sono radunate, con un numero di esponenti notevolmente ridotto che permettesse di applicare la distanza minima di un metro, per ascoltare il resoconto del Presidente Conte in ordine alla gestione della crisi. Secondo una nota pubblicata dal Senato, in Francia, per garantire proprio il regolare svolgimento delle sedute dell’Assemblea nazionale, la stessa ha sposato l’inedita possibilità di voto per delega, precisando che la delega di voto sia sempre personale, redatta a nome di un solo deputato espressamente indicato e può essere trasferita con il previo accordo del delegante ad un altro delegato ugualmente indicato. Inoltre, la delega deve essere notificata al Presidente prima dell’apertura della votazione o della prima delle votazioni cui si applica. Per snellire il procedimento di approvazione di una legge, come detto, il parlamento francese ha dato seguito alla richiesta della “procedura accelerata” da parte del Governo, ai sensi dell’articolo 45, comma terzo, della Costituzione, e dell’articolo 102 del Regolamento dell’Assemblea nazionale. In particolare, dal 19 al 23 marzo, le Camere francesi hanno esaminato tre progetti di legge di contrasto all’emergenza presentati dal Governo il 18 marzo e su cui l’Esecutivo stesso ha dichiarato, per l’appunto, di voler attivare la “procedura accelerata”. Il 19 marzo è stato approvato all’unanimità in prima lettura il progetto di legge di modifica della legge finanziaria per il 2020, poi esaminato dal Senato e diventato la legge n. 2020-289 del 23 marzo; il 22 marzo è stato approvato il progetto di legge d’urgenza per contrastare l’epidemia di Covid-19, diventato la legge n. 2020-290 del 23 marzo 2020. Proseguendo, il progetto di legge organica d’urgenza, approvato da entrambe le Camere sempre con la procedura accelerata, è stato sottoposto all’esame del Conseil constitutionnel, che si è espresso favorevolmente sulla conformità a Costituzione il 26 marzo. Successivamente, il 15 aprile, in stretta continuità con la legge n. 2020-289, il Governo ha presentato il secondo progetto di modifica della legge finanziaria n. 2820, approvato in prima lettura dall’Assemblea nazionale il 17 aprile, modificato dal Senato e poi approvato il 23 aprile nel testo proposto dalla commissione mista paritaria. Anche in questo caso, come per l’Italia, il Governo, sotto il diretto controllo delle Camere, ha assunto un ruolo chiave nella gestione della crisi sanitaria promuovendo in via accelerata e semplificata l’adozione di diversi strumenti legislativi. Passando ad esaminare il caso tedesco, occorre subito annotare come la Germania per garantire il continuo funzionamento delle Camere in sicurezza abbia adottato un protocollo più simile a quello italiano ed infatti la soluzione si è focalizzata su modalità di distanziamento delle presenze fisiche dei deputati, eventualmente anche abbassando il quorum di validità delle sedute. La Germania, per fronteggiare l’emergenza sono state approvate sei leggi, che formano il c.d. Corona-Krisenpaket: in particolare, i provvedimenti sono stati inizialmente adottati dal Governo federale il 23 marzo 2020, per poi essere varati dal Bundestag il 25 marzo ad ampia
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maggioranza e da ultimo approvati dal Bundesrat nella seduta straordinaria del 27 marzo 2020 senza dibattito e con una procedura abbreviata dovuta all’urgenza della questione. Anche in questo caso, medesime modalità: il governo ha assunto il ruolo centrale e le Camere hanno avallato i vari provvedimenti con una procedura semplificata. Diversamente, in Spagna le soluzioni organizzative adottate dal Congresso dei deputati sulle modalità di svolgimento in senso stretto dei lavori parlamentari si sono concentrate sul voto a distanza, cui si sono affiancate misure restrittive inerenti le altre attività effettuate all’interno dei palazzi istituzionali, con l’obiettivo di evitare il rischio del contagio sui luoghi di lavoro. La soluzione spagnola – decisamente la più inedita ed innovativa – ha previsto, in particolare, l’abilitazione da parte della Presidenza del Congresso della votazione telematica con carattere generale. Sulla base di questa decisione, l’attività del parlamento già programmata è stata sospesa per due settimane dal 12 marzo. Venendo al merito degli strumenti adottati, occorre annotare come il primo provvedimento sull’emergenza da Covid-19 sia stato il Real Decreto n. 463 del 14 marzo 2020, poi modificato dal Real Decreto 465/2020 del 17 marzo, con il quale l’Esecutivo ha dichiarato lo stato di allarme nazionale e ha introdotto le prime misure. Il Congresso dei deputati ha, poi, autorizzato successive proroghe dello stato di allarme (da ultimo, fino al 10 maggio 2020). Successivamente, sono stati convalidati tre ulteriori decreti sempre seguendo le medesime modalità. Concludendo, risulta interessante annotare innanzitutto come, seppur ognuna con peculiari aspetti, le misure adottate e gli strumenti normativi utilizzati siano analoghi in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, che a livello di istituzione unica, paradossalmente, almeno per ora, non ha ancora adottato protocolli uniformi in tutto il territorio, creando in questo senso ostacoli alla gestione unica della pandemia, che come detto all’inizio, coinvolgerà ora tutti i paesi. In secondo luogo, in relazione alle preoccupazioni sollevate in ordine alla legittimazione delle misure restrittive adottate, occorre annotare come in realtà tutti i passaggi legislativi, come visto, sono stati seguiti dall’approvazione delle Camere parlamentari, in ossequio a quanto stabilito dalle varie carte costituzionali. Il dato interessante su cui riflettere risiede, a parere di chi scrive, sullo spostamento degli equilibri relativi alle diverse posizioni rivestite dagli organi dello stato in relazione alla prerogativa legislativa: se in una situazione ordinaria il ruolo preponderante in ordine all’adozione di atti legislativi è identificata in capo al Parlamento, in questa circostanza – straordinaria – l’ago della bilancia che misura tale potere si è, invece, spostato – nei limiti prescritti – verso l’organo esecutivo, che ha assunto un ruolo centrale nell’iter legislativo. Alessandro Parrotta
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Giovanni Tartaglia Polcini*
La corruzione “liquida”. La mafia contemporanea, silente e mercatista, non è meno pericolosa di quella violenta, soprattutto in tempi di crisi** Abstract The sentence emanated by the Supreme Court of Cassation regarding the “capital mafia” case, has highlighted a continuous jurisprudential contrast concerning the applicability or absence of the crime referred to in Article 416 c.p. on the new criminal organizations. These ones distinguish themselves from the violent, intimidating mafias of thirty years ago, and the inevitable impelling necessity of an intervention of the United Sections, or alternatively, of a re-writing of the case, since, perhaps, the ontological distance between the conduct hypothesized and calibrated to the violent mafias of the first generation by the Law 646 of 1982, and the contemporary criminal organizations cannot be filled through interpretative and “qualifying” means. The contribution shows that the silent and mercatorial mafias of today are even more dangerous because they are camouflaged and that it is illusory to think of facing them only on a repressive level without an adequate and capillary work of social pedagogy and a valid dissemination of values. La sentenza della Corte di Cassazione sul caso “mafia capitale” ha evidenziato la persistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità o meno del delitto di cui all’art.416 bis c.p. alle nuove organizzazioni criminali, che si distinguono nettamente dalle mafie violente ed intimidatrici di trenta anni fa, e la conseguente impellente necessità di un intervento delle Sezioni Unite, o in alternativa, di una riscrittura della fattispecie, non potendosi forse colmare per via interpretativa e “qualificativa” la distanza ontologica tra la condotta ipotizzata e calibrata alle mafie violente di prima generazione dalla legge 646 del 1982 e le organizzazioni criminali contemporanee. Il contributo evidenzia che le mafie silenti e mercatorie di oggi sono ancor più pericolose poiché mimetizzate e che è illusorio pensare di fronteggiarle solo sul piano repressivo senza un’adeguata e capillare opera di pedagogia sociale e disseminazione valoriale.
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Magistrato e docente universitario. Le opinioni espresse sono di natura esclusivamente scientifica e non sono riconducibili all’amministrazione di appartenenza. **
Giovanni Tartaglia Polcini*
L’Italia è un attore globale ed è protagonista indiscusso nei processi multilaterali di diplomazia giuridica1: nel 2021, dopo la crisi dovuta alla pandemia Covid-19, il nostro Paese avrà la chairmanship del G20 e nel 2023 quella del G7. Siamo una superpotenza nella cultura giuridica universale ed incarniamo come sistema, per unanime riconoscimento, il modello di riferimento globale nella prevenzione e repressione del crimine organizzato, anche transnazionale2. Una simile constatazione, per le sue implicazioni di enorme rilievo, impone oggi una riflessione ab intra sulla fattispecie più significativa nella legislazione antimafia, anche alla luce del clamore suscitato da una recente e ben nota decisione giurisprudenziale, in merito all’applicabilità o meno del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. alle nuove organizzazioni criminali, che si distinguono nettamente dalle mafie violente ed intimidatrici di trenta anni fa3. A ben vedere, nell’ultimo decennio, si è creata sul punto una vera e propria divaricazione nella giurisprudenza di legittimità, non ancora sopita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Tale polarizzazione interpretativa riguarda precisamente il comma terzo dell’art. 416-bis c.p., a mente del quale: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”. Da un lato, difatti, si contano pronunce fedeli al testo letterale della disposizione, per le quali è imprescindibile che il metodo mafioso trovi una concreta estrinsecazione nella realtà fenomenica4. Dall’altro, una diversa corrente ha ritenuto superfluo riscontrare un effettivo utilizzo della forza di intimidazione, della quale dunque non rileverebbe l’attualità, ma la sola mera potenzialità5. Per altro verso ancora si è percorso più volte il cammino argomentativo della sufficienza, ai fini della contestazione dell’art. 416-bis c.p., di un’intimidazione anche meramente ambientale e frutto delle relazioni di corruttela consolidate ed in grado di piegare la libertà del mercato e della stessa relazione con la pubblica amministrazione6. Ad ulteriori riflessioni problematiche, invero, condurrebbe l’orientamento restrittivo, relativamente all’operare delle mafie transnazionali e straniere7.
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Per una panoramica generale si veda G. Tartaglia Polcini e A.M. Durante Mangoni, La diplomazia giuridica, Napoli, 2019. 2 Ed invero, non è peregrino affermare che la UNTOC (Convenzione di Palermo delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato Transnazionale) ed il suo recentemente approvato meccanismo di revisione, si ispirino al nostro sistema antimafia; inoltre, sul piano globale, non sono rare le ipotesi di omologazione dei paradigmi normativi di importanti ordinamenti giuridici alla nostra legislazione. Ad esempio, nel recente pacote anticrime, approvato su proposta del Ministro della giustizia Sergio Moro, il codice penale del Brasile ha mutuato il nostro articolo 416 bis c.p. con pochi adattamenti. 3 Così come si distingue dai cartelli sanguinari latino americani (maras, pandillas e narcos, primero comando da capital, comando vermello), che si manifestano molto più vicini al modello di cosa nostra all’epoca dello scontro frontale e sanguinario con le istituzioni repubblicane. Per quanto, a ben vedere, anche le mafie latino americane stanno iniziando a trasformarsi in soggetti nuovi ed evoluti sul piano della modalità operativa transnazionale. 4 Cfr. ex multis, Cass. pen. sez.VI, 28 dicembre 2017, n. 57896 (ud. 26 ottobre 2017). 5 Cfr. Corte App. Roma, Sez. III, sent. n. 10010 11 settembre 2018 (dep. 10 dicembre 2018). 6 Cfr. ex multis, Cass. Pen. sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255 (ud. 29 novembre 2019). 7 Un estratto paradigmatico di detto orientamento “riduzionista” si rinviene in una pregevole decisione, secondo
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La mafia contemporanea, silente e mercatista, non è meno pericolosa di quella violenta, soprattutto in tempi di crisi
Proprio l’evocata sentenza della Corte di Cassazione8 sul caso “mafia capitale” ha evidenziato la persistenza del contrasto giurisprudenziale9 e la conseguente impellente necessità di un intervento delle Sezioni Unite, o in alternativa, di una riscrittura della fattispecie, non potendosi forse colmare per via interpretativa e “qualificativa” la distanza ontologica tra la condotta ipotizzata e calibrata alle mafie violente di prima generazione dalla legge 646 del 198210 e le organizzazioni criminali contemporanee.
la quale richiedere ancora oggi la prova di un’effettiva estrinsecazione del metodo mafioso potrebbe tradursi nel configurare la mafia solo all’interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso o ignorare la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche sott’acqua, cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell’economica produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici. Cfr. Cassazione Penale, sez. II, n. 24851 del 04/04/2017, Garcea vs. altri. 8 Cfr. anche Cassazione Penale, Sez. VI, 12 giugno 2020 (ud. 22 ottobre 2019), n. 18125. Da ultimo, la stessa Corte di Cassazione ha sapientemente scolpito un vademecum per un’applicazione ragionevole del delitto associativo alle formazioni criminali “autoctone”, quelle cioè per le quali non basta la parola “mafia” per identificarne il carattere penalmente significativo. In particolare, i Giudici di legittimità si sono sforzati di conferire natura quanto più oggettivistica possibile alla verifica in ordine al ricorrere, nel caso concreto, degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice in parola. Operazione non priva di insidie invero, sol se si pensi agli scenari interpretativi dischiusi dalla tipizzazione normativa: non comportamenti individuali circoscritti bensì dinamiche collettive (perfino) socialmente rilevanti, tanto sul versante degli autori quanto su quello degli effetti delle condotte punibili. A tal proposito, i giudici ricordano anzitutto che “Il legislatore non si è limitato a “registrare” realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la “Sacra corona unita”, ecc., da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo – particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio, e “fama” criminale da “spendere” come arma di pressione nei confronti dei consociati (tanto che con riferimento alle c.d. mafie locali il collegamento della nuova struttura con la casa madre e l’adozione di un modulo organizzativo che ne abbia i tratti distintivi possono costituire espressione della capacità di intimidazione; Sez. 5, n. 28722 del 24/5/2018, Rv. 273093; Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, Rv. 270290), ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire “parallelo”, destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni (anche straniere) che, malgrado prive di un nomen e di una “storia” criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note”. 9 Occorre considerare che il contrasto interpretativo si è addirittura manifestato all’interno dello stesso processo, poiché in fase cautelare, la stessa Corte di Cassazione, Sezione VI penale, aveva così statuito (n. 24535 del 10 aprile 2015 e depositata il 9 giugno 2015) “Ai fini della configurabilità del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. Ferma restando una riserva di violenza nel patrimonio associativo, tale forza intimidatrice può venire acquisita con la creazione di una struttura organizzativa che, in virtù di contiguità politiche ed elettorali, con l’uso di prevaricazioni e con una sistematica attività corruttiva, esercita condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori di attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche, tanto da determinare un sostanziale annullamento della concorrenza o di nuove iniziative da parte di chi non aderisca o non sia contiguo al sodalizio”. 10 In molti ritengono non rinviabile affrontare il problema di una rivisitazione critica (in senso ampliativo, si intende) della legislazione adottata nel settembre del 1982 con la legge 13 settembre n. 646, (legge meglio nota come Rognoni-La Torre), che fece seguito agli omicidi dell’on. Pio La Torre del 30 aprile e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa del 2 settembre di quell’anno.
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Volendo ancora approfondire l’analisi storico fattuale e fenomenologica della criminalità organizzata per come dovrebbe essere qualificata secondo un approccio meno formalista e più aderente alla realtà, giova richiamare una recentissima sentenza della Cassazione intervenuta su di un gruppo criminale operante ad Ostia che nonostante le migliori intenzioni cade, a mio sommesso avviso, nello stesso equivoco ontologico11. La Corte di Cassazione, per qualificare concretamente il contenuto di quell’ambito operativo ha preso le mosse dal presupposto che il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. appartiene alla classe dei reati associativi a “struttura mista” – ovvero quei reati associativi che richiedono un quid pluris rispetto alla mera organizzazione in sé considerata costituito, appunto, dall’effettiva pratica del “metodo mafioso”, in ciò contrapponendosi all’associazione criminale “semplice” di cui all’art. 416 c.p. – per ribadire che «la fattispecie incriminatrice richiede per la sua integrazione un dato di “effettività”: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di “possedere in concreto” quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso». Il tema nondimeno, non è l’esistenza di quell’elemento, bensì il riempimento di quel concetto: la “caratura oggettiva”, soggiunge la Corte, “vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale”, in quanto è proprio il metodo di cui l’associazione – per tipizzarsi – deve «avvalersi» a convincere del fatto che l’intimidazione e l’assoggettamento omertoso che ne devono derivare, rappresentano in sé un «fatto» che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori «danni» scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine”. Ed è proprio questo il punctum dolens dell’intero ragionamento: oggi mafia è e dovrebbe essere a livello normativo, anche quella silente e mercatista che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato, senza armi o violenza fisica. Risulta perciò indispensabile l’adozione di una chiara soluzione di politica criminale che tenga in considerazione queste continue metamorfosi delle mafie. Una nuova fattispecie incriminatrice potrebbe far rientrare a pieno titolo nell’alveo dell’art. 416-bis c.p. anche le relazioni illecite fra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata che caratterizzano il fenomeno storico delle mafie contemporanee. In questa cornice logico-argomentativa si pone il filone di pensiero che propugna una “visione olistica dei fenomeni corruttivi” secondo cui mafia e corruzione non possono essere più ritenuti crimini tra loro distinti e distanti: occorre prenderne atto ed affinare in parte qua lo statuto speciale antimafia italiano, in modo da essere anche interpreti e pionieri, ora come allora (negli anni ’90), di un ruolo apripista a livello mondiale in sede multilaterale in questa materia. I due più grandi interpreti della lotta alla mafia nella storia Repubblicana, oggi riconosciuti come esempi di eroismo in tutto il mondo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, lo avevano intuito e teorizzato già 30 anni fa: le mafie si evolvono e si adattano e quasi si plasmano al contesto socio-economico e politico di riferimento; le mafie si infiltrano nell’economia e nella politica, ad alto livello; vi è la necessità cruciale di adattare e migliorare gli strumenti per contrastare le nuove forme e le sfide della criminalità.
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Cass. Pen. sez. II, 16 marzo 2020, n. 10255 (ud. 29 novembre 2019).
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Del resto, il fenomeno di osmosi tra le legislazioni anticorruzione ed antimafia, che ha visto estendere ai delitti dei pubblici ufficiali nei confronti della pubblica amministrazione molte delle regole speciali scritte in tema di lotta alla mafia (ad esempio in materia di confisca, misure di prevenzione personali, agente sotto copertura e strumenti investigativi speciali) già dimostra questa tensione e disvela una crescente attenzione anche del legislatore al nodo centrale della problematica12. ***** Il titolo prescelto di corruzione liquida vuole attirare l’attenzione proprio sulla fisionomia operativa delle nuove mafie e mutua il linguaggio dalla celebre definizione della società contemporanea del sociologo tedesco Zygmunt Baumann13: mi propongo difatti di descrivere a mezzo di un’endiadi metaforica proprio le caratteristiche operative del crimine organizzato ed economico moderno. Ho scelto di sostenere il concorso in Magistratura dopo aver letto un articolo pubblicato da “L’Unità” il 31 maggio 1992, otto giorni dopo la strage di Capaci, nel quale Giovanni Falcone tracciava con chiarezza un quadro dell’evoluzione di Cosa Nostra a partire dal dopoguerra e denunciava la sottovalutazione che, per molto tempo, aveva caratterizzato l’approccio delle istituzioni al problema della mafia. L’opzione definitoria sopra illustrata muove oggi da una considerazione preliminare di natura sociologica: crimine organizzato e corruzione non possono più essere considerati mondi separati14. In altri termini, può ancora esistere un’ipotesi di corruzione senza il coinvolgimento delle reti criminali e delle mafie15, ma non possono esistere mafie e criminal networks senza corruzione16. La criminalità organizzata moderna utilizza la corruzione come strumento privilegiato di operatività. Essa si infiltra nell’amministrazione pubblica e nell’economia attraverso metodi non violenti, che si declinano anche mediante l’esercizio di attività di impresa (lecita o illecita, riciclando gli enormi capitali prodotti dalle primarie attività criminali). Corruzione, riciclaggio ed imprese illecite consentono alle mafie di occupare interi cicli economici in ampi territori17.
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Vedi la legge n. 3 del 2019. Il sociologo ne ha tratteggiato gli estremi in numerose opere particolarmente critiche della modernità e della globalizzazione nel corso della sua lunga carriera. La critica alla mercificazione delle esistenze e all’omologazione planetaria appare addirittura spietata soprattutto in Vite di scarto. Dentro la globalizzazione e Homo consumens. 14 Anzi si sconta un forte ritardo a livello internazionale nel prendere coscienza delle forti interrelazioni che caratterizzano i due fenomeni che proprio alcune proposte italiane tentano di superare. 15 Si tratta di una corruzione di portata minore, episodica e generalmente di rilievo davvero minore (la cd. petty corruption). 16 Cfr. N. Dalla Chiesa, 10 aprile 2019, UNILIBERA Milano. 17 Le organizzazioni criminali offrono beni e servizi illeciti sulla base delle domande del mercato e utilizzano meccanismi sofisticati per gestire l’economia. Il mafioso, dunque, diventa imprenditore e l’enorme incremento del patrimonio lo porta ad avvalersi dell’ausilio di brokers, di soci di intermediazione. 13
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Su di un piano più generale, le caratteristiche differenziali della criminalità organizzata contemporanea rispetto alle mafie che definisco di prima generazione ed alla criminalità comune ne disegnano chiaramente la fisionomia: i gruppi criminali di oggi dispongono di risorse stabili18, offrono beni e servizi illegali – ma anche legali –, sulla base delle domande del mercato e utilizzano meccanismi sofisticati per gestire l’economia, assicurano ordine e protezione soprattutto economico-sociale e si manifestano come espressione di un’identità collettiva incentrata sulla ricerca del profitto, più che sul controllo del territorio mediante violenza o minaccia. Il mafioso assume le vesti di imprenditore e l’enorme incremento del patrimonio lo porta ad avvalersi dell’ausilio di brokers, di soci di intermediazione addentrati nella pubblica amministrazione. Le mafie con le loro imprese gestiscono interi settori dell’economia, acquisendo quote rilevanti nel mercato delle costruzioni, nel settore della sanità (farmacie, cliniche e laboratori, trasporto infermi) nel controllo del ciclo di rifiuti, nell’agricoltura, nella distribuzione alimentare e nei mercati ortofrutticoli, nel settore della vigilanza privata, delle onoranze funebri e della raccolta di scommesse (e l’elenco potrebbe continuare). È mutata la strategia stessa della criminalità organizzata nella modalità acquisitiva del potere e della mobilitazione del consenso sociale. Le reti criminali contemporanee approfittano della globalizzazione, delle nuove tecnologie e del cyberspace, tendono all’accumulazione di asset finanziari enormi ed in grado di influenzare i processi decisionali: le mafie finiscono per rappresentare un pericolo per la stessa libertà di mercato ed i capisaldi dello stato di diritto. In casi estremi le organizzazioni criminali minano alla base l’indipendenza della giustizia e la stessa democrazia, presentandosi come soggetti politici che contribuiscono in maniera significativa alla comparsa di veri e propri “rough states”19. In linea più generale, fine ultimo di questo salto di qualità della criminalità organizzata è la creazione delle basi sociali per l’accettazione culturale collettiva della corruzione come male necessario, generando una vis cui resisti non potest, come il prezzo da pagare per il benessere e la sicurezza stessa, in un sistema in cui i valori si confondono con i disvalori e si mettono in discussione i principi fondamentali della società basata sul diritto. Il venir meno della violenza e della minaccia come strumento principale di operatività di queste organizzazioni criminali non le rende meno pericolose: semmai ne amplifica esponenzialmente la potenzialità operativa e ne accresce la micidialità per la società moderna (attraverso la loro natura sotto traccia ed invisibile di creeping). Le caratteristiche del crimine organizzato moderno sono ricorrenti in tutto il mondo: la transnazionalità delle organizzazioni più attive è una realtà oggettiva. Alcune mafie, come ad esempio la ‘ndrangheta, i cartelli messicani e gruppi criminali russi, sono operative con interessi in tutti i continenti20.
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È impensabile oggi contrastare i gruppi criminali solo con misure personali e senza un robusto ricorso alle confische: la stessa indagine penale e di prevenzione in subjecta materia dovrebbe sempre essere diretta ad entrambi i profili strutturali e funzionali delle cosche. 19 Espressione controversa utilizzata da alcuni teorici anglosassoni di scienze politiche all’inizio del XXI secolo per riferirsi a taluni Stati considerati una minaccia per la pace mondiale. 20 Come accennato evolvendosi in soggetti economici transnazionali.
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Gli schemi corruttivi e di riciclaggio sono ricorrenti e si presentano con affinità disarmanti in tutto il pianeta. La stessa corruzione, nelle sue forme più gravi, è transnazionale: la foreign bribery è una modalità operativa diffusa globalmente, che inquina l’economia e frena lo sviluppo sostenibile dell’intera umanità21. ***** Volendo utilizzare uno schema geometrico, il crimine organizzato ed i criminal networks si pongono al vertice alto di un triangolo che vede agli angoli della base, da un lato l’amministrazione pubblica e dall’altro l’economia. Sui due lati possiamo intravedere da una parte la corruzione come metodo di infiltrazione nell’amministrazione della cosa pubblica e dall’altro il riciclaggio e l’impresa illecita come strumento di operatività nei mercati. Corruzione liquida è un’endiadi che richiama il concetto di infiltrazione. L’infiltrazione costituisce un fenomeno fisico che descrive la penetrazione di un liquido attraverso tutti gli interstizi di un solido. Nella metafora il liquido sono le mafie ed il solido la nostra società. Più la società è coesa, meno essa consente l’infiltrazione. E, se la società mostra crepe, lì si insinua il crimine approfittando delle debolezze degli uomini. Avidità, senso etico scarso o del tutto assente, aridità ed incultura valoriale rappresentano il primo punto di approdo delle mafie che si industriano per comprare i favori di questo o quel pubblico ufficiale. Nello schema tipo della corruzione vissuta il primo gradino in una scala negativa ingravescente è la petty corruption: la tangente una tantum. In questo caso22 è agevole distinguere tra corruttore e corrotto. Ma le mafie hanno bisogno di termini di riferimento stabili e cercano persone di cui fidarsi all’interno delle diverse figure soggettive che compongono il complesso organizzativo dell’amministrazione pubblica. Sebbene si tratti di casi di piccola entità, una simile modalità operativa è costosa se ripetuta infinite volte e pone, d’altro canto, le organizzazioni criminali ad un rischio esponenziale di delazione, aumentando la platea dei potenziali concorrenti “inaffidabili”23. Nasce così il secondo gradino del fenomeno infiltrativo, che corrisponde alla cosiddetta “messa a libro paga” o compravendita della funzione stabile24. Il pubblico ufficiale mette a disposizione la propria funzione e non per un solo atto, non già per la cura dell’interesse collettivo, bensì per assicurare il raggiungimento degli scopi illeciti del clan. Anche suddetto secondo schema corruttivo è divenuto nel tempo costoso economicamente e pericoloso dal punto di vista della fiducia, permanendo il pubblico ufficiale un estraneo
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Cfr. per un interessante esame delle conseguenze della corruzione sull’economia i g20 High Level Principles on Corruption and Growth. 22 Gli inglesi definiscono petty corruption la “bustarella” o il piccolo “favore”. 23 Proliferano nel mondo nuove legislazioni che tendono a rompere l’accordo tra corruttore e corrotto, riconoscendo consistenti sconti di pena o addirittura esimenti a chi, propalando, evita che il reato venga portato a conseguenze ulteriori. 24 Cfr. l’art. 318 c.p. del Codice penale italiano vigente.
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all’organizzazione che, anche in ragione della ricorrente devianza dell’azione amministrativa, potrebbe porsi come una pericolosa fonte di informazioni per la polizia giudiziaria e la magistratura. L’estraneo non ha lo stesso vincolo di assoggettamento ed omertà che caratterizza i partecipi di un clan. Di qui la scelta sempre più diffusa di infiltrare all’interno della pubblica amministrazione uomini propri delle cosche, che sono allo stesso tempo membri dell’associazione per delinquere di tipo mafioso e funzionari pubblici, inglobati nell’amministrazione e al di sopra di ogni sospetto. Questo terzo gradino di ingresso delle mafie (e dei gruppi criminali organizzati in genere) nell’amministrazione pubblica si è dimostrato di successo ed ha fatto crescere nel tempo le ambizioni delle cosche: l’infiltrazione è avvenuta sempre più a livelli elevati, fino a giungere ai vertici soprattutto degli enti locali territoriali, come il numero dei provvedimenti di scioglimento degli enti locali e la realtà investigativa più recente insegnano e confermano25. Le mafie aspirano a determinare, in concreto, anche le scelte politiche territoriali, infiltrandosi ai più alti livelli. Questo fenomeno di corruzione liquida costituisce una costante globale e quando interessa livelli più alti di governo, come la storia recente di numerosi paesi ci induce ad affermare, genera una situazione estrema e dà luogo ai cd. Captured States26. Anche in quei casi operatività dei networks criminali e corruzione giocano un ruolo cruciale, così come ampiamente condiviso a livello internazionale. In dette ipotesi, peraltro, agendo l’infiltrato come intraneo all’associazione e contemporaneamente pubblico ufficiale, lo stesso schema tipico del delitto di corruzione sembra inadeguato. ***** L’acquisizione della consapevolezza in ordine alla centralità della prospettata questione, alla sua rilevanza ed urgenza, si avverte ancor più in un momento come quello attuale, che vede l’economia piegata dalla pandemia e l’ambiente socioeconomico esposto agli interessi ed al pericolo di “approfittamento” del crimine organizzato, come sagacemente indicato, con tempismo eccezionale, dal Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho27. Le organizzazioni mafiose hanno sempre trasformato le situazioni di emergenza presentatesi nella società in occasioni di guadagno (come avvenuto per le calamità naturali e le crisi della gestione dei rifiuti e dell’immigrazione). L’alert sui pericoli di infiltrazione del crimine organizzato, dei networks internazionali e della grande corruzione nell’economia e soprattutto nel settore della sanità al tempo del Coro-
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Artt. 143-146 del d. lgs. 267 del 2000. Il termine “state capture” è stato usato per la prima volta dalla Banca Mondiale attorno all’anno 2000, per descrivere la situazione che alcuni paesi dell’Asia centrale stavano affrontando nel processo di transizione post-sovietica. Ne è stato evocato storicamente il concetto per numerosi casi di corruzione ai più alti livelli istituzionali, perfino dei capi di Stato, nel mondo (Brasile, Guatemala, Peru, Korea del Sud, Tunisia, Ukraina). 27 Cfr. tra i tanti articoli riportanti il pensiero del PNA: “La pandemia accresce i rischi di infiltrazioni mafiose”, 2 Maggio 2020, First On line Intervista di Filippo Cucuccio. 26
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navirus è stato ampiamente raccolto sul piano globale dalle principali organizzazioni internazionali, a testimonianza – ancora una volta – della grande visione e del potenziale dell’arsenale italiano antimafia anche sul piano della armonizzazione normativa internazionale e l’edificazione di un ordinamento giuridico multilivello28. Emblematico è il fenomeno di soccorso delle mafie, che godono del consenso sociale per la catena di solidarietà messa in campo. Proprio perché lo stato di crisi cagiona l’impoverimento delle persone e il blocco delle attività produttive, l’immissione nel mercato di grandi quantità di denaro rende la criminalità organizzata attiva e vieppiù pericolosa nella gestione delle attività. I flussi di denaro stanziati sono spesso tempestivi, a fronte di esigui controlli. Ed in questa modalità operativa di intimidatorio e violento non vi è nulla. Ma è possibile immaginare che quelli descritti siano fenomeni non mafiosi? ***** Concludo questo breve excursus logico argomentativo con un’ultima considerazione prospettica: adattare il quadro normativo alla nuova fisionomia della mafia è fondamentale, così come è decisivo intendere la necessità di contrastare mafie a corruzione insieme. Epperò, questo non basta. Di fronte a simili fenomenologie socio criminali non si può pensare di reagire solo reprimendo le condotte in sede penale: l’integrità e la trasparenza non si impongono dall’alto. Non è il numero di adempimenti e di regole che assicura il risultato, bensì è essenziale quella svolta culturale, quella disseminazione valoriale di cui una società liquida come quella contemporanea ha assoluto bisogno. Quelle debolezze che generano le crepe e nelle quali si infiltra il crimine non vengono meno per la paura di una sanzione: pensare diversamente è illusorio. Occorre pertanto muovere anche sul piano della pedagogia sociale, della condivisione delle scelte, della democrazia partecipata, in poche parole dello stato di diritto nella sua più alta concezione. La doppia leva di un ambiente economico legalmente orientato in un ordinamento giuridico sempre più multilivello, che armonizza le più significative norme di tutela sul piano globale, adattate alla modernità del crimine e della chiamata ad una compartecipazione attiva e ad una vigilanza collaborativa della società civile, rappresentano unite la vera ed unica arma letale per le mafie contemporanee silenti e mercatiste, che non sono meno pericolose di quelle violente di trenta anni fa.
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Gli organismi internazionali hanno prodotto interessanti contributi sull’esigenza di contrasto alla corruzione in tempo di pandemia: l’OCSE ha adottato uno Statement del WGB e il policy brief Public integrity for an effective Covid-19 Response and Recovery; il GRECO (in seno al CoE) ha adottato /Guidelines/covid-19-pandemic-grecowarns-about-corruption-risks e l’UNODC un documento di orientamento per le policy degli Stati Parte della UNCAC. Da ultimo anche il GAFI si è pronunciato sul punto.
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Il fenomeno internazionale del lobbismo tra democrazia partecipativa e traffico di influenze illecite Sommario: 1. Breve panoramica internazionale sui presupposti culturali. – 2. La disciplina giuridica del lobbismo in Europa. – 2.1. Francia. – 2.2. Germania. – 3. La disciplina giuridica del lobbismo nell’area anglosassone. – 3.1. Regno Unito. – 3.2. Stati Uniti d’America. – 4. I primi, timidi e scarni cenni di regolamentazione in Italia. – 5. Il trading in influence in Europa. – 6. La nuova fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. dalle ceneri del millantato credito. – 7. I requisiti di offensività della condotta. – 8. La proiezione finalistica dell’accordo illecito sugli atti del pubblico ufficiale. – 9. Il rischio penale del lobbista in relazione all’atto del pubblico ufficiale di natura amministrativa. Abstract The focus of regulations applying to international lobbying is based on two cultural premises. On the one hand, the idealistic approach views the State as a superior Entity that must necessarily be unbiased, and lobbying as a potential source of disturbance of the State’s authoritative acts; on the other hand, the empirical approach adopted by English-speaking countries consider lobbying a channel for allowing stakeholders to participate in the political decision-making process. Both these cultural approaches tend to influence lobbying activities in the European Union and its Member States, based on the general paradigm of holding stakeholder auditions before the Parliamentary committees; in English-speaking countries, lobbying activities, however, are not limited to auditions before the institutional bodies, but also involve direct participation in political competition. In Italy, the substantial lack of regulations heightens the criminal liability of lobbyists, which may be contained and downscaled by way of the proper – more restrictive – interpretation of the new offence referred to in article 346-bis of the Criminal Code, establishing a link between the criminal nature of an illegal agreement and the administrative acts of a public official. Lo sguardo alla disciplina giuridica del lobbismo nella panoramica internazionale prende le mosse da alcune premesse culturali di fondo. Da un lato, la cultura idealistica rappresenta lo Stato come Entità superiore, necessariamente imparziale, e ravvisa nella lobby una potenziale fonte di turbamento degli atti d’imperio; dall’altro, la cultura anglosassone di stampo empirista ravvisa nella lobby un canale di partecipazione degli stakeholders alle decisioni politiche. Entrambe le culture influenzano la disciplina del lobbismo nell’Unione Europea e negli Stati membri, basata sul paradigma generale dell’audizione dei rappresentanti d’interesse da parte delle commissioni parlamentari; nell’area anglosassone, la lobby non finalizza la sua attività alla sola audizione istituzionale, poiché è configurata come un partecipe diretto della competizione politica. In Italia, la sostanziale assenza di regolamentazione accentua il rischio penale del lobbista, che può essere contenuto e ridimensionato solo mediante una corretta interpretazione, di stampo restrittivo, della nuova fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p., connettendo l’offensività dell’accordo illecito agli atti del pubblico ufficiale di natura amministrativa.
1. Breve panoramica internazionale sui presupposti culturali. In Italia, la dominante narrazione mediatica (e vorremmo aggiungere “nazionalpopolare”) vuole che il lobbista sia un “faccendiere”, in contatto con le Autorità dello Stato alla ricerca
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di privilegi e favoritismi. Siffatta accezione negativa dell’attività di lobbying, a nostro avviso, trova il suo humus culturale nella concezione idealistica dello Stato, ovvero nella reificazione dell’idea di Stato. Laddove all’insieme aggregato delle istituzioni politiche non si riconosce la natura di una sintesi ideale, bensì di una res vera e propria, che sovrasta i singoli uomini e la società umana, è consequenziale assumere lo Stato come entità super partes, perciò al di sopra e al di fuori degli interessi di “parte”. In questa logica, lo Stato esprime il supremo Bene; l’ethos gli appartiene per sua stessa natura; sicché lo scopo di volgere i suoi atti in direzione della soddisfazione degli interessi di parte tende per ciò stesso a minarne l’imparzialità. In breve, l’influenza esercitata dalla lobby non può che essere guardata “con sospetto”1. Al contrario, la considerazione dello Stato non già come res, bensì come idea di sintesi2, rappresentativa dei molteplici apparati organici, che compiono atti espressivi della sovranità giuridica, con deliberazioni poste in essere attraverso la volontà di uomini in carne ed ossa, ci consente di vedere la dinamica degli interessi sottesa agli atti di sovranità. In questa logica il Legislatore è un’idea, mentre la res è data dall’Assemblea legislativa, le cui deliberazioni esprimono la volontà della “parte” politica maggioritaria; la pubblica Amministrazione integra – essa stessa – una “parte”, sia perché si relaziona con la “parte” privata, sia perché attua la volontà politica del “partito” di maggioranza; solo il Giudice è super partes; essendo chiamato a compiere non già atti di volontà, bensì a dirimere controversie insorte tra le “parti”; i suoi pronunciamenti hanno natura super partes, proprio in quanto le parti in giudizio possono instaurare un contraddittorio in condizioni paritarie e la decisione giudiziale è vincolante per entrambe (per l’appunto super partes). Questa concezione è dominante nel mondo anglosassone, dove il concetto rappresentativo della res è quello di government, non quello di Stato; e s’intende che l’idea di government è politicamente orientata, essendo insita in essa quella connotazione di parte, corrispondente a una maggioranza politica, mutevole e temporanea. In questo quadro, è guardata con favore – e comunque senza disfavore – l’attività dei gruppi d’interesse che tendono ad orientare le decisioni delle Autorità politiche, giacché la dinamica democratica è vista come scontro-incontro di interessi di parte e infine mediazione tra i vari interessi in gioco. È dunque in questa temperie culturale che s’è sviluppata e consolidata la prassi lobbistica, come si evince facilmente dal fatto che non a caso la parola lobby e i suoi derivati sono di origine anglosassone3. Nell’Europa continentale di oggi le due cornici culturali convivono e si sovrappongono; è certo comunque che la concezione dello Stato etico è in declino e si fa strada l’idea che i gruppi d’interesse possano dare un apporto costruttivo alla dinamica democratica. Mentre arretra
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Dello stesso avviso P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione. Parlamenti e Lobby nel diritto pubblico comparato, Milano, 2011, 8: “sembra mancare il ‘coraggio’ in Italia di guardare alla realtà, ovvero al fatto che i gruppi di pressione partecipano già ai processi decisionali (e talvolta li determinano), e che il problema non è dato da questo fenomeno, ma dalla condizione di oscurità che li avvolge”. A ben vedere, siffatta mancanza di “coraggio” scaturisce dal “pregiudizio moralistico, che ancora oggi aduggia assai spesso nelle considerazioni sull’argomento”; V. De Capraris, Gruppi di pressione e società democratica, in Id., Le garanzie della libertà, Milano, 1966, 133. 2 Sull’errore metodologico della reificazione delle idee D. Antiseri, Principi liberali, Soveria Mannelli, 2003, 7 ss.; R. Leoni, Lezioni di filosofia del diritto, Soveria Mannelli, 2003, 47. 3 Il termine lobby indicava la grande sala d’ingresso della House of Commons di Londra, aperta al pubblico, dove avevano luogo le conversazioni di parlamentari, giornalisti e portatori di interessi particolari i quali ultimi, in quanto frequentatori della lobby, furono chiamati lobbisti.
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l’astratta concezione idealistica dello Stato rappresentato come Ente superiore agli interessi in gioco, avanza di pari passo l’idea che la partecipazione dei cittadini alla vita democratica della polis postuli innanzitutto la possibilità che gruppi di interesse si organizzino professionalmente (o diano mandato di rappresentanza a professionisti), per influenzare correttamente il corso delle decisioni politiche. In questa logica, l’Unione Europea ha voluto riconoscere solennemente l’apporto delle lobbies alla dinamica democratica delle sue istituzioni4. L’art. 11 del Trattato di Lisbona prevede che i) le istituzioni europee debbano mantenere un dialogo trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile; ii) la Commissione Europea debba procedere ad ampie consultazioni delle parti interessate, al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione. In questa logica, è stato istituito il c.d. Registro della trasparenza, per gli enti associativi autorizzati a interloquire con gli organi istituzionali dell’Unione; l’Interinstitutional agreement on a common Transparency Register between The Parliament and Commission del 23 giugno 20115 dispone che siano iscritti al Registro i soggetti che esercitano “tutte le attività volte allo scopo di influenzare, direttamente o indirettamente, l’elaborazione o l’attuazione delle politiche e i processi decisionali delle istituzioni dell’Unione”6. Permane invece in Italia il vuoto di regolamentazione, dovuto in buona misura al menzionato preconcetto originario, ancora duro a morire. Invero, non si può dire che, nel nostro ordinamento, gli strumenti di democrazia partecipativa siano visti con disfavore; tuttavia la nostra Carta costituzionale non offre loro un presupposto giustificativo di ampio respiro. L’art. 50 Cost. recita: “tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità”. Certamente la disposizione richiamata può essere eretta a principio fondante della partecipazione dei cittadini al processo decisionale degli organi politici, tuttavia ne sono abbastanza chiari i limiti. Il ruolo partecipativo è affidato all’istituto della “petizione”, nel quale è ben evidente la posizione subordinata di chi “chiede” rispetto al potere sovraordinato di chi “concede”. Non siamo molto distanti dalla petizione al
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Sul punto G. Sgueo, Transparency of lobbying at EU level, European Parliamentary Research Service, PE 572, 803, 2015. 5 L’accordo segue oltre un decennio di sperimentazione nella disciplina dei gruppi di pressione. Già nel 1988 il c.d. “Rapporto Cecchini” suggeriva un maggiore coinvolgimento di imprese e organismi della società civile nelle decisioni delle istituzioni europee. Nel 1995 il Parlamento europeo introduceva un proprio registro dei rappresentati di interessi, seguito nel 2008 dalla Commissione. Finora la terza principale istituzione dell’UE, il Consiglio, non ha provveduto in tal senso; non mancano tuttavia segni di resipiscenza, giacché sei membri del Consiglio hanno proposto l’introduzione del medesimo regime di trasparenza, in relazione all’attività di lobbying, in vigore presso il Parlamento e la Commissione, sulla base di un solo registro. Sul punto cfr. G. Sgueo, Oltre i confini nazionali. L’impatto delle lobbies sull’Unione europea, in F. Macrì (a cura di), Democrazia degli interessi e attività di lobbying, Soveria Mannelli, 2016. 87 ss. 6 “… a prescindere dai canali o mezzi di comunicazione impiegati, quali l’esternalizzazione, i media, o contratti con intermediari specializzati, i centri studi, le ‘piattaforme’, i forum, le campagne e le iniziative adottate a livello locale. Dette attività comprendono, inter alia, i contatti con membri, funzionari o altro personale delle istituzioni dell’Unione. Sono altresì inclusi i contributi volontari e la partecipazione a consultazioni formali su futuri atti legislativi o altri atti giuridici dell’Unione ovvero ad altre consultazioni aperte” (art. 11). Inoltre l’art. 1 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) impone a tutte le istituzioni di assumere le decisioni nel “modo più trasparente possibile”; e l’art. 15 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) ribadisce che “le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile”.
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“Re”, in vigore perfino negli ordinamenti delle monarchie assolutiste. Al contempo, è omesso qualsiasi cenno ai gruppi d’interesse; il titolare del diritto di “chiedere” è il quivis de populo; il che è un bene, giacché si generalizza una facultas agendi, non certo un divieto; ma è anche un “male”, giacché nella massa informe dei potenziali “petitori” non sono estrapolate posizioni differenziate; pertanto non sono costituzionalmente tutelate forme di partecipazione, “rappresentativa” e qualificata, ai processi decisionali delle istituzioni. È ben vero che la prassi politica conosce ben altre forme di partecipazione, al di là e al di fuori della petizione; tuttavia, il fatto stesso che tale obsoleto istituto debba essere invocato a fondamento giustificativo dell’attività di rappresentanza di interessi di gruppo ci dice chiaramente quanto sia persistente nel nostro Paese il preconcetto che riduce l’esercizio del lobbismo alle disinvolte astuzie del “faccendiere”. Ciò spiega a sufficienza perché la situazione italiana, come detto, è caratterizzata dal minimo livello di regolamentazione dell’attività lobbistica7 e dal massimo livello del rischio penale. Sul punto è necessaria una chiarificazione. Lo scopo intrinseco e necessario dell’attività lobbistica è quello di orientare le scelte politiche; l’esercizio della “influenza” è la ragion d’essere della lobby; al contempo – come meglio vedremo – il traffico di influenze “illecite” costituisce reato. Sicché è ben evidente che la certezza delle regole dirette a disciplinare l’attività lobbistica, può offrire un grande contributo per delimitare l’area di esenzione dal rischio penale. Non bisogna tuttavia attendersi risultati miracolistici: l’idea che le regole di trasparenza, nei rapporti tra i gruppi di pressione e gli organi dello Stato, possano ex se delimitare l’area della liceità e restringere la tipicità penale ci pare semplicistica, per due motivi. In primo luogo, sembra opportuno evidenziare che il binomio regolarità/irregolarità non coincide col binomio liceità/illiceità, cosicché la precisa regolamentazione dell’attività di lobbying non garantirebbe di per sé la precisa individuazione degli estremi di reato. Per di più, l’idea (a nostro avviso, semplicistica) che la regolamentazione dell’attività lobbistica possa delineare i confini del reato, potrebbe legittimare l’estensione dell’ambito di rilevanza penale, per automatica connessione tra l’irregolarità della condotta del lobbista e l’incriminazione dell’accordo, a titolo di traffico d’influenze illecite. In verità – come vedremo – il carattere illecito del traffico di influenze si lega alla finalità dell’accordo, piuttosto che alla strumentalità, cosicché il modo regolare di esercitare l’attività lobbistica dice nulla o dice poco sull’illiceità della condotta dei soggetti coinvolti. In secondo luogo, bisogna tener conto del fatto che l’attività di lobbying, nella maggior parte dei casi, tende a far sì che la legislazione in fieri possa soddisfare, o almeno contemplare, gli interessi categoriali rappresentati; gli atti finali, in vista o nell’aspettativa dei quali, si stringe l’accordo tra il lobbista e il cliente, in linea di massima, hanno carattere legislativo e ciò impedisce di ravvisarli come illeciti. Se, dunque, l’illiceità finalistica dell’influenza esercitata dal lobbista è una componente essenziale del reato, l’insindacabilità della scelta politica propria dell’atto legislativo farebbe esulare ab imo la configurabilità del reato. Ergo la regolamentazione amministrativa varrebbe poco a delimitare il campo della rilevanza penale.
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T.E. Frosini, Gruppi di pressione, in Anis (a cura di), Dizionario costituzionale, Bari, 2000, 228, osserva che il tema dei gruppi di pressione “è praticamente ignorato dal legislatore. Questo non perché da noi le lobby non esistano – tutt’altro … – ma per la preoccupazione che la disciplina dei gruppi di pressione equivalga alla loro legittimazione, dunque una curiosa ritrosia a riconoscere che il re è nudo”. In questa “ritrosia” ritroviamo tanta parte di quella “cultura del sospetto” qui tratteggiata.
