3 • luglio-settembre 2018
Rivista trimestrale 3 • luglio-settembre 2018
Il diritto penale
globalizzazione della
Il diritto penale della globalizzazione
Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini
In evidenza: Riflessioni rapsodiche su offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato Adelmo Manna La nuova causa di non punibilità della colpa medica nella giurisprudenza delle Sezioni Unite Alessandro Quattrocchi Eterodoping, autodoping e commercio illecito di sostanze anabolizzanti Alì Abukar Hayo Cooperazione in materia penale: la circolare del Dipartimento degli Affari di Giustizia del 14 giugno 2018 Andrea Racca
ISSN 2532-8433
Indice In evidenza
A cura di Ranieri Razzante, La direttiva sulla lotta al riciclaggio di denaro mediante il diritto penale...................................................................................................................................................p. 257
Editoriale A cura di Simone Rivabella, Giovanni Tartaglia Polcini, Indipendenza dei pubblici ministeri e lotta alla corruzione....................................................................................................................................» 259
Saggi Adelmo Manna, Riflessioni rapsodiche su offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato...............................................................................................» Alì Abukar Hayo, Eterodoping, autodoping e commercio illecito di sostanze anabolizzanti: il legislatore attua il principio della riserva di codice in materia di tutela sanitaria dell’attività sportiva ed introduce l’art. 586-bis c.p. [(“Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanza al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”)]..................................................» Giulia Cicolella, Tempus commissi delicti e successione di leggi nel delitto di omicidio colposo stradale ad evento differito: la questione alle Sezioni Unite Penale...................................................» Andrea Racca, Cooperazione in materia penale: la circolare del Dipartimento degli Affari di Giustizia del 14 giugno 2018..............................................................................................................»
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Giurisprudenza Nazionale Cass. Pen., Sez. U., c.c. 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 2018), n. 8770, con nota di Alessandro Quattrocchi, La nuova causa di non punibilità della colpa medica nella giurisprudenza delle Sezioni Unite.....................................................................................................» 309
Internazionale International Criminal Court, 15 June 2017 No. ICC-01/04-02/06 OA5, con nota di Nikita Micieli De Biase, Riconoscimento della competenza della Corte penale internazionale per i crimini di guerra: stupro e schiavitù sessuale nei confronti dei bambini soldato..............................................» 319
Europea CEDU, Sez. IV, 26 giugno 2018, n. 47911/05, con nota di Marta Patacchiola, Corte EDU: caso Telbis e Viziteu c. Romania.................................................................................................................» 323
Osservatorio Internazionale Massimo Labartino, La dottrina politica internazionale di Hugo Chávez: causa della storica crisi del Venezuela di oggi?.........................................................................................................................» 327 Nikita Micieli De Biase, L’Alto Commisariato ONU: richiamo per la mancata condanna della persecuzione dei Rohingya da parte di Aung San Suu Kyi................................................................» 331
Indice
Nazionale Antonio De Lucia, Art.604-bis c.p. Propaganda e istigazione a delinquere in ambito razziale, etnico e religioso: nuove prospettive....................................................................................................» 333
Europeo Miriam Ferrara, La proposta di modifica 2018/0170 (COD) relativa alle indagini dell’ufficio europeo per la lotta antifrode..............................................................................................................» 337 Marilisa De Nigris, Ergastolo ostativo: limiti e contraddizioni dell’attuale normativa tra ordinamento nazionale e comunitario..........................................................................................» 341
Normativo Marilisa De Nigris, La legittima difesa: osservazioni sulle nuove proposte........................................» 345
Focus Augusto Chiaia, Horacio Corti, Il Ministerio Publico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires.....................................................................................................................................................» 349
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In
evidenza
La direttiva sulla lotta al riciclaggio di denaro mediante il diritto penale Gentili lettori, è di questi giorni il voto del Parlamento europeo per l’approvazione della Direttiva sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale. Il provvedimento intende rafforzare il vigente quadro normativo dell’UE attraverso l’introduzione di una definizione minima del reato di riciclaggio, la sua applicazione ai reati terroristici e ad altre attività criminali gravi, nonché il riavvicinamento delle relative sanzioni. La direttiva completerà la c.d. Quinta direttiva (UE 843/2018) relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, che è stata adottata nel maggio 2018. La necessità dell’adozione di una direttiva “penale” era stata espressa nel Piano d’azione della Commissione del 2 febbraio 2016 nel quale veniva evidenziato, appunto, che gli strumenti legislativi esistenti a livello di Unione (ad esempio la decisione quadro 2001/500/GAI) erano inadeguati a contrastare efficacemente il riciclaggio ed il finanziamento del terrorismo. Il delitto di riciclaggio viene previsto nelle leggi penali di tutti gli Stati membri, tuttavia, ciascuno di essi adotta definizioni e sanzioni differenti per questo reato e i connessi reatipresupposto. Di tali differenze possono approfittare criminali e terroristi che potrebbero scegliere quali sedi privilegiate delle proprie operazioni di “lavaggio” quei Paesi dove le misure antiriciclaggio appaiano meno rigorose (c.d. “forum shopping”). Inoltre questa disomogeneità giuridica, soprattutto con riguardo alle fattispecie di reati-presupposti (come nel caso dei reati fiscali), rende ad oggi difficoltosi la cooperazione transfrontaliera di polizia e giudiziaria fra le autorità nazionali e lo scambio di informazioni tra le FIU europee. Per porre rimedio a questi aspetti, la direttiva innanzitutto elenca una lista di reati che gli Stati membri devono prevedere tra le “attività criminose” (reati-presupposto). Tale elencazione recepisce tutte le categorie di reati segnalate dal Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI) nelle Raccomandazioni 2012 e dal Consiglio d’Europa nell’Appendice della Convenzione di Varsavia del 2005, con l’aggiunta di un’importante novità quale la criminalità informatica. Altro aspetto da evidenziare è la previsione dell’obbligo di incriminazione del reato di autoriciclaggio (non presente in tutti gli ordinamenti degli Stati membri), limitatamente alle condotte di conversione o trasferimento di beni provenienti da attività criminosa e occultamento o dissimulazione, non anche a quella di detenzione o utilizzazione. Questa esclusione tiene in considerazione le scelte di quei Paesi europei che non contemplano il “mero godimento personale” dei proventi del reato tra i comportamenti punibili per il delitto di autoriciclaggio (così come l’art. 648 ter-1 del codice penale italiano che lo prevede espressamente come clausola di non punibilità). Merita di essere segnalata, in aggiunta, la norma che introduce una soglia minima per la sanzione massima, fissandola a quattro anni almeno per i casi gravi. Un regime sanzionatorio omogeneo, oltre a rafforzare l’effetto deterrente e facilitare la cooperazione di polizia e giudiziaria, come anticipato, sarà utile a contrastare il fenomeno del forum shopping. In tale ottica, la direttiva impone agli ordinamenti nazionali di prevedere la responsabilità delle persone giuridiche, elencando inoltre una serie di sanzioni pecuniarie (penali e non).
In evidenza
Il provvedimento include anche norme per stabilire la giurisdizione e per disciplinare la cooperazione transfrontaliera tra gli Stati membri (artt.9 e 10). La nuova direttiva entrerà in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea; da quella data gli Stati membri avranno fino a 24 mesi per recepire le nuove disposizioni nella legislazione nazionale. Ranieri Razzante
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Editoriale
Indipendenza dei pubblici ministeri e lotta alla corruzione L’indipendenza dei pubblici ministeri è un elemento indispensabile nella lotta contro la corruzione. I rappresentanti della pubblica accusa hanno il potere di decidere l’esercizio dell’azione penale e giocano un ruolo essenziale nell’arco di tutto il processo, dalla fase delle indagini all’ultimo grado di giudizio. L’integrità di questi operatori del diritto è pertanto decisiva nella possibilità di garantire una corretta applicazione della legge. Elemento cruciale dell’integrità dei pubblici ministeri è tuttavia anche la loro indipendenza, tanto individuale, quanto istituzionale, politica ed economica. Il fenomeno corruttivo è per definizione legato alle istituzioni politiche. La lotta alla corruzione, e in primis la repressione dei reati di corruzione, esige che chi impone l’applicazione della legge sia libero da potenziali pressioni esterne provenienti dai centri politici dello stato, in particolare l’esecutivo e il parlamento. La possibilità di condizionare l’azione dei pubblici ministeri rischia infatti di minare un tassello fondamentale nel corretto funzionamento della giustizia. Allo stesso tempo, la garanzia di un giusto processo richiede una chiara distinzione del ruolo pubblici ministeri da quello dei giudici. Sebbene i diversi ordinamenti presentino molte differenze, anche sostanziali, tra gli status e le funzioni conferite ai pubblici ministeri, l’indipendenza e l’autonomia dei procuratori costituiscono ovunque un indispensabile corollario all’indipendenza del sistema giudiziario nel suo complesso. Negli ultimi decenni molte organizzazioni internazionali hanno riconosciuto l’importanza fondamentale di questi organi dello stato nella possibilità di garantire una giustizia equa ed efficiente. Sono pertanto stati elaborati principi, linee guida e norme che hanno stabilito nuovi standard internazionali in tema di indipendenza dei pubblici ministeri1. Il Network Anti-Corruzione per l’Est Europa e l’Asia Centrale2 (ACN) e l’Iniziativa Anti-Corruzione per l’Asia-Pacifico3 sono programmi regionali che fanno parte delle Global Relations
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Tra le principali fonti di diritto internazionale in tema di indipendenza dei pubblici ministeri si annoverano: la Convenzione Contro la Corruzione (UNCAC), delle Nazioni Unite ; le Linee Guida sul Ruolo dei Pubblici Ministeri, delle Nazioni Unite ; la Convenzione Anti-Corruzione dell’OCSE ; il “Documento di Roma” (Rome Charter), del Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (CCPE); la Raccomandazione Rec (2000)19 sul ruolo dei pubblici ministeri nel sistema giudiziario penale, del Consiglio d’Europa; gli “Standard per la responsabilità professionale e diritti e doveri essenziali dei pubblici ministeri” (Standards of Professional Responsibility and Statement of the Essential Duties and Rights of Prosecutors), dell’Associazione Internazionale dei Pubblici Ministeri (IAP). 2 L’ACN (Anti-Corruption Network) è aperto a tutti i paesi dell’Est Europa e dell’Asia Centrale, tra cui Albania, Armenia, Azerbaijan, Bielorussias, Bosnia Herzegovina, Bulgaria, Croazia, Estonia, FYROM, Georgia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Lettonia, Lituania, Moldavia, Mongolia, Montenegro, Romania, Russia, Serbia, Slovenia, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. Diverse organizzazioni internazionali, governative e non governative, partecipano alle attività dell’ACN. 3 L’Iniziativa Anti-Corruzione per l’Asia-Pacifico (Anti-Corruption Initiative for Asia-Pacific) è stata istituita nel 1999 sotto la leadership congiunta della ADB (Asian Development Bank) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). All’interno dell’iniziativa, 31 governi della regione Asia-Pacifico hanno stabilito una cooperazione nella lotta contro la corruzione, al fine di combattere i suoi effetti negativi sulla stabilità politica, il
Editoriale
del Gruppo di Lavoro sulla Corruzione dell’OCSE. Il loro obiettivo principale è l’istituzione di forum regionali per la promozione di riforme anticorruzione, la cooperazione internazionale in materia penale e l’elaborazione di buone pratiche nelle regioni in cui operano. A febbraio 2018 il Segretariato dei due gruppi regionali, con sede negli uffici OCSE di Parigi, ha lanciato uno studio congiunto sull’indipendenza che godono i pubblici ministeri nei paesi dell’ACN e della regione Asia-Pacifico. Lo studio è volto ad analizzare con una ricerca comparativa la conformità dei diversi ordinamenti agli standard internazionali in materia di indipendenza dei pubblici ministeri. L’analisi identificherà tendenze, buone pratiche e problematiche comuni al fine di fornire raccomandazioni generali per la macro-regione in esame. I dati per l’elaborazione dello studio provengono sia dai paesi, che partecipano su base volontaria, sia dalle ricerche effettuate autonomamente dal Segretariato. Sulla base degli standard stabiliti in sede internazionale, il Segretariato ha preparato un questionario di 60 domande che coprono tutti gli aspetti in cui si estrinseca l’indipendenza dei pubblici ministeri: principi generali e salvaguardie, indipendenza individuale, responsabilità, gestione delle procure, carriera e procedimenti disciplinari. Il questionario ha ricevuto risposte da 33 paesi. Anche sette paesi membri del Gruppo di Lavoro sulla Corruzione e il Libano hanno risposto al questionario al fine di condividere le loro esperienze e best practice. L’Italia, insieme a Brasile, Germania, Israele, Messico, Polonia e Regno Unito, partecipa allo studio quale membro del Gruppo di Lavoro sulla Corruzione dell’OCSE. Il sistema italiano si caratterizza per un’estrema indipendenza dei pubblici ministeri nella gestione dei casi assegnati e per una forte autonomia della categoria, garantita dal ruolo fondamentale del Consiglio Superiore della Magistratura. L’esempio italiano rappresenta sotto molti aspetti un utile punto di riferimento per quei paesi che vogliono riformare le procure nazionali incrementandone l’indipendenza e offrirà importanti spunti di riflessione. Lo studio sarà pubblicato entro fine 2018 ma dai dati ricevuti, sebbene ancora parziali e preliminari, già emergono interessanti tendenze e differenze tra gli ordinamenti esaminati4. Più del 70% dei paesi prevede l’emanazione di istruzioni generali per i pubblici ministeri e nel 10% dei casi queste linee guida sono elaborate dal governo. Poco meno del 30% non ha istituito un organo di autoregolamentazione della categoria (in Italia, il Consiglio Superiore della Magistratura). In meno del 40% degli ordinamenti i rappresentanti dei pubblici ministeri partecipano alla nomina della loro leadership nazionale (Procuratore Generale, Attorney General, ecc.), decisa in circa il 60% dei casi da governo e parlamento. In più del 20% dei paesi la leadership nazionale deve riferire al governo o al parlamento in merito a specifici procedimenti in corso. Il 45% dei sistemi esaminati considera la pubblica accusa un istituto autonomo rispetto alle altre branche dello stato. Per il 27% essa è parte della magistratura, per 14% del governo e un altro 14% ha istituito sistemi ibridi. Le informazioni raccolte sono ancora parziali ma già danno un’idea di quanto gli ordinamenti presentino soluzioni variegate nell’organizzazione delle procure e come in molti ordinamenti governo e parlamento possano influenzare il lavoro dei pubblici ministeri. In attesa dei risultati definitivi, possiamo certamente già notare come il tema dell’indipendenza dei pubblici ministeri riceva sempre maggiore attenzione, sia sul piano nazionale sia su quello internazio-
benessere delle popolazioni, lo sviluppo economico, e il commercio internazionale. 4 Considerato che il Segretariato sta ancora ricevendo dati da diversi paesi, le tendenze descritte sono da considerarsi indicative e potrebbero non rispecchiare I risultati finali dello studio.
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Editoriale
nale. La positiva risposta dei molti paesi che hanno scelto di partecipare allo studio denota una crescente sensibilizzazione sul tema, prova del fatto che anche su questioni sensibili e complesse la condivisione di esperienze rappresenta un utile strumento per la soluzione di problemi comuni. La corruzione è un problema comune a tutti i paesi e per sconfiggerla c’è bisogno di forte stato di diritto e un’esecuzione efficiente e imparziale della legge. Garantire indipendenza ai pubblici ministeri è un altro passo in questa direzione. Simone Rivabella Anti-Corruption Analyst, OECD Anti-Corruption Division Giovanni Tartaglia Polcini
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Adelmo Manna
Riflessioni rapsodiche su offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato* Sommario: 1. La responsabilità da reato dell’ente: uno o due tipi di illeciti? – 2. Sui criteri soggettivi di ascrizione del reato all’ente, laddove autore dello stesso sia un dipendente. – 3. L’ascrizione all’ente del reato commesso dalle posizioni apicali e l’inversione dell’onus probandi. – 4. L’autonomia della responsabilità da reato dell’ente ove l’autore del reato non sia identificabile. – 5. Le novità del sistema sanzionatorio con precipuo riguardo alla pena pecuniaria ed al sistema per quote, nonché la sostanziale inapplicabilità del sistema con riferimento ai delitti di terrorismo e di criminalità organizzata. – 6. La riparazione delle conseguenze del reato come causa estintiva dello stesso e, conseguentemente, anche della responsabilità da reato dell’ente, in prospettiva futura? – 7. La “concorrenza” tra la responsabilità da reato dell’ente nei settori relativi ai reati di terrorismo e criminalità organizzata ed i codici antimafia del 2011 e del 2017: riflessioni conclusive. Abstract The author deals with various issues related to offensiveness, guilt and sanctions in the structure of the offense of the offense and first asks whether the responsibility of the offender gives rise to one or two types of offenses. He then deals in particular with the subjective criteria of ascribing the offense to the institution and in particular the inversion of the onus probandi in the case in which the active subject of the crime is a top position. As for the system of sanctions, the Author signals the novelty in our system of the introduction of the system for the commutation of the pecuniary penalty c.d. “For quotas”, as well as, with particular regard to the predicate offenses, the substantial inapplicability of the system with regard to crimes of terrorism and organized crime. In terms of reform, it suggests that the reparation of the consequences of the crime, give rise no longer to a mere extenuating but to an extinctive cause of the crime and therefore also the responsibility of the institution, with particular regard to the restoration of the state of the places in environmental crimes. Finally, some interesting considerations on the relationships and intersections between Legislative Decree no. 231 of 2001 and the c.d. anti-mafia codes of 2011 and 2017, in a broader and more modern vision, even if not without perplexity, of the criminal law of the economy. L’Autore si occupa di diverse questioni attinenti a offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato ed in primo luogo si domanda se la responsabilità dell’ente da reato dia luogo ad uno o due tipi di illeciti. Si occupa poi nello specifico dei criteri soggettivi di ascrizione del reato all’ente ed in particolare dell’inversione dell’onus probandi nel caso in cui soggetto attivo del reato sia una posizione apicale. Quanto al sistema sanzionatorio, l’Autore segnale la novità nel nostro ordinamento dell’introduzione del sistema di commisurazione della pena pecuniaria c.d. “per quote”, nonché, con particolare riguardo ai reati-presupposto, la sostanziale inapplicabilità del sistema con riferimento ai delitti di terrorismo e criminalità organizzata. In chiave di riforma, suggerisce che la riparazione delle conseguenze del reato, dia luogo non più ad una mera attenuante ma ad una causa estintiva del reato e quindi anche della responsabilità dell’ente, con particolare riguardo al ripristino dello stato dei luoghi nei delitti ambientali. Da ultimo alcune interessanti considerazioni sui rapporti e le intersezioni tra il d.lgs. n. 231 del 2001 ed i c.d. codici antimafia del 2011 e del 2017, in una visione allargata e più moderna, anche se non priva di perplessità, del diritto penale dell’economia.
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Testo, rivisto e con l’aggiunta delle note, dell’Intervento alla Tavola Rotonda del Convegno su “Offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato”, tenuto presso l’Università Sapienza di Roma il 23 marzo 2018 (atti in corso di pubbl.).
Adelmo Manna
1. La responsabilità da reato dell’ente: uno o due tipi di illeciti? Tenendo conto della indubbia complessità della materia che andiamo trattando, non possono che svolgersi considerazioni rapsodiche, per l’appunto, su temi peraltro centrali della responsabilità da reato dell’ente come le tematiche indicate nel titolo del presente contributo. Onde sgombrare il campo già da un primo nodo problematico, siamo dell’avviso che con riferimento al sottosistema disciplinato dal d.lgs. 231/2001 si sia in presenza non già di due illeciti, ovverosia il reato commesso dalla persona fisica, dipendente o dirigente dell’ente, e l’illecito amministrativo commesso direttamente dalla persona giuridica, bensì di un unico illecito penale, cioè, appunto, il reato commesso dai soggetti indicati, che, nell’ambito del sistema 231, viene imputato non solo alla persona fisica, bensì anche alla persona giuridica. Siamo perfettamente consapevoli che sia in dottrina, che anche in giurisprudenza viene sostenuta la tesi opposta1, ma, per le ragioni che seguiranno, tale tesi non appare accoglibile. In primo luogo va tenuto conto in particolare degli artt. 5, 6 e 7 del d.lgs. 231/2001, che attengono alle modalità attraverso le quali il reato commesso o dal dipendente o dal dirigente viene imputato anche alla persona giuridica. Siccome si tratta di criteri di imputazione, a nostro avviso non si può da essi arguire l’esistenza, o addirittura la costruzione, di un illecito amministrativo autonomo dell’ente e diverso dal reato commesso dalla posizione apicale o dal dipendente, perché in tale ultima prospettiva si rischierebbe di fraintendere il significato delle norme in oggetto. Se infatti iniziamo dall’art. 5, ci rendiamo conto che l’ente è responsabile del reato – e quindi non già di un illecito amministrativo proprio – nell’ipotesi in cui il reato stesso si dimostri commesso anche nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo. Orbene, non v’è chi non veda che l’art. 5 non può che costruire criteri ascrittivi della responsabilità da reato all’ente, tanto è vero che l’ente risponderà del reato anche se la persona fisica ha agito nel prevalente interesse proprio ma al numero 2 dello stesso art. 5 giustamente il legislatore esclude una responsabilità dell’ente laddove le persone fisiche abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Da ciò, a nostro avviso, non può non comprendersi come trattasi di criteri ascrittivi tanto è vero che sarebbe una summa iniuria laddove l’ente dovesse rispondere di un reato commesso però non nel suo interesse o vantaggio, bensì nell’interesse o vantaggio esclusivo della persona fisica che ha commesso il reato o di terzi2.
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Cfr. per una compiuta rassegna di tali opinioni sia dottrinali che giurisprudenziali, E. Addante, La responsabilità da reato degli enti: focus sugli aspetti processuali, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, 20, Milano, 2018, 139 ss.; nonché, su di un tema più specifico, v. anche W. Nocerino, Il “nuovo” illecito amministrativo delle imprese sociali alla luce del d.lgs. 112/2017. Il valore probatorio del compliance program, ibid., 163 ss.; da ultimo, appare propendere per l’unicità dell’illecito e quindi per una responsabilità penale anche dell’ente, autorevolmente C.E. Paliero, La colpa di organizzazione tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, in RTDPE, 2018, 175 ss.; sotto quest’ultimo profilo, contra, tuttavia, nel senso di una necessaria presa di distanza dal diritto penale, M.A. Manno, Non è colpa mia! Alla ricerca della consapevolezza perduta nella responsabilità da “reato” degli enti collettivi, in ibid, 123 ss. 2 In argomento, cfr., in particolare, N. Selvaggi, L’interesse dell’ente collettivo quale criterio di ascrizione della responsabilità da reato, Napoli, 2006; nel senso invece che il sistema 231 darebbe luogo ad un illecito amministrativo dell’ente, autonomo rispetto al reato commesso dalla persona fisica, M. Gambardella, Condotte economiche e responsabilità penale, Torino, 2018; ad ogni buon conto, per un maggior approfondimento sul tema, nonché per l’indicazione delle voci dottrinarie e giurisprudenziali favorevoli alla tesi che qui si sostiene, sia consentito il rinvio
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Riflessioni rapsodiche su offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato
2. Sui criteri soggettivi di ascrizione del reato all’ente, laddove autore dello stesso sia un dipendente. Analoghe considerazioni vanno, a nostro avviso, effettuate, seppure in una prospettiva di più ampio respiro, sul problema dei criteri soggettivi di ascrizione del reato all’ente, laddove autore di quest’ultimo sia un dipendente oppure un dirigente. In argomento si poteva, in teoria, optare per il modello francese, ovverosia la responsabilità “par ricochet”, di rimbalzo, nel senso che, laddove fosse stato commesso un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente, quest’ultimo ne avrebbe risposto automaticamente3. Tale criterio di imputazione tuttavia, all’interno della commissione ministeriale che ha redatto il d.lgs. 231/2001, ha subito incontrato forti resistenze in quanto si è giustamente osservato come, nonostante la dizione poi utilizzata come responsabilità amministrativa, poteva in teoria essere eccepita la legittimità costituzionale di un siffatto modello ascrittivo, ritenendo evidentemente la responsabilità da reato di carattere in realtà penale, per contrasto con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, della Costituzione. A ciò comunque va aggiunto che quantomeno a livello di legge ordinaria la legge generale di depenalizzazione, la 689 del 1981, richiede anche per l’illecito amministrativo depenalizzato il dolo o quanto meno la colpa e, quindi, non la responsabilità oggettiva; trattasi, però, comunque, di una legge ordinaria che come tale potrebbe in teoria soffrire eccezioni. Da ciò la scelta, decisamente opposta, operata dal legislatore nostrano, ovverosia il collegamento del reato commesso dal dipendente e/o dal dirigente alla c.d. colpa dell’organizzazione, consistente sostanzialmente in un mancato controllo da parte dell’ente medesimo, attraverso i suoi organi, circa l’operato del soggetto persona fisica autore del reato4. La questione, tuttavia, si mostra più semplice per quanto riguarda ovviamente il dipendente che ha commesso un reato, perché in tal caso è possibile instaurare l’istituto dell’omesso controllo del dirigente sul dipendente, tanto è vero che sul punto le legge di delega ed il decreto legislativo delegato sono assolutamente conformi. Si può anzi, in rapporto, in particolare, all’art. 7 del d.lgs. 231/2001, fare riferimento non solo alla misura oggettiva della colpa, ma spingersi anche sul versante della misura soggettiva, nel senso di verificare se il reato del dipendente fosse in concreto prevedibile e/o evitabile in base anche al criterio, peraltro da taluni criticato, dell’homo eiusdem condicionis et professionis5.
ad A. Manna, La responsabilità da reato degli enti, in Id. (a cura di), op. cit., 65 ss. In argomento, G. De Simone, Il nuovo codice francese e la responsabilità penale delle personnes morales, in RIDPP, 1995, 223; dello stesso v. anche, più ampiamente, Id., Persone giuridiche e responsabilità da reato. Profili storici, dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012. 4 Colpa dell’organizzazione elaborata, come è noto, da K. Tiedemann, Die “Bebussung” von Unternehmen nach dem 2. Gesetz zur Bekaempfung der Wirtschaftskriminalitaet, in NJW, 1988, 1169 ss. 5 Di recente, in generale, per una rivalutazione della misura soggettiva della colpa D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; nonché, con particolare riguardo alla responsabilità da reato dell’ente, nel senso che sia possibile individuare anche in tale settore una misura soggettiva della colpa, A. Fiorella, La colpevolezza nella responsabilità dell’ente da reato, Relazione al Convegno presso l’Università Sapienza di Roma, 23 marzo 2018, dal titolo “Offensività, colpevolezza e sistema sanzionatorio nella struttura dell’illecito dell’ente da reato”. 3
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3. L’ascrizione all’ente del reato commesso dalle posizioni apicali e l’inversione dell’onus probandi. Il problema più spinoso ha riguardato però il reato commesso dalle posizioni apicali perché sotto questo profilo emerge una discrasia fra legge di delega e decreto legislativo delegato, nel senso che la prima fa riferimento sostanzialmente al criterio civilistico per cui il management agisce ovviamente “in nome e per conto” dell’ente e quindi impegna l’ente stesso, tanto che sembrerebbe potersi arguire dalla stessa legge delega che il criterio di origine civilistica di agire per nome e per conto conduca inevitabilmente ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, quanto meno utilizzando gli stilemi di carattere penalistico. La questione però si complica, perché quando si tratta del vertice dell’impresa, inevitabilmente non può che risultare valido il ben noto interrogativo: “quis custodiet custodies?”, nel senso, cioè, che, non sussistendo un organismo sovraordinato che controlli il consiglio di amministrazione ed il collegio sindacale la responsabilità da reato sembrerebbe estendersi all’ente quasi automaticamente. Pur tuttavia si è giustamente fatto presente, in seno alla commissione ministeriale che ha elaborato il decreto legislativo, come da un lato si sarebbe potuto eccepire il contrasto tra un’evidente responsabilità oggettiva e l’art. 27, comma 1, della Costituzione e soprattutto che in tal modo non si riesca a distinguere l’impresa sana dalla dirigenza incline a commettere reati giacché, come, ad esempio, avvenne diversi lustri fa quando il Corsera fu acquisito da Rizzoli e Tassan Din, poteva invece emergere, come peraltro è emerso, che in una società editrice di uno dei più importanti quotidiani italiani si era inserito un management “incline a commettere reati”. Ecco dunque la ragione per cui è divenuto necessario cercare di separare l’impresa sana dal management malato attraverso l’introduzione di una speciale defence prevista dall’art. 6 e consistente in: a) l’adozione e l’efficace attuazione da parte della dirigenza, prima della commissione del fatto di reato, di modelli di organizzazione e gestione idonea a prevenire reati di quel tipo, ovverosia i c.d. compliance programs6. Va da sé, naturalmente, che i codici di comportamento nell’ambito della responsabilità dell’ente svolgono la precipua funzione di vere e proprie norme cautelari; b) l’ente, per poter sfuggire ai rigori delle norme in oggetto, deve anche dotarsi di un organismo sovraordinato, dotato, quindi, di autonomi poteri di iniziativa e controllo, finalizzati a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei compliance programs; c) l’ente deve altresì dimostrare che le persone che hanno commesso il reato hanno eluso fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) infine, l’organo di vigilanza deve avere in generale mostrato un buon funzionamento. Orbene, a parte i delicati problemi che tale defence comporta relativamente soprattutto all’organo di vigilanza – perché bisogna chiedersi a chi debba riferire – ovviamente né al giudice penale perché inciderebbe sulla riservatezza dell’ente, né allo stesso consiglio di amministrazione se non sotto il profilo di organo di raccordo – da chi debba essere scelto, ov-
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Su tali istituti e più in generale sulla legislazione nord-americana, C. De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle società, Milano, 2002, nonché, più di recente, G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Trattato di diritto penale, dir. da C.F. Grosso - T. Padovani - A. Pagliaro, Milano, 2008; da ultimo, in argomento, seppure in una prospettiva particolare ed assai stimolante, D. Labianca, La responsabilità penale dell’impresa tra soft law e compliance programs: la codificazione etica al servizio dell’extrema ratio, in A. Manna (a cura di), op.cit., 121 ss.
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viamente non dal consiglio di amministrazione, perché altrimenti diventerebbe una farsa, e da chi deve essere retribuito7 – da questa complessa architettura normativa emerge che la defence non solo comporta un notevole costo in termini lato sensu aziendalistici, ma soprattutto dà luogo ad un meccanismo di tipo probatorio particolarmente complesso e di difficile gestione, che a nostro avviso necessiterebbe di una decisa semplificazione. Partendo, infatti, appunto dalla giusta prospettiva di semplificazione della normativa di cui stiamo discutendo8, sarebbe a nostro avviso opportuno che «l’onere di allegazione» che si richiede all’ente, che, in realtà, maschera un’inversione dell’onus probandi, a parte eventuali problemi di costituzionalità, ex art. 27, comma 2, Cost., potrebbe trovare de iure condendo una netta semplificazione nel senso che, almeno a nostro parere, basterebbe che il pubblico ministero dimostrasse che la persona fisica, che pur ha commesso il reato almeno «formalmente» nell’interesse o a vantaggio dell’ente, ne abbia però eluso fraudolentemente i controlli, perché ciò basterebbe a liberare dalla responsabilità diretta la persona giuridica, giacché quest’ultima risulterebbe al più vittima e giammai co-autrice dell’illecito penale commesso dal dipendente e/o dal dirigente. In tal modo otterremmo anche una più penetrante e più estesa applicazione del principio di colpevolezza giacché eviteremmo lo scoglio dell’attuale presunzione iuris tantum.
4. L’autonomia della responsabilità da reato dell’ente ove l’autore del reato non sia identificabile. Un argomento che è stato speso per sostenere, al contrario, la duplicità degli illeciti, cioè il reato commesso dalla persona fisica e l’illecito amministrativo dalla persona giuridica, sarebbe rintracciabile nell’art. 8 che, prevedendo l’autonomia della responsabilità dell’ente, farebbe già comprendere come detta autonomia riguardi anche gli illeciti e la dimostrazione ulteriore la si ricaverebbe soprattutto dalla lettera a) dell’art. 8 medesimo, laddove è prevista la sussistenza della responsabilità dell’ente anche laddove l’autore del reato non sia stato identificato9. Questa tesi, tuttavia, non appare accoglibile soprattutto perché, almeno a nostro giudizio, non focalizza adeguatamente la funzione dello stesso art. 8. Come, infatti, emerge chiaramente all’interno dei lavori preparatori della commissione ministeriale incaricata di redigere il d.lgs., la funzione della norma era stata pensata in modo del tutto diverso, perché riguardava l’ipotesi ben nota – e giustamente si faceva riferimento all’esempio paradigmatico dei reati ambientali, poi di recente introdotti nel codice penale – delle società multinazionali, ove ormai la decisione apicale è presa non già a livello «verticale», bensì a livello orizzontale, per cui può ben capitare come non riesca a individuarsi un singolo soggetto persona fisica cui attribuire la decisione costituente reato. Se, però, il reato viene commesso, ecco dunque che emerge il senso e la funzione dello stesso articolo 8, giacché costituirebbe una summa iniuria che, a causa della mancata individuazione del soggetto persona fisica, non rispondesse del reato commesso nemmeno la persona giuridica, dando così luogo ad uno, a nostro avviso inammissibile, vuoto di tutela. Tutto ciò è anche confermato dalla giurisprudenza che, laddove si è trovata ad ap-
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Cfr. su tali tematiche C. De Maglie, op. loc. ult. cit.; cui adde Id., Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, in DPP, 2001, 1348 ss. 8 A. Sereni, L’ente guardiano. L’autorganizzazione del controllo penale, Torino, 2016. 9 In tal senso M. Gambardella, op. loc. ult. cit.
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plicare l’art. 8, segnatamente in Corte di Cassazione, ha fatto riferimento al sintagma “fatto di reato”, con ciò significando che, essendo ignoto l’autore del reato stesso, non si poteva certo trattare della colpevolezza, ma soltanto della corrispondenza al tipo legale ed alla mancanza di cause di giustificazione10.
5. Le novità del sistema sanzionatorio con precipuo riguardo alla pena pecuniaria ed al sistema per quote, nonché la sostanziale inapplicabilità del sistema con riferimento ai delitti di terrorismo e di criminalità organizzata. Intendiamo svolgere alcune considerazioni, altresì, in materia di sistema sanzionatorio, ma in un’ottica molto particolare, ovverosia collegata principalmente ai c.d. reati presupposto. Andiamo, però, per gradi. In primo luogo, il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 231 del 2001 consta sostanzialmente di sanzioni interdittive, pecuniarie, cui si aggiunge la confisca, la pubblicazione della sentenza di condanna e, in particolare, il commissariamento giudiziale, pur se si potrebbe, in teoria, discutere se trattasi davvero di una sanzione, oppure no. Trattasi quindi di sanzioni chiaramente modellate sulle caratteristiche tipologiche dell’ente medesimo, ma che mutuano la loro conformazione indubitabilmente dal diritto penale. Ciò che comunque più rileva in questa sede è l’introduzione, per la prima volta nel nostro sistema giuridico, del meccanismo di commisurazione della pena pecuniaria non più in base al criterio tradizionale c.d. a somma complessiva, che ancora resiste irragionevolmente nel codice penale come un relitto del passato, bensì in base al nuovo criterio di origine nord-europea dei c.d. tassi giornalieri, nella responsabilità dell’ente denominato “sistema per quote”. Mentre, infatti, il sistema c.d. a somma complessiva non consente una commisurazione esatta della pena pecuniaria alle capacità economiche dell’imputato, tanto è vero che rientra soltanto nel potere discrezionale del giudice l’aumento fino al triplo o la diminuzione di un terzo in base alle condizioni economiche del reo, con il sistema a tassi giornalieri si ottiene una molto più precisa commisurazione della pena pecuniaria nel senso che l’entità del tasso, o della quota che dir si voglia, è parametrato alla gravità del fatto di reato e, lato sensu, alla capacità a delinquere del soggetto, mentre l’entità del tasso o della quota è commisurata alla capacità economica dell’imputato ovvero, nel caso di specie, dell’ente11. La riprova che il sistema a tassi giornalieri costituisce in tal modo una reale alternativa alla pena detentiva lo ricaviamo proprio dal sistema sanzionatorio penale tedesco, ove infatti si stima che ormai l’85% delle pene irrogate dal giudice penale costituiscono pene pecuniarie e solo il 15% pene detentive, per la decisiva ragione che con il sistema da ultimo menzionato si ottiene un abbassamento stabile dello standard di vita del soggetto, per cui la pena pecuniaria non risulta più, come da noi, un’ancella della pena detentiva, bensì acquista una sua reale autonomia, perché, soprattutto, svolge efficacemente la funzione sia general- che special-preventiva.
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Sulla giurisprudenza in materia cfr. E. Addante, op. loc. ult. cit. In argomento, ad esempio, E. Musco, La pena pecuniaria, Catania, 1984; nonché F. Molinari, La pena pecuniaria, Verona, 1983 e, da un punto di vista comparatistico, per un esauriente quadro, H.H. Jescheck- G. Grebing, Die Geldstrafe in deutschen und auslӓndischen Recht, Baden Baden, 1978. 11
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Il vero problema, però, che vorremmo sottolineare è che questo importante catalogo di sanzioni rischia di risultare inefficace, almeno in molti casi a causa della conformazione dei reati presupposto della responsabilità dell’ente. Con ciò intendiamo riferirci al fatto che il legislatore, negli anni successivi alla 231 sino ai tempi attuali, ha sempre di più aggiunto ulteriori reati presupposto, senza tuttavia rendersi del tutto conto come il sottosistema della responsabilità da reato dell’ente risponde ad una logica attinente alla criminalità del profitto e non può quindi essere esteso efficacemente ad altri tipi di “sottosistemi penali”, pena, come potremo constatare di qui appresso, la loro difficile implementazione e quindi applicazione nel settore che qui ci occupa. Sotto questo profilo dobbiamo in primo luogo ricordare non solo che il procedimento attinente alle persone giuridiche segue la regola del c.d. simultaneus processus, nel senso cioè che si procede contemporaneamente sia nei confronti della persona fisica, che nei riguardi della persona giuridica, anche se ovviamente ognuna delle parti è libera di scegliere riti alternativi e quindi discostarsi dalla regola del simultaneus processus. Questa regola, però, costituisce, a nostro sommesso avviso, l’ulteriore riprova che non siamo di fronte a due illeciti distinti, cioè il reato della persona fisica e l’illecito amministrativo della persona giuridica, perché, se così fosse, la funzione del simultaneus processus perderebbe gran parte della sua funzione euristica12. Premesso ciò, va altresì rilevato come la persona giuridica stia in giudizio per mezzo del suo rappresentate legale, a meno che quest’ultimo non costituisca a sua volta il c.d. testimone della corona, per cui deve essere sostituito da altro rappresentante legale. Ciò sta chiaramente a significare che siamo di fronte alle imprese sane, che talvolta possono aver commesso reati e cioè quindi pienamente nell’alveo della c.d. criminalità del profitto. Il legislatore invece, nell’ambito dei suoi ripetuti interventi, sino addirittura ad oggi, ha introdotto sì reati che hanno a che fare con la dimensione in oggetto, come, ad esempio, la truffa nelle sovvenzioni, la frode informatica, i delitti informatici, la concussione, l’induzione indebita e la corruzione, ma anche reati che si inscrivono in una dimensione tutt’affatto diversa, cioè quella della c.d. associazione originariamente illecita13. Se infatti si fa, ad esempio, riferimento al falso nummario, risulta evidente, anche da un punto di vista empirico-criminologico, che si tratta di un classico reato commesso da associazioni illecite e non già da imprese. Come se non bastasse, il legislatore ha anche aggiunto, all’art. 24-ter, addirittura i delitti di criminalità organizzata, nonché all’art. 25-quater i delitti con finalità di terrorismo od eversione dell’ordine democratico, in relazione ai quali, è pur vero che esiste una norma nel d.lgs. 231 del 2001, cioè l’art. 16 che al terzo comma prevede: “se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività…”14, ma la norma diventa, a nostro avviso, di assai difficile applica-
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Per un’analisi più approfondita, in particolare S. Lorusso, La responsabilità «da reato» delle persone giuridiche: profili processuali del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in Cass. pen., 2002, 2522 ss.; P. Ferrua, Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni, in DPP, 2001, 1479 ss.; G. Spangher, Le incursioni di regole speciali nella disciplina del rito ordinario, in Aa. Vv., La responsabilità amministrativa degli enti – d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2002, 55 ss. 13 Cfr. in argomento, per tutti, F. Palazzo, Associazioni illecite e illeciti delle associazioni, in RIDPP, 1976, 418 ss. 14 Cfr. in argomento L. Picotti, La responsabilità “amministrativa” da reato dell’ente per carenze di organizzazione nell’impresa, in M. Schmidt Kessell – S. Troiano (a cura di), Diritto e attuazione del diritto in Europa, Napoli, 2017, 89 ss.
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zione, come di conseguenza anche l’accertamento della responsabilità per i reati presupposti “del secondo tipo” in quanto in questi casi manca, ovviamente, all’ente originariamente illecito la capacità di stare in giudizio, perché è privo di un rappresentante legale, ma in tal modo non si vede come possa instaurarsi un valido rapporto processuale. Si ha, quindi, l’impressione che per tutta questa seconda categoria di reati la confusione concettuale in cui è incorso il legislatore renda questo settore della responsabilità da reato dell’ente connotata di una valenza c.d. simbolico-espressiva, piuttosto che di una reale capacità di implementazione, a causa, sempre a nostro giudizio, di un miscuglio fra sottosistemi penali profondamente diversi fra loro. Ciò, quindi, dà luogo ad un’evidente carenza in termini di offensività, lato sensu intesa, della responsabilità da reato dell’ente, che è anche da rivedere sotto un ulteriore profilo.
6. La riparazione delle conseguenze del reato come causa estintiva dello stesso e, conseguentemente, anche della responsabilità da reato dell’ente, in prospettiva futura? Intendiamo riferirci all’art. 17 cioè alla riparazione delle conseguenze del reato. La norma in oggetto prevede, infatti, che le sanzioni interdittive non si applichino laddove, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrano le seguenti condizioni: a) l’ente abbia risarcito integralmente il danno ed abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) l’ente abbia eliminato le carenze organizzative che abbiano determinato il reato, mediante l’adozione ed attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati del tipo di quello verificatosi; c) l’ente abbia messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca. Orbene, a noi sembra che sul punto il legislatore si sia dimostrato ancora troppo “timido” in rapporto alla c.d. restorative justice15, nel senso che la funzione della riparazione appare limitata alla disapplicazione delle sanzioni interdittive, ma comunque permane l’applicazione delle sanzioni pecuniarie. Se, infatti, si riflette sui requisiti e, soprattutto, sul “peso” che la stessa riparazione riveste nell’ambito di un’economia aziendale, sorge spontaneo il quesito del se, come suol dirsi, “il giuoco valga la candela”. Fuor di metafora, se avviene una reintegrazione del bene giuridico offeso, attraverso una attività c.d. di controspinta16, ne consegue che il proseguire nel processo penale non appare più svolgere le fondamentali funzioni general- e special-preventive, ma rischia di risultare un residuo della vetusta e tanto criticata concezione retributiva. In questa prospettiva, ci sembrerebbe quindi più consono che la restorative justice svolga una funzione più ampia e cioè non meramente di attenuazione del carico sanzionatorio ma, addirittura, come causa estintiva del reato. In tal senso lo scrivente, nell’ambito di una Commissione nominata all’interno della Procura della Repubblica di Roma, tendente a modificare in senso più efficentista la legge che ha
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In argomento, cfr. G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Annali Enc. Dir., Milano, 2017, 465ss.; nonché, sia consentito anche il rinvio a A. Manna, La vittima del reato: a la “recherche” di un difficile modello di dialogo nel sistema penale, in Aa. Vv., Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, I, 597 ss. 16 Sul punto autorevolmente, T. Padovani, La “soave” inquisizione – Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ravvedimento, in RIDPP, 1981, 529 ss.
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introdotto i delitti ambientali nell’ambito del codice penale, aveva proposto infatti che, con riferimento sia all’inquinamento ambientale, che al disastro ambientale, in particolare, laddove l’autore del reato – sempre prima dell’apertura del dibattimento, ma con possibilità di proroghe – avesse ripristinato lo stato dei luoghi, ciò avrebbe dovuto costituire una causa estintiva del reato e non una mera attenuante, come invece aveva deciso il legislatore che aveva introdotto i delitti ambientali medesimi17. Se, dunque, il legislatore futuro ritenesse più opportuno seguire quest’ultima strada, non solo si risparmierebbe molto in termini di economia processuale, ma lo stesso diritto e processo penali perderebbero quel “residuo” eticizzante di retribuzione che, a nostro sommesso avviso, potrebbe anche consentire una maggiore valorizzazione, in questa particolare prospettiva, dei principi di offensività e di effettività della tutela.
7. La “concorrenza” tra la responsabilità da reato dell’ente nei settori relativi ai reati di terrorismo e criminalità organizzata ed i codici antimafia del 2011 e del 2017: riflessioni conclusive. In conclusione, la responsabilità da reato dell’ente, con particolare riguardo ad alcuni settori relativi ai reati-presupposto, dimostra la sua inefficacia per le ragioni che abbiamo in precedenza esposto; questi settori però, come, in particolare, i delitti di criminalità organizzata ed in tema di terrorismo, attualmente li ritroviamo anche nei c.d. codici antimafia del 2011 e del 2017. Senza voler ora entrare nel merito specifico delle misure di prevenzione antimafia, non vi è dubbio che in argomento i due sottosistemi si incontrino, ma detto incontro va tutto a favore del procedimento di prevenzione, in quanto non è necessaria la presenza di un reato, trattandosi di misure preater delictum; il presupposto consistente in un divario fra il reddito dichiarato e quello concretamente manifestato comporta, altresì, un’inversione dell’onus probandi, perché spetta al proposto dimostrare la legittima provenienza del bene. Se questi sono, dunque, i labili presupposti su cui fondare la pericolosità, generica o specifica, ma comunque, ove possibile, almeno attuale, anche sul versante processuale la questione non è sicuramente messa in modo migliore. Il procedimento relativo all’applicazione delle misure di prevenzione antimafia, ormai estese a materie molto diverse da quella relativa alla criminalità organizzata, si dimostra concretamente molto rapido, ma a scapito delle più elementari garanzie a carico del proposto. In primo grado, infatti, pur se, ovviamente, è ammessa un’attività lato sensu di carattere probatorio, certamente siamo molto lontani dall’esame e dal c.d. controesame anche perché l’udienza si tiene in camera di consiglio; i termini di impugnazione sono estremamente ridotti, sia con riguardo al secondo grado, che con riferimento al ricorso in Cassazione, fra l’altro limitato soltanto a motivi di pura legittimità. In questa situazione, durante il recente Convegno dell’Associazione fra i professori di diritto penale a Milano, avente come titolo
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Sia consentito, in argomento, il rinvio a A. Manna, Il nuovo diritto penale ambientale, Roma, 2015; nonché, più in particolare, sul tema specifico, Id., Le norme penale come argine all’alterazione irreversibile dell’ecosistema, in Arch. pen., 2017, 2, 659 ss.
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“Pene senza delitto”18, un importante intervento del Cons. Magi19, della Prima Sezione penale della Cassazione, fece sicuramente impressione sull’uditorio perché sostanzialmente affermò come il diritto penale legato alla colpevolezza per il fatto costituisse uno strumentario oramai “obsoleto”, perché troppo lungo e farraginoso ed era questa la ragione per cui la magistratura si andava già da qualche tempo orientando verso più il veloce e, quindi, efficace sistema delle misure di prevenzione e che comunque, se fossero risultate lacune normative al riguardo, ci avrebbe “pensato” la stessa giurisprudenza della Suprema Corte a colmarle, nonostante l’obiezione mossa, in tale sede, nella discussione orale, autorevolmente da Giovanni Fiandaca che replicò sul punto che avrebbe dovuto pensarci, più correttamente, il legislatore. Di questa questione comunque non si può ormai non tener conto anche in rapporto alla responsabilità da reato dell’ente, giacché, nelle materie contigue, rischia anch’essa di essere “sopravanzata” da un sistema molto più celere, ma anche assai meno garantista20, che tuttavia viene ormai accettato generalmente dalla giurisprudenza attraverso quella che ci permettiamo di definire una “truffa delle etichette”, nel senso di considerare le misure di prevenzione antimafia sanzioni di carattere amministrativo, anziché, come ci sembra preferibile, tenendo conto degli ormai celebri “criteri Engel”21, vere e proprie sanzioni penali, in futuro auspicabilmente da ricondurre alle misure di sicurezza, in particolare di caratterre patrimoniale. Bisognerà ora attendere il responso della Corte costituzionale che è stata adita dopo la sentenza della Corte EDU nel caso De Tommaso22, che pur condannando lo Stato italiano per l’utilizzazione in materia di sintagmi indeterminati, quali il “vivere onestamente” ed il “rispettare le leggi”, continua però, come del resto avviene nella giurisprudenza nostrana, a considerare le misure de quo agitur ancora come di carattere amministrativo.
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Speciale “Delle pene senza delitto”. Le misure di prevenzione nel sistema contemporaneo: dal bisogno di controllo all’imputazione del sospetto – Atti del V Convegno nazionale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Milano, 18/19 novembre 2016), in RIDPP, 2017, 399 ss. 19 R. Magi, Sul recupero di tassatività nelle misure di prevenzione personali. Tecniche sostenibili di accertamento della pericolosità, in RIDPP, 2017, 490 ss. 20 Sui codici antimafia del 2011 e del 2017 ed i loro limiti, cfr., di recente, G. Febbo, I codici antimafia, in A. Manna (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, etc., cit., 1133 ss. ed ivi gli ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali cui pertanto, per eventuali maggiori approfondimenti, pure si rinvia. 21 C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 23 novembre 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, in Conseil de l’Europe, Cour Européenne des droits de l’homme, Strasbourg, 1976. 22 Corte EDU, Grande Camera, De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017.
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Eterodoping, autodoping e commercio illecito di sostanze anabolizzanti: il legislatore attua il principio della riserva di codice in materia di tutela sanitaria dell’attività sportiva ed introduce l’art. 586-bis c.p. [(“Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanza al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”)]
Sommario: 1. Doping e diritto penale: dalla legislazione speciale alla “sacralità” codicistica, in applicazione del principio della riserva di codice. – 2. I fatti di reato di eterodoping e autodoping, di cui all’art. 586-bis c.p. – 3. Il commercio illegale di sostanze dopanti. Da fattispecie monoffensiva a dolo generico a fattispecie plurioffensiva a dolo specifico. – 4. Conclusioni. Abstract By implementing the principle of the “Centrality of the Criminal Code”, the Legislator has included Article 586bis in the Criminal Code (by means of Legislative Decree n. 21/2018), adopting, to a large extent, the preexisting rules established by Law n. 376/2000 on the matter of doping. The new article has been included in Book II, Title XII, related to Offences against the Person. Nevertheless, the pluri-offensive nature of the illicit practices of Hetero-doping and Auto-doping has certainly not been negated. The Author has underlined the essential features of the new rules by dwelling on the main differentiating aspect in respect of the previous ones, identified in the specific wilful misconduct as a selective and limitative function of illicit practices. Also regarding the incriminating circumstance of trafficking in doping substances, he highlights the same ratio legis of restricting the criminal relevance of the fact to the sphere of competitive sports activities, so that he finally detects the key element of the new provisions of the code in the “aura of established practice” conferred by the above cases. Il legislatore, dando attuazione al principio della riserva di codice, ha introdotto l’art. 586-bis c.p. (con d. lgs. n. 21 del 2018), recependo, in grande misura, la previgente disciplina prevista dalla legge n. 376 del 2000 in tema di doping. Il nuovo articolo è stato inserito nel titolo XII del libro II, relativo ai delitti contro la persona; tuttavia, non è certamente venuto meno il carattere plurioffensivo delle pratiche illecite di eterodoping e autodoping. L’Autore mette in luce i caratteri salienti della nuova disciplina, soffermandosi sul principale aspetto differenziale rispetto alla previgente, individuato nel dolo specifico in funzione selettiva e limitativa delle condotte illecite. Anche nella fattispecie incriminatrice del commercio di sostante dopanti, evidenzia l’analoga ratio legis di restringere la rilevanza penale del fatto alla sfera dell’attività sportiva agonistica, sicché infine scorge il punto caratterizzante della nuova disciplina codicistica nell’ “aura di patrimonialità” conferita alle fattispecie in oggetto.
Alì Abukar Hayo
1. Doping e diritto penale: dalla legislazione speciale alla sacralità codicistica, in applicazione del principio della riserva di codice. Ai sensi dell’art. 1, commi 2 e 3, della L. 14 dicembre 2000, n. 376 (“Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”) costituiva doping: “la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti” (comma 2); nonché, per altro verso, «la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2» (comma 3). La dottrina ha sempre valutato positivamente la disciplina introdotta dalla citata legge n. 376, ritenendola nel complesso organica ed efficacemente dissuasiva1. In ragione di ciò, si può pensare che il recente interevento del legislatore nella materia de qua non sia tanto motivato dalla necessità di imprimere maggiore efficacia deterrente all’impianto normativo, quanto dall’intendimento di dare attuazione al principio della c.d. riserva di codice. Sicché la disciplina previgente, prevista in una legge speciale, è stata “attratta” nel ben più sacrale contesto del codice penale, mediante l’inserimento di una fattispecie ad hoc, la quale ricalca pressoché pedissequamente – se non per quanto attiene all’elemento psicologico del commercio di sostanze dopanti, come si constaterà (infra § 4) – la lettera di quella già in vigore (ed oramai abrogata) di settore. In tal senso, l’art. 2, comma 1, lett. e) del d. lgs. 1 marzo 2018, n. 21 (“Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”) ha introdotto il novello art. 586-bis c.p. (“Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”), in vigore dal 6 aprile 2018, abrogando contestualmente l’art. 9, L. 376 cit.
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S. Bonini, Doping tra sanzione penale e giustizia sportiva: il ruolo discriminante del dolo specifico. Nota a Tribunale di Torino, 6 luglio 2012 (dep. 3 ottobre 2012), giud. G. Marra, in Dir. pen. cont., 2013, 2, 157 ss., osserva che «la struttura della l. 376 si presentava internamente armonica, con il sanzionare (art. 9 co. 7) in forma più rigorosa la fattispecie di commercio, posta a protezione della generalità dei praticanti sport, senza alcuna distinzione di livello competitivo; ed in forma più lieve le figure «avamposto» di «eterodoping» (procacciamento, somministrazione, favoreggiamento dell’impiego di sostanze dopanti, adozione di pratiche mediche vietate) e di « » (assunzione di sostanze dopanti, sottoposizione a pratiche mediche vietate) con applicazione in queste ipotesi […] circoscritta allo sport professionistico (limitazione di applicabilità legata anche alla presenza «selettiva», nei co. 1 e 2 dell’art. 9, del dolo specifico dato dal fine di alterazione della prestazione agonistica […]. E ancora, sempre nel particolare, la trama della l. 376 non avrebbe meritato (e non meriterebbe) di essere riscritta perché imperniata su un fecondo «dialogo» fra intervento penale, intervento meramente disciplinare e «intervento» educativo-preventivo: nesso triadico “riassunto” dal ruolo primario della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive, istituita ai sensi dell’art. 3 l. 376»
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Eterodoping, autodoping e commercio illecito di sostanze anabolizzanti
2. I fatti di reato di eterodoping e autodoping, di cui all’arrt. 586-bis c.p. a) il bene giuridico tutelato Il legislatore ha inserito la norma nel Titolo XII (“Dei delitti contro la persona”) del Libro II del codice penale, e nella specie nel Capo I (“Dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale”). Se ne evince che la tutela della vita e, più in generale, dell’incolumità individuale costituisce quindi – rectius, sembrerebbe costituire, per quanto si constaterà (infra § 5) – l’obiettivo primario del legislatore; il quale, tuttavia, tenta di perseguire anche quello, senz’altro secondario – se non altro per il rango del bene, di “mero” rilievo patrimoniale –, del regolare svolgimento dell’attività sportiva. Sulla scala gerarchica dei beni tutelati – e perciò sulla primazia del bene personale – si può ravviasre la piena concordia in dottrina ed in giurisprudenza2. b) la condotta di eterodoping ed autodoping I primi due commi dell’art. 586-bis c.p. sanzionano due distinti fenomeni: quello del c.d. eterodoping, reato comune di cui si rende responsabile chiunque procura ad altri, somministra o favorisce comunque l’utilizzo di sostanze dopanti (comma 1), ovvero ancora chi adotta pratiche mediche vietate che ne presuppongano l’impiego, laddove non giustificate dalle condizioni patologiche del soggetto che vi è sottoposto (comma 2); nonché quello del c.d. autodoping, che consiste nell’assunzione di sostanze dopanti (comma 1) o nella sottoposizione a pratiche mediche vietate (comma 2). Sull’onda di tale distinzione la dottrina prevalente, senza soluzione di continuità rispetto a quanto poc’anzi rilevato in tema di bene giuridico tutelato, ha sostenuto che «salute e patrimonio sembrano essere i beni distintamente e monoffensivamente colpiti nelle rispettive ipotesi di somministrazione-favoreggiamento [eterodoping, ndr] e di assunzione-autosottoposizione [autodoping, ndr]»3; in altri termini: pur trattandosi di fattispecie complessivamente non plurioffensiva, nel senso che non tutela “l’uno e l’altro bene”, le singole condotte in essa comprese sono volte a salvaguardare beni distinti fra loro, connotati da assai differente rilievo costituzionale, e proprio per questo posti su piani diversi. c) elemento psicologico Venendo ora all’elemento psicologico, entrambe le ipotesi sono punite a titolo di dolo specifico: rileveranno, difatti, solo se realizzate al fine di «alterare le prestazioni agonistiche degli
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«Più ragioni inducono a respingere la teorica della plurioffensività: fondamentalmente, l’esigenza di orientare in modo più saldo la risoluzione delle singole questioni interpretative poste dalla norma e (specialmente) quella di evitare l’adozione nel momento applicativo di una sorta di offensività «alternativa» (id est, se non è attinto un bene, sarà offeso un altro), che produrrà l’effetto di estensioni in malam partem della sfera del penalmente rilevante (inammissibili, pur se sollecitate da avvertite istanze di garanzia della collettività delle quali i magistrati si fanno interpreti) S. Bonini, Doping, cit. Sulla medesima lunghezza di pensiero la giurisprudenza, sia di legittimità («L’oggetto della tutela che il legislatore ha inteso assicurare attraverso l’introduzione delle fattispecie penali descritte nell’art. 9 [oggi art. 586-bis c.p., ndr] va individuato – anzitutto – nel bene personale primario della integrità psico-fisica dei partecipanti ad un’attività sportiva. […] Accanto alla protezione del bene-salute le fattispecie incriminatrici di cui alla L. n. 376 del 2000, art. 9 [oggi art. 586-bis c.p., ndr] sono rivolte, però, a tutelare pure leale e regolare svolgimento delle competizioni sportive, nonché a salvaguardare i principi etici ed i valori educativi espressi dall’attività sportiva»), che di merito («Il bene giuridico protetto in materia di assunzione di sostanza dopanti (art. 9, 1° comma, L. n. 376/2000) [oggi art. 586-bis c.p., ndr] è dato dalla salute collettiva, “filtrata” dalla salvaguardia del corretto svolgimento delle competizioni sportive») 3 S.Bonini, Doping, cit.