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Per le superiori ragioni, è ingenuo pensare che la regolamentazione dell’attività di lobbying possa avere effetti miracolistici sulla tipizzazione dei fatti di reato, nell’ambito dei rapporti tra gli stakeholders e gli organi pubblici; ciò tuttavia non significa che sarebbe inutile, giacché opiniamo che ridurrebbe comunque l’area del rischio penale. Bisogna considerare, infatti, che quanto più risulta estesa la zona grigia delle condotte non univoche, a cavallo della linea di discrimine tra lecito e illecito, tanto più alto è il rischio penale. Ci riferiamo non solo al rischio di subire la condanna, ma anche a quello, inevitabilmente superiore, di subire il processo; giacché il numero dei fatti, in relazione ai quali è avviata l’azione penale, non può che essere superiore rispetto a quello dei fatti, per i quali interviene una sentenza di condanna. Possiamo fondatamente opinare che in Italia tale rischio sia più accentuato che altrove, in ragione di una certa tendenza a distorcere la funzione della norma penale, da sanzione del fatto di reato previamente individuato e tipizzato, a fonte di legittimazione delle decisioni giudiziale. Si può ravvisare, nella più recente dinamica legislativa e giudiziaria del nostro Paese, un orientamento politico-criminale di fondo che possiamo definire del diritto penale totale8, nel cui quadro si inscrive la tendenza a dilatare la rilevanza penale dei comportamenti umani, legittimando l’intervento del giudice, non più solamente diretto a risolvere una controversia, ma anche a istituire e definire “precetti” generali, in surroga del legislatore e supplenza della politica. In considerazione di ciò, l’auspicabile regolamentazione dell’attività di lobbiyng, seppure non decisiva ai fini dell’esatta tipizzazione delle fattispecie penalistiche, afferenti ai fenomeni corruttivi, tuttavia può certamente contribuire a ridurre il rischio penale degli operatori di settore, offrendo minore opportunità alla “supplenza” dei pubblici ministeri e dei giudici. Per chi ritiene, come noi riteniamo, che la funzione dissuasiva e deterrente non appartenga solo alla norma penale, ma anche a tutti gli strumenti che possono implementare la trasparenza delle attività d’interesse pubblico e la serenità dei rapporti umani, in funzione di prevenzione dei reati, la regolamentazione dell’attività di lobbying non può che essere guardata con favore, giacché restringe l’area torbida della possibile commistione lecito/illecito, la quale fornisce il migliore alimento alla cultura del sospetto. È necessario dunque guardare all’esperienza degli altri Paesi, per trarne utili indicazioni ai fini di un possibile e auspicabile intervento legislativo, diretto a rendere trasparente e cristallino ciò che oggi è opaco; la dinamica lobbistica, nel quadro di regole certe, offre un grande contributo ad accorciare le distanze fra le istituzioni rappresentative e i corpi sociali, a rendere i portatori di interessi superindividuali partecipi del processo decisionale politico, in una parola a edificare la “casa di vetro” nella quale ha vita la democrazia partecipativa; solo lo sguardo alle esperienze degli altri Paesi ci può consentire di abbandonare il preconcetto annidato nella communis opinio che vede nel lobbista il “faccendiere” e può ispirare il necessario intervento legislativo diretto a fare del lobbista, piuttosto che un “faccendiere”, un “collaboratore” delle istituzioni democratiche.
2. La disciplina giuridica del lobbismo in Europa. Nell’area dell’Europa continentale, il paradigma intorno al quale si sviluppa la normativa, che disciplina l’attività di lobbying, è la “audizione”, la quale prende il posto dell’arcaica “pe-
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F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna, 2019.
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tizione”. Con l’audizione si realizza un proficuo dialogo tra l’organo istituzionale e il rappresentante d’interessi. La dinamica democratica si arricchisce delle osservazioni di un soggetto che interloquisce e argomenta nella fase preliminare alla decisione dell’organo. Tale soggetto partecipa all’iter di elaborazione della decisione9; la sua figura non è quella del richiedente, il quale, avendo formulato una volta per tutte una petizione cristallizzata in una formula verbale, attende passivamente che l’organo istituzionale la prenda in considerazione, determinandosi come meglio crede; al contrario, è quella di un interlocutore qualificato, capace di persuadere, motivare, influenzare e anche orientare i titolari del potere decisionale, rappresentando loro l’opportunità politica di soddisfare determinati interessi di gruppo.
2.1. Francia. Nell’ordinamento francese è regolamentata solo l’attività di lobbying esercitata nelle sedi parlamentari. Le due Camere di cui si compone il Parlamento francese, l’Assemblea nazionale e il Senato, nel 2009 emanarono una normativa regolamentare, diretta a disciplinare le attività di lobbying al loro interno, allo scopo di garantire una maggiore trasparenza della vita politica e prevenire eventuali rapporti illeciti tra parlamentari e gruppi d’interesse. a) Assemblea nazionale Il 2 luglio 2009, il Bureau de l’Assemblée Nationale adottò uno specifico “Codice di condotta” (Code de conduite applicable aux représentants d’intérêts) contenente regole di trasparenza e standards di etica professionale, che vincolavano i rappresentanti dei gruppi di pressione. Al contempo, introdusse – nell’ambito dell’“Istruzione generale dell’Ufficio di Presidenza” a complemento del Regolamento dell’Assemblea nazionale – una norma che disciplinava l’accesso alla sede dell’Assemblea nazionale. L’art. 26, paragrafo III-B dell’Istruzione generale (successivamente abrogato) prevedeva che i “rappresentanti di interessi pubblici o privati” disponessero di permessi giornalieri di ingresso nel Palais Bourbon, con possibilità di accedere agli ambienti attigui all’Aula, con alcune limitazioni di giorni e orari, a condizione che fossero iscritti nell’apposito elenco pubblico, tenuto a cura del Bureau de l’Assemblée (tableau de répresentants d’intérêts), successivamente soppresso. Con intervento del 13 luglio 2016, sono state apportate rilevanti modifiche, in buona misura suggerite dalla Commissione di studio insediata nel luglio 201210, in funzione di una più accentuata trasparenza delle “audizioni”. Per esempio, il nuovo c. 1°, lettera d), dell’art. 22 dell’Instruction général du Bureau dispone, infatti, che le relazioni, i pareri e gli altri documenti
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Tale partecipazione non sempre emerge pubblicamente, nonostante le regole di trasparenza adottate. In particolare si osserva, da più parti, che il regime facoltativo di iscrizione al Registro dei rappresentati di interesse presso la Commissione e il Parlamento europeo impedisce di avere un quadro esaustivo dei soggetti che svolgono attività di pressione. Sul punto G. Sgueo, Oltre i confini nazionali, cit., 91 ss. 10 Nel luglio 2012, l’Ufficio di Presidenza designò un gruppo di lavoro presso l’Assemblea nazionale, presieduto da Christophe Sirugue (Presidente della Délégation chargée des répresentants d’intérets), affinché elaborasse proposte per il miglioramento della disciplina dell’attività di lobbying presso l’Assemblea Nazionale, procedendo attraverso lo studio della regolamentazione vigente nelle altre istituzioni parlamentari europee. A conclusione di tale studio, il 27 febbraio 2013 fu presentata una relazione conclusiva (Rapport du groupe de travail sur les lobbies à l’Assemblée nationale) contenente alcune proposte di riforma. Ne è sortito il nuovo Codice di condotta (Code de conduite applicable aux représentants d’intérêts) approvato dall’Ufficio di Presidenza il 26 giugno 2013.
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presentati alla Presidenza da una commissione, una delegazione, un ufficio o altro organo dell’Assemblea nazionale, debbano contenere, in allegato, la menzione di tutte le audizioni, tra le quali sono ovviamente ricomprese quelle dei rappresentanti di interessi. Il menzionato “Registro dei rappresentanti d’interessi”, con diritto d’accesso alla sede dell’Assemblea Nazionale è stato soppresso a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 1691 del 9 dicembre 2016, relativa à la transparence, à la lutte contre la corruption et à la modernisation de la vie économique. Le funzioni del registro appartengono ora a un repertorio digitale nazionale dei rappresentanti di interessi (répertoire numérique national des représentants d’intérêts), istituito presso la Haute Autorité pour la transparence de la vie publique (HATVP). Il codice di condotta contempla una serie di regole vincolanti, di prevalente stampo deontologico. Per esempio, i lobbisti non possono cedere a titolo oneroso documenti parlamentari o qualunque altro documento dell’Assemblea Nazionale, non possono in alcun modo utilizzare il logo dell’AN, né qualificare come “parlamentari” gli eventi organizzati o gli atti compiuti. Le loro comunicazioni non possono essere riservate a specifici gruppi parlamentari, con esclusione di altri e devono essere informate al principio di buona fede e correttezza. Particolarmente importanti sono le regole imperative, dirette ad assicurare la trasparenza degli interessi rappresentati. Devono essere indicate le fonti di finanziamento e nominati gli Enti finanziatori di eventi e manifestazioni; inoltre, i parlamentari invitati devono essere informati sui costi programmati, in modo da rispettare con piena consapevolezza gli obblighi del loro codice deontologico. Peraltro, tale codice è vincolante per gli stessi rappresentanti d’interessi, nell’esercizio di tutte le attività che involgono rapporti con i componenti, gli organi e gli uffici dell’Assemblea. b) Senato È simile la normativa che regola l’attività di lobbying nelle relazioni instaurate col Senato, adottata con l’Arrêté n. 2009-232 du 7 octobre 2009, modificato nel 2017, dall’Ufficio di Presidenza (Bureau du Sénat). La disciplina non si discosta da quella esaminata, in vigore presso l’Assemblea. Un capitolo dell’Instruction générale (Chapitre XXII bis) è dedicato al diritto d’accesso al Senato, riservato ai rappresentanti di interessi, iscritti nell’apposito registro. Le condizioni d’accesso al Palais du Luxembourg sono previste dall’Arrêté de Questure n. 20101258 del 1° dicembre 2010. Gli esercenti dell’attività di lobbying sono tenuti al rispetto di un codice di condotta (Code de conduite applicable aux groupes d’intérêts au Sénat), che prevede diversi obblighi e divieti di carattere deontologico, tra i quali il divieto di presentare ai senatori informazioni incomplete o inesatte, dirette a indurli in errore. È prevista la pubblicazione sul sito internet del Senato degli inviti all’estero indirizzati ai senatori, ai loro collaboratori ed ai funzionari del Senato. La violazione delle regole dal codice di condotta può determinare l’eventuale ritiro del diritto di accesso al Senato. È opportuno precisare che l’Ufficio di Presidenza del Senato ha mantenuto in vigore il sistema di accesso con iscrizione dei rappresentanti di interessi su una lista propria e specifica, a prescindere dall’iscrizione nel menzionato Repertorio nazionale, a cura dell’Alta Autorità. c) La legge del 2016 Nel tempo la mera disciplina delle audizioni, vigente nelle due Camere del Parlamento, si è rivelata insufficiente, essendo avvertita l’esigenza di una disciplina generale dell’attività di lobbying. Nel 2016, è stata approvata la legge fondamentale che regola l’esercizio dell’attività (Loi n. 2016-1691 du 9 décembre 2016 relative à la transparence, à la lutte contre la corruption et à la modernisation de la vie économique). L’art. 25 delimita il novero dei soggetti aventi
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l’obbligo d’iscrizione nel Repertorio digitale dei rappresentanti di interessi presso i poteri pubblici11. La représentation d’intérêts compete agli Enti morali di diritto privato (Fondazioni) e agli Enti Pubblici che esercitano un’attività industriale e commerciale (Camere di commercio e dell’industria territoriali e dipartimentali; nonché Camere dei mestieri e dell’artigianato). La titolarità soggettiva del potere di rappresentanza è legata al requisito della “professionalità”; giacché può essere riconosciuta solo a condizione che l’attività principale o regolare sia quella di influenzare la decisione pubblica, soprattutto in relazione al contenuto di una legge o atto regolamentare. Il perimetro dell’attività di lobbying viene tracciato dalla legge, in funzione del fatto che il rappresentante d’interessi entri in contatto con: un membro del Governo o del gabinetto ministeriale, un deputato, un senatore, un collaboratore del Presidente dell’Assemblea nazionale o del Presidente del Senato, un collaboratore del Presidente della Repubblica, il direttore generale, il segretario generale, o il loro vice, o un membro del collegio o di una commissione investita del potere di sanzione, di un’autorità amministrativa indipendente o di un’autorità pubblica indipendente, il titolare di un impiego o di una funzione conferiti dal Governo con nomina decisa dal Consiglio dei Ministri, il presidente di un consiglio regionale o dipartimentale, il sindaco di un comune con più di 20.000 abitanti, consiglieri regionali, consiglieri dipartimentali, direttori, direttori aggiunti e capi di gabinetto di autorità territoriali, un agente pubblico avente un impiego deciso da un decreto ministeriale, previo avviso del Consiglio di Stato. Sui rappresentanti d’interesse, iscritti al Repertorio digitale, gravano numerosi obblighi ed oneri. Ai fini della trasparenza dell’attività lobbistica, hanno rilievo primario i doveri di informazione; il rappresentante d’interessi deve comunicare all’Alta Autorità: l’identità e il settore di attività, nonché gli interventi realizzati, il bilancio dell’anno precedente, l’elenco delle persone impiegate, i soggetti titolari degli interessi rappresentati. Quanto alle norme di deontologia professionale, si possono citare i seguenti obblighi: di astenersi dal proporre o consegnare agli organi o funzionari pubblici regali, doni o qualsiasi vantaggio di valore significativo; di non indurre terzi a violare le regole deontologiche; non ottenere o tentare di ottenere informazioni riservate o atti decisionali, per mezzo di comunicazioni ingannevoli; non divulgare le informazioni ottenute, a scopo di lucro o pubblicità; non fare mercato di documenti del Governo, di un’Autorità amministrativa o Autorità pubblica indipendente; non utilizzare carta intestata e logo di autorità pubbliche o di organi amministrativi. L’Alta Autorità (HATVP) ha poteri di controllo e vigilanza sull’attività di lobbying; nell’esercizio delle funzioni istruttorie, non le può essere opposto il segreto professionale. Al contempo, a garanzia del lobbista, è disposto che nessuna decisione, a carattere sanzionatorio, può essere assunta senza che il diretto interessato o il suo rappresentante sia stato ascoltato o convocato12.
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L’art. 25 della legge n. 2016-1691 ha novellato la legge n. 907 dell’11 ottobre 2013 relative à la transparence de la vie publique. 12 Limitati poteri sanzionatori appartengono anche alle Camere. Ai sensi dell’art. 4 quinquies dell’ordinanza n. 58-1100, relativa al funzionamento delle assemblee parlamentari (ordonnance n° 58-1100 du 17 novembre 1958 relative au fonctionnement des assemblées parlementaires), un apposito organo parlamentare, che non rende pubblici i propri atti (interna corporis), vigila sull’operato dei parlamentari e dei rappresentanti d’interesse.
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2.2. Germania. Il Bundestag è stato il primo Parlamento europeo a regolare, con apposite norme, i rapporti istituzionali con gli stakeholders. Con decisione del 21 settembre 1972 dispose la registrazione delle associazioni interessate e dei loro rappresentanti (Beschluß über die “Registrierung von Verbänden und deren Vertreter”). Alla stregua di quella decisione, l’Allegato 2 al Regolamento del Bundestag (Anlage 2 – Registrierung von Verbänden und deren Vertretern)13 stabilisce l’aggiornamento annuale della lista pubblica (öffentliche Liste), nella quale vengono registrate tutte le associazioni che intendono rappresentare o difendere interessi di fronte al Bundestag o al Governo federale. I rappresentanti dei gruppi di pressione, iscritti nella lista, possono partecipare alle audizioni nelle commissioni parlamentari e accedere ai locali parlamentari previo rilascio di una tessera di riconoscimento (Hausausweis)14. È importante sottolineare che la registrazione nella lista non conferisce uno status giuridico in senso proprio, caratterizzato da prerogative e diritti, propri ed esclusivi. Infatti, ai sensi del Regolamento parlamentare, il gruppo accreditato non ha il diritto di essere audito dalle commissioni parlamentari, né può pretendere un trattamento di favore rispetto a gruppi concorrenti, non accreditati. Inoltre, la cornice giuridica dello status non sussiste per la “precarietà” del permesso, dal momento che il Bundestag può decidere di sospendere unilateralmente la validità della tessera di riconoscimento per accedere agli uffici parlamentari; manca infine il carattere “esclusivo” dello status, giacché le commissioni possono invitare alle riunioni anche associazioni o esperti, non iscritti nel registro. L‘iscrizione nella öffentliche Liste riguarda solo soggetti di diritto privato, poiché il Presidium del Bundestag, il 14 marzo 1973, dispose l’esclusione di Enti, Fondazioni e Istituti di diritto pubblico e loro confederazioni. Né d’altronde possono essere iscritti tutti quei soggetti i cui interessi siano rappresentati da un organismo di categoria già iscritto, come le singole imprese afferenti a una Confederazione accreditata. La lista è pubblicata annualmente, con gli aggiornamenti, in un supplemento della Gazzetta ufficiale federale (Bundesanzeiger)15 a cura del Presidente del Bundestag. È opportuno sottoli-
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Una traduzione in italiano dell’Allegato 2, a cura della Biblioteca della Camera, è presente nella documentazione allegata al dossier Materiali di legislazione comparata n. 28, Codici deontologici e disciplina dell’attività di lobbying nei Parlamenti di Francia, Germania, Regno Unito e USA (maggio 2012). A differenza del Bundestag, il Consiglio federale (Bundesrat), composto dai rappresentanti degli esecutivi dei Länder, non ha adottato analoghe disposizioni per disciplinare l’attività dei gruppi di pressione. 14 Al momento dell’iscrizione, i rappresentanti dei gruppi di pressione devono fornire le seguenti indicazioni: nome e sede dell’associazione; composizione della presidenza e degli altri organi direttivi; ambito di interesse dell’associazione; numero dei membri; nome dei rappresentanti dell’associazione; indirizzo dell’ufficio presso la sede del Bundestag e del Governo federale. I dati vengono inseriti nell’apposito formulario (Meldeformular), utilizzabile anche per successive modifiche. 15 La versione ufficiale della lista, pubblicata sul Bundesanzeiger del 19 maggio 2017, è aggiornata al 4 maggio 2017 (https://www.bundestag.de/blob/189456/130ebb7895b22f6a58da1dc805ceaadb/lobbylisteamtlich-data.pdf). Attualmente figurano nel registro, consultabile anche sul sito internet del Bundestag, 2.348 associazioni. Col passare degli anni, il numero di iscritti è sensibilmente aumentato (all’inizio i gruppi registrati erano 635, nel 1996 erano diventati 1614) e si sono ampliati i campi d’interesse in cui operano tali organizzazioni. Inizialmente il ruolo principale era svolto dalle lobbies del settore primario e secondario, vale a dire del mondo economico agricolo e industriale. Oggi si rileva una maggiore partecipazione del settore terziario e, in particolare, di organizzazioni non
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neare, infine, che l’attività lobbistica non è guardata con disfavore, al punto che si è instaurata la consuetudine delle c.d. “serate parlamentari” (Parlamentarische Abende), durante le quali hanno luogo scambi informativi e d’opinione tra i rappresentati d’interesse e i parlamentari, in un clima informale e colloquiale.
3. La disciplina giuridica del lobbismo nell’area anglosassone. Nell’area anglosassone, il paradigma dell’audizione risulta superato, giacché l’attività di lobbying non mira solamente a informare le assemblee parlamentari in ordine agli interessi dei gruppi rappresentati, ma anche e soprattutto a influenzare e condizionare il governo del Paese, contribuendo alle campagne elettorali. La lobby è qualcosa di simile a un partito politico, essendo ugualmente rappresentativa di interessi sociali che si coagulano in vista di un certo indirizzo di governo; e differendone, perché ha un angolo visuale più ristretto e settoriale. Non partecipa direttamente all’agone politico e alle competizioni elettorali, ma in qualche modo può contribuirvi, anche orientando il proprio elettorato di riferimento. In sintesi, la lobby viene vista come una componente di partito o anche una sorta di “transpartito”, dal momento che può affidare il perseguimento degli interessi rappresentati a una pluralità di partiti politici. Sotto questo profilo, può vedersi anche una certa somiglianza con le Fondazioni e i think tanks, che contribuiscono all’elaborazione e alla realizzazione dei programmi politici di partito. La differenza risiede in ciò: la logica della lobby non è quella della Fondazione culturalmente e politicamente orientata, giacché non persegue finalità ideali, economicamente disinteressate, bensì lo scopo di soddisfare concreti interessi di gruppo, economicamente rilevanti. In sintesi, il paradigma dell’audizione, intorno al quale ruota la disciplina dell’attività di lobbying negli ordinamenti dell’Europa continentale, nel mondo anglo-sassone risulta superato. La ratio della lobby non è più – e non è solo – quella di essere “audita” dagli organi istituzionali, cui compete il potere di “iniziativa e di disposizione in ordine all’audizione, bensì quella di partecipare direttamente alla dinamica politica, orientando le scelte legislative e di governo, in relazione a determinati interessi di gruppo, in guisa di “subpartito” o transpartito”16. Sicché si può sintetizzare la parabola storica e geopolitica della lobby con quest’immagine:
governative impegnate nella tutela dell’ambiente e nel volontariato che necessitano dell’accredito del Parlamento, per poter svolgere ufficialmente attività politica a livello federale. 16 P. L. Petrillo, Democrazie sotto pressione, Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato, Milano, 2011, 88 ss., propone una classificazione dei modelli di disciplina del lobbying leggermente diversa dalla nostra. A suo avviso, sono configurabili tre tipologie: la regolamentazione-trasparenza, volta a garantire la trasparenza del procedimento decisionale; la regolamentazione-partecipazione, che assegna ai gruppi di pressione un ruolo attivo, se non propulsivo nel processo decisionale; una regolamentazione indiretta e disorganica, che caratterizza il modello italiano. Il primo modello corrisponde a quello contrassegnato – nella nostra classificazione – dalla centralità del paradigma dell’audizione; il secondo a quello vigente, in base alla nostra classificazione, nell’area anglosassone. Sennonché l’Autore inserisce l’ordinamento del Regno Unito nel modello della regolamentazione-trasparenza, piuttosto che in quello americano della regolamentazione-partecipazione. Per quanto l’ordinamento britannico sia meno incline, di quello americano, a ravvisare nella lobby un protagonista della vita politica, tuttavia riteniamo che il modello “partecipativo” sia quello più adatto a inquadrare la particolare disciplina britannica, la quale prende in considerazione non solo le relazioni istituzionali del lobbista, ma anche le relazioni con l’attività di partito e le modalità di partecipazione alle competizioni elettorali.
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da soggetto che chiede, formulando una “petizione”, si evolve in soggetto che dialoga con le istituzioni, nelle sedute di “audizione”, e sfocia infine nel soggetto che orienta l’azione politica delle istituzioni, fin dalla fase genetica e nell’intero arco della sua dinamica.
3.1. Regno Unito. Nel Regno Unito, la fonte normativa di riferimento per la disciplina dell’attività di lobbying è il Transparency of Lobbying, Non-Party Campaigning and Trade Union Administration Act 2014, promulgato il 30 gennaio 201417. In precedenza mancava una specifica disciplina dell’attività di lobbying, della quale era incerta la riconducibilità al dominio dei public affairs o delle public relations. Fin dal titolo, emerge la diversità dell’approccio anglosassone, rispetto a quello europeo continentale; in quell’area culturale, le lobbies somigliano a tal punto ai soggetti politici “generalisti”, come i partiti e le confederazioni sindacali, che il legislatore sente l’esigenza di sottolineare nell’intitolato che la normativa “non” riguarda partiti e sindacati; ciò ovviamente implica che l’oggetto di disciplina non è considerato poi tanto dissimile. La legge menzionata ha introdotto il registro pubblico degli esercenti professionali (consultant lobbyists) e ne ha disciplinato l’attività, sotto vari riguardi, anche in correlazione – dato molto significativo e rilevante – con l’attività di partito. La lobby è concepita come un’azienda che opera nel mercato e come tale può ricorrere alla pubblicità; tuttavia le forme e i requisiti della pubblicità sono regolamentati. Al contempo è disciplinato e limitato il finanziamento – da parte delle lobbies – delle campagne elettorali, in parallelo alle limitazioni di spesa imposte ai candidati18. Al riguardo, è importante sottolineare che la medesima legge detta particolari regole di trasparenza e contabilità per i partiti politici, a conferma della contiguità delle rispettive aree di disciplina19. Ai fini dell’iscrizione nel registro, il consultant lobbyist deve svolgere un’attività con carattere di continuità e professionalità; se taluno svolge un’attività di lobbying in forma residuale e occasionale, non può essere iscritto nel registro. Si tratta di una professione libera, esercitata in regime di diritto privato; ne deriva che non può acquistare la veste e la funzione di consultant lobbyst un funzionario pubblico o rappresentante di Stato estero. Il perimetro del lobbying professionale, con obbligo di iscrizione dell’esercente nel registro pubblico, è delimitato dalle comunicazioni effettuate, per conto di terzi e dietro remunerazione, ad un membro del Governo del Regno Unito (o ai titolari di posizioni apicali) in materia di politiche del Governo,
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L’approvazione ha avuto luogo all’esito di un lungo iter parlamentare, a partire dalla presentazione del bill preceduta dalla pubblicazione, nel gennaio 2012, di un “libro bianco” del Governo, dal titolo Introducing a Statutory Register of Lobbysts 18 Fino al 2000 il finanziamento dei partiti politici non era regolato. Quell’anno fu approvato il Political Parties, Elections and Referendum Act, che introdusse una disciplina basata sulla trasparenza nel meccanismo di donazione da parte di soggetti privati in favore dei partiti politici, delle fondazioni ad essi collegate, dei singoli membri di partiti o movimenti politici. Cfr. S. Ghaleigh, Expenditure, Donation and Public Funding under the United Kingdom’s Political Parties, Elections and Referendum Act 2000, in K. D. Ewing, S. Issacharoff, Party Funding and Campaign Financing in International Perspective, Oxford, 2006, 35 ss. 19 Le regole attinenti alle relazioni tra partiti e lobbies si inseriscono nel quadro della disciplina generale dell’attività di partito, introdotta con il Political Parties, Elections and Referensums Act del 2000; a tale disciplina concorrono le linee guida elaborate dalla Electoral Commission.
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legislazione, conclusione di contratti pubblici, rilascio di autorizzazioni e concessioni, o relativamente all’adozione di ogni altro atto da parte della pubblica amministrazione20. La tenuta del registro è affidata ad un organo monocratico di nuova istituzione e posto in condizione di autonomia dal governo: il Registrar of Consultant Lobbyists. L’organo vigila sul possesso dei requisiti da parte degli operatori e sull’osservanza degli obblighi di trasparenza, in relazione alla pubblicazione dei dati dei clienti, di cui è prescritto l’aggiornamento su base trimestrale21. L’esercizio dell’attività di lobbying, in assenza di registrazione, è qualificata abusiva e costituisce reato; come pure la comunicazione di dati incompleti o falsati (art. 12). In caso di infrazione meno grave, il Registrar può irrogare sanzioni pecuniarie (a titolo di civil penalty, fino a 7.500 sterline). Gli obblighi di trasparenza riguardano anche le spese di finanziamento delle campagne elettorali, per le quali è fissato un limite, al di sotto del quale le lobbies possono contribuire a campagne elettorali indipendenti (non riconducibili a partiti politici registrati), al di sopra del quale si applica la disciplina più stringente, riservata ai partiti registrati. È opportuno sottolineare che la legge menzionata è stata approvata dopo una lunga gestazione, parlamentare ed extraparlamentare, a seguito di un intenso dibattito politico22; le norme imperative che la compongono possono vedersi come il sedimento degli usi precedenti. Prima dell’entrata in vigore della legge, la materia era regolata, in grande misura, da norme di autodisciplina e deontologia professionale, adottate su base volontaria, nel quadro delle regole generali di trasparenza, valide per ogni branca delle relazioni pubbliche, previste nel Freedom of Information Act 2000. Tra le più importanti fonti di soft law previgenti, si segnalano le norme autodisciplinari adottate dalla Association of Professional Consultant (APPC)23, in recepimento anche delle raccomandazioni formulate nel 1991 dal Committee on Standards in Public Life. Le società aderenti all’associazione (APCC) erano tenute a iscriversi in un apposito registro ed obbligate a rispettare alcuni criteri di trasparenza, primo fra tutti la pubblicazione dell’elenco dei propri clienti24.
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L’obbligo d’iscrizione grava sui soggetti passivi dell’imposta sul valore aggiunto, mentre sono esonerati coloro che, pur svolgendo attività di lobbying in forma professionale, per il loro volume di affari risultino al di sotto della soglia di imponibilità della value added tax. 21 Office of the Registrar of Consultant Lobbyists, Guidance on compliance with the Register of Consultant Lobbysts, luglio 2015. 22 Il tema fu già posto in rilievo dal Nolan Committee nel più generale contesto delle regole di comportamento da osservarsi nella “vita pubblica”. La commissione (nel suo First Report on Standards in Public Life del 1995) riconosceva il diritto individuale di comunicare con gli organi istituzionali (it is the right of everyone to lobby Parliament and Ministers) e al contempo affermava la necessità di regolamentare legislativamente le relazioni afferenti a gruppi di interesse, ritenendo insufficienti i codici di autodisciplina. Analogamente, nel 2007, la Public Administration Committee, nella relazione finale, raccomandò di istituire un registro pubblico delle lobbies e dei rispettivi agenti o rappresentanti. Il Governo ritenne di non dare seguito alla proposta della commissione parlamentare, preferendo l’approccio autodisciplinare a quello legislativo (cfr. House of Commons, 23 October 2009), al fine di evitare possibili discriminazioni e distorsioni. Tuttavia, le considerazioni della Public Administration Committee, ribadite nel 2009 in un documento di replica al Governo (cfr. House of Commons, 16 december 2009), furono comunque recepite nei “sette principi della vita pubblica”, di generale applicazione e vincolanti per i titolari di cariche e di uffici pubblici (Seven principles of public life:Selflessness, Integrity, Objectivity, Acoountability, Openness, Honesty, Leadership). 23 APCC Code of Ethics and Code of professional Conduct. 24 Analoghe regole deontologiche sono state adottate da altre associazioni di categoria. Possono menzionarsi: il codice di condotta della Public Relations Consultancy Association (PRCA) e quello adottato dal Chartered Institute
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Le regole deontologiche ovviamente vincolavano gli operatori, ma non i terzi25. Tuttavia acquistarono efficacia vincolante, sia pure indiretta, come fonte di soft law valida erga omnes, in materia di conflitti di interesse. Furono infatti trasposte nei codici di condotta, destinati al pubblico impiego e ai membri di Governo, nonché nei regolamenti delle Assemblee legislative. Sul versante della pubblica amministrazione, la normativa in vigore prima della menzionata legge del 2014, faceva capo ai principi a suo tempo dettati dal Nolan Committee26, la cui forza cogente era dovuta al fatto che, già prefigurati nel Civil Service Code27 del 1996, furono poi recepiti dall’art. 5 del Constitutional Reform and Governance Act 2010 (aggiornato nel 2015). La normativa, sedimentata nel tempo sulla base dei variegati apporti menzionati, assicurava comunque la netta distinzione dei ruoli, tra il funzionario o l’organo pubblico e il lobbista, e impediva la sovrapposizione degli interessi dell’uno con quelli dell’altro, inibendo ogni comportamento diretto o potenzialmente idoneo ad esporre l’atto del pubblico ufficiale ad indebiti condizionamenti28. La normativa richiamata è in vigore ancora oggi e vincola, in primo luogo, nelle relazioni con i professionisti del lobbying, gli organi di governo e i membri del Parlamento. Ai primi si applica il Ministerial Code29 (aggiornato nel maggio 2010), che vieta, per esempio, agli ex-ministri lo svolgimento di attività di lobbying per il biennio successivo alla cessazione della carica; al contempo impone loro, in tale biennio, di sottoporre al vaglio dell’Advisory Committee on Business Appointments (art. 7.25) l’eventuale accettazione di qualsivoglia altra carica. Ai membri del Parlamento si applicano il Code of Conduct e le correlate risoluzioni della Camera di appartenenza, le cui norme sono dirette a prevenire sospette, o solamente imbarazzanti, situazioni di conflitto o interferenza di interessi30. A titolo esemplificativo, si può citare la regola della piena incompatibilità, con il mandato parlamentare, della paid advocacy e, in generale, di qualunque esercizio del mandato parlamentare, diretto a soddisfare l’esclusivo interesse di soggetti esterni, dietro compenso.
3.2. Stati Uniti d’America. Negli Stati Uniti il fenomeno del lobbying costituisce una componente essenziale e strutturale della dinamica politica. Il fondamento costituzionale della legittimazione è ravvisato nel primo emendamento, che garantisce il “right to petition the government for redress or grievances”31. Si può osservare, dunque, che nell’ordinamento americano l’antecedente storico della “petizione” costituisce la base di partenza, come negli ordinamenti europei ed italiano in
of Public Relations (CIPR). Inoltre, singole imprese aderenti hanno autonomamente provveduto a integrare i codici delle associazioni di categoria. 25 Il Public Administration Select Committee della Camera dei Comuni dedicò il dibattito del 7 gennaio 2010 alla questione dell’inefficacia erga omnes delle norme di autoregolamentazione. 26 Cfr. nota 22. 27 Civil Service Code (aggiornato al marzo 2015). 28 Si veda la Guidance for Civil Servants: Contact with Lobbyists. 29 Cabinet Office, Ministerial Code (gennaio 2018). 30 House of Commons, Code of Conduct together with The Guide to the Rules relating to the conduct of Members; House of Lords, Code of Conduct for Members of the House of Lords and Guide to the Code of Conduct . 31 Entrato in vigore il 13 dicembre 1791, riconosce il diritto dei gruppi di pressione di esercitare la propria influenza sui decisori pubblici; S. Faber, The First Amendament, New York, 2010, 208 ss.
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particolare. Tuttavia, il punto di arrivo è ben diverso, perché le libere influenze esercitate dai gruppi di pressione sulle decisioni degli organi istituzionali non sono semplicemente “tollerate”, bensì considerate espressione di vitalità della democrazia americana32. Al contempo non sono ignorati i rischi; la retrospettiva storica ci conferma, infatti, che la ratio di fondo della disciplina normativa è sempre stata quella di impedire pericolose commistioni degli interessi privati con quelli pubblici. A voler trascurare i precedenti legislativi del XIX secolo33 – che attestano comunque le ascendenze storiche del fenomeno lobbistico e il suo radicamento nella società americana – si può individuare nel Federal Regulation of Lobbying Act del 1946 la prima legge di riferimento, fondamentale e organica34. Vi era previsto l’obbligo di registrazione, nonché quello di redigere rendiconti periodici delle spese e dei finanziamenti ottenuti. In particolare: la registrazione dei lobbyists avveniva presso la Presidenza del Congresso e della Camera dei Rappresentanti; alla disclosure dei loro clienti facevano da corollario altri rilevanti obblighi; quello, per esempio, di rendicontare pedissequamente le entrate e le uscite; quello di indicare gli articoli di stampa che i lobbyists avessero suggerito; nonché quello di comunicare i provvedimenti legislativi per i quali si fossero attivati, a prescindere dall’esito dell’iter legislativo. Sul rispetto delle norme erano chiamati a vigilare, in ciascuna delle due Camere, il Clerk of the House e il Secretary of the Senate35. La materia fu riformata dal Lobbying Disclosure Act (Public Law 104-65, 19 dicembre 1995), allo scopo di estendere la portata e l’efficacia della regolamentazione già prevista dalla legge del 194636. In virtù della nuova legge, l’obbligo di registrazione grava su qualunque soggetto eserciti attività di lobbying dietro compenso, a prescindere dal fatto che la svolga all’interno o all’esterno delle istituzioni interessate. Risulta incluso anche il lobbying esercitato nei confronti dell’Esecutivo, prima escluso. Gli obblighi di registrazione e rendiconto si sono arricchiti di nuovi corollari, tra i quali si ricomprendono: la precisa indicazione delle generalità del cliente
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Basti pensare che è possibile esercitare l’attività di lobbying anche presso la Corte suprema federale; cfr. L. Epstein, C. K. Rowland, Interest groups in the Courts: Do Gorups Fare Better, in J. Allan, A. Burdett, Interest Group Politics, New York, 1986, 275 ss. Sinteticamente si può dire che la regolamentazione del fenomeno, in America, non è diretta a limitarne la portata, bensì a regolare la composizione degli interessi sottesi alla decisione pubblica; in questo senso M. Franco, Lobby: il Parlamento invisibile, Il Sole 24 ore ed. 1993, 88; M. V. Tushnet, The Constitution of the United States of America, Oxford e Portland, 2009, 65 ss., 227 ss. 33 Occorre risalire al 1852 per rintracciare una prima embrionale disciplina del lobbying nella legge approvata dalla House of Representatives con cui veniva vietato a determinati soggetti di accedere al floor of the House. Risale, invece, al 1854 l’istituzione di un comitato preposto a vigilare sul conferimento di prebende ai membri del Congresso, finalizzate a remunerarne il voto favorevole o contrario nelle votazioni dell’Assemblea. 34 Inserita, come titolo III, nel più ampio Legislative Reorganization Act. Sul punto R. L. Hall, Participation in Congress, Yale University Press, 1996, 36 ss. 35 Si può pensare che la vigilanza esercitata dai due organi fosse indebolita dallo scarso coordinamento degli uffici tra loro e con il Dipartimento della Giustizia. La sua incidenza fu inoltre indebolita dalla giurisprudenza della Corte Suprema, che, pur dichiarando nel 1954 costituzionalmente legittime le sue disposizioni, ne limitò in effetti la portata applicativa. La sentenza pronunciata nel caso United States v. Harris (347 U.S. 612 1954) limitò l’efficacia della legge ai soli casi in cui i finanziamenti fossero diretti al condizionamento di atti parlamentari, concernenti uno specifico provvedimento, precisamente individuato. 36 Cfr. in proposito la relazione di accompagnamento alla legge del 1995, presentata dal Committee on the Judiciary della Camera dei Rappresentanti (14 novembre 1995).
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del lobbista, dell’eventuale esistenza di finanziamenti versati da altri soggetti, del concorso di enti stranieri in qualche modo collegati al cliente o in posizione di controllo sullo stesso, dell’ammontare delle somme guadagnate dal lobbista e delle spese sostenute nell’attività prestata per il cliente. I poteri istruttori e sanzionatori del Secretary of the Senate e del Clerk of the House sono stati implementati, mentre rimane comunque riservata all’autorità giudiziaria (nella figura dell’Attorney for the District of Columbia) il compito di perseguire le violazioni più gravi. Con la legge del 1995 è stata superata la precedente indeterminatezza dell’oggetto di disciplina, in virtù di una definizione dei profili soggettivi ed oggettivi del lobbying. I soggetti che esercitano l’attività sono individuati per l’aspetto professionale, continuativo e remunerativo della prestazione d’opera37. Sul piano oggettivo, la legge fa consistere il lobbying nella comunicazione orale o scritta (lobbying contact) diretta ad un covered executive or legislative branch official e posta in essere nell’interesse di un cliente; ma anche in ogni attività di preparazione, ricerca e predisposizione di strumenti, finalizzata ad attività lobbistiche proprie od altrui (lobbying activity). I destinatari del contatto lobbistico sono individuati negli organi amministrativi e legislativi38. Nel 2007 è stato approvato l’Honest Leadership and Open Government Act (Public Law 110-81, 14 settembre 2007), con l’esplicita ratio di impedire il fenomeno delle porte girevoli (“Closing the revolving door”), ossia il passaggio vicendevole dall’uno all’altro campo (istituzionale e lobbistico)39. È stato rafforzato il criterio delle “incompatibilità successive” che grava sui funzionari pubblici di livello apicale (senior executive personnel) presso l’amministrazione del Senato e sui membri della Camera dei Rappresentanti, essendo stato esteso a due anni (a decorrere dalla cessazione della funzione pubblica) il periodo di preclusione (cosiddetto cooling-off period) ai fini dello svolgimento dell’attività lobbistica. Sono state apportate inoltre
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È qualificato lobbista colui che è impiegato da un cliente, dietro compenso pecuniario o di altro genere, per lo svolgimento di attività che comprendono più di un singolo contatto con determinate istituzioni, purché tale attività costituisca almeno il 20% del tempo impiegato come prestatore d’opera a favore del medesimo cliente nell’arco di un semestre. Viene stabilita, inoltre, la rilevante distinzione tra le lobbying firms e le lobbying organizations: le prime costituite sia da persone fisiche che svolgono direttamente l’attività, sia da persone fisiche o giuridiche che impiegano altri soggetti per prestare il servizio ad un cliente terzo; le seconde costituite da enti o persone giuridiche (società, associazioni) che si avvalgono dell’attività di altri soggetti che effettuano attività di lobbying per conto dell’ente medesimo. 38 Sono indicati i soggetti aventi poteri decisionali. Nell’Esecutivo, il Presidente ed il vice Presidente, i membri del suo staff ed altri soggetti che ricoprano posizioni di una certa rilevanza nell’amministrazione secondo le normative del settore; nel Legislativo, ovviamente, i membri del Congresso e ogni altro soggetto che per la posizione ricoperta si trovi con essi in diretto contatto. Le attività istituzionali, in riferimento alle quali il contatto o la comunicazione assume la qualifica di lobbying, appartengono alla categoria degli atti legislativi, amministrativi, di indirizzo politico o consistono nelle nomine a cariche che richiedono la ratifica del Senato. 39 Il fenomeno delle “porte girevoli” (revolving doors) ha anche qualche risvolto positivo, sia per la competitività del sistema, giacché la rotazione degli incarichi rigenera il tessuto connettivo dell’amministrazione, sia per la professionalità dei singoli, giacché consente un migliore flusso informativo. Tuttavia, anche in Europa si prende in considerazione il rischio dei potenziali conflitti di interesse; all’uopo il Parlamento UE ha adottato, a decorrere dal 1° gennaio 2012, un codice di condotta, in virtù del quale gli eletti devono dichiarare e impegnarsi a rimuovere tutti i potenziali conflitti di interessi, nonché rendere pubblici i loro interessi finanziari. Sul punto G. Sgueo, Oltre i confini nazionali, cit. 99.
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rilevanti modifiche in materia di finanziamento delle campagne elettorali, allo scopo di rendere più trasparenti le influenze esercitate dalle lobbies sulla dinamica politica40. Questa sintetica panoramica ci consente di ribadire, da ultimo, le nostre considerazioni iniziali: la disciplina del fenomeno lobbistico nell’area culturale anglosassone prende in considerazione non solo i canali di comunicazione e informazione interni alle istituzioni, bensì l’interezza delle relazioni (anche extraistituzionali) tra i gruppi d’interesse e i soggetti politici. Qui il paradigma dell’audizione si rivela insufficiente a spiegare la ratio della disciplina legislativa e descrivere la complessità del fenomeno, proprio per il fatto che viene riconosciuto il ruolo attivo e propulsivo delle lobbies nella dinamica politica complessiva, non solo nella fase istituzionale-deliberativa, ma anche nella fase di formazione del consenso elettorale.
4. I primi, timidi e scarni cenni di regolamentazione in Italia. In Italia manca una disciplina generale del fenomeno lobbistico41. Si possono citare solo elementi di parziale regolamentazione. Alcuni consigli regionali hanno emanato leggi, aventi ad oggetto l’attività di rappresentanza di interessi presso le istituzioni: legge della Regione Toscana n. 5 del 18 gennaio 2002; legge regionale del Molise n. 24 del 22 ottobre 2004; legge regionale dell’Abruzzo n. 59 del 22 dicembre 2010. Inoltre, il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, con decreto n. 2284 del 9 febbraio 2012, ha istituito un elenco pubblico di lobbisti, abilitati a interloquire con l’organo e la dirigenza del Ministero in rappresentanza di interessi di gruppo. Infine, si può citare la bozza di disciplina delle “audizioni” e delle relazioni istituzionali con i gruppi d’interesse, predisposta dalla Giunta per il regolamento della Camera, non ancora approvata dall’Assemblea, nella quale sono enunciate alcune linee guida: istituzione del registro dei rappresentanti d’interesse, abilitati alle audizioni; definizione dell’attività di
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Sono stati modificati alcuni aspetti del procedimento legislativo (è il caso dei cosiddetti earmarks) dei progetti di legge, patrocinati dalle lobbies, per provvedimenti di favore a determinate categorie di soggetti in elusione dei criteri generali. Inoltre la legge ha disciplinato tutti i possibili conferimenti di denaro ad opera delle lobbies: contributi elettorali, donazioni alle biblioteche presidenziali, erogazioni a comitati inaugurali oppure a convenzioni di partito per le elezioni primarie. Gli esponenti delle lobbies devono rendere pubbliche, con cadenza semestrale, le donazioni superiori a $ 200 effettuate in favore di candidati in competizioni politiche federali, nonché a detentori di cariche pubbliche, a comitati elettorali e a partiti politici. Contestualmente è fatto obbligo agli esponenti politici di rendere pubbliche le donazioni in loro favore, operate da un lobbista, di ammontare superiore a $ 15.000 nell’arco di un semestre. La violazione di tali obblighi è sanzionata con pene pecuniarie (da $ 50.000 a 200.000) e detentive (da 1 a 5 anni di reclusione), a carico del lobbista; con l’esclusione dalle prestazioni previdenziali del Civil Service Retirement System in caso di sua condanna per corruzione o per altri reati correlati, a carico dell’esponente politico. 41 P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione, cit., 297 ss., osserva che, proprio per la mancanza di una disciplina organica, l’ordinamento italiano non può essere inserito, né all’interno dello schema della regolamentazione-trasparenza, né della regolamentazione-partecipazione. Sicché è necessario ricorrere a un terzo modello, denominato di regolamentazione strisciante ad andamento schizofrenico. Si tratta di un esempio negativo, una worst practice, per il fatto che “l’oscurità del momento decisionale sembra essere la cifra della forma di governo italiano” (300). In termini analoghi si esprime A. Baldassarre, Introduzione, in G. Mazzei, Lobby della trasparenza. Manuale di relazioni istituzionali, Roma, 2009, 11: “dopo la caduta verticale dei partiti come soggetti di intermediazione degli interessi, il processo decisionale pubblico, nella composizione degli interessi contrapposti, risulta coperto da un velo impenetrabile”.
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“relazione istituzionale” svolta nei confronti di deputati; obbligo di relazioni periodiche sull’attività svolta, gravante sui lobbisti iscritti nel registro. Nell’attuale legislatura, sono all’esame del Parlamento alcune proposte di legge, dirette a regolamentare l’attività di lobbying, ispirate in buona misura ai modelli francese e tedesco. In tali proposte sono recepite anche le indicazioni dei disegni di legge discussi, ma non giunti a compimento, nella XVII legislatura. Si tratta di disegni d’iniziativa parlamentare (della deputata Fregolent, della deputata Madia, del deputato Silvestri), che convergono su alcuni punti: istituzione del pubblico registro dei lobbisti, a cura e sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC); diritto di iscrizione subordinato al possesso di requisiti di onorabilità; obbligo di accettare e rispettare un codice di condotta; previsione di specifiche cause di incompatibilità. L’iscrizione al pubblico registro, secondo i menzionati disegni di legge, darebbe luogo, come negli ordinamenti francese e tedesco, a un accesso privilegiato agli uffici delle istituzioni parlamentari e conferirebbe la facoltà di audizione nelle sedute delle commissioni parlamentari. Le relazioni introduttive ai disegni di legge palesano una comune ratio ispiratrice; si sottolinea la “necessità di tracciare una precisa linea di confine fra la legittima attività di influenza e quella che viene esercitata indebitamente”, soprattutto in correlazione con “il nuovo reato di traffico di influenze illecite, introdotto nel 2012 con l’articolo 346-bis del codice penale”42. La questione è particolarmente rilevante, seppure l’influenza “indebita” non coincide necessariamente, come s’è detto, con quella costituente reato ai sensi dell’art. 346-bis. L’auspicata regolamentazione del settore avrebbe comunque l’effetto di allontanare il sospetto d’illiceità dalle condotte regolari del soggetto che esercitasse o volesse esercitare una legittima influenza sulle decisioni di organi pubblici. Insomma si ridurrebbe comunque il rischio penale connesso all’attività di lobbying, inteso come “rischio di processo”, ancor più che di condanna, seppure non sarebbe per ciò stesso garantito il livello di sufficiente determinatezza del fatto di reato; la questione della delimitazione dell’area di rilevanza penalistica permarrebbe sempre e comunque. Permane oggi che l’attività di lobbying non è regolamentata; ma permarrebbe anche domani, laddove fosse ben delimitata – com’è auspicabile – l’area della regolarità. Solo l’interpretazione sistematica dell’art. 346-bis del codice penale, come si vedrà, può restringere l’esuberante comprensività della fattispecie e contribuire – rebus sic stantibus – a ridurre il rischio penale, connesso all’attività di lobbying.
5. Il trading in influence in Europa. Il rischio penale del lobbista comincia laddove finisce l’esercizio regolare dell’influenza, che egli esercita o intende esercitare sul soggetto pubblico43. Per certi versi, la sua situazione è paradossale: l’attività socialmente approvata – e addirittura, in qualche caso, ritenuta essenziale nel dinamismo delle istituzioni democratiche – consiste nell’esercitare influenza sull’organo pubblico; ma anche il fatto illecito di prossimità, denominato traffico di influenza (trading in
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Disegno di legge della deputata Fregolent, presentata alla Camera dei Deputati il 23 marzo 2018, relazione introduttiva, p. 4. 43 Sul punto, W. Slingerland, The Fight against Trading in Influence, in Public Policy and Administration, 2011, T. 10, n. 1, (ISSN 2029-2872), 55 ss.