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atleti», ovvero di «modificare il risultato dei controlli» che abbiano ad oggetto, alternativamente, l’uso di tali farmaci o sostanze (nel caso dell’eterodoping) od il ricorso a tali pratiche non ammesse (nel caso dell’autodoping), e sempre che non siano giustificate da eventuali condizioni patologiche in cui versi lo sportivo; in tale ultimo caso, peraltro, dottrina e giurisprudenza attribuiscono (comprensibile e giustificato) rilievo alle modalità di assunzione del farmaco rispetto alle concrete esigenze terapeutiche: «non conta tanto, ai fini penali, e ad substantiam, il rispetto dell’iter documentale previsto dall’art. 1, co. 4, della l. 376, la cui rilevanza si apprezza essenzialmente in ambito regolamentare e disciplinare. Rileverà invece nel contesto penalistico uno stato patologico riscontrabile «naturalisticamente», «obiettivamente», dovendosi peraltro dimostrare «una stretta correlazione fra l’esigenza oggettiva di curare una data malattia e la posologia in concreto praticata che dovrà corrispondere ai dettami della migliore scienza medica del momento»4. Sulla componente soggettiva della condotta la dottrina prevalente non ha dubbi: «il punto focale in tema di dolo (specifico) è relativo alla prova circa l’assunzione per fini terapeutici (e non per alterare l’esito di competizioni in agenda): agirà allora dolosamente (soltanto quel)l’atleta che conosca o – nel senso del dolo eventuale – consideri possibile (rectius: altamente probabile, e ne accetti un rischio «non schermato») l’assenza di indicazione medica (e che quindi […] abbia agito per mutare il risultato dell’incontro; tertium non datur: o si assume la sostanza dopante per scopi medici o la si assume per scopi illecitamente modificativi della prestazione)»; ed ancora: «In riferimento al doping, la funzione “selettiva” e “limitativa” da attribuire al dolo specifico rende dunque attendibile che gli effetti di “alterazione” della prestazione o dei controlli rappresentino “elemento polarizzante” della volontà dell’agente, non costituendo la pur concreta prevedibilità di tali effetti (e così più complete e appaganti individuazioni del dolo eventuale) titolo sufficiente per la contestazione del dolo specifico»5. Nel medesimo senso la giurisprudenza di legittimità, sin dalla prima, risalente pronuncia emessa sulla L. 376 cit.: «l’art. 9, co. 1, l. 376 sanziona la condotta, ivi prevista, di procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze ricomprese nelle classi previste dall’art. 2 co. 1 solo se tale condotta specificamente risponda “al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero di modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze”»6. d) attività agonistica Quella, tuttavia, legata al profilo psicologico non è la sola restrizione dei confini dell’illecito operata dal legislatore, il quale non si è limitato a tratteggiare la fattispecie esclusivamente in relazione alla proiezione finalistica delle condotte, rilevanti solo se prodromiche all’alterazione delle normali prestazioni degli atleti, definiti come coloro che «partecipano abitualmente ad attività sportive organizzate», secondo quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lett. b) della Convenzione contro il doping, sottoscritta a Strasburgo il 16 novembre 1989; al contrario, ne
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S. Bonini, Doping, cit.; nel medesimo senso A. Marra, Tutela della salute umana ed etica sportiva nella nuova legge contro il doping, in Cass. pen., 2001, 2851 ss.; ed ancora A. Vallini, Doping. L. 14 dicembre 2000, n. 376, in F.C. Palazzo - C.E. Paliero, Commentario breve alle leggi penali complementari, 2ᵃ, Padova, 2007, 1739 ss.; G. Ariolli - V. Bellini, Disposizioni penali in materia di doping, Milano, 2005. 5 S. Bonini, Doping, cit.; nello stesso senso G. Ariolli - V. Bellini, Disposizioni cit.; contra, A. Traversi, Diritto penale dello sport, Milano, 2001, 116 ss.; M. Strumia, Doping nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen. Aggiornamento, II, Torino, 2004, 207. 6 Cfr. Cass. pen., Sez. III, (ud. 01.02.2002) 20.03.2002, n. 11277.
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pone un’altra, di carattere oggettivo, che le circoscrive al solo contesto agonistico. Al riguardo, la dottrina definisce le prestazioni agonistiche come «qualsiasi manifestazione sportiva competitiva, incluse fasi come quelle di allenamento strumentali e/o finalizzate alla gara in senso proprio»: circostanza, questa, desumibile «dal testuale impiego della formula “prestazioni” anziché di un comunque più delimitato “competizioni”»7. La scelta di politica legislativa è chiara: non si intende sanzionare chiunque intenda emergere e primeggiare, a qualsiasi livello, ma solamente chi agisca al fine di alterare gli esiti di competizioni sportive professionistiche organizzate ufficialmente8; e, come rileva la dottrina prevalente, anche in questo caso la lettera della legge offre un riscontro a tale interpretazione: «l’aggettivo “agonistiche” si accompagna al sostantivo “prestazioni”, verosimilmente più circoscritto e definito nell’indicare un’ “obbligazione di risultato” dell’atleta, in confronto a termini blandi e “dilettantistici” quali esercizio, o attività»9. Tirando le fila del discorso: le condotte ascrivibili ai concetti di eterodoping ed autodoping saranno connotate da penale rilevanza e, pertanto, sanzionabili se (e solo se) realizzate allo scopo di alterare le prestazioni sportive di atleti professionisti che prendano parte a competizioni sportive agonistiche, e quindi la regolarità delle medesime. La prova di resistenza di tale impostazione di pensiero è ben riassunta nelle considerazioni che seguono: «Mettendo ipoteticamente fra parentesi la finalità specifica richiesta dalla l. 376 [oggi dall’art. 586-bis c.p., ndr] si finisce quindi per “disperdere” l’autentico ubi consistam di un intervento penalistico in materia di doping, che è dato per un verso da un’anticipazione della tutela allo stadio del pericolo, cui corrisponde una commisurata cornice sanzionatoria; e per altro verso, prima ancora, dall’esigenza di intervenire per reprimere manifestazioni illecite provenienti dal mondo dello sport le quali, secondo quella che appare una sensata “presunzione criminologica” fondata sull’id quod plerumque accidit, risultano mosse proprio dal “motivo di parte” dato dalla scopo di mutazione dell’esito della prestazione agonistica»10. Concentrando ora l’attenzione sull’ipotesi di assunzione di sostanze dopanti (autodoping), sia in dottrina che in giurisprudenza si registrano alcuni contrasti. Secondo una prima corrente di pensiero, maggioritaria, si tratterebbe di un reato di pura condotta, non essendo necessaria un’effettiva modificazione della realtà esterna, ed a pericolo presunto: come confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, esso difatti si perfeziona nel momento in cui l’atleta assume le sostanze vietate, ma il pericolo relativo all’alterazione delle prestazioni sportive permarrà sin quando la sostanza sarà potenzialmente idonea a modificare le condizioni psicofisiche e
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S. Bonini, Doping cit. Nello stesso senso A. Traversi, Diritto penale dello sport, cit.; O. Forlenza, La responsabilità nell’esercizio e nella organizzazione dell’attività sportiva, in Coccia e altri, Diritto dello sport, Firenze, 2004. Al contrario, secondo una risalente pronuncia di merito il concetto di “competizione sportiva” andrebbe interpretato in senso restrittivo: Pret. Trento (sez. distaccata Tione di Trento), in Riv. dir. sport., 1993, 504-506, con nota critica di U. Izzo, Quando l’atleta è in ritiro: il soggetto attivo e l’elemento soggettivo del reato di frode in competizioni sportive, 507 ss. 8 In questo senso A. Marra, Tutela della salute umana cit.; ed ancora R. Nicolai, La lotta al doping tra ordinamento sportivo e ordinamento statale, in La tutela della salute nelle attività motorie e sportive: doping e problematiche giuridiche, C. Bottari (a cura di), Santarcangelo di Romagna, 2004, 77 ss.; da ultimo, G. Ariolli - V. Bellini, Disposizioni penali in materia di doping, cit. 9 S. Bonini, Doping, cit. 10 S. Bonini, Doping, cit.
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biologiche di chi l’ha assunta11; chiara, sul tema, la posizione della dottrina: «nei fatti di doping, come in ogni reato a dolo specifico, il momento della consumazione c.d. “formale”, o “perfezione”, risulta distinto e anteriore rispetto alla consumazione “sostanziale” e coincide quindi con la realizzazione della condotta o fatto-base “strumentali” tassativamente descritti dalla fattispecie, “arricchiti” però apprezzabilmente dalla presenza di un elemento finalistico che deve sì quale “anticipazione intellettiva” motivare l’agente ma che prima ancora rileva sul piano oggettivo-funzionale, in termini di “possibilità” o “realizzabilità” del contenuto dello scopo, giacché altrimenti si tratterebbe di interesse meramente “putativo” od opinato dal soggetto, e individuandosi così un risultato la cui realizzazione futura è in grado di soddisfare l’interesse “di parte” del reo per l’essere propriamente la “causa” che innesca il suo agire; consumazione sostanzialmente (non necessaria all’integrazione della fattispecie tipica) si avrà invece, eventualmente, con l’effettivo conseguimento dell’obiettivo perseguito»12. Secondo altra parte della dottrina, invece, si avrebbe a che fare con un reato a pericolo concreto13. e) circostanza aggravante e pena accessoria Il terzo comma dell’art. 586-bis c.p. prevede una circostanza aggravante obbligatoria ad effetto comune, in virtù della quale la pena prevista dai primi due commi della fattispecie (reclusione da tre mesi a tre anni e multa da euro 2.582 a euro 51.645) «è aumentata» – di qui l’obbligatorietà dell’aumento – se: a) dal fatto deriva un danno grave alla salute; b) se il fatto è commesso nei confronti di un minorenne; c) se il fatto è commesso da un componente del Comitato olimpico nazionale italiano (in seguito CONI) ovvero di una federazione sportiva nazionale, di una società, di un’associazione o di un ente riconosciuti dal CONI medesimo. In tale ultimo caso, connotato da particolare disvalore penale a cagione della qualifica soggettiva del reo (reato proprio), il quinto comma della fattispecie prevede che alla sentenza di condanna «consegue» – anche in questo caso, quindi, obbligatoriamente – l’interdizione permanente dagli uffici direttivi del CONI ovvero di tutte le federazioni sportive, società, associazioni ed enti di promozione da esse riconosciute. La medesima linea di pensiero, a ben considerare, contraddistingue anche la previsione contenuta nel quarto comma della norma, che alla condanna per il fatto commesso da un esercente la professione sanitaria fa discendere, ancora una volta come conseguenza obbligatoria della pronuncia, l’interdizione temporanea dall’esercizio della professione. Sul punto sia consentito rilevare che, forse, sarebbe apparso più coerente con le finalità della legge, volta come rilevato in via principale alla tutela dell’incolumità pubblica, far conseguire effetti interdittivi temporanei sia alla condanna pronunciata nei confronti di un sanitario che si macchi di tali condotte, che a quella che coinvolga un soggetto inserito, ancorché a livello apicale, nell’organigramma delle istituzioni sportive nazionali, proprio onde evitare il discusso fenomeno delle c.d. pene accessorie fisse14.
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Cfr. Cass. pen., Sez. III, (ud. 18.02.2016), 19.04.2016, n. 16066; Cass. pen., Sez. III, (ud. 21.06.2007) 12.07.2007, n. 27279; nello stesso senso, ancorché in tema di commercio clandestino di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, Cass. pen., Sez. II, (ud. 10.11.2016) 19.01.2017, n. 2640; ed ancora, Cass. pen., Sez. II, (ud. 15.11.2011) 24.11.2011, n. 43328. Contra Cass. pen., Sez. VI, (ud. 22.06.2017) 28.08.2017, n. 39482. 12 L. Picotti, Il dolo specifico. Un’indagine sugli ‘elementi finalistici’ delle fattispecie penali, Milano, 1993, 595 ss. 13 Su tutti si veda S. Bonini, Doping e diritto penale prima e dopo la legge 14 dicembre 2000, n. 376, in Nuove esigenze di tutela nell’ambito dei reati contro la persona, S. Canestrari - G. Fornasari (a cura di), Bologna, 2001, 255 ss. 14 Che attualmente sembrano trovare una nuova “stagione d’oro” in tema di riforma (ennesima) dei reati contro
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Ai fini di maggior completezza occorre infine rilevare che a) le ipotesi di eterodoping ed autodoping sono procedibili d’ufficio, b) non consentono l’applicazione di misure precautelari, come il fermo, ad es., né, tantomeno, cautelari personali, e c) a seguito della sentenza di condanna è sempre ordinata la confisca dei farmaci, delle sostanze farmaceutiche e delle altre cose servite o destinate a commettere il reato (comma 6).
3. Il commercio illegale di sostanze dopanti. Da fattispecie monoffensiva a dolo generico a fattispecie plurioffensiva a dolo specifico. Ciò rilevato delle fattispecie di eterodoping ed autodoping, prendiamo in considerazione il commercio illegale di farmaci e sostanze ad effetto dopante (attualmente disciplinato dal comma 7 della novella, in precedenza dall’art. 9, comma 7, L. 376 cit., oramai abrogato). Non v’è dubbio che la condotta in esame trovi maggiori affinità con l’eterodoping, soprattutto nell’accezione del “procurare ad altri” le sostanze dopanti (c.d. procacciamento): altrettanto palesi, tuttavia, le differenze strutturali tra le due ipotesi di reato in tema di elemento oggettivo. Il commerciare, diversamente dal procurare, rimanda ad a) un’attività connotata da una (quantomeno elementare) organizzazione strutturale, b) esercitata con continuità ed abitualità, e c) a chiari fini di locupletazione15. Attività che, secondo la lettera della legge – tanto di quella vigente, quanto di quella abrogata –, deve svolgersi «attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente». Se, quindi, in prospettiva oggettiva permangono le differenze tra le due fattispecie di reato, in prospettiva soggettiva, al contrario, la recente novella ha sensibilmente uniformato il commercio di anabolizzanti all’eterodoping; per cui verifichiamone qui di seguito la ragione. Sotto la vigenza della L. 376 cit. il commercio di sostanze dopanti era punito a titolo di dolo generico, da intendersi come coscienza e volontà di vendere sostanze vietate al di fuori dei circuiti di legale somministrazione, senza tuttavia alcun riferimento ad un fine ulteriore che dovesse connotare l’animus agendi: l’obiettivo del legislatore, quindi, era esclusivamente quello di evitare che tali sostanze fossero commercializzate al di là dei confini tratteggiati dalla normativa di settore, per garantire l’opportuna tutela della salute dei partecipanti alle competizioni sportive, unico bene giuridico oggetto di salvaguardia16. Vien da sé, per l’effetto,
la P.A.: per una critica alle pene accessorie fisse, cfr. già A. Manna, Sull’illegittimità delle pene accessorie fisse. L’art. 2641 del codice civile, in Giur.cost., 1980, 910 ss. 15 Cfr. Cass. pen., Sez. III, (ud. 28.02.2017) 21.04.2017, n. 19198; nel medesimo senso Cass. pen., Sez. III, (ud. 23.10.2013) 19.11.2013, n. 46246; Cass. pen., SS.UU., (ud. 29.11.2005) 25.01.2006, n. 3087; Cass. pen., Sez. VI, (ud. 20.02.2003), 11.04.2003, n. 17322, secondo cui «il termine commercio non può che evocare concetti tipicamente civilistici ed essere inteso, dunque, nel senso di un’attività di intermediazione nella circolazione dei beni che, sia pure senza il rigore derivante dal recepimento della definizione mutuata dagli artt. 2082 e 2195 c.c., sia tuttavia connotata dal carattere della continuità, oltre che da una sia pur elementare organizzazione». 16 Cfr. Cass. pen., Sez. III, (ud. 28.02.2017) 21.04.2017, n. 19198, secondo cui «In tema di tutela sanitaria delle attività sportive, integra l’ipotesi delittuosa di commercio clandestino di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, prevista dall’art. 9, comma settimo, della legge 14 dicembre 2000, n. 376, e non quella di somministrazione ad altri di tali sostanze, di cui al comma primo del medesimo articolo, chi fornisce anabolizzanti nell’ambito di un’attività commerciale, giacché il commercio clandestino, che realizza un reato di pericolo, per la sussistenza del
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che – come confermato dalla dottrina – non avesse alcun rilievo che gli acquirenti di dette sostanze fossero atleti, né tantomeno il livello, agonistico o dilettantistico, delle competizioni cui costoro avrebbero preso parte: «la struttura della l. 376 si presentava internamente armonica, con il sanzionare (art. 9 co. 7) in forma più rigorosa la fattispecie di commercio, posta a protezione della generalità dei praticanti sport, senza alcuna distinzione di livello competitivo»17. Attualmente non è più così. L’art. 586-bis c.p. presuppone infatti che il commercio illegale di anabolizzanti a) abbia ad oggetto sostanze dopanti idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, e b) sia finalizzato ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze. Muta quindi il presupposto soggettivo di rilevanza penale della condotta: essa sarà punibile se (e solo se) finalizzata all’alterazione dei risultati delle competizioni sportive agonistiche mediante modificazione delle condizioni psicofisiche degli atleti. Ciò comporterà inevitabili conseguenze anche sul piano oggettivo, trovando applicazione quelle ulteriori restrizioni dei confini dell’illiceità penale già analizzate in precedenza (infra § 3): la condotta, difatti, rileverà esclusivamente laddove esplichi le proprie conseguenze nei confronti di atleti, e nell’ambito di competizioni agonistiche, con conseguente esclusione, a differenza del passato, di tutto ciò che attiene al profilo dilettantistico, o comunque non ufficiale. Non è però tutto. La variazione del connotato soggettivo del reato incide infatti necessariamente anche sul bene giuridico oggetto di tutela: se, infatti, la punibilità a titolo di dolo generico era volta, come rilevato, a salvaguardare esclusivamente la salute dei partecipanti alle competizioni sportive18, a prescindere dal livello – agonistico o dilettantistico – delle stesse, il richiamo alla regolarità delle competizioni (agonistiche, in questo caso) operato dalla novella ha ampliato il novero dei beni giuridici (anche) al profilo patrimoniale. Con ciò, evidentemente, elevandola a fattispecie c.d. plurioffensiva (a differenza dell’eterodoping e dell’autodoping, infra § 3), strutturata in modo tale da tutelare sì la salute degli atleti, evitando la commercializzazione di anabolizzanti al di fuori dai circuiti consentiti, ma, al contempo, ponendo un freno a dinamiche di mercato illegittime, foriere di illeciti arricchimenti a favore di chi se ne renda responsabile. Siano consentite, a questo punto, alcune brevi considerazioni di sintesi. In primo luogo: l’assenza di riferimenti ad eventuali condizioni patologiche degli atleti, tali per ciò solo da giustificare il ricorso alle sostanze anabolizzanti (così come nelle ipotesi disciplinate dai primi due commi della fattispecie), è sintomo del fatto che, a nostro parere,
quale è sufficiente il dolo generico, è figura più grave espressamente fatta salva dalla clausola iniziale del predetto comma primo, di guisa che assorbe la condotta di somministrazione, per la quale è invece necessario il dolo specifico»; nello stesso senso Cass. pen., Sez. II, (ud. 10.11.2016) 19.01.2017, n. 2640; ed ancora Cass. pen., Sez. II, (ud. 15.11.2011) 24.11.2011, n. 43328, secondo cui «Per la configurabilità del delitto di commercio di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive (cosiddette anabolizzanti), previsto dall’art. 9, comma settimo, della l. 14 dicembre 2000, n. 376, in materia di lotta contro il “doping”, non è richiesto il dolo specifico, in quanto il commercio clandestino di tali sostanze viene punito indipendentemente dal fine specifico perseguito dal soggetto agente e configura un reato di pericolo, diretto a prevenire il rischio derivante dalla messa in circolazione di tali farmaci, al di fuori delle prescrizioni imposte dalla legge, per la tutela sanitaria delle attività sportive»; Cass. pen., SS.UU., (ud. 29.11.2005) 25.01.2006, n. 3087. 17 S. Bonini, Doping, cit. 18 Cfr. ex plurimis Cass. pen., SS.UU., (ud. 29.11.2005) 25.01.2006, n. 3087.
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il legislatore intenda sanzionare la condotta di commercializzazione illecita a prescindere da qualsivoglia circostanza, proprio perché connotata da disvalore penale intrinseco. Ed ancora: in tema di concorso formale fra il commercio di sostanze dopanti e la ricettazione, l’ampliamento del novero dei beni oggetto di tutela, diretta conseguenza delle modifiche introdotte in applicazione del principio della riserva di codice, non intacca in alcun modo la stabilità di quell’orientamento giurisprudenziale, per vero già consolidato sotto la vigenza della precedente normativa, secondo cui «Il reato di commercio di sostanze dopanti attraverso canali diversi da farmacie e dispensari autorizzati […] può concorrere con il reato di ricettazione […] in considerazione della diversità strutturale delle due fattispecie – essendo il reato [allora, ndr] previsto dalla legge speciale integrabile anche con condotte acquisitive non ricollegabili ad un delitto – e della non omogeneità del bene giuridico protetto, poiché la ricettazione è posta a tutela di un interesse di natura patrimoniale, mentre il reato di commercio abusivo di sostanze dopanti è finalizzato alla tutela della salute di coloro che partecipano alle manifestazioni sportive»19. In altri termini: la circostanza che, attualmente, la fattispecie tuteli anche profili patrimoniali non esclude la possibilità che le due ipotesi di reato concorrano, poiché, come si legge nella richiamata pronuncia, «Non è generalmente ravvisabile il rapporto di specialità codificato dall’art. 15 c.p. e la commissione di uno dei reati a confronto non comporta necessariamente anche la commissione dell’altro, stante la possibilità evidente di condotte acquisitive non ricollegabili ad un delitto. La condotta di illecito commercio, infatti, può essere realizzata anche da chi, dopo essere lecitamente entrato in possesso del prodotto dopante, si induca poi a cederlo illecitamente ad altri». Al tirar delle somme: anche a seguito della novella legislativa, è ragionevole ritenere che l’ipotesi in disamina possa concorrere con la ricettazione. Ed è proprio con riguardo alla ricettazione di farmaci dopanti che, da ultimo, preme evidenziare come, secondo consolidata giurisprudenza, il CONI sia legittimato a costituirsi parte civile in processi scaturenti da tali condotte, trattandosi non solo di parte danneggiata, ma anche, a nostro avviso, addirittura di “persona offesa”, in quanto istituzionalmente portatrice di un interesse pubblico al corretto e leale svolgimento delle competizioni sportive20. Per completezza espositiva è, infine, opportuno rilevare che il commercio di sostanze dopanti a) è ipotesi procedibile d’ufficio, b) consente l’arresto facoltativo in flagranza, ma non il fermo di indiziato di delitto, c) consente l’applicazione di misure cautelari personali.
4. Conclusioni. La codificazione della disciplina della tutela sanitaria dell’attività sportiva e, più in generale, della lotta al fenomeno del doping è stata una scelta, a nostro avviso, del tutto opportuna, considerata la sempre maggiore diffusione del medesimo, di pari passo con il business sportivo e tenuto debitamente conto della sua devastante potenzialità lesiva sulla salute dei consociati.
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Cfr. Cass. pen., SS.UU., (ud. 29.11.2005) 25.01.2006, n. 3087; nello stesso senso Cass. pen., Sez. II, (ud. 11.03.2010) 01.04.2010, n. 12744. Sul punto è concorde anche la dottrina: si veda, su tutti, G. Ariolli, I reati in materia di doping, in Giur. mer., 2006, suppl. 1, 76. 20 Cfr. Cass. pen., Sez. II, (ud. 08.03.2011) 29.03.2011, n. 12750; nello stesso senso Cass. pen., Sez. III, (ud. 06.11.2008) 17.12.2008, n. 46362, commentata da M. Iovino - C. Preziuso, Il rapporto tra il delitto di doping e la frode sportiva nella recente giurisprudenza di legittimità, in Diritto dello sport, 2009, 53 ss.
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L’unica perplessità, se tale si può definire, è relativa alla scelta di collocare l’art. 586-bis c.p. nel Titolo XII (“Dei delitti contro la persona”) del Libro II del codice penale, e nella specie nel Capo I (“Dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale”) (infra § 2): verifichiamone ora le ragioni. Come già rilevato, nel vigore della previgente normativa (speciale) l’eterodoping e l’autodoping erano puniti a titolo di dolo specifico ed erano, pertanto, volti a tutelare in via principale la salute degli sportivi (e, più in generale, dei consociati tutti) ed in via residuale (non trattandosi di fattispecie plurioffensive) il profilo patrimoniale connesso all’alterazione dei risultati delle competizioni sportive (infra §§ 2 e 3); il commercio di sostanze anabolizzanti, al contrario, era punito a titolo di dolo generico: chiaro, quindi, l’intento del(l’allora) legislatore, di concentrare l’attenzione – in termini di tutela del bene giuridico – esclusivamente sulla salute degli sportivi, a prescindere dal loro livello (professionisti o dilettanti) e dal grado delle competizioni (agonistiche o amatoriali). Attualmente, come rilevato, non è più così: il legislatore, in attuazione del principio della riserva di codice, ha equiparato tutte le condotte sotto il profilo soggettivo, sanzionandole a titolo di dolo specifico, ovvero in quanto (e solo se) finalizzate all’alterazione dei risultati delle competizioni agonistiche. Ebbene, con tale scelta il legislatore ha connotato di un’aura di patrimonialità il commercio di anabolizzanti, sino ad ora ultimo elemento normativo che continuava ad ancorare la disciplina di settore (principalmente) alla tutela della incolumità individuale degli sportivi; ed allora, a nostro avviso, poteva in teoria apparire più opportuna una diversa collocazione dell’art. 586-bis c.p., ovverosia nell’ambito di fattispecie di reato volte a proteggere il patrimonio dei soggetti passivi delle condotte. Evidentemente, però, il legislatore, nell’ottica della c.d. seriazione dei beni giuridici21, ha preferito ancora dare maggior rilievo al bene giuridico posto al vertice della ideale scala di valori di indole costituzionale, pure ormai arricchito da indubbi profili, anche di carattere patrimoniale.
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V. Fiorella, voce Reato in generale, in Enc. dir., XXXVIII, 1988, 1289 ss.
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Tempus commissi delicti e successione di leggi nel delitto di omicidio colposo stradale ad evento differito: la questione alle Sezioni Unite Penali Sommario: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. – 2. Il tempus commissi delicti nella successione di leggi penali nel tempo. – 2.1. I criteri di individuazione del tempus commissi delicti. – 2.2. Il criterio dell’evento. – 3. Tempus commissi delicti e teoria della condotta: profili problematici. – 4. La prospettiva costituzionale. Abstract At the end of the highlighted contrast (at least potential) of law guidelines cases, the conditions for donation pursuant to art. 618 paragraph 1 cp.p.p. the following question is referred to the Unified Sections: «If, in the case of a conduct wholly enforced under a more favorable criminal law and an event that has occurred in the presence of a more unfavorable criminal law, the current sanctioning treatment must be applied. to the conduct, or in the time of the event». All’esito del rilevato contrasto (quanto meno potenziale) di orientamenti giurisprudenziali si ravvisano le condizioni per devolvere a norma dell’art. 618 comma 1 c.p.p. alle Sezioni Unite il seguente quesito: «Se a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento».
1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. L’ordinanza in epigrafe indicata scaturisce dal ricorso presentato avverso una sentenza di applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p., emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato, per un omicidio stradale (art. 589-bis c.p.), commesso il 28 agosto 2016. La questione giuridica posta dall’ordinanza sorge da una peculiare vicenda concreta: la condotta di guida dell’imputato fu posta in essere il 20 gennaio del 2016; il decesso della persona offesa, indubbiamente causato dagli esiti del sinistro stradale, è avvenuto invece successivamente, il 28 agosto dello stesso anno. Il ricorrente lamenta quindi, come unico motivo di doglianza, che il reato ascrittogli a norma dell’art. 589-bis c.p. è stato introdotto nel nostro codice penale in epoca successiva alla condotta contestata, con la Legge n.41 del 23 marzo 20161. In particolare, ad avviso del ricorrente, è illegittima per violazione degli artt. 25
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Per un approfondimento sul nuovo delitto di omicidio colposo stradale si vedano: G. Losappio, Dei nuovi delitti
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Cost., 7 Convenzione EDU e 2 del codice penale l’applicazione al suo caso del nuovo 589-bis c.p., anziché il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, vigente all’epoca della condotta. Con l’applicazione della norma più recente, l’imputato subisce infatti conseguenze sanzionatorie più gravose senza che queste potessero essere prevedibili al momento della condotta. La Quarta Sezione della Suprema Corte, dopo aver ritenuto ammissibile il ricorso per Cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per ragioni inerenti alla pena prevista in astratto, procede all’esame dell’unica questione proposta dal ricorrente. La questione sollevata dal ricorrente ed esaminata dalla Cassazione attiene al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio nei reati di danno. L’individuazione della legge applicabile al caso concreto, infatti, presuppone l’identificazione del tempo in cui il delitto di danno può dirsi compiuto: in base al momento di commissione del delitto si determina la norma applicabile; di conseguenza, a seconda di quale sia il momento di commissione del delitto, può o meno venire in evidenza un problema di successione di leggi nel tempo. Prendendo le mosse dall’orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’ordinanza espone innanzitutto le precedenti pronunce in cui per l’individuazione del tempus commissi delicti è stato adottato il criterio risolutivo dell’evento, noto anche come teoria della consumazione2. Secondo tale indirizzo, per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della consumazione del reato che, nei reati di danno a forma libera, interviene al momento del verificarsi dell’evento previsto dalla fattispecie incriminatrice. Tale percorso argomentativo implica che in caso di reati ad evento differito, qualora tra condotta ed evento sia divenuta efficace una nuova fattispecie penale, non si pone un problema di successione di leggi nel tempo: risulta comunque applicabile l’unica legge vigente al momento in cui il fatto antigiuridico è venuto ad esistenza, ossia il momento in cui si è verificato l’evento.3 Pur sottolineando la coerenza di questa argomentazione, la Corte ne rileva «le notevoli controindicazioni con riferimento a fattispecie del tipo di quella che forma oggetto del pre-
di omicidio e lesioni “stradali”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 2016; Da un diritto penale frammentario ad un diritto penale frammentato, ivi, 2016; Piccioni, L’omicidio stradale, Torino, 2016; Id., Molte le incongruenze che rischiano la scure della consulta, in Guida al diritto, 9 Aprile 2016, n. 16, 51/54; A. Roiati, L’introduzione dell’omicidio stradale e l’inarrestabile ascesa del diritto penale della differenziazione, in www.dirittopenalecontemporaneo. it, 2016; E. Squillaci, Ombre e (poche) luci nell’introduzione dei reati di omicidio e lesioni personali stradali, ivi, 2016; A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, 4^ ed. Milano, 2017, 249 ss. 2 Sull’evento in senso generale si veda, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche: F. Mazzacuva, Evento, in Dig. disc. pen., Torino, IV, 445 ss. Più in dettaglio, a proposito della teoria dell’evento nel tempus commissi delicti: F. Antolisei, Diritto penale. Parte generale, 16^, Milano, 2003; in Giurisprudenza ex multis: Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2016 n. 44335; Cass. pen. sez. fer. 09 settembre 2014 n. 3148; Cass. pen. sez. VI 09 ottobre 2012 n. 4157; Cass. pen. sez. IV 14 maggio 1988; Cass. pen. sez. V 18 settembre 2015 (deposito: 16/2/2016) n. 6340; Cass. pen. sez. IV 15 novembre 2013 (deposito: 14/1/2014) n. 1194; si veda inoltre la giurisprudenza citata in G. Forti - G. Seminara - S. Zuccalà, Commentario breve al Codice penale, Padova, 2016, 91 ss. 3 Così si esprime testualmente Cass. pen., sez. IV, 17 aprile 2015 n.22379: “non vi è ragione di evocare l’art. 2 c.p., comma 4, per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. È cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta”.
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sente giudizio» precisando come «una rigorosa adesione al ragionamento posto a base delle richiamate pronunzie implicherebbe che, anche in presenza di una condotta – nella specie istantanea, anziché di durata – posta in essere (oltretutto per colpa) sotto il vigore di una disciplina legislativa più favorevole in punto di trattamento sanzionatorio, trovi applicazione la legge penale in vigore al momento dell’evento, intervenuto a distanza di tempo, pur quando essa preveda per il reato de quo conseguenze sanzionatorie più severe rispetto a quelle precedentemente vigenti»4. Nel corso dell’ordinanza vengono quindi valutate le posizioni sostenute dalla giurisprudenza meno recente5 e dalla dottrina maggioritaria, quest’ultima da sempre orientata alla risoluzione del problema tramite il diverso criterio della condotta. Secondo tale differente indirizzo, è al momento dell’esecuzione dell’attività del reo che bisognerebbe guardarsi per l’individuazione della disciplina applicabile in caso di successione di leggi poiché, come autorevolmente sostenuto, la condotta è l’estrinsecazione del processo di motivazione dell’agente e l’atto di ribellione con riferimento al quale, secondo la norma allora vigente, il soggetto poteva eventualmente rappresentarsi specifiche conseguenze del suo operato6. La IV Sezione, divergendo dalla posizione maggioritaria della più recente giurisprudenza di legittimità, propende per l’applicazione del criterio della condotta, quanto meno per i delitti di danno a forma libera, soprattutto nel caso in cui l’evento sia sopravvenuto all’introduzione di una fattispecie modificativa della disciplina. La Sezione, rilevando sul punto l’insoluto contrasto dogmatico tra le soluzioni applicabili, rimette quindi la questione all’analisi delle Sezioni Unite del Supremo Consesso.
2. Il tempus commissi delicti nella successione di leggi penali nel tempo. Nell’ordinanza in commento la IV Sezione pone quindi a confronto i due principali criteri di individuazione del tempus commissi delicti, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, si svilupperà il presente contributo sull’analisi di entrambe le contrastanti posizioni, auspicando di trarne conclusioni accettabili sia sul piano dogmatico che di politica criminale. Come si è accennato, il problema della successione di leggi penali non può prescindere dalla individuazione del tempo di commissione del reato, poiché può darsi che nel tempo intercorso tra due leggi successive si incardini un istante in cui sia venuto ad esistenza “nel reale non giuridico” soltanto una parte o un frammento di un comportamento umano o di un accadimento non umano a cui le due leggi attribuiscano criteri di rilevanza diversi o effetti diversi7. Tema indubbiamente complesso, cui il legislatore non dedica alcuna disposizione ad hoc e su cui, di conseguenza, dottrina e giurisprudenza si sono spesso interrogate in senso critico, ma mai completamente soddisfacente, poiché in mancanza di un criterio chiarificatore la scelta interpretativa volta a determinare il momento in cui un reato possa dirsi commesso
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Cfr. Ord. Sez. IV n. 21286 del 05 aprile 2018, cit., 8 e 9. Cass. 14 novembre 1956, in Giust. Pen., 1957, II, 890; Cass. 5 ottbre 1972, in Giust. Pen., 1973, II, 267. 6 M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I (art. 1-84), Milano, 2004, 53; A. Pagliaro, voce Legge penale nel tempo, in Enc. Dir., Milano, 1973, XXIII, 1074; A. Pagliaro, voce Tempus commissi delicti, in Enc. dir., Milano,1992, XLIV, 82 ss. 7 F. La Valle, Voce Successione di leggi, in Nss. D.I., 1971, XVIII, 635 5
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dovrà essere affrontata sul piano dogmatico, ma anche prettamente logico, in modo tale da ottenere risvolti coerenti alle funzioni prasseologiche e di politica criminale dell’istituto8.
2.1. Criteri di individuazione del tempus commissi delicti. La dottrina si è interrogata per individuare un criterio discretivo stabile che potesse fungere da indicatore per l’individuazione del tempus commissi delicti ed è giunta alle conclusioni più varie: si è guardato talvolta all’azione, talaltra all’evento e non si è escluso il ricorso ad un criterio misto9. Tutte le ricostruzioni concordano tuttavia su di un punto: non può essere individuato un tempo del commesso reato che sia valido per tutti gli istituti che vi facciano riferimento10. Un tentativo ricostruttivo fa leva sul dettato dell’art. 158 c.p. per ricostruire la nozione di tempus commissi delicti nel diritto positivo. Secondo questa disposizione, il termine di prescrizione del reato decorre: dal giorno della consumazione, per il reato consumato; dal giorno in cui sia cessata l’attività del colpevole, per il delitto tentato; o dal momento in cui sia cessata la permanenza o la continuazione per i reati continuati o permanenti. Tale norma, facendo espresso riferimento “al giorno del commesso reato” dà, a parere di parte della dottrina, prova del fatto che in effetti il legislatore avesse voluto fornire proprio in questa disposizione i criteri per individuare il tempus commissi delicti11. La principale critica cui tale criterio di individuazione è stato sottoposto ricalca senza dubbio le remore della dottrina maggioritaria a proposito dell’individuazione del tempus commissi delicti al momento dell’evento: criterio cui l’art. 158 c.p. sembra ispirarsi. Non parrebbe equo infatti ritenere, come nel caso di specie, che un reato ad evento differito venga punito con la legge meno favorevole, anche se intervenuta dopo la conclusione della condotta, soltanto perché l’evento sia venuto ad esistenza sotto la vigenza di una nuova norma12. Altri hanno ritenuto possibile trarre argomenti a proposito del fondamento legislativo del tempus commissi delicti dalle diverse norme del Codice penale che regolano la definizione del luogo di commissione del delitto, in cui tra l’altro si fa riferimento ad un criterio a base mista, che tiene in considerazione sia la condotta che l’evento lesivo13.
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S. Del Corso, Voce Successione di leggi penali, in Dig. pen., IV, 1991, XIV, 110; F. La Valle, op. ult. Cit. 82; Siniscalco, Irretroattività delle leggi in materia penale. Disposizioni sostanziali e disposizioni processuali nella disciplina della successione di leggi, Milano, 1987.; N. Levi, Tempus commissi delicti, in Ann. Dir. e Proc. Pen., 1933, 373; M. Siniscalco, Tempus commissi delicti, reato permanente e successione di leggi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1960, 3, 1093 ss. 9 S. Del Corso, op. cit., 112. 10 A. Pagliaro, Voce Legge penale nel tempo, in Enc. dir., Milano, 1973, XXII, 1074; G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna-Roma, 2014, 116; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2017, 100 ss. 11 R. Garofoli, Manuale di diritto penale, parte generale, 12^, Roma, 2016, 283 ss.; per una critica all’estensione analogica del disposto dell’art. 158 si veda anche N. Levi, op. cit., 373. 12 Per delle approfondite critiche all’utilizzo dei criteri dettati dall’art. 158 c.p. e del criterio dell’evento in generale si veda F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, 16^, Milano, 2003, 82 ss. 13 La c.d. Teoria mista prende le mosse dall’assunto per cui non può esistere una regola valida per tutte le tipologie di delitto, e di conseguenza lascia al giudice, nella valutazione del singolo caso concreto, la possibilità di fissare il tempus commissi delicti nell’attimo della condotta, come in quello dell’evento, rispetto alla individuazione della legge più favorevole per il reo. Tale criterio ricostruttivo ha subito pressanti critiche proprio in ragione della sua indeterminatezza che potrebbe con facilità sconfinare in un arbitrio da parte del singolo organo giudicante.
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Tale ricostruzione presta tuttavia il fianco ad un duplice ordine di critiche. La tesi dell’applicazione delle regole previste dall’art. 6 c.p., sostiene l’applicazione in via analogica o quanto meno per interpretazione estensiva di regole volte a definire un diverso istituto, che per di più fa riferimento al luogo in cui il delitto “si considera” commesso, in chiave quindi prettamente ipotetica ed indubbiamente giustificata dagli specifici fini cui l’art. 6 è indirizzato14. La norma fissata dal legislatore per l’individuazione del locus commissi delicti è infatti volta all’applicazione delle regole sulla competenza territoriale tra Stati: è quindi orientata a fini molto diversi rispetto a quelli che sottostanno alle norme di diritto intertemporale. Per il caso della competenza territoriale il legislatore ha adottato il principio dell’ubiquità che permette di considerare commesso sul nostro territorio anche un delitto in cui l’azione o l’omissione è ivi avvenuta in tutto o in parte ovvero ivi si è verificato l’evento. Al pari di quanto accade con la menzionata teoria mista, per il diverso caso della individuazione del tempo di commissione del reato, il principio dell’ubiquità non è andato esente da critiche. Tale principio è stato infatti ritenuto dalla dottrina maggioritaria eccessivamente ampio e di conseguenza causa di riserve sia sul piano delle scelte di politica criminale che di legittimità costituzionale rispetto ai principi di legalità e colpevolezza15. Sicché già le critiche cui tale principio è sottoposto nell’ambito della sua legittima applicazione avrebbero dovuto dissuadere da una sua estensione anche all’ambito del tempus commissi delicti. Al contempo la contiguità del principio di ubiquità al fondamento teorico della c.d. teoria mista lo espone alle medesime riserve cui tale teoria conduce: eccessivo asservimento al singolo caso concreto, carenza di certezza nell’applicazione del criterio e, infine, rischio di arbitrio del singolo giudicante16. Altri autori hanno invece rinvenuto un utile criterio discretivo per l’individuazione del tempo in cui il reato è stato commesso nella dogmatica del delitto tentato17. Questa tesi muove da alcune premesse: che non v’è una disposizione per l’individuazione del tempus commissi delicti, che l’applicazione analogica delle altre norme vada rigettata per i motivi appena esposti, e che la regola debba discendere dal dettato costituzionale. Sicché, si è affermato, «il tempo in cui il reato è commesso ai fini della successione di leggi penali, coincide con il momento in cui il fatto dell’agente assume una iniziale rilevanza giuridico penale con correlativa idoneità a produrre effetti penali» e tale istante non può che individuarsi nel momento in cui l’atto è idoneo e diretto in modo non equivoco a commettere il reato18. Tale teoria sembrerebbe in primo luogo avvicinarci ad una logica e consequenziale giustificazione per l’applicazione della teoria della condotta poiché – come meglio si coglierà più avanti – la possibilità di fissare il momento di rilevanza giuridica del fatto ad una fase prodromica all’evento esclude la necessità che il delitto debba essere consumato per potersi definire commesso.
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Podo, Successione di leggi penali, in Nss. D.I., Torino, 1971, XVIII, 661. A. Manna, Corso di diritto penale, cit., 158 ss. 16 Critici nei confronti della teoria mista appaiono: A. Manna, Corso di diritto penale, cit., 154; G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, cit., 116. 17 Podo, op. cit., 662 ss. 18 Podo, op. cit., 661. 15
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In realtà, questo criterio è tuttavia inapplicabile per i delitti per i quali non è penalmente rilevante il tentativo, come, ad esempio, accade proprio per il delitto di omicidio colposo (incluso quello stradale). Sicché anche aderendo a questa tesi, il residuo criterio risolutivo concretamente applicabile sarebbe quello della consumazione (rectius dell’evento) che, ad avviso della dottrina maggioritaria, è costituzionalmente illegittimo, proprio per i casi più complessi come quello del delitto ad evento differito che si sta analizzando. Come si constaterà meglio più avanti infatti «la tutela del bene fondamentale della libertà è garantita dal riferimento ad una disciplina che dal momento del “fatto” non può subire modificazioni le quali si risolvano contro il cittadino»19.
2.2. Il criterio dell’evento. La giurisprudenza di legittimità si è negli ultimi anni affidata al criterio dell’evento, anche nel caso in cui ciò abbia la conseguenza di applicare una legge in concreto meno favorevole al reo. Nell’ordinanza in commento sì fa a tal proposito riferimento a Cassazione Penale, Sezione IV n. 22379 del 17 aprile 2016 (Sandrucci e altri), in cui per l’individuazione del trattamento sanzionatorio si ebbe riguardo alla legge vigente al momento della consumazione del reato che, nel caso di omicidio colposo ad evento differito, andrebbe individuato nel momento di verificazione dell’evento20. Nell’arresto citato si legge infatti: «non vi è ragione di evocare l’art. 2 c.p., comma 4, per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. È cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta»21. Tale percorso argomentativo portava la Cassazione ad escludere che in effetti potesse rilevarsi un problema di successione di leggi nel tempo, sottolineando come al momento di consumazione del reato, e quindi di sua intervenuta rilevanza per l’ordinamento, la norma vigente fosse una soltanto. Per quanto ad una prima lettura tale argomentazione possa sembrare logicamente lineare, in realtà ad una attenta analisi emerge come i due istituti (successione di leggi nel tempo e tempus commissi delicti) vengano trattati in maniera del tutto autonoma a scapito di una ratio comune espressa dal legislatore nella costruzione dell’art. 2 c.p.22. Il criterio dell’evento si basa infatti sull’assunto per cui il delitto d’evento a forma libera può venire ad esistenza solo nel momento in cui l’effetto della condotta abbia prodotto un mutamento della realtà materiale o giuridica. La scelta di inserire nella fattispecie astratta un riferimento diretto ad un “sostrato fattuale”23 mira ad arginare il processo di formalizzazione del bene giuridico e, a garanzia del
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M. Siniscalco, op. cit., 97. Per un commento alla citata sentenza Sandrucci si veda: S. Zirulia, Irretroattività sfavorevole e reati d’evento “lungo-latente”: riflessioni a margine di una discutibile pronuncia della Cassazione e considerazioni sui rimedi esperibili a Strasburgo, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 23 ottobre 2015. 21 Cfr. sez. IV, n. 22379 del 17/04/2015. 22 Il principio di irretroattività dovrà guidare tanto l’individuazione della legge applicabile al caso concreto quanto l’individuazione del momento in cui il delitto può dirsi commesso. 23 F. Mazzacuva, Voce Evento, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1944, IV, 445. 20
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reo, ad evitare che la tutela penale risalga oltre il limite della punibilità in caso di pericolo, quanto meno astratto, del bene giuridico24. È dunque comprensibile l’esigenza di fissare la rilevanza giuridica del fatto, anche al fine della individuazione della legge applicabile, ad un accadimento esterno ed ulteriore rispetto alla condotta tenuta dal soggetto agente. Al contempo non si può tuttavia ignorare l’irragionevolezza che si cela nell’applicazione indiscriminata del principio della consumazione per l’individuazione della legge applicabile ai delitti ad evento differito. Se, infatti, la successione di leggi nel tempo non può prescindere dall’individuazione del momento di consumazione, è altrettanto vero che l’individuazione del tempus commissi delicti ai fini dell’applicazione delle regole sulla successione di leggi non può scaturire da una costruzione completamente autonoma rispetto al principio della legge più favorevole che guida la norma25. Di per sé appare quindi perfettamente comprensibile la necessità di fissare la rilevanza giuridica del fatto, anche al fine della individuazione della legge applicabile, ad un accadimento esterno ed ulteriore rispetto alla condotta tenuta dal soggetto agente, ma al contempo non può ignorarsi l’irragionevolezza che si cela nell’applicazione indiscriminata del principio della consumazione per l’individuazione della legge applicabile ai delitti ad evento differito. La deroga che la giurisprudenza pratica sembra discendere dall’errata convinzione che il principio base che regoli la successione di leggi penali nel nostro diritto positivo sia quello dell’irretroattività. Al contrario, l’irretroattività è soltanto uno dei corollari del principio del favor rei cui tutta la materia è orientata26: ammettendo infatti l’impossibilità di stabilire un tempo del commesso reato che possa essere valido per tutti gli istituti penalistici, è comunque doveroso orientare le esigenze del diritto positivo in senso conforme al principio garantista del favor rei27. La ricostruzione della giurisprudenza viola poi l’interpretazione che del principio di conoscibilità della legge penale opera la Corte Costituzionale nelle sentenze n. 364 e 1085 del 1988, in cui viene elevato a vero e proprio principio di civiltà: in quanto corollario del principio di legalità, garantisce la libertà dell’individuo dallo Stato, assicurandogli la sicurezza giuridica delle consentite libere scelte d’azione28. Nei casi come quello esaminato dall’ordinanza in commento, l’adozione del criterio dell’evento comporta infatti effetti inammissibili dal punto di vista della legittimità costituzionale. Nelle citate sentenze della Corte Costituzionale a proposito del principio di colpevolezza in rapporto alla conoscibilità del precetto violato si legge infatti: «La strutturale “ambiguità” della tecnica penalistica conduce il diritto penale ad essere insieme titolo idoneo d’intervento contro la criminalità e garanzia dei c.d. destinatari della legge penale. Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di compor-
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F. Mazzacuva, op. loc. ult. cit.; F. Stella, La descrizione dell’evento. L’offesa – il nesso causale, Milano, 1970; D. Santamaria, Voce Evento (diritto penale), in Enc. Dir., Milano, 1967, XVI, 118. 25 F. Mazzacuva, op.cit., 445; F. Stella, Op. loc. ult. cit.; D. Santamaria, op.cit., 118. 26 A. Pagliaro, Legge penale nel tempo, in Enc. Dir., Milano, 1973, XXIII, 1064. 27 A. Pagliaro, op. cit., 1074. 28 G.L. Gatta, Abolitio Criminis e successione di norme integratrici, teoria e prassi, Milano, 2008, 119 ss.; T. Padovani, Diritto Penale, Milano, 2012, 60; S. Del Corso, Voce Successione di leggi penali, in Dig. Disc. Pen., Torino, 1999, XIV, 111.
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tamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto. Il principio di colpevolezza, in questo senso, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto»29. Tale autorevole interpretazione del principio di colpevolezza appare del tutto incompatibile con l’applicazione delle norme incriminatrici ad una condotta posta in essere in un momento in cui esse non vigevano: la conoscibilità della norma penale violata presuppone, logicamente, l’esistenza e la vigenza della norma stessa nell’ordinamento giuridico al momento in cui il soggetto pone in essere il comportamento, cui consegue la legittimazione della pena in chiave di prevenzione generale30. Come sottolineato più di recente dalla Corte Costituzionale infatti, perché la minaccia della pena possa fungere da strumento di prevenzione generale è logicamente necessario che quella minaccia preesista alla condotta stessa31. La Quarta Sezione con l’ordinanza in commento apre per la prima volta alla possibilità che la Cassazione a Sezioni Unite si pronunci sul tema, rilevando come: «applicando il criterio dell’evento il soggetto non sarebbe in grado di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge: la legge successiva verrebbe così applicata retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui non era conoscibile»32. Da questo passaggio argomentativo dell’ordinanza si evince chiaramente la prova di quanto poco fa sostenuto: se l’individuazione del tempo di commissione del reato è necessaria al fine di applicare al caso concreto le norme sulla successione di leggi, non si spiega come possa ammettersi che il risultato del criterio prescelto comporti un effetto irragionevole anche nei riguardi della ratio della norma che permette di applicare. In altre parole, sostenendo che il delitto è venuto ad esistenza al momento dell’evento e che solo da questo momento in poi può eventualmente crearsi un problema di successione di leggi nel tempo, implicando che sussista come vigente e dunque applicabile una sola norma, si elude l’applicabilità del dettato dell’art. 2 co. 4 c.p., il quale prescrive che tra due leggi successive debba essere applicata la più favorevole al reo. Il risultato così ottenuto è quello di poter applicare una legge meno favorevole, senza per questo aver violato le norme in tema di successione, per il tramite dell’istituto del tempus commissi delicti, che sarebbe dovuto servire a dare pratica attuazione ai principi che sostengono la successione di leggi in senso favorevole al reo.
29
Corte Costituzionale n. 364 del 23 marzo 1988, considerato in diritto par. 8 cit.; si veda per un commento: G. Azzali, Scritti di teoria generale del reato, Milano, 1995, 33 ss.; tale posizione della Corte è tra l’altro perfettamente compatibile con le recenti valutazioni effettuate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso Contrada c. Italia (N. 3 del 14/04/2015), dal testo della sentenza si evince infatti una interpretazione conforme dell’art. 7 CEDU ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale. 30 G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008, 120-121; C. Fiore - S. Fiore, Diritto penale, parte generale, Milano-Roma, 2013, 4^, 85 ss.; G. Marinucci - E. Dolcini, Corso di diritto penale, Milano, 2015, 5a, 255 ss. 31 G.L. Gatta, op. cit., 121; cfr. Corte Cost. 8 novembre 2006 n. 394. 32 Cit. Ord. 21286/2018 pag. 9.
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Tale applicazione non condivisibile dell’istituto del tempus commissi delicti non si riscontra invece nel caso in cui si assuma come criterio il momento della condotta. Applicando il criterio della condotta, infatti non si elude il dettato dell’art. 2 comma 4 c.p., poiché assumendo come rilevante per l’ordinamento già il comportamento del soggetto agente, quando ad una successione di leggi dovesse sopraggiungere l’evento, ci si troverebbe proprio nel caso regolato dall’ art. 2 comma 4 c.p., con la conseguenza di dover applicare la legge più favorevole al reo. Una soluzione alla critica appena esposta non sembra rilevarsi neanche nelle altre pronunce evocate nell’ordinanza in commento, che si collocherebbero nel solco dei principi affermati nell’arresto Sandrucci. In riferimento alla Sez. I, n. 20334 dell’11/05/2006, d’ora in poi Caffo, e alla Sez. V, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita, va sottolineato che entrambe le pronunce riguardano condotte abituali o permanenti, o comunque in cui la condotta si è protratta nel tempo oltre il momento dell’entrata in vigore della normativa33. Tale dato, sommato all’assunto per cui il delitto abituale si consuma nel momento in cui si realizza l’ultima condotta che integra il fatto di reato, mentre il reato permanente si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l’ultimo atto con cui volontariamente mantiene la situazione antigiuridica, porta a considerare non violata la ratio sottesa all’art. 2 c.p. in quanto una parte della condotta è stata posta in essere quando il soggetto agente poteva già avere contezza delle nuove e più gravose conseguenze della sua attività illecita34. Di conseguenza tali precedenti citati al fine di avvalorare la tesi della fondatezza della teoria dell’evento non sono pertinenti: poiché, come autorevolmente sottolineato, nei reati ad evento differito, a differenza di quanto accade con i reati permanenti, può non ricorrere alcuna ribellione del reo contro la legge successiva, perché l’agente non ha in genere la possibilità di eliminare le conseguenze della condotta già compiutasi sotto la legge anteriore35. In conclusione, la principale critica cui l’applicazione del criterio dell’evento presta il fianco è di essere un principio dogmaticamente corretto ma assiologicamente irragionevole: sebbene la fattispecie del reato di evento si perfezioni e dunque quel reato si consumi nell’istante in cui l’evento si verifica, dall’applicazione di questo schema dogmatico al delitto ad evento differito scaturiscono effetti contrastanti rispetto alla ratio dell’art. 2 c.p. Ciò suggerisce di tentare di ricostruire un diverso criterio di individuazione della legge applicabile ai reati ad evento differito.
33
Per un approfondimento sul punto, si veda R. Garofoli, op. cit., 284 ss. Sul tempus commissi delicti nei reati permanenti ed abituali si vedano: G. Marinucci - E. Dolcini, op. cit. 133; F. Mantovani, Diritto penale, 9a, Padova, 2015, 100; T. Padovani, Diritto Penale, 11^, Milano, 2017, 60 e 61; A. Pagliaro, Legge penale nel tempo, in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973,1063; contrariamente ritengono che nel reato permanente il tempus commissi delicti vada individuato al momento dell’inizio della consumazione: M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, artt. 1-84, Milano, 1995, I, 53 ss.; A. Manna, Corso di diritto penale parte generale, 4a, Padova, 2017, 154; G. Fiandaca-E. Musco, op. cit., 117. 35 Podo, op.cit., 661. 34
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3. Tempus commissi delicti e teoria della condotta: profili problematici. In termini generali, la condotta del reo può essere definita come l’atteggiamento che egli assume nei confronti del reale che lo circonda, posto in relazione ad una prescrizione positiva o negativa (obbligo o divieto) dettata dall’ordinamento.36 Tale tentativo di definizione contiene in sé il concetto posto, in via di massima, alla base di tutte le teorie sull’azione storicamente sviluppate in dottrina e giurisprudenza37: che la volontà riprovevole del soggetto si manifesti e sia percepibile ab externo, in modo da distinguerla da quei comportamenti “meramente interni” che non ottengono rilevanza penale sulla base del generale principio del “cogitationis poenam nemo patitur”. La forma in cui la volontà riprovevole del soggetto si esprime, per essere ritenuta penalmente rilevante dall’ordinamento, deve di volta in volta rientrare in quanto astrattamente previsto dal legislatore all’interno della fattispecie, in senso perfettamente aderente al dettato legislativo per i reati a forma vincolata, nei limiti in cui possa dirsi causalmente collegata ad un determinato evento nei reati a forma libera38. Proprio perché l’omicidio colposo stradale è un reato a forma libera, è ancor più complesso ai fini dell’individuazione del tempus commissi delicti riconoscere autonoma rilevanza giuridica alla sola azione posta in essere dal soggetto agente, ossia applicarvi la teoria della condotta. Per questi reati, infatti, il mero agire in maniera corrispondente ad una fattispecie penale comporta che in assenza di un evento non possa dirsi configurata la fattispecie prevista e punita dal codice penale: la condotta assume significato per l’ordinamento in quanto si traduce insieme a tutti gli altri elementi tipizzati nella lesione dell’interesse tutelato e nel suo essere realizzazione esterna dell’atteggiamento riprovevole del soggetto39. In altre parole la giurisprudenza sostiene, non a torto, che nel caso di specie il tempo di consumazione del reato vada posto al momento di verificazione dell’evento poiché se l’evento morte della vittima non si fosse poi di fatto verificato, pur sussistendo l’idoneità della condotta di guida tenuta dal soggetto agente a cagionarlo – in astratto –, comunque il comportamento non sarebbe stato punibile a titolo di omicidio colposo stradale: il reato senza l’evento non sarebbe mai venuto ad esistenza. Sul punto appare, tuttavia, utile effettuare una breve digressione. Per il caso del delitto ad evento differito, ai soli fini dell’individuazione del tempus commissi delicti e, di conseguenza, della legge concretamente applicabile, emerge un ulteriore nodo problematico. Il fatto che la verificazione dell’evento sia intervenuta dopo l’entrata in vigore della nuova normativa meno favorevole non è in alcun modo attribuibile alla volontà del soggetto agente, che subirà delle conseguenze sanzionatorie più gravose in conseguenza di un fatto né voluto né tanto meno prevedibile al momento della effettuazione della condotta lesiva.