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influence), consiste nell’esercitare influenza; il compenso economico a favore del lobbista è, ovviamente, una componente essenziale del carattere professionale del suo lavoro; ma anche il “traffico” (costituente reato) in fondo si riduce alla pattuizione di un compenso economico. Insomma, un filo sottile distingue l’influenza lecita dall’influenza illecita, cosicché il rischio penale del quale ci occupiamo in questa sede, legato all’esercizio dell’attività lobbistica, è delimitato, con molta evidenza, dalla tipicità della fattispecie penale che incrimina il “traffico di influenze illecite”. Tale fattispecie è stata introdotta nei vari ordinamenti europei, sulla base di uno schema-tipo, formulato nella Convenzione di Strasburgo e anche in quella antecedente di Merida. L’art. 12 della Convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa, del 27 gennaio 1999, entrata in vigore il 1° luglio 2002, vincola gli Stati aderenti a incriminare “il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzo, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli artt. 2, 4-6 e 9-11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato”44. Il reato così descritto differisce dalla corruzione in quanto non contempla una compartecipazione del pubblico ufficiale. Il fatto consiste nell’accordo tra un influence peddler (venditore di influenze) e un soggetto, titolare dell’interesse all’atto del pubblico ufficiale; quest’ultimo riveste la figura di terzo, in quanto estraneo all’accordo illecito. La linea di discrimine tra la condotta illecita di trading in influence e la lecita attività di lobbying viene basata sulla finalità corruttiva, presente nella prima e assente nella seconda. Si tratta di una finalità non realizzata e ciò evidentemente comporta un elevato tasso di incertezza interpretativa; il che spiega perché oltre un quarto degli Stati aderenti si sono avvalsi della facoltà di muovere “riserve” ai sensi dell’art. 37 della Convenzione, sul presupposto della insufficiente determinatezza della fattispecie di reato. Il reato non è specificamente previsto in Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Irlanda, Olanda, Russia, Svezia, Svizzera, Regno Unito45. In Francia, il codice penale prevede una pluralità di disposizioni, diversificate in relazione alla qualifica del soggetto agente. L’art. 432-11 punisce il fatto del pubblico ufficiale che si faccia dare o promettere un’utilità per abusare della sua influenza, reale o supposta, su un soggetto pubblico al fine di una decisione favorevole, non necessariamente contraria ai doveri d’ufficio. L’art. 433-1 punisce lo stesso fatto commesso dal privato nei confronti di un pubblico
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In antecedenza, vigeva già la Convenzione O.N.U. 31 ottobre 2003, adottata dall’Assemblea generale con risoluzione 58/4 (c.d. convenzione di Merida), ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116. L’art. 18 lett. a) della Convenzione di Merida imponeva agli Stati di incriminare “il fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona”; la lettera b) impone l’incriminazione “per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, che abbia sollecitato o accettato, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte”. 45 Cfr. M. Morra, La disciplina del trading in influence in Europa e le distonie della soluzione italiana, in Giust. pen., 2014, II, 372.
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ufficiale, affinché questi abusi della sua influenza. I due reati sono equiparati quoad poenam, rispettivamente, alla corruzione passiva e attiva. L’art. 433-2 punisce in modo meno grave la dazione o promessa di utilità, realizzata tra soggetti privati; sono previste speciali fattispecie per i casi in cui i destinatari dell’influenza siano giudici o pubblici ufficiali stranieri o rappresentanti di organismi internazionali. Il denominatore comune a tutte le fattispecie considerate è ravvisabile nell’abuso dell’influenza, “reale o supposta, su un pubblico ufficiale per ottenere una decisione o un giudizio favorevole”. Non è necessario che l’atto “favorevole” sia illegittimo. In Polonia, l’art. 230 del codice penale incrimina il trading in influence sia sul versante attivo che passivo, sanzionando alla stessa maniera le due tipologie di condotta. Non si richiede l’esercizio effettivo dell’influenza. In Bulgaria, il codice penale punisce la forma attiva e passiva del “traffico” in modi corrispondenti alla tipologia descritta in convenzione: non si richiede la contrarietà ai doveri d’ufficio dell’atto del pubblico ufficiale dedotto nell’accordo criminoso. Non è richiesto nemmeno l’effettivo esercizio dell’influenza, essendo sufficiente la mera promessa del vantaggio da parte dell’uno (forma attiva) e l’accettazione dell’altro (forma passiva), in vista di un’influenza non esercitata. In Croazia, l’art. 343 del codice penale descrive il traffico d’influenze in modo articolato. È sufficiente a integrare il reato l’accordo delle parti avente ad oggetto l’influenza, non essendo richiesto il contatto tra l’influence peddler e il pubblico ufficiale destinatario dell’influenza, dedotta nell’accordo criminoso e non realizzata. La pena varia secondo che la pattuizione abbia luogo, in funzione di un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio. È punito anche l’accordo non oneroso; tuttavia, solo nel caso in cui l’influenza a titolo gratuito sia effettivamente esercitata e non meramente promessa. Nella Repubblica Ceca, il traffico dal lato attivo è punito con pena leggermente inferiore, rispetto al lato passivo (corrispondente all’influencer, che riceve la dazione o la promessa del vantaggio). Non è richiesta l’illiceità dell’atto del pubblico ufficiale, al quale è finalizzato l’accordo criminoso. La fattispecie astratta non contempla il requisito di effettività dell’influenza, tuttavia alcune pronunce della Corte Suprema hanno subordinato la sussistenza del reato alla reale capacità di influenza, seppure non all’esercizio effettivo46. Il codice penale spagnolo contempla le varie fattispecie, riconducibili anche lato sensu al paradigma del traffico di influenze illecite, dall’art. 428 al 431, nel sesto capitolo della parte speciale. In verità, gli artt. 428 e 429, similmente al codice austriaco, incriminano l’esercizio effettivo dell’influenza illecita, sicché prendono in considerazione il rapporto tra l’influencer e il pubblico ufficiale, piuttosto che quello tra l’influencer e il destinatario dell’atto di favore, il quale dà o promette il vantaggio indebito. A stretto rigore, non si tratta di vero traffico d’influenze, se come tale intendiamo l’accordo preliminare e diretto al successivo esercizio dell’influenza illecita. Tale accordo, invece, è incriminato al successivo art. 430, nella specie del fatto commesso da chi sollecita o riceve la promessa di un vantaggio, come corrispettivo della sua promessa di influenza. In sintesi, nell’ordinamento spagnolo, è punita sola condotta del “venditore”, non anche del “compratore” di influenza.
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La Suprema Corte ceca ha osservato che, in mancanza di capacità d’influenza, sarebbe configurabile la truffa (una sorta di “millantato credito”), anziché il trading in influence; cfr. terzo ciclo di valutazione del greco; M. Morra, La disciplina, cit., 379.
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In Grecia, l’art. 6 della legge punisce, allo stesso modo, con una pena non inferiore a tre mesi, il traffico d’influenze illecito, sia attivo che passivo, se il destinatario dell’influenza è un pubblico ufficiale straniero o un membro di assemblea o di organismo internazionale. Il traffico di influenze interno è previsto e punito dall’art. 11 della legge n. 5227 del 1931, che prende in considerazione solo la condotta dell’influencer (il quale esercita o promette l’influenza), non anche quella di colui che dà o promette il vantaggio all’influencer. In Ungheria, l’art. 256 del codice penale incrimina solo la condotta di chi richiede o accetta un vantaggio indebito allo scopo di influenzare la decisione di un pubblico ufficiale. In Portogallo, il codice penale disciplina in modo diverso la condotta attiva e passiva del traffico. Il primo comma dell’art. 335 del codice sanziona la condotta di chi richiede o accetta un vantaggio economico o la sua promessa, in cambio dell’abuso della sua influenza su un’autorità pubblica. Se lo scopo dell’influenza è un atto illecito, è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni; se è un atto lecito, la pena fino a tre anni. La condotta di chi dà o promette il vantaggio è punita solo nel caso in cui lo scopo dell’accordo sia un atto del pubblico ufficiale contrario ai doveri d’ufficio. In Austria il reato de quo è previsto dall’art. 308 del codice penale, rubricato come “interferenza illecita”. Consiste nel fatto di chi chiede, riceve o accetta la promessa di un vantaggio ed eserciti influenza su un pubblico ufficiale affinché questi ponga in essere un atto del proprio ufficio in violazione dei propri doveri. Gli estremi del reato, così tipizzato nel codice austriaco – sanzionato con pena base fino a 2 anni di reclusione e fino a 5 anni, nel caso in cui il vantaggio dato o promesso sia di valore superiore ai 50.000 euro – non risultano dunque integrati nell’ipotesi di influenza meramente promessa, ma solo nell’ipotesi in cui l’influenza sia realmente esercitata e l’atto del pubblico ufficiale, in vista del quale l’influenza viene esercita, sia contrario ai doveri d’ufficio. Riassumendo, possiamo osservare che negli ordinamenti di Francia, Polonia, Bulgaria, Croazia e Repubblica Ceca, il traffico d’influenze illecite costituisce reato, sia per il “venditore”, sia per il “compratore” dell’influenza. In Croazia è punto anche l’accordo a titolo gratuito. Invece, in Grecia, Spagna e Ungheria, è punito solo la condotta dell’influencer, che “vende” la propria influenza. In Portogallo è punito anche il “cliente-compratore”, se l’atto del pubblico ufficiale, in vista del quale si stringe l’accordo, è contrario ai doveri d’ufficio; ed anche in Croazia ha rilevanza la legittimità/illegittimità dell’atto, poiché è prevista una riduzione di pena, se l’atto del pubblico ufficiale, dedotto nell’accordo illecito, è legittimo. Infine, si sottolinea che l’interferenza punita dal codice austriaco differisce dal trading in influence, giacché si punisce l’interferenza esercitata e non meramente pattuita.
6. La nuova fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. dalle ceneri del millantato credito. In Italia, il reato di “traffico di influenze illecite” è tipizzato come mero accordo, punibile allo stesso modo per entrambi i contraenti. Tale reato, previsto dall’art. 346-bis c.p.47, si inscrive tra quelli del privato contro la pubblica amministrazione, essendo basato su un accordo tra soggetti che agiscono in veste privata48. L’accordo costituente reato ha come oggetto l’influen-
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L’attuale formulazione del reato è stata introdotta dall’art. 1, co. 1, lett. t, n. 1, L. 9 gennaio 2019, n. 3. In argomento A. Agrillo, Art. 346 bis c.p. Traffico di influenze illecite, in A. Conz, L. Levita, La nuova legge anticorruzione, Roma, 2019; G. Andreazza, Il traffico di influenze tra prevenzione e repressione, in F. Cingari (a cura di),
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za che il trafficante (venditore d’influenze) eserciterà sul terzo (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) in vista di un atto dell’ufficio destinato a realizzare l’interesse del cliente (compratore). Uno dei due soggetti dell’accordo potrebbe essere, per mero accidente, un pubblico ufficiale49; ma, in questo caso, egli stringerebbe l’accordo non già nell’esercizio della sua funzione, bensì in vista dell’atto di un terzo, che riveste la funzione e la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Il reato si perfeziona per il fatto stesso dell’accordo, a prescindere dal risultato. Si configura pertanto un’eccezione al principio generale della non punibilità del mero accordo, anticipandosi la tutela penalistica fino alla soglia di atti preliminari, integranti un pericolo non necessariamente attualizzato e incombente. Un’anticipazione tanto consistente della rilevanza penalistica del fatto potrebbe impingere col principio generale di offensività e si aprirebbero le porte all’arbitrio giudiziario, se gli estremi di fattispecie non fossero ben delineati. Da qui la grande importanza delle questioni interpretative che seguono. Nell’impianto originario del codice, non c’era posto per il reato di traffico di influenze, ma solo per la fattispecie del millantato credito, contemplata dall’art. 346 c.p.p. Era punita solo una determinata modalità della condotta – di chi “riceve o si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale” – consistente nel millantare credito presso quest’ultimo. In questo schema tipico, il “venditore” era il solo responsabile del fatto, giacché il “compratore” costituiva la vittima del raggiro altrui; in sintesi, ai
Corruzione: strategie di contrasto, Firenze, 2013; D. Brunelli, Spunti di riflessione attorno al dibattito sulla novella in materia di corruzione, in F. Cingari ( a cura di) cit.; R. Cantone, A. Milone, Verso la riforma del delitto di traffico di influenze illecite, in Dir. pen. cont., 2018; A. Di martino, Traffico di influenze. Una fattispecie (quasi) nuova, una riforma problematica, in Legisl. pen., 2013, 3; A. Gaito, A. Manna , L’estate sta finendo …, in Arch. pen., 2018, 3; M. Gambardella, Considerazioni sull’inasprimento della pena per il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e sulla riformulazione del delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) nel disegno di legge Bonafede, in www.camera.it; M. Gioia, Il delitto di traffico di influenze illecite: una fattispecie ‘tecnicamente’ sbagliata, in Crit. dir., 2013; A. Macrillò, I nuovi profili penali nei rapporti con la pubblica amministrazione alla luce della Legge anticorruzione 6 novembre 2012, n. 190, Padova, 2012; V. Maiello, L’abrogazione del millantato credito e la riformulazione del traffico di influenze illecite: barlumi di ragionevolezza nel buio della riforma, in Arch. pen., 2019, 1 ss.; A. Massaro, Il traffico di influenze illecite, in A. Massaro, G. Sinisi (a cura di), Trasparenza nella P.A. e norme anticorruzione: dalla prevenzione alla repressione, Roma, 2017; I. Merenda, Il traffico di influenze illecite: nuova fattispecie e nuovi interrogativi, in Diritto Penale Contemporaneo, 2012; V. Mongillo, La nuova veste del traffico di influenze illecite, Convegno Roma 26 settembre 2019, in www.cortedicassazione.it; Pisa, Il ‘nuovo’ delitto di traffico di influenze, in Diritto penale e processo, 2013; F. Prete, Prime riflessioni sul reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), in Diritto Penale Contemporaneo, 2012; M. Romano, La legge anticorruzione, millantato credito e traffico di influenze illecite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1397; P. Semeraro, Fatto tipico e traffico di influenze illecite, in Arch. pen., 1/ 2018; Id, I delitti di millantato credito e traffico di influenza, Milano, 2000; S. Spadaro, A. Pastore, Legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), Milano, 2012; M.C. Ubiali, I rapporti tra corruzione ex art. 319 c.p., traffico d’influenze illecite e millantato credito nella prima pronuncia della Cassazione sulla vicenda ‘Tempa rossa’, nota alla sentenza Cass. pen., sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 23355, in Dir. pen. cont., 2018; P. Veneziani, Lobbismo e diritto penale. Il traffico di influenze illecite, in Cass. pen., 2016. 49 L’art. 346-bis c.p. dispone al 3° comma: “La pena è aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio”.
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suoi danni si consumava una sorta di “truffa”, ad opera di un “millantatore” che non esercitava alcuna influenza sul pubblico ufficiale50. Il legislatore del 2012 introdusse la nuova figura di reato (art. 1, co. 75, lett. r, L. 6 novembre 2012 n. 190, c.d. legge Severino) non abrogando la norma incriminatrice del millantato credito51. In quella prima formulazione, il reato consisteva nell’accordo di entrambi i contraenti avente ad oggetto le influenze illecite dell’uno (trafficante) dietro un compenso in denaro da parte dell’altro (cliente), finalizzate all’emanazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio. In un reato così configurato, faceva difetto qualsivoglia disvalore d’evento, presente sia pure in forma evanescente nel millantato credito, sotto la specie dell’“inganno” subìto dalla vittima; l’intero disvalore penalistico veniva a risiedere in un mero accordo, ossia in un atto preliminare; la rilevanza penalistica subiva tuttavia un restringimento dovuto alla finalità specifica. In quella originaria formulazione, il traffico d’influenze illecite, ancorché geneticamente deficitario di tipicità52, era comunque delimitato dalle coordinate dello scopo, elemento assorbente
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La lettera della norma incriminatrice avrebbe impedito l’incriminazione del fatto nel caso in cui il “credito” presso il pubblico ufficiale fosse stato reale, piuttosto che “millantato” e ciò avrebbe comportato il seguente paradosso: il fatto più pericoloso – per l’evidente maggiore attitudine dell’influenza reale, rispetto all’influenza inesistente, a distorcere il regolare corso dell’amministrazione pubblica – sarebbe stato penalmente irrilevante, mentre sarebbe stato incriminato quello meno pericoloso, basato sul “credito” solamente millantato. In verità, il possibile paradosso è rimasto confinato nel mondo del virtuale, giacché la giurisprudenza ha equiparato il fatto di chi esercitasse una reale influenza al fatto del “venditore di fumo” (cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 9044/1975, in C.E.D., rv. n. 130863; Cass. pen., sez. VI, n. 6511/1983, in C.E.D., rv. n. 159912; Cass. pen., sez III, n. 880/1966, in C.E.D., rv. n. 102294. Malgrado la costante e consolidata interpretazione giurisprudenziale avesse da tempo scongiurato il paradossale “vuoto di tutela”, pure il legislatore ritenne di dover formulare una nuova norma incriminatrice, atta a punire entrambi i contraenti di un accordo destinato a influenzare illecitamente l’andamento della pubblica amministrazione. All’uopo fu invocata la necessità di ottemperare agli obblighi derivanti dalla Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo (27 gennaio 1999), ratificata con legge 28 giugno 2012, n. 110, e dalla Convenzione O.N.U. 31 ottobre 2003, adottata dall’Assemblea generale con risoluzione 58/4 (c.d. convenzione di Merida), ratificata con legge 3 agosto 2009, n. 116. Invero si poteva pensare che gli impegni assunti a livello internazionale dall’Italia fossero già adempiuti, posto che un modello di traffico di influenze di matrice giurisprudenziale, nato come sottofattispecie del millantato credito, era comunque punito nelle nostre aule giudiziarie, avendo assunto la veste di “diritto vivente”. Rimanevano tuttavia zone d’ombra e la fattispecie, proprio perché di origine giurisprudenziale, si palesava molto elastica. 51 Sul punto P. Severino, La nuova legge anticorruzione, in Dir. pen. proc., I, 2013, 7 ss. 52 È evidente che la tipicità del reato deve molto alla precisione linguistica del testo normativo. Per le questioni relative alla fattispecie in parola, si rinvia al paragrafo successivo; per la problematica generale in materia di precisione del tipo penale e sulle ricadute di tale principio nella giurisprudenza, soprattutto costituzionale, la letteratura è sterminata. Ci si limita, in questa sede, a sottolineare l’importanza dei contributi di Francesco Palazzo sul tema: F. Palazzo, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979; Id., Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cass. pen., 1987, 230 ss.; Id., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 327 ss.; Id., Legge penale (voce), in Dig. disc. pen., vol. VII, Torino, 1993, 338 ss.; Id., Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, in G. Vassalli (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, 2008, 49 ss.; Id., Sulle funzioni delle norme definitorie, in A. Cadoppi (a cura di), “Omnis definitio in iure periculosa?”. Il problema della definizioni legali nel diritto penale, Padova, 1995, 381 ss.; Id., Ancora sulla legalità in materia penale, Quaderno n.5, Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari “Silvano Tosi”, Torino, 1995, 59 ss.; Id., Offensività e ragionevolezza nel con-
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del disvalore penalistico e dell’offensività del fatto. Posto che l’atto contrario ai doveri d’ufficio costituisce un danno, l’accordo finalizzato a tale atto illecito ben poteva considerarsi un pericolo, sufficiente a integrare gli estremi di offensività della fattispecie. Con la nuova formulazione della norma – a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, co. 1, lett. t, n. 1, L. 9 gennaio 2019, n. 3 – è venuto meno il riferimento alla finalità; inoltre, il corrispettivo dell’influenza concordata può consistere in un’altra “utilità” (accanto al danaro)53. È evidente dunque l’intento del legislatore di allargare l’ambito della punibilità, in più direzioni; anche a costo di espungere dalla fattispecie l’elemento caratterizzante della tipicità e offensività del fatto. Ne è venuta fuori una fattispecie a tutela fin troppo anticipata, che incrimina un semplice pactum sceleris preliminare – non esplicitamente finalizzato a un atto illecito – il cui disvalore risiede nell’oggetto delle dichiarazioni di volontà dei contraenti, descritto come esercizio di “mediazione illecita”. A questo punto, solo un’interpretazione che recuperi un minimo coefficiente di offensività potrebbe impedire una declaratoria di incostituzionalità. In questa logica, risulta decisiva, a nostro avviso, la finalità perseguita dai contraenti; in altri termini: l’influenza risulta illecita in quanto illecitamente finalizzata, non già perché irregolare ex se.
7. I requisiti di offensività della condotta. Supponiamo che il venditore d’influenza violi le regole che disciplinano la professione dell’intermediario; in questo caso, il fatto illecito potrebbe avere rilevanza solo in ambito deontologico; supponiamo che la violazione delle regole investa i rapporti tra i contraenti dell’accordo; in questo caso, potrebbe avere rilevanza in ambito civile; supponiamo che sia violata la disciplina amministrativa dell’attività di mediazione; in questo caso, il fatto potrebbe integrare gli estremi dell’illecito amministrativo. Se dunque, l’influenza, ancorché irregolare, non costituisce ex se reato, è ragionevole pensare che il quid pluris, idoneo a integrare gli estremi penalistici del fatto, debba risiedere nella capacità della condotta di recare offesa alla pubblica amministrazione; e allora è necessario pensare che l’accordo, costituente reato, debba proiettarsi, almeno in termini finalistici, sugli atti di essa. A questa stregua, quand’anche fossero in gioco le regole del procedimento amministrativo (per es. le regole abilitative, autorizzative etc.), si può pensare che il reato non sussista, nel caso in cui l’irregolarità procedimentale non abbia l’attitudine a investire l’atto finale con efficacia esterna54. Se si opinasse diversamente, si dovrebbe ammettere che l’illiceità amministrativa si
trollo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in G. Giostra, G. Insolera (a cura di), Costituzione, diritto e processo penale, Milano, 1998, 42 ss.; Id., Regole e prassi dell’interpretazione penalistica nell’attuale momento storico, in Dir. priv., 2001-2002, L’interpretazione e il giurista, 507 ss.; Id., Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in E. Dolcini, C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di G. Marinucci, I, Milano, 2006, 515 ss. 53 Quest’ultima modifica (ossia la possibilità che il compenso pattuito consista in un’altra utilità) è stata considerata “significativa e apprezzabile”, in quanto “si pone in linea di continuità con la struttura delle figure centrali di reato contro la pubblica amministrazione”; V. Maiello, L’abrogazione del millantato credito, cit,. 14. 54 Non per nulla autorevole dottrina ha ritenuto che sarebbe stato preferibile tipizzare il reato con l’inserimento di un dolo specifico consistente nello scopo di influire sull’esercizio delle funzioni di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, E. Dolcini, F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Diritto Penale Contemporaneo, 1/2012, 239.
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riverbera ex se sull’illiceità penale; cosicché sarebbe punito un accordo di mediazione relativo a un’influenza “illecita”, sotto il profilo procedurale, ma destinata a non “influenzare” l’atto finale del procedimento. Si pensi al caso del mediatore “abusivo”, al quale sia stata promesso il compenso per la sua attività di mediazione, diretta a un atto finale pienamente legittimo e regolare; l’accordo di mediazione avrebbe come oggetto un’influenza di per sé illecita, in quanto esercitata da un soggetto non abilitato, ma non ne sortirebbe alcun pericolo rilevante per gli interessi della res publica. Non pare che in questo caso abbia ragion d’essere la sanzione penale, rivelandosi opportuna solo quella amministrativa, eventualmente cumulata con quella disciplinare. Dunque, in questa logica – tesa a “recuperare”, per via interpretativa, quel minimo coefficiente di offensività penalmente rilevante, compatibile coi principi costituzionali – gli estremi di tipicità della condotta non risulterebbero integrati da irregolarità meramente formali, che maculano la correttezza dell’attività di mediazione e magari ledono il sinallagma contrattuale tra le prestazioni dei soggetti dell’accordo; sarebbero integrati solo da una condotta palesemente “illecita”, i cui effetti non siano meramente “interni”, proiettandosi oltre la sfera della deontologia professionale del promittente-mediatore e dei rapporti contrattuali privatistici. A questa stregua, deve risultare violato un interesse della res publica e ciò suppone un’illiceità della condotta del mediatore di tal natura, da incidere potenzialmente sull’atto o sugli atti della pubblica amministrazione, in vista del quale si stipula il pactum sceleris. Senza tale proiezione “esterna” la mera irregolarità dell’attività intermediatrice non attingerebbe la soglia del pericolo per il bene protetto e non sarebbe giustificato l’intervento punitivo dello Stato55. Orbene, è proprio questo ciò che la qualifica d’illiceità speciale afferente alla condotta tipica sembra chiamata a evidenziare: la mediazione deve essere intrinsecamente illecita, avendo radice nella violazione delle regole che disciplinano l’attività professionale d’intermediazione, ma deve essere anche estrinsecamente illecita, mettendo in pericolo la correttezza dell’attività amministrativa dell’ente pubblico. Ovviamente tale illiceità speciale, espressamente richiamata in fattispecie, ha riflessi anche sul versante soggettivo del fatto di reato. I soggetti dell’accordo devono essere ugualmente consapevoli del suo oggetto illecito. L’accordo, per espressa previsione legislativa, cade sulla mediazione illecita; ciò significa, a nostro avviso, che entrambe le parti dell’accordo vogliono che sia posta in essere un’attività intermediatrice avente le specifiche caratteristiche d’illiceità testé menzionate, essendo indirizzata e finalizzata a influenzare illecitamente l’esercizio di una pubblica funzione (o pubblico servizio). In altri termini, la illiceità, sulla quale cade l’accordo, deve essere facilmente riconoscibile anche dai non “addetti ai lavori”, ossia dalla componente “laica” del consorzio criminoso; pertanto non deve annidarsi nelle pieghe recondite dei regolamenti interni, che disciplinano l’attività del mediatore-promittente, e qui esaurirsi.
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Si può dire che tale “proiezione esterna” sia nella “natura delle cose” e costituisca una “verità” assiomatica, universalmente accettata. Se così non fosse, non si capirebbe perché le convenzioni internazionali, (in particolare, l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa del 1999 e l’art. 18 lett. a) della Convenzione di Merida), indichino come elemento costitutivo del fatto-reato (che gli Stati parte si impegnano a incriminare) il fine dell’indebito vantaggio che muove i correi all’accordo illecito. Tale indebito vantaggio si può trarre solo dall’atto della pubblica amministrazione con “efficacia esterna”, pertanto l’accordo illecito non può non avere una proiezione “esterna”, che ne caratterizza l’illiceità.
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In conclusione, ci pare che la proiezione “esterna” della qualifica d’illiceità, riguardante la mediazione del promittente, sia necessaria per le due ragioni fondamentali cui si è fatto cenno; sul piano oggettivo, si può osservare che, fin quando l’irregolarità non trascende i rapporti contrattuali privatistici e/o la mera deontologia professionale del mediatore, la sfera della pubblica amministrazione non viene toccata ed esula l’offensività (penalistica) del fatto; sul piano soggettivo, si può osservare che l’accordo sulla mediazione illecita suppone necessariamente il dolo dei due soggetti e perciò anche la piena consapevolezza del promissario-cliente, la quale non sussisterebbe nel caso in cui l’illiceità si riducesse alla violazione delle regole interne della professione, conoscibili solo da parte del professionista-promittente.
8. La proiezione finalistica dell’accordo illecito sugli atti del pubblico ufficiale. Dalle superiori premesse sembra corretto dedurre che l’essenza illecita del fatto – benché la nuova formulazione della fattispecie non prevede esplicitamente il dolo specifico avente ad oggetto l’atto contrario ai doveri d’ufficio – continui a risiedere nella finalità dell’accordo stipulato, la quale investe l’attività (esterna) del pubblico ufficiale e coinvolge perciò interessi pubblici. Insomma, pare proprio che l’illiceità di scopo permanga come elemento caratterizzante del reato e non si possa ridurre a mera illiceità di strumento; e dunque l’atto o gli atti, verso cui si dirige l’accordo costituente reato, debbono connotarsi essi stessi d’illiceità perché la mediazione possa definirsi (penalmente) illecita, in quell’accezione poc’anzi precisata, che ne suppone la rilevanza “esterna”56. D’altronde, siffatta illiceità di scopo è propria di ogni fattispecie a consumazione anticipata; nel traffico di influenze illecite, il carattere prodromico della tutela penalistica è talmente accentuato, che la condotta privata dello scopo non sembra palesare alcun disvalore penalistico, sicché l’illiceità meramente strumentale non avrebbe alcun fondamento giustificativo. Bisogna adesso capire se l’assorbente illiceità di scopo si risolva nella necessaria contrarietà ai doveri d’ufficio dell’atto dedotto (o degli atti edotti) nella finalità dell’accordo; e se possa configurarsi il reato, quando non è chiaramente identificabile l’atto, in vista del quale i contraenti stringono l’accordo. A tale questione se ne connettono altre due riguardanti l’idoneità della condotta strumentale e la natura del bene giuridico protetto. È ben evidente infatti che l’idoneità dello strumento si misura in funzione della ratio di tutela. Secondo i principi generali, la tutela anticipata postula il pericolo per il bene protetto e, laddove lo scopo assorbe l’intero disvalore del fatto, solo le condotte idonee al conseguimento dello scopo attingerebbero la soglia della tipicità. Posto che un fine irraggiungibile si configura
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Nella vigenza della prima formulazione della fattispecie era stato osservato che le espressioni verbali indebitamente e mediazione illecita “non fondano un’illiceità speciale, poiché nulla aggiungono ai connotati di illiceità che connotano il modello legale”. P. Veneziani, Lobbismo e diritto penale, cit., 1301; e s’intende che tali connotati consistevano nella finalità dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. Ma se aggiungevano nulla al connotato basilare della finalità ieri, non possono connotare l’intero fatto illecito oggi, a prescindere dalla finalità (illecita). Sempre e comunque lo strumento non può essere visto come illecito in sé; ma lo diviene, in funzione del risultato desiderato dai contraenti dell’accordo, qualificato come “indebito vantaggio” dalle Convenzioni internazionali. La cornice di riferimento internazionale evidenzia con molta chiarezza tale illiceità di scopo; sia la Convenzione di Strasburgo, sia la Convenzione di Merida fanno riferimento esplicito alla finalità di “ottenere un vantaggio indebito”, come elemento essenziale del fatto illecito.
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come mera cogitatio, l’inidoneità della condotta equivarrebbe alla mancanza del pericolo per il bene tutelato e dunque all’assenza di offesa. Sennonché la fattispecie in parola non punisce solo l’influenza realmente esercitata, ma anche quella millantata. Com’è noto, infatti, l’attuale fattispecie incriminatrice assorbe l’abrogato reato di millantato credito57, consistente in una sorta di “truffa”, realizzata dal promittente-intermediario ai danni del promissario, col simulare una “entratura” inesistente nelle maglie della pubblica amministrazione. In questo caso, non sussiste il pericolo che un atto contrario ai doveri d’ufficio sia posto in essere e dunque sia turbato il regolare corso dell’amministrazione della res publica, ma sussiste comunque il reato, giacché risulta leso il prestigio della pubblica amministrazione nello stesso momento in cui se ne diffonde un’immagine negativa. L’intermediario che “millanta” la sua influenza descrive implicitamente una pubblica amministrazione “influenzabile”, disponibile a porre in essere atti non imparziali; per ciò stesso ne incrina l’autorevolezza, abbassando il livello della considerazione sociale di cui essa gode. Sicché il requisito d’idoneità della condotta strumentale deve essere commisurato non solo al bene dell’imparzialità e del buon andamento, ma anche a quello del prestigio della pubblica amministrazione, certamente più etereo e sfuggente del primo. Malgrado ciò, il requisito dell’idoneità a ledere il prestigio della pubblica amministrazione potrebbe pur sempre rivelarsi significativo e rilevante, in ordine alla tipicità del fatto. Al riguardo occorre precisare che la finalità illecita dell’accordo, con proiezione “esterna” al rapporto dei contraenti, investe il pubblico ufficiale (terzo), in due modi alternativi: o per il compenso a lui destinato o per l’atto che egli dovrebbe emanare. In questo secondo caso, la finalità illecita non può che riverberarsi sull’illiceità dell’atto finalisticamente dedotto nell’accordo. Sicché, in ultima analisi, quando l’accordo non prevede un compenso per il pubblico ufficiale, sufficiente da sé a connotare d’illiceità l’atto (finalisticamente dedotto nell’accordo), ancorché conforme ai doveri d’ufficio, il requisito d’idoneità potrebbe ricondurci, per via implicita, alla finalità dell’atto contrario ai doveri d’ufficio58, espunto dalla fattispecie per via esplicita. Ad analogo epilogo interpretativo potremmo approdare nell’altra questione riguardante il caso in cui non sia precisamente individuabile l’atto del pubblico ufficiale, in vista del quale si stringe l’accordo fra trafficante e cliente. Il caso emblematico è quello in cui l’accordo ha come oggetto l’asservimento della funzione59 e non si possono individuare specifici atti, de-
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L’assorbimento del millantato credito nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. non può oggi essere controverso nella vigenza del nuovo testo della norma; ma anche, nella vigenza della prima formulazione ex l. n. 190/2012, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ammettevano l’assorbimento; inoltre non consideravano il traffico di influenze illecite una incriminazione nuova, precedentemente inesistente (ossia prima della legge 190/2012); per tutti R. Cantone, A. Milone, Verso la riforma del delitto di influenze illecite, in Diritto Penale Contemporaneo, 2018; ex multis, Cass. pen. Sez. VI, 14.3.2019, n. 17980. Contra la sentenza annotata da M.C. Ubiali, op.cit. 58 Nella versione odierna, se il fatto è commesso “in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”, la pena è aumentata. La proiezione teleologica verso l’atto contrario ai doveri d’ufficio, nella versione previgente, di cui alla legge 190/2012, era un elemento costitutivo del fatto di reato; nella versione oggi vigente della fattispecie, costituisce un’aggravante. 59 Prima dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019, l’orientamento interpretativo maggioritario escludeva che si potesse applicare l’art. 346-bis c.p. ai casi di accordo finalizzato all’asservimento della funzione, essendo tipico esclusivamente quello finalizzato all’atto contrario ai doveri d’ufficio; di quest’avviso I. Merenda, Il traffico di influenze illecite, cit.; contra G. Andreazza, C. Pastorelli, Relazione, a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, in tema di disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione contenute nella l. 6
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dotti nella finalità dell’accordo. Qui l’accordo non è finalizzato ad atti specifici, identificati ab origine, bensì al generale esercizio della funzione, in vista di una serie indeterminata di atti. A ben vedere, anche in questo caso la finalità dell’atto contrario ai doveri d’ufficio permarrebbe in via implicita, giacché ovviamente la funzione è presa in considerazione in chiave dinamica, non già nella sua astratta configurazione statica; posto che l’asservimento ha come oggetto l’esercizio della funzione, gli atti tipici dell’esercizio sono dedotti nella finalità dell’accordo sempre e comunque, ancorché non siano precisamente individuati. Insomma, nella fattispecie in esame, la finalità illecita sembra fare capolino, in ogni caso: o sotto forma di compenso per il pubblico ufficiale o sotto forma di atto illecito (da lui emanando)60. In questo secondo caso, non può non venire in considerazione ciò che dà sostanza all’illiceità, ossia la contrarietà ai doveri d’ufficio; sicché la nuova formulazione della fattispecie sembra richiamare, sia pure parzialmente e per via implicita, quella originaria del 2012. Al contempo, non può negarsi che la finalità espressa è stata eliminata dal legislatore del 2019; il che non può essere del tutto privo di significato. A nostro parere, ciò potrebbe significare che – nei casi in cui non è previsto nell’accordo alcun compenso per il pubblico ufficiale – non è più necessario individuare con precisione l’atto (contrario ai doveri d’ufficio) dedotto nell’accordo, com’era nella vigenza della fattispecie di cui alla legge n. 190/2012, ma sia comunque necessaria almeno la potenzialità astratta che il pubblico ufficiale ponga in essere atti contrari ai suoi doveri d’ufficio e pertanto si debba escludere il reato quando sia esclusa ab origine l’esistenza di doveri d’ufficio.
9. Il rischio penale del lobbista in relazione all’atto del pubblico ufficiale di natura amministrativa. La persistente rilevanza (astratta) dei doveri d’ufficio, in mancanza di compenso diretto al pubblico ufficiale, ci fa intendere che la sede naturale del traffico di influenze illecite è ravvisabile nel dominio propriamente amministrativo, perché è lì che sono facilmente configurabili atti dal contenuto illecito; mentre siffatto reato è difficilmente configurabile in ambito legislativo e giurisdizionale. Il parametro di liceità è dato dalla legge e dagli atti normativi ad essa subordinati, cosicché un atto legislativo illecito è un paradosso. La legge non può essere, per definizione, contra legem, giacché la legge successiva può derogare a quella precedente; se dunque, nel contrasto fra l’una e l’altra, prevale la legge successiva, questa diventa il nuovo parametro di liceità e per ciò stesso non può essere viziata di illiceità. Semmai può essere viziata d’illegittimità costituzionale, censurabile innanzi alla Consulta; ma l’eventuale violazione delle norme costituzionali non integra ovviamente alcun tipo d’illiceità; sicché può escludersi sempre e comunque che un atto legislativo possa essere considerato illecito.
novembre 2012, n. 190, 14, i quali ritenevano configurabile il concorso tra l’art. 318 c.p., e l’art. 346-bis c.p.. 60 Le due modalità dell’accordo sono accomunate dalla proiezione finalistica “esterna”; quand’anche il compenso sia pattuito per il mediatore, deve sussistere una finalità illecita esterna; se così non fosse, sarebbe irragionevole la suggestione dottrinaria (non raccolta dal legislatore) di eliminare le due modalità di pattuizione del compenso, unificandole sulla base della medesima finalizzazione a influire sull’esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
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Analogo discorso può farsi in relazione agli atti giurisdizionali. Il Giudice emana atti giusti per definizione, ancorché censurabili innanzi al Giudice superiore; sia la reformatio in appello, sia l’annullamento in Cassazione, costituiscono dei rimedi interni al processo, che non mettono in crisi l’assioma di fondo secondo il quale l’ordine giudiziario amministra la Giustizia e pertanto emana atti espressivi di giustizia. Tali atti giammai possono essere viziati d’illiceità, ancorché riformabili per via gerarchica. Ciò vale non solo per le sentenze nelle quali si esprime in sommo grado la sovranità giudiziaria, ma anche per gli atti ordinatori, che sono strumentalmente legati alla giurisdizione ed esprimono ugualmente la posizione super partes del giudice, in funzione di giustizia. Al contrario, ciò non vale per gli atti giudiziari del pubblico ministero o di altri soggetti ausiliari che non rivestono una posizione super partes. Nei loro atti non si esprime la signoria giurisdizionale, bensì la potestà amministrativa a servizio degli interessi di una parte processuale61, pubblica, ma pur sempre “parte”; tali atti non sono espressivi di giustizia (super partes) e possono connotarsi di illiceità. In definitiva solo gli atti amministrativi – e non anche quelli legislativi e giurisdizionali62 – possono connotarsi d’illiceità; per questa ragione la finalità illecita dell’accordo costituente reato ex art. 346-bis c.p. non può che vertere su di essi (in mancanza di compenso per il pubblico ufficiale). Rimane tuttavia aperta la questione se possa sussistere il reato nel caso in cui l’accordo sia stipulato per asservire la funzione legislativa o giurisdizionale, in vista di una serie indeterminata di atti. Poiché non vengono in considerazione gli atti, ma il suo prodromo funzionale, si potrebbe pensare che sia indifferente la tipologia di funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria che sia. L’assunto, ancorché non erroneo, si rivela, tuttavia, semplicistico. Il sindacato giudiziale sull’asservimento della funzione legislativa potrebbe comportare un vulnus al principio dell’immunità parlamentare63. In linea di massima, la prova del fatto che sia stata asservita la funzione legislativa, sulla base di un accordo illecito, va ricercata negli atti del parlamentare. Le sue dichiarazioni in aula o in commissione, le interpellanze, i voti espressi etc. dimostrerebbero (o meno) il vincolo derivante dall’accordo, ravvisabile in termini di asservimento della funzione. È ben vero che il traffico d’influenze è punibile per il solo fatto dell’accordo, ma è pur vero che sussiste un accordo, in quanto la manifestazione di volontà dei contraenti sia vincolante; d’altronde, il vincolo “contrattuale” deve pur esternarsi in qualche modo negli atti dei contraenti, sicché è pressoché inevitabile che la prova dell’accordo sia ricercata negli atti del parlamentare, i quali tuttavia, a cagione dell’immunità parlamentare – che preserva il principio fondativo della Repubblica, ossia la divisione dei poteri – sono sottratti al sindacato giudiziale. In conclusione, pare proprio che residui poco spazio per ipotizzare la punibilità, a
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Sia permesso rinviare ad A. Abukar Hayo, Lineamenti della pretesa puntiva, Torino, 2010; Id, La titolarità soggettiva del diritto di punire, Torino, 2015. 62 Invero l’art. 346-bis, c. 4, c.p. dispone che “le pene sono aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie”. A nostro avviso, solo gli atti giurisdizionali in senso stretto, espressivi per necessità logica e giuridica dell’imparzialità del Giudice, sono sottratti al sindacato di liceità; non possono cioè connotarsi di illiceità. Tuttavia bisogna considerare che il genus giudiziario si compone di molti atti che non appartengono alla species giurisdizionale. 63 Sul punto sia permesso rinviare ad A. Abukar Hayo, Se sia configurabile il delitto di corruzione ex art. 318 c.p. per esercizio della funzione parlamentare, nota alla sentenza Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 2018, n. 40347, in Diritto penale della Globalizzazione, n. 4/2018, 393 ss.
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titolo di traffico d’influenze illecite, avente per oggetto l’asservimento della funzione legislativa, seppure non si possa escludere a priori. È similare, in qualche modo, il ragionamento che può farsi a proposito dell’asservimento della funzione giurisdizionale, nel senso che la configurabilità in concreto e perfino la stessa ipotizzabilità in astratto hanno uno spazio molto ridotto. L’esercizio della funzione giurisdizionale consiste nello jus dicere, in relazione ad una controversia avente per oggetto fatti specifici e irripetibili. Se può ipotizzarsi l’interesse di taluno a un determinato esito giurisdizionale, è difficilmente pensabile che taluno possa avere il medesimo interesse ad asservire la funzione giurisdizionale per una serie indeterminata di atti, giacché le vicende giudiziarie sono irripetibili e riguardano soggetti diversi. Poiché, dunque, nell’infinita varietà delle controversie, è pressoché impossibile che lo jus dicere si eserciti in maniera ripetitiva e seriale nei confronti dello stesso soggetto, non si capisce chi possa avere interesse all’asservimento della funzione giudiziaria. Uno spazio comunque residua, per entrambi gli ambiti, sia legislativo che giurisdizionale; in primo luogo, quello spazio segnato dalla finalità illecita di compensare il pubblico ufficiale con denaro o altra utilità. Al di fuori di questo spazio, caratterizzato da una finalità illecita in re ipsa, a prescindere dagli atti del pubblico ufficiale, il criterio – già individuato – dell’idoneità a ledere il bene giuridico può rivelarsi conducente. Prendiamo in considerazione il minimo coefficiente offensivo, coincidente con la massima rarefazione del bene giuridico tutelato (prestigio della P.A.) e con la soglia minima del pericolo (influenza millantata). A questa stregua, esaminiamo l’idoneità a ledere il prestigio della pubblica amministrazione (essendo non ipotizzabile un atto legislativo e ben difficilmente ipotizzabile un atto giurisdizionale, lesivo della par condicio civium) dell’influenza millantata, meno pericolosa dell’influenza reale. Orbene – al di fuori dei casi di compenso diretto al pubblico ufficiale – l’influenza millantata deve essere percepita dalla controparte dell’accordo come idonea a determinare un “favoritismo”64; se manca questa percezione, manca anche la lesione del prestigio della pubblica amministrazione. In questa logica, si può dubitare che l’influenza millantata, in riferimento ad emanandi atti legislativi o giurisdizionali, possa attingere la soglia della rilevanza penale, a titolo di traffico d’influenze. Laddove la natura stessa degli atti esclude non solo la possibilità concreta, ma perfino quella astratta del “favoritismo”, l’atto o gli atti, in riferimento ai quali si millanta l’influenza, sarebbero comunque legittimi e dunque è molto dubbio che qualsivoglia accordo possa ledere il prestigio dell’istituzione pubblica. In conclusione, per una ragione o per l’altra, la sede propria del traffico d’influenze illecite sembra essere, a pieno titolo, il mare magnum dell’attività amministrativa. Alla luce di queste considerazioni, è opportuno esaminare quanto possano incidere, nel delineare la tipicità del reato, i confini che segnano la regolarità dell’attività lobbistica65.
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Il fine del “favoritismo” sembra connaturale al reato in parola, che consiste in una sorta di prodromo della corruzione, tanto che le Convenzioni internazionali hanno per oggetto l’incriminazione di condotte finalizzate all’indebito vantaggio. 65 La banale e semplicistica identificazione del lobbista col c.d. “faccendiere”, che domina la vulgata popolare, trascura la funzionalità dell’attività lobbistica allo stesso decisore pubblico, in quanto finalizzata all’elaborazione di un atto finale “a basso grado di conflittualità”; in questo senso P.L. Petrillo, Democrazia sotto pressione, Parlamenti e lobby nel diritto comparato, Milano, 2011, 48; Id., Le lobbies della democrazia e la democrazia delle lobbies. Ovvero note minime (e provvisorie) sul rapporto tra parlamenti e gruppi di pressione in Italia, in www.ildirittoamministra-
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Nel nostro ordinamento, come s’è detto, il lobbying non trova una regolamentazione precisa66. In ciò molti Autori ravvisano un potenziale pregiudizio alla tipicità del reato di cui all’art. 436 bis, giacché dalla liquidità dei confini tra la regolarità e l’irregolarità dell’attività lobbistica deriverebbe altrettale liquidità dei confini tra la liceità e l’illiceità dell’influenza. Il punto di vista è certamente condivisibile, ma è ingenuo pensare che la regolamentazione del lobbying risolva tutti i problemi, sia perché – come detto – il binomio regolarità/irregolarità non coincide col binomio liceità/illiceità, sia perché potrebbe derivarne, per ironia della sorte, l’automatica connessione tra l’irregolarità formale della condotta del lobbista e l’incriminazione dell’accordo, a titolo di traffico d’influenze illecite. Sicché, l’abbassamento del rischio penale del lobbista risulta legato, in buona misura, agli anzidetti criteri interpretativi, che possono restringere l’area di punibilità del reato di cui all’art. 346-bis c.p., dando rilevanza all’illiceità di scopo e, per questa via, all’illiceità degli atti dedotti nell’accordo di “mediazione”. Sotto questo profilo, può essere “rassicurante” pensare che l’attività di lobbying, nella maggior parte dei casi, tende a far sì che la legislazione in fieri possa soddisfare, o almeno contemplare, gli interessi categoriali rappresentati; e dunque gli atti finali, in vista o nell’aspettativa dei quali, si stringe l’accordo tra il lobbista e il cliente, in linea di massima, hanno carattere legislativo; e ciò, in ultima analisi, impedisce di ravvisarli come illeciti. Per le superiori ragioni, non confidiamo che la regolamentazione dell’attività lobbistica, comunque auspicabile67, possa risolvere le questioni nascenti dal congenito difetto di tipicità della fattispecie. Sempre e comunque, sarà problematico tracciare la linea di discrimine tra la mera irregolarità professionale e il traffico d’influenze illecite68; in questo difficile discernimento potrebbero rivelarsi utili i criteri restrittivi della tipicità penale, testé individuati: si può pensare che l’illiceità strumentale, attinente al modo d’esercizio dell’influenza, incontri il
tivo.it. 66 Si hanno solo alcuni casi di regolamentazione regionale. La legge delle Regione Toscana del 18 gennaio 2002, n. 5, recante “Norme per la trasparenza dell’attività politica e amministrativa del Consiglio Regionale della Toscana”; ha istituito un apposito “Registro dei gruppi di interesse accreditati” ammessi al tavolo di concertazione presso il Consiglio Regionale. Invero, nelle passate legislature, sono stati presentati vari disegni di legge statale, ma la carenza di regolamentazione permane; tra questi il più organico e completo può essere individuato nel ddl Santagata, n. 1886/2007, cui si sono ispirate altre proposte; cfr. G. Sgueo, Lobbying e lobbismo. Le regole del gioco in una democrazia reale, Milano, 2012, 145. Per i disegni di legge depositati nell’attuale legislatura cfr. par. 4. 67 Sulla necessità di assicurare una precisa linea di confine tra la legittima attività di influenza e quella esercitata indebitamente, non si può che concordare; non foss’altro perché ciò avrebbe l’effetto di “circoscrivere la sfera di rischio penale che grava sul lobbista”, P. Veneziani, Lobbismo e diritto penale, cit., 1296; sul punto cfr. anche I. Merenda, Il traffico di influenze, cit. 16; G. Sgueo, Lobbying e sistemi democratici. La rappresentanza degli interessi nel contesto italiano, in Rivista di politica, 2/2012, 118. 68 Sull’attitudine delimitativa, ai fini penalistici, della regolamentazione dell’attività lobbistica parecchi Autori nutrono molta più fiducia di noi. V. Maiello, L’abrogazione del millantato credito, cit., ritiene che “una idonea regolamentazione dell’attività di lobbying sia necessaria per tracciare un’utile linea di confine tra forme lecite ed illecite di intermediazione”, sull’utilità del confine non possiamo che concordare; tuttavia facciamo rilevare che siffatta “idonea regolamentazione” potrebbe tracciare la linea di demarcazione tra regolarità e irregolarità e magari anche tra liceità e illiceità extrapenale, ma non quella tra liceità e illiceità penale, in grande misura legata – rebus sic stantibus – al fine, piuttosto che al modus operandi del binomio lobbista-cliente. Nutrono similare fiducia R. Alagna, Lobbyimg e diritto penale. Interessi privati e decisioni pubbliche tra libertà e reato, Torino, 2018, 45 ss.; P. Severino, Senza norme sul lobbismo difficile abbattere l’illegalità, in www.penalecontemporaneo.it.