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G. Marini, Voce Condotta, in Dig. Disc. Pen., IV ed., Torino, 1989, III, 14. Per dei riferimenti alle diverse teorie sull’azione si vedano: M. Gallo, La teoria dell’azione finalistica nella più recente dottrina tedesca, in Studi urbinati, 1949-1950, 213 ss.; G. Marinucci, Il reato come azione, Milano, 1971; G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930; T. Padovani, Diritto Penale, Milano, 1999, 149 ss.; G. Fiandaca - E. Musco, op. cit., 162; F. Mantovani, op. cit., 134; F. Antolisei, op. cit., 189 ss. 37
38 39
G. Marini, voce Condotta, in Dig. Disc. Pen., 4a, III cit., 19.
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Un solo istituto del nostro codice penale prevede la possibilità che la punibilità dell’agente venga sottoposta alla sussistenza di “condizioni” ulteriori, esteriori ed autonome rispetto al fatto costituente reato, l’art. 44 c.p. il quale recita: “quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento da cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui voluto”40. L’art. 44 c.p. regola le c.d. condizioni obiettive di punibilità come accadimenti esterni, menzionati in una norma incriminatrice, completamente svincolate da dolo o colpa, che esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena41. L’unico mezzo per fornire legittimità nel rispetto delle norme dell’ordinamento all’attribuzione al soggetto agente della condizione “morte differita” in assenza di qualsivoglia riferimento alla sua colpevolezza, sarebbe assimilare l’evento del reato, nel caso di specie, ad una condizione obiettiva di punibilità42. Tale percorso risulta però impraticabile: l’istituto di cui all’art. 44 c.p. venne infatti introdotto dal legislatore del ’30 in un’ottica di stampo autoritario, con la volontà di dare vita ad ipotesi di responsabilità oggettiva occulta, poiché così facendo era possibile attribuire al soggetto agente veri e propri eventi del reato, portatori dell’offesa tipica descritta dalla fattispecie, a prescindere dalla prova del dolo o della colpa43. Pur volendo ammettere di rintracciare un fondamento logico nella non condivisibile idea di attribuire all’evento morte differito funzione di condizione obiettiva di punibilità anziché di evento del reato, si ricadrebbe comunque in un nuovo fronte di crisi, in quanto ad avviso della Corte Costituzionale, anche le condizioni obiettive di punibilità contrasterebbero con il principio di colpevolezza se imputate al soggetto in assenza del minimo requisito della colpa44. In altre parole, non può sostenersi che l’evento costituisca condizione di punibilità perché questo deve essere voluto e preveduto dal soggetto agente. Se invece, ragionando per assurdo, si giungesse a sostenere che l’evento differito in sé possa essere attribuito a titolo obiettivo e possa quindi giustificare l’applicazione della legge meno favorevole, si ricadrebbe comunque nel medesimo problema: il soggetto agente non può aver in alcun modo voluto né tanto meno avrebbe potuto prevedere che la morte sarebbe intervenuta mesi dopo la condotta tipica. Esclusa così l’ultima possibile giustificazione all’applicazione della teoria dell’evento al caso concreto appare opportuno proseguire l’analisi della teoria della condotta, unico criterio risolutivo che sino a questo punto appare conforme al dettato costituzionale.
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A proposito delle condizioni obiettive di punibilità si vedano senza alcuna pretesa di esaustività: F. Bricola, Punibilità (condizioni obiettive di), in Nss. Dig. It., Torino, 1976, XIV, 588 ss.; V.N. D’Ascola, Reato e pena nell’analisi delle condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 2004; G. Neppi Modona, Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 1971, 184 ss.; Ramacci, Le condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 1971; M. Romano, “Meritevolezza di pena”, “bisogno di pena” e teoria del reato, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 1992, 39 ss.; Id., Teoria del reato, punibilità, soglie espresse di offensività (e cause di esclusione del tipo), in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, 2a, 1721 ss.; M. Zanotti, Voce Punibilità (condizioni obiettive di), in Dig. Disc. Pen., 4a, Torino, 1995, X, 534 ss. 41 Cfr. G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale, cit. 404. 42 Appaiono contrari, in via di massima, all’identità tra i concetti di “evento” e “condizioni obiettive di punibilità”: G. Marinucci-E. Dolcini, Manuale di diritto penale, cit. 405; A. Manna, Corso di diritto penale, cit. 550; Bricola, Punibilità, in Nss. D.I., Torino, 1976, XIV, 588; M. Zanotti, Voce Punibilità, 4a, in Dig. disc. Pen., Torino, 1995, X, 534. 43 A. Manna, Corso di diritto penale, cit. 550; Zanotti, op. loc. ult. cit. 44 A. Manna, op. ult. cit., 552; cfr. Corte Costituzionale, n. 364/1988 – 1084/1988.
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4. La prospettiva costituzionale. Ogni criterio proposto sin qui, applicato al caso del delitto colposo ad evento differito, non sembrerebbe tuttavia poter reggere al vaglio di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 25, co. 2, Cost.45. Proprio l’art. 25, co. 2, Cost. pare però suggerire una soluzione. Analizzando il dettato del secondo comma dell’art. 25 Cost. si constata una differenza terminologica rispetto a quanto stabilito nel quarto comma dell’art. 2 c.p.46. Nella disposizione codicistica si fa infatti riferimento alla legge “del tempo in cui fu commesso il reato”, mentre il dettato costituzionale si riferisce alla legge “entrata in vigore prima del fatto commesso”. Il termine “fatto”, nonostante sia utilizzato assai frequentemente dalla legge penale e dalla dottrina, non sembra dotato di un significato univoco nel nostro codice: attorno a tale concetto regna tutt’oggi una grande varietà di opinioni e viene assunto di volta in volta nelle accezioni più disparate47. Prendendo le mosse dal concetto di Tatbestand (fattispecie astratta), proprio della dottrina penalistica tedesca, molti autori si sono avvicendati nell’indagine sulla ricerca di un significato univoco per tale termine48. Non è questa la sede per un’analisi approfondita sulla teoria generale del “fatto”. È sufficiente ai nostri fini evidenziare come la maggior parte della dottrina italiana neghi fermamente l’identità tra i concetti di fatto e reato49. Autorevole dottrina ha sostenuto che si tratti di un concetto ritagliato sull’azione delittuosa, con tutte le note che lo caratterizzano, e comprensivo per il caso delle fattispecie causalmente orientate dell’evento lesivo eziologicamente connesso alla condotta tipica.50 Come, tuttavia, contrariamente sottolineato, un concetto di fatto così esposto, che richiami al concetto di tipicità, in definitiva, costituirebbe dal punto di vista strutturale un doppione della nozione di reato51 e tale risultato è da considerarsi inammissibile poiché elemento essenziale del reato deve ritenersi il fatto e non il fatto tipico, in quanto la tipicità è un carattere e non un elemento del reato: anche ove non sia richiesta la tipicità è richiesto comunque un “fatto” umano, del quale occorra la realizzazione perché la legge possa dirsi violata52.
45
Che, lungi dall’apparire come norma meramente programmatica, è da considerarsi immediatamente precettiva e dunque applicabile senza la mediazione di una fattispecie di diritto positivo: Siniscalco, Irretroattività delle leggi in materia penale. Disposizioni sostanziali e disposizioni processuali nella disciplina della successione di leggi, Milano, 1987, 77. Per approfondimenti sull’art. 25 Cost. si vedano: R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, I, art. 25; F. Bricola, Sub art.25 commi 2 e 3, in Commentario Costituzione, Rapporti Civili artt. 24-26, G. Branca (a cura di), Bologna-Roma, 1981, 227 ss. 46 sottolinea tale differenza Podo, voce Successione di leggi penali nel tempo, in Nss. D.I., Torino, 1971, XVIII, 664. 47 Rileva G. Delitala, Op.cit., 7; come sottolineato da G. Fiandaca, Voce fatto nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen., IV ed., Torino, 1991, V, 152. 48 limitandosi per la amplissima dottrina tedesca ai riferimenti bibliografici reperibili in G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, cit., 112 ss. 49 50
G. Fiandaca, voce Fatto nel diritto penale, in Dig. Disc. Pen., cit., 154; A. Pagliaro, voce Fatto (dir. pen.), in Enc. Dir., Milano, 1926, XVI, 956; A. Pagliaro, Il fatto di reato, Palermo, 1960. 52 G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, in Riv. It. Dir. e proc. Pen, 1984, 2, 552; che fa sul punto riferimento anche a G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova 1930; 51
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«Il concetto di reato si rivela dunque come il punto di confluenza dei concetti di fatto e di imputazione dell’illecito. Resta salva, pertanto, l’autonomia della nozione di fatto rispetto a quella di reato.»53 Partendo quindi dal presupposto che i due concetti non possano essere ridotti a identità, nel “fatto” va ricondotto solo l’insieme degli elementi riconducibili alla condotta del soggetto cui il reato viene ascritto: «la somma degli elementi materiali attribuibili all’agente e cioè l’azione delittuosa con tutte le note che la caratterizzano e la costituiscono come tale e che variano con il variare dei diversi reati e in fine il verificarsi dell’evento che è con l’azione causalmente connesso»54. Il “fatto” per come inteso dall’art. 25 co. 2 non necessita quindi della venuta ad esistenza dell’evento lesivo per dirsi avvenuto poiché, come poc’anzi sottolineato, non necessariamente deve combaciare al fatto tipico descritto dalla fattispecie. Sostenere perciò che la legge debba essere entrata in vigore prima del “fatto commesso”, o prima della “commissione del reato”, non produce i medesimi risultati. Mentre l’art. 2 c.p., facendo riferimento al concetto di “reato”, pone la questione sul piano prettamente giuridico (cioè della qualificazione giuridica di un certo fatto), l’art. 25, co. 2, Cost. si riferisce al “fatto” e dunque àncora la prescrizione costituzionale al piano naturalistico (cioè all’accadimento materiale di un certo fatto). Il “commesso reato” secondo quanto deriva dalla generale interpretazione che sembra operare il codice di tale preposizione implica che un comportamento umano, riconosciuto antigiuridico dall’ordinamento, sia venuto ad esistenza in tutti i suoi elementi, ed abbia prodotto come risultato un evento giuridico e/o naturalistico che il legislatore espressamente ritiene meritevole di pena55. Quando tutti i suddetti elementi convergono può parlarsi di reato consumato. Il riferimento alla consumazione avvicina indubbiamente i principi dettati dall’art. 2 alla teoria dell’evento, che prevede l’individuazione del tempus commissi delicti sul momento in cui giuridicamente il reato può dirsi consumato. Se, invece, si provvede ad analizzare alla medesima luce terminologica l’art. 25 co. 2 si finisce per trarre conclusioni diametralmente opposte: «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.» Il fatto, essendo slegato dal concetto di tipicità e consistendo nella somma degli elementi materiali attribuibili all’agente, è commesso sin dall’esecuzione del primo atto causalmente orientato della condotta. Questo comporta che, come risultato del percorso di analisi sin qui seguito, se si sostituisse nella littera legis al termine “fatto” il significato appena esposto, il secondo comma dell’art. 25 potrebbe essere così riformulato: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima dell’esecuzione del primo atto della condotta”56. Emerge così chiaramente il richiamo alla teoria della condotta poc’anzi esposta, che risulta quindi l’unico criterio per l’individuazione del tempus commissi delicti conforme a Costituzione.
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A. Pagliaro, voce fatto (dir. pen.), cit. 956. G. Delitala, il fatto nella teoria generale del reato, cit. 115; G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, cit., 553.
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Si torna quindi all’applicazione della teoria della condotta elaborata da M. Romano, Commentario sistematico del Codice penale, artt. 1-84, Milano, 1995, 53 ss.; A. Manna, Corso di diritto penale parte generale, cit., 154; G. Fiandaca - E. Musco, Manuale di diritto penale parte generale, cit., 117.
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In estrema sintesi, si apre uno scenario pregno di articolate implicazioni che certamente le Sezioni Unite della Suprema Corte non mancheranno di esaminare: considerata l’estrema divergenza di risultato tra quanto previsto dall’art. 2 c.p. e l’interpretazione orientata del disposto dell’art. 25 co. 2 della Costituzione, le due norme non sembrano poter assurgere contemporaneamente alla funzione di principi regolatori della materia della successione di leggi. Tra le due a prevalere dovrà essere indubbiamente la norma di rango costituzionale dal contenuto immediatamente precettivo che, come sottolineato, avalla l’applicazione del criterio della condotta e questo, non soltanto in ragione delle naturali regole della gerarchia tra fonti, ma soprattutto in ragione della ratio sottesa al principio di irretroattività che è l’espressione più pura delle esigenze di certezza del diritto per il cittadino57. Soltanto l’adozione del criterio della condotta per l’individuazione del tempo di commissione del reato comporta infatti che, al momento del proprio agire, ognuno di noi possa prevedere il risultato sanzionatorio della propria condotta e quindi, in tal modo, protegge ciò che più in tal senso rileva: le libere scelte d’azione del soggetto e, conseguentemente, la norma penale che così assume la sua fondamentale funzione di prevenzione generale positiva, ovverosia di orientamento culturale dei cives58.
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M. Siniscalco, Irretroattività delle leggi in materia penale, cit., 96. Durante il corso della pubblicazione del presente elaborato la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sul quesito presentato affermando con la sentenza nr. 40986 del 24 settembre 2018 il seguente principio di diritto:“In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta”. 58
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Cooperazione in materia penale: la circolare del Dipartimento degli Affari di Giustizia del 14 giugno 2018 Sommario: 1. Il principio di specialità. – 2. La riforma del D.lgs 3 ottobre 2017 n. 149. – 3. Le cause di purgazione del principio di specialità. – 4. La forma attenuata della specialità nel mandato di arresto europeo. – 5. Conclusioni. Abstract In the extraction procedures, the principle of speciality is main garantee of the extradited subject, which results in the prohibition to adopt measures restrictive of liberty or to proceed with respect to the extradited person for facts which are earlier than those for which he was granted extradition. This principle, although consecrated in the European Convention on Extradition and in international treaty norms, raises some interpretative problems to which the circular in comment has tried to explain. In tema di estradizione uno dei principi fondamentali a garanzia dell’estradato è quello di specialità, il quale si risolve nel divieto di adottare misure restrittive della libertà o di procedere nei confronti dell’estradato per fatti anteriori e diversi da quelli per i quali è stata concessa l’estradizione. Questo principio sebbene consacrato nella Convenzione Europea per l’estradizione e in norme pattizie internazionali desta alcune problematiche interpretative a cui il testo in commento ha cercato di far fronte.
1. Il principio di specialità. La questione dell’estradizione si pone da sempre all’interno della concezione dualista dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, in particolare nell’attribuzione agli Stati nazionali del compito di trovare strumenti cooperativi per la repressione dei delitti. Come affermato da Cesare Beccaria “la persuasione di non trovare un lembo di terra che perdona ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo a prevenirli”1, d’altra parte la prescrizione deve contemplare la garanzia che le differenti giurisdizioni statali non sottopongano il reo a più procedimenti o sanzioni per gli stessi fatti. Ciò posto, una delle problematiche emerse dalla casistica riportata dall’Ufficio II della Direzione generale della giustizia penale in tema di estradizione risulta essere l’elusione dei motivi a sostegno dell’estrazione, con condanna del reo per fatti diversi per quelli a cui è stata concessa. Tale questione trova presidio interpretativo nella recente circolare del 14 giugno 2018 (prot. 01250) del Dipartimento per gli affari di giustizia, che approfondisce proprio il tema del principio di specialità nelle procedure di consegna. Questo principio previsto dall’ar-
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C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764.
Andrea Racca
ticolo 14 comma 1 della Convenzione Europea di Estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957, dall’articolo 27 della decisione quadro del 13.6.2002 sul mandato di arresto europeo, nonché dall’articolo 26 della legge n. 69/2005, norma che ha attuato nell’ordinamento italiano i principi contenuti nella decisione quadro del 13 giugno 2002 (2002/584/GAI) 2, opera principalmente nei casi in cui il giudicato o giudicabile sia stato estradato o sia stato consegnato in esecuzione di un mandato di arresto europeo. La Convenzione europea di estradizione declina infatti la garanzia in tali termini: «La persona estradata non sarà perseguita, giudicata, arrestata in vista dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, né sottoposta a qualsiasi altra restrizione della sua libertà personale, per un qualsiasi fatto anteriore alla consegna, diverso da quello che ha dato luogo all’estradizione (...)”3. La ratio consiste nell’evitare che, dell’avvenuta consegna del soggetto per un determinato fatto/ reato, lo Stato ricevente possa approfittare per giudicarlo o per eseguire una pena relativa ad altro fatto commesso prima della consegna, con aggiramento delle verifiche e delle valutazioni dello Stato attuate al fine della consegna. Il principio di specialità, opera pertanto quale presidio dell’imputato avverso qualsiasi esercizio di giurisdizione per fatti anteriori e diversi (Cass. Pen. Sezioni Unite, sentenza 19 maggio 1984, Carboni) e può assumere diverse graduazioni: A) specialità fortissima (o crassa), che non consente allo Stato richiedente, non solo di processare e punire per fatti diversi da quelli indicati nella domanda, ma neppure di mutare nel corso della procedura la qualificazione giuridica di tali fatti4; B) specialità forte la quale, fermo restando il divieto di procedere e punire per fatti diversi da quelli per i quali fu concessa l’estradizione, consente che la qualificazione giuridica di questi ultimi possa venir mutata nel corso della procedura, purché tale qualificazione corrisponda ad un titolo di reato per il quale il trattato consenta l’estradizione5;
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Tutte le previsioni di fonti internazionali dedicate al principio di specialità (per esempio, l’art. 14 della Convenzione europea di estradizione, l’art. 26 della legge n. 69 del 2005 in tema di mandato di arresto europeo) presuppongono che il soggetto sia stato consegnato allo Stato procedente per un determinato reato. Se la consegna non è avvenuta perché mai richiesta, poiché negata dal paese di rifugio o perché accordata ma non eseguita per ragioni interne del Paese richiesto, il principio non opera. Analogamente l’art. 721 codice di procedura penale, il quale sancisce che l’estradato non può essere sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o misura di sicurezza né assoggettato ad altra misura restrittiva della libertà personale per un fatto anteriore alla consegna diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa, salvo che vi sia l’espresso consenso dello Stato estero o che l’estradato, avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato trascorsi quarantacinque giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero che, dopo averlo lasciato, vi abbia fatto volontariamente ritorno. 3 Art. 14 Convenzione Europea di estradizione, ratificata e convertita in L. 30 gennaio 1963 n.300 Gazz. Uff. N.84 del 28 marzo 1963. Sono similmente formulate le clausole di specialità contenute in alcune importanti convenzioni bilaterali, come quelle vigenti con gli Stati Uniti d’America (art. XVI, par. 1 del Trattato Italia-Usa del 13 ottobre 1983); con il Regno del Marocco (art. 44 della Convenzione di reciproca assistenza giudiziaria, di esecuzione delle sentenze e di estradizione, del 12 febbraio 1971 ); con la Repubblica popolare cinese (art. 14 del trattato Italia-Cina del 7 ottobre 2010), con il Canada (art. XV del trattato Italia-Canada del 13 gennaio 2005), ecc. 4 La formula convenzionale è, in tali casi, di questo tipo: “l’imputato o condannato consegnato non potrà essere carcerato o sottoposto a giudizio dello Stato a cui fu consegnato per reato o altra imputazione diversa da quella per la quale avvenne l’estradizione”. 5 La formula convenzionale potrebbe essere di questo tipo: “quando la qualificazione data al fatto sarà modificata nel corso della procedura, l’individuo estradato non sarà perseguito o giudicato che quando la misura o gli elementi
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C) specialità attenuata consente, a determinate condizioni, che la persona estradata possa essere anche processata e punita per fatti diversi ed anteriori a quelli per i quali l’estradizione è stata concessa, purché si tratti di fatti connessi con il fatto per il quale è stata concessa l’estradizione. In tale contesto, assume rilevanza centrale nella struttura della clausola di specialità la nozione di fatto diverso da quello per il quale è stata ottenuta l’estradizione, che conferisce rilevanza non alla fattispecie astratta contestata nel provvedimento estradizionale, ma individua l’accadimento storico di reato, come delineato nei suoi elementi costitutivi. Al riguardo, le Sezioni unite nella sentenza 28 febbraio 2001 n.8 (c.d. Ferrarese) precisano che la clausola della specialità deve essere qualificata come introduttiva di una condizione di procedibilità6, la cui mancanza costituisce elemento ostativo all’esercizio dell’azione penale nelle forme tipiche previste dall’articolo 405 codice di procedura penale, mentre non impedisce il compimento degli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova al fine della ricostruzione del fatto-reato. Al fine della configurabilità dell’azione penale saranno, dunque, da verificare: a) i termini della clausola contenuta nel trattato posto a base della consegna, essendovi previsioni convenzionali (anche risalenti) che declinano la garanzia nei termini di specialità fortissima; b) alla circostanza che, anche laddove ammessa dal trattato, la riqualificazione non comporti la riconduzione del fatto ad una tipologia di reato o ad una cornice edittale per la quale la fonte pattizia o la legge interna dello Stato estradante vietano o non consentono l’estradizione7. La circolare richiama poi puntualmente la decisione della Corte di Giustizia UE, 1 dicembre 2008, c.d. Leymann-Pustovarov8, per cui per “stabilire se il reato considerato sia o no un «reato diverso» da quello che ha determinato la consegna, ai sensi dell’art. 27, n. 2, della decisione quadro del Consiglio 13 giugno 2002, 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, tale da imporre lo svolgimento della procedura di assenso contemplata dall’art. 27, nn. 3, lett. g), e 4, della medesima decisione, occorre verificare se gli elementi costitutivi del reato, in base alla descrizione legale di quest’ul-
costitutivi dell’infrazione nuovamente qualificata consentano l’estradizione”. 6 Le Sezioni Unite hanno osservato che il relativo error in procedendo – costituito da un giudizio reso in violazione della regola ora ricordata – costituisce un vizio della sentenza che ne comporta la nullità, ma non la giuridica inesistenza. Con la conseguenza che la causa di improcedibilità dell’azione penale, una volta formatosi il giudicato, non può essere fatta valere in sede esecutiva, nel quale possono essere dedotte esclusivamente le questioni riguardanti l’esistenza del giudicato e la validità formale del titolo che legittima l’esecuzione. La Corte ha ricordato la pacifica giurisprudenza, secondo cui il giudice dell’esecuzione non può attribuire alcun rilievo ad eventuali nullità, anche assolute e insanabili, eventualmente occorse nel processo di cognizione, ma deve limitare il proprio accertamento alla “regolarità formale e sostanziale del titolo” su cui si fonda l’avviata esecuzione. Cosicché il giudice dell’esecuzione non può annullare la sentenza di condanna per violazione del principio di specialità dell’estradizione. 7 Nella giurisprudenza più recente il principio è stato affermato per escludere la necessità di un’estradizione suppletiva nel caso di contestazione sopravvenuta alla consegna della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7 del D.l. n. 203 del 1991 (C. II, n. 8945/16; C. I, n. 27684/07); nonché, a maggior ragione, nel caso di integrazione dell’imputazione con la contestazione della recidiva che “non implica la punizione per un fatto antecedente ma la sola possibilità di aumento della pena per il reato commesso, commisurandola alla personalità dell’imputato” (C. VI, n. 49995/ 17). 8 Corte di Giustizia Europea C-388/08 Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 1 dicembre 2008. Procedimento penale a carico di Artur Leymann e Aleksei Pustovarov.
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timo fatta nello Stato membro emittente, siano quelli per i quali la persona è stata consegnata e se esista una corrispondenza sufficiente tra i dati contenuti nel mandato di arresto e quelli menzionati nell’atto procedurale successivo”, fermo restando che eventuali “mutamenti nelle circostanze di tempo e di luogo sono ammessi, a condizione che derivino dagli elementi raccolti nel corso del procedimento instaurato nello Stato membro emittente in relazione ai comportamenti descritti nel mandato di arresto, che non alterino la natura del reato e che non comportino l’insorgenza di motivi di non esecuzione ai sensi degli artt. 3 e 4 della detta decisione quadro”. Pertanto, per stabilire l’anteriorità del fatto non contemplato dal provvedimento estradizionale rispetto alla data della consegna, occorre considerare con attenzione la struttura del reato e il suo momento di consumazione. Con riferimento al reato permanente iniziato in epoca anteriore alla consegna e proseguito dopo la medesima, il principio di specialità non limita l’esercizio della giurisdizione per la parte di condotta successiva alla consegna, anche se questa costituisce protrazione ulteriore del medesimo illecito9. La precisazione assume particolare rilievo con riferimento ai reati associativi di tipo mafioso, nei quali la detenzione conseguente al rapporto estradizionale non implica necessariamente la cessazione della partecipazione del soggetto al sodalizio criminale (C. IV, n. 2893/05; C. I, n. 46103/ l4). In tal guisa, discende dalla necessaria simmetria tra il perimetro della garanzia e quello dell’istituto deputato ad attuarla l’esclusione di qualsiasi limite all’esercizio della giurisdizione nei confronti del soggetto estradato in ambiti estranei al processo penale, ovvero in processi penali non orientati all’irrogazione o all’esecuzione di pene detentive. Sarà dunque possibile per lo Stato richiedente, senza necessità di munirsi del consenso integrativo dello Stato estradante: - perseguire e giudicare l’estradato per reati sanzionati dal legislatore con la sola pena pecuniaria ed eseguire quest’ultima in caso di condanna; - svolgere il procedimento di prevenzione personale e patrimoniale regolato dal D.lgs. n. l59 del 201l ed eseguire le misure eventualmente applicate all’esito dello stesso. A tale ultimo riguardo, giova richiamare la decisione delle Sezioni Unite. n. 10281/08 per la quale: «In materia di estradizione attiva, il principio di specialità previsto dall’art 14, par. 1, della Convenzione europea di estradizione non è riferibile alle misure di prevenzione personali e al relativo procedimento di applicazione, sicché la persona estradata in Italia può essere assoggettata a misure di prevenzione personali e al relativo procedimento, senza la necessità di una preventiva richiesta di estradizione suppletiva allo Stato che ne ha disposto la consegna»10. La motivazione, muovendo dall’esigenza di simmetria sopra evidenziata, sottolinea tra l’altro, con argomenti ancora attuali: «la differenza strutturale tra la fattispecie astratta delle misure di prevenzione e il “fatto” al quale si ricollega il procedimento di estradizione, il cui ambito operativo, è circoscritto al perseguimento di un reato ovvero all’esecuzione, conseguente a pronuncia di condanna, di una pena o di una misura di sicurezza, laddove le misure di prevenzione non sono connesse a responsabilità penali del soggetto, né si fondano sulla colpevolezza, che è elemento proprio del reato, né hanno carattere sanzionatorio di doveri giuridici,
Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli affari di Giustizia “Cooperazione internazionale in materia penale – Estradizione e Mandato di arresto europeo”, cfr. p. 3. 10 Op. ult cfr., p. 6 9
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ma sono collegate ad un complesso di comportamenti integranti una ‘condotta di vita’, che il legislatore assume come indice di pericolosità sociale, e sono funzionali alla tutela della sicurezza pubblica”.
2. La riforma del D.lgs 3 ottobre 2017 n. 149. Pertanto, la verifica degli elementi in fatto, in base alla descrizione legale di quest’ultimo operata dallo Stato membro emittente, opera quale condizione preliminare, in connessione anche alla natura della pena da comminarsi, considerato che il principio ha una portata limitata alla sola restrizione della libertà personale, e alla verifica delle specifiche previsioni internazionali, che nel caso specifico possono prevedere una deroga alla c.d. specialità fortissima. Occorre, infatti, ricordare che l’art. 696 c.p.p., così come riformato dal D.lgs 3 ottobre 2017 n.14911, prevede espressamente la prevalenza del diritto dell’Unione Europea, delle convenzioni e del diritto internazionale in tema di cooperazione alla Giustizia penale, tuttavia si riserva al Ministro della Giustizia non dare corso alle domande di cooperazione giudiziaria quando lo Stato richiedente non dia idonee garanzie di reciprocità (art. 696 comma 4). La previsione relativa alle procedure estradizionali passive, si rivolge infatti all’autorità politica investita della decisione finale di concessione dell’estradizione e declina il principio prevedendo la necessaria subordinazione del decreto ministeriale alla condizione espressa che l’estradato non venga sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentiva, né venga assoggettato ad altra misura restrittiva della libertà personale, per un fatto commesso prima della consegna e diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa12. La norma prevista all’art. 699 c.p.p. contempla poi, al secondo comma, le ipotesi di estinzione della clausola di specialità, le cosiddette cause di purgazione, in presenza delle quali lo Stato richiedente si riappropria della sua giurisdizione anche in relazione ai fatti commessi prima della consegna. Sul versante delle procedure passive è rimessa al Ministro della Giustizia anche la verifica dell’osservanza della condizione di specialità e delle altre condizioni eventualmente apposte ai sensi dell’art. 699, comma 3, la cui inosservanza potrà in ogni caso essere fatta valere dall’estradato presso le autorità competenti dello Stato di consegna. D’altro canto, nella disciplina delle procedure estradizionali attive, che assumono rilievo in quanto interpellano i compiti e le responsabilità delle autorità giudiziarie interne, occorre rimandare all’art. 721 c.p.p, che tratta specificatamente del principio di specialità13. Diversamen-
D.lgs 3 ottobre 2017 n.149 “Disposizioni di modifica del libro XI del Codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere” in ratifica ed esecuzione della Convenzione relative all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 29 maggio 2000, e delega al Governo per la sua attuazione e modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero (G.U. n. 242 del 16.10.2017), avente come scopo quello di disciplinare le estradizioni, le domande di assistenza giudiziaria internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale 12 Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, cfr. p. 6. 13 Il primo comma dell’art. 721 riformato è dedicato al contesto extra-convenzionale e definisce la garanzia nei medesimi termini dell’art. 699, circoscrivendolo cioè alle sole limitazioni della libertà personale. ln tale ambito la garanzia subordine al previo ottenimento dell’estradizione suppletiva non già lo svolgimento delle indagini e del 11
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te dalla norma previgente, la nuova disposizione non si fa carico soltanto della regolazione sussidiaria delle procedure governate dalla cortesia internazionale a condizioni di reciprocità o di quelle regolate dai trattati che non recano specifiche disposizioni sul tema, ma si preoccupa di regolare anche gli effetti processuali del principio nelle procedure regolate da alcune Convenzioni. L’articolo 721 c.p.p. si pone infatti di regolare il comportamento delle autorità giudiziarie nazionali e gli effetti processuali interni della specialità nei casi in cui il perimetro della clausola sia definito dalle convenzioni vigenti con lo Stato estero interessato o dalle condizioni apposte da quest’ultimo alla decisione di consegna in termini più estesi rispetto al contenuto minimo recepito dal diritto consuetudinario. Il legislatore della riforma14 ha inteso superare l’impostazione previgente, regolando gli effetti processuali della specialità nel senso di configurare la garanzia come introduttiva di una causa di sospensione del procedimento e dell’esecuzione della pena15. L’art. 721 comma 2 recita infatti che: “Quando le convenzioni internazionali o le condizioni poste prevedono che un fatto anteriore alla consegna non possa essere giudicato, il giudice dispone con ordinanza la sospensione del processo se l’azione penale è stata esercitata, sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedure”16. La ristrutturazione della norma, come si legge nei lavori preparatori della riforma, è finalizzata da un lato a rimuovere qualsiasi dubbio circa l’estensione del principio alla fase esecutiva; dall’altro lato, a consentire, prima dell’estradizione suppletiva, il compimento di tutti gli atti di indagine, non soltanto di quelli previsti dall’art. 346 c.p.p., al fine di permettere la precisa individuazione del fatto-reato e non sacrificare l’esercizio della giurisdizione. Pertanto, quando l’azione penale sia stata già esercitata e sopravvenga soltanto nel corso dell’udienza preliminare o del giudizio
processo per i fatti diversi e anteriori alla consegna, ma soltanto le restrizioni della libertà personale connesse all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza detentive, ovvero all’applicazione di una misura cautelare personale (art. 721, comma 1). ln quanto riferibile anche alle procedure regolate da trattati che nulla prevedano in tema di specialità, la preclusione dell’esecuzione di atti coattivi nei confronti dell’estradato per fatti anteriori alla consegna e diversi da quelli che hanno dato luogo a quest’ultima è comunemente intesa come tutela minima apprestata dal legislatore interno per salvaguardare quel nocciolo duro della garanzia che può ritenersi recepito dal diritto internazionale consuetudinario. 14 La legge n. 149/2016 ha autorizzato la ratifica della Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000, relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea. Si tratta, quindi, della disciplina del settore della cooperazione finalizzato ad assicurare la raccolta della prova, sia sul versante attivo che su quello passive. I contenuti della Convenzione di Bruxelles sono stati recepiti nell’ordinamento interno – in base alla delega prevista dall’art. 3 della legge 149 – con un recente decreto legislativo (D.Lgs. 5 aprile 2017, n. 52), il cui articolato si sviluppa in quattro titoli: il primo, dedicato alle disposizioni generali, chiarisce l’ambito applicativo della normativa e raggruppa le più significative novità introdotte dalla Convenzione, volte essenzialmente alla semplificazione dei rapporti tra autorità giudiziarie straniere (artt. 1-9); il secondo e il terzo titolo concernono, rispettivamente, le specifiche forme di assistenza giudiziaria, come il trasferimento temporaneo di detenuti, audizione di indagati, testimoni e periti in videoconferenza, squadre investigative comuni (artt. 10-18), nonché le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (artt. 19-23); il quarto titolo contiene le disposizioni finali, in cui sono specificate le modalità di entrata in vigore della nuova normativa (artt. 24-26). 15 Art. 4 lett. d) n. 12 della legge 21 luglio 2016, n. 149. 16 Alla medesima ratio è ispirata la previsione del comma 4, secondo la quale l’ordinanza di sospensione non impedisce l’assunzione delle prove che possono determinare il proscioglimento dell`imputato per i fatti anteriori alla consegna.
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(dibattimentale o speciale) la condizione di fatto che impone l’estradizione suppletiva, l’art. 721, comma 2 prevede che il Giudice debba emettere un’ordinanza di sospensione del processo, ricorribile per cassazione dal Pubblico Ministero, dall’imputato e dal suo difensore. Le ipotesi regolate sono evidentemente quelle nelle quali l’azione penale ha potuto regolarmente essere esercitata perché: - il trattato che regola la procedura consente il perseguimento e richiede l’estradizione suppletiva soltanto per la celebrazione del giudizio; - il processo è iniziato in assenza dell’imputato, ricorrendo le condizioni previste dall’art. 420- bis c.p.p. in tema di regolare citazione e mancata deduzione di impedimenti a comparire, e solo successivamente il soggetto è stato consegnato alle autorità italiane per un fatto successivo nel tempo e diverso da quello che forma oggetto del processo de quo; - il processo concerne il fatto che ha dato luogo alla consegna e la contestazione del fatto anteriore e diverso è stata successivamente formulata dal pubblico ministero nelle forme previste dagli artt. 423, 441-bis, 517 o 518 c.p.p.17 Quando la formula convenzionale preclude non solo il giudizio, ma anche il perseguimento ferma restando l’esperibilità di qualsiasi atto di indagine e della raccolta probatoria non rinviabile, deve ritenersi che l’esercizio dell’azione penale è precluso intanto che non sia stata inoltrata e positivamente riscontrata dallo Stato estero la richiesta di estradizione suppletiva. Con la disposizione dell’art. 721-bis dedicata all’estensione dell’estradizione, il legislatore della riforma si è poi fatto carico dell’annosa questione relativa alla pratica impossibilità di superare l’ostacolo della specialità quando, nel procedimento instaurato per fatti anteriori e diversi da quelli posti a fondamento della consegna, l’estradato debba essere giudicato a piede libero. L’attivazione della procedura estradizionale postula, infatti, l’esistenza di un provvedimento restrittivo della libertà personale (cautelare o definitivo) per la cui esecuzione è richiesta la cooperazione dello Stato estero di rifugio. Per risolvere tale problematica, la nuova disposizione prevede un’ordinanza cautelare non esecutiva, da emettersi sulla base del solo presupposto indiziario di cui all’art. 273 c.p.p., i gravi indizi di colpevolezza la cui acquisizione è resa possibile dalla nuova configurazione della specialità come condizione, che non impedisce alcuna attività di indagine: “non è preclusa alcuna attività di indagine anche solo, per esempio, in funzione della raccolta di indizi gravi di reato ai fini dell’ottenimento di un titolo cautelare (...) è cioè ammissibile porre in essere tutta l’attività necessaria all’emissione del provvedimento di custodia cautelare strumentale alla richiesta di estensione dell’estradizione”18. L’adozione dell’ordinanza strumentale non è evidentemente necessaria quando, sulla base delle procedure semplificate previste da taluni trattati o delle prassi vigenti con alcuni Paesi, lo Stato estero acconsenta all’estensione del giudizio ai fatti anteriori non dedotti nel provve-
Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, cfr. p. 8. Relazione illustrativa dello Schema di decreto legislativo n. 149 del 2017, cfr. p. 6. Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, cfr. p. 9. La stretta strumentalità del provvedimento al perfezionamento della procedura estradizionale suppletiva è chiaramente illustrata dalla disciplina dei suoi effetti: l’ordinanza dovrà essere revocata nel caso di rifiuto dell’estradizione da parte dello Stato estero, ma anche nel caso di concessione dell’estradizione, l’ordinanza non potrà essere automaticamente eseguita. A questo scopo è necessario un provvedimento di conferma a finalità esecutive che, fermi restando i gravi indizi di colpevolezza, rappresenti, secondo le regole generali dell’art. 292 c.p.p., la concreta e attuale sussistenza delle esigenze cautelari e delle condizioni di necessità e proporzionalità richieste dagli artt. 274 e ss.
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dimento di consegna, senza esigere l’allegazione del titolo restrittivo. Il nuovo art. 721 comma 5 lett. a) conserva infatti la disposizione del testo previgente secondo la quale “il principio di specialità non opera quando lo Stato estero ha consentito alla consegna”. L’esperienza operativa registra casi nei quali la mera allegazione delle imputazioni relative al fatto diverso anteriore alla consegna è stata reputata sufficiente dalle Autorità competenti dello Stato estero per acconsentire all’esercizio dell’azione penale e alla celebrazione del processo a piede libero nei confronti dell’estradato. ln tali casi, l’attivazione della procedura estradizionale potrà rendersi necessaria, salvo diversa indicazione contenuta nel provvedimento dell’autorità estera, per dar corso all’esecuzione dell’eventuale condanna irrevocabile o dell’ordinanza cautelare eventualmente emessa nel corso del giudizio.
3. Le cause di purgazione del principio di specialità. La matrice storica del principio di specialità, rinvenibile in quasi tutti gli strumenti di cooperazione internazionale, è quindi da ravvisare nella tutela della buona fede nei rapporti tra Stati. Considerato infatti che esistono motivi di rifiuto della consegna, è evidente che l’omessa presentazione della domanda estradizionale per fatto diverso e/o anteriore a quello oggetto della consegna, rischia di intaccare la sovranità dello stato “rifugio” in rapporto alla selezione delle fattispecie e al rispetto delle altre regole ostative. In via principale, dunque, il principio di specialità è diretto a tutelare l’interesse dello stato richiesto e solo indirettamente si traduce in una garanzia individuale (peraltro rinunziabile) a favore del soggetto sottoposto a procedimento. Del resto, a proposito della potestà conferita agli Stati contraenti di attivare, secondo le regole dell’ordinamento interno, gli strumenti volti ad interrompere la prescrizione, fra i quali la massima significazione viene ad assumere il giudizio contumaciale, in grado di condurre il processo al suo epilogo, non sussistono perplessità nel ritenere che, in concreto, il problema relativo all’ammissibilità di un simile giudizio può essere risolto, in sede ermeneutica, in presenza di un trattato di estradizione, solo attraverso l’esame delle clausole relative. La consultazione, poi, del provvedimento estradizionale serve anche ad escludere errori di prospettiva, come quello di regolare la gestione della garanzia di specialità sulla base di una normativa sovranazionale diversa e sopravvenuta a quella che in fatto aveva governato la procedura di consegna. Tale errore ha caratterizzato una decisione di merito recentemente assunta in una vicenda relativa ai rapporti con la Spagna, nel contesto della successione tra la garanzia forte assicurata dal richiamato art. 14 par. l della Convenzione di Parigi (1957) e la garanzia attenuata prevista dalla Decisione Quadro sul mandato di arresto europeo (2002): «In tema di estradizione dall’estero, l’ambito di operatività della clausola di specialità, quale limite all’esercizio dell’azione penale per fatti diversi da quello che ha motivato l’estradizione, è regolato dalla strumento convenzionale che ha determinato la consegna, senza che rilevino le modifiche del quadro normativo sovranazionale sopravvenute in senso sfavorevole al soggetto consegnato»19.
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Cass. Pen, Sez. I sent. n. 44121 del 19.04.2016 dep. 18.10.2016. In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza di condanna per un reato commesso in epoca antecedente alla consegna e non ricompreso tra quelli per cui era stata concessa l’estradizione, ravvisando la violazione del principio di specialità di cui all’art. 14 del Convenzione europea di Estradizione del 1957, in forza della quale era avvenuta la consegna, ed escludendo
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Come poc’anzi affermato il principio di specialità opera solo in via subordinata quale prerogativa individuale, peraltro rinunziale, costituendo questa una delle cause di caducazione della garanzia, così come individuate dalle lettere b) e c) del riformato quinto comma dell’art. 721. La prima, ovvero proprio il consenso espresso dell’estradato, era già riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, con le modalità indicate dall’art. 717, commi 2 e 2-bis, che prescrivono la previa informativa delle conseguenze giuridiche della rinuncia e la sua verbalizzazione ed esigono la presenza del difensore, a pena di invalidità; stabilendone l’irrevocabilità della rinuncia20, salvo l’intervento di fatti nuovi che modifichino la situazione esistente al momento della rinuncia. Le rigorose cadenze formali dettate dalla disposizione rafforzano la regula juris dettata dalla Corte di legittimità che, anche in assenza di un’espressa previsione convenzionale o codicistica, ammettevano la rilevanza della rinuncia, a condizione che questa venga formulata in modo espresso, formale e inequivoco, tale da poter essere assimilata alle tradizionali cause di purgazione21. La seconda eccezione riproduce, poi, i casi classici di purgazione della specialità collegati al mancato allontanamento ed al volontario rientro nel territorio dello Stato di consegna, ovvero nei casi in cui l’estradato, avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio dello Stato, trascorsi i quarantacinque giorni dalla sua definitiva liberazione oppure, se, dopo averlo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno. Con riferimento al caso del mancato allontanamento, conserva attualità l’elaborazione giurisprudenziale che sottolinea la necessità che la permanenza nello Stato oltre il termine indicato debba essere dovuta alla libera scelta dell’estradato, perciò escludendo così la caducazione della garanzia in caso di impedimenti materiali o giuridici dell’allontanamento quali: lo stato di indigenza; la grave malattia; la mancanza del passaporto o di altro documento valido per l’espatrio22; la necessità di difendersi nel procedimento per il quale è stata concessa l’estradizione o in altro procedimento penale23; la sottoposizione a misure cautelari non detentive quali l’obbligo di presentazione alla p.g. o il divieto di espatrio (C. I, n. 21344/05); l’applicazione di misure personali di sicurezza come la libertà vigilata (C. l, n. 40000/05). Il requisito implica, inoltre, che la causa di purgazione maturi soltanto in conseguenza di una sentenza di assoluzione o da un procedimento di scarcerazione non modificabile24. Non può perciò sostenersi in tali casi che il comportamento dell’imputato sia univocamente indicativo di una scelta piena di accettazione della giurisdizione dello Stato alla quale si sarebbe altrimenti sottratto.
che potessero applicarsi retroattivamente le deroghe limitative alla clausola di specialità introdotte successivamente dalla Decisione Quadro sul mandata di arresto europeo del 2002, recepita dal Paese richiesto in epoca successiva alla consegna. 20 Ove espressa nelle forme prescritte, la dichiarazione di rinuncia alla specialità resa nel corso delle indagini o del giudizio di cognizione rende definitivamente inoperante il principio: l’esecuzione dell’eventuale decisione di condanna non necessiterà pertanto né di un nuovo interpello dell’interessato, né dell’attivazione della procedura di estradizione suppletiva (Cass. sez. I. n. 11971/2008). 21 Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, cfr. p. 8. 22 Cass. Pen. Sez. I n. 4711/1999. 23 Cass. Pen. Sez. I n.16000/2016. 24 Non risulta assimilabile a dette ipotesi quella della scarcerazione conseguente alla dichiarazione di inefficacia della misura cautelare per decorso dei termini di custodia, né quella conseguente alla revoca della misura disposta per cessazione dei pericula libertatis, posto che il cd. giudicato cautelare è ammesso “allo stato degli atti” ed è sempre consentita una diversa valutazione quando muti la prognosi sulle dette esigenze.
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Con riferimento al volontario rientro, non essendovi una casistica, basta qui rammentare che non determinano la caducazione della garanzia manovre fraudolente finalizzate a riportare coattivamente la persona all’interno dello Stato. Un’ulteriore causa di caducazione della garanzia ricorre quando il soggetto, una volta estradato verso l’Italia per un determinato reato, se ne allontani (legittimamente o illegittimamente) per rifugiarsi in uno Stato diverso da quello estradante. A tale riguardo dev’essere richiamata la dimensione bilaterale della garanzia di specialità, che opera esclusivamente nelle relazioni tra le Parti coinvolte nell’originale procedura estradizionale e che perciò cessa di avere efficacia quando l’interessato si sposti verso un Paese diverso, nei confronti del quale potrà eventualmente instaurarsi nuovo ed autonomo rapporto estradizionale, a nulla rilevando il consenso del primo Stato estradante25.
4. La forma attenuata della specialità nel mandato di arresto europeo. Occorre infine precisare come nella disciplina del mandato di arresto europeo, delineato dalla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002, pur ribadendo in via generale la regola già contenuta nella Convenzione europea di estradizione del 1957, secondo cui la persona consegnata non può essere sottoposta a un procedimento penale, condannata o altrimenti privata della libertà per eventuali reati anteriori alla consegna, diversi da quello per cui è stata consegnata, ha previsto tuttavia una serie di importanti introduzioni che la Circolare del 14 giugno puntualmente ripercorre. L’indirizzo giurisprudenziale in tema di mandato di arresto europeo è consolidato nel declinare la garanzia di specialità in forme attenuate, tali cioè da implicare la necessità del consenso suppletivo dello Stato di esecuzione del mandato ai soli fini dell’esecuzione della condanna irrevocabile o della misura restrittiva della libertà personale; senza impedire che, per il fatto anteriore e diverso possano, invece, dispiegarsi pienamente la funzione requirente e il giudizio di cognizione e possano anche essere adottate statuizioni di condanna a pena detentiva e ordinanze applicative di misure custodiali. Questa prospettiva è infatti stata inaugurata dalla decisione della Corte di Cassazione sez. VI penale, sentenza n. 39240/11 la cui massima recita: “In tema di mandato di arresto europeo, il principio di specialità previsto dall’art. 32 della I. 22 aprile 2005, n. 69, non osta a che l’autorità giudiziaria italiana proceda nei confronti della persona consegnata a seguito di mandato d’arresto europeo emesso per reati diversi da quelli per i quali la stessa è stata consegnata e commessi anteriormente alla sua consegna. Tuttavia, in assenza del consenso dello Stato d’esecuzione, deve ritenersi precluso - allo Stato di emissione che abbia legittimamente adottato un provvedimento cautelare al fine di attivare la procedura di assenso prevista in relazione ai
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Vd. anche Cass. Pen. Sez. I, sent. n. 9000/09, La dimensione garantistica del principio di specialità opera, nei confronti dello Stato richiesto e dello stesso estradato, fintanto che quest’ultimo, a pena definitivamente espiata, lasci, nei termini menzionati, il territorio dello Stato richiedente e rimanga in quello dello Stato richiesto, non anche qualora se ne allontani, potendo in tal caso nascere un nuovo e diverso rapporto estradizionale con il diverso Stato nel cui territorio egli venga rintracciato, come, d’altra parte, questa Corte ha già avuto modo di affermare (cfr. Cass. Sez.I, 6 luglio 2004, Gelli, RV 229288) in un caso analogo (unica ininfluente differenza il fatto che l’estradato si fosse illegittimamente allontanato dal territorio dello Stato richiedente).
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suddetti reati - la possibilità di eseguire nei confronti della persona consegnata misure restrittive della libertà personale, sia durante il procedimento che in esito allo stesso”. Questa linea interpretativa, ribadita da tutta la giurisprudenza di legittimità successiva26 si fonda sulla necessità di conformare l’applicazione delle norme interne di attuazione del mandato di arresto europeo (artt. 26 c 32 della legge 22 aprile 2005, n. 69) al dettato dell’art. 27 della decisione quadro 2002/584/GAI, così come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea nella decisione del l dicembre 2008, c. Leymann-Pustovarov27. Per vero, l’art. 27 cit. riproduce al paragrafo 2 la versione ‘tradizionale’ della clausola28. La novità risulta essere la dimensione complessiva delle deroghe elencate nel paragrafo 3 dove figura, insieme alle tradizionali cause di purgazione, al caso dell’assenso dello Stato di consegna e a quello della rinuncia espressa del consegnato, il caso nel quale il procedimento penale instaurato per il reato anteriore e diverso “non dà luogo all’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale”. In tal guisa, la Corte di giustizia UE, nella decisione sopra richiamata, ha interpretato l’eccezione in parola come riferita a tutte le «le situazioni nelle quali il procedimento penale non conduca all’applicazione di misura restrittiva della libertà personale dell’interessato». Secondo la Corte di Lussemburgo dunque, l’eccezione opera non soltanto quando la legge dello Stato emittente non prevede l’irrogazione di pene detentive o l’applicazione di misure custodiali, ma anche quando, pur essendo la restrizione della libertà astrattamente configurabile, l’autorità giudiziaria non abbia inteso (ancora) applicarla. La Corte di Cassazione reputa, poi, che nello stesso modo debba essere interpretata la formula dell’art. 26 della legge n. 69 del 2005, nonostante il testo della norma di trasposizione traduca l’eccezione con formula lessicale parzialmente diversa. La predetta decisione della Corte di Giustizia del 2008 e il diritto dell’Unione in generale determinano infatti un effetto diretto per tutti gli Stati membri e per le rispettive giurisdizioni, comportando, in capo alle autorità nazionali, ed in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di “interpretazione conforme” del diritto nazionale29. Ne deriva che il giudice, nell’applicare il diritto nazionale, deve interpretarlo in modo conforme alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato UE, ovviamente entro i limiti stabiliti dai principi generali del diritto e sempre che attraverso tale metodo esegetico non si pervenga ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale. Pertanto, il giudice italiano, nell’applicazione del diritto nazionale, deve ricercare - nei limiti sopra evidenziati - una interpretazione “conforme” alla lettera ed allo scopo della decisione
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Ex multis Cass. Pen. Sez. II, sent. n. 14738/17; Cass. pen. Sez. III, sent. n. 47253/16; Cass. Pen. sez. II, sent. n. 14880/15; Cass. Pen. Sez. I, n. 8349/14; Cass. Pen. Sez.. I, sent. n. 18778/13. 27 La decisione della Corte di Giustizia e il diritto dell’Unione, interpretato dalla Corte in maniera autoritativa con effetto diretto per tutti gli Stati membri e le rispettive giurisdizioni, incidono sul sistema normativo nazionale, comportando, in capo alle autorità nazionali, ed in particolare ai giudici nazionali, un obbligo di “interpretazione conforme” del diritto nazionale (Corte di Giustizia, 16/06/2005, ric. Pupino, in G.U.U.E. serie C 193 del 6 agosto 2005, p. 3). Ne deriva che il giudice, nell’applicare il diritto nazionale, deve interpretarlo in modo conforme alle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo 6^ del Trattato UE, ovviamente entro i limiti stabiliti dai principi generali del diritto e sempre che attraverso tale metodo esegetico non si pervenga ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale. 28 Cfr. art. 27 Decisione Quadro 2002/584/GAI “La persona non è sottoposta a un procedimento penale, condannata o altrimenti privata della libertà per eventuali reati anteriori alla consegna diversi da quello per cui è stata consegnata”. 29 Corte di Giustizia, 16/06/2005, ric. Pupino, in G.U.U.E. serie C 193 del 6 agosto 2005, p. 3.
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quadro, che è quello di creare un sistema semplificato di consegna delle persone condannate o imputate, eliminando le complessità ed i potenziali ritardi inerenti alla disciplina dell’estradizione30. Orbene, dall’esame della normativa nazionale, deve constatarsi che l’ipotesi in esame di eccezione al principio di specialità, prevista dalla decisione quadro, è stata recepita specificatamente nella L. 22 aprile 2005, n. 69, che, a tal riguardo, stabilisce che il principio di specialità non si applica quando “il procedimento penale non consente l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale” (art. 26, comma 2, lett. c, e art. 32).
5. Conclusioni. In conclusione, risulta pacifica che la garanzia di specialità, tanto nel contesto operativo internazionale delle procedure estradizionali, tanto più in quello regolato dal mandato di arresto europeo, opera oltre che nelle fasi di giudizio vero e proprio, anche in relazione alle decisioni adottate nel giudizio di esecuzione, che possano altresì comportare restrizioni della libertà personale del soggetto estradato o consegnato per fatti anteriori alla consegna e diversi da quelli per i quali quest’ultima è stata disposta. Con tutti questi casi, la Corte di Cassazione e la consolidata prassi giudiziaria hanno denotato la necessità di sospendere il procedimento di esecuzione in attesa del provvedimento estradizionale. Si consideri, in proposito, che, nel punto 11) della L. n. 149 del 2016, art. 4, recante “Delega al Governo per la riforma del libro XI del codice di procedura penale”, in tema di rapporti giurisdizionali con le autorità straniere, si ribadisce la distinzione tra procedibilità ed eseguibilità degli atti processuali emessi nei confronti del soggetto consegnato a seguito di mandato di arresto Europeo, affermandosi: “In tema di mandato di arresto europeo, il principio di specialità previsto dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 32, non osta a che l’autorità giudiziaria italiana proceda nei confronti della persona consegnata a seguito di mandato d’arresto Europeo emesso per reati diversi da quelli per i quali la stessa è stata consegnata e commessi anteriormente alla sua consegna. Tuttavia, in assenza del consenso dello Stato di esecuzione, deve ritenersi preclusa – allo Stato di emissione che abbia legittimamente adottato un provvedimento cautelare al fine di attivare la procedura di assenso prevista in relazione ai suddetti reati – la possibilità di eseguire nei confronti della persona consegnata misure restrittive della libertà personale, sia durante il procedimento che in esito allo stesso”31. In tal guisa, la declinazione temperata del principio di specialità contenuta nel citato art. 27 della decisione quadro 2002/584/GAI e negli artt. 26 e 32 della legge interna di attuazione implicherebbe che in sede di esecuzione possa ritenersi consentito al Giudice disporre la revoca della sospensione condizionale della pena in relazione a condanne per fatti anteriori e diversi da quelli per i quali la consegna è stata concessa, eliminando così un beneficio di merito della pena, ma al contrario rimane precluso procedere esecutivamente con il susseguente ordine di incarcerazione32.
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Corte Costituzionale se nt. n.143 del 16 .05.2008 Cassazione penale, sez. I, 17/01/2017, (, dep.30/01/2017), n. 4457. 32 Circolare in tema di principio di specialità nelle procedure di consegna del 14.06.2018, cfr. p. 14. 31
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nazionale
Cass. Pen., Sez. U., c.c. 21 dicembre 2017 (dep. 22 febbraio 2018), n. 8770 – Pres. Canzio – Rel. Vessicchelli, P.G. Baldi Art. 590-sexies cod. pen – Causa di non punibilità – Colpa lieve – Responsabilità medica – Ambito di applicazione In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche, né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse.
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La nuova causa di non punibilità della colpa medica nella giurisprudenza delle Sezioni Unite Sommario: 1. Note introduttive: lo statuto della responsabilità medica alla luce dell’art. 590-sexies c.p. – 2. Una prima interpretazione della riforma: la Legge Balduzzi è lex mitior rispetto alla Legge GelliBianco. – 3. La tesi che individua la disciplina più favorevole nel nuovo art. 590-sexies c.p. – 4. La parola alle Sezioni Unite.
1. Note introduttive: lo statuto della responsabilità medica alla luce dell’art. 590-sexies c.p. Con sentenza n. 8770, pronunciata il 21.12.2017 (le cui motivazioni sono state depositate il 22.2.2018), le Sezioni Unite hanno enunciato i principi di diritto massimati nei seguenti termini: «In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, prevede una causa di non punibilità applicabile ai soli fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen., e operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse; la suddetta causa di non punibilità non è applicabile, invece, né ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche, né quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera
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inadeguata con riferimento allo specifico caso, né, infine, in caso di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse»1. «In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’abrogato art. 3 comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dalla legge n. 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto»2. «In tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, le raccomandazioni contenute nelle linee guida definite e pubblicate ai sensi dell’art. 5 della legge 8 marzo 2017, n. 24 – pur rappresentando i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia – non integrano veri e propri precetti cautelari vincolanti, capaci di integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, data la necessaria elasticità dei loro adattamento al caso concreto; ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene»3. La pronuncia scaturisce dalla rimessione della questione alle Sezioni Unite Penali, effettuata dal Primo Presidente, ai sensi dell’art. 610, co. 2, c.p.p., con provvedimento del 13.11.2017, a seguito della segnalazione effettuata dal Presidente della Quarta Sezione Penale del contrasto insorto4, nell’ambito della sezione stessa, sull’interpretazione della Legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco)5, che, nell’abrogare la previgente disciplina di cui al D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189), ha ridefinito i confini della colpa medica in relazione all’osservanza delle linee guida in materia, con rilevanti implicazioni applicative, specialmente avuto riguardo all’individuazione della lex mitior da applicare ai sensi dell’art. 2 c.p.
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Cass. Pen., Sez. U., n. 8770 del 21.12.2017, in CED, rv. 272174. Cass. Pen., Sez. U., n. 8770 del 21.12.2017, in CED, rv. 272175. 3 Cass. Pen., Sez. U., n. 8770 del 21.12.2017, in CED, rv. 272176. 4 Cfr. C. Cupelli, Cronaca di un contrasto annunciato: la legge Gelli-Bianco alle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., fasc. 11/2017, 244 ss. 5 In generale, sulla legge Gelli-Bianco, v. L. Risicato, Il nuovo statuto penale della colpa medica: un discutibile progresso nella valutazione della responsabilità del personale sanitario, in Legislazione penale on line, 5 giugno 2017; P.F. Poli, Il d.d.l. Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in www.penalecontemporaneo.it, 20 febbraio 2017; P. Piras, Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590-sexies c.p., ivi, 1 marzo 2017; G.M. Caletti - M. L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, ivi, 9 marzo, 2017; C. Cupelli, Lo statuto penale della colpa medica e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, ivi, 3 aprile 2017; F. D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 573 ss.; M. Di Florio, Riflessioni sulla nuova fattispecie della responsabilità colposa in ambito sanitario (ex art. 590-sexies, c.p.), come introdotta dalla legge Gelli-Bianco, in Arch. pen., 2/2017. 2
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2. Una prima interpretazione della riforma: la Legge Balduzzi è lex mitior rispetto alla Legge Gelli-Bianco. Secondo una prima interpretazione6, l’art. 590-sexies c.p. (introdotto dalla legge Gelli-Bianco) enuncia una «nuova regola di parametrazione della colpa in ambito sanitario», che avvince il giudizio di responsabilità penale a «costituti regolativi precostituiti» (le linee guida di cui all’art. 5 della stessa legge Gelli-Bianco) ed elide la distinzione tra colpa lieve e colpa grave di cui alla disciplina previgente. Conseguentemente, la nuova normativa deve ritenersi meno favorevole rispetto all’abrogato art. 3 del decreto Balduzzi, che, nei contesti regolati delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, escludeva la responsabilità del sanitario per le condotte caratterizzate da colpa lieve e la riteneva per quelle connotate da colpa grave. Sicché, ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p., la disciplina previgente deve continuare ad applicarsi ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco. Infatti, secondo questa interpretazione, l’art. 590-sexies c.p., alla cui stregua è esclusa la punibilità del sanitario qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia e siano state rispettate le linee guida adeguate al caso concreto, non contiene una limitazione di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria connessa alla graduazione della colpa. Piuttosto, viene valorizzata la dimensione teleologica e sistematica della novella che, perseguendo la finalità della «sicurezza delle cure in sanità» (art. 1, legge Gelli-Bianco), mira a regolare l’attività sanitaria per assicurarne uno svolgimento quanto più omogeneo, aggiornato e aderente alle «evidenze scientifiche controllate». In tale modo, da un lato, all’istituzione sanitaria è assicurato il governo dell’attività medica, anche attraverso l’elaborazione delle linee guida codificate ed istituzionalizzate (art. 5, legge Gelli-Bianco) e, dall’altro lato, il singolo sanitario chiamato a rispettarle ha la legittima pretesa di vedere giudicato il proprio operato sulla base delle stesse direttive. In tale prospettiva interpretativa, il «virtuoso impulso innovatore» della novella viene rinvenuto nella regolamentazione delle «buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida», poste a presidio dell’esercizio dell’ars medica, al fine di saldare il giudizio di responsabilità del sanitario a regole precostituite e bypassando le tradizionali questioni interpretative sollevata dalla configurazione della colpa in ambito medico (non casualmente definita «figurazione vuota e umbratile, dalla forte impronta normativa, bisognosa di etero integrazione»). Per tale via si intendono superare le incertezze ermeneutiche profilatesi all’indomani dell’entrata in vigore del decreto Balduzzi, dando felice esito alle istanze di determinatezza, chiarezza e prevedibilità da sempre formulate nella materia della responsabilità medica. L’arresto giurisprudenziale, inoltre, da un canto ritiene che l’art. 590-sexies c.p. si applichi esclusivamente ad eventi lesivi cagionati da condotte governate da linee guida appropriate al
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Cass. Pen., Sez. IV, 20.4.2017, n. 28187, in CED, rv. 270213 e 270214, c.d. sentenza Tarabori, per un commento alla quale cfr., C. Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, in Dir. pen. cont., fasc. 6/2017, 280 ss., P. Piras, Il discreto invito della giurisprudenza a fare noi la riforma della colpa medica, in www.penalecontemporaneo, 4 luglio 2017, G.M. Caletti - M.L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 1369 ss.