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limite della rilevanza “esterna” (rispetto al rapporto che vincola i soli contraenti); che l’accordo finalizzato all’asservimento della funzione pubblica ben difficilmente possa attingere la rilevanza penalistica, in relazione all’attività legislativa e giurisdizionale; che l’illiceità dell’accordo risieda, il più delle volte, nella finalità di conseguire atti amministrativi illegittimi, in violazione della par condicio civium; che l’attività lobbistica possa incorrere nei rigori della legge penale, solo nei casi in cui l’accordo professionale sia stipulato in vista di atti amministrativi illegittimi (come sopra) e non anche di atti legislativi (verso i quali solitamente è diretta).
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Nella vicenda di “Mafia Capitale” non sono rinvenibili i segni della coercizione esercitata da una consorteria mafiosa, nazionale o transnazionale. Nota alla sentenza n. 18125/2020 emessa dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione Sommario: 1. I controversi caratteri esteriori dell’intimidazione mafiosa. – 2. La questione riguardante le nuove mafie, anche straniere. – 3. I fondamenti della decisione giudiziale: a) il carattere impersonale dell’intimidazione mafiosa; b) l’assenza di intimidazione nel sistema corruttivo. – 4. I possibili sviluppi applicativi dei principi di diritto enunciati in sentenza. Abstract Organised mafia-type crime has taken on an international dimension, for both its cooperation in the same “production cycle” of criminal organisations of various nationalities and the emergence of new mafias in hitherto immune countries. However, the need to apply to this new situation the provisions of article 416-bis of the Italian criminal code, introduced in connection with the traditional mafia organisations, cannot justify exceeding the principles of legality. The above captioned ruling is particularly significant in this respect, declaring that there can be no mafia association based on two legal principles: a) the impersonal nature of the intimidation exercised; b) incompatibility with the corruption “system”. The Author comments favourably on the ruling, also in relation to a “secondary” obiter dictum, which connects factual and evaluative elements of the offence. Il fenomeno mafioso ha assunto dimensioni internazionali, sia per la cooperazione nel medesimo “ciclo produttivo” di consorterie criminali di diversa nazionalità, sia per l’emersione di nuove mafie in aree territoriali tradizionalmente immuni. Tuttavia, l’esigenza di applicare alla nuova realtà la norma di cui all’art. 416-bis c.p., pensata in riferimento alle mafie tradizionali, non può giustificare il superamento dei limiti della legalità. Sotto questo profilo è particolarmente significativa la sentenza in commento, la quale dichiara insussistente il vincolo associativo mafioso, sulla base di due principi di diritto: a) l’impersonalità della forza intimidatrice esercitata; b) l’incompatibilità col “sistema” corruttivo. L’Autore commenta favorevolmente la pronuncia giudiziale, anche in relazione a un “secondario” obiter dictum che connette elementi fattuali e valutativi del reato.
Alì Abukar Hayo
1. I controversi caratteri esteriori dell’intimidazione mafiosa. La sentenza in commento1 si pronuncia sul punto più controverso della complessa tipicità del reato di cui all’art. 416 bis c.p. L’associazione di stampo mafioso si connota ai sensi del 3° comma per il fatto che i partecipi si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle generalizzate condizioni di omertoso assoggettamento che ne derivano. Si è posta la questione se fosse necessario un “avvalimento” attuale o anche meramente potenziale; la quale, in termini dogmatici, si riverbera sulla natura “pura” o “mista” del reato associativo de quo. Il paradigma puro postula la sola attitudine della struttura organizzativa a realizzare il programma criminoso “di avvalersi della forza intimidatrice …”, a prescindere dalla realizzazione anche parziale del programma; il paradigma misto suppone invece che la struttura associativa, utilizzata per i reati fine, non necessariamente realizzati, operi in un ambito territoriale e relazionale – per dir così – “pre-intimidito”. Infatti, in quest’ultima logica, ci si può avvalere della forza intimidatrice del vincolo associativo, solo nel caso in cui la struttura associativa sia percepita all’esterno come seriamente pericolosa e organizzata2; sicché l’associazione incute timore, in relazione una storia “pregressa”, necessaria a costruirne e consolidarne la fama3.
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Nella vicenda nota alle cronache come “Mafia Capitale”, la Corte di Cassazione, sez. VI, con sentenza n. 18125/2020 del 16-22.10.2019, depositata il 12.06.2020, ha annullato con rinvio (per alcuni imputati senza rinvio) la sentenza della Corte di Appello di Roma, che riconosceva la sussistenza di un’associazione di stampo mafioso, in riforma della sentenza del Tribunale, che la denegava. Sulle sentenze di primo e secondo grado cfr. Zuffada, Per il Tribunale di Roma ‘Mafia Capitale’ non è mafia: ovvero, della controversa applicabilità dell’art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie ‘storiche’, in Dir. pen. cont., 11/2017; Cipani, La pronuncia della Corte d’Appello di Roma nel processo c.d. Mafia Capitale: la questione dell’applicabilità dell’art 416-bis c.p. alle mafie atipiche, in Dir. pen. cont., 14 maggio 2019. 2 In base all’orientamento giurisprudenziale prevalente, la capacità intimidatrice del metodo mafioso “deve essere attuale, effettiva, deve avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve, piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano consentire all’interprete di affermare che l’azione riferibile ad un determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia anche oggettivamente in grado di permeare – per l’assoggettamento e l’omertà provocate e correlate alle concrete iniziative illecite poste in essere – l’ambiente territoriale economico, sociale, politico di riferimento, deviandone le dinamiche e piegandone ai propri scopi l’ordinato assetto (…). Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua ‘esteriorizzazione’ che può avere le più diverse manifestazioni purché si concreti in atti concreti, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell’affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell’esistenza della prova del metodo mafioso”. (Cass. pen., sez. VI, n. 50064 del 16.09.2015, Barba, Rv. 265656). Nello stesso senso, sez. II, 24.04.2012, Barbaro, Rv. 254031; sez. VI, n. 44667 del 12.05.2016, Camarda, Rv. 268676; sez. I, n. 55359 del 17.06.2016, Pesce, Rv. 269043; sez. II, n. 34147 del 30.04.2015, Agostino, Rv. 264623. Tale indirizzo ermeneutico dominante, secondo il quale la percezione sociale della forza intimidatrice del consorzio criminoso costituisce elemento essenziale di fattispecie, è ribadito dalla sentenza in commento: “secondo l’ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale … la condizione di assoggettamento e omertà deve essere sufficientemente diffusa, anche se non generale” (p. 284). 3 La sentenza in oggetto fa riferimento alla necessità che i sodali si avvalgano di un “prestigio criminale” (appartenente al gruppo e non al singolo) derivante da una “pregressa consuetudine di violenza” (p. 283). Analogamente, si è parlato di consolidata consuetudine di violenza dell’associazione, quale clima percepito all’esterno di cui si avvantaggiano gli associati per perseguire i propri fini (sez. I, 10 luglio 2007, n. 34974, in Mass. Uff. n. 237619). La necessaria presupposizione del passato è sottolineata da Falcinelli, Della Mafia e di altri demoni. Storie di Mafie e racconto penale della tipicità mafiosa (Spunti critici estratti dal sigillo processuale su Mafia Capitale), in Arch.
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Nel tentativo di un’estrema sintesi semplificatrice, si può dire che le due opzioni interpretative differiscano in ciò: l’intimidazione e la conseguente omertà sono intesi come parte dei programmi associativi, in un caso; come “capitale” sociale, utilizzato per ciò stesso che la struttura associativa opera in qualunque modo, nell’altro caso; ora attengono ai fini, ora agli strumenti associativi. Si rischia comunque di pervenire a risultati applicativi incongrui, o per eccesso o per difetto di punibilità: la prima opzione interpretativa, basata sul paradigma associativo puro, sembra tradire, in qualche modo, il significato letterale della norma, che tipizza il reato in funzione della condotta attuale di “avvalersi”, non già dell’intendimento di “avvalersi” in futuro; la seconda opzione, basata sul paradigma misto, sembra ostacolare, in qualche modo, l’applicazione della norma ai nuovi fenomeni di criminalità organizzata, non storicamente radicata nel territorio, giacché le condizioni generalizzate di succubanza ravvisabili nell’omertà diffusa implicano la necessità logica del “pregresso”. Ciò premesso, risulta chiaro che le più spinose questioni ermeneutiche riguardano appunto l’applicabilità della norma al di fuori dei contesti territoriali e relazionali della mafia storica e tradizionale, ben conosciuta alla saggistica sociologica e variamente denominata nel meridione d’Italia (mafia, ‘ndrangheta, camorra). La questione si è posta per le mafie autoctone delocalizzate, per le mafie straniere e quelle di nuova costituzione.
2. La questione riguardante le nuove mafie, anche straniere. Nel caso di cellule delle mafie tradizionali operanti in territori diversi da quelli di origine, l’orientamento giurisprudenziale, prevalente nella prima ora, ha ritenuto che il legame della struttura delocalizzata con la “casa-madre” non fosse di per sé sufficiente a connotare l’utilizzo del metodo mafioso, ma fosse necessario verificare in concreto l’effettiva forza intimidatrice del sodalizio nel contesto territoriale di riferimento4. E l’aver conseguito in concreto siffatta capacità d’intimidazione sul territorio richiedeva necessariamente l’esteriorizzazione del metodo, con atti di uno o più dei componenti della struttura associativa5.
pen., 2020 n. 2, 20: “il portante del metodo mafioso riesce razionalmente a radicare anche il presente del delitto nel passato di una Storia di sangue che è il fattore genetico della norma incriminatrice …”. 4 Secondo l’indirizzo prevalente della Corte Suprema, è necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile; in questo senso, sez. I, n. 51489 del 29.11.2019, dep. 2020, Albanese; sez. I, n. 55359 del 17.06.2016, Pesce, Rv. 269043; sez. I, n. 13143 del 9.03.2017, Nesci; sez. VI, n. 22546 dell’11.04.2018, Rullo; sez. V, n. 19141 del 13.02.2006, Bruzzaniti, Rv. 234403; sez. VI, n. 30059 del 5.06.2014, Bertucca, Rv. 262398; sez. II, n. 25360 del 15.05.2015, Concas, Rv. 264120; sez. VI, n. 6933 del 4.07.2018, dep. 2019, Audia, Rv. 275037. Non è necessaria una diffusione totale delle condizioni di assoggettamento; è importante che la forza intimidatrice sia esplicata in un settore limitato della popolazione, individuabile per ambiente e tipologia di attività; Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord. Una sfida alla tenuta dell’art. 416-bis?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, n. 1; cfr. anche Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont., 10 novembre 2015; Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416-bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont., 18 ottobre 2013; Borrelli, Il ‘metodo mafioso’, tra parametri normativi e tendenze evolutive, in Cass. pen., 2007, 2781 ss., nota a Cass., sez. V, 13 febbraio 2006, n. 19141. 5 Cass. sez. II, n. 31512 del 24.05.2012, Barbaro, Rv. 254031.
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A tale orientamento se n’è contrapposto un secondo, caratterizzato dall’interpretazione estensiva del requisito di cui al 3° comma dell’art. 416-bis c.p., ritenuto sussistente per il fatto stesso del collegamento con la casa madre6. A questa stregua, la cellula periferica avrebbe goduto di per sé della forza intimidatrice mutuata dalla casa-madre, in guisa di capacità potenziale di determinare condizioni diffuse di assoggettamento e omertà. In altri termini, si è ritenuto sufficiente l’attitudine intimidatrice, piuttosto che l’effettiva intimidazione. In tal modo, si è configurata l’associazione di stampo mafioso come reato dalla “doppia natura”, di pericolo e di danno7: il pericolo per l’ordine pubblico non esaurisce l’interezza dell’offesa, giacché si connette al danno arrecato alla libertà morale dei terzi, in conseguenza della “diffusa propensione al timore nei confronti del sodalizio”. È pensabile che questo secondo indirizzo della giurisprudenza abbia tratto alimento dalle difficoltà di provare in giudizio le concrete manifestazioni di forza intimidatrice dei componenti delle cellule delocalizzate e le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà nelle comunità sociali di riferimento. Non è mancata, infatti, l’esplicita ammissione che la verifica dell’effettivo esercizio della forza intimidatrice comporterebbe “l’impossibilità di configurare l’esistenza di associazioni mafiose in regioni refrattarie, per una serie di ragioni storiche e culturali, a subire i metodi mafiosi propri, nella specie, della ‘ndrangheta”8. Invero non ci pare che la difficoltà probatoria e la lamentata “impossibilità” di applicare la norma di cui all’art. 416-bis c.p. in “regioni refrattarie” possano costituire un argomento valido, per sostituire, all’esercizio effettivo del metodo, la mera potenzialità d’esercizio. Il dato testuale della norma non lascia adito a dubbi di sorta: l’uso dell’indicativo presente del verbo “avvalersi” non può che significare la concretezza attuale dell’esercizio della forza intimidatrice; d’altronde, se ci “si avvale di …” è chiaro che lo strumento (di cui ci si avvale) è nella disponibilità del soggetto agente, cosicché l’assoggettamento omertoso della comunità umana di riferimento risulta tipizzato come fatto “presente”, non già come programma futuro. La difficoltà probatoria non può fare ombra sulla precisione linguistica e concettuale della fattispecie tipica e d’altronde non può essere considerata catastrofica l’eventualità di un verdetto di assoluzione, a fronte della mancata prova di reità. Senza contare che l’impossibilità di provare la sussistenza dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. non preclude ovviamente la condanna, ai sensi dell’art. 416 c.p., per il comune reato associativo, nel cui genus si inscrive la species di stampo mafioso. Sull’argomento della disparità di trattamento, a parità di colpevolezza individuale, tra il fatto commesso nelle regioni di appartenenza della casa madre e quello commesso dalla cellula delocalizzata in regioni supposte “refrattarie”, si può osservare che la gravità del reato non dipende solo dalla riprovevolezza etico-giuridica del comportamento individuale. Non è la
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Cass. sez. II, n. 29850 del 18.05.2017, Barranca; sez. V, n. 28722 del 24.05.2018, Demasi, Rv. 273093; sez. V, n. 31666 del 3.03.2015, Bandiera; sez. II, n. 24850 del 28.03.2017, Cataldo, Rv. 270290; sez. II, n. 4304 dell’11.01.2012, Romeo. 7 Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416-bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 297. Si deve a Spagnolo la messa a fuoco della categoria dei reati associativi a “struttura mista”, Dai reati associativi ai reati a struttura mista, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 156. 8 Cass., sez. I, 10 gennaio 2012 (dep. 15 febbraio 2012), n. 5888. Sul punto della percezione sociale della forza intimidatrice in territori che non conoscono il linguaggio mafioso, cfr. Notaro, Art. 416 bis c.p. e ‘metodo mafioso’, tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo, in Riv. it. dir. proc. pen.,1999, 1484 ss.
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stessa cosa, ai fini della sanzione penale, essere componente di una struttura associativa di dimensioni e caratura criminale minime o di un’altra di dimensioni e caratura massime, ancorché l’affectio societatis sia supposta identica. Il pericolo per l’ordine pubblico derivante dall’una e dall’altra associazione è ben diverso, in relazione alla forza coattiva del sodalizio criminoso9. Ma tale forza di condizionamento e coazione dipende anche dalla forza di reazione dei soggetti cui si dirige la violenza morale. Sicché, in ultima analisi, la gravità del pericolo, che fonda la gravità del reato, commisurandosi alla percezione sociale, viene a dipendere anche dalla reazione culturale dell’ambiente sociale, non solo dalla capacità organizzativa della consorteria criminale. Se ciò vale per la misura edittale della gravità di uno stesso reato, vale anche per distinguere un reato più grave da uno meno grave. Ci sembra dunque giusto ed equo che, laddove non si rinvengano nel tessuto sociale i segni dell’intimidazione e dell’omertà generalizzate, sia ritenuto insussistente il reato di associazione mafiosa, ancorché la cellula periferica sia legata alla struttura centrale, dotata di ben altra forza intimidatrice nel territorio di origine. Per quanto riguarda la criminalità organizzata straniera insediatasi in Italia10, è necessario sottolineare, in primo luogo, che il legislatore del 2008 modificò la rubrica e l’ultimo comma dell’art. 416-bis c.p., aggiungendo la locuzione “anche straniere”11. Giunse così a compimento ed ebbe “consacrazione” legislativa il processo di autonomia della fattispecie incriminatrice dal terreno tradizionale delle mafie “storiche”. Gli arresti giurisprudenziali hanno riguardato un centro islamico milanese12, una organizzazione cinese operante a Firenze13, una pluralità di sodalizi nigeriani14, la “Brigada” romena operante a Torino15 e la moldava “Vor v’zacone” attiva in Veneto ed Emilia16. In tutte le sentenze concernenti tali c.d. “piccole mafie” è stato adottato un parametro che ha ridotto di scala i requisiti oggettivi del reato. La forza intimidatrice e le condizioni di assoggettamento e omertà sono stati calibrati in riferimento a un contesto sociale più ristretto: da un esteso “controllo del territorio”, che si ascrive alle mafie storiche, si è passati alla dimensione della prossimità relazionale, ristretta agli appartenenti alla stessa comunità etnica dei componenti del sodalizio e alle persone rientranti nella loro sfera di interesse e attività. La cerchia degli “intimiditi” si è rimpicciolita di molto, in termini quantitativi, ma non sono
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D’altronde un regime punitivo particolarmente severo, come quello riservato ai componenti delle associazioni mafiose, può essere giustificato, in base ai principi di offensività e proporzione, solo se oggetto del rimprovero penalistico è la responsabilità di alimentare una consorteria criminale particolarmente pericolosa, per il fatto stesso della sua esistenza, a prescindere dalla realizzazione dei reati scopo; in questo senso Cavalieri, L’associazione di tipo mafioso, in Moccia (a cura di), Reati contro l’ordine pubblico, Napoli, 2017, 381 ss.; Fiandaca, Controllo penale e criminalità organizzata, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, vol. II, Milano 1991, 31 ss. 10 Sul punto Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra ‘diritto penale giurisprudenziale’ e legalità, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, n. 1, 266 ss. 11 Sul punto Riondato-Ruvolo, Associazioni di tipo mafioso anche straniere, in Fornasari-Riondato (a cura di), Reati contro l’ordine pubblico, Torino, 2017, 66 ss. 12 Cass., sez. VI, 1° marzo 1996, Abo El Nga, in Cass. pen., 1996, 3628. 13 Cass., sez. VI, 4 ottobre 2001, Hsiang e altri, in CED Cass., n. 221245. 14 Cass., 13 marzo 2007, I.E.I., in Dir. imm. e citt., 2008, 209; Cass., sez. II, 14 aprile 2017, Lee e altri, in CED Cass., n. 269747. 15 Cass., sez. II, 21 luglio 2017, Paun, n. 1586. 16 Cass., sez. II, 8 novembre 2017, n. 50949 Bivol e altri, in CED Cass., n. 271376.
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venuti meno i caratteri “qualitativi” della “mafiosità”, sicché è stata richiesta la prova di un effettivo utilizzo della forza di intimidazione e dell’assoggettamento e omertà che ne derivano17. Per quanto riguarda le c.d. mafie autoctone, diverse da quelle storiche, si possono citare i casi della c.d. “mafia del Brenta” in Veneto e della “banda della Magliana” a Roma. Nell’un caso e nell’altro, la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. è stata applicata, si potrebbe dire, de plano, essendo stato accertato il metodo mafioso18; mentre nelle vicende che ruotavano intorno a un Casinò19 è stato escluso il requisito dell’assoggettamento e dell’omertà, pertanto la fattispecie de qua non ha trovato applicazione. Da questo breve excursus possiamo trarre alcune prime conclusioni. È ben vero che sull’attualità del “metodo mafioso” si sono formati indirizzi giurisprudenziali difformi: uno restrittivo, che ha sempre invocato il rigoroso accertamento del requisito dell’intimidazione e della conseguente omertà, ravvisato come “fatto” attuale; l’altro estensivo20, più incline a ravvisarlo come processo in divenire. Sarebbe errato negare tale difformità. Se la si volesse negare, non si potrebbe spiegare perché è stato invocato, in due occasioni, l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite. Tuttavia, a ben considerare, la questione riguarda specificamente la casistica delle c.d. cellule delocalizzate e verte sulla possibilità di dedurre l’attualità del metodo mafioso dal legame tra le neoformazioni periferiche e la “casa madre” tradizionalmente insediata in territori diversi. La vera questione, fin qui emersa, sembra riguardare non tanto il requisito in sé, quanto l’ammissibilità della prova “semplificata” (della sussistenza del requisito) in alcuni casi specifici. Infatti, in relazione alle “piccole mafie” straniere e autoctone, il criterio della “semplificazione probatoria” non è stato utilizzato e le sentenze di condanna hanno sempre fatto seguito alla puntuale verifica dell’intimidazione e delle condizioni di assoggettamento e omertà in atto, sia pure in limiti “relazionali” più circoscritti rispetto alla generalità “territoriale”. A conforto di ciò si può addurre che la consistenza della difformità giurisprudenziale è stata ridimensionata, entrambe le volte, dall’avviso del Presidente della Corte di Cassazione, il quale non ha ritenuto di sottoporre la questione alle Sezioni Unite21.
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Si può riscontrare una sostanziale uniformità interpretativa sull’estensione dell’assoggettamento omertoso; non è necessario un controllo territoriale generalizzato e capillare; sono punibili, ai sensi dell’art. 416-bis c.p. anche le “organizzazioni che, pur senza controllare indistintamente quanti vivono o lavorano in un determinato territorio, circoscrivono le proprie illecite attenzioni a danno dei componenti di una specifica comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi” (Cass., sez. II, 21 luglio 2017, Paun, cit.). Nello stesso senso Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. pen. cont., 1/2019, 15. 18 Corte di Assise di Roma, 23 luglio 1996, Abbatino e altri, inedita; Cass., sez. VI, 28 dicembre 2017 n. 57896, Fasciani, in CED Cass., n. 271724; Cass., sez. V, 4 ottobre 2018, in CED Cass., n. 274120. 19 Cass., sez. V, 19 dicembre 1997, Magnelli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1475 ss., con ampio commento di Notaro, L’art. 416 bis e il metodo mafioso, cit. 20 Sugli eccessi punitivi si sono levate voci critiche, che hanno parlato di un “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia; AA.VV., Il ‘doppio binario’ nell’accertamento dei fatti di mafia, a cura di Gaito e Spangher, Torino, 2013; Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziario, in Ind. pen., 2015, 223; Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., 2. 21 La Sezione seconda della Corte di Cassazione, con ordinanze 15807 e 15808 del 28 aprile 2015, invocò l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite; il Primo Presidente della Cassazione restituì gli atti alla Sezione, ritenendo insussistente il contrasto giurisprudenziale, in quanto si poteva rinvenire un comune principio di diritto, così formulato: “l’integrazione della fattispecie di associazione mafiosa implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità d’intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale,
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In questo quadro, segnato da una difformità giurisprudenziale “latente”22, ristretta comunque entro i confini dell’accertamento probatorio, la sentenza in commento prende in considerazione il caso dell’associazione, non legata alle mafie tradizionali, operante a Roma, nota alle cronache come “Mafia Capitale”, dedita alla corruzione sistematica dei funzionari pubblici in vista dell’aggiudicazione di gare d’appalto indette dal Comune. La Suprema Corte ne ha disconosciuto i caratteri della “mafiosità”, ravvisati invece nella sentenza di appello, che aveva accolto la domanda di reformatio in pejus della sentenza assolutoria (sul punto) di primo grado, formulata dalla Procura della Repubblica.
3. I fondamenti della decisione giudiziale. La sentenza in commento ribadisce, innanzitutto, che il “metodo mafioso”, che caratterizza l’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., suppone l’utilizzo di una forza d’intimidazione attuale e non meramente potenziale23. Sotto questo profilo, può dirsi che l’approdo interpretativo della Corte non si discosta da quello tradizionalmente prevalente in giurisprudenza, che declina il requisito di cui al 3° comma in senso restrittivo24. Tuttavia, come s’è detto, la vera questione
effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”. La questione fu riproposta dalla seconda Sezione, con ordinanza n. 15768, depositata il 10 aprile 2019; anche in questo caso gli atti sono stati restituiti alla Sezione, giacché il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, con decreto del 23 luglio 2019, non ha ravvisato il contrasto giurisprudenziale, sottolineando che “è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e, dunque, l’esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell’ambiente esterno in termini di assoggettamento e omertà”. Proprio sulla necessità di tale esternazione fa leva la sentenza in commento, per denegare il carattere mafioso della c.d. “Mafia Capitale” (p. 289). 22 Alcuni Autori ritengono tuttora persistente la difformità giurisprudenziale, sia pure limitata alla questione delle mafie delocalizzate; Visconti, I giudici di legittimità ancora alle prese con la ‘mafia silente’ al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont., 5 ottobre 2015; Ninni, Alle Sezioni Unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso con riguardo ad articolazioni periferiche di un sodalizio mafioso in aree ‘non tradizionali’, in Dir. pen. cont., 6/2019, 23 ss. 23 L’espressione legislativa ‘si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo’, a parere della Corte, “rende esplicita la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza d’intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso; occorre che il sodalizio dimostri di possedere detta forza e di essersene avvalso”; ed ancora: “l’associazione mafiosa non è strutturata sulle ‘intenzioni’, ma su una rete di effettive derivazioni causali”; “non un’associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque; il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna” (pp. 282-3 della sentenza annotata); ed infine: “la forza di intimidazione deve essere manifestata e percepita” (286). 24 La pronuncia della Corte è stata criticata per la fedeltà all’indirizzo giurisprudenziale prevalente. Si è osservato che il “metodo mafioso” oggi è mutato; l’intimidazione può essere intesa “in senso meramente ambientale”; “può essere violenta ma anche di tipo induttivo (coartazione mediante corruzione)”; Musacchio, ‘Mafia capitale’ è il simbolo delle metamorfosi mafiose, in www.dirittopenaleuomo.it. Invero tale osservazione critica non ci pare convincente, giacché porta con sé il rischio di equiparare quoad poenam fatti che presuppongono violenza morale e fatti che non la presuppongono, la cui riprovevolezza ci sembra diversificata. Il “sistema” basato sul mercimonio della funzione pubblica pare ben diverso da quello, basato sulla “paura”, sussumibile sotto il paradigma della mafia e sanzionato con pene particolarmente severe; il sentimento della “paura” viene considerato tuttora essenziale per
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ci sembra che verta, non tanto sull’essenza del requisito, quanto sulla prova processuale della sua sussistenza; ed è qui che si devono cercare le parti più “innovative” e significative della pronuncia giudiziale del Supremo Collegio; da questo punto di vista, ci pare che la sentenza riesca a mettere due “paletti” di grande rilevanza. a) il carattere impersonale dell’intimidazione mafiosa La prima puntualizzazione riguarda la fonte dell’intimidazione. Può sembrare ovvio riferire al gruppo e non al singolo la capacità d’intimidazione, non foss’altro in ossequio al tenore letterale della norma, la quale punisce gli associati che “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo”. È quel vincolo, non già la persona del partecipe, la fonte dell’intimidazione25. Ma, a ben vedere, l’ovvietà non è poi così “ovvia” e scontata, giacché cela una questione tutt’altro che secondaria, attinente ai criteri probatori. Invero, il riferimento al gruppo comporta l’impersonalità dell’intimidazione e questa, a sua volta, postula un’efficienza intimidatrice consolidata nel tempo e in qualche modo socialmente riconosciuta. Se l’intimidazione promana dal gruppo e non dal singolo, cambia la sua dimensione “temporale”, perché la pluralità indeterminata degli intimiditi la percepisce come continuativa e durevole, destinata a permanere anche oltre la sfera d’intervento spazio-temporale del singolo. È evidente infatti che la minaccia della persona individuale ha un’efficacia ristretta entro i margini nei quali può operare quella persona, mentre l’intimidazione che promana dal gruppo li trascende, perché la minaccia, la quale si suppone non più attuabile da parte del singolo, può essere attuata dai suoi sodali26. Al contempo, l’intimidazione del gruppo ha una dimensione “sociale” e “relazionale” ben diversa. Mentre il fatto della persona ricade sotto la percezione sensoriale dell’osservatore, l’esistenza della societas sceleris non è un dato empirico e visibile. Ne consegue che l’intimidito, avendo avuto la percezione sensoriale dell’azione intimidatrice individuale, la può intendere come promanante dal gruppo, e non dal singolo, solo a condizione che la “fama” sociale di tale gruppo si sia diffusa.
identificare il fenomeno mafioso, come cristallizzato nella fattispecie punitiva di cui all’art. 416-bis c.p., da Falcinelli, Della Mafia e di altri demoni, cit.. 25 Nella sentenza in commento si precisa che “anche per le nuove mafie, è necessario che il gruppo manifesti la propria capacità d’intimidazione, la propria – non quella del singolo associato – fama criminale e che detta capacità produca assoggettamento omertoso” (pag. 295). La Corte ribadisce poi il requisito dell’impersonalità dell’intimidazione, così motivando l’annullamento della sentenza d’appello: “si è preteso di far derivare la capacità intimidatrice dell’associazione dal prestigio criminale non mafioso di uno degli associati e non da quello impersonalmente riferibile al gruppo” (p. 325). In dottrina, sul carattere impersonale dell’intimidazione cfr. Ronco, L’art. 416-bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in AA.VV., Il diritto penale della criminalità organizzata, a cura di Romano-Tinebra, Milano, 2013, 74. 26 La Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che “a qualificare o ad escludere la configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è essenziale che questa si avvalga o meno della forza di pressione derivante dal vincolo associativo in se stesso nel senso che, anche se venissero individuati, perseguiti ed isolati gli autori delle singole manifestazioni di minaccia o di danno, resterebbe pur sempre l’incombente pericolo del permanere della società criminale costituita anche da altri affiliati rimasti liberi” (sez. I, n. 6330 dell’11.10.1986, Musacco, Rv. 176087); nello stesso senso ex plurimis, sez. I, n. 9604 del 12.12.2003, dep. 2004, Marnaro, Rv. 228479; sez. VI, n. 2812 del 12.10.2017, dep. 2018, Barallo, Rv. 273537; sez, V, n. 56596 del 3.09. 2018, Balsebre, Rv. 274753; sez. I, n. 22242 del 16.05.2011, Baratto, Rv. 250704.
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Sicché, a ben considerare, la superiore puntualizzazione dice molto di più di ciò che appare ovvio; indica un criterio probatorio di non poco conto, ai fini della punibilità ex art. 416-bis c.p. È vero che il carattere personale/impersonale dell’intimidazione può essere dedotto dal contesto storico-sociale di riferimento, nel senso che, nei territori tradizionalmente permeati dal fenomeno mafioso, si può pensare a forme di intimidazione diffuse e impersonali, percepite nel consesso sociale come riconducibili alla criminalità organizzata; ma è vero anche il contrario, perché la relazione è biunivoca; laddove l’intimidito coglie nell’azione di intimidazione un fatto della persona, piuttosto che un fatto del gruppo, si deve ritenere insussistente il requisito di cui al 3° comma dell’art. 416-bis, sintetizzabile come “metodo mafioso”. In definitiva, l’impersonalità della forza di intimidazione diventa un indice probatorio di rilevante entità e può suggerire un criterio discretivo che può rivelarsi decisivo in molti casi dubbi: laddove la “caratura criminale” appartiene al singolo, più che al gruppo, non è ravvisabile l’associazione mafiosa, la quale invece si può ravvisare solo quando sia “riconosciuta” nel consesso sociale di riferimento, e sia pure in ambienti specifici, una caratura criminale di gruppo. b) l’assenza di intimidazione nel sistema corruttivo Il secondo “paletto”, che funge da criterio restrittivo dell’esuberante comprensività della fattispecie punitiva, consiste nella declaratoria di incompatibilità tra tale impersonale metus, promanante dalla struttura associativa, e un contesto relazionale, fondato su rapporti inter pares27. Anche qui siamo nell’ambito dell’apparente “ovvio”. La forza intimidatrice del vincolo associativo, di cui si avvalgono gli intranei, per essere tale, deve coartare la libertà morale degli estranei; laddove, invece, le relazioni umane si sviluppano su basi volontarie, senza alcuna coazione morale, viene meno quel contesto di riferimento, che costituisce l’humus del metodo mafioso. Intimidazione e libertà morale sono incompatibili, del pari l’associazione mafiosa è incompatibile con un tessuto economico-sociale di relazioni inter pares. Nel processo alla c.d. “mafia capitale”, si ipotizzava che un sodalizio criminoso avesse assunto le caratteristiche della “mafiosità”, essendo dedito alla corruzione sistematica dei funzionari pubblici, per l’aggiudicazione di gare d’appalto del Comune. È noto tuttavia che nei rapporti corruttivi la volontà del corrotto e del corruttore si pongono sullo stesso piano, esulando qualsivoglia forma di coazione morale. Sicché, tra i protagonisti del patto corruttivo, il “metodo mafioso”, che suppone il ricorso alla forza intimidatrice del vincolo associativo, sarebbe stato da escludere ab origine, proprio in virtù della contestuale supposizione del rapporto corruttivo. E tuttavia, esclusa l’intimidazione all’interno del rapporto corruttivo, non la si può escludere all’esterno. Per esempio, non si può escludere a priori – in linea meramente teorica – che i responsabili di una serie indeterminata di episodi corruttivi, sia nella veste di corrotti sia nella veste di corruttori, diano vita a una struttura associata capace di intimidire gli estranei. L’intimidazione rivolta all’esterno sarebbe, per ipotesi, finalizzata a distogliere po-
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La Corte afferma che la cd. mafia capitale costituisce “un ‘sistema’ gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”; precisa inoltre che “la criminalità organizzata mafiosa si fonda sostanzialmente sul metus che deriva dalla violenza, dall’intimidazione, dalla costrizione, laddove, invece, la corruzione è un reato che si fonda sull’accordo illecito e paritario tra due persone”; “nella corruzione l’omertà è fondata ... sulla convenienza reciproca” (p. 326).
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tenziali competitors dalla partecipazione alle gare d’appalto, in modo da assicurare la vittoria degli intranei all’associazione. In questa ipotesi, corrotti e corruttori si adopererebbero per conseguire un comune “utile d’impresa”, ripartito secondo i patti associativi, mediante l’intimidazione dei concorrenti di mercato. Nel quadro degli interessi in gioco, il conseguimento del profitto sociale vedrebbe corrotti e corruttori dalla stessa parte della barricata, in quanto intranei all’associazione criminosa, giacché l’interesse in conflitto – in ipotesi soccombente – sarebbe quello dei soggetti intimiditi, estranei all’associazione, e, secondo l’ipotesi, esclusi dalle gare d’appalto. Questa costruzione teorica è astrattamente compatibile con gli estremi tipici dell’associazione mafiosa, in quanto l’intimidazione non riguarderebbe la relazione corruttori-corrotti, bensì l’altra che si instaura fra intranei ed estranei, essendo intranei sia i corruttori sia i corrotti. Orbene, nelle pagine processuali della vicenda “mafia capitale” non emerge tale intimidazione “esterna”28, posto che tutti gli episodi, riconducibili al consorzio criminoso, sono stati considerati indici di un “sistema” corruttivo, al cui interno si sarebbe sviluppata la dinamica intimidatrice. In tale rappresentazione ideale dei fatti, non ci può essere posto per un’associazione di stampo mafioso, giacché la forza d’intimidazione sarebbe esercitata all’interno del “sistema” corruttivo; proprio laddove vigono, per definizione, rapporti paritari, instaurati sulla base della libera determinazione di ognuna delle parti, arbitra delle proprie utilità e convenienze. La Corte, tuttavia, non si limita ad enunciare siffatta incompatibilità logico-giuridica tra il metus, che comprime la libertà morale, e la posizione paritaria delle volontà dei contraenti nella stipula del singolo patto corruttivo (e anche, a somiglianza, nella stipula del patto costitutivo del “sistema” corruttivo), ma si sforza di individuare un criterio, che possa fungere da indice probatorio, nella consapevolezza che il thema decidendum attiene – come detto – molto più al versante “probatorio”, che a quello degli elementi costitutivi del fatto tipico. Ravvisa nel “vantaggio” del corrotto l’indice probatorio della sua libera determinazione volitiva, che esclude la presenza del metus29. Non è necessario essere intimiditi, per andare alla ricerca del proprio vantaggio; anzi, in base all’id quod plerumque accidit, è molto improbabile, essendo la ricerca del vantaggio una scelta dell’individuo assolutamente libera, diretta all’appagamento dei suoi desideri. Questo stesso criterio è utilizzato dalla giurisprudenza per tracciare la linea di confine tra la concussione e la corruzione: laddove il privato non consegue o persegue alcun vantaggio indebito, in conseguenza dell’atto del pubblico ufficiale dedotto nel pactum sceleris, si ritiene che subisca il metus publicae potestatis e sussista pertanto la concussione; laddove, invece, consegue o persegue un suo vantaggio, si ritiene che il metus sia assente e pertanto ricorrano gli estremi della corruzione (o dell’induzione indebita)30. Similmente, nella vicenda “mafia
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Sono stati esclusi episodi di intimidazione, come si legge a pag. 321 della sentenza annotata: “quanto alle presunte condotte intimidatorie nei confronti dei pubblici amministratori, vicende prospettate dall’accusa al primo giudice che, al riguardo, aveva tuttavia largamente motivato per rilevarne l’assoluta inconsistenza – trattandosi generalmente di casi di forzatura nella interpretazione di espressioni gergali e di violenza verbale (senza mai individuare un caso di minaccia diretta) – la Corte di appello ha interpretato e valutato … diversamente il dato probatorio senza, tuttavia, alcun serio raffronto con la motivazione del primo giudice”. 29 Cfr. nota 27. 30 Il criterio del “vantaggio” illecito è quello che distingue il fatto del pubblico ufficiale qualificabile come con-
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Nella vicenda di “Mafia Capitale” non sono rinvenibili i segni della coercizione esercitata da una consorteria mafiosa
capitale”, la Corte, correttamente, ritiene che i consistenti vantaggi economici, indebitamente conseguiti o perseguiti dai corrotti, fossero sintomatici dell’assenza di metus e pertanto dovesse esulare il reato di associazione di stampo mafioso, fondata sul fatto di avvalersi del metus.
4. I possibili sviluppi applicativi dei principi di diritto enunciati in sentenza. I due criteri restrittivi, individuati dalla Corte – impersonalità dell’intimidazione e incompatibilità coi traffici economico-giuridici di tipo paritario – possono avere conseguenze applicative di grande rilievo, non solo nelle aree “refrattarie”, ma anche in quelle caratterizzate dalla presenza di mafie storiche. Qui, certamente, le condizioni di assoggettamento e omertà possono essere provate sulla base dell’id quod plerumque accidit. Ma deve trattarsi di una massima d’esperienza, che ammette la prova contraria. Non è infatti escluso che la società civile sviluppi nel tempo gli anticorpi sufficienti a ridimensionare siffatte condizioni di assoggettamento e omertà. E mentre tale processo evolutivo può essere lungo per il consorzio sociale nella sua interezza, è verosimile che possa essere più breve in determinati ambienti sociali. Si può pensare pertanto che, nei casi in cui le vicende si svolgano in ambienti divenuti nel tempo “refrattari”, non debba darsi per scontata la sussistenza del requisito di cui al terzo comma dell’art. 416-bis, anche nelle aree meridionali del nostro Paese. Per contro, il secondo criterio restrittivo, fin da subito, può dispiegare in pieno i propri effetti applicativi in tutto il territorio nazionale, a prescindere dalla presenza della mafia storica. Se le vicende si svolgono nell’ambito di traffici economico-giuridici paritari, l’intimidazione non sussiste, ancorché sullo sfondo possa aleggiare la mafia, che nel caso concreto non interferisce nel pactum sceleris. Sicché, nei casi dubbi, il criterio della reciprocità del vantaggio dei contraenti può rivelarsi utile per discernere patti associativi “semplici” da strutture di criminalità mafiosa, a prescindere che i fatti accadano in Piemonte o in Sicilia31.
cussione, nel quale il soggetto agente non prospetta alcun vantaggio, dal meno grave qualificabile come induzione indebita, nel quale l’uno prospetta un vantaggio accettato dall’altro. Il criterio discretivo è considerato decisivo nei casi dubbi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, 24.10.2013, n. 12228, Maldera. Cfr. ex multis Gambardella, La linea di demarcazione tra concussione e induzione indebita: i requisiti impliciti del ‘danno ingiusto’ e ‘vantaggio indebito’, i casi ambigui, le vicende intertemporali, in Cass. pen., 6/2014, 2018 ss.; Gatta, Dalle sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e induzione indebita: minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito, in Dir. pen. cont., 17 marzo 2014; Seminara, Concussione e induzione indebita al vaglio delle Sezioni Unire – Il commento, in Dir. pen. e processo, 2014, 5, 546 ss. Sul punto sia consentito rinviare a noi stessi: Abukar Hayo, La determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513-bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 13178/2019, in Arch. pen., n. 2/2020, 16. 31 Laddove si instaurano relazioni economiche, non fondate sul metus, ancorché illecite e caratterizzate da un grande squilibrio nelle prestazioni dei contraenti, non è rinvenibile il metodo mafioso. Dello stesso avviso Merenda e Visconti, i quali ammoniscono l’interprete sulle possibili iniquità derivanti dall’inquadramento della fattispecie nel paradigma del reato associativo ’puro’: “così una comune associazione per delinquere composta magari da criminali incalliti di estrazione meridionale dediti all’usura e al recupero crediti verrebbe agevolmente inquadrata nel paradigma mafioso; viceversa, se composta da criminali di estrazione regionale diversa, andrebbe incontro all’applicazione del solo art. 416 c.p. In altre parole, il metodo mafioso oggettivamente inteso, richiedendo una sua esteriorizzazione per essere accertato processualmente, favorisce un giudizio sulle persone per quel fanno e non per quel che sono” (Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., 5).
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Infine, vale la pena annotare brevemente un altro punto incidentalmente lambito dalla pronuncia de qua. La Corte Suprema asserisce che i fatti e la valutazione dei fatti non sono nettamente separabili32. L’asserzione potrebbe essere formulata in termini generali, in guisa di obiter dictum; è chiaro tuttavia che ha una ragion d’essere specifica in subjecta materia, nella quale l’accertamento probatorio non riguarda solo l’imputazione del fatto, ma la sussistenza stessa degli elementi del fatto, tipizzati con formule aperte alla valutazione del giudicante. È chiaro che l’avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo e le derivanti condizioni di assoggettamento e omertà sfuggono alla percezione sensoriale e sono ricostruiti in base a un processo mentale di astrazione, con numerosi passaggi intermedi necessariamente valutativi. Il che spiega la diversa opinione dei Giudici di primo e secondo grado sulla sussistenza del fatto oggettivo dell’associazione mafiosa (non già sulla sola imputazione soggettiva del fatto) e spiega anche la speciale “corposità” della sentenza commentata, che consta di ben 379 pagine, nelle quali si ricostruiscono i “fatti” di causa. Parrebbe perfino che la Suprema Corte abbia invaso il campo del fatto, piuttosto che attenersi alle sole questioni di diritto. Ma così non è, perché la Corte enuncia infine criteri generali di accertamento probatorio del fatto di reato associativo e dunque enuncia principi di diritto, ma per farlo deve pur analizzare gli accertamenti probatori di primo e secondo grado33. Il tema meriterebbe di essere approfondito; in questa sede, sia consentito limitarci a una semplice chiosa. L’inscindibile connessione fatto/valutazione non riguarda solo la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. Sono numerose infatti le norme incriminatrici, pregne di elementi valutativi, incidenti sul fatto costitutivo di reato. Sicché il condivisibile orientamento della Corte, seppure enunciato incidenter tantum, potrebbe avere ricadute notevoli, in relazione ai criteri di ammissibilità dei ricorsi per cassazione. Se è vero infatti che, in molti casi, la valutazione e la storicità del fatto non sono nettamente separabili, si potrebbe opinare che le declaratorie di inammissibilità del ricorso, per formulazione di motivi attinenti al fatto e non al diritto, dovrebbero essere pronunciate con maggiore oculatezza.
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Si legge a p. 299 della sentenza: “sul tema si è fatto peraltro autorevolmente rilevare come, pur essendo articolato l’intero sistema processuale penale sulla distinzione tra ‘l’ordine dei fatti e l’ordine del diritto’, si sia tuttavia progressivamente giunti a riconoscere la sostanziale impossibilità di separare, nella conoscenza umana, la componente valoristica da quella fattuale: ‘tutte le verità sono tali sia in forza del linguaggio che le esprime, sia in forza dei fatti”; e ancora: “l’accertamento che consegue al giudizio in diritto (la condotta di cui all’imputazione è sussumibile o meno nella fattispecie giuridica contestata) non si concreta solo in un’operazione di raffronto semantico tra entità linguistiche, in quanto, anche in detta attività di raffronto, il giudizio giuridico è intriso di valutazioni di fatto”. 33 Poiché il Giudice di secondo grado ha interpretato il dato probatorio diversamente dal Giudice di primo grado, la Corte di Cassazione ha valorizzato le convincenti motivazioni del Tribunale e l’assenza, nella sentenza d’appello, di “alcun serio raffronto con la motivazione del primo giudice” (p. 321 della sentenza); cfr. nota 28.
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Scenari ed opportunitĂ per sviluppi operativi e avanzamenti della convenzione di Budapest. Un cammino per una nuova convenzione in tema di crimine informatico Abstract The United Nations General Assembly last December through Resolution 74/247 took note of Resolution 26/4 of 2017 of the Commission on Crime Prevention and Criminal Justice in which it welcomed the work of the ad hoc expert group to conduct a comprehensive cybercrime study and asked this group to continue its work in order to examine options to strengthen existing responses and propose new legal responses to cybercrime. The same Resolution decided to set up an intergovernmental ad hoc committee of experts of indefinite duration, representative of all regions, to draw up a comprehensive international convention on combating the use of information and communication technologies for criminal purposes, taking full account of existing regional and international instruments for combating cybercrime. This contribution takes the opportunity to partly inform and meditate together with a greater number of interlocutors, directly and indirectly involved and affected by these forthcoming decisions, so that they can be given a greater amount of information and thus be more effectively placed in a position to contribute to the success of this concerted effort. The following evaluations are only an incipient effort of analysis and reflection; they contain in themselves the seed of themes that can be articulated and articulated in the future precisely in order to render a wider service to the communities involved and to the importance of the problems on which we try to speculate; on the other hand, everything always ends up impacting. We will look at the binding necessity/opportunity to adopt a new convention by briefly mentioning the reasons for the unacceptable inadequacy of the existing agreements. We will allude to the need to reflect carefully on the instruments that judicial cooperation would need to adopt in order to be able to operate with contemporary instruments that are, on the whole, intricate with the historical developments of the third millennium and we will try to look at the specific issue of a new and worthy industry that could and, in my opinion, should be included within the framework of the protection instruments that the Convention on computer crime can provide.
Nicola d’Albasio
L’assemblea generale delle Nazioni Unite nel passato dicembre tramite la Risoluzione 74/247 ha preso atto della risoluzione 26/4 del 2017 della Commissione per la prevenzione del crimine e la giustizia penale nella quale questa esprimeva apprezzamento per il lavoro del gruppo di esperti ad hoc per la conduzione di uno studio completo sulla criminalità informatica e chiesto a questo gruppo di continuare il proprio lavoro al fine di esaminare le opzioni rafforzare le risposte esistenti e proporre nuove risposte legali al crimine informatico. La stessa risoluzione ha deciso di istituire un comitato intergovernativo di esperti ad hoc a tempo indeterminato, rappresentativo di tutte le regioni, per elaborare una convenzione internazionale globale sulla lotta all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali tenendo pienamente conto degli strumenti esistenti a livello regionale e internazionale per la lotta a questo stesso fenomeno. Questo contributo coglie l’occasione per informare in parte e meditare assieme ad un maggior numero di interlocutori, convolti e toccati direttamente e indirettamente da queste prossime decisioni, affinché questi ultimi possano avere una più amplia quantità di informazioni ed essere quindi più efficacemente messi nella posizione di poter contribuire alla riuscita di questo momento concertativo. Le seguenti valutazioni sono solamente in primo incipiente sforzo di analisi e riflessione, contengono in sé il seme di temi che potranno essere snocciolati e articolati in futuro proprio al fine di rendere un più amplio servizio alle comunità coinvolte e all’importanza delle problematiche su si cerca di speculare; d’altronde tutto sempre finisce per impattare. In estrema sintesi guarderemo alla cogente necessità/opportunità di adozione di una nuova convenzione facendo un breve cenno alle ragioni d’inaccettabile insufficienza degli accordi già esistenti. Alluderemo alla necessità di riflettere attentamente sugli strumenti che la cooperazione giudiziaria avrebbe necessità di adottare al fine di poter operare con strumenti contemporanei nel complesso intricarsi degli sviluppi storici del terzo millennio e cercheremo di guardare al tema specifico di un’industria nuova e degna di considerazione la quale potrebbe ,ed a mio parere dovrebbe, essere inserita nel quadro degli strumenti di tutela che la convenzione in materia di crimine informatico può fornire.
Il seguente contributo nasce dell’esigenza di porre all’attenzione degli interlocutori alcuni spunti di riflessione sull’industria del sesso virtuale, nonché l’opportunità di valutare il suo inserimento nella cornice delle norme per il contrasto al crimine informatico, attraverso un’estensione delle norme contro il traffico di persone all’interno del campo virtuale, in una lettura attenta delle opportunità di tutela ed una considerazione del fenomeno Cam-Girl nella sua totalità. Se guardassimo al diritto romano, alle operatrici del sesso era richiesto iscriversi al registro degli edili, pratica tra VI e I secolo che era pensata per far sì che queste non fossero imputabili di adulterio. Questa pratica si diffuse al punto da coinvolgere le matrone patrizie. A distanza di duemila anni potremmo avere un riguardo, appunto, più amplio1. Il momento è quanto mai propizio dato che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è sul punto di cercare di dotarsi di una vera e propria nuova Commissione ad hoc in tema di contrasto al crimine informatico; avvenimento che può considerarsi come una terza onda di espansione di consensus attorno a strumenti operativi che rendano la convenzione di Palermo ancora efficace e quindi come sperato dallo stesso Giovanni Falcone. «Oggi si realizza il sogno di Giovanni di una piena cooperazione tra gli Stati nella lotta alla criminalità organizzata. Davanti a mafie globali che operano ben oltre i confini nazionali, dare piena attuazione e migliorare la Convenzione di Palermo del 2000 era fondamentale. Giovanni aveva intuito quanto fosse importante un’azione comune a tutti i Paesi contro la criminalità organizzata già negli anni ¿80, quando, da pioniere, avviò la sua collaborazione con gli investigatori americani nell’inchiesta Pizza Connection. Il risultato raggiunto oggi è la realizzazione di una sua lungimirante visione».
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Fonte enciclopedia edizione garzanti enciclopedia classica 2000).
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È questo il commento espresso, al momento della approvazione del Meccanismo di Revisione, da Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione a lui intitolata2. L’incontro di Versailles, al quale, secondo le testimonianze dei partecipanti, fu presente anche Giovanni Falcone, sviluppò una dichiarazione di principi e un programma d’azione, che l’Assemblea Generale dell’ONU adottò nella risoluzione 46/152 del 18 dicembre 1991. La nuova Commissione iniziò i suoi lavori a Vienna il 21 aprile 1992. La discussione generale si concentrò sin dall’inizio sulla implementazione delle raccomandazioni dell’incontro ministeriale di Versailles. Tra i primi ad intervenire vi fu Giovanni Falcone, che guidava la delegazione italiana. Il contenuto della sua dichiarazione è così riassunto nel comunicato stampa del 21 aprile 1992 del Servizio Informazione delle Nazioni Unite: «Giovanni Falcone (Italia) ha detto che la Commissione ha il compito difficile di rendere il nuovo Programma sostanziale e concreto, mentre le relative risorse rimangono limitate. Nella sua prima sessione, la Commissione dovrebbe concentrarsi sulla definizione degli aspetti organizzativi del lavoro e sulla selezione dei temi prioritari per un’azione concreta. La Commissione dovrebbe definire obiettivi specifici per ciascun tema prioritario scelto e adottare progetti operativi per il raggiungimento di tali obiettivi, egli ha continuato. Devono essere indicati ciò che ciascun progetto comporta e il tempo richiesto per la sua implementazione, in modo che possa essere monitorato. Nella scelta dei temi prioritari la Commissione dovrebbe prendere in considerazione le attività attualmente in corso di elaborazione e includerle in programmi futuri di azione, se necessario. Gli standard e le norme delle Nazioni Unite per la giustizia penale e i trattati-modello sviluppati nel corso degli anni sono di grande valore, ha detto. [...] Anche la raccolta di dati correlati alla criminalità dovrebbe essere rafforzata. La partecipazione di organizzazioni non governative nel lavoro delle Nazioni Unite nella prevenzione della criminalità e nella giustizia penale dovrebbe essere incoraggiata. Per quanto attiene ai temi prioritari, egli, ha suggerito di affrontare la criminalità organizzata e la criminalità economica come una priorità assoluta poiché questi reati hanno colpito le istituzioni nazionali e il tessuto sociale dei paesi di tutte le regioni del mondo. [...] Dovrebbero essere individuate forme di coordinamento adeguate con il programma internazionale di controllo delle droghe delle Nazioni Unite (UNDCP) in campi come il traffico di droga e il riciclaggio di denaro»3. Una nuova primavera Lo scorso dicembre tramite la sua risoluzione 74/247, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha preso atto della risoluzione 26/4 del 26 maggio 2017 della Commissione sulla prevenzione della criminalità e della giustizia penale, in cui la Commissione ha espresso apprezzamento per il lavoro svolto dal gruppo di esperti per condurre uno studio completo sulla criminalità informatica e chiesto al gruppo di esperti di continuare il suo lavoro, al fine di esa-
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V. sul punto l’articolo dal titolo: Aggiornata la convenzione di Palermo. Più cooperazione fra Stati contro le mafie, in La Repubblica, 20 ottobre 2018. 3
M.A. Accili Sabbatini, A. Balsamo, Verso un nuovo ruolo della convenzione di palermo nel contrasto alla criminalità transnazionale. Dopo l’approvazione del Meccanismo di Riesame ad opera della Conferenza delle Parti.
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minare le opzioni per rafforzare le risposte esistenti e proporre nuove risposte legali nazionali o internazionali o altre risposte alla criminalità informatica, e al riguardo ha ribadito il ruolo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC). Nella stessa risoluzione, l’Assemblea generale ha deciso di istituire un comitato intergovernativo di esperti ad hoc a tempo indeterminato, rappresentativo di tutte le regioni, per elaborare una convenzione internazionale globale sulla lotta contro l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali, tenendo pienamente conto strumenti e sforzi internazionali esistenti a livello nazionale, regionale e internazionale per combattere l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali, in particolare il lavoro e i risultati del gruppo di esperti intergovernativo a tempo indeterminato per condurre uno studio completo sulla criminalità informatica. L’Assemblea Generale ha inoltre deciso che il comitato ad hoc convocherà una sessione organizzativa di tre giorni nell’agosto 2020, a New York, al fine di concordare uno schema e le modalità per le sue ulteriori attività, da presentare all’Assemblea Generale alla sua 75esima sessione per la sua considerazione e approvazione. L’UNODC, attraverso la sezione “Organized Crime and Ill trafficking Branch, Division for Treaty Affairs”, provvederà come segretariato per il comitato ad hoc e supporterà gli Stati membri in preparazione della sessione organizzativa di tre giorni nell’agosto 2020. Questo avvenimento va profilandosi come l’occasione di creare un rinvigorito quadro multilaterale idoneo ad affrontare le sfide che vanno emergendo nella rete internet. I fondamentali limiti del quadro normativo esistente la convenzione di Budapest ovvero un approccio multilaterale non globale Appare tautologico, ma non scontato, osservare che gli strumenti esistenti in materia sono fortemente limitati in primis dalla mancata estensione globale del suo consensus; basti pensare che Cina e Russia non vi avevano aderito; e proprio questi stati si sono fatti promotori dell’adozione di una nuova convenzione in materia. Credere di poter continuare a lavorare con una serie di regole che possano essere eluse tramite il semplice utilizzo di un server dislocato fuori dal piccolo ombrello della convenzione di Budapest non è sincero. Internet nell’era dell’immagine Siamo forse nell’era dell’immagine perché la vita nel suo desiderio di farsi più conscia impone alla propria materia4 di farsi più viva ed intelligente? Deve quindi l’Umanità tutta affrontare il paradosso dell’immagine fino al suo grottesco al fine di imparare ad andare oltre se medesima, riportandosi così al presente percettivo per farsi sensibile e viva? Forse che sì! forse che no! Che questo processo sia indotto dall’alto, dal basso, di lato o in superficie, da dottrine o pensieri o filosofie intenzionate non ha importanza, pur essendo forse cruciale per un’evoluzione, limitiamoci a considerare che una relazione tra l’immagine e il fatto reale vi è, e l’era impone (o sembra imporre) un suo nuovo superamento. Ci muoviamo in una realtà che strutturiamo, creiamo, e che così composta si riempie di significati che nel loro atterraggio costituiscono al contempo i significati collettivi del mondo.
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Intesa come cellule, parti elementari che stanno percependo e costituenti un insieme.
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Stando in essa, i nostri tecnici, i nostri delegati hanno il compito, e noi in quanto mandanti il dovere, di fornire l’opportunità di costituire il più alto, e più puro5 livello giuridico. Cristallizzando norme funzionali a ciò che vuole essere specchio della perfezione dell’ordine di natura. Da ciò l’urgenza di dare anche ai singoli individui quegli strumenti idonei al muoversi in questa epoca. E non irrazionali espressioni del ricordo di società che non sussistono. Al fine di non escludere questi soggetti della possibilità di incidervi; d’impattarvi. Nasce quindi il gravoso compito di dare una tridimensionale considerazione a congegni quali in “captatore informatico”, sdoganando e regolamentando così realtà già emergenti6. Per queste ragioni il diritto concertato dalle Nazioni dovrebbe permettere ai suoi operatori di muoversi nel terzo millennio con la giusta lunghezza d’onda, e una misura adeguata a perfezionarla. Una convezione sul crimine informatico può, e quindi deve essere l’occasione di permettere alla cooperazione giudiziaria di operare tramite strumenti che siano effettivamente in grado di contribuire virtuosamente alle più avanzate opportunità di sintesi delle esigenze di ciascuna organizzazione territoriale. Veniamo all’immagine dei corpi e del sesso. Pur non sussistendo un dubbio sulla crucialità di quesiti come il ruolo dell’immagine nel viver moderno una sua riposta, parziale e frammentaria, non è così importante per ponderare il quesito cui ci approcciamo. Problematiche in materia di formattazione di un corpo inerenti l’industria del sesso. Preludio con registro A livello operativo, se il fine fosse quello di non precludere ai soggetti che si conformino alle indicazioni, la possibilità di un più immediato ed ampio usufrutto delle proprie potenzialità funzionali la ratio di eventuali ragioni di tutela, l’avremmo probabilmente già incontrata in τόποι ampiamente frequentati nelle lettere. Questa potrebbe essere sintetizzata nelle seguenti parole: «Quando il sesso venga valorizzato per motivi diversi da quello essenziale, codesta invasione materiale è una vera disgrazia»7. Si può datare intorno al 1100 documentazione di una certa convergenza semantica nel dibattito tra illustri filosofi delle religioni monoteiste. Guardando ad essi traspare l’uniforme convincimento che l’incrocio tra la sfera del mondo del denaro e quella della sessualità sia tutt’altro che auspicabile in quanto capace di dar luogo a problemi particolari. Secondo una prima superficiale verifica se ne stimano 12 almeno. Una proposta di natura analogica e analitica per affrontare un problema digitale. Come accennato le tecnologie informatiche vanno permettendo all’ingegno una più efficace e competitiva sfida alle organizzazioni statali, le idee si fanno liquide e permettono al connubio con i programmi di sfidare la geometria dei progetti di civiltà8 e la loro ambizione e ne-
Intesa come eredità socratica del buono e giusto, Καλοκαγαθία. Tema efficacemente ponderato in A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e corte europea, Milano. 7 A. J., A través de la alegoría teológica Cristiana, 2004. 8 L’allusione alla parola vile, per mezzo di una (i) dentro civile, ha portato l’autore a questa chiosa. Non al fine di proporre il modello Giovanna d’Arco; ma per riportare una piega del senso al concetto di giustizialismo, il quale, 5 6
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cessità di regolamentare il viver sociale. È Hobbes che esce dalla porta e rientra dalla finestra con un Game Boy; ma se Hobbes con il Game Boy diventa un architetto di sistema9, il sistema Internazionale rischia di pagare un prezzo troppo caro, per l’essere in balia del proprio errore. Le identità giuridiche del mondo digitale meta-nazionale vanno sfidando gravosamente gli ordinamenti nazionali e ristrutturano le geometrie economiche dei mercati costituiti ed accreditati. Guardando all’industria del sesso e all’approssimarsi dei negoziati che questo agosto potrebbero dar vita a una nuova convenzione capace di fronteggiare le molteplici forme di criminalità informatica, appare doveroso rimodellare le stesse geometrie della risposta giuridica alla realtà che va profilandosi. Urge in questa prospettiva non solo arrendersi alla ragionevole all’appropriatezza di una degna considerazione del rapporto tra immagine e realtà, ma anche alla fattuale corrispondenza di un’analogia tra corpo reale e corpo digitale, considerare le insorgenti necessità di tutela del corpo virtuale e reale delle operatrici dell’industria del sesso appartenenti alla fattispecie cui inferisce il termine inglese camgirls con strumenti dall’alto e dal basso. Occuparsi della vischiosa struttura di una neonata industria che mette a regime di profitto giovani provenienti da segmenti emarginati della società di ogni nazione, studiare la probabile e gravosa necessità di squarciarne il velo corporativo, creare incentivi virtuosi che tendano a far rientrare le medesime nel patto sociale territoriale attraverso il la forza del multilaterale. Soppesare l’ipotesi di utilizzare e riplasmare gli standard di UNODC per il contrasto al traffico di persone, spostandolo al campo virtuale, in modo da tutelare con efficacia tutti i soggetti giuridici interessati, ed i loro corpi, ed evitare che il vuoto legislativo lasci queste fattispecie alla mercé di una qualsiasi diversificazione del portfolio d’investimento delle organizzazioni criminali transnazionali. Al fine non solo di tutelare l’economia del legale nel suo complesso, ma anche ridurre e il mitigare il rischio che grandi fette della società di ogni stato finiscano per essere un catalizzatore della penetrazione di una cultura dell’illegalità nei valori del tessuto sociale più fragile, amplificando così con ulteriore dismisura il vero e più pericoloso capitale criminale che insite proprio sul fermento di valori non statali, non democratici, non cooperativi. Congegnare formati unificati globali per una virtuosa gestione di tutti i livelli manageriali e performativi dei soggetti coinvolti nel sesso virtuale, armonizzando questa industria al quadro prospettico della riduzione del danno psicofisico e sociale dei soggetti in esso coinvolti. Queste iniziative potrebbero contribuire a corroborare un’adeguata cultura del rispetto della legge, ricordando che questo settore costituisce una sfida di portata globale paragonabile per più di un aspetto a colossi globali quali Airbnb e Uber. Iniziare il processo di concertazione multilaterale prima che queste entità abbiano il tempo di accrescere la prioria incontrollata capacità di redistribuzione economica secondo parametri capaci si sfidare l’etica che gli attori statali ritengano auspicabile nei propri progetti di società futura. Affinché anche a queste giovani ragazze madri sia concesso fruire di un di un set di scelte in cui il male minore non diventi un’espressa lesione dei diritti umani.
impone chiamare le cose con il proprio nome, al fine di suggerire l’urgenza di un’attenta mitigazione delle distorsioni e disfunzioni sociali che possano nascere da una sintesi degli interessi delle singole parti sociali a danno della collettività quando esse nascano da incentivi strutturali alla propagazione di una cultura della non legalità. 9 Programmatore.
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Serena Scippa
Responsabilità medica d’équipe tra affidamento consapevole e cieco affidamento Sommario: 1. Premessa generale sulla attività medica d’equipé. – 2. Operatività del principio di affidamento: acritico affidamento o affidamento consapevole. – 3. Successione nella posizione di garanzia: il “passaggio delle consegne”. – 4. Considerazioni conclusive. Abstract This paper deals with the field of team medical activity, as a place of management of a shared risk, since it is not surprising that medical errors cases are now becoming more frequent. As a matter of fact, these errors are linked to organizational problems, which have their justification in three peculiar issues: the efficiency of the precautionary rules aimed at preventing the culpable fact of third parties; the operation of the principle of custody as a limit to the typical single-party culpability; the genesis of a possible concurrent culpable liability as an effect of conduct pursuant to art. 113 of the Criminal Code. In the Author’s opinion, it is only through a precise and defined framework, aimed at outlining the tasks of the respective health care workers, that a division of work and a complete classification of the scope of application of the general principle of custody will be possible to achieve. Nell’ambito dell’attività medica d’équipe, quale luogo di gestione di un rischio comune, non stupisce che si assista sempre più spesso a casi di errori medici. Errori legati a problemi di organizzazione trovano la loro ragion d’essere in tre quesiti peculiari: l’efficienza delle regole cautelari volte a prevenire il fatto colposo di terze persone; l’operatività del principio di affidamento quale limite alla tipicità colposa monosoggettiva; la genesi di una eventuale responsabilità colposa concorsuale quale effetto di condotte ex art. 113 c.p. L’Autore ritiene che solo attraverso una cornice puntuale e definita che delinei i compiti dei rispettivi operatori sanitari si potrà pervenire ad una divisione del lavoro e ad un inquadramento compiuto del campo di applicazione del generale principio di affidamento.
1. Premessa generale sulla attività medica d’équipe. L’espressione attività medico – chirurgica in equipe ricomprende tutte le ipotesi di cooperazione tra sanitari, dirigenti inclusi, che si trovano ad operare in un medesimo settore. La stigmatizzazione di una siffatta divisione del lavoro ricomprende sia la ripartizione piramidale delle competenze che vanno dal direttore sanitario fino all’infermiere, passando per il primario e il medico aiuto (c.d. divisione del lavoro in senso verticale); sia l’equiparazione di competenze e gradi all’interno della medesima struttura sanitaria (c.d. divisione del lavoro in senso orizzontale). Tuttavia, tale settorializzazione costituisce al tempo stesso un fattore di sicurezza e un fattore di rischio. La sicurezza deriverebbe dallo svolgimento del lavoro in relazione al quale si posseggono qualità, competenze ed esperienza, accompagnate da diligenza, prudenza e perizia proprie dell’ars medica.
Serena Scippa
Il fattore di rischio deriverebbe, invece, dall’insorgenza di rischi nuovi1 e diversi rispetto a quelli propri dell’attività monosogettiva, essenzialmente derivanti da difetti di coordinamento, di informazione, da errori di comprensione o dovuti alla mancanza di una visione d’insieme2. Ma quali sono i soggetti giuridicamente tenuti a farsi carico di questi rischi? Il d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 individua, all’interno degli enti ospedalieri, tre categorie di sanitari: il medico in posizione iniziale (il c.d. assistente), il medico in posizione intermedia (il c.d. aiuto) e il medico in posizione apicale (il c.d. primario). Il primario, medico in posizione apicale, è titolare nei confronti del paziente di una specifica posizione di garanzia, in quanto pur potendo affidare quest’ultimo ad altro medico, non potrà mai dirsi esente da responsabilità laddove la morte o le lesioni si siano verificate per colpa del medico in posizione subalterna. E dunque quale sarebbe la regola cautelare direttamente violata dal primario? Si tratterebbe di culpa in vigilando? Sul punto l’articolo 63 d.P.R. 761/1979 sembra delineare una vera e propria norma precauzionale volta a stabilire i compiti del primario all’interno dei quali vengono fatti ricomprendere le direttive e le istruzioni impartite al personale delegato, nonché la verifica dell’esatta attuazione delle stesse. Quid iuris nell’ipotesi in cui il sanitario abbia impartito direttive corrette, ma vi sia stato un errore in executivis e, dunque, le avrebbe mal disposte in fase applicativa? In questi casi, difatti, sarebbe configurabile una eventuale culpa in vigilando, ossia una responsabilità del primario legata al mancato controllo in fase esecutiva delle direttive dallo stesso impartite. Si ritiene, tuttavia, meglio configurabile una culpa in eligendo nei soli casi in cui l’apicale non abbia scelto un soggetto professionalmente idoneo tenuto conto delle difficoltà prospettabili in concreto. In riferimento al medico in posizione intermedia, anche detto aiuto, s’intende quel medico destinatario esclusivamente di direttive e non di istruzioni, essendo incaricato dello svolgimento di funzioni autonome nell’area dei servizi a lui affidata, relativamente alle attività e alle prestazioni medico chirurgiche, anche sotto il profilo della diagnosi e cura nel rispetto delle necessità del lavoro di gruppo. Infine, il medico in posizione iniziale, ossia i cosiddetti assistenti, sono i destinatari sia di direttive che di attente istruzioni in quanto deputati a svolgere funzioni medico – chirurgiche di supporto non godendo di alcuna libertà decisionale in riferimento alle singole ipotesi di stato di necessità.
1
Sull’introduzione di rischi nuovi dapprima non esistenti quale connotato della condotta attiva del sanitario si vd. Cupelli, La responsabilità penale dello psichiatra. Sui rapporti tra obblighi impeditivi, consenso e regole cautelari, Napoli, 2013. 2 Risicato, L’attività medica di equipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, pp. 31 e ss. Sul punto Cass. Pen., Sez. IV, 11 ottobre 2007, relativa ad un’ipotesi di cooperazione nell’omicidio colposo di una partoriente e del bambino che portava in grembo causata da una grave imperizia dell’anestesista nella manovra di intubazione durante l’esecuzione del cesareo.
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2. Operatività del principio di affidamento: acritico affidamento o affidamento consapevole. Occorre ora chiedersi quali sono i limiti entro cui il singolo medico possa rispondere in relazione ai comportamenti colposi riferibili ad altri componenti di una équipe medica e, dunque, sull’ampiezza degli obblighi di diligenza, perizia e prudenza sullo stesso gravanti laddove si trovi ad operare unitamente ad altri soggetti. Il lavoro medico d’équipe è il precipitato applicativo di diverse branche del diritto cui consegue una frammentazione dei compiti loro affidati. Ciò implica la necessità che il singolo trattamento medico venga posto in essere in un regime di piena collaborazione3. Tale collaborazione può essere contestuale (c.d. collaborazione sincronica) ovvero successiva (c.d. collaborazione diacronica); nel primo caso si tratta di interventi chirurgici posti in essere mediante singoli apporti collaborativi di tipo scientifico insieme a contributi meramente ausiliari che si integrano a vicenda nella finalità di riportare il risultato sperato. Nel secondo caso, id est quella successiva e/o diacronica, si tratta di una serie di attività tecnico – scientifiche che sono temporalmente e funzionalmente divise, in quanto le une rappresentano il presupposto necessario delle altre, unificate dal fine della cura e dalla salvaguardia del paziente. Tale cooperazione multidisciplinare nell’ambito della attività medico – chirurgica implica il coinvolgimento di apporti tecnico-scientifici diversificati e, per ciò solo, vengono attribuiti a ciascuno obblighi divisi di diligenza nel pieno rispetto delle diverse norme cautelari di riferimento. Difatti, soltanto un approccio metodologico multi-fattoriale ci consentirebbe di comprendere che, nella complessa rete di causazione di una patologia, solo raramente è isolabile il ruolo esclusivo o determinante di un’unica causa, con la conseguenza che il singolo caso di malattia difficilmente si può attribuire, in termini di certezza scientifica, a un fattore decisivo piuttosto che a un altro4. Il “comportamento doveroso lecito” esigibile dai partecipanti di una équipe medica, in quanto compartecipi di un rischio di gestione, “ricomprenderebbe solamente condotte a sé riferibili” o potrebbe comportare “obblighi di vigilanza e prevenzione” rispetto ad una possibile azione colposa altrui5? Invero, a noi pare che, una risposta al quesito in esame, comporterebbe considerazioni decisive in termini di una eventuale responsabilità in capo al soggetto agente per l’evento cagionato dall’azione colposa di altro partecipante6. Nei casi di attività medica di équipe i limiti della configurabilità di regole cautelari volte a prevenire il fatto colposo di terze persone si correla, da un lato con l’operatività del principio
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Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2018/2019, p. 873. Aleo, Centoze, Lanza, La responsabilità penale del medico, Milano, 2007, p. 201. 5 Questione analizzata diffusamente in tema diverso dall’ambito medico da Bova-Marchini, Il caso Costa Concordia: profili di responsabilità penale del comandante, in Cass. Pen., 2018, 4, p. 1144. 6 Così, ex multis, Sez. un., 25 novembre 1998, n. 5, in Foro it., 1998, 7/8, c. 449, ove si afferma che, affinché la condotta di ciascun concorrente risulti rilevante ex art. 113 c.p., occorre che essa, singolarmente considerata, violi la regola cautelare. 4
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di affidamento in ambito medico come limite alla tipicità colposa monosoggettiva, dall’altro con la genesi di una eventuale responsabilità colposa concorsuale come effetto di condotte di cooperazione rilevanti ex art. 113 c.p.7. Dunque, respinta in assoluto la possibilità di configurare una sorta di responsabilità di gruppo per violazione dell’art. 27 della Cost., la dottrina e la giurisprudenza più recente prevedono che i membri dell’équipe debbano ispirare la loro condotta al principio dell’affidamento8, essendo la soluzione che meglio consente di delimitare i confini del dovere diligenza incombente su ciascuno di essi, in guisa con il carattere personale della responsabilità penale. Il principio di affidamento sta ad indicare che, nello svolgimento di attività rischiose ma giuridicamente autorizzate, ciascun soggetto sia gravato da un obbligo di diligenza avente un contenuto diverso (c.d. obblighi divisi), che comportano un affidamento nel corretto comportamento degli altri soggetti, nell’osservanza delle regole cautelari scritte o non scritte, proprie delle rispettive attività da essi svolte, finalizzate a sdrammatizzare o contenere la pericolosità in re ipsa di quelle attività9. La copertura normativa di tale principio a livello costituzionale si rinviene nell’art. 27 Cost., quale principio di autoresponsabilità. In applicazione di tale principio ciascun soggetto è tenuto all’osservanza delle norme cautelari concernenti le attività rischiose da lui poste in essere rispondendo degli eventi dannosi derivanti dalla inosservanza delle rispettive regole cautelari e di affidamento10. A noi pare che il principio in esame potrebbe, altresì, rinvenirsi nell’art. 54, co. 1 Cost., che prescrive il dovere di tutti i cittadini di osservare le leggi. Tale norma legittima di fatto l’aspettativa dell’ordinamento giuridico di osservare le regole cautelari di ciascun soggetto ancor più al cospetto di soggetti autori di attività rischiose. Per altro verso la fonte di tale principio potrebbe rinvenirsi nell’art. 3, co. 1 Cost., implicante la possibilità per ciascuno di attendersi dagli altri il rispetto delle prescrizioni a essi indirizzate11. Tale principio spiega piena valenza sia con riguardo al comportamento posto in essere dal singolo medico nel suo reparto sia con riguardo alla condotta dei vari componenti di una équipe chirurgica. La regola dell’affidamento, secondo l’autore, valida nel caso di “doveri divisi” di cui si è detto, non può trovare applicazione, invece, nell’ipotesi di “doveri comuni”, che non tollerano distinzioni o esoneri da responsabilità12.
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Risicato, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, pp. 10 e ss. 8 Sul punto, Massaro, Principio di affidamento e obbligo di vigilanza sull’operato altrui: riflessioni in materia di attività medico-chirurgica in equipe, Milano, 2011. 9 Mantovani, Il principio di affidamento nel diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 2, p. 536. 10 Sez. IV, 7 aprile 2004, n. 25310, in Riv. Cass. Pen., 2005, p. 3896, ove si afferma che «il principio di affidamento, nel caso di ripartizione degli obblighi tra più soggetti, se da un lato implica che colui che si affida non possa essere automaticamente responsabile delle autonome condotte del soggetto cui si è affidato, dall’altro comporta anche che – qualora l’affidante ponga in essere una condotta causalmente rilevante – la condotta colposa dell’affidato non vale di per sé ad escludere la responsabilità dell’affidante medesimo». 11 Mantovani, Il principio di affidamento nel diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 2, p. 536. 12 Al fine di escludere l’applicazione del principio dell’affidamento, si vedano, tra le altre, Sez. IV, 10 dicembre 2012, n. 6215, in Riv. Cass. Pen., 2011, p. 585; Sez. IV, 26 gennaio 2005, n. 18568, in C.E.D. Cass., n. 231538.
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Tale suddivisione è stata fatta propria da numerose pronunce della Corte di Cassazione ove si è affermato che ogni sanitario deve controllare anche l’operato degli altri colleghi, rimediando a errori evidenti e non settoriali13. Su questa linea si pone una pronuncia in cui la Corte d’Appello ribaltando l’esito assolutorio cui si era giunti in primo grado ha ritenuto che vi era stata una «modalità corale» in un dato intervento chirurgico tale da non comportare una esenzione da responsabilità14. Dunque, sulla base delle prospettazioni esposte, si potrebbero ricavare delle considerazioni di fondo rilevanti, ossia un ampliamento a dismisura delle maglie del principio di affidamento comporterebbe, ipso iure, un alto grado di esenzione da responsabilità allorquando la previsione o la prevedibilità ed evitabilità del rischio del comportamento altrui non appropriato impongano al soggetto l’adozione di accorgimenti utili a riportare l’intervento del collega nell’ambito del rischio consentito15. Sono stati, dunque, in un’ottica cautelare posti dei temperamenti da parte della giurisprudenza a carico dei partecipanti all’attività multidisciplinare, ossia un obbligo di diligenza volto a prevenire la commissione da parte di altri di errori macroscopici e non settoriali. È quanto si realizza con riferimento al singolo membro dell’équipe medica al fine di valutarne un eventuale addebito colposo: gravano in capo a questi ultimi obblighi di diligenza e prudenza in stretta correlazione con le mansioni specialistiche di pertinenza ed anche obblighi di valutazione sull’operato degli altri colleghi, pur se specialisti di altre discipline, controllando e ponendo rimedio agli errori commessi, qualora siano emendabili con le conoscenze del professionista medio16. In specie la Cassazione ha affermato che “nel caso di équipe chirurgiche ogni sanitario è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività procedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”17.
In questa sede giova rilevare le diverse tesi postulate dalla dottrina volte a stabilire fino a che punto il medico possa confidare nella correttezza del comportamento di chi collabora con lui. La tesi dell’obbligo di controllo, in virtù della quale non vi sarebbe alcun affidamento in relazione all’operato altrui, il che comporterebbe una esasperazione dei doveri di diligenza del medico; la soluzione opposta, quella della sistematica fiducia, individua la fiducia come regola generale dell’attività d’équipe. Tale tesi non pone, tuttavia, una delimitazione delle responsabilità dei singoli partecipanti, in ragione e nei limiti dei loro compiti specifici. Infine è stata postulata la tesi del criterio Roxiniano, di cui sopra, che postula un criterio legato alla suddivisione tra doveri divisi e doveri comuni. Un’interpretazione di questo genere rischia, d’altro canto, di bagatelizzare i doveri di coordinamento e controllo in senso restrittivo quale mera verifica dell’inesistenza di specifiche circostanze che facciano presupporre il prodursi di una negligenza altrui come concretamente possibile. 13 Per un’analisi approfondita dei casi esaminati dalla giurisprudenza della Cassazione in materia si veda Gizzi, Equipe medica e responsabilità penale, Milano, 2011. 14 Sez. IV, sent. n. 39727 del 12 giugno 2019, in C.E.D. Cass., n. 277508. 15 Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, 2019, p. 873. 16 Garofoli, ibidem. 17 Sez. IV, sent. n. 46824 del 26 ottobre 2011, in C.E.D. Cass., n. 252140.
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La Cassazione, in due pronunce, ha affrontato il tema dell’ampiezza temporale degli obblighi gravanti in capo ai sanitari. Con una prima sentenza la Cassazione ha enfatizzato la circostanza per cui la posizione di garanzia dell’équipe medica non si esaurisce nella sola fase operatoria in senso stretto, ma che trattandosi in termini più ampi della “salute del soggetto” ricomprenderebbe l’intero iter evolutivo entro cui si inserisce la sfera del paziente. Da ciò parrebbe discendere, in caso di violazione di tale obbligo, un eventuale responsabilità penale per la causazione dell’evento dannoso connesso ad un comportamento omissivo ex art. 40 co. 2 c.p.18. Con una seconda pronuncia i giudici di legittimità hanno riconosciuto allo scioglimento dell’équipe per allontanamento del medico ad operazione ancora non conclusa, una impossibilità di un addebito per colpa, laddove l’intervento non risulterebbe essere di eccessiva difficoltà e l’allontanamento dello stesso sarebbe comprovato da esigenze di necessità ed urgenza tale da giustificare l’eventuale assenza dello stesso per il restante lasso di tempo operatorio19. Una seconda limitazione si potrebbe ravvisare in relazione alle circostanze del caso concreto, laddove le stesse lascino scorgere la seria possibilità di un altrui comportamento colposo pericoloso: si potrebbe confidare cioè nel diligente comportamento altrui, a meno che particolari circostanze del caso concreto, funzionando come campanello d’allarme, non facciano ritenere che quella fiducia è infondata (così, il chirurgo dovrà personalmente verificare l’attendibilità delle informazioni fornitegli dall’anestesista, se precedenti esperienze negative o imprecisioni manifestate durante l’operazione conducano a ritenere inaffidabile l’operato dell’anestesista). Il principio di affidamento incontrerebbe altro limite nell’applicazione della norma di cui all’articolo 40 co. 2 c.p., l’agente che abbia l’obbligo giuridico di impedire eventi lesivi dell’altrui vita o integrità fisica, il cui rispetto comporti, come dovere di diligenza, il controllo e la vigilanza dell’operato altrui: non potrà fare affidamento sul corretto comportamento altrui quando la diligenza da rispettare imponeva proprio di controllare che quel comportamento non fosse pericolosamente colposo20. La portata del dovere di controllo può essere più o meno penetrante in relazione alla specifica attività medico-chirurgica. La giurisprudenza maggioritaria ritiene che il primario non potrebbe fare affidamento sulla diligenza dell’aiuto: avrebbe l’obbligo di un controllo sistematico e, in caso di esito infausto cagionato dall’aiuto, risponderebbe di concorso nel delitto di omicidio colposo o di lesioni personali colpose21. Tale forma di controllo risulterebbe di fatto inesigibile, risolvendosi l’orientamento della giurisprudenza in una trasformazione della culpa in vigilando quale responsabilità oggettiva: il che contrasta con la norma che parla di “funzioni autonome” dell’aiuto. L’obbligo del primario si configura solo in caso di riconoscibile o già noto deficit di perizia dell’aiuto, con conseguente obbligo di provvedere personalmente alla prestazione sanitaria.
18
Sez. V, sent. 12275 del 30 marzo 2005. Sez. IV, sent. n. 22579 del 6 aprile 2005, in C.E.D. Cass., n. 231783. 20 Marinucci-Dolcini, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Settima edizione, p. 384. 21 Sez. IV, sent. n. 47145 del 29 settembre 2005, in C.E.D. Cass., n. 232843; Sez IV, sent. n. 360 dell’11 novembre 1994, in C.E.D. Cass., n. 201553. 19
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Altri problemi insorgono nella circoscrizione dei limiti entro cui il lavoro di primario e assistente può dirsi ben delineato. Quest’ultimo è destinatario di istruzioni e direttive da parte del primario e gode di autonomia vincolata alle direttive ricevute. Giurisprudenza e dottrina si sono chiesti se l’assistente abbia o meno compiti meramente esecutivi e, cioè, non possa dissentire rispetto alle istruzioni ricevute dal primario, qualora siano errate22. Ove si tratti di medici specialisti di pari rango, la divisione del lavoro comporta che ognuno si concentri sul corretto svolgimento del proprio operato. In particolare tra anestesista e chirurgo si lasciano individuare problemi diversi nella fase preoperatoria, intraoperatoria e postoperatoria. Nella prima fase l’anestesista sarebbe obbligato in via principale ma non esclusiva dovendo accertare in quella fase le eventuali allergie del paziente e delle generali condizioni di salute del paziente. Nella seconda fase opera il principio di affidamento quale limite alla concreta riconoscibilità dell’imperizia e dei deficit psicofisici manifestati dall’uno o dall’altro specialista. La terza fase vede come obbligato in via principale l’anestesista che dovrà occuparsi del risveglio del paziente. La mancata suddivisione dei compiti comporta di fatto un’estensione dell’area di sorveglianza imposta ai medici dal momento che ogni sanitario non potrà esimersi dal valutare l’attività contestualmente svolta da altro collega, facendosi carico di vigilare sulla correttezza dell’altrui operato. Sulla base di tale principio dovrà, quindi, escludersi che sia invocabile quale esenzione da responsabilità la condotta del chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l’erroneità, avendo il dovere di valutarla ed eventualmente contrastarla23. In termini analoghi si è espressa anche altra pronuncia di questa Corte che ha stabilito come l’obbligo di diligenza gravante su ciascun componente dell’équipe medica concerna non solo le specifiche mansioni affidate, ma anche il controllo sull’operato e sull’errore altrui che siano evidenti e non settoriali e, pertanto, rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio24. Ciò a dire che, ai fini dell’esonero della responsabilità, è necessario che pervenga il dissenso dell’aiuto medico anche se in posizione di secondo operatore, laddove non condivida le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio25.
3. Successione nella posizione di garanzia: il “passaggio delle consegne”. Tra i molteplici profili controversi in tema di responsabilità professionale del medico vi è, inoltre, quello concernente la posizione di garanzia di quest’ultimo, profilo ricostruttivo che rappresenta una condizione preliminare e imprescindibile per l’operatività del meccanismo di
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III, sent. n. 432828 del 29 settembre 2015, in C.E.D. Cass., n. 265260. IV, sent. n. 7667 del 13 dicembre 2017, in C.E.D. Cass., n. 272264. IV, sent. n. 53315 del 15 dicembre 2016, in C.E.D. Cass., n. 269678. III, sent. n. 43828 del 29 settembre 2015, in C.E.D. Cass., n. 265260.
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equiparazione normativa tra azione ed omissione causative dell’evento di cui all’art. 40 comma 2 c.p. Il contenuto della posizione di garanzia dell’operatore sanitario è di carattere terapeutico, orientato alla tutela della vita e della salute del paziente, finalizzato alla difesa della dignità umana e della difesa della persona dell’assistito26. Tale assunto si pone in linea con quanto espresso dall’articolo 3 del codice deontologico, il quale nel descrivere i doveri del medico afferma testualmente che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana”. Facendo un passo indietro la prima considerazione da muovere ruota attorno all’origine di tale dovere di garanzia e sugli obblighi ed oneri che ricadrebbero sul personale sanitario. Innanzitutto la posizione di garanzia dell’operatore sanitario è inquadrata nello schema della posizione di protezione: il medico è chiamato a difendere e tutelare il bene giuridico della vita e della salute del paziente contro minacce esterne che possano esporne a pericolo l’integrità. Tale protezione si sostanzia in una “tutela rafforzata per il bene giuridico in discorso, attraverso l’individuazione di un garante, il medico, dotato di competenze tecniche specializzate in grado di affrontare i fattori di rischio che possono tradursi in eventi pregiudizievoli per il garantito”27. La fonte di tale posizione di garanzia è data dalla instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente, da cui discende l’obbligo di agire a tutela della salute e della vita28. Talune pronunce tendono a rinvenire nell’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente la fonte dell’obbligo impeditivo dell’evento in capo al primo, accordando assoluto rilievo al dato fattuale della “presa in carico” del secondo o, con terminologia civilistica, del contatto sociale tra il sanitario e il paziente. La giurisprudenza riconosce in capo al primario ospedaliero una specifica posizione di garanzia che si articola sia nell’espletamento dell’attività, propriamente medica, sia nell’esercizio delle funzioni di programmazione e di direzione dell’attività dei collaboratori. Quanto all’aiuto e all’assistente essi condividono la responsabilità della salute dei pazienti con il primario; anch’essi portatori di una posizione di garanzia che si mostra nella protezione dei pazienti. Ricoprire una posizione subordinata, invece, impone di verificare i rapporti tra questi e chi ricopre il ruolo apicale. In tal modo si può ritenere che la responsabilità del primario sia molto più estesa rispetto a quella del medico in posizione subordinata, in quanto la posizione di ga-
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Sul punto, Sez. I, 16 dicembre 2006, in Foro it., 2007, I, p. 571, afferma che “rispetto al bene vita esiste, altresì, un preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente”. Il contenuto della posizione di garanzia – id est la tutela della vita del paziente – tende quindi a coincidere, negli effetti, con la causa giuridica del contratto di prestazione in essere tra i due soggetti; cfr. in questo senso Ronco, Eutanasia, L’indisponibilità della vita: assolutizzazione del principio autonomistico e svuotamento della tutela penale della vita, in Digesto discipline penalistiche, Torino, 2010, p. 16. 27 Sborra, La posizione di garanzia del medico, in Canestrari-Giunta-Guerrini-Padovani (a cura di), in AA.VV., Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, p. 117. 28 Così, Sez. IV, sent. n. 203070, 8 aprile 2010, in AA.VV., Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, Pisa, 2010, p. 31.
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ranzia si manifesterebbe non solo come posizione di protezione sulla salute del paziente, ma anche come posizione di controllo in ordine al complessivo funzionamento dei macchinari. Da tale ultima posizione deriverebbero, pertanto, una serie di obblighi: a) l’obbligo di formale segnalazione di organi di ogni mancanza o funzionamento difettoso, richiedendo in tempo rapido, nel caso di malfunzionamento, tempestive riparazioni; b) l’obbligo, in assenza di condizioni di urgenza, di indirizzare e trasferire il malato presso una struttura sanitaria più attrezzata ed idonea a rendere in tutta sicurezza il trattamento terapeutico necessario. Dunque, l’ambito della responsabilità medica è il terreno privilegiato per l’elaborazione giurisprudenziale di criteri di risoluzione di casi di coesistenza di più posizioni di garanzia e di successione di più garanti nella medesima posizione. Nei casi di attività medica di équipe i limiti della configurabilità di regole cautelari volte a prevenire il fatto colposo di terze persone si correla, da un lato con l’operatività del principio di affidamento in ambito medico come limite alla tipicità colposa monosoggettiva, dall’altro con la genesi della responsabilità colposa concorsuale come effetto di condotte di cooperazione rilevanti ex art. 113 c.p.29. Il tutto ci fa comprendere come il contenuto della posizione di garanzia del sanitario sia alquanto articolato e composito, poiché oltre al primario dovere di tutela della vita e della salute del paziente, si evidenziano altri doveri riguardanti l’informazione, la necessaria opera di vigilanza e di coordinamento, l’assistenza nelle varie fasi pre e post-operatorie, oltre tutto ciò che riguarda in maniera più diretta l’acquisizione del consenso del paziente. In sede di “passaggio delle consegne” sussiste un dovere di informazione, in quanto il medico ospedaliero che termina il suo turno di lavoro ha lo specifico dovere di fare le consegne a chi gli subentra, in modo da evidenziare a costui la necessità di un’attenta osservazione e di controllo costante dell’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze30. Sul punto vale il principio, a più riprese affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale il medico che succede ad un collega nel turno in un reparto ospedaliero assume nei confronti dei pazienti ricoverati la medesima posizione di garanzia di cui quest’ultimo era titolare, circostanza che lo obbliga ad informarsi circa le condizioni di salute dei pazienti medesimi e delle particolari cure di cui necessitano31. La giurisprudenza, chiamata spesso a pronunciarsi in ordine alla delimitazione delle sfere di responsabilità di soggetti succedutisi nella posizione di protezione nel campo medico, ha optato per una soluzione “caso per caso” e non invece per una ricostruzione organica del fenomeno successorio. Per tentare di comprendere le decisioni assunte dai giudici con riguardo ai casi di successione nella posizione di garanzia occorrerebbe ricordare, anzitutto, che con tale concetto ci si riferisce al fenomeno per cui un soggetto subentra nella posizione attiva o passiva di cui un altro è titolare. Tale subingresso comporta il trasferimento di doveri e poteri in capo al successore con liberazione del cedente. In tal modo si assisterebbe ad un cambiamento in
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Risicato, L’attività medica di équipe tra affidamento ed obblighi di controllo reciproco. L’obbligo di vigilare come regola cautelare, Torino, 2013, pp. 10 e ss. 30 Sez. IV, sent. n. 4211 del 2 aprile 1997, in C.E.D. Cass., n. 207876. 31 Sez. 4, sent. n. 446622 del 11 luglio 2017, in C.E.D. Cass., n. 271029.
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termini soggettivi della vicenda, pur restando inalterati gli elementi obiettivi che fondano la responsabilità32. Alla posizione di garanzia, tuttavia, non corrisponderebbero solo doveri, quanto anche la disposizione da parte del garante di poteri funzionali all’impedimento dell’evento33. Di talché il nuovo garante diventa tale solo quando acquista non solo un generico dovere di protezione o controllo, ma anche i correlati poteri impeditivi, con estinzione degli stessi in capo al cedente. È per questo che con riguardo al trasferimento delle posizioni di garanzia, la dottrina suole, invero, distinguere fra trasferimento di obblighi di garanzia e successione nella posizione di garanzia34. Con il trasferimento di obblighi di garanzia viene a crearsi una nuova posizione dell’obbligato ad agire, dando luogo al cumulo di due o più situazioni di garanzia che gravitano attorno alla protezione del medesimo bene. In questa prima categoria viene collocata la delega di funzioni, ovvero il trasferimento di obblighi e poteri impeditivi di cui è titolare il delegante, con la creazione di una nuova funzione di garanzia in capo al delegato. Alla delega di funzioni, non consegue, tuttavia, uno scioglimento del vincolo della posizione di garanzia in capo al delegante, essendo trasferite le sole funzioni o doveri collaborativi. Al contrario, nel caso di autentica successione si assiste ad una traslazione integrale della posizione di garanzia, con conseguente liberazione del soggetto cedente della funzione impeditiva35. A differenza della prima ipotesi, la successione determina un risultato definitivo e radicale: la liberazione del cedente senza che residui nemmeno una responsabilità in vigilando. Nello specifico, la successione implicherebbe il subentro del successore in locum et ius del precedente garante, trasferendo integralmente posizioni e non mere funzioni. In linea di principio dopo la successione il “dante causa” non è più obbligato a nulla, nemmeno a quel dovere residuo di controllo che costituisce la più moderna cifra dello statuto giuridico del delegante di funzioni36. Tuttavia, le due situazioni si differenziano con riferimento alla natura della posizione trasferita: mentre oggetto della delega di funzioni possono essere obblighi impeditivi inerenti sia i diritti disponibili sia i diritti indisponibili estranei alla sfera di signoria del garante, con conseguente liberazione del soggetto; al contrario, oggetto di successione possono essere solo funzioni inerenti beni giuridici disponibili, rientranti nella sfera di dominio del cedente. In realtà, l’incedibilità in via definitiva delle posizioni di protezione discende non tanto dalla indisponibilità del bene garantito, quanto piuttosto dall’oggettiva idoneità di detto bene ad essere controllato dal garante “originario” anche quando è trasferito ad altri37. Con particolare riguardo all’ambito medico, un’analisi casistica risulta alquanto variegata, ma sembra comunque possibile affermare che, nonostante il costante utilizzo della locuzione “successione di garanti”, sovente i giudici hanno inteso far riferimento ad una delega di fun-
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In tal senso, si vd. Gargani, Ubi colpa, ibi omissio, in Ind. Pen., 2000, p. 581. Mantovani, Causalità, obbligo di garanzia e dolo nei reati omissivi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, p. 997 e ss. che distingue tra “obbligo di garanzia”, “obbligo di sorveglianza” ed “obbligo di attivarsi”. 34 Sul punto, Gargani, ibidem, cit. p. 590 e ss. 35 Gargani, ibidem, cit. p. 596. 36 Morgante, Tempus non regit actum. La parabola discendente del principio di affidamento nella successione patologica tra garanti, in La Legislazione penale, 2017. 37 Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Giappichelli, 1999, p. 238 ss. 33
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zioni e non ad un definitivo trasferimento della posizione di garanzia, tanto che non di rado individuano comunque la persistenza di obblighi in capo al garante primario. In questo senso, ad esempio, appare configurabile un trasferimento di funzioni e non, invece, una successione definitiva nella posizione di garanzia, nel caso del primario che deleghi ad un sanitario, appartenente alla propria struttura operativa, la cura del paziente. In tal caso, invero, un divieto di cessione definitiva dell’obbligo giuridico sembra derivare dalla stessa legge la quale, in effetti, espressamente prevede che il medico in posizione apicale possa, e anzi debba, delegare la responsabilità diretta di sottostrutture (ai soli medici in posizione intermedia) e la cura dei pazienti (anche ai medici in posizione iniziale), disponendo, tuttavia, che il delegante non si liberi integralmente dei doveri a lui spettanti. Di conseguenza, in capo al primario persiste comunque un dovere di direttiva, di vigilanza e di verifica dell’attività delegata ad altri medici che può spingersi fino all’esercizio del potere di avocazione38. Maggiori difficoltà sembra, invece, porre la delimitazione delle responsabilità nel caso di successione temporale tra garanti. In tali situazioni, invero, appare possibile affermare la sussistenza di un trasferimento definitivo della posizione di garanzia, soprattutto, a causa dell’impossibilità per il garante originario di proseguire nell’opera di controllo, venendo meno, sin dal momento in cui il bene esce dal suo controllo, i poteri impeditivi dell’evento (si pensi al caso del trasferimento del paziente in altro reparto). Tuttavia, presupposti per la liberazione del garante primario e dell’efficacia del subentro nella posizione di garanzia sono dati dal fatto che il garante secondario sia dotato dei necessari poteri impeditivi dell’evento lesivo, che l’attività ceduta non sia ab origine viziata dalla violazione di regole cautelari (c.d. successione in attività inosservanti) che, infine, vi sia l’assolvimento di un obbligo di informazione all’atto del c.d. passaggio di consegne tra garante primario e secondario. L’insussistenza anche di uno solo di detti presupposti esclude l’efficacia della successione con conseguente responsabilità a titolo di concorso del garante originario per l’evento lesivo eventualmente verificatosi a danno del paziente.