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caso concreto e attuate in modo corretto; d’altro canto reputa che la disposizione operi unicamente per le condotte connotate da imperizia (a differenza dell’art. 3 del decreto Balduzzi, ritenuto applicabile anche ad ipotesi colpose diverse7). Viceversa, l’articolo 590-sexies c.p. non viene in considerazione (con conseguente applicazione della disciplina generale di cui agli artt. 43, 589 e 590 c.p.): «a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida; b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate; c) in relazione alle condotte che, sebbene collocate nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso di errore nell’esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali».
3. La tesi che individua la disciplina più favorevole nel nuovo art. 590-sexies c.p. Secondo una diversa interpretazione, espressa da una più recente pronuncia di legittimità8, l’art. 590-sexies c.p. costituisce norma più favorevole rispetto all’art. 3 del decreto Balduzzi, in quanto introduttivo di una causa di non punibilità del medico applicabile, ove ne ricorrano le condizioni, unicamente alle condotte connotate da imperizia, sebbene indipendentemente dal grado della colpa. Secondo tale prospettiva ermeneutica, la novella configura una causa di non punibilità in senso tecnico, la cui ratio va rinvenuta nella «scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie, mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva». Sicché, l’imperizia per la quale è codificata la non punibilità, sia pure alle condizioni previste dalla legge, la comprende in ogni sua sfumatura, sia essa lieve che grave, non essendo attribuito alcun peso specifico al più o meno intenso grado della colpa. Rispetto alla difficoltà logica di conciliare le condizioni di legge previste per l’impunità del medico (i.e. l’osservanza delle buone pratiche clinico assistenziali nonché l’adeguatezza delle linee guida al caso concreto) con il ricorrere di una condotta connotata da colpa grave, questa interpretazione ritiene che l’art. 590 c.p. tipizzi l’ipotesi in cui il medico, pur attenendosi alle linee guida adeguate e pertinenti al caso concreto, ciò non ostante sia stato imperito nella fase esecutiva della loro applicazione.
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Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 11.5.2016, n. 23283, in CED, rv. 266904, per un commento alla quale v. C. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in www.penalecontemporaneo.it, 27 giugno 2016. 8 Cass. Pen., Sez. IV, 19.10.2017, n. 50078, in CED, rv. 270985, c.d. sentenza Cavazza, per un commento alla quale sia consentito il rinvio a C. Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativodella legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., fasc. 11/2017, 250 ss.
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La nuova causa di non punibilità della colpa medica nella giurisprudenza delle Sezioni Unite
Sicché, ai fini dell’impunità, l’imperizia non deve essersi concretizzata nella scelta della linea guida, «giacché non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea guida adeguata al caso di specie», bensì nella sua attuazione concreta. In definitiva, alla stregua di tale pronuncia, la legge Gelli-Bianco prevede la non punibilità della condotta imperita, anche gravemente, posta in essere in ossequio delle linee guida, con l’effetto di dover ritenere più favorevole la novella rispetto all’art. 3 del decreto Balduzzi, che aveva “depenalizzato” la sola colpa lieve. Viceversa, il decreto Balduzzi costituisce la norma più favorevole (quindi da applicare) rispetto alle condotte del medico implicanti profili colposi diversi dall’imperizia, e cioè di negligenza e imprudenza, ancorché nei soli casi di colpa lieve.
4. La parola alle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite non aderiscono a nessuna delle prospettate interpretazioni elaborate dalla stessa Quarta Sezione Penale della Corte di cassazione. In particolare, pur riconoscendo che in ciascuna delle summenzionate sentenze trovano espressione considerazioni astrattamente condivisibili, il supremo collegio di legittimità propone una autonoma «sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione» attraverso una opportuna attività ermeneutica che, nell’analizzare gli elementi costitutivi della nuova fattispecie, tiene conto tanto della lettera quanto della ratio della legge, nonché di «circostanze anche non esplicitate ma necessariamente ricomprese in una norma di cui può dirsi certa la ratio, anche alla luce del complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore (...) al quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale né gli approdi della giurisprudenza di legittimità»9. Segnatamente, le Sezioni Unite ritengono che l’art. 590-sexies c.p., innestato in seno al codice penale dall’art. 6 della legge Gelli-Bianco, introduca una causa di non punibilità in senso stretto (cioè una fattispecie che, per scelta di politica criminale, rende non punibile un fatto ancorché tipico, antigiuridico e colpevole), operante laddove il medico si conformi alle linee guida adeguate al caso concreto e, nell’attuarle, incorra in colpa lieve da imperizia. Al contrario, la disposizione non trova applicazione: (i) laddove l’esercente la professione sanitaria sia incorso in colpa per imprudenza o negligenza (a prescindere dalla relativa gradazione); (ii) allorché non sussistano linee guida o da buone pratiche in relazione all’atto sanitario considerato; (iii) se il medico abbia fatto ricorso a linee guida inadeguate al caso concreto; (iv) in caso di colpa grave da imperizia nella fase esecutiva delle linee guida. Secondo la prospettazione delle Sezioni Unite, la novella, ancorché non ne faccia espressa menzione, va interpretata in modo tale da continuare a sottendere la nozione di “colpa lieve”, parametrando a quest’ultima l’area di impunità.
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Per dei commenti più diffusi sulla pronuncia delle Sezioni Unite, sia consentito il rinvio a C. Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione “costituzionalmente conforme” dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2018, 246 ss.; G.M. Caletti - M. L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le sezioni unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, ivi, fasc. 4/2018, 25 ss.; P. Piras, Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità del medico, in www.penalecontemporaneo.it, 20 aprile 2018.
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Tale conclusione trae argomento, innanzitutto, dai lavori parlamentari, dal cui esame emerge la volontà di differenziare la colpa da imperizia in base alla sua gradazione grave o lieve; ma si sostanzia, altresì, della ratio legis della novella, omogenea rispetto a quella del decreto Balduzzi (introduttivo della distinzione legislativa tra colpa lieve e colpa grave) e alla tradizione ermeneutica che (nonostante l’art. 43 c.p. disciplini la colpa senza distinzioni interne) àncora la colpa medica penalmente rilevante alla sua graduabilità, riconoscendo in un primo momento la diretta applicabilità dell’art. 2236 c.c. e, successivamente, la sua valenza quale principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia. Tale interpretazione, che si spinge al di là del tenore letterale disposizione, secondo il Supremo Consesso è imposta dalla necessità di assicurarne la conformità ermeneutica al dettato costituzionale. È appena il caso di ricordare che lo stesso procuratore generale aveva concluso chiedendo sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies c.p., per contrasto con i principi di cui agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102 e 11 Cost., ritenendo che l’unica interpretazione possibile della novella fosse quella (già propugnata da Cass. Pen., Sez. IV, 19.10.2017, n. 50078) secondo cui la causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies c.p. si applica a qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni del paziente, pur se connotata da colpa grave, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie. Nondimeno, tale soluzione viene ritenuta dalle Sezioni Unite in contrasto, quanto meno, con il divieto costituzionale di disparità ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che, parimenti, operano con alti coefficienti di difficoltà tecnica, nonché rispetto a situazioni meno gravi, rimaste senz’altro punibili, cioè quelle connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza. Per altro verso, la stessa interpretazione determinerebbe un evidente sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi alla disciplina legislativa, posto che la tutela della salute - fondamento del contrasto alla “medicina difensiva” – è incompatibile con l’attribuzione di impunità penale rispetto a gravi infedeltà alle leges artis e, inoltre, determinerebbe rilevanti e ingiuste restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno da parte del medico ai sensi dell’art. 7 della legge Gelli-Bianchi, che, al comma 3, stabilisce una correlazione tra l’ammontare del danno risarcibile e i profili di responsabilità ravvisabili ex art. 590-sexies c.p. Viceversa, l’interpretazione che delimita l’ambito applicativo della causa di non punibilità prevista dall’art. 590-sexies c.p. alla sola colpa lieve per imperizia (e limitatamente ai casi in cui vengano individuate e adottate linee guida adeguate al caso concreto) viene ritenuta dalle Sezioni Unite non censurabile sul versante dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti (anch’essi esposti alla gestione di rischi particolari), in quanto delimita l’ambito applicativo della causa di non punibilità ai soli operatori sanitari ed ai soli atti che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare. Si tratta, dunque, di un’area di non punibilità che restituisce al sanitario la serenità dell’affidarsi alla propria autonomia professionale e, per l’effetto, agevola il perseguimento di una garanzia effettiva del diritto costituzionale alla salute. A fronte delle censure di (difetto di) tassatività, connesse alla preoccupazione che la distinzione tra colpa lieve e colpa grave possa condurre a risultati applicativi non prevedibili e ondivaghi, ancorati all’ampiezza della valutazione del giudice, le Sezioni Unite rilevano che tale timore è sempre stato adeguatamente contrastato dalla complessa opera ricostruttiva, in seno alla dottrina e alla giurisprudenza, di criteri utili per la tendenziale definizione del giudizio di gradazione della colpa. E ribadiscono la persistente validità dei principi elaborati dalla
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giurisprudenza di legittimità sotto la vigenza del decreto Balduzzi10, che scandiscono i criteri di misurazione del grado della colpa, che deve essere effettuata “in concreto”, tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis (cioè l’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi). In particolare, vengono rievocati sia il criterio oggettivo di tipo c.d. “quantitativo”, alla cui stregua rileva il «quantum dello scostamento dal comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile», sia il parametro soggettivo e dunque: «la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicità o equivocità della vicenda; la particolare difficoltà delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficoltà obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicità e novità della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa». Le Sezioni Unite non mancano di rilevare, comunque, il notevole ridimensionamento, operato dalla legge Gelli-Bianco, della discrezionalità del giudice, conseguito attraverso la circoscrizione della causa di non punibilità alla sola imperizia e l’introduzione di un procedimento pubblicistico di formalizzazione delle linee guida rilevanti. A tale riguardo, il Supremo Collegio ritiene che l’art. 6 della novella (introduttivo dell’art. 590-sexies c.p.) debba essere letto alla luce degli artt. 1, 3 e 5 che lo precedono, costituendo «uno dei valori aggiunti della novella, nell’ottica di una migliore delineazione della colpa medica». In tal modo si valorizza l’opportunità del nuovo sistema di accreditamento istituzionalizzato delle linee guida, non solo guida per l’operatore sanitario (precedentemente disorientato dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines), ma altresì risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose in questione, «che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo». Sicché, pur non trattandosi di «veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento ai caso concreto», la “precostituzione” delle le linee guida consente di delimitare in via tendenzialmente circoscritta gli indici ai quali parametrare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia, piuttosto che ancorare una valutazione siffatta «ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante». Quanto al tema della natura, finalità e cogenza delle linee-guida, le Sezioni Unite ribadiscono le conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione, con particolare riferimento alla loro inidoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti. Nella motivazione della sentenza è infatti possibile leggere che «anche a seguito della procedura ora monitorata e governata nei suo divenire dalla apposita istituzione governativa, e quindi tendente a formare un sistema con connotati pubblicistici, le linee-guida non perdono la loro intrinseca essenza, già messa in luce in passato con riferimento alle buone pratiche.
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V., ex multis, Cass. Pen., Sez. IV, 29.1.2013, n. 16237, in CED, rv. 255105; Cass. Pen., Sez. IV, 11.5.2016, n. 23283 del 11/05/2016, in CED, rv. 266903.
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Quella cioè di costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti». Nondimeno, si esclude che il nuovo sistema introdotto possa ritenersi agganciato ad automatismi (non trattandosi, infatti, di uno scudo contro ogni ipotesi di responsabilità), l’efficacia e la forza precettiva delle linee dipendendo comunque dalla dimostrata adeguatezza alle specificità del caso concreto. Con le parole delle Sezioni Unite: «Non, dunque, norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene». Sicché, l’apprezzamento della adeguatezza al caso concreto delle linee guida rappresenta per il medico «il mezzo attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici. Evenienza dalla quale riemergerebbero il pericolo per la sicurezza delle cure e il rischio della “medicina difensiva”, in un vortice negativo destinato ad autoalimentarsi». Proprio l’esclusione dell’impunità nelle ipotesi in cui le linee individuate e utilizzate dal sanitario risultino inadeguate al caso concreto permette alle Sezioni Unite di ravvisare l’incompatibilità della riforma «con qualsiasi forma di appiattimento dell’agente su linee-guida che a prima vista possono apparire confacenti ai caso di specie (...) e conseguentemente con ipotesi di automatismo fra applicazione in tale guisa delle linee-guida ed operatività della causa di non punibilità», nonché di escludere che l’art. 590-sexies c.p. possa sollevare dubbi di compatibilità rispetto al principio di libertà della scienza e del suo insegnamento (art. 33 Cost.) nonché in relazione al principio dell’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.). Con specifico riferimento all’inadeguata selezione delle linee rispetto al caso concreto – cui consegue la non applicabilità della causa di non punibilità –, le Sezioni Unite chiariscono che tale evenienza comprende, oltre all’ipotesi di scelta del tutto sbagliata, anche quella di scelta incompleta, per non essersi tenuto conto di fattori di co-morbilità che avrebbero richiesto il ricorso a più linee-guida regolatrici delle diverse patologie concomitanti o, comunque, la visione integrata del quadro complesso; ma anche l’ipotesi in cui, in ragione delle peculiarità della fattispecie concreta, il sanitario avrebbe dovuto discostarsi radicalmente dalle linee guida regolatrici del trattamento della patologia. Quanto, poi, al criterio guida circa il giudizio sull’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, le Sezioni Unite chiariscono che «la valutazione da parte del giudice sul requisito della rispondenza (o meno) della condotta medica al parametro delle linee-guida adeguate (se esistenti) può essere soltanto quella effettuata ex ante, alla luce cioè della situazione e dei particolari conosciuti o conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento, altrimenti confondendosi il giudizio sulla rimproverabilità con quello sulla prova della causalità, da effettuarsi ex post. Ma con la ulteriore puntualizzazione che il sindacato ex ante non potrà giovarsi di una soglia temporale fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere lineeguida “adeguate” comporta, per il medesimo così come per chi lo deve giudicare, il continuo aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza o conoscibilità da parte del primo». Dalla perimetrazione dell’ambito di operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p. entro i confini del rispetto delle linee-guida adeguate allo specifico caso concreto in ipotesi di responsabilità da imperizia consegue che «lo speciale abbuono» non può essere invocato: (i) nei casi in cui la responsabilità sia ricondotta ai diversi casi di colpa per impru-
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denza e per negligenza; (ii) quando l’atto sanitario non sia affatto governato da linee-guida o da buone pratiche; (iii) quando queste ultime siano individuate e selezionate dal sanitario in maniera inadeguata con riferimento al caso concreto. In altri termini, le Sezioni Unite tratteggiano lo spazio applicativo della novella nell’errore commesso nella fase attuativa delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, mentre riferiscono il requisito dell’adeguatezza delle linee guida al caso concreto alla diversa (e precedente) fase della loro scelta. Nella prospettazione del Supremo Collegio, quindi, la formulazione testuale dell’art. 590-sexies c.p. non osta all’individuazione di un effettivo ambito applicativo della causa di non punibilità (a differenza dell’interpretazione abrogatrice propugnata da Cass. Pen., Sez. IV, 20.4.2017, n. 28187). Infatti, l’articolazione delle fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida permette di ipotizzare la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso, la quale «giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o 590 cod. pen.». E tuttavia, l’errore non punibile, ai sensi della legge Gelli-Bianco, non può riguardare la fase della selezione delle linee-guida perché, dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, qualsiasi errore sul punto, dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del “rispetto”. La ratio di tale conclusione viene individuata «nella scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino. Con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potrà, alle condizioni che si indicheranno, essere quello che chiama in campo la operatività della novella causa di non punibilità». Quanto alla natura giuridica dell’art. 590-sexies c.p., le Sezioni Unite ritengono (analogamente a Cass. Pen., Sez. IV, 19.10.2017, n. 50078) che essa sia quella della causa di non punibilità in senso tecnico: «La previsione della causa di non punibilità è esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente (...) che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di comportamento a loro volta sollecitate dalla necessità di gestione del rischio professionale: comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date». Ciò anche in considerazione che l’intervento protettivo del legislatore, ispirato al contrasto della medicina difensiva (e con essa al pericolo per la sicurezza delle cure), ha limitato l’esenzione da pena alle sole condotte riconducibili agli artt. 589 e 590 c.p., creando dunque un «perimetro più circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessità della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicità di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare».
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Giurisprudenza nazionale
Conclusivamente, in ordine agli intricati profili diritto intertemporale, le Sezioni Unite ritengono che l’abrogata disciplina di cui al decreto Balduzzi costituisce normativa più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p. sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza, sia rispetto all’errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto (cioè di errore nella valutazione della appropriatezza della linea-guida). Quanto all’errore determinato da colpa lieve da imperizia nella sola fase attuativa delle linee guida, che andava esente da responsabilità penale per il decreto Balduzzi, ed è ora oggetto della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p., viene reputato ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio. Alessandro Quattrocchi
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Giurisprudenza
internazionale
International Criminal Court, 15 June 2017 No. ICC-01/04-02/06 OA5 – Presiding Judge Sanji Mmasenono Monageng Corte Penale Internazionale – Crimini di guerra – Crimini contro l’umanità – Diritti umani – Giurisdizione internazionale – Diritto internazionale umanitario – Repubblica Democratica del Congo La Camera d’appello riconosce la competenza della Corte penale internazionale sui crimini di guerra di stupro e schiavitù sessuale commessi contro i bambini soldato appartenenti allo stesso gruppo armato dell’accusato.
Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.
Riconoscimento della competenza della Corte penale internazionale per i crimini di guerra: stupro e schiavitù sessuale nei confronti dei bambini soldato Il 15 giugno 2017 la Camera d’appello della Corte Penale Internazionale, nel confermare la decisione della Camera di primo grado, ha unanimemente rigettato il ricorso di B. N. (capo di un gruppo armato nella Repubblica Democratica del Congo accusato di aver commesso una pluralità di crimini di guerra e gravi violazioni di diritti umani1) contro la decisione con cui la Camera di primo grado aveva riconosciuto la competenza della ICC sui crimini di guerra di stupro e schiavitù sessuale, quando commessi contro bambini soldato appartenenti allo stesso gruppo armato dell’accusato. Interessante è la motivazione della sentenza che approva l’iter logico giuridico seguito dal giudice dalla Camera di primo grado. In particolare, il giudizio di appello verteva sull’ambito di applicazione degli artt. 8 paragrafi 2 lettera b) ed e) dello Statuto della Corte Penale Internazionale che tra i crimini di guerra annovera lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale nonché la realizzazione di qualsiasi altra forma di violenza sessuale in violazione della Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 contro persone o beni protetti dalle norme delle Convenzioni.
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Appeals Chamber, Prosecutor v. Ntaganda, Judgment on the appeal of Mr Ntaganda against the “Second decision on the Defence’s challenge to the jurisdiction of the Court in respect of Counts 6 and 9”, 15 June 2015, ICC01/04 – 02/06-1962. La pronuncia della Camera di Appello è consultabile al seguente link: https://www.icc-cpi.int/ CourtRecords/CR2017_03920.PDF
Giurisprudenza internazionale
L’accusato afferma che l’organo di primo grado ha commesso un errore di diritto, in quanto non ha riconosciuto l’incompatibilità dello status di bambino soldato arruolato in un gruppo armato con la nozione di individui che non prendono parte attiva al conflitto armato protetto dalla Convenzione di Ginevra. La Corte sostiene, invece, che le fattispecie in esame ricadono nei crimini di stupro e schiavitù sessuale elencati dalla precitata norma senza alcun riferimento alla violazione della Convenzione di Ginevra non necessitando di una specifica qualifica soggettiva della vittima. Nell’aderire la giurisprudenza della Corte Internazionale per i Crimini in ex Jugoslavia (caso Appeals Chamber, Prosecutor v. Kunarac et al, “Judgement”2) si sostiene che ai fini della ricorrenza di un crimine di guerra è sufficiente dimostrare il nesso causale tra la condotta criminosa ed un conflitto armato. La protezione contro la violenza sessuale in base al diritto internazionale umanitario non è limitata ai membri di forze armate opposte che si trovano in una condizione di fuori combattimento o di civili non partecipanti direttamente al conflitto. L’accertamento dell’appartenenza dei bambini soldato allo stesso gruppo armato dell’imputato non è necessario, in quanto è principio generale di diritto internazionale non riconoscere né situazioni create da certe gravi violazioni della legge internazionale, né benefici conseguenti da una propria condotta illegale. Il reclutamento di bambini in un gruppo armato è, oltre ad essere di per sé un crimine, viola il diritto di un civile a non prendere parte in un conflitto e costituisce un trattamento inumano. Un membro di un gruppo armato può in certe circostanze non essere parte di un combattimento e soggetto alla norma della Convenzione di Ginevra. La condizione di vittima di violenza e schiavitù sessuale è incompatibile con lo status di combattente, non occorrendo che la norma riconosca tale status. La Corte di Appello nella sua decisione, nel richiamare l’art. 21 dello Statuto3 che regola le fonti del diritto che la Corte può applicare, utilizza il quadro regolatorio del diritto internazionale non solo in caso di lacuna ma anche per consentire una interpretazione conforme al diritto internazionale umanitario. Ne consegue che nel caso in esame i giudici internazionali hanno aggiunto un’ulteriore elemento giuridico per il riconoscimento della sussistenza dei crimini indicati dall’articolo 8 paragrafi 2 b ed e dello Statuto costituito dalla non necessaria applicazione dello status soggettivo di persona protetta prevista dalle convenzioni di Ginevra. Tale interpretazione si fonda sull’applicazione delle Convenzioni di Ginevra I e II (per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate
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ICTY, Appeals Chamber, Prosecutor v. Kunarac et al, “Judgement”, 12 June 2002, IT-96-23 & IT-96-23/1-A, para.
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Ai sensi dell’art. 21, “la Corte applica: a) in primo luogo, il presente Statuto ed il Regolamento di procedura e di prova; b) in secondo luogo, ove occorra, i trattati applicabili cd i principi e le regole di diritto internazionale, ivi compresi i principi consolidati del diritto internazionale dei conflitti armati; c) in mancanza, i principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa interna dei sistemi giuridici del mondo, compresa, ove occorra, la normativa interna degli Stati che avrebbero avuto giurisdizione sul crimine, purché tali principi non siano in contrasto con il presente Statuto, con il diritto internazionale e con le norme ed i criteri internazionalmente riconosciuti. La Corte può applicare i principi di diritto e le norme giuridiche quali risultano dall’interpretazione fornitane nelle proprie precedenti decisioni. L’applicazione e l’interpretazione del diritto ai sensi del presente articolo devono essere compatibili con i diritti dell’uomo internazionalmente riconosciuti e devono essere effettuate senza alcuna discriminazione fondata su ragioni quali il genere sessuale come definito nell’articolo 7, paragrafo 3, l’età, la razza, il colore, la lingua, la religione o il credo, le opinioni politiche o le altre opinioni, la nazionalità, l’origine etnica o sociale, le condizioni economiche, la nascita o le altre condizioni personali.
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in campagna e per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare) che tutela le vittime in tutte le circostanze senza alcuna distinzione su sesso, razza e nazionalità . La Corte rileva, inoltre, che, per l’inesistenza di una norma consuetudinaria che escluda i membri di una forza armata dalla protezione da violenze commesse dai propri commilitoni, non vi è alcuno spazio per negare la protezione di diritto internazionale umanitario per delitti di stupro o schiavitÚ sessuale. Nikita Micieli
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Biase
Giurisprudenza
europea
CEDU, Sez. IV, 26 giugno 2018, n. 47911/05 – Pres. Ganna Yudkivska Articolo 6 (1) Cedu – Art.1 Prot. n.1 Cedu – Confisca sui beni di terzi – Confisca e diritto di proprietà – Bilanciamento interesse collettivo e interessi specifici – Margine di apprezzamento La confisca può essere applicata non solo alla persona direttamente accusata di un reato ma anche a terzi che detengano diritti di proprietà, senza il requisito della buona fede, sui beni dell’accusato con lo scopo di dissimulare il loro ruolo nell’accumulare i beni in questione1.
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Corte EDU: caso Telbis e Viziteu c. Romania Sommario: 1. Il caso. – 2. La decisione della Corte. – 3. La questione.
1. Il caso. Il ricorso riguarda il sequestro di denaro e proprietà di tre ricorrenti di cittadinanza rumena, L. T., L. A. T. e M. A. V., sul presupposto che avessero beneficiato di tangenti prese da un parente stretto, un medico che esercitava la professione in un ufficio pensioni e condannato a tre anni di carcere. Nel marzo 2014 le autorità rumene aprivano un’inchiesta sull’assunzione di tangenti da parte di S.T., marito della prima ricorrente, padre della seconda e zio della terza. Nell’ambito delle indagini, venivano sequestrati diversi beni mobili e immobili di proprietà delle donne. Queste ultime impugnavano il decreto di sequestro patrimoniale, sostenendo che i beni fossero stati ottenuti lecitamente e non avessero alcun collegamento con i crimini contestati. L’opposizione non era stata accolta. Il Tribunale nazionale, in particolare, rilevava che vi era una grande discrepanza tra il reddito familiare e la capacità di spesa per la gestione dei beni in questione. Argomentava, infatti, che i salari della signora T. e suo marito non avrebbero potuto consentire di acquisire un numero così elevato di proprietà e veicoli, la figlia era una studentessa senza reddito, e la nipote non aveva mai dato prova del fatto di aver chiesto allo zio di badare ad una somma di denaro, che lei aveva poi sostenuto essere sua. Il provvedimento di rigetto veniva impugnato dalle ricorrenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando violazioni dell’art. 6 (1) Cedu (diritto all’equo processo), per non aver potuto esercitare i propri diritti di difesa nel procedimento contro S.T. e dell’art. 1 del
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Non si tratta di “massima” nel senso tecnico del termine, ma di un estratto, ritenuto rilevante, della sentenza in commento.
Giurisprudenza europea
Protocollo n. 1 della Convenzione (protezione della proprietà), per essere state private della loro proprietà in assenza di una condanna penale. La domanda è stata depositata presso la Corte Edu il 2 novembre 2015.
2.La decisione della Corte. Quanto alla violazione della norma sull’equo processo, i giudici di Strasburgo osservavano che, nel complesso, le autorità rumene avevano dato ai ricorrenti opportunità ragionevoli e sufficienti per proteggere i propri interessi di difesa e che non vi era stata, pertanto, violazione dell’art. 6 (1) Cedu. In particolare, secondo il diritto nazionale rumeno, il tribunale di primo grado non era obbligato a concedere alle ricorrenti lo status di parti interessate di propria iniziativa in quanto avrebbero avuto il diritto di intervento in qualsiasi fase del procedimento: le donne erano intervenute solo nel processo di appello. La Corte Edu non trovava alcun motivo per non concordare con la decisione del tribunale nazionale di respingere la istanza dei richiedenti di presentare nuove prove, che era stata prodotta solo alla fine del ricorso e dopo che erano scaduti i termini. Pertanto, rilevato che tutti e tre le ricorrenti fossero state in grado di difendere i propri diritti davanti al tribunale, il primo motivo veniva respinto. Quanto alla presunta violazione dei diritti di proprietà, La Corte Edu riscontrava che il Tribunale rumeno aveva valutato il caso in modo equo ed il procedimento non era stato arbitrario. Le azioni delle autorità non erano state sproporzionate rispetto allo scopo legittimo del Governo di contrastare la corruzione, un’area in cui lo Stato disponeva di un’ampia discrezionalità; inoltre, le ricorrenti avevano avuto diverse opportunità di difendere i propri diritti nel procedimento, nel pieno rispetto del contraddittorio. Era anche stato ragionevole che le autorità richiedessero alle donne di dimostrare l’origine “lecita” dei beni, data la loro relazione con l’uomo condannato. L’ingerenza sui diritti delle prime due richiedenti sui loro possedimenti non era stata sproporzionata, pertanto il loro ricorso sul punto veniva respinto dalla Corte, mentre la rivendicazione della terza, ai sensi dell’art.1 Prot. n. 1, era stata dichiarata inammissibile.