4. Considerazioni conclusive. Appare utile, in conclusione, riflettere sul primato che il nostro Paese sembra aver acquisito in materia di responsabilità medica, avuto riguardo ai casi di malasanità da un lato e ai numerosi processi per colpa medica d’altro. Tanto ciò è vero nella misura in cui, come argomenta l’Autore, ci si trova al cospetto di una giurisprudenza orientata nel senso della sistematica sfiducia nell’altrui operato. Una sfiducia che si erige attorno ai numerosi obblighi imposti al personale sanitario al cospetto di un bene superiore, quale la salute del paziente come tutelato
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Sul punto, si vd. Vallini, Gerarchia in ambito ospedaliero ed omissione colposa di trattamento terapeutico, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1631; nonché in giurisprudenza v. Cass. pen., sez. IV, sent. n. 39609, del 28 giugno 2007, in C.E.D. Cass., n. 237832. Ritengono che il potere - dovere del primario di divisione del lavoro tra i propri collaboratori non costituisca una delega di funzioni, ma semplicemente una modalità di realizzazione dell’obbligo di garanzia a lui imposto. Altresì, Ambrosetti-Picci-Nelli-Piccinelli, La responsabilità nel lavoro medico d’equipe. Profili penali e civili, Torino, 2003, p. 27. Per gli autori, in definitiva l’unica ipotesi in cui può essere configurata una delega di funzioni è quella di assenza o impedimento del primario, e quindi, di sostituzione temporanea dello stesso da parte di un medico subordinato.
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dall’articolo 32 Cost. e dinanzi ad una sempre più crescente diffusione del fenomeno della c.d. medicina difensiva. I legislatori nazionali hanno cercato di attenuare il regime della responsabilità penale del personale sanitario da ultimo con la Legge Gelli-Bianco, sottoposto al vaglio dapprima della Cassazione e poi delle Sezioni Unite, mediante l’adozione di misure poste a presidio della salvaguardia del singolo medico, non operando in toto in determinati casi ovvero richiedendo accertamenti ad abundatiam anche se non necessari in altri, che trovano, tuttavia, di contro un indebolimento della tutela dei diritti dei pazienti e una introduzione di discriminazioni difficilmente giustificabili rispetto a chi esercita professioni altrettanto pericolose. Come già accennato, nel particolare settore della colpa medica d’équipe il terreno diviene ancora più delicato alla presenza di una pluralità di soggetti a tutela del medesimo bene giuridico – ossia la vita del paziente – sulla base di precisi doveri suddivisi tra i vari operatori, come accade, in una équipe di sala operatoria, caratterizzato dal fatto che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa non può almeno in linea generale essere chiamato a rispondere. Il principio di affidamento opera, dunque, in questo caso come limite all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia, ma non può essere inteso in maniera assoluta, perché si vuole evitare che la mera applicazione di un affidamento acritico possa di fatto manifestarsi in un disinteressamento totale dell’operato altrui, con i conseguenti rischi legati a difetti di coordinamento tra i vari operatori e alla mala gestio del rischio comune. Solo una corretta interpretazione del principio di affidamento, unito ad una chiara delimitazione dei limiti e delle potenzialità applicative che la sua concretizzazione possa comportare in ordine alla delimitazione della sfera di operatività della attività medica, potrà mettere “luce” su quello che da sempre è stata definito “lato oscuro del diritto penale39”.
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Manna, Il lato oscuro del diritto penale, Pisa, 2017.
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L’estensione della causa di non punibilità per aver risarcito il danno erariale in materia di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti contabili (art. 2 D.lgs. 74/2000) Sommario: 1. L’estensione della causa di non punibilità di cui all’art. 13 comma II. – 2. L’operazione inesistente. – 3. La presunzione di inesistenza dell’operazione. – 4. Il danno erariale. – 5. Questioni di rilevanza costituzionale. – 6. Conclusioni. Abstract The recent reform of the tax decree (L. 157/2019 art. Q-bis) has extended the cause of non-punishment for having provided for the payment of the tax debt to previsione of D.lgs 74/200 art. 2 and 3, with a hermeneutic formulation and without the provision of any transitional regime. This introduction raising doubts and doubts regarding the importance of constitutional legitimacy. The essay aims to offer a systematic analysis regarding fraudulent reporting through the use of invoices or other accounting documents, including on the deductibility of costs from crime. La L. 157/2019 del 19 dicembre 2019 all’art. 39 lett. Q-bis in conversione del decreto fiscale 124/2019 ha esteso la causa di non punibilità per aver provveduto al pagamento del debito tributario ex art. 13 comma 2 D.lgs 74/2000 sia l’art. 2, sia l’art. 3 del medesimo testo legislativo, con una formulazione ermeneutica e senza la previsione di alcun regime transitorio, ponendo dubbi e perplessità di rilevanza di legittimità costituzionale. Il saggio si propone di offrire un’analisi sistematica in materia di dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti contabili, anche in materia di deducibilità dei costi da reato.
1. L’estensione della causa di non punibilità di cui all’art. 13 comma II. All’art. 39 lett. Q-bis, della Legge 157 del 19 dicembre 2019, di conversione del D.L. 124/2019 (decreto fiscale 2020) il Legislatore in modo assai ermeneutico e stringato ha esteso la causa di non punibilità di cui all’art. 13 comma 2 anche per i reati previsti agli artt. 2-3 del D.lgs. 74/2000. Il testo così riformato dell’art. 13 recita infatti che: «I reati di cui agli articoli 2-3-4-5 non sono punibili se i debiti tributari comprese sanzioni ed interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti
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penali». La Legge n. 157/2019 di conversione del decreto fiscale 124/2019 ha introdotto così anche per l’art. 2 D.lgs. 74/2000 la causa di non punibilità per aver risarcito il danno erariale antecedentemente all’instaurazione dei procedimenti, circostanza precedentemente applicabile alle sole fattispecie di dichiarazione infedele (art. 4) e di omessa dichiarazione (art. 5). L’estensione della scriminante permette dunque l’estinzione dei reati ex artt. 2-3 D.lgs. 74/2000 a seguito del pagamento dei debiti tributari, comprese sanzioni ed interessi, mediante l’integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso, solo se operato nella fase antecedente all’accertamento amministrativo e giudiziale, sebbene tuttavia non manchino dubbi e perplessità in ordine a detta formulazione. Come confermato dalla suprema Corte di Cassazione la fattispecie di cui all’art. 2 D.lgs. 74/2000, che nel novero penal-tributario è fra quelle sanzionatorie più severe, risulta caratterizzata da una sostanziale struttura bifasica, quale delitto commissivo di mera condotta, avente natura istantanea, che si perfeziona con la presentazione della dichiarazione fiscale1.Il bene giuridico tutelato consiste, infatti, nell’interesse dell’Erario alla corretta percezione dei tributi, pertanto l’atto consumativo proprio si radica nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale. Giova ricordare che il delitto in esame non risulta punibile a titolo di tentativo, come chiaramente previsto dall’art. 6 del medesimo decreto legislativo. Da questa considerazione il momento del perfezionamento risulta insindacabilmente nell’atto dichiarativo, che si lega anche all’elemento soggettivo, ovvero alla coscienza e volontà di ottenere un beneficio economico da una minore imposizione fiscale, sulla base di fittizie poste in detrazione.
2. L’operazione inesistente. Per quanto riguarda l’elemento materiale del reato, ovvero l’operazione inesistente l’art. 1 lett. A) del D.lgs. 74/2000 precisa che «per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti s’intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilevo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Se dal punto di vista tributario il fine comune dell’operazione inesistente è il conseguimento del vantaggio fiscale indebito, secondo la dottrina è bene operare una distinzione teorica tra la c.d. inesistenza materiale e quella giuridica. Se la prima è caratterizzata dall’insussistenza in natura della transazione, ovvero dal fatto che la cessione dei beni o la prestazione dei servizi oggetto della fattura non siano mai state effettuate in concreto (inesistenza totale) o al massimo lo siano state in termini quantitavi minori rispetto a quanto dichiarato (inesistenza parziale); d’altro canto l’inesistenza giuridica consiste in un negozio simulato, ove la fattura attesta un rapporto giuridico differente da quello effettivamente attuato. Con riferimento a quest’ultima tipologia, il D.lgs. 158/2015 pare tuttavia ricondurre la fattispecie di cui all’art. 3 del D.lgs. 74/2000 reprimendo la condotta di colui che mediante «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di
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S. Putinati, La riforma dei reati tributari, Le novità del D.lgs 158/2015, Torino, 2015, pp. 39-73. «Il momento consumativo del reato coincide con quello della presentazione della dichiarazione fraudolenta», giova infatti ricordare che la modifica prevista dal D.lgs. 24 settembre 2015 n. 158 ha eliminato il termine “annuale”.
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altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi». Sebbene teoricamente la distinzione tra le due tipologie può ritenersi chiara, nella pratica non è sempre così facile distinguere tra un sottostante rapporto negoziale inesistente oppure “solo” simulato, comportando, come si può denotare dalla distinzione del trattamento sanzionatorio, un sostanziale squilibrio repressivo tra l’art. 2 e 3 del D.lgs. 74/2000. In ogni caso, la Suprema Corte di Cassazione ha infatti più volte confermato che il reato di dichiarazione fraudolenta per operazioni inesistenti ex art. 2 D.lgs. 74/2000 si configura anche in caso di “inesistenza soggettiva” dell’operazione, senza necessità di dimostrate la collusione tra emittente della fattura e un suo utilizzatore2. Ciò che discrimina le due fattispecie (artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000) non è quindi la natura dell’operazione, ma il modo in cui è documentata: si applica, cioè, l’art. 2 tutte le volte in cui alla realizzazione dell’operazione si accompagni l’emissione e l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi3. Peraltro, con la sentenza n. 26431 del 16 marzo 20164, la Suprema Corte ha confermato il principio secondo cui l’inesistenza soggettiva delle operazioni sottese alla fatture utilizzate in dichiarazione assume specifica rilevanza penale proprio ai sensi dell’art. 2 D.lgs. n. 74/2000, quando trattasi di frodi IVA: «se con riguardo alle imposte dirette, l’effettiva esistenza dell’operazione e del conseguente esborso economico, corrispondente a quanto dichiarato, esclude il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione, a nulla rilevando in linea di massima che il destinatario degli stessi sia un soggetto diverso da quello reale, con riguardo invece all’IVA la detrazione è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che ha effettuato la prestazione, giacché tutto il sistema del pagamento e del recupero della imposta (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 18) si basa sul presupposto che la stessa sia versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili, mentre il versamento dell’imposta ad un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo consentirebbe un recupero indebito dell’Iva stessa»5. Tale ratio risiederebbe nei caratteri stessi della fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, come previsti dal Legislatore del 2000, poiché il delitto ex art. 2 D.lgs. n. 74/2000 si concretizza con la sussistenza di tre elementi: i) l’impiego fatture per operazioni inesistenti; ii) l’inserimento di elementi passivi fittizi nella dichiarazione fiscale; iii) la coscienza e la volontà del dichiarante di evadere le imposte (cd. dolo specifico di evasione). Tuttavia, a parere dello scrivente, nel caso in cui siano annotate, nell’ambito delle dichiarazioni dei redditi, fatture soggettivamente inesistenti con riferimento all’individuazione del fornitore, si integrerebbe soltanto uno soltanto di questi
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Cass. Pen. sent. 36359 del 23 agosto 2019. I giudici di piazza Cavour hanno ribadito il principio generale secondo il quale, la possibilità di detrarre dall’imponibile i costi documentati da una fattura emessa per operazioni soggettivamente inesistenti comporta la necessità, che il costo documentato sia certo e corrispondente a quello effettivamente sostenuto, anche quando la prestazione descritta, oggettivamente esistente, vera e reale, sia riferibile materialmente ad altro soggetto, diverso dall’emittente. I costi, infatti, possono essere detratti solo se rispondono ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità che informano l’ordinamento tributario» Cass. civ. sent. 28145/2013; Cass. civ. sent. 2039/2018. 3 Cass. pan., sez. III, sent. 38185 del 11 aprile 2017 (dep. 1 agosto 2017) 4 Cass. pen., sez. II, sent. 26431 del 16 marzo 2016 (dep. 24 giugno 2016) 5 Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 2014, n. 3105.
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elementi: ovvero la volontà di evadere, visto che l’oggetto materiale della prestazione sarebbe comunque reale e, di conseguenza, il costo della stessa (vista l’esistenza del prodotto/merce) risulterebbe veridicamente sostenuto da colui che vuol dedurre la fattura contestata in dichiarazione6. Tali considerazioni rimarcano il carattere fondamentale dell’onere della prova posto, che l’accertamento fiscal-tributario non deve limitarsi alla verificazione della fattura, quale atto contabile unilaterale7, ma del sottostante rapporto giuridico.
3. La presunzione di inesistenza dell’operazione. La presunzione d’inesistenza dell’operazione, sulla base di mere considerazioni di attendibilità della fattura sulla base delle qualità del soggetto emittente deve infatti qualificarsi nell’alveo civilistico dell’art. 2727 c.c.8. In sostanza, se l’amministrazione sospetta circa la veridicità dell’esistenza del fornitore o della materialità dell’operazione, ai fini della detrazione dell’Iva il contribuente deve provare la buona fede del proprio comportamento. Sul punto, la Corte di Cassazione fino al 2011, nella maggioranza degli interventi, aveva stabilito che fosse a carico dell’Amministrazione Finanziaria l’onere di provare l’insussistenza delle operazioni contestate. In sintesi, visto che era quest’ultima ad asserire che si era di fronte a fatture false, spettava proprio all’Ufficio dimostrare la fondatezza della propria tesi9. In particolare, era stato precisato che “grava previamente sull’amministrazione l’onere di fornire elementi di prova a sostegno dell’affermazione che le operazioni, oggetto delle esposte fatture, in realtà non sono state mai poste in essere. Solo ove l’amministrazione fornisca validi elementi per una tale affermazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, passa sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate
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G. Morgese, Fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 11, cfr. p. 2. Commento alla sentenza della Cassazione penale n. 2631 del 24 giugno 2016 (ud. 16.03.2016). 7 La fattura commerciale, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto, s’inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo e si struttura secondo le forme di un dichiarazione, indirizzata all’altra parte, avente ad oggetto fatti concernenti un rapporto già costituito, onde, quando tale rapporto, per la sua natura o per il suo contenuto, sia oggetto di contestazione tra le parti stesse, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, non può, attese le sue caratteristiche generiche (formazione ad opera della stessa parte che intende valersene), assurgere a prova del contratto, e nessun valore, nemmeno indiziario, le si può riconoscere tanto in ordine alla corrispondenza della prestazione indicata con quella pattuita, quanto in relazione agli altri elementi costitutivi del contratto, tant’è che, contro ed in aggiunta al contenuto della fattura, sono ammissibili prove anche testimoniali dirette a dimostrare eventuali convenzioni non risultanti dall’atto, ovvero ad esso sottostanti (Cassazione Civile 8126 del 28.04.2004 conforme Cass. civ. 3.04.2008, n. 8549). 8 Art. 2727 – “Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. In tal specie, la giurisprudenza ritiene che la prova della simulazione di un contratto può essere fondata anche su elementi presuntivi, purché tutti gravi, precisi e concordanti, di talché nessun dubbio deve permanere sul carattere dell’atto contestato. Il convincimento del giudice del merito sulla sussistenza o meno della simulazione costituisce un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, ove esso sia fondato sulle risultanze processuali e si presenti come il risultato di una coerente attività logica. Cfr. Cass. civ. sent. 16993 del 1.08.2007. 9 Ex multis, Cass. civ. n. 2692 del 4 febbraio 2011, n. 24201 del 26 settembre 2008, n. 21317 del 6 ottobre 2009, n. 17572 del 29 luglio 2009, n. 8478 del 9 aprile 2010, n. 15395 dell’11 giugno 2008, n. 1023 del 18 gennaio 2008, n. 21953 del 19 ottobre 2007, n. 18710 del 23 settembre 2005.
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L’estensione della causa di non punibilità per aver risarcito il danno erariale in materia di dichiarazione fraudolenta
(cfr. Cass. 2008/15395)”. Invero tale principio costituisce il “riflesso della regola generale di ripartizione dell’onere della prova in relazione ai fatti costitutivi dell’accertamento, in forza della quale – sia in tema di imposte dirette (D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40), sia in tema d’ Imposta sul valore aggiunto (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54) – l’inesistenza di passività dichiarate (nel primo caso) o le false indicazioni messe al fondo di detrazioni indebite (nel secondo) debbono essere complessivamente supportate dagli elementi presuntivi innanzi tutto forniti dall’amministrazione”10. Successivamente, nonostante la maggioranza della giurisprudenza di merito si sia mantenuta su tale posizione, quella di legittimità ha decisamente mutato orientamento dall’inizio del 2012, rinvenendosi molte pronunce che legittimano i recuperi a tassazione dell’Ufficio basati anche su elementi meramente indiziari. In particolare, molto spesso, la pretesa impositiva deriva infatti semplicemente dai rapporti commerciali intrattenuti dal contribuente con un soggetto evasore o addirittura dal fatto che a monte della catena acquisti/cessioni dei precedenti fornitori di un’impresa venga scoperta una frode carosello: in tali ipotesi l’Ufficio ritiene scontato il coinvolgimento dell’acquirente alla frode per il solo fatto di aver avuto rapporti (anche non diretti) con un altro soggetto identificato come evasore. A questo punto l’unica possibilità per il contribuente, secondo la tesi dei giudici di legittimità, è di dimostrare la propria buona fede e quindi l’estraneità a qualsiasi coinvolgimento in comportamenti illegittimi; tuttavia l’art. 1147 c.c. prevede che la buona fede principalmente si presuma11. Peraltro, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sconfessato l’orientamento giurisprudenziale interno, sancendo che, in ogni caso, spetta all’Ufficio offrire la dimostrazione della malafede del contribuente: solo ove si raggiunga tale prova quest’ultimo dovrà dimostrare fondatamente la propria buona fede, che pertanto si presume in assenza di elementi contrari forniti dall’Amministrazione12. La Corte europea ha pertanto ritenuto non solo necessario che venga dimostrata mediante prova certa, concordate e grave l’inesistenza dell’operazione sottesa alla fattura contestata, ma anche che il contribuente sia consapevolmente partecipe della frode fiscale13. Tra l’altro, si ritiene illegittimo ritenere che il contribuente di fatto si sostituisca all’Amministrazione Finanziaria, effettuando preventivamente specifici controlli sulla propria controparte contrattuale assicurandosi ad esempio la regolarità fiscale dell’emittente la fattura, la sua affidabilità, nonché la presenza di una stabile struttura aziendale, ecc. In ogni caso, dalla valutazione delle qualità soggettive dell’emittente, che l’Amministrazione finanziaria desume come detto principalmente in via presuntiva, non possono trarsi ulteriori presunzioni. La Corte di Cassazione ha, infatti, sancito il divieto di presumptio de presumpto, cosicché si eviti che da
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Cassazione n. 6943 del 25 marzo 2011. Il principio secondo cui la buonafede si presume è di portata generale e non limitata all’istituto del possesso (Cass. civ. sent. 1896 del 8.10.1970, Cass. civ. sent. 8258 del 30.09.1997; Cass. civ. sent. 6648 del 22.05.2000). 12 Sentenze della Corte di Giustizia del 6 dicembre 2012 – causa C-285/11 e del 21 giugno 2012, nelle cause C-80/11 e C-142/11 13 Si legge nella sentenza: “Dato che il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, spetta all’amministrazione fiscale dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuta a monte nella catena di fornitura”. 11
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una presunzione ne possano scaturire altre, creando così una catena di presunzioni14. La Corte, infatti, ha affermato che occorre che l’Ufficio amministrativo indichi esplicitamente gli elementi concreti sulla cui base è stato fondato l’accertamento, affinché vi si riconducano indizi gravi, precisi e concordanti per poter elevare la presunzione semplice al rango di prova. I Giudici di Piazza Cavour hanno, pertanto, stabilito «che in relazione alle presunzioni utilizzate dagli uffici finanziari il giudice deve avere necessariamente il potere di controllare l’operato della Pubblica Amministrazione e di verificare se i fatti utilizzati hanno un loro significato probatorio ed un’affidabilità ai fini della presunzione, nonché di verificare se gli effetti che la stessa P. A. ha voluto desumere, siano o meno compatibili con il criterio della normalità e se, quindi, il risultato del ragionamento sia corretto o meno»15.
4. Il danno erariale. Procedendo così in via sistematica, una volta qualificato il concetto d’inesistenza dell’operazione, occorre verificare le ipotesi d’indeducibilità delle poste fittizie, al fine di poter quantificare correttamente il c.d. danno erariale da rifondere16. Posto che, ai fini IVA, l’imposta assolta sugli acquisti derivanti da fatture per operazioni inesistenti (oggettivamente e soggettivamente), risulta indetraibile, l’onere probatorio permane in capo all’Amministrazione finanziaria. Mentre ai fini delle imposte sui redditi, a fronte di un acquisto effettivo di merce, i costi relativi alle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, possono comunque essere deducibili dal reddito d’impresa, rimanendo soggetti unicamente al vaglio dei requisiti del T.U.I.R.: certezza, inerenza e competenza dei costi sostenuti17. Il Decreto semplificazioni del 2012 (D.L. 2 marzo 2012, n. 1618) aveva, infatti, introdotto importanti modifiche alla disciplina dell’indeducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, nonché in materia di sanzionabilità dell’utilizzo di componenti reddituali negativi relativi a beni o servizi effettivamente scambiati o prestati. Nello specifico, l’articolo 8, primo comma, del D.L. n. 16/2012, modificando l’articolo 14, comma 4-bis, della legge n. 537/1993, ha ristretto l’area di indeducibilità dei “costi da reato”
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Cass. civ., Sez. I, sent. 6033/1994. Cass. Civ., Sez. trib., sent. 15992/2000. 16 Anche al fine di poter usufruire dei benefici della causa di non punibilità prevista dall’art. 13 comma 2 del D.lgs 74/2000 o dell’attenuante di cui all’art. 13-bis. 17 Come chiarito dalla stessa relazione illustrativa al D.L. 16/2012 «per effetto di tale disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo, che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Anche l’Agenzia delle Entrate, in tema di fatture per operazioni soggettivamente inesistente, nella circolare 32/E/2012 al punto 2.3 “Riflessioni della normativa in tema di fatture soggettivamente inesistenti” ha confermato che in vista delle modifiche normative del D.L. 16/2012 «l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Quindi, l’indeducibilità del costo opera solo qualora vi sia stato un diretto utilizzo dei beni o servizi per il compimento dell’attività delittuosa. 18 D.L. 9 febbraio 2012, n. 5 – Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo, Gazzetta Uff. Serie Generale n.33 del 09.02.2012 – Suppl. Ordinario n. 27, entrata in vigore il 10/02/2012, convertito con modificazioni dalla L. 4 aprile 2012, n. 35 in SO, n. 69, relativo alla G.U. 06/04/2012, n. 82. 15
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ai soli costi “direttamente utilizzati” per il compimento di atti qualificabili come delitto non colposo e alla condizione che per tale fattispecie il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale, di talché la citata disposizione ha lo specifico effetto di escludere l’indeducibilità dei costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, salvo aggiungere che “ove del caso” l’indeducibilità dei costi documentati da fatture soggettivamente false può comunque discendere dall’applicabilità di altre disposizioni normative “inerenti i requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinabilità” con evidente richiamo ai requisiti previsti per i componenti negativi o positivi del reddito di impresa dall’articolo 109, primo comma, del T.U.I.R.19. Nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, co. 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono negati in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il Giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p., ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p. Mentre qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425, che non sia motivata su cause prescrittive o circa la particolare tenuità del danno, oppure una sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità dei costi precedentemente dedotti, comprensivi di interessi. D’altro canto, l’art. 8 comma 2 del D.L. 16/2012 ha previsto una disciplina, anche sanzionatoria, in materia di utilizzo di fatture relative a beni e servizi, non effettivamente scambiati o prestati, ossia in relazione alle operazioni cd. inesistenti sotto il profilo oggettivo. Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso, dal versante tributario si applica la sanzione amministrativa dal 25% al 50% dell’ammontare del-
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Di conseguenza, si può sostenere che sono sempre deducibili i costi relativi a fatture emesse da un soggetto diverso da quello che ha realmente effettuato la prestazione o la cessione del bene, a condizione, però, che ricorrano i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dal T.U.I.R. (articolo 109). Pertanto, sebbene i costi rappresentati da fatture soggettivamente inesistenti non siano, per ciò stesso, riconducibili a quelli direttamente utilizzati per il compimento dei delitti e, quindi, non ricadano, di regola, nel campo di applicazione della disposizione in esame, la loro deducibilità è comunque subordinata all’esistenza dei requisiti di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità previsti dal T.U.I.R. In tal senso, la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 29319 del 14/11/2018, ha chiarito che: “in tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, articolo 14, comma 4-bis, (nella formulazione introdotta con il Decreto Legge 2 marzo 2012, n. 16, articolo 8, comma 1, convertito in L. 26 aprile 2012, n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una ‘frode carosello’), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cassazione 17 dicembre 2014, n. 26461)”.
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le spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi20. Secondo il principio di inerenza sono, infatti, deducibili gli elementi passivi del reddito d’impresa, quando «tra il costo che si vuole dedurre e l’esercizio dell’attività imprenditoriale sussista un nesso di causa ed effetto e i “costi da reato” non hanno alcun rapporto di carattere funzionale con l’esercizio dell’attività d’impresa, perché evidentemente estranei all’attività, a questa»21. Il contrasto interpretativo circa la deducibilità dei costi indiretti da reato, risulta fondamentale ai fini della determinazione del danno tributario, poiché se si ritiene di ammettere la detraibilità del costo della prestazione oggettivamente esistente (costo netto), ma soggettivamente inesistente, il danno risarcibile si ridurrebbe al solo rimborso dell’IVA indebitamente detratta (maggiorata di interessi e sanzioni). D’altro canto, se si depone in senso contrario, il danno erariale risulterebbe comprensivo anche del costo per elementi non inerenti ad un reato non colposo, subendo il destinatario della fattura una sanzione sicuramente sproporzionata, poiché oltre a vedersi sanzionato penalmente, subirebbe la sanzione tributaria dell’indeducibilità dell’imposta indiretta ed anche l’indetraibilità del costo del bene o della prestazione che effettivamente ha usufruito22. L’interpretazione estensiva dell’indeducibilità dei costi da reato di cui all’art. 8 del D.L. 16/2012, tale da escludere la deducibilità dei costi effettivi per acquisti reali sui redditi, causa, a parere di chi scrive, è una violazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), nella misura in cui il costo del bene acquistato non possa essere dedotto, sebbene non inerente un’attività criminosa, implicando dunque un’imposizione non basata sul reddito, ma su ammontare lordo. Circostanza ancora più aggrava dalla recente introduzione all’art. 2 D.lgs. 74/2000 della causa di non punibilità ex art. 13 comma 2, ove se non si aderisce alla quantificazione del danno operata dall’Amministrazione finanziaria in sede di ravvedimento o comunque prima di qualsiasi procedimenti accertativo, la norma prevede la decadenza dalla causa estintiva del reato. Quindi, la tutela dei propri diritti in sede tributaria, per far valere l’esatta quantificazione del danno erariale da pagare, produrrebbe comunque sempre la perdita del beneficio dell’art. 13 D.lgs. 74/2000, rappresentando a ben vedere questa una violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), tanto più avvalorato nel caso si ritenga l’applicazione dell’art. 8 del D.L. 16/2012 riferirsi al solo all’accertamento tributario e non anche al processo penale.
5. Questioni di rilevanza costituzionale. La norma introdotta dall’art. 39 lett. Q-bis L. 157/2019 non prevede, peraltro, una fase transitoria per coloro che, all’entrata in vigore della norma, sebbene abbiano pagato il debito completamente tributario, antecedentemente al decreto che dispone il giudizio, non abbiano
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In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’art. 12, D.Lgs. n. 472 del 18 dicembre 1997 e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’art. 16, comma 3, ma è possibile fruire del ravvedimento, prima che siano iniziati accessi, verifiche od altre attività amministrative ai sensi dell’art.13. 21 Cass. Pen. Sez. III, n. 42994 del 26 ottobre 2015. 22 Sulla stessa scorta si ritiene indeducibile il costo relativo all’acquisto di merce di illecita provenienza (delitto di ricettazione previsto dall’art. 648 del Codice Penale), mentre nessuna contestazione in tema di indeducibilità del relativo costo può essere formulata per il reato di cui all’art. 712 del Codice Penale per il reato contravvenzionale di acquisto di cose di sospetta provenienza, peraltro punito soltanto a titolo di colpa.
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usufruito da parte dell’Amministrazione finanziaria del ravvedimento operoso o di altre forme di risoluzione anticipata. Questo determina una specifica violazione dell’art. 3 Cost. nelle forme dell’eguaglianza sostanziale, ovvero dell’obbligo a carico dello Stato di eliminare discriminazioni o difformità di trattamento di medesime situazioni giuridiche. L’introduzione con la Legge 157/2019 della causa di non punibilità ex art. 13 comma 2 D.lgs. 74/2000 ai reati ex art. 2-3 D.lgs. 74/2000, precedentemente non ammessi, crea infatti una disparità di trattamento per coloro che, essendo indagati o imputati per i medesimi reati, non avevano provveduto al pagamento del debito tributario nella fase precontenziosa, poiché in assenza di detta previsione hanno ritenuto in termini utilitaristici migliore difendersi nelle competenti sedi (tributaria e/o penale). L’assenza di un regime transitorio, che avrebbe potuto rimettere nei termini tali tipologie di soggetti, ai fini della loro ammissione alla causa di non punibilità denota anche un’inconfutabile violazione del principio di retroattività della legge penale favorevole ex art. 2 c.p. La discriminazione di trattamento sanzionatorio risulta, poi, massima nei casi per cui l’amministrazione finanziaria ha provveduto tardivamente a quantificare l’importo restitutorio, comprensivo di interessi e sanzioni, senza peraltro provvedere a notificare, antecedentemente al giudizio (penale), la facoltà di aderire a ravvedimenti operosi od a «speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie». Allo stesso modo l’irragionevolezza della norma è plateale se si ammette in senso stringente il disposto dell’art. 8 del D.lgs. 231/2001, che determina in positivo e tassativamente i casi in cui l’illecito amministrativo sopravviene per l’ente indipendentemente dal reato presupposto. Prevedendo che la responsabilità dell’ente sussista anche quando il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia, rischiando così di creare nei casi di pagamento integrale del danno erariale una divergenza di trattamento tra la persona fisica e quella giuridica; circostanza che recentissima giurisprudenza ha peraltro confermato, in merito all’altra causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. (particolare tenuità del fatto o dell’offesa)23. Tanto più che l’ammissione alla causa di non punibilità per aver risarcito il danno tributario, sia all’art. 2, sia all’art. 3 del D.lgs. 74/2000 crea una sostanziale disparità di trattamento tra i due reati, censurabile in sede di ragionevolezza, non essendoci nel primo delitto soglie di punibilità. Ciò a differenza di quanto avviene per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, relativamente al quale l’art. 3 del D.lgs. n. 74 del 2000 prevede due distinte soglie: una riferita all’ammontare dell’imposta evasa, l’altra all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, ovvero dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’im-
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Cass. pen. Sez. III sent. 1420/2020. Sul punto si segnala il seguente passaggio della motivazione: «La colpa di organizzazione, quindi, fonda una colpevolezza autonoma dell’ente, distinta anche se connessa rispetto a quella della persona fisica (Cass. pen. Sez. IV, n. 38363 del 23/05/2018). Tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso. […] La circostanza, sottolineata dal Tribunale nella motivazione della sentenza impugnata, che tale causa di esclusione della punibilità non sia contemplata dall’art. 8 d.lgs. 231/2001, che, come evidenziato, prevede i casi di esenzione da responsabilità dell’ente, non consente di ritenere applicabile agli enti la causa di esclusione della punibilità prevista per i reati dall’art. 131-bis cod. pen.»
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posta: detta impostazione penalizza eccessivamente i piccoli evasori, che hanno dedotto poste minimali (magari inconsapevolmente). Tale disparità di trattamento sanzionatorio, ritenuto alla luce della recente equiparata estensione della causa di non punibilità prevista dall’art. 39 lett. Q-bis della L. 157/2019, può assurgere alquanto arbitraria, essendo al cospetto di fattispecie accomunate dalla medesima «struttura bifasica» e riconducibili comunque all’unico genus della «frode fiscale»24, ma eterogenee negli elementi costitutivi. Al nucleo comune di offensività, costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave specializzante, da un lato, l’utilizzazione di fatture o di documenti aventi un rilievo probatorio analogo, relativi ad operazioni inesistenti (art. 2); dall’altro, il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, ovvero l’utilizzazione di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento tributario (art. 3). L’ammissione alla medesima causa di non punibilità, a parere dello scrivente, squilibra i rapporti tra le due norme e i loro criteri di punibilità, posto che la soglia della rilevanza penale dell’art. 3 si pone in termini quantitativi ad un livello superiore rispetto all’art. 2, in vista della maggiore rilevanza, che l’ordinamento adduce «alla sussistenza o meno del documento contabile, nonché dell’eventuale copertura cartolare offerta dalla fattura». In tal guisa, si agevolerebbero i grandi evasori che tramite operazioni simulate, senza però l’utilizzo di fatture, riescono pari modo a trarre in inganno l’amministrazione finanziaria, creando danni erariali tributariamente importanti. La Corte Costituzione già si era pronunciata a seguito dell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Palermo25, per la proposta cesura dell’art. 2 D.lgs. 74/2000 in vista degli articoli 3, 76 e 77 Cost., nella sua formulazione scaturente dall’entrata in vigore del D.lgs. n. 158/2015, nella parte in cui non esclude, a differenza di quanto invece previsto dall’art. 3 del medesimo decreto legislativo, la punibilità della condotta delittuosa, laddove il tributo evaso sia inferiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro trentamila. Lo scrutinio cui è stata chiamata la Corte costituzionale, in vista dell’art. 3 Cost., che si assumeva violato per l’asserita manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere, per il delitto in esame, soglie di punibilità omologhe a quelle prefigurate in rapporto al delitto di cui all’art. 3: soglie la cui introduzione avrebbe ovviamente avuto l’effetto di restringere il perimetro applicativo della fattispecie criminosa, rendendo penalmente irrilevanti i fatti che non attingessero ai livelli quantitativi stabiliti. Le coordinate dello scrutinio sono risultate, dunque, segnate dalla nota e costante giurisprudenza costituzionale, secondo la quale la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalità del Legislatore26. Le scelte legislative in materia sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodi-
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Le condotte previste dall’art. 3 esporrebbero, d’altro canto, il bene protetto, costituito dall’interesse dell’erario alla piena e rapida percezione dei tributi, a un pericolo concreto «sicuramente eguale», se non addirittura più elevato, rispetto a quello indotto dalle operazioni punite dall’art. 2. 25 Tribunale Palermo, 13/07/2017, Giud. Annalisa Tesoriere, «Non è manifestamente infondata la questione di legittimità del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000) in relazione al principio di uguaglianza-ragionevolezza nella parte in cui non prevede una soglia di punibilità identica a quella tipizzata nel delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. 74/2000)». 26 Cort. Cost. sent. n. 394 del 2006
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no nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio27, come avviene quando tra fattispecie omogenee vi siano discordanze applicative non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione28. Il confronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, presuppone, dunque, necessariamente l’omogeneità delle ipotesi in comparazione29. La Corte costituzionale ha ritenuto infatti, con la sentenza n. 95 del 2019, di non poter censurare la strategia legislativa, espressiva dell’ampia discrezionalità del Legislatore in materia di politica criminale: strategia che, dopo la riforma del 2000, è stata ulteriormente ribadita e rafforzata. Il criterio legislativo non può essere, d’altro canto, considerato manifestamente irragionevole o arbitrario, tenuto conto del particolare ruolo che, la fattura e i documenti ad essa equiparati, sul piano probatorio, assolvono nel quadro dell’adempimento degli obblighi del contribuente nel contesto della normativa fiscale, nonché della capacità di sviamento dell’attività accertativa degli uffici finanziari che l’artificio in questione possiede. Come ha rilevato l’Avvocatura dello Stato, la fattura assume infatti un ruolo fondamentale nel sistema di applicazione dell’IVA, tributo armonizzato a livello di diritto dell’Unione europea (segnatamente, in base alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto), perché garantisce l’attuazione del principio della neutralità dell’imposta rispetto ai soggetti passivi, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione. In particolare, l’emissione della fattura, oltre a determinare l’insorgenza di un debito d’imposta in capo al cedente o al prestatore di servizio, legittima il cessionario o committente, che sia anche soggetto passivo, alla detrazione dell’IVA indicata nel documento o, eventualmente, a chiederne il rimborso all’amministrazione finanziaria. Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, d’altra parte, la fattura costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi: con la conseguenza che, a fronte di essa, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto. In particolare, nel caso in cui l’ufficio ritenga che la fattura concerne operazioni inesistenti, è su di esso che grava l’onere di provare che l’operazione fatturata non è stata realmente effettuata, o che è stata effettuata tra soggetti diversi da quelli in essa indicati30. In quest’ottica, secondo gli Ermellini non può, dunque, considerarsi arbitraria la scelta legislativa di riservare alla specifica fattispecie ex art. 2 un trattamento distinto e più severo – sul piano non della reazione punitiva, ma delle soglie di punibilità – di quello prefigurato in rapporto alla generalità degli altri artifici di supporto di una dichiarazione mendace (anche di tipo documentale): artifici dei quali si occupa l’art. 3 del D.lgs. n. 74 del 2000. Tuttavia, quest’interpretazione, come sostenuta dalla Consulta, pare scardinata a seguito della recente equiparazione dei due articoli in esame alla medesima causa di non punibilità, posto che le due norme si radicano su criteri sanzionatori differenti ed inevitabilmente nelle ipotesi di applicazione per l’art. 3 D.lgs. 74/2000 andrebbero privilegiati i grandi evasori, verifi-
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Ex multis, Corte Cost. sentenze n. 273 e n. 47 del 2010, Corte Cost. ordinanze n. 249 e n. 71 del 2007, nonché, con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016. 28 Cort Cost. sentenze n. 40 del 2019, n.35 del 2018, n. 79 e n. 23 del 2016, n. 185 del 2015 e n. 68 del 2012. 29 Cort. Cost. sentenze n. 35 del 2018 e n. 161 del 2009; Corte Cost. ordinanza n. 41 del 2009. 30 Ex multis, Cass. civ., sez. V, sent. 30148 del 15 dicembre 2017; ordinanze 19 ottobre 2018, n. 26453 e 5 luglio 2018, n. 17619.
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cata la soglia di punibilità congiunta prevista dalle lett. a) e b), che potrebbero andare indenni da responsabilità penale a seguito del pagamento del debito tributario. Secondo questa prospettiva, possiamo validamente affermare che la preclusione all’accesso alla causa di non punibilità prevista dall’art. 13 comma 2, ovvero aver provveduto al pagamento del debito tributario prima «di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali» rappresenta una previsione addirittura pregiudizievole per lo stesso reo e non un beneficio in vista del pagamento spontaneo anticipatorio, poiché vanificherebbe la possibilità di esercitare qualsiasi diritto avverso imposizioni errate o illegittime. Ed infatti, in presenza di errori da parte del Fisco (oppure di interpretazioni non favorevoli al contribuente) nel computo dell’imposta evasa o degli interessi o delle sanzioni, il contribuente che non riesce a trovare un accordo con l’Amministrazione ha due strade: adire il Giudice tributario facendo valere il proprio diritto, sapendo, però, che, anche in caso di una vittoria sul fronte tributario, vedrebbe comunque sfumata la possibilità di accesso al causa di non punibilità nel procedimento penale, che nel frattempo segue il suo autonomo corso, oppure pagare senza contestare quanto richiesto dalla PA per beneficiare del rito premiale. Sia in un caso, sia nell’altro, non può negarsi una frustrazione del diritto di difesa del contribuente-imputato ex art. 24 Cost. Se un tal meccanismo induce a rinunciare all’imputato alla tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione, con conseguenti profili di violazione dell’art. 113 Cost., il quale prevede che contro gli atti delle amministrazioni dello Stato sia sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, dinanzi agli organi di giurisdizione. Allo stesso modo, l’indagato che decide di pagare, ma voglia o possa solo farlo mediante rateizzazione, si vede comunque preclusa la causa di non punibilità, verificata la mancata previsione legislativa di una sospensione del procedimento penale, in attesa della definizione del pagamento. Si assisterebbe, così, ad una violazione del principio di eguaglianza sancito dall’art. 3, posto che a parità di pagamento del debito tributario, in fasi tipicamente pregiudiziali (ovvero prima dell’apertura del dibattimento), non possano godere del medesimo beneficio, coloro che non aderiscono alle quantificazioni del debito proposte dall’Amministrazione finanziaria, senza che su ciò possa instaurarsi un valido contraddittorio (violazione ex artt. 111). Tanto più che la formulazione dell’art. 13 (diversamente dall’art. 13-bis) non prevede nemmeno «speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie», ove almeno si possa intravedere una sorta di contraddittorio in materia di accertamento fiscale, non essendo peraltro rari i casi (come quello di specie) in cui la conoscenza della contestazione avviene a seguito di un’ispezione, senza che così venga concesso all’indagato un istituto di composizione od un termine per il ravvedimento. Con la sentenza n. 95/201531 la Consulta si era già pronunciata, replicando a contestazioni simili, tuttavia in merito alla subordinazione dell’accesso al patteggiamento al pagamento del debito tributario come previsto dall’art. 13-bis D.lgs. 74/2000. La Corte Costituzionale nel negare l’illegittimità costituzionale di tali limitazioni, aveva rilevato come rientrasse nella discrezionalità del Legislatore riconnettere al titolo del reato, e non (o non soltanto) al livello della pena edittale, un trattamento più rigoroso, quanto all’accesso al rito alternativo: discrezionalità il cui esercizio, in quanto basato su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati, risulta sindacabile solo ove decampi nella
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Corte Cost., sent. 95/2015 del 28.05.2015, pres. A. Criscuolio.
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L’estensione della causa di non punibilità per aver risarcito il danno erariale in materia di dichiarazione fraudolenta
manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio, come avviene quando le scelte operate determinino inaccettabili sperequazioni tra figure criminose omogenee32. Con la norma sottoposta a scrutinio, il Legislatore ha introdotto una esclusione oggettiva dal “patteggiamento”, riferita alla generalità dei delitti in materia tributaria previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000: esclusione che si affianca alle numerose esclusioni oggettive dal cosiddetto “patteggiamento allargato”, ossia dal patteggiamento per una pena detentiva compresa tra i due e i cinque anni, già previste dall’art. 444, comma 1-bis c.p.p. Tuttavia, dette motivazioni non paiono estendibili per la causa di non punibilità, poiché a differenza del pagamento previsto per l’accesso al patteggiamento per cui i debiti tributari debbono risultare «estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie» prima dell’apertura del dibattimento (art. 13-bis), l’integrale pagamento del debito tributario previsto dall’art. 13 comma 2 «a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali» non implica un’adeguata garanzia di tutela per il contribuente, alla luce di criteri non così direttamente accessibili (e temporalmente certi) per la quantificazione del debito tributario, nonché per l’assenza di particolari procedure in favore del contribuente per l’instaurazione di un valido contradditorio in materia di accertamento. L’assenza di soglie di punibilità nel reato previsto dall’art. 2 D.lgs. 74/2000, ammette infatti la sussistenza del delitto anche per modiche entità, tanto che possa ipotizzarsi una situazione di partecipazione inconsapevole o di «rimprovero marginale» dell’autore del fatto. Su questo versante risulta, pertanto, ampiamente fondata la censura di violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’asserita rottura del rapporto di proporzione tra risposta punitiva e fatto commesso. La disposizione risponde pacificamente ad una finalità special-preventiva sia sotto il profilo negativo, dissuadendo l’autore del fatto dalla commissione di ulteriori reati sotto la minaccia di oneri personali o patrimoniali, sia sotto il profilo positivo, giacché l’onere imposto al reo contribuisce a ricostituire il rapporto di fiducia tra il soggetto e la collettività. Tuttavia la sua ripianazione in una fase antecedente all’instaurazione di qualsiasi procedimento, nell’odierna formulazione, comporta una chiara lesione al diritto alla difesa del contribuente (art. 24 Cost.), nonché una lesione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e di ragionevolezza. Tanto più che la previsione di non punibilità introdotta dall’art. 39 lett. Q-bis della L. 157/2019 non ha previsto regimi transitori per coloro, che pur avendo già ristorato il danno erariale in un momento compositivo con l’Amministrazione finanziaria, abbiano comunque subito l’instaurazione del giudizio, prima dell’entrata in vigore della norma.
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Corte Cost. ord. 455/2006 del 28 dicembre 2006, pres. F. Bile.
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6. Conclusioni. L’interesse all’eliminazione del danno e al ravvedimento del reo rappresentano, infatti, valori costituzionali atti a giustificare ragionevolmente una disparità di trattamento33, ma solo in fattispecie eterogenee: a parità di condizioni vi devono discendere pur sempre parità di trattamenti sanzionatori. In materia di reati tributari, vi sarebbe, infatti, una diretta correlazione tra entità del danno cagionato e potenzialità economiche del reo, posto che l’arricchimento degli autori del reato risulta esattamente corrispondente all’imposta sottratta al fisco. Sarebbe, dunque, ragionevole ipotizzare, in via generale, che l’evasore disponga, o abbia avuto la possibilità di disporre, delle risorse economiche per il risarcimento del danno, solamente quanto trattasi di grandi importi evasi e non quando risulterebbero in gioco importi di scarso valore. Non essendovi una soglia di non punibilità, se non semmai quella prevista dall’art. 131 bis, che impone comunque il pagamento del debito, potendo l’edittale rientrare nei limiti di ammissibilità dell’istituto solo a seguito dell’avveramento della previsione di cui all’art. 13 bis comma 1, dalla norma vengono pregiudicati proprio coloro che meno hanno guadagnato dal reato (c.d. evasori minimali), che avendo realizzato condotte di minore rilevanza sociale, nei casi in cui non abbiano l’immediata disponibilità per pagare il debito tributario, devono affrontare l’intero procedimento. In definitiva, la sensazione è che la novella introdotta con la L. 57/2019 del 19 dicembre 2019 ed entrata in vigore il 25 dicembre, con una formulazione stringata ed ermeneutica, senza la previsione di modalità specifiche (che calzino appositamente per il reato previsto dall’art. 2 D.lgs. 74/2000), senza la sua preventiva previsione integrata nel D.lgs. 124/2019 offerto in conversione e senza la previsione di un regime transitorio, sia stato un modo per agevolare qualcuno a discapito di altri, scardinando quelle garanzie costituzionali, che il sistema dei reati tributari, come riformato nel 2015 e rodato dalla giurisprudenza, si prometteva difficoltosamente di mantenere, offrendo pesi diversi a previsioni diverse, nel sommo intento unificante del corretto adempimento fiscal-tributario.
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Corte cost. sent. 49 del 6 marzo 1975.
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Corte di cassazione, 6 marzo 2020 n. 9049 (udienza 7 febbraio 2020) Dolo eventuale – Colpa cosciente – Formula di Frank – Omissione di soccorso La volontà si esprime, quando è in gioco il dolo eventuale, nella consapevole e ponderata adesione all’evento. Non può dunque più parlarsi di mera accettazione del rischio, ma occorre aver riguardo alla volontà intesa come accettazione dell’evento, perché questo è il modo con cui può volersi un dato futuro al momento in cui si attua una opzione per una condotta.
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L’eterno dilemma: dolo eventuale o colpa cosciente? La Corte di Cassazione, in accoglimento dei ricorsi del P.G. e delle parti civili, annulla la impugnata sentenza del 29/01/2019 della Corte d’assise d’appello di Roma e rinvia ad altra sezione della Corte di assise per un nuovo giudizio sul tema dell’elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che presero parte all’omicidio di Marco Vannini. Confermata è la qualificazione del fatto in termini di omicidio mediante omissione, rinvenendo una posizione di garanzia ex art. 40, comma 2, c.p. in capo ai presenti sul luogo del delitto, in forza di un’assunzione de facto delle cure del ferito. Con sentenza del 18 aprile 2018 la Corte di assise di Roma affermava la responsabilità di Antonio Ciontoli per il delitto di omicidio, commesso nella sua abitazione di Ladispoli nella tarda serata del 17 maggio 2015, ai danni di Marco Vannini, fidanzato della figlia Martina. Secondo la contestazione, Antonio Ciontoli, simulando uno scherzo e ritenendo che la pistola da lui detenuta, per ragioni di servizio in qualità di appartenente alla Marina militare e che aveva lasciato incustodita nella stanza da bagno, fosse scarica, la puntò in direzione di Marco Vannini, mentre questi stava facendo la doccia, scarrellò e premette il grilletto. Esplose, quindi, un colpo che attinse la vittima. Nonostante la grave ferita, ritardò i soccorsi e fornì agli operatori del 118 e al personale paramedico informazioni false e fuorvianti cagionando, accettatone il rischio, il decesso di Marco Vannini che avvenne alle ore 3,00 del 18 maggio 2015 a causa di anemia acuta meta emorragica. La Corte di assise, quindi, condannava Antonio Ciontoli, riconosciutane la responsabilità anche per la contravvenzione di omessa custodia dell’arma, alla pena di anni quattordici di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, e alla pena di mesi due di arresto ed euro 300,00 di ammenda. La Corte di assise, contestualmente, affermava la responsabilità di Federico e Martina Ciontoli e di Maria Pezzillo, rispettivamente figli e moglie di Antonio Ciontoli, per il delitto di omicidio colposo, specificamente per concorso colposo nell’omicidio commesso da Antonio Ciontoli, avendo escluso che alcuno di loro fosse stato presente al momento dell’esplosione del colpo di pistola e avendo accertato che non erano stati informati da Antonio Ciontoli dell’esatta causa del ferimento, ricondotto da quest’ultimo a “un colpo d’aria, una bolla d’aria che sì era formata nella pistola” e non ad un proiettile che avesse attinto la vittima.
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Ad avviso della Corte di assise, loro omisero di meglio verificare la causa del malessere di Marco Vannini, della cui ferita erano comunque consapevoli, avendo visto l’accappatoio e un asciugamano macchiati di sangue, avendo rinvenuto il bossolo esploso ed essendo stati spettatori del progressivo peggioramento delle condizioni di salute della vittima che, per il dolore, si lamentava ad alta voce. Pertanto, sono stati condannati alla pena di anni tre di reclusione ciascuno, previo riconoscimento delle attenuanti generiche. Per Viola Giorgini, fidanzata di Federico Ciontoli, presente ai fatti, la Corte di assise pronunciava l’assoluzione dall’imputazione di omissione di soccorso aggravata dall’evento morte per il dubbio sulla configurabilità del dolo, dato che restò ai margini della vicenda e, quindi, non risultava con certezza che percepì effettivamente e valutò il reale stato di pericolo in cui versava Marco Vannini. La Corte di assise di appello, con sentenza del 29 gennaio 2019, confermava la decisione di condanna di Federico e Martina Ciontoli e di Maria Pezzillo; confermava, inoltre, la pronuncia di assoluzione di Viola Giorgini; riformava, invece, la sentenza nei confronti di Antonio Ciontoli, riqualificando l’imputazione in quella di omicidio colposo con l’aggravante di aver previsto l’evento, condannandolo, previo giudizio di equivalenza con le attenuanti generiche già concesse in primo grado, alla pena di anni cinque di reclusione, ferma la condanna alle pene dell’arresto e dell’ammenda per la contravvenzione di omessa custodia dell’arma. La Procura generale ricorre, e le parti civili aderiscono con memoria, alla Suprema Corte denunciando, in via principale, il mancato riconoscimento del dolo eventuale nel reato di omicidio addebitato sia ad Antonio Ciontoli che ai suoi familiari e, per tale via, deducono, anche e implicitamente, un vizio relativo alla qualificazione del fatto, per l’ovvia ragione che il discorso sul dolo implica, per necessità logico-giuridica, la deduzione dell’erronea individuazione della norma incriminatrice. La Suprema Corte considera il ricorso del Procuratore generale e le deduzioni addotte dalle parti civili meritevoli di accoglimento. La valutazione della questione tutta non è di facile soluzione. Definito il quadro probatorio, per il quale non risultano esserci questioni dubbie o non risolte, resta da valutare “solamente” l’elemento psicologico. L’accertamento del dolo eventuale comporta non poche difficoltà. Come considerato dal Manna, (Corso di Diritto Penale, 5^, Milano, 2020, 361 ss.) l’ipotesi più controversa di dolo è, notoriamente, quella relativa al c.d. dolo indiretto o eventuale, dove il criterio della volontà è sostituito dal criterio del consenso, o meglio, con un concetto più evoluto e moderno, lo si definisce criterio di «accettazione del rischio», di verificazione dell’evento previsto dalla norma incriminatrice. Il dolo eventuale ha un’origine prima dottrinaria e poi anche giurisprudenziale, per consentire al giudice, nel caso di lesioni volontarie, di imputare il fatto sotto il più grave titolo di tentato omicidio, laddove le conseguenze del fatto siano di tale rilevanza, da far ritenere sussistente, per l’appunto, un’accettazione del rischio di morte del soggetto passivo. Per accertare il «consenso» e per affinare il criterio dell’accettazione del rischio, parte della dottrina (Eusebi, Appunti sul confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in RIDPP, 2000, 1081 ss.) fa però ricorso alla c.d. «formula di Frank», ovverosia ad un accertamento ipotetico così articolato: il dolo eventuale sussiste quando è presumibile che il soggetto avrebbe ugualmente agito, anche se si fosse rappresentato l’evento lesivo come certamente connesso alla sua azione. Questa formula, seppure costituisce un indubbio progresso, rispetto alla mera accettazione del rischio, va, però, secondo quanto sostenuto da altra parte della dottrina (Cerquetti, La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino, 2004, 306 ss.), incontro ad un’insuperabile obiezione, che consiste nel sostituire dati effettivi con elementi ipotetici, il che non
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appare consentito, proprio perché il dolo consta di fenomeni psicologici reali. Ciò nonostante, la Corte suprema di cassazione a Sezioni Unite, in una sentenza in tema di ricettazione, ha ritenuto di utilizzare la (prima) formula di Frank, in modo tale da utilizzare il dolo eventuale anche in rapporto al reato presupposto, così che il dolo eventuale sussisterebbe laddove fosse presumibile che il soggetto avrebbe ugualmente agito anche se si fosse rappresentato che il bene oggetto dell’acquisto, della ricezione o dell’occultamento, fosse sicuramente di provenienza delittuosa (Cass. SS.UU. penali 26 novembre 2009, 30 marzo 2010, n. 12433, ric. Nocera, in Cas. Pen., 2010, 7/8, 2548 ss.; con nota di Donini, Dolo eventuale e Formula di Frank nella ricettazione. Le sezioni unite riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. Pen., 2010, 2555 ss.). A questo proposito va rilevato come lo stesso Donini, che pure precedentemente si era mostrato per la ricettazione a favore soltanto del dolo intenzionale e diretto, ha tuttavia rilevato come l’utilizzazione della formula di Frank, nonostante le apparenze, dovrebbe costituire un criterio di carattere generale, proprio perché quello che più avvicina il dolo al concetto di volontà, nonostante il chiaro Autore sia anche perfettamente consapevole che trattasi di un criterio probatorio di carattere ipotetico, che tuttavia non costituirebbe un’eccezione nel panorama penalistico generale, giacché sussistono altri istituti di carattere ipotetico come ad esempio la causalità nei reati omissivi impropri. Per rispondere a queste, peraltro, assai stimolanti considerazioni, dobbiamo partire proprio da queste ultime osservazioni, giacché ad avviso del Manna si rischia di confondere degli istituti penali sostanziali, come, per l’appunto, la causalità nei reati omissivi impropri, che ben possono essere di carattere ipotetico, con, al contrario, criteri di accertamento e, quindi, di carattere probatorio, come d’altro canto riconosciuto dallo stesso Frank che, in quanto tali, non appaiono ammissibili, proprio perché il criterio probatorio, per dirsi tale e per essere funzionale alle esigenze del processo, deve dimostrare la sussistenza di fatti reali e non di mere ipotesi. In secondo luogo, va rilevato come l’utilizzazione in chiave generale della prima formula di Frank incontra, un ulteriore obiezione, di non facile soluzione. Trattasi dell’argomento per cui, avendo di fronte il giudice penale un criterio di carattere ipotetico sarà inevitabilmente portato ad un giudizio fondato sulla tipologia d’autore, anziché sulla tipologia di fatto, così però alterando l’equilibrio tra fatto ed autore e spostando inevitabilmente l’asse del diritto penale in senso soggettivistico e, quindi, in definitiva antigarantistico. Tuttavia, Eusebi continua a difendere la formula di Frank, come l’unica che consentirebbe al dolo eventuale di mostrare anche un tratto di carattere volontaristico (Eusebi, La prevenzione dell’evento non voluto. Elementi per una rivisitazione dogmatica dell’illecito colposo e del dolo eventuale, in Scritti in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, II, 883 ss.). Il Canestrari tenta, finemente argomentando, di salvare il dolo eventuale facendo leva sul criterio dell’homo eiusdem condicionis et professionis, come criterio distintivo tra colpa cosciente e dolo eventuale; nel primo caso è sempre possibile rinvenire un “agente modello”, su cui parametrare la condotta illecita, nel secondo il rischio è troppo elevato per individuare un homo eiusdem che se lo assuma ed una regola cautelare che possa dirsi violata (Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano, 1999), l’esistenza della quale presupporrebbe comunque che si agisca in un contesto illecito di base. A chi scrive, emblematico risulta il caso Vasile. I. Vasile, nel luglio del 2008, guidava un furgone rubato con materiale ferroso altrettanto rubato, appena avvistò un’auto della polizia che lo seguiva, aumentò la velocità, fino a superare circa 10 semafori rossi e all’incrocio fra via Nomentana e via Salaria a Roma, travolse un’auto che proveniva in senso opposto, uccidendo così uno dei componenti e ferendo gli altri due. Il moldavo venne riconosciuto responsabile di omicidio volontario e condannato a 16 anni di reclusione; la pena gli venne ridotta con il giudizio di appello che derubricò il delitto in colposo, con relativa riduzione della pena
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a 8 anni di reclusione ma la prima sezione della Corte di cassazione decise per un nuovo processo in appello dove il Vasile è poi stato condannato per l’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale. La Corte d’assise d’appello di Roma condannò il moldavo alla pena di 15 anni di reclusione riconoscendo il dolo eventuale. Sul punto è da precisare come certamente per fondare il dolo eventuale non sia sufficiente la condotta sconsideratamente pericolosa del conducente ed avere, soprattutto, superato ad alta velocità una decina di semafori, ma l’unica via possibile per fondare almeno de jure condito il dolo eventuale appare quello di ritenere che costui abbia agito effettuando un previo “bilanciamento di interessi”, fra la vita altrui, ed al limite anche quella propria, da un lato ed il rischio di essere arrestato per ricettazione in flagranza di reato ed espulso perché sprovvisto di permesso di soggiorno, con in più la moglie in stato interessante. Nel caso che ci occupa, anche se le condotte tenute dalla famiglia Ciontoli non si avvicinano a quella tenuta dal Vasile, c’è un elemento che le accomuna: il bilanciamento degli interessi. Per fondare il dolo eventuale non è sufficiente la sola valutazione della condotta sconsiderata tenuta da tutta la famiglia Ciontoli; la via possibile per fondare il dolo eventuale appare quella di ritenere che costoro abbiano agito effettuando un previo bilanciamento di interessi che vedeva contrapposti la vita del Vannini e il posto di lavoro del Ciontoli; a valutazione effettuata, salvare il posto di lavoro fu considerata cosa più importante rispetto alla tempestiva chiamata dei sanitari con chiare indicazioni sull’accaduto al fine di salvare la vita del Vannini (sul punto, per una ricostruzione finalistico-volontaristica del dolo eventuale cfr., anche, di recente, Salcuni, Il “silenzio” del rischio, la “loquacità” del fine, Pisa, 2018). In piena condivisione, quindi, rispetto a quanto deciso dalla Suprema corte di cassazione, la sentenza impugnata è stata giustamente annullata per un nuovo giudizio sul tema dell’elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che presero parte all’omicidio di Marco Vannini.
Domenica Loredana Novia
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Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255, Pres. Diotallevi, est. Ariolli, imp. Fasciani e altri Art. 416-bis c.p. – Associazione di tipo mafioso – Sodalizio L’aggravante agevolatrice dell’attività mafiosa prevista dall’art. 416-bis 1 cod. pen. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell’altrui finalità». Spetta, dunque, al giudice, dunque, il compito di analizzare, attraverso il suo apprezzamento, se dalla sintesi probatoria emersa nel caso di specie emerga la “mafiosità” della consorteria.
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Mafie autoctone: la Cassazione dà vita ad una riformulazione dell’associazione criminale di cui all’art. 416-bis c.p. Con il Provvedimento in esame la Suprema Corte, in data 16 marzo 2020, ha confermato la condanna per associazione di tipo mafioso nei confronti dell’organizzazione criminale capeggiata da Carmine Fasciani ed operante nel Municipio romano di Ostia. I giudici di legittimità non si sono però limitati ad avallare la ricostruzione della pronunzia di merito, ma hanno incentrato la loro attività sulla individuazione delle associazioni criminali “autoctone”. La vicenda aveva conosciuto ribaltamenti di giudizio in grado di appello: in effetti, mentre la sentenza di primo grado aveva riconosciuto ad Ostia la sussistenza di un’associazione di stampo mafioso facente capo a taluni soggetti, la prima sentenza di appello aveva, invece, escluso il carattere mafioso del sodalizio in ragione dell’assenza di prova della pervasività dell’associazione criminosa, del suo potere coercitivo e del conseguente stato di assoggettamento e condizione di omertà. Detta decisione era stata annullata, in accoglimento con rinvio del ricorso del PM; la seconda sentenza di appello aveva ritenuto di ripercorrere tutta la provvista probatoria confermando stavolta la fondatezza della decisione di primo grado; le difese di tutti gli imputati per i quali era stata affermata la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. hanno presentato un nuovo ricorso, tanto sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta riconducibilità del clan in questione ad un sodalizio di stampo mafioso. L’essenza del provvedimento della Suprema Corte in commento è riscontrabile nella parte dedicata al “metodo mafioso” di cui al co. 3 dell’art. 416 bis c.p., sia in termini generali, sia con riferimento al caso di specie. Da un punto di vista strettamente ermeneutico la Corte ha sottolineato la presa d’atto che il delitto di cui all’art. 416-bis, c.p. appartiene alla classe dei reati associativi a “struttura mista” – richiedenti cioè un quid pluris rispetto alla mera organizzazione in sé considerata costituito
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appunto dall’effettiva pratica del “metodo mafioso” – per ribadire che “la fattispecie incriminatrice richiede per la sua integrazione un dato di «effettività»: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di «possedere in concreto» quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso”. Tale “caratura oggettiva”, soggiunge la Corte, “vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale”, in quanto “è proprio il metodo di cui l’associazione – per tipizzarsi – deve «avvalersi» a convincere del fatto che l’intimidazione e l’assoggettamento omertoso che ne devono derivare, rappresentano in sé un «fatto» che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori «danni» scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine”. La sequenza “tipicità/offensività/proporzionalità” deve imporsi sempre e comunque in ogni processo in cui è scrutinata l’applicabilità del delitto di associazione mafiosa. La Cassazione nella sua pronuncia ritiene che è proprio la “prospettiva oggettivistica e materiale” a consentire al reato di sottrarsi alla censura di “fattispecie sociologicamente orientata”, poiché “quei profili lato sensu ambientali, connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del «fatto», che deve formare oggetto, naturalmente di prova adeguata”. Viene ribadito inoltre che l’“assoggettamento e omertà rappresentano gli eventi che devono scaturire dall’intimidazione: «fatti», quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale”. Quanto al caso in esame, a parere della Corte quel che occorre, semmai, è un adeguamento degli standard valutativi con riguardo, in particolare, alla forza di intimidazione dispiegata da organizzazioni criminali comunque di ridotte dimensioni e senza stirpe, in modo da evitare, raccomanda la Cassazione, “gli opposti estremi: da un lato, un effetto «totalizzante», di coazione che coinvolga l’intera popolazione di un determinato territorio; dall’altro, quello della micro-entità associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale”. Giunti fin qui, tuttavia, non si può non riconoscere che il punto di equilibrio tra questi due estremi è inevitabilmente oscillante nel tempo e nello spazio, sospinto da una parte o dall’altra da molteplici fattori contingenti che indubbiamente non si lasciano ingabbiare in format predefiniti una volta e per tutte. Ecco perché le decisioni giurisprudenziali rischiano di rimanere “essenzialmente contestabili”, ossia fisiologicamente esposte all’accusa di andare contro il senso comune o di rincorrerlo. E a bene vedere, gli stessi indicatori fattuali isolati dalla Cassazione per vagliare la tenuta logico-motivazionale della sentenza, nonché l’esatta composizione del “mosaico delle condizioni di applicazione della fattispecie”, confermano l’irriducibile plasticità di un ragionamento decisorio condotto tra diritto e prova con le porte aperte a componenti valutative di notevole spessore. In altre parole, “l’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso”, come “gli specifici settori di intervento”, o “la molteplicità dei settori illeciti di interesse”, nonché “la manifestazione esterna del potere decisionale” e la “sudditanza degli interlocutori istituzionali o professionali”, costituiscono certamente indicatori plausibili della mafiosità penalmente rilevante di un aggregato criminale attivo in un contesto non tradizionale. Ma si tratta pur sempre di parametri a trama aperta la cui concretizzazione giudiziale non sempre è asetticamente controllabile. Le guerre di religione sul punto, francamente, sono ingiustificate. Infine, compiuta la verifica di legittimità della decisione di merito, la Cassazione conclude affermando che “la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza «mafiosa» sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento”. Dunque, ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. mafie non tradizionali è necessario che l’associazione abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di inti-
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midazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio.
Marilisa De Nigris
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Camera d’Appello 9 marzo 2020 ICC-01/11-01/11-695, CR 2020_00904 TAG: Corte Penale Internazionale – Crimini contro l’umanità, primavera araba – Libia – Giurisdizione penale internazionale – Condizioni di procedibilità
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Processo Aja contro il figlio di Gheddafi La Camera d’Appello della CPI ha deliberato lo scorso marzo all’unanimità l’ammissibilità della prosecuzione del giudizio contro Saif Al-Islam Gheddafi per crimini contro l’umanità commessi in relazione alle repressioni compiute nel febbraio del 2011 contro la rivoluzione della primavera araba in Libia. La difesa del figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi aveva impugnato la decisione della Camera Preliminare del 5 aprile 2019 invocando l’inammissibilità del processo per il sopravvenire di una sentenza di merito della Corte di Appello di Tripoli e dell’approvazione di una legge sull’amnistia (legge libica n. 6 del 2015). La Camera di Appello ha respinto l’appello confermando la correttezza della decisione della Camera Preliminare nell’interpretare gli artt. 17 par.1 lettera c1 e 20 par. 3 dello Statuto CPI2 rispettivamente sulle questioni concernenti la procedibilità e sul ne bis in idem. Inoltre, ha evidenziato il carattere complementare della giurisdizione della CPI come statuito nel preambolo dello Statuto CPI e, aderendo alle statuizioni della Camera preliminare, ha delimitato il principio del ne bis in idem: la giurisdizione penale internazionale non si esercita se il presunto autore di crimini è stato destinatario di una sentenza passata in giudicato emessa da un tribunale nazionale, prima dell’accertamento della condizione di irricevibilità da parte dell’organo collegiale dell’Aja. La Camera Preliminare e la Camera di Appello adottano, quindi, un’interpretazione condivisibile in quanto conforme all’obiettivo dello Statuto della CPI di porre termine all’impunità degli autori di crimini internazionali anche in un’ottica di prevenzione impedendo espedienti finalizzati a sottrarre la sua giurisdizione a vantaggio dei presunti responsabili di gravi crimini internazionali. Ai fini del ne bis in idem occorre, infatti, verificare la ricorrenza cumulativa
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La Corte dichiara improcedibile il caso se la persona interessata è già stata giudicata per la condotta oggetto della denunzia e non può essere giudicata dalla Corte a norma dell’articolo 20 paragrafo 3. 2 Chiunque sia stato precedentemente giudicato da una diversa giurisdizione per condotte punibili anche ai sensi degli articoli 6, 7, 8 o 8-bis, può essere giudicato dalla Corte solo se il procedimento di fronte all’altra giurisdizione: mirava a sottrarre la persona interessata alla sua responsabilità penale per crimini di competenza della Corte; o in ogni caso non era stato condotto in modo indipendente ed imparziale, nel rispetto delle garanzie di un processo equo previste dal diritto internazionale, ma era stato condotto in modo da essere incompatibile, date le circostanze, con il fine di assicurare la persona interessata alla giustizia.
Giurisprudenza internazionale
delle seguenti condizioni: che la sentenza del giudice nazionale sia definitiva; che il processo sia condotto da un giudice indipendente ed imparziale; che la procedura non determini ingiustificati ritardi, o non sia un mezzo per garantire l’impunità del presunto responsabile. La difesa di Gheddafi contesta tale tesi affermando che è sufficiente una pronuncia di merito anche se non definitiva. L’indagato ha ricevuto una sentenza di condanna alla pena di morte dalla Corte di appello di Tripoli il 28 luglio 2015, ma il procedimento si era svolto in contumacia. Tale situazione processuale, secondo il diritto processuale penale libico, consente all’imputato di richiedere un nuovo processo. Dalla documentazione e dalle audizioni di diverse parti vi erano evidenze sufficienti per ritenere che la Libia non era stata in grado di assicurare un processo equo, garantendo i diritti dell’imputato. La Camera di appello ha respinto la tesi difensiva secondo la quale l’applicazione della legge libica n. 6 del 2015, con la quale si afferma la concessione dell’amnistia a Gheddafi, potesse rendere il verdetto definitivo evidenziando che, a norma dell’art. 3, par. 4, sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’indicata legge i crimini per i quali era stato condannato il figlio di Gheddafi. La Camera di appello non ha ritenuto necessario accertare l’incidenza dell’amnistia sulle questioni di ricevibilità, ma ha concluso che la legge n. 6 non determina un’inammissibilità del caso dinanzi alla Corte penale internazionale, anche alla luce della sua costante giurisprudenza dell’inapplicabilità di amnistie per crimini gravi contro l’umanità e con la sua conseguente irrilevanza ai fini di inammissibilità della giurisdizione della CPI. Alla luce di quanto esposto, la Corte dell’Aja continuerà ad esercitare la sua giurisdizione contro Gheddafi.
Nikita Micieli
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de
Biase
Giurisprudenza
europea
CEDU, sez. V, sent. 14 maggio 2020, ric. n. 5499/15 CEDU – Trattamenti disumani e degradanti – Carcerazione preventiva – Idoneità delle misure di prevenzione – Diritto alla salute
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Trattamenti disumani e degradanti per detenzione in isolamento Sommario: 1. Introduzione. – 2. I fatti. – 3. La questione di diritto. – 4. Conclusioni.
1. Introduzione. La Corte Europea di Strasburgo si è recentemente pronuncia in materia di trattamenti disumani e degradanti rigettando un ricorso di un cittadino francese, detenuto in regime di custodia cautelare con accertati problemi psichici, che lamentava di aver subito un trattamento disumano e degradante a causa dell’applicazione del regime dell’isolamento precauzionale. La sentenza risulta interessante poiché espone alcune rilevanti osservazioni sul delicato rapporto tra la detenzione in regimi speciali e il diritto alla salute, soprattutto in ordine agli accertamenti medici necessari per la valutazione della congruità di una misura preventiva di protezione. Nel caso di specie, secondo i Giudici europei, sebbene non vi fosse stata alcuna valutazione peritale da parte dell’amministrazione penitenziaria circa l’idoneità del ricorrente ad essere posto in isolamento, tuttavia, il suo stato di salute non aveva in alcun caso richiesto una valutazione specialistica ulteriore, verificato che a seguito della dimissione da parte dell’Ospedale psichiatrico il detenuto era stato costantemente monitorato dall’equipe medica della struttura, che non aveva rilevato particolari scompensi contrari alla misura stessa. Per quanto riguarda le garanzie procedurali la Corte ha osservato che al ricorrente era stato assicurato il contraddittorio, essendo stato ascoltato, in presenza del suo avvocato, prima della decisione finale di collocamento in isolamento, mentre in precedenza, al ricorrente erano stati notificati i documenti rilevanti ed aveva persino presentato per iscritto delle difese, tanto che dal punto di vista del diritto alla difesa alcuna violazione poteva avanzarsi in capo alla struttura di reclusione.
2. I fatti. Il ricorrente, gravato da cinque mandati di arresto per frode in materia di imposte era stato incarcerato nella prigione francese di Fresnes sin dal 10 gennaio 2014. Con lettera del 26 marzo 2014, l’amministrazione penitenziaria aveva informato il Giudice, che sulla base di intercettazioni telefoniche effettuate durante la detenzione, si erano identificati i contatti esterni utilizzati dal detenuto per ottenere servizi di vario genere. Da questa lettera era infatti emerso che: «(...) sono state comunicate informazioni molto attendibili sulla detenzione in merito all’uso di un numero di telefono per conto del detenuto C. Secondo questa fonte, questo numero di telefono
Giurisprudenza europea
consentirebbe alla compagna Sign. M (...) di contattare i complici del detenuto C. Grandi somme di denaro sarebbero state date alla signora M (...) per il conto del detenuto C. (...)» A seguito di ciò, l’amministrazione penitenziaria ha poi provveduto all’ispezione della cella occupata dal detenuto in questione, ove venivano ritrovati un lettore DVD, due botticini di profumo di una nota marca francese ed altri beni di cui risultava vietata l’introduzione. Poco dopo il ricorrente veniva quindi posto in isolamento temporaneo proprio a causa dell’introduzione e detenzione di beni non ammissibili, la cui decisione veniva notificata a mani del detenuto, il quale veniva così messo nella facoltà di presentare osservazioni scritte. Nei primi giorni dell’aprile 2014, sulla base degli articoli R. 57-7-62 del codice di procedura penale francese ed a seguito dell’instaurazione del contraddittorio, in presenza di uno dei cinque avvocati del ricorrente, lo stesso ammetteva di aver detenuto gli oggetti controversi e il direttore dell’istituto carcerario decideva così di collocarlo in isolamento preventivo dal 12 aprile 2014 al 12 luglio 2014, al fine di «impedire la reiterazione di queste condotte di introduzione di oggetti fraudolenti». Il 13 aprile 2014, il richiedente presentava ricorso in sede di procedimento amministrativo sommario sulla base dell’articolo L. 521-2 del codice di giustizia amministrativa francese allo scopo di vedere sospesa l’esecuzione della decisione, sostenendo di soffrire di claustrofobia e disturbi del sonno, nonché di una perdita di riferimenti spaziotemporali, aggravata dalla sua collocazione in isolamento. Con ordinanza del 15 aprile 2014, confermata dal Consiglio di Stato il 23 aprile 2014, il Giudice respingeva la domanda in quanto priva di urgenza, indicando che l’esecuzione di un ordine di detenzione per un detenuto in isolamento non rifletteva di per sé un’esigenza di una situazione di emergenza, se non suffragata da validi motivi circa un potenziale danno alla salute del richiedente. Quindi, esaminando in concreto la gravità dei disturbi invocati dal detenuto, riteneva che né gli elementi raccolti nell’ambito dell’inchiesta, né quelli forniti dall’istante fondassero la realtà dei disturbi psicologici e psichici tale da ritenersi ostativi all’isolamento. Il 18 aprile 2014, uno psicologo del centro penitenziario redigeva un certificato attestante il follow-up psicologico del detenuto iniziato il 14 marzo 2014. Questo certificato rilevava la debolezza del tono timico esacerbato dal posizionamento in isolamento del richiedente, classificato da una fragilità narcisistica ed una sensazione di vulnerabilità, accentuata anche dall’isolamento. Nell’occorso la struttura carceraria decideva quindi di aumentare il ritmo delle visite psicologiche ed infermieristiche, dal cui referto ultimo risultava: “il richiedente mostra una certa evoluzione riguardo alla sua capacità di mettere in discussione, anche se l’espressione degli affetti rimane precaria fino ai nostri giorni”. In data 30 aprile 2014 il detenuto veniva inviato presso l’Ospedale psichiatrico ed inserito in un regime di isolamento medico; lo stesso giorno il legale chiedeva al capo dello stabilimento di sospendere il collocamento in isolamento, sostenendo che le conseguenze di ciò avessero importanti ripercussioni sullo stato di salute del detenuto, il quale dopo qualche giorno chiedeva di lasciare l’Ospedale psichiatrico e veniva rimesso in isolamento presso la struttura carceraria. Il 5 maggio 2014 il ricorrente nuovamente istava di sospendere l’esecuzione della decisione, sostenendo in particolare che il suo stato di salute era notevolmente peggiorato da quello precedente e che il possesso di prodotti per l’igiene, che il detenuto riteneva fondamentali per la cura del sé, non potevano costituire un rischio per lo stabilimento carcerario o per le persone. Tuttavia, il Direttore della struttura di reclusione rigettava il reclamo. In una lettera del 16 giugno 2014, il capo dello stabilimento informava infatti il Giudice istruttore della gestione della detenzione del richiedente, spiegando che il soggetto era stato costantemente vigilato in vista della “sensibilità del suo profilo”, aggiungendo che sebbene lo stesso aveva nel tempo goduto di numerosi benefici (visite dei suoi consulenti e cappellani, consegne di pacchi di
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generi alimentari e acquisti di prodotti da mensa in importanti quantità), in alcune ispezioni della cella il soggetto era stato ripetutamente trovato in possesso di beni la cui detenzione in regime carcerario è vietata, tanto per cui al fine di impedire che si rinnovassero ulteriori simili episodi l’applicazione della misura dell’isolamento risultava quanto mai necessaria.
3. La questione di diritto. Le disposizioni relative all’isolamento quale misura precauzionale e di sicurezza (talvolta chiamata isolamento preventivo) a cui è stato sottoposto il richiedente sono regolate dagli articoli 726-1 e R. 57-7-62 del codice di procedura penale francese. Questo isolamento risulta diverso dall’isolamento disciplinare, in particolare nei termini di durata e nel regime di detenzione, prevedendo il divieto di partecipare ad attività organizzate collettivamente. Sotto questo profilo, i lavori del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) adeguatamente disciplina il profilo della detenzione in isolamento. In particolare, il paragrafo 62 di detta relazione sottolinea che il personale medico, che lavora nella prigione non dovrebbe partecipare al processo decisionale relativo alla disposizione in isolamento1, proprio al fine di garantire maggiore terzieità nell’ iter valutativo e garantire un adeguato contraddittorio alla decisione. Sulla base del fatto che nel caso di specie la documentazione medica circa l’adeguatezza della misura era sola quella dei medici interni, oltre a quella dell’Ospedale psichiatrico ove il soggetto era stato ricoverato, il detenuto adduceva la violazione dell’art. 3 della Convenzione in vista del continuo isolamento dopo il ricovero in ospedale, quale trattamento disumano e gradante, poiché ingiustificato, posto che non vi era motivo di prevedere un’estensione della misura così grave, dall’altro, che le autorità non avevano tenuto sufficientemente ed adeguatamente conto del suo stato di salute nel decidere in merito al suo mantenimento in isolamento. A queste doglianze il Governo convenuto replicava sostenendo che il confinamento in isolamento del ricorrente e la detenzione continuata erano motivati da ragioni di sicurezza, tenendo conto del profilo criminale del reo e dell’uso della sua capacità finanziaria per eludere le norme in vigore in detenzione e ottenere servizi dall’esterno, che avrebbero potuto disturbare l’ordine pubblico in detenzione. D’altro canto l’Avvocatura dello Stato sottolineava che la collocazione della persona interessata era stata oggetto di un esame evolutivo della situazione, tanto che il richiedente fu sottoposto ad un controllo medico regolare, che non aveva rammostrato alcun deterioramento od incompatibilità con il confinamento solitario, oltre al fatto che l’amministrazione penitenziaria aveva aumentato l’intensità del follow-up medico per garantire un adeguato collocamento detentivo. Le doglianze del detenuto in ogni caso incidevano su un aspetto delicato, ovvero sulla sproporzionalità della misura in vista di comprovate patologie psichiche, che legano il soggetto
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La Risoluzione A/RES/70/175 del 2015 ha adottato le cosiddette “Nelson Mandela Rules”, riguardanti gli standard minimi da rispettare per il trattamento dei prigionieri. Si tratta di un tributo all’ex Presidente del Sudafrica, che scontò 27 anni in prigione per la sua lotta contro l’apartheid, per i diritti umani, l’eguaglianza e la democrazia. Ai fini di queste regole, l’isolamento significa isolare un detenuto per 22 ore al giorno o più, senza un vero contatto umano, la cui protrazione significa il mantenimento del regime di isolamento per un periodo superiore a 15 giorni consecutivi.
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alla necessità di beni superflui non ammessi durante il regime carcerario, circostanza che non integrava un imperativo di sicurezza, ma soprattutto denotava una personalità fragile che non risultava compatibile col regime di isolamento. La difesa rimarcava quindi la necessità, al fine della prosecuzione della misura, di una specifica valutazione circa l’idoneità al collocamento in cella di isolamento e l’eventuale pregiudizio prognostico della sua continuazione sull’integrità psicofisica del reo, che non doveva limitarsi al solo parere dei medici del centro penitenziario, ma integrare una valutazione psichiatrica fondata sui criteri scientifici dell’accertamento peritale. La pronuncia della Corte risulta dirimente, affermando che l’isolamento non è di per sé contrario all’art. 3 della Convenzione; la compatibilità di una misura di isolamento viene infatti valutata in base alla sua durata, al suo rigore, all’obiettivo che persegue e ai suoi effetti sulla persona detenuta. Qualsiasi decisione di porre in isolamento o di estendere la misura deve essere debitamente motivata, essere soggetta ad un esame in evoluzione delle circostanze, della situazione e del comportamento della persona detenuta e quest’ultima deve poter beneficiare di garanzie procedurali al fine di evitare qualsiasi rischio di arbitrarietà2. Nel caso di specie, i Giudici di Strasburgo rilevano che se, secondo il ricorrente, i prodotti trovati durante le perquisizioni della sua cella non presentavano particolari pericoli, l’amministrazione penitenziaria ha unicamente basato la sua decisione sul suo profilo penale e sulla sua significativa capacità finanziaria del detenuto che gli consentiva di ottenere servizi da persone esterne, disturbando così l’ordine pubblico in detenzione. La Corte non ha riservato dubbi sull’obiettivo della misura controversa, vale a dire la protezione dell’ordine interno dell’istituto carcerario o dei suoi occupanti, la cui sorveglianza del ricorrente ha ripetutamente causato, anche quando egli è stato posto in isolamento, incidenti che, messi in prospettiva con il profilo criminale della persona interessata, avrebbero ben potuto far temere la commissione di altri reati. La Corte afferma quindi che la decisione di isolare il richiedente, presa dal direttore dello stabilimento per un periodo di tre mesi, come autorizzato dalle leggi e dai regolamenti interni, sia regolare e dai rilievi documentali agli atti non risulta aver avuto effetti negativi sul detenuto a seguito del protrarsi dell’isolamento, posto che il ricorrente non ha mai sostenuto, né dinanzi ai giudici nazionali, né dinanzi alla Corte che la durata complessiva del suo isolamento costituiva un trattamento disumano o degradante. Inoltre, il ricorrente non si è lamentato delle condizioni materiali della sua collocazione in isolamento, tanto più che il direttore della prigione ha comunque deciso di sospendere la misura prima della sua fine, dopo aver notato uno sviluppo positivo nella condotta del richiedente, riservando comunque dato il profilo un regime che riduce al minimo l’accesso alle comunicazioni telefoniche, i diritti della famiglia, il diritto all’informazione, l’accesso alla mensa e una passeggiata giornaliera. Il Consesso adito ha rilevato poi che anche se l’amministrazione penitenziaria non aveva effettuato alcuna valutazione esterna sull’idoneità al confinamento, risultava comunque che lo stato di salute del detenuto non giustificasse, in ogni caso, l’uso di tale competenza, dopo la sua uscita dall’Ospedale psichiatrico, tanto più sulla base dei referti di dimissione. In effetti, come notato dai Tribunali nazionali, non vi era alcuna prova di un peggioramento dello stato di salute dell’esponente: da un lato, lo stesso era stato dimesso il giorno lavorativo successivo
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Ramirez Sanchez c. Francia [GC], n. 59450/00, §§ 123, 139 e 145, CEDU 2006-IX, Onoufriou c. Cipro, n. 24407/04, §§ 69 -70, 7 gennaio 2010 e AT (n. 2) v. Estonia, n. 70465/14, §§ 72-73, CEDU 2018).
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al suo ricovero, in quanto ritenuto dallo psichiatra non necessario un ulteriore trattenimento; d’altra parte, l’unico attestato prodotto dal richiedente era quello dello psicologo del centro che aveva mostrato uno “sviluppo definito” nelle sue condizioni di salute. Infine, per quanto riguarda le garanzie procedurali, la Corte nota che i documenti nel fascicolo hanno perdipiù mostrato che il richiedente aveva beneficiato di un pieno contraddittorio, alla presenza del suo avvocato, in un’audizione prima del suo collocamento in isolamento, cosicché neppure i suoi diritti alla difesa ne fossero stati compromessi.
4. Conclusioni. La Corte ha quindi concluso che il richiedente era stato messo in isolamento parziale e relativo giustificato per giustificati motivi di sicurezza, compatibilmente con il suo stato di salute, che era stato oggetto di un adeguato controllo medico, interno da parte dei medici della struttura carceraria ed esterno da parte del personale dell’Ospedale psichiatrico, cui il soggetto era stato ricoverato, godendo di tutte le garanzie procedurali, tanto da far rigettare alla Corte EDU qualsiasi doglianza circa un’applicazione arbitraria della misura.
Andrea Racca
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Osservatorio
normativo
Il d.l. 33/2020: cornice giuridica e disciplina della c.d. “fase 2” Andrea Bernabale
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La gestione dell’emergenza tra dd.ll. e d.P.C.m. – 3. Circolazione nel territorio regionale e nazionale. – 4. Misure di quarantena. – 5. Riunioni e funzioni religiose. – 6. Attività didattiche e formative. – 7. Attività economiche, produttive e sociali – 8. Sanzioni.
1. Introduzione. Dalla delibera del CdM del 31 gennaio 2020, dichiarante lo stato di emergenza, le varie fasi della gestione epidemiologica Covid-19 sono state accompagnate e scandite, ex art. 77 e 87 Cost., da una serie di decreti-legge e d.P.C.m. (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), che hanno permesso – seppur limitando alcuni diritti e libertà fondamentali – di controllare l’andamento del virus. Dal c.d. lockdown, quale unica misura fattualmente in grado di evitare una diffusione incontrollata dell’epidemia e insostenibile per il sistema sanitario nazionale, nel mese di maggio si è entrati nella “fase 2” di convivenza con il virus, nella quale parte delle misure draconiane - sebbene necessarie – adottate in precedenza vengono sostituite, o integrate, da altrettante misure volte ad allentare limitazioni alla libertà personale ed economica. Il d.l. 16 maggio 2020, n. 33, da leggersi comunque assieme al d.l. 19/2020 che più volte richiama, costituisce pertanto, oltre al momento normativo simbolico di passaggio alla “fase 2”, anche la cornice giuridica nel periodo compreso tra il 18 maggio e il 31 luglio 2020, come disposto all’art. 3 comma 1 del decreto, fatte salve condizioni di peggioramento della curva epidemiologica che richiedano nuovamente un inasprimento delle misure e “un passo indietro”. Il presente decreto rappresenta quindi un ritorno ad una certa “normalità”, consentendo nuovamente gli spostamenti – in un primo momento solo all’interno del territorio regionale – e la ripresa delle attività lavorative nel rispetto delle misure cautelari igienico-sanitarie ormai pressoché interiorizzate e divenute abitudinarie. Si compone di soli quattro articoli, recanti ulteriori misure per fronteggiare l’emergenza epidemiologica, disciplinando precipuamente le misure di contenimento e le sanzioni e controlli, lasciando ai d.P.C.m. la funzione integrativa e attuativa. Si fa menzione, quindi, della libertà di circolazione, della disciplina della quarantena, della libertà di riunione e delle funzioni religiose, delle attività didattiche e formative e, infine, delle attività economiche, produttive e sociali. È bene comunque ricordare, come prima accennato, che il precedente d.l. n. 19/2020 non è sostituito ma è invero “integrato” dal d.l. n. 33/2020 qui in esame, eccetto talune misure limitative caratterizzanti il precedente decretolegge che cessano di avere efficacia, rimanendo fermi invece i profili sanzionatori, che restano lo strumento giuridico di riferimento, di cui all’art.4 del d.l. n. 19/2020. Si consideri, infine, in questa premessa, il ruolo centrale del Governo attraverso l’adozione dei d.P.C.m., che devono
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essere comunque illustrati previamente alle Camere o, in caso di impossibilità, entro quindici giorni dall’adozione del provvedimento. A tal riguardo si colloca anche il ruolo sussidiario delle Regioni che, nelle more dell’adozione dei d.P.C.m., possono attuare misure derogatorie, ampliative o restrittive e l’adozione di protocolli e linee guida.
2. La gestione dell’emergenza tra dd.ll. e d.P.C.m. Il decreto-legge n.33/2020, al quale ne è subito seguito il d.P.C.m. del 17 maggio 2020 fornendone ulteriore regolamentazione, si aggiunge al corredo di atti normativi utilizzati per fronteggiare l’emergenza epidemiologica. Per capirne la ratio, va ricordato come quest’ultima sia stata affrontata dapprima mediante secondo la strumentazione giuridica offerta dal Codice di protezione civile (d.l. n. 1/2018), di cui si ricorda l’art. 5, co. 1, per il quale si attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri la facoltà di emettere ordinanze – in materie circoscritte – tramite il Capo del dipartimento della protezione civile, previa dichiarazione dello stato d’emergenza, emessa dal CdM il 31 gennaio. Alle ordinanze del Presidente del Consiglio, prese di comune accordo con il Capo della protezione civile, possono affiancarsi anche le ordinanze del Ministro della Salute (art. 32 legge n. 833/1978) e dei Presidenti regionali e dei Sindaci (art. 117 d.l. n. 112/1998 e art. 50 d.l. 267/2000). Data la gravità dell’emergenza e la diffusione su vasta scala del virus, tanto da essere proclamata dall’OMS la pandemia, nonché la necessità di ricorrere alla riserva di legge per “sospendere” de facto alcune garanzie costituzionali1, si è posta altresì la necessità di intervenire attraverso lo strumento legislativo primario di carattere straordinario, ex art. 77 Cost., e quindi mediante l’adozione di una serie di decreti-legge corredati da d.P.C.m. a tutela della salute e dell’interesse della collettività (art. 32 Cost.). Il d.l. n. 33/2020, così come il precedente d.l. n. 19/2020, funge pertanto come strumento normativo di riferimento per l’adozione di misure stringenti e pervasive, nonché come base giuridica per l’adozione dei d.P.C.m. ampiamente utilizzati nel corso dell’emergenza.
3. Circolazione nel territorio regionale e nazionale. Quanto al contenuto effettivo del d.l. n. 33/2020, il provvedimento è introdotto visti gli artt. 77 e 87 della Costituzione, quali riferimenti dello strumento del decreto-legge, e dell’art. 16, comma 1, Cost., che consente limitazioni alla libertà di circolazione per ragioni sanitarie, nonché dall’emergenza epidemiologica che ha reso necessaria l’adozione di ulteriori misure di contenimento. La prima parte prevede disposizioni concernenti la circolazione dei cittadini, di cui all’art. 1, co. 1, riguardante gli spostamenti all’interno della regione, si dichiarano inefficaci, a partire dal 18 maggio, tutte le misure limitative previste dal d.l. n. 19/2020 del 25 marzo, fatto salvo che possano essere reiterate in aree circoscritte del territorio ove si verifichi una recrudescenza del-
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In particolare, ci si riferisce all’art. 13 (libertà personale); art. 16 (diritto di circolazione e di soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale); art. 17 (diritto di riunione); art. 19 (diritto di esercizio pubblico del culto); art. 24 (diritto di agire in giudizio e di difesa in giudizio); art. 33 (diritto all’istruzione); art. 41 (libertà di iniziativa economica privata).
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le condizioni sanitarie. Il ripristino delle precedenti misure ostative della libertà di circolazione è dunque vincolato a due chiare condizioni: aggravamento della situazione epidemiologica e circoscrizione applicativa delle misure di ripristino alle sole aree interessate. Riguardo agli spostamenti interregionali, invece, l’art.1 stabilisce che fino al 2 giugno 2020 questi sono vietati, salvo comprovate esigenze lavorative o di salute (comma 2), mentre a decorrere dal 2 giugno 2020 tali limitazioni cessano di avere efficacia (comma 3), salvo la necessità di ripristino in determinate aree, ai sensi dell’art. 2 del d.l. n. 19/2020. Si disciplinano anche gli spostamenti da e per l’estero, vietati fino al 2 giugno 2020, eccetto comprovate necessità lavorative e di salute o di rientro domiciliare, limitazioni che cessano di avere efficacia a decorrere dal 2 giugno 2020 (comma 4). Il contenuto del comma 4 è poi ulteriormente disciplinato dal d.P.C.m. del 17 maggio 2020, di cui all’art. 62. Gli spostamenti tra lo Stato della Città del Vaticano o la Repubblica di San Marino e le regioni ad essi confinanti non sono soggetti ad alcuna limitazione (comma 5).
4. Misure di quarantena. L’articolo 1 offre poi disposizioni, al comma 6 e ss., per la circolazione in relazione alle misure di quarantena, vietando la possibilità di mobilità dalla propria abitazione dell’ammalato, fino alla comprovata guarigione e, a tal riguardo, il d.P.C.m. del 17 maggio 2020 lo individua nel soggetto con infezione respiratoria caratterizzata da febbre maggiore di 37,5° C [art.1, co.1, lett. a)]. Restano tuttavia perplessità riguardo i tempi e i modi dell’accertamento della guarigione, non disciplinati dalla legge. Al comma 7, viene invece prevista la quarantena precauzionale per coloro che, pur non essendo ammalati, siano stati a “stretto” contatto con persone positive al virus e di cui, il d.P.C.m. del 17 maggio 2020 ne dispone la quarantena per la durata di quattordici giorni.
5. Riunioni e funzioni religiose. Seguono, nei commi 8-10, disposizioni relative alle riunioni in luoghi pubblici o aperti al pubblico, ripristinando quanto tutelato nell’art. 17 della Costituzione, ma si fa espresso divieto di assembramenti, ponendo quindi un limite, peraltro di carattere tecnico-scientifico, stabilendo normativamente la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro. Si attribuisce, poi, in capo al Sindaco, la facoltà di poter disporre la chiusura temporanea di specifiche aree pubbliche o aperte al pubblico in cui non sia possibile garantire la distanza di sicurezza (art. 1, co. 9). Così anche le funzioni religiose sono tenute a svolgersi nel rispetto dei protocolli firmati dal Governo e la confessione religiosa interessata. Tali protocolli devono contenere tutte le misure necessarie a prevenire rischi di contagio e costituiscono allegati al d.P.C.m. del 17 maggio 2020.
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Il d.P.C.m. del 17 maggio 2020, attuativo del d.l. n. 33/2020, prevede che a decorrere dal 3 giugno 2020 non sono soggetti ad alcuna limitazione gli spostamenti da e per: a) gli Stati membri dell’Unione Europea; b) Stati parte dell’accordo di Schengen; c) Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord; d) Andorra, Principato di Monaco; e) Repubblica di San Marino e Stato della Città del Vaticano. Ad esclusione di essi, gli spostamenti sono vietati fino al 15 giugno 2020.
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Osservatorio normativo
6. Attività didattiche e formative. Quanto alle attività didattiche, formative e di formazione superiore si stabilisce, al comma 13, la disciplina mediante provvedimenti attuativi nel rispetto del d.l. n. 19/2020 più volte richiamato. La disposizione non reca quindi un esplicito divieto delle attività didattiche e formative di ogni ordine e grado, sospese, invece, dal d.P.C.m. del 4 marzo 2020, né tantomeno ne indica una modalità di possibile svolgimento alternativo – che verosimilmente può essere rappresentata dalla didattica a distanza già prevista dai precedenti dd.ll. – ma si limita a rimettere la decisione ad un provvedimento attuativo che sia in ottemperanza al d.l. n. 19/2020. Si è risposto a tale necessità con il d.P.C.m. del 17 maggio 2020, che ha confermato la sospensione delle attività didattiche di ogni ordine e grado, comprese le università, fino al 14 giugno 2020, fermo restando la possibilità di svolgere le attività formative a distanza, richiamando quindi l’art. 1, co. 2, del d.l. n. 19/2020.
7. Attività economiche, produttive e sociali. A completare l’articolo 1, commi 14-16, vi sono infine le disposizioni per la ripresa delle attività economiche, produttive e sociali in condizioni di sicurezza. Si stabilisce che le attività economiche possano esercitarsi purché “nel rispetto dei contenuti di protocolli o linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi, adottati dalle regioni o dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome nel rispetto dei principi contenuti nei protocolli o nelle linee guida nazionali” (art. 1, co. 14) e che le misure limitative possano essere adottate, nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, con d.P.C.m. e, nelle more di quest’ultimo, con provvedimenti regionali. Va ricordato che, in mancanza di protocolli regionali, trovano diretta attuazione i protocolli o le linee guida adottati a livello nazionale. Al fine di garantire uno svolgimento delle attività lavorative in condizioni di sicurezza, si dispone, al comma 16, il monitoraggio quotidiano dell’andamento della situazione epidemiologica, che vengono comunicati dalle Regioni al Ministero della Salute, all’istituto superiore di sanità e al Comitato tecnico-scientifico. Sempre riguardo il ruolo delle Regioni, esse possono, nelle more dei d.P.C.m., adottare provvedimenti derogatori, ampliativi o restrittivi rispetto a quelli dei d.P.C.m.
8. Sanzioni. L’articolo 2 stabilisce, invece, il regime sanzionatorio per l’inosservanza delle misure di contenimento del d.l. qui in esame, prevedendo sanzioni amministrative per la generalità delle violazioni e sanzioni penali per la sola misura della quarantena applicata al soggetto positivo al virus, e quindi per violazione dell’art. 1, comma 1, lett. a) del d.P.C.m. del 17 maggio 2020, che obbliga il positivo di restare presso la propria abitazione. Le violazioni del presente decreto sono quindi punite con sanzione amministrativa, ovvero con il pagamento di una somma da 400 a 3000 euro, rafforzata con pena accessoria nel caso in cui la violazione sia commessa nell’esercizio di un’impresa, prevedendo la chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni (art. 2, co. 1). Nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione la sanzione amministrativa è raddoppiata e quella accessoria, ovvero di chiusura dell’attività, è applicata nella misura massima edittale (art. 2, co. 2).
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Il d.l. 33/2020: cornice giuridica e disciplina della c.d. “fase 2”
Quanto alle sanzioni penali è previsto, ai sensi del comma 3, che l’inosservanza dell’art.1, comma 6 (inosservanza della quarantena) è punita ex art. 260 del regio decreto del 27 luglio 1934, n. 1265, implicante l’arresto da 3 a 18 mesi. La sanzione penale si applica, altresì, per inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità (art.650 c.p.), che devono quindi essere individuali e concreti3, e per i quali si configura la c.d. norma penale in bianco, id est la fonte di rango primario rinvia alla fonte regolamentare, rispettando il principio di riserva di legge (art. 25, comma 2, Cost.).
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Cass. Pen. Sez. I n. 15936/2013.
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Osservatorio
internazionale
Lo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente e la tutela attraverso il diritto penale Miriam Fiordellisi A partire dagli scorsi anni Settanta, la crescente presa d’atto del progressivo deterioramento degli ecosistemi e dell’estensione oltre i confini nazionali dei disastri ambientali ha determinato numerose istituzioni si attivassero per trovare soluzioni condivise di fronte a minacce globali. Sul piano internazionale, la necessità di tutelare l’ambiente quale bene giuridico è stata evidenziata per la prima volta nell’ambito della Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite (UNCHE, United Nations Conference on Human Environment), tenutasi dal 5 al 16 giugno 1972. Nella Dichiarazione conclusiva, posta l’esigenza di realizzare una cooperazione tra i governi nell’interesse comune, sono stati sanciti alcuni principi che dovrebbero orientare l’uomo a preservare e migliorare l’ambiente, anche nel rispetto delle generazioni future. La Dichiarazione ha incoraggiato la stipulazione di accordi multilaterali, che, a partire da quel momento, hanno visto una notevole proliferazione, e ha determinato l’istituzione di tre organismi: l’UNEP (United Nations Environment Programme – Programma Ambiente delle Nazioni Unite), la Commissione Brundtland su Ambiente e Sviluppo (WCED, World Commission on Environment and Development) e il Panel scientifico intergovernativo per lo studio dei cambiamenti climatici (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change). Nel “rapporto Brundtland”1, lo sviluppo sostenibile è stato definito come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». La consapevolezza della necessità di un programma coordinato per lo sviluppo sostenibile del pianeta ha portato, poi, nel 1992 alla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio De Janeiro, nota anche come Summit della Terra o Eco. Al termine della Conferenza, si sono raggiunti importanti risultati di seguito riferiti, volti ad individuare vari ambiti in cui si declina la tutela del più generico bene “ambiente”. Nella Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo è utile rilevare innanzitutto il Principio 3, che prevede che il diritto allo sviluppo debba essere realizzato in modo da soddisfare equamente sia le esigenze delle generazioni presenti che di quelle future. Il Principio 11 dispone l’attuazione da parte degli Stati aderenti di un’efficace legislazione ambientale, con standard adeguati al contesto di riferimento. Il Principio 13 prevede che gli Stati adottino leggi nazionali riguardanti la responsabilità civile e l’indennizzo delle vittime dell’inquinamento e di altri danni ambientali, nonché “leggi internazionali riguardanti la responsabilità civile e l’indennizzo
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La World Commission on Environment and Development, presieduta dal primo ministro norvegese Gro Harem Brundtland, pubblicò il testo nel 1987.
Osservatorio internazionale
per gli effetti nocivi dei danni ambientali provocati nell’ambito della loro giurisdizione o del loro controllo su zone al di fuori della loro giurisdizione”. Meritevole di menzione è soprattutto il disposto del numero 15, che sancisce il principio di precauzione, in forza del quale gli Stati, di fronte ad ipotesi prospettabili di danni irreversibili all’ambiente, dovranno adottare un approccio cautelativo2, non potendo per di più invocare l’eventuale assenza di certezza scientifica al fine di giustificare un rinvio di opere di prevenzione del degrado ambientale. Il numero 16, invece, stabilisce il principio del “chi inquina paga”, volto a garantire che non sia lo Stato a dover sostenere il costo dell’inquinamento, tenendo conto dell’interesse pubblico. L’Agenda 21 è un piano d’azione per determinare gli Stati a una collaborazione globale per le sfide del ventunesimo secolo riguardanti lo sviluppo e l’ambiente. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici (UNFCCC), detta anche Rio+20, ha qualificato il sistema climatico come bene pubblico globale che, a causa dell’alterazione subita per vari gas c.d. “ad effetto serra”, necessita di una tutela da realizzare attraverso politiche per la riduzione delle emissioni nocive. A partire dal 1995 viene convocata annualmente la Conferenza delle Parti (COP) che verifica l’ottemperanza agli impegni assunti da parte dei Paesi firmatari della Convenzione. Il Protocollo aggiuntivo a quest’ultima, c.d. Protocollo di Kyoto, approvato l’11 dicembre 1997 durante la terza COP, nell’affermare la maggiore responsabilità dei Paesi industrializzati per le emissioni, ha posto degli obiettivi vincolanti sulle riduzioni dei gas per trentasette Paesi e l’allora Comunità europea. Il Protocollo è entrato in vigore nel 2005 a seguito della ratifica da parte della Russia, che ha permesso di raggiungere il numero minimo di Paesi richiesto perché esso divenisse efficace. Al momento si contano 192 membri. La Convenzione sulla diversità biologica è volta a promuovere l’assistenza a Paesi in via di sviluppo per un equilibrato utilizzo delle risorse biologiche degli ecosistemi3. I prossimi passi da compiere sono abbozzati nel documento “Zero draft of the post-2020 global biodiversity framework”, predisposto dal Working group 2020, organo della Convenzione. L’obiettivo di fondo, che orienta le varie proposte da discutere negli incontri futuri, consiste nel vivere in armonia con la natura nel 2050. Anche in questo caso, spicca la mancata ratifica della Convenzione da parte degli Stati Uniti, che ha minato l’efficacia stessa del trattato. Un ulteriore documento approvato a margine della Conferenza di Rio è stata approvata la Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste, documento che definisce i principii da porre alla base della salvaguardia del patrimonio forestale.
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Alla stregua di tale principio, ogni scelta da compiersi in condizioni di incertezza andrebbe valutata in base alla peggiore delle sue conseguenze possibili (“strategia maximin” o “criterio di Wald”). Vedasi J. Rawls, A Theory of Justice, 1971, trad. it.: Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 2008. Pertanto, il principio di precauzione imporrebbe di adottare tutte le misure necessarie per azzerare o contenere la minaccia in questione, finanche, se necessario, astenersi dallo svolgimento dell’attività rischiosa. Da ciò scaturiscono riflessioni sull’eventuale incidenza di tale principio sul piano penalistico, che involgono sia la tipicità che l’elemento soggettivo del reato, cfr. A. Massaro, Principio di precauzione e diritto penale: nihil novi sub sole?, in www.penalecontemporaneo.it, 2011. I. Salvemme, Il ruolo del principio di precauzione nel “nuovo” diritto penale dell’ambiente, in Diritto Penale Contemporaneo, 2018, 1, 243 ss. 3 Ulteriori accordi conclusi nell’ambito della Conferenza sulla diversità biologica sono il Protocollo di Cartagena sulla sicurezza biologica, il Protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche e l’equa condivisione dei vantaggi derivanti dal loro utilizzo, nonché il Piano Strategico globale per la biodiversità 2011-2020.
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Lo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente e la tutela attraverso il diritto penale
La Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta contro la desertificazione (UNCCD, United Nations Convention to Combat Desertification in Countries Experiencing Serious Drought and/ or Desertification, particularly in Africa), adottata a Parigi nel 1994, che, nei Paesi colpiti da siccità, mira al recupero delle terre da coltivare e alla loro gestione sostenibile, attraverso l’erogazione, da parte dei Paesi industrializzati, di risorse finanziarie. Di notevole importanza è l’Accordo di Parigi del 2015, che pone, quale obiettivo di lungo termine, il contenimento dell’aumento della temperatura al di sotto dei 2°. Sono stati posti, inoltre, obiettivi di mitigazione, di adattamento, di trasformazione delle economie - rendendo compatibili i flussi finanziari con l’azione di riduzione dei gas ad effetto serra - e di rafforzamento delle attività di capacity bulding nei Paesi in via di Sviluppo. La protezione degli ecosistemi e della biodiversità rientra anche tra i Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, essendo prevista dall’Obiettivo n. 15. Tale Agenda indica i traguardi che dovrebbero raggiungersi entro il suddetto anno e rappresenta un programma volto ad orientare l’azione politica degli Stati che vi aderiscono. Da tale ricostruzione si evince la complessità della cornice giuridica, la quale include numerosi obiettivi in relazione ai diversi elementi della macro-categoria “ambiente”. Il messaggio di fondo, comunque, è che di fronte a minacce transnazionali, che non conoscono confini, vada adottato un approccio comune e condiviso. È per questa ragione che, in generale, si è tentata una graduale internazionalizzazione anche del diritto penale4, non solo attraverso la previsione di norme definitorie all’interno di convenzioni e trattati internazionali volte ad orientare le scelte legislative dei singoli Stati, ma anche grazie alla cooperazione giudiziaria tra due o più Paesi5. Si rende necessario impedire le minacce all’ambiente proprio per il conseguimento degli obiettivi posti dai trattati e dalle dichiarazioni internazionali. In generale, le offese all’ambiente interessano il diritto penale per almeno tre profili. In primis, esse ledono un bene giuridico cui è stata riconosciuta specifica tutela, in considerazione della rilevanza che esso ha nella vita dell’uomo, nonché nella perpetuazione del mondo stesso. In realtà, la centralità dell’ambiente quale specifico bene oggetto di tutela delle fattispecie penali è emersa solo in tempi molto recenti negli ordinamenti nazionali, con l’inizio del nuovo millennio, preferendosi in passato la predisposizione di una tutela “per settori”, ancorata al diritto amministrativo6. Ciò può ricollegarsi al fatto che, mentre i reati “classici” constano di condotte di notevole disvalore che apportano un beneficio soltanto a coloro che li compiono, nella configurazione degli “ecoreati” occorre realizzare un bilanciamento tra i benefici che determinate attività possono offrire alla società in termini economici e i loro costi ambientali7. Col tempo ci si è resi conto della inefficacia e dei limiti di un approccio legato esclusivamente
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G. Stea, La cooperazione per la neutralizzazione del crimine transnazionale tra sovranità, ne bis in idem e cittadinanza, in Archivio penale, 2019, 1, pp. 1 ss. 5 In Europa in ambito ambientale ciò si realizza grazie ad Eurojust e al Monitoraggio globale per l’ambiente e la sicurezza. 6 S.F. Mandiberg, M.G. Faure, A Graduated Punishment Approach to Environmental Crimes: Beyond Vindication of Administrative Authority in the United States and Europe, in Columbia Journal of Environmental Law, 2008, pp. 448 ss. 7 Id., cit.
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Osservatorio internazionale
alla sanzione dell’inadempimento di obblighi amministrativi, che avrebbe escluso la punibilità per gravi condotte inquinanti non ricollegabili a questa situazione. Risale al 1994 la risoluzione n. 15 del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite “The Role of Criminal Law in Protection of the Environment” che, indicando come punti di riferimento i principi di precauzione e del “chi inquina paga” contenuti nella Dichiarazione di Rio, ha raccomandato agli Stati Membri di emanare opportune disposizioni penali e di favorire l’uso dello strumento della confisca dei beni utilizzati per commettere il reato8. Anche la Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione del Crimine e la Giustizia Penale nel 1995 ha affrontato il tema dell’introduzione di reati ambientali, invitando gli Stati Membri a riconoscere le forme più serie dei suddetti crimini all’interno di una convenzione internazionale. Ad oggi, tuttavia, essa non è ancora stata elaborata. Nel 1998 il Consiglio d’Europa ha approvato la “Convenzione per la protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale”, volta a migliorare il sistema di tutela, ricorrendo a uno strumento che costituisce l’extrema ratio, e ad armonizzare le legislazioni nazionali in materia. Soltanto quattordici Stati, tuttavia, hanno firmato la Convenzione e solo uno9 l’ha ratificata; pertanto, essa non è ancora entrata in vigore. Negli anni seguenti, anche lì dove la tutela ambientale era stata predisposta attraverso lo strumento penalistico della contravvenzione10, nella costruzione della norma l’ambiente era spesso il bene su cui ricadeva la condotta, mentre l’oggettività tutelata variava di volta in volta, potendo consistere nella salute umana, nell’ambiente stesso o nei suoi usi legittimi, oppure nell’esercizio delle funzioni della pubblica amministrazione11. Con l’evolversi del dibattito sulla necessità di ricorrere al diritto penale per difendere più efficacemente l’ambiente, in molti Stati si sono attuate riforme volte ad introdurre delitti qualificati proprio per l’offesa a tale bene giuridico. In Italia l’adozione della legge 22 maggio 2015, n. 68 è stata il frutto, non tanto dell’ottemperanza alla soft law degli atti internazionali, quanto dell’attuazione della direttiva 2008/99/CE (la c.d. Ecocrime Directive), che aveva posto l’obbligo, in capo agli Stati Membri dell’Unione Europea, di predisporre un sistema sanzionatorio più dissuasivo per le offese all’ambiente12. Guardando al secondo profilo d’interesse penalistico, le contaminazioni ambientali possono, talvolta, avere riflessi negativi sulla salute umana, ragion per cui potrebbero insorgere profili di responsabilità per reati contro l’incolumità individuale e pubblica in capo agli agenti,
8
P. Manzini, M.F. Portincasa, La tutela dell’ambiente. Profili penali e sanzionatori, a cura di P. D’Agostino, R. SaPadova, 2011. 9 L’Estonia nel 2002. 10 Si veda, in Italia, il decreto legislativo 3 giugno 2006, n. 152 (c.d. TUA: Testo Unico dell’Ambiente). 11 C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, 6. 12 Un tentativo in tal senso era già stato fatto dalla decisione-quadro 2003/80/GAI, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, che obbligava gli Stati membri ad adottare, entro gennaio 2005, misure conformi alle disposizioni in essa contenute, tra cui disposizioni di delitti ambientali complessi, a tutela sia della salute che dell’ambiente. La decisione era, però, stata annullata da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) e seguita dalla proposta di direttiva di protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale. Si rimanda a A. Satta, Disastro ambientale e rifiuti radioattivi. Prevenzione e sanzione. Unione Europea, Italia, Spagna, Napoli, 2008, 134. lomone,
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Lo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente e la tutela attraverso il diritto penale
qualora si provasse il rapporto di causalità tra evento inquinante realizzato e danno alle persone fisiche13. Infine, i comportamenti che provocano danni all’ambiente sono spesso rivelatori di reati c.d. economici, volti a generare un ingiusto profitto a vantaggio di imprenditori e, soprattutto, della criminalità organizzata, con riferimento alla quale è stato coniato il termine “ecomafia”14. Si riporta che la criminalità ambientale sia la quarta forma più vasta di criminalità organizzata transnazionale, con un guadagno stimato tra i 90 e i 258 miliardi di dollari annui15. L’insieme di questi argomenti ha indotto una parte della dottrina16 ad auspicare il riconoscimento dei più gravi crimini ambientali quali crimini internazionali. Essendo, infatti, previsto dallo Statuto di Roma, per il tramite del Protocollo I alla Convenzione di Ginevra, il divieto dell’uso di metodi di guerra che possano causare danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale17, si ritiene che lo stesso limite potrebbe prevedersi per l’ipotesi di determinazione di tali disastri in tempo di pace. Attraverso un apposito emendamento, le condotte in oggetto andrebbero inserite, per l’opinione qui riportata, tra i “crimini contro l’umanità” elencati dall’art. 7 dello Statuto di Roma18, per evidenziare ancor di più il disvalore di tali azioni e la loro la condanna di tali azioni da parte della comunità internazionale. Una simile evoluzione sembrava ardua da ipotizzare, ma in realtà si sta definendo: nel 2016, la Corte Penale Internazionale ha emanato un documento in cui affermava che il suo pubblico ministero avrebbe preso in considerazione il perseguimento di reati commessi attraverso “la distruzione dell’ambiente, lo sfruttamento illegale delle risorse naturali o l’espropriazione illegale di terreni”19. Sono ancora molte, tuttavia, le associazioni ambientaliste che lottano per l’introduzione di tali crimini nel catalogo dell’art. 7, per ottenere un più solido riconoscimento del disvalore delle condotte concretantisi in disastri ecologici. Dal diritto internazionale ambientale al diritto penale nazionale; dal diritto penale nazionale al diritto penale internazionale. La tutela ambientale sembra aver acquisito sempre più preponderanza nelle scelte di policymaking, divenendo la cornice all’interno della quale delineare il quadro per lo sviluppo sostenibile dell’economia e della società20.
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S. Zirulia, I riflessi del danno ambientale sulla salute umana. Criticità e prospettive della prova epidemiologica, in Diritto Penale Contemporaneo, 2018, 1, 212 ss. 14 Il termine è apparso per la prima volta in un rapporto dell’associazione Legambiente, Le ecomafie – il ruolo della criminalità organizzata nell’illegalità ambientale, in collaborazione con Eurispes e con l’Arma dei Carabinieri. 15 E. Vermeersch et al., The State of Knowledge of Crimes that have Serious Impacts on the Environment, United Nations Environment Programme, 2018. 16 Ex multis, P. Manzini, M.F. Portincasa, op. cit., p. 42. 17 Art. 8 lett. b), punto IV, dello Statuto della Corte Penale Internazionale. 18 È l’opinione di Wattad, The Rome Statute and Captain Planet: What lies between “Crimes Against Humanity” and the “Natural Environment”?, in Fordham Environmental Law Review, 2009, 268 s. 19 Si rimanda al “Policy paper on case selection and priorisation” su www.icc-cpi.int. 20 G.L. Bulsei, Ambiente e politiche pubbliche. Dai concetti ai percorsi di ricerca, Carocci, 2005.
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Osservatorio
europeo
Giornata internazionale in memoria delle vittime della Tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù. Sviluppi legislativi Italiani ed europei Antonio De Lucia Il 25 marzo 2020 è stato dedicato ad una giornata per il ricordo delle vittime della più grande migrazione della storia. Dal 2007 le Nazioni Unite celebrano la “Giornata internazionale in memoria delle vittime della schiavitù e del commercio degli schiavi transatlantici” istituita con la risoluzione 62/122. In particolare, per l’edizione del 2020, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha scelto il tema: “Affrontare insieme il razzismo, eredità della schiavitù”. Volendo però, traslare l’argomento in esame è interessante soffermarsi sul fatto che già da alcuni anni ed in relazione alla sempre più angustiante crisi migratoria in corso, tutti i maggiori Stati dell’Unione e il Parlamento UE hanno dato priorità alla lotta contro la tratta di esseri umani e al reato della riduzione in schiavitù, tema che anche in relazione alla collocazione geografica e agli indubbi retaggi culturali, coinvolge l’Italia tanto come membro UE, quanto come Paese in prima linea. La strategia dell’Unione europea è da tempo incentrata sulle vittime e sui loro diritti umani, riconoscendo, tra l’altro, particolare attenzione ai minori, nell’ottica di un’azione coordinata e multidisciplinare. La «tratta di esseri umani» è definita, come si evince dall’articolo 2 della direttiva 2011/36/ UE, «1) (...) il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento. 2) Per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. 3) Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, compreso l’accattonaggio, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi. 4) Il consenso della vittima della tratta di esseri umani allo sfruttamento, programmato o effettivo, è irrilevante in presenza di uno dei mezzi indicati al paragrafo 1.5. La condotta di cui al paragrafo 1, qualora coinvolga minori, è punita come reato di tratta di esseri umani anche in assenza di uno dei mezzi indicati al paragrafo 1». Solo dalla lettura del precedente testo emerge in modo chiaro che il raggiungimento degli obiettivi preposti non può essere oggetto di una attenzione saltuaria e singolare. Appare, evidentemente, indispensabile e non rinviabile il coordinamento delle politiche a livello europee tra l’Ue e gli altri Paesi del mondo. Sono numerosi gli strumenti di diritto internazionale che espressamente vietano la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù.
Osservatorio europeo
Molteplici in ambito UE sono stati gli strumenti generati atti a far fronte a tale fenomeno, basti ricordare la decisione Quadro del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento sessuale o di manodopera La direttiva 2004/81/CE del Consiglio del 29 aprile 2004 I programmi comunitari a sostegno delle azioni di prevenzione e contrasto alla tratta La Dichiarazione di Bruxelles sulla prevenzione e lotta al traffico di esseri umani I meccanismi di cooperazione e coordinamento La prevenzione del traffico di esseri umani La protezione e assistenza alle vittime La cooperazione giudiziaria e di Polizia. A livello di Unione Europea, dunque, il quadro giuridico e politico riconosce la tratta come fenomeno di genere e impone agli Stati membri di porre in essere azioni specifiche. La natura transazionale dei fenomeni della tratta e della schiavitù hanno già impegnato il Governo ad adottare strumenti di partenariato e collaborazione con gli altri Stati interessati, sia nell’ottica della prevenzione dei reati e della cooperazione investigativa e giudiziaria, sia per favorire lo scambio di buone pratiche e di strumenti di lavoro, particolarmente rispetto ai Paesi di origine. A ben vedere, inoltre, la costruzione della strategia italiana non si è mai allontanata dal quadro delineato a livello europeo ed internazionale, ed in particolare dalla Strategia dell’UE per l’eradicazione della tratta degli esseri umani in particolare dalla Convenzione di Varsavia ratificata con Legge 108/2010 nell’ordinamento italiano o dalle Raccomandazioni del Gruppo GRETA, dell’OSCE, dello Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children delle Nazioni Unite e delle Raccomandazioni accettate dall’Italia in occasione della Revisione Periodica Universale II Ciclo. La tratta di esseri umani è espressamente punita nel nostro ordinamento dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2003 con la quale sono stati riscritti gli articoli del codice penale già relativi alla riduzione in schiavitù (artt. 600, 601 e 602). La definizione delle condotte punibili a titolo di tratta è stata poi ampliata dal decreto legislativo n. 24 del 2014 che ha dedicato attenzione anche al profilo del risarcimento delle vittime. Le circostanze che comportano un aumento delle pene in caso di commissione di questi delitti sono state modificate dalla legge n. 108 del 2010 che ha inserito nel codice penale l’art. 602bis. La disciplina del traffico di esseri umani nel nostro Paese è prevalentemente frutto dell’attuazione di normativa di derivazione europea (decisione quadro 2002/629/GAI e poi direttiva 2011/36/UE) e di convenzioni internazionali. In tale contesto, è da ricordare che, nel corso della XVI legislatura il Parlamento ha approvato la legge 2 luglio 2010, n. 108, con la quale ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 2005 (c.d. Convenzione di Varsavia), conseguentemente adeguando l’ordinamento interno. La legge summenzionata ratifica la Convenzione e detta disposizioni di adeguamento dell’ordinamento interno. In particolare, la legge rielabora e novella le fattispecie penali già previste dal codice atte a punire la tratta di esseri umani. In ragione dell’intervento legislativo del 2003, l’ordinamento italiano, in effetti, non ha avuto bisogno di pesanti misure di adeguamento alla Convenzione di Varsavia e si è rivelata sufficiente una novella delle circostanze aggravanti dei già previsti delitti di tratta. Infatti, per i delitti di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p., tutti puniti con la reclusione da otto a venti anni, il codice dal 2003 prevedeva le medesime circostanze aggravanti – da cui derivava l’aumento della pena da un terzo alla metà – collegate alla minore età della vittima, ovvero alla finalizzazione del delitto allo sfruttamento della prostituzione o al traffico di organi.
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Giornata internazionale in memoria delle vittime della Tratta di esseri umani e riduzione in schiavitù
La legge 108/2010 ha abrogato le singole aggravanti previste dagli articoli 600, 601 e 602, introducendo nel codice penale un nuovo articolo (art. 602-ter), rubricato Circostanze aggravanti. Infine, nella XVII legislatura, il Governo ha emanato il decreto legislativo n. 24 del 2014, con il quale ha dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. Lunga e complessa appare dunque la strada al fine di far fronte alle problematiche sottese ed in questo contesto che l’Italia ha approvato in via definitiva, il 4 giugno 2020, il disegno di legge relativo alla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani adottata a Varsavia il 16 maggio 2005, già in vigore dal 1° dicembre 2008 (la Convenzione è stata già ratificata da 28 Stati). La legge italiana di ratifica introduce alcune modifiche al codice penale soprattutto sotto il profilo delle aggravanti. Grazie alla nuova legge, infatti, è stato introdotto l’articolo 602-ter che disciplina le circostanze aggravanti per i reati di riduzione in schiavitù, di tratta di persone e di commercio di schiavi. Per questi reati è prevista la reclusione da otto a venti anni con un incremento che va da un terzo fino alla metà della pena. A fronte di questo rapido exscursus appare evidente che la schiavitù esiste ancora oggi, registrando considerevoli casi, tanto che, citando le Nazioni Unite, si giunge a una conclusione impensabile: in termini assoluti ci sono più schiavi nel mondo oggi che in qualsiasi altro momento della storia. Oltre quaranta milioni di persone, infatti, vivono in condizione di totale sfruttamento. Circa la metà vive in Asia, ma non è un problema circoscritto, il fenomeno esiste in tutte le aree del mondo e comprende tutte le fasce d’età, dai bambini agli adulti. E soprattutto non è un problema legato solo allo sfruttamento della prostituzione, come si potrebbe immaginare, gli schiavi attuali si possono trovare nelle fabbriche, nei cantieri, nei lavori agricoli, nelle attività di pesca. Sono quelli che garantiscono prodotti e cibo, molte volte, agli abitanti dei Paesi più ricchi.
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Osservatorio
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I reati tributari: focus su riciclaggio e autoriciglaggio Elena Valguarnera Nel novero sempre più ampio e crescente dei fenomeni criminali in Italia, come nel resto del mondo, non esiste ambito delinquenziale tanto multiforme e diversificato come quello della così detta “criminalità economica”. Il “reato economico”, da sempre, ha costituito una categoria dall’arduo inquadramento sistematico, contenente condotte profondamente eterogenee. Si definiscono, infatti, reati tributari quei comportamenti illeciti di particolare gravità, puntualmente descritti dalla legge come “reati finanziari”1. Il mercato finanziario, infatti, come ogni altra attività è soggetto a leggi previste dal codice civile e dal codice penale. L’attuale sistema normativo previsto per i reati tributari è frutto di un lungo percorso normativo che, il legislatore, in relazione ai diversi periodi storici ed economici, ha più volte mutato la propria direzione verso un più accentuato rigore sanzionatorio, o, alternativamente, verso una blanda risposta punitiva in base a diverse e spesso opposte scelte di politica criminale. Da ciò, risulta incisiva nel nostro ordinamento, la repressione alle condotte volte alla commissione i reati economici. Negli ultimi anni la giurisprudenza di riferimento ha, infatti, individuato nel riciclaggio2 e nell’autoriciclaggio3 uno strumento di ausilio alla lotta all’evasione fiscale a cui è legata un’innegabile capacità di alterare la corretta concorrenza sul mercato.
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I crimini finanziari sono tutti quei reati in grado di condizionare negativamente l’andamento dell’economia nazionale e internazionale a livello di imprese pubbliche, private e mercati borsistici. Previsti all’interno di leggi speciali, TUF, codice penale, civile e del recente d.lgs. n. 21/2018 i crimini finanziari sono talmente tanti e complessi che è impossibile, in questa sede, fornirne una panoramica esaustiva. Gli autori dei reati finanziari sono in genere dirigenti o soggetti con ruoli di prestigio, motivo per il quale vengono definiti “reati dei colletti bianchi”. Secondo la definizione di Sutherland infatti: “Il criminale dal colletto bianco può essere definito come quella persona con un alto stato socio-economico che viola le leggi designate a regolare le sue attività occupazionali”. 2 Articolo 648-bis del codice penale. “Fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quatto a dodici anni e con la multa da euro 5.000,00 a euro 25.000,00. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di una attività professionale. La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo di cinque anni. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648”. 3 Art. 648-ter 1 del codice penale. “Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500
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Evitando di soffermarsi sulle fattispecie penali del reato di riciclaggio che – in via generale – diamo per note a chi legge, appare utile e necessario fare un excursus storico che ha portato all’introduzione ed all’evoluzione dell’ipotesi dei reati in parola. In particolare, l’articolo 648-bis c.p. (rubricato per l’appunto Riciclaggio) è stato aggiunto dall’articolo 3 D.L. 21 marzo 1978 n. 59, convertito con la legge n. 19l del 18 maggio dello stesso anno e, sostituito prima dall’articolo 23 della legge del 19 marzo del 1990 n. 55 e dall’articolo 4 legge del 9 agosto 1993 n. 328. L’ultima modifica si è avuta con l’articolo 3 della legge 15 dicembre 2014 n. 186, riportante “disposizioni in materia di emissione e rientro di capitali detenuti all’estero nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio”. Non è infatti un caso che, in tema di riciclaggio, la ratio sottesa al nuovo testo sia stata quella di ridisegnare la fattispecie di reato, abbandonando la configurazione tipica – di reato a consumazione anticipata – della materialità del reato come “fatti o atti diretti alla sostituzione di denaro o altre utilità provenienti da particolari e gravi delitti”. L’attuale fattispecie, infatti, si articola in due ipotesi fattuali: la prima consiste nella sostituzione del denaro o delle altre utilità provenienti da specifici delitti; la seconda opera come formula chiusa, incriminando qualsiasi condotta che sia tale da frapporre ostacoli all’identificazione del denaro4. In tema di autoriciclaggio, diversamente, rilevano penalmente le condotte di sostituzione, che avvengono attraverso la reimmissione – nel circuito economico-finanziario e/o imprenditoriale – del denaro o dei beni di provenienza illecita; tali condotte devono essere finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio, non presupponendo o implicando anche il trasferimento di titolarità dei beni in oggetto.5 Entrando nel merito della questione, il tema della compatibilità tra riciclaggio, autoriciclaggio e reati tributari appare segnato da un affievolimento del legame con il delitto presupposto. Si passa, infatti, da una figura nata come reato ostacolo di gravi delitti, a uno strumento versatile di contrasto della criminalità economica. Da qui l’estensione, prima, nel novero dei delitti presupposto, che richiamano, per l’appunto, le “utilità di provenienza delittuosa”; sino a giungere, poi, alla previsione clausola di chiusura sul riferimento al delitto non colposo quale fonte del denaro (beni, e altra utilità), non in grado di assolvere a una funzione selettiva sul piano della tipologia criminosa ma, pur sempre tale da non fare ritenere sufficiente, almeno sulla carta, la sola prova della generica provenienza illecita dell’oggetto del riciclaggio6.
a euro 12.500 se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni. Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale. La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto”. 4 In tal senso Cassazione Penale Sezione I n. 7558/1993. 5 In tal senso Cassazione Penale Sezione II n. 25979/2018. 6 Per un approfondimento della normativa in materia v. M. Zanchetti, voce Riciclaggio, cit., p. 204 s.; M. Angelini,
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Da quanto detto, ne consegue necessariamente che, il presupposto teleologico del reato di riciclaggio possa configurarsi unicamente nei delitti arrecanti un arricchimento evidente e tangibile nella disponibilità dell’autore. Arricchimento che deve essere fisicamente localizzabile e dunque, “isolabile [...] e riconoscibile nel complesso del patrimonio dell’autore”7 riferendosi a tal riguardo alla “identificabilità in senso civilistico” del provento8. Per quanto attiene ai reati tributari, invece, nel momento in cui il codice ne ha ampliato il novero, l’aspetto problematico e interpretativo che ne scaturisce (nel confronto tra il delitto di riciclaggio/autoriciclaggio) è dato dall’assenza di mutazioni di fatto nel patrimonio del soggetto agente, tale da renderne difficile la collocazione delle fattispecie criminose tributarie tra i reati di cui agli articoli 648-bis e 648-ter c.p. Da ciò, ne consegue che il riciclaggio, il reimpiego e lo stesso autoriciclaggio richiedono, nell’ambito delle loro tassative formulazioni, il concetto di “provenienza” da delitto non colposo dei beni, dei denari e delle altre utilità, in quanto tali reati, sussistono solo in presenza di una somma di denaro o altra utilità proveniente dal reato e successivamente destinata al riciclo, apportando un incremento patrimoniale del reo tale da integrare l’oggetto materiale della condotta. Invero, nella maggior parte dei reati fiscali il soggetto agente non vanta una somma di denaro come provento del reato, bensì un risparmio derivante dalla mancata corresponsione di quanto dovuto all’amministrazione finanziaria9. Sebbene il tema della possibilità di configurare – quale profitto illecito riciclabile – anche il risparmio di imposta derivante dalla consumazione di un reato tributario apre la prospettiva della contestazione all’autore del reato presupposto dell’ipotesi di autoriciclaggio, al fine di evitare che una nozione troppo ampia di profitto illecito derivante da risparmio fiscale delittuoso determini la punibilità di qualsiasi operazione compiuta sul proprio patrimonio da parte dell’autore del delitto tributario, appare necessario limitare la punibilità per la condotta di autoriciclaggio da reato fiscale ai soli casi in cui: a) vi sia attività di impiego successivo all’evasione di imposta così che autoriciclaggio e reato finanziario non coincidano; b) sia individuabile con precisione un’attività di impiego del denaro frutto del risparmio fiscale illecito con nesso di derivazione causale10. Alla luce di tali considerazioni il ragionamento fin ora seguito farebbe venir meno ogni ostilità al riconoscimento dei reati fiscali come delitti-fonte del riciclaggio ma, non di superare tutte le perplessità in relazione alla conformità della fattispecie per la quale è indispensabile
voce Riciclaggio, in Dig. disc. pen., Aggiornamento, Tomo II, N-Z, Torino, 2006, pp. 1392 ss.; V. Manes, voce Riciclaggio e reimpiego di capitali illeciti, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, vol. V, Milano, 2006, p. 5229 s. 7 Trib. Milano, Ufficio G.i.p., ord. 19 febbraio 1999, in Foro ambr., 1999, con nota di G. Flora, Sulla configurabilità del riciclaggio di proventi da frode fiscale, pp. 441 ss. 8 S. Giavazzi, I reati societari e fiscali quali reati-presupposto del riciclaggio, in Riciclaggio e imprese. Il contrasto alla circolazione dei proventi illeciti, a cura di S. Giavazzi e M. Arnone, Milano, 2011, pp. 108 ss., che ritiene configurabile il riciclaggio rispetto ai reati fiscali finalizzati all’indebito rimborso o di omesso versamento di quanto dovuto all’erario 9 I. Pardo, Riciclaggio e autoriciclaggio da frode fiscale e reati tributari, dicembre 2019, reperibile al seguente link: http://ilpenalista.it/articoli/focus/riciclaggio-e-autoriciclaggio-da-frode-fiscale-e-reati-tributari. 10 Ibidem.
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che la condotta riciclatoria sia tale da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni o utilità di derivazione criminosa.
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L’istmo del Canale di Panama ai tempi del Covid-19 di Paola Pisanelli Nero Il coronavirus non ha risparmiato nemmeno questo piccolo angolo di mondo che è l’istmo di Panama e che oggi conta circa 54.426 casi di contagio, di cui 29.164 risolti, 22.806 in isolamento domiciliare e 1127 deceduti (dati Ministerio de Salud fonte Minsa-Gorgas). La conseguente crisi economica mondiale farà sentire i suoi effetti sul canale più sul lungo termine che sull’immediato, come riporta Ricaurte Vásquez Morales Amministratore della ACP, Autoridad del Canal de Panamá e soprattutto lungo la rotta commerciale delle esportazioni dall’Asia da e verso gli Stati Uniti, che rappresenta la tratta marittima commerciale con una rilevante richiesta per il Canale di Panama. La via interoceanica, che collega 1.700 porti e serve 144 rotte marittime che 160 paesi utilizzano, “continuerà a funzionare finché il capitale umano non sarà a rischio”, così riferisce ancora l’Amministratore della ACP e che in un suo post aggiunge “...non si è registrato un impatto a breve termine sul traffico e la fila di navi in attesa di transito è rimasta inizialmente nei livelli normali. Tuttavia, poiché le ondate di impatto iniziano a moltiplicarsi e i cambiamenti nel settore accelerano, il Canale di Panama si sta preparando a ad affrontare i cambiamenti del commercio marittimo sul lungo termine…Prima di tutto, non mi preoccupo di iniziare a vedere da subito una lenta riduzione del traffico sulla via navigabile. Il nostro lavoro come centro logistico globale deve essere preparato per gli imprevisti, siamo addestrati per soddisfare i flussi e riflussi del mercato ed abbiamo oltre un secolo di esperienza nel farlo. Come già descritto in un mio precedente intervento, stiamo monitorando attentamente le principali variabili di mercato per garantire che il nostro servizio continui a soddisfare le esigenze dei mercati globali di domani. Tuttavia, penso che domani sia solo una piccola parte dell’equazione. Prepararsi per dopodomani e oltre dopodomani è lo stesso, se non più importante per l’amministrazione del Canale di Panama. Stiamo ancora avanzando diligentemente con i nostri progetti e potenziali investimenti che assicurano l’evoluzione e la continua competitività della nostra via navigabile. Guardare al lungo termine è cruciale alla luce delle tendenze del settore e che abbiamo seguito da prima dell’epidemia di coronavirus. Ad esempio, abbiamo anticipato mesi fa che la disputa commerciale tra gli Stati Uniti d’America e la Cina avrebbe potuto generare cambiamenti del settore, in primo luogo con una riduzione dei flussi, seguita da una possibile ridistribuzione dell’origine e destinazione dei manufatti, poiché le aziende cercano di avvicinarsi ai consumatori e ridurre il rischio di commissioni a lungo termine. Nel mio primo intervento come amministratore, ho accennato a questa nuova realtà emergente e di conseguenza l’ho inclusa nei nostri piani a lungo termine. Arrivando velocemente ai nostri giorni, questi cambiamenti stanno accadendo a un ritmo accelerato a causa della pandemia e della conseguente crisi economica, mentre le tensioni commerciali hanno portato ad una diminuzione del volume del commercio mondiale di merci a dello 0,1% dall’anno scorso, e si prevede che diminuirà ulteriormente nel 2020 in risposta alla pandemia di coronavirus, secondo l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC),
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L’OMC prevede inoltre che le esportazioni dal Nord America e dall’Asia subiranno il calo più grave, anche se quasi tutte le regioni vedranno quest’anno cali a due cifre nei volumi commerciali. Vediamo un cambiamento permanente nell’economia complessiva della domanda e dell’offerta che guida il nostro intero settore, che ridefinirà il nostro modo di fare affari per gli anni a venire. Di conseguenza, stiamo accelerando la nostra risposta pianificata. Il team del Canale di Panama seguirà da vicino il modo in cui verranno ristrutturate le catene di approvvigionamento nei prossimi mesi. Quando la pandemia di coronavirus si attenuerà, monitoreremo anche in che modo i governi regoleranno in modo coerente e aggressivo l’industria dei trasporti. Attraverso questa conoscenza, identificheremo e cercheremo opportunità per aggiungere più valore ai nostri clienti, diversificare il nostro portfolio e adattarci al nuovo equilibrio dei trasporti, questo perché, come dimostrato con il progetto di ampliamento, il Canale di Panama è impegnato a investire nel suo futuro per servire meglio il commercio mondiale. Certamente, oggi faremo il possibile per essere un partner affidabile ed in grado di adattarsi all’industria dei trasporti, ciò include l’adeguamento del nostro sistema di prenotazione come abbiamo appena annunciato, in risposta ai commenti recentemente ricevuti dai nostri clienti sulle loro attuali sfide e necessità. Le nostre nuove misure temporanee aiuteranno a migliorare i flussi di cassa delle compagnie di navigazione e offriranno maggiore flessibilità ai clienti per scambiare o sostituire le quote di prenotazione tra la propria flotta. Il nostro obiettivo è ridurre oggi l’onere finanziario per i nostri clienti, garantendo al contempo che siamo pronti per il loro futuro più luminoso domani. Il mese scorso, il Fondo Monetario Internazionale ha previsto per l’economia globale una potenziale crescita del 5,8% nel 2021 quando la pandemia si ritirerà e l’attività economica tornerà alla normalità. La nostra pianificazione anticipata e l’approccio flessibile mirano ad aiutare a preparare la strada per quel futuro. Ci sarà luce alla fine del tunnel e prevediamo di essere pronti a supportare i nostri clienti quando verrà quel giorno. Nel frattempo, il Canale di Panama continuerà a svolgere un ruolo fondamentale nel garantire che i bisogni di base delle persone, compresi cibo e medicine, siano soddisfatti ogni giorno durante la pandemia. Indipendentemente da ciò che il domani potrà portare, non smetteremo mai di essere orgogliosi dei nostri contributi al commercio internazionale, alle economie globali e alla sostenibilità dell’umanità nel suo insieme. La ACP è l’autorità panamense incaricata dell’amministrazione, della gestione, manutenzione e costruzione dell’ampliamento della via d’acqua interoceanica. Ha definito ed adottato, di concerto con il Ministero della Salute e l’Autorità Marittima, alcuni protocolli sanitari di sicurezza per contrastare la diffusione del Covid-19. Panama è uno dei paesi dell’America Latina con un’esposizione maggiore alle malattie infettive rispetto ad altri paesi vicini in quanto il 6% del commercio globale passa proprio attraverso la via d’acqua. E l’adozione di queste misure restrittive anti-Covid ha necessariamente avuto un forte impatto sulle tempistiche di transito del canale con l’applicazione dei protocolli di controllo sanitario da effettuare a bordo, con il trattenimento di navi in quarantena, con la riorganizzazione del personale addetto che si trova in prima linea di contatto sulla via d’acqua, con la riduzione in squadre ridotte di addetti e turnazioni diverse per minimizzare il rischio di contagio e sempre con livelli di attenzione altissimi per garantire il funzionamento sicuro della via d’acqua, che da più di un secolo collega le più importanti rotte interoceaniche.
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Nonostante le misure restrittive adottate da gennaio 2020, il 29 marzo 2020 la ACP Autoridad del Canal de Panamá, il Ministero della Salute e l’Autorità Marittima, si sono trovati a dover affrontare e gestire un’emergenza di una nave da crociera “contagiata”, la Holland America’s MS Zaandam, notizia che in breve tempo è stata registrata ed annunciata da tutti i media del mondo. Le autorità panamensi si sono trovate di fronte ad una situazione molto complessa e singolare e la nave da crociera giunta in acque panamensi è stata inizialmente lasciata in zona di quarantena, come previsto dai protocolli ed una volta eseguiti i test a bordo a passeggeri ed equipaggio, sono risultati due pazienti positivi e quattro adulti, i più anziani, provenienti dagli Stati Uniti, Svezia, Regno Unito e Paesi Bassi, sono purtroppo deceduti. Il venerdì 27 marzo si registravano inoltre altre decine delle 1.800 persone a bordo, incluso qualche membro dell’equipaggio, con sintomi verosimilmente influenzali
La nave Zaandam era partita dall’Argentina il 7 marzo ed avrebbe dovuto raggiungere Fort Lauderdale, in Florida; ma prima di raggiungere il 27 marzo le acque panamensi, la crociera aveva chiesto a diversi porti sudamericani di poter attraccare, ma si erano tutti rifiutati di lasciarla approdare e si trovava quindi dal 14 marzo bloccata al largo dell’America centrale.
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La ACP, che in un primo momento aveva posto come da protocollo la nave in quarantena, effettuati i controlli, vista la gravità della situazione dei passeggeri e l’alto rischio di contagio, di concerto con il governo panamense, ha autorizzato l’arrivo della nave gemella Rotterdam, che salpata da San Diego è giunta in aiuto alla Zaandam con del personale medico. La nave Rotterdam ha raggiunto le acque panamensi lo stesso giorno in cui purtroppo si sono verificati i quattro decessi. Le autorità panamensi si sono quindi attivate per l’organizzazione e gestione del trasferimento di tutti passeggeri asintomatici dalla Zaandam alla Rotterdam, attraverso navi da sbarco passeggeri. La ACP con il suo personale specializzato ha predisposto e pianificato il trasferimento in ogni sua fase, che è stata preventivamente analizzata, programmata e coordinata con un’attenta gestione di un’operazione mai fatta prima di allora. Il trasferimento delle persone, senza sintomi di coronavirus, è stato necessario per prevenire la diffusione del virus a tutti i passeggeri a bordo che per l’85% erano tutte persone ad alto rischio in quanto con più di 65 anni. Il trasferimento è stato effettuato attraverso le nuove chiuse post-panamax, costruite con il progetto di ampliamento finito di realizzare nel 2016, e che richiedono meno impegno del personale addetto al canale per il transito.
Le due navi, rispettivamente la Zaandam, con i passeggeri ed i membri dell’equipaggio con sintomi da coronavirus e la Rotterdam con passeggeri con test negativo, hanno avuto in via del tutto eccezionale l’autorizzazione dal governo panamense di proseguire il loro viaggio verso le loro destinazioni ed attraversare il canale. Questa decisione di consentire a cittadini statunitensi e di altre nazionalità di ritornare nei loro paesi d’origine, oltre ad essere una misura straordinaria è stato un atto umanitario dello stato panamense che ha avuto l’apprezzamento dell’opinione internazionale e del governo degli Stati Uniti e degli altri paesi coinvolti, in quanto oltre a rappresentare un’operazione complessa ed ad altissimo rischio, ha rappresentato un atto di solidarietà, di umanità e generosità e di orgoglio panamense. Questa vicenda pone una riflessione a livello internazionale, che non riguarda solo l’applicazione di disposizioni sanitarie per il comparto del trasporto marittimo e crocieristico, che è uno dei settori duramente colpiti dalla pandemia ed affinché possa ripartire in sicurez292
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za, necessita di una definizione di protocolli sanitari urgenti specifici per le compagnie di navigazione, per il settore portuale e per le vie d’acqua di ogni nazione, non solo per proteggere i passeggeri del turismo crocieristico, ma anche per il personale marittimo imbarcato ed a terra, che si potrebbero trovare ad affrontare situazioni di emergenza, come il caso della Zaandam, che grazie al know-how panamense di oltre un secolo è stato eccellentemente affrontato. I protocolli di protezione, che sono stati applicati nell’immediato, hanno necessità di essere coordinati con tutte le parti sociali, con la gestione della logistica e dei cambi di equipaggio per la tutela dei lavoratori del comparto, che in questo periodo di pandemia, andrebbero anche essi ricordati e ringraziati per non essersi mai fermati per garantire “porti aperti” e l’approvvigionamento delle merci e dei beni necessari all’umanità confinata. Il turismo crocieristico si trova oggi ad affrontare un periodo di grande sfida e con esso tutte le filiere connesse, per questo alcune compagnie di navigazione stanno già studiando delle soluzioni per far ripartire il settore. L’esperienza della Zaandam, ha evidenziato che nel breve e nel lungo termine è necessario ripensare l’organizzazione funzionale e distributiva delle navi da crociera, nonché la gestione del servizio di bordo. I passeggeri della Zaandam, per non essere esposti al contagio, sono stati obbligati al confinamento nelle loro cabine, limitandone la libertà individuale, e questo ha imposto nell’immediato la necessità di dotate tutte le imbarcazioni crocieristiche di zone compartimentate protette, di attuare un servizio di cleaning in continuo, di eliminare i servizi di ristorazione a buffet ed altre disposizioni, tutte atte a garantire il rispetto delle norme anti-contagio. Nel futuro più prossimo e per il lungo termine, il comparto si è attivato con i designers per ripensare il concept crocieristico e che sta cogliendo questa esperienza pandemica come un’opportunità per rinnovare le flotte nell’organizzazione, nella gestione del servizio a bordo, con nuove configurazioni distributive ed interni più funzionali e con l’adozione di materiali e di sistemi anti-Covid, per rilanciare questo settore con microcosmi galleggianti più sicuri e protetti per non limitare le libertà individuali dei crocieristi.
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