3.La questione. Il profilo della sentenza in commento, su cui preme soffermarsi maggiormente, s’incentra sull’ammissibilità della confisca in assenza di condanna penale, in particolare della misura cautelare sui beni appartenenti ai familiari del reo. Il costante orientamento della Corte Edu riguardo la confisca considera tale provvedimento un’ingerenza statale sulla proprietà privata del cittadino, nel significato dell’art.1 del Protocollo n.1 della Convenzione2. Tale norma fornisce allo Stato la possibilità di “interferire”, con un “ampio margine di apprezzamento”, su tale diritto solo in presenza di un superiore interesse generale, come ad esempio il contrasto e la repressione di reati particolarmente gravi3. Inoltre, si richiede una relazione di proporzionalità tra gli strumenti utilizzati e gli obiettivi perseguiti. Invero, la Corte dovrà determinare se sia
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Cfr. Cedu, S.C. Fiercolect Impex S.R.L. c. Romania, 13 dicembre 2016. Cfr. Cedu, Morabito e al. c. Italia, 7 giugno 2005; Saccoccia c. Austria, 18 dicembre 2008; Silickiene c. Lituania, 10 aprile 2012.
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Corte EDU: caso Telbis e Viziteu c. Romania
stato operato dalle autorità nazionali un bilanciamento tra l’interesse generale e l’interesse specifico degli individui coinvolti4. In secondo luogo, secondo i giudici di Strasburgo, l’onere di provare la provenienza lecita dei fondi può essere legittimamente spostato sui soggetti colpiti da un provvedimento di confisca. In aggiunta, la confisca può colpire non solo il prodotto, il profitto o il prezzo del reato ma anche i proventi ottenuti dalla conversione o dalla trasformazione dei “benefits” diretti del delitto o dalla loro confusione con altri beni leciti. La confisca, infine, può essere applicata ai beni di appartenenti a terzi, purché sia dimostrato che mancavano del requisito della buona fede. A tal proposito giova ricordare che sul punto è più volte intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione, stabilendo che i parenti prossimi del condannato, dal momento che sono estranei al reato, hanno di regola il loro patrimonio garantito dal rischio che venga confiscato o sottoposto a sequestro, ai sensi dell’art. 240, commi 3 e 4 cod. pen.; tuttavia gli ermellini, adottando lo stesso approccio ermeneutico dei giudici di Strasburgo, fanno salvo il caso dei terzi per i quali non possa essere accertata la buona fede5.
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Crf. Cedu, Telbis e Viziteu c. Romania, para. 70. Cfr., Cass. pen. 24 ottobre 2008 n. 42741; Cass. pen. 29 settembre 2009, n. 42178.
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Osservatorio
internazionale
La dottrina politica internazionale di Hugo Chávez: causa della storica crisi del Venezuela di oggi? Massimo Labartino Il Venezuela di oggi, nelle incerte mani del Presidente Nicolas Maduro, è un Paese figlio della lunga presidenza di Hugo Chávez e prende le mosse dalla sua ideazione di una vera e propria diplomazia e logica “terzomondista”. Il principale argomento della rivendicazione terzomondista venezuelana è stato quello della critica ferrea al vigente sistema internazionale ed al predominante potere statunitense. Nel contempo, però, la presidenza di Chávez non è riuscita a sviluppare un sufficiente livello di coesione sociale interna che supportasse la scelta del dove collocarsi all’interno dell’ordine mondiale dell’epoca. In altre parole, il discorso terzomondista è servito nel corso del quasi “ventennio” Chávez (perpetuato dal suo epigono Nicolas Maduro) come strumento di politica internazionale, ma sul fronte interno il governo venezuelano ha continuato ad atteggiarsi ed agire come un regime sostanzialmente conservatore e, per certi versi, anti-democratico. Nella storia delle relazioni internazionali, inoltre, è davvero singolare che si instaurino alleanze geopolitiche e strategiche tra Paesi molto distanti geograficamente ed ideologicamente come il Venezuela e l’Iran, ma ciò è proprio quanto accaduto per precisa volontà dei due leaders del momento, Mahmoud Ahmadineyad (al governo in Iran tra il 2005 e il 2013) e Hugo Chávez (al governo in Venezuela tra il 1999 e il 2013). Tale inusitata alleanza terzomondista ha trovato la sua massima consacrazione quando, all’indomani della rielezione del Presidente Chávez nel 2006, il primo Capo di Stato a rendergli una visita ufficiale fu proprio Ahmadinejad, mentre da parte sua Chávez, sino al 2010, effettuò ben nove visite di Stato nel Paese islamico per finalizzare accordi bilaterali di cooperazione finanziaria, industriale, petrolchimica e mineraria. Probabilmente la radice fondamentale dell’inusuale ed inattesa alleanza strategica è da cogliere in alcuni elementi di prossimità ideologica tali da originare lo storico avvicinamento: entrambi sono paesi esportatori di petrolio e membri dell’OPEC ed entrambi hanno vissuto in anni recenti una fase storica dettata dal concetto di “rivoluzione” (rivoluzione islamica, quella dell’Iran di Khomeini nel 1979 e rivoluzione “bolivariana”, quella del Venezuela di Chávez nel 1998). Seppur distanti tra loro nel tempo, seppur lontane in termini ideologici (eminentemente religiosa la prima e laica e politica la seconda) ed in ordine al sistema politico soggiacente (trattandosi, quella venezuelana, di una rivoluzione autoproclamatasi “socialismo del XXI secolo”), le due rivoluzioni sono state avvicinate da un minimo comun denominatore dottrinale: il “terzomondismo”. La ricerca di un riferimento internazionale comune che prendesse le distanze dal modello egemonico degli Stati Uniti e dal modello imperialista del “Nord” del mondo ha costituito la cifra fondamentale di entrambi i regimi. Ad ogni modo, sebbene tale retorica terzomondista abbia fatto appello alla logica contro-egemonica, alla lotta contro la dominazione esterna, all’autodeterminazione dei popoli, alla dignità nazionale, alla battaglia sociale dei “diseredati”, sul fronte interno entrambi i Paesi hanno vissuto mutamenti sociali di rilevante portata non accompagnati, però, da corrispondenti significativi cambi nel regime politico, che,
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anzi, si è consolidato nel tempo, in entrambi i casi, grazie all’autocrazia, alla perpetuazione del potere ed al ricorso alla violenza di Stato. Analizzato questo interessante parallelismo geopolitico, ciò che ci preme approfondire è la situazione politica interna e l’atteggiamento terzomondista nella politica internazionale venezuelana. “Terzo Mondo” è uno di quei concetti politici polisemantici, che parrebbe svuotato di contenuto dopo la fine della Guerra Fredda (che si usa far risalire alla caduta del muto di Berlino nel 1989), e per questo dalla fine degli anni ’80 si è cristallizzato piuttosto in uno stato mentale della società civile ed in un indicatore di povertà. In altre parole, il “Terzo Mondo” non è sicuramente un luogo, bensì un progetto politico-economico che accomuna diversi paesi che, nel periodo intercorso tra la decolonizzazione africana e la fine della Guerra Fredda, puntarono su un’alternativa internazionale sia all’ordine egemonico degli Stati Uniti e dell’Europa sia al vassallaggio nei confronti dell’allora unione Sovietica. Una visione politica del Terzo Mondo, questa, che avrebbe dovuto esaurire la sua ragione d’essere con la fine della Guerra Fredda, appunto, ma che invece trovò nuova linfa ideologica dopo il 2000 a partire dall’analisi svolta a proposito dalla Banca Mondiale di Washington all’epoca diretta da Robert Zoellick. In particolare, questi segnalò che in quel momento (e le sue teorie vennero riprese nel 2010 da un interessante approfondimento della rivista britannica “The Economist”) le economie emergenti erano sempre più in ascesa e si stavano trasformando nel nuovo motore economico globale, in ciò differenziandosi dalle precedenti economie del Terzo Mondo che nel contesto della Guerra Fredda erano assolutamente dipendenti da quelle del Primo Mondo, restando prive di adeguato spazio per un agire indipendente. Invece, nell’attualità il sistema internazionale è caratterizzato da maggiore complessità, da frontiere più fluide tra economie dipendenti ed indipendenti, da economie ricche a loro volta dipendenti dalla crescita di quelle emergenti, da economie dell’antico Terzo Mondo ancora dipendenti dai capitali dei paesi più sviluppati, ecc. In buona sintesi, uno scenario molto più articolato rispetto al passato e che connota prevalentemente il “progetto terzomondista” di una valenza economica, essendosi svuotato il suo originario contenuto storico-politico, figlio della modernità post secondo conflitto mondiale, quale critica all’ipocrisia delle potenze europee e, successivamente, di quella statunitense. Il progetto terzomondista, allora, sorse dalla lotta anti-colonialista e dall’aspirazione ad un sistema più giusto ed equo per tutti gli Stati, ma purtroppo si scontrò presto con l’antagonista progetto del “Nord Atlantico”, vale a dire l’istituzione e formalizzazione nel G7 delle sette economie più potenti del pianeta e del nuovo ordine economico mondiale, antagonismo che ne determinò irrimediabilmente il fallimento, soprattutto a causa della schiacciante dipendenza dei Paesi emergenti dal meccanismo del debito originato dai prestiti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. In sintesi, gli elementi originari di carattere economico (dipendenza dal debito esterno) e politico (post-colonialismo e Guerra Fredda) hanno perso del tutto la rilevanza di allora per lasciare successivamente spazio ad un nuovo progetto terzomondista, fondato sulla lotta per la pari dignità culturale, per il diritto di accesso alle risorse naturali quali acqua e terra, per la parità economica, per la parità di genere e di etnia, per la democratizzazione e la responsabilità statale in generale, ecc.. Da questi nuovi elementi fondanti dovrebbero delinearsi gli attori protagonisti del nuovo Terzo Mondo. Tra di essi può collocarsi, appunto, l’odierno Venezuela, alla luce di quanto innanzi accennato, e cioè che il nuovo progetto terzomondista si incarna in una dottrina ed in un discorso finalizzati alla creazione di un nuovo “ordine internazionale contemporaneo” più equo tuttora latente nel “Sud” del mondo. Prendendo le mosse da tale mutato scenario globale, il Presidente Hugo Chávez aveva sposato l’idea dell’autarchia economica, ma non poté in alcun modo affrancarsi dalla dipendenza dell’esportazione del prodotto nazionale per eccellenza, il petrolio, pur mantenendo una retorica populista e fortemente anti
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La dottrina politica internazionale di Hugo Chávez: causa della storica crisi del Venezuela di oggi
USA. Il fattore ideologico, quindi, è stato determinante affinché Chávez trainasse l’avvicinamento di diversi governi latinoamericani ai Paesi del Medio Oriente, assumendo il ruolo di leader anti-imperialista (in un’ostentata rivivificazione del “libertador” Simon Bolivar) e della diplomazia del nuovo ordine multipolare in America Latina, fino a costituire l’ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America Latina) al fine di contrastare lo storico predominio statunitense nell’area. Forse il carattere contro-egemonico verso gli Stati Uniti delle relazioni internazionali venezuelane, in fondo, si incentra su un’opposizione non causata da un odio specifico verso quella Nazione, bensì sul fatto che gli USA incarnano l’epitome del potere egemonico globale, pur non essendone l’unica rappresentazione, atteso che il Venezuela nel recente passato ha più volte manifestato diffidenza verso la Colombia di Alvaro Uribe o il Cile di Sebastián Pinera, ma anche verso il Brasile del socialista Ignacio Lula in quanto minaccia al progetto politico regionale bolivariano per la sua importanza e potenziale economico. Il terzomondismo di Hugo Chávez, quindi, è stato piuttosto attivo e dinamico, traducendosi in relazioni internazionali impostate allo scontro piuttosto che al dialogo (salvo che con i propri alleati strategici). Nel contempo, sul versante interno, tale progetto si è tradotto in un rifiuto dell’oligarchia di tipo tradizionale, alla ricerca di politiche pubbliche nazionali da finanziare attraverso il petrolio. In altre parole, il governo Chávez ha cercato di combinare nazionalismo e caudillismo latinoamericano con riforme sociali finanziate dal petrolio, settore economico totalmente nazionalizzato in quanto “motore” economico del progetto terzomondista. In sintesi, il discorso chavista è stato chiaramente e direttamente connesso al discorso di un novello “Terzo Mondo” che lotta per una maggiore autonomia sul piano internazionale, ma si è basato anche su un approccio più eclettico, ispirato ad una più ampia influenza intellettuale, quella della c.d. “teoría del desarrollo” (teoria dello sviluppo), dottrina storicamente latinoamericana. Nello specifico, il Presidente Chávez intese creare un sistema che potesse sfidare, con il sostegno delle royalties di stato del petrolio, la imperante globalizzazione di marca neo-liberale, orientando in tal senso anche la politica estera del paese. Ciò, almeno, nelle sue premesse e migliori intenzioni. Invece, alla resa dei conti, il chavismo ed il suo epigono Nicolas Maduro hanno dovuto prendere atto della prosecuzione di fatto dell’ineludibile dipendenza dagli Stati Uniti d’America, atteso che proprio verso gli USA si dirige la maggioranza delle esportazioni petrolifere dal Venezuela, sino al punto che l’economia nazionale è stata praticamente “indicizzata” negli anni a quella nordamericana. Tale situazione costituì a lungo una preoccupazione per Hugo Chávez durante il suo mandato, tanto che decise di modificare l’assetto della compagnia petrolifera di Stato (la PDVSA), che aveva nazionalizzato il petrolio nel 1976 ma anche assunto tanto potere da configurarsi come un vero e proprio “Stato dentro lo Stato”. Per tale ragione, Chávez estese al settore energetico la visione bolivariana di governo, per realizzare una più ampia ripartizione sociale dei dividendi del petrolio, strategia che, in buona sostanza, si tradusse solo in una tipica politica pubblica latinoamericana distributrice di sussidi sociali che, come anche dimostrato dal Brasile di Lula e Rousseff, nel lungo periodo finisce per costituire un elemento di decrescita del motore economico di un Paese, per carenza di incentivi all’imprenditorialità ed all’iniziativa privata. Fu anche per questo, forse, che Chávez, a differenza del suo successore Maduro, cercò di disegnare un modello economico bolivariano, ma anche ispirato alla libera concorrenza ed al commercio, che non si identificasse con il socialismo classico, ad esempio incentivando i consumi delle famiglie e favorendo l’apertura a Caracas ed in tutto il Paese di grandi centri commerciali. In sintesi, gli utili del petrolio permisero al governo chavista di varare una serie di politiche pubbliche che si possono definire sì socialiste, ma che, in fin dei conti, cercarono anche un approccio più nazionalista ed improntato ad un nuovo modello di sviluppo latinoamericano, a carattere contro-egemonico ed anti-globalizzazione. L’ambizioso
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Osservatorio internazionale
obiettivo di Chávez fu, evidentemente, quello di capitanare un sistema di cooperazione terzomondista alla latinoamericana (che ha avuto nel tempo tra i suoi più fedeli alleati la Bolivia di Evo Morales, l’Ecuador di Rafael Correa, il Nicaragua di Daniel Ortega e la Cuba di Raul Castro), alternativo al modello neo-liberale e keynesiano imposto dalle istituzioni economiche multilaterali, percepite come agenti dell’egemonia statunitense, vale a dire il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. D’altro canto, inoltre, negli anni del chavismo e nell’attualità della presidenza Maduro si è consolidata una generale tendenza ad osservare il principio di non intervento ed il rispetto dei diritti umani nei conflitti internazionali, specialmente quelli innescati in Medio Oriente e Nord Africa dalla c.d. “Primavera Araba”, coincidendo in generale con altre potenze latinoamericane rispetto all’astensione dall’ingerenza e dall’ intervento militare nei conflitti regionali. Però è proprio questo aspetto di politica estera del chavismo che ha rivelato l’incongruenza sostanziale del discorso venezuelano della preminenza dei “diritti umani”, che proprio in alcuni Paesi dell’area latinoamericana, Venezuela in primis, ha invece evidenziato un deficit sostanziale del loro rispetto, stigmatizzato anche da alcune organizzazioni internazionali (ad esempio Human Rights Watch). In altre parole, il caso venezuelano è paradigmatico di una retorica anti-imperialista che invocava proprio la difesa dei diritti umani come priorità, ma che ha invece fatto ricorso alla loro sostanziale limitazione all’interno dei confini nazionali, premessa per una politica interna di fatto imperialista, autoreferenziale ed autarchica. Proprio per questo il settore riformista del Paese, che maggiormente si era entusiasmato con la classe media ed i giovani, è stato quello maggiormente deluso e demotivato dall’ipocrisia del governo Chávez e oggi, se possibile, lo è ancor di più dalla presidenza Maduro, che ha pericolosamente spinto il Paese sul baratro di una vera e propria guerra civile o, perlomeno, verso l’odiosa attribuzione da parte della comunità internazionale della qualifica di “Stato fallito”. In conclusione, sebbene l’elemento dottrinale del terzomondismo e/o del socialismo del XXI secolo è stato determinante nella storia venezuelana dell’ultimo ventennio (dall’assunzione del potere di Chávez nel 1998) per posizionare il Paese con una connotazione del tutto peculiare all’interno del vigente sistema internazionale e per stabilire nuove alleanze multilaterali tra Paesi o blocchi regionali, attraverso il ricorso al discorso della lotta per un sistema internazionale più equo nel quale trovassero giusta collocazione anche gli attori del Sud del mondo e dell’opposizione ad ogni forma di imperialismo e di sottomissione al Nord egemonico, alla fine dei conti, purtroppo, il progetto terzomondista venezuelano pare essere naufragato a causa di dissidi e fratture interne alla Nazione (tra i fattori più critici, probabilmente, un’estesa corruzione pubblica, un eccesso di Stato patrimoniale ed uno sperpero del denaro proveniente dalla raccolta fiscale). Pertanto, l’intellighenzia del paese e la comunità internazionale si interrogano sul come un apparato dottrinale così strutturato ideologicamente abbia potuto solo inizialmente originare profondi cambi sociali finendo, però, al contrario per consolidare all’interno un sistema politico rigido, conservatore ed oligarchico, sostanzialmente privo di uno spazio assegnato alle voci della dissidenza. Le élites interne ispirate dall’idea di sviluppo avevano difatti creduto che il progetto politico terzomondista si fondasse sull’etica della giustizia, per il radicale rifiuto dell’imperialismo e l’appello alla libertà di tutti i popoli, mentre invece oggi, dopo quasi vent’anni, si ritrovano a fare i conti con una sostanziale carenza di quella stessa giustizia sociale all’interno dei confini nazionali.
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Osservatorio
internazionale
L’Alto Commissario Onu: richiamo per la mancata condanna della persecuzione dei Rohingya da parte di Aung San Suu Kyi Nikita Micieli de Biase Lo scorso 24 agosto la Commissione indipendente costituita in ottemperanza alla Risoluzione del Consiglio Diritti Umani 34/22 del 2017 ha presentato il rapporto sulle violazioni dei diritti umani e i crimini commessi contro la minoranza etnica dei Rohingya di religione islamica da parte dell’esercito e delle autorità civili del Myanmar. Il rapporto è stato inviato al governo birmano che ha rifiutato di rispondere ai quesiti formulati e di fornire osservazioni in contraddittorio. In premessa, si fa un’analisi del sistema politico birmano evidenziando che l’esercito ha un ruolo centrale ed è indipendente rispetto all’autorità civile. Da ciò si evince che il Myanmar non è ancora una democrazia, nonostante le riforme degli ultimi anni. Il rapporto sviluppa implicitamente la nozione di illecito internazionale per condotta omissiva nell’evidenziare il mancato intervento delle autorità civili. In particolare, si afferma che la mancata condanna, da parte del Nobel della pace il Consigliere di Stato e Ministro per gli Affari Esteri, Aung San Suu Kyi, costituisce una condotta adesiva ai crimini contro l’umanità commessi contro i Rohingya che le autorità birmane negano la cittadinanza attribuendo lo status di immigrati. L’Alto Commissario per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad al Hussein, a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto, aderendo alle sue conclusioni, ha condannato la leader birmana Suu Kyi per aver giustificato l’azione militare contro i Rohyingya come operazioni antiterrorismo e per non essersi dimessa dagli incarichi governativi come forma di dissociazione. Il rapporto propone il suo deferimento alla Corte di Giustizia Internazionale insieme ai leader dell’esercito birmano per genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra. In sede di processo sarà necessario provare l’esigibilità dell’intervento impeditivo da parte delle autorità civili birmane, il nesso causale tra il mancato intervento e il perpetrarsi dei crimini. La prova di tali elementi è abbastanza difficile essendo il potere politico birmano in mano alle autorità militari. La connivenza per questi crimini rappresenta una responsabilità politica che può giustificare la revoca delle onorificenze o di eventuali sanzioni di carattere diplomatico come la negazione del visto o il sequestro dei beni o conti bancari posseduti all’estero. Il rapporto tra le raccomandazioni fa un appello alla comunità internazionale di utilizzare, tramite le Nazioni Unite, ogni mezzo pacifico di carattere politico, diplomatico o umanitario per assistere Myanmar nell’adempiere il suo obbligo internazionale di proteggere la sua popolazione da atti di genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra.
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Le opinioni sono formulate a titolo esclusivamente personale e non rappresentano quelle dell’amministrazione di appartenenza.
Osservatorio internazionale
Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe, secondo il rapporto, promuovere l’accertamento di tali crimini presso la Corte di Giustizia Internazionale o alternativamente ad un tribunale internazionale istituito ad hoc. Si evoca anche l’adozione di un embargo contro la vendita di armi nei confronti del Myanmar. Fino all’intervento del Consiglio di Sicurezza, sarebbe auspicabile, ad avviso del rapporto, l’istituzione di un organismo imparziale e indipendente non giurisdizionale per raccogliere ed analizzare le prove eventuali di violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani per facilitare successivi processi da parte di tribunali nazionali, regionali o internazionali. Lo scorso 6 settembre, la Corte Penale Internazionale ha deciso con un voto a maggioranza che la Corte stessa possa esercitare la sua giurisdizione per le deportazioni di massa dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh1. La decisione è stata varata in seguito alla richiesta del Procuratore formulata per richiedere alla Corte di pronunziarsi sulla questione di competenza o di procedibilità. In particolare, il Procuratore ha allegato che, anche se le deportazioni sono avvenute nel territorio del Myanmar, Stato che non ha ratificato lo Statuto, la Corte può esercitare la sua giurisdizione in quanto un elemento oggettivo del crimine (ovvero l’attraversamento della frontiera) si è perfezionato in Bangladesh. Quest’ultimo, invece, è uno Stato parte dello Statuto. La Corte ha altresì fatto applicazione del principio di diritto internazionale cristallizzato nell’art. 119 par. 1 dello Statuto secondo cui ogni tribunale internazionale è dotato di pieni poteri nello stabilire la propria giurisdizione. L’iter logico seguito dalla Corte è il seguente: il crimine di deportazione, insieme a quello di trasferimento forzoso è un crimine contro l’umanità di cui all’art. 7 par. 1 dello Statuto che consente ai sensi dell’art. 5 dello Statuto l’esercizio della propria competenza se parte del crimine o un suo elemento abbia avuto luogo nel territorio di uno Stato parte dello Statuto. Il giudice di nazionalità francese, Perrin de Brichambaut, ha espresso in parziale dissenso dei rilievi procedurali evidenziando che non è applicabile il summenzionato principio della competenza delle competenze per il fatto che il provvedimento della Corte è di natura consultiva che legittima soltanto una richiesta del Procuratore alla Camera Preliminare di autorizzazione per avviare le indagini. In conclusione, occorrerà organizzare un processo equo ed imparziale per l’individuazione dei responsabili di crimini internazionali attraverso il rigoroso accertamento dell’elemento soggettivo, quello oggettivo, del nesso causale tra la condotta attiva od omissiva e la realizzazione del fatto.
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La nota è consultabile al seguente link del sito della Corte Penale Internazionale: https://www.icc-cpi.int/Pages/ item.aspx?name=pr1403.
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Art. 604-bis c.p. Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa: nuove prospettive Antonio De Lucia Con il d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 22 marzo 2018, è stata data attuazione alla delega contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103 c.d. “legge Orlando”; in particolare a quella relativa all’introduzione del principio della “riserva di codice” nel nostro ordinamento penale. Numerose sono state le figure di reato o circostanze per le quali si è adottato un vero e proprio trasferimento all’interno del codice penale, oggetto di riforma, che incide significativamente sia sulla parte generale, sia sulla parte speciale del codice penale. Può pertanto essere utile dar vita ad un sintetico quadro d’insieme delle novità introdotte. La lista dei nuovi reati presenti nel codice penale si concretizza con l’introduzione di figure quali il “sequestro di persona a scopo di coazione”, “violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”, “utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”, “interruzione colposa di gravidanza”, “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”. Altre figure delittuose, poi, quali l’art. 452-quaterdecies in materia di tutela ambientale, rubricato “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, l’art. 493-ter in materia di tutela del sistema finanziario rubricato “indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento”, l’art. 416-bis 1 “circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose” e l’art. 61-bis “circostanza aggravante del reato transnazionale”, l’art. 240-bis “confisca in casi particolari”. Nell’elenco menzionato interessanti sono le novità introdotte in materia di reati legati alla discriminazione di tipo razziale riconducibili alla sezione I bis – Dei delitti contro l’eguaglianza. In particolare l’art. 604-bis – Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa e l’art. 604-ter – Circostanza aggravante. Dalla formulazione dell’art. 604-bis c.p. si evince che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione
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da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.”. Inoltre, è anche previsto, tramite l’art. 604-ter c.p., circostanza aggravante, un aumento di pena fino alla metà per i reati non puniti con la pena dell’ergastolo, commessi con finalità di discriminazione. Novità dunque, per la Sezione I-bis Dei delitti contro l’eguaglianza, ritagliata all’interno del Capo III Dei delitti contro la libertà individuale del Titolo XII Dei delitti contro la persona del codice penale. Il succitato, art. 604-bis c.p. punisce, dunque, i fatti di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa (reato prima previsto dall’art. 3 legge 654/1975, novellato con la più recente legge 115/2016, articolo che ora viene conseguentemente abrogato). Segue poi la previsione all’art. 604-ter c.p. della circostanza aggravante per i fatti commessi con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Dall’analisi di quanto deducibile dal testo si evince che le nuove norme, in esame, sono dirette a tutelare il rispetto della dignità umana e del principio di uguaglianza etnica, nazionale, razziale e religiosa. Viene punita qualsiasi condotta di propaganda sulla superiorità o sull’odio razziale, nonché l’istigazione e la propaganda di fatti o attività atte a provocare violenza per motivi etnici, razziali o religiosi. Ai commi successivi del 604-bis c.p. vengono inoltre vietate le associazioni istituite a tale scopo, punendo sia i meri partecipanti all’associazione, sia, in maniera più grave, gli organizzatori e promotori. L’ultimo comma, che punisce la propaganda e l’istigazione di pensieri che possano concretamente creare il pericolo che derivi la diffusione di idee atte alla minimizzazione dei fatti storici elencati, rappresenta la più grave ed autonoma figura di reato. Trattasi di reato di pericolo concreto, quindi, in cui il giudice deve valutare il pericolo di diffusione delle idee negazioniste. Procedendo ad un’analisi organica della norma, in esame, si nota che i reati previsti dall’art. 604-bis c.p. sono reati, di tipo comune, che possono essere commessi da chiunque. Otto le fattispecie desumibili dal testo, la prima riferita a chi propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico; la seconda rivolta a chi istighi a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la terza, a chi commetta atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la quarta, a chi istighi a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la quinta, a chi commetta violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la sesta, a chi partecipa ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la settima, a chi presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; l’ottava, a chi promuove o dirige dette organizzazioni, associazioni, movimenti gruppi. La propaganda prevista dalla norma non è riconducibile, in effetti, ad una semplice divulgazione di idee da poter portare a conoscenza di altri, ma consiste in un’azione più specifica il cui risultato è rivolto ad influire sulla psicologia e sull’altrui comportamento e, pertanto, implica che la diffusione sia idonea a raccogliere consensi intorno all’idea espressa come propria e divulgata. Si tratta di un reato di opinione, e come tale da qualificarsi come una fattispecie che incrimini la manifestazione, l’espressione di un certo contenuto.
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L’istigazione, dunque, non si concretizza in un semplice sostegno o in una mera adesione, ma presuppone un’attività diretta a convincere terzi a porre in essere la condotta violenta o discriminatoria. La fattispecie è inoltre riconducibile nel novero dei reati plurioffensivi, in quanto sono almeno due i beni-interesse protetti: l’ordine pubblico, inteso come diritto alla tranquillità sociale e la dignità umana, con una preminenza del secondo; due sono i soggetti passivi, quelli che siano eventualmente singolarmente individuati nel caso concreto e l’intero gruppo etnico, il che importa l’irrilevanza della circostanza che la condotta sia diretta a discriminare non delle persone specificamente individuate, ma, in maniera indifferenziata, tutti gli appartenenti ad una determinata comunità. L’istigazione e la propaganda sono reati di pura condotta o di pericolo astratto, a nulla rilevando che l’azione abbia prodotto degli effetti, cioè che nell’immediatezza del fatto l’incitamento o la propaganda siano o meno stati recepiti. Inoltre, è necessario, perché il reato si perfezioni, che l’espressione discriminatoria sia percepita da un’altra persona, non occorrendo, tuttavia, che il soggetto passivo percepisca l’espressione come un’offesa alla propria dignità. Quanto ai motivi della condotta, la discriminazione deve fondare sulla diversità determinata da pretesa superiorità razziale o da odio etnico e non dall’inclinazione delinquenziale della presunta vittima, che può essere legittimamente discriminata per il suo comportamento. La norma in esame prevede un inasprimento di pena nel caso in cui la propaganda, l’istigazione o l’incitamento si fondano sulla negazione, sulla grave minimizzazione o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, contro l’umanità o di guerra e sempre che le condotte siano poste in essere in modo che ne derivi concreto pericolo di diffusione. Secondo l’opinione dominante in dottrina, si tratta di una circostanza aggravante e non di una fattispecie autonoma (Daniele, De Flammineis, Puglisi, Visone, cit.; contra Scotto Rosato cit.), mentre non vi è contrasto in ordine alla natura di fattispecie di pericolo concreto. I delitti cui può applicarsi l’aggravante in questione non sono tutti quelli contemplati dall’art. 3, l.n. 654/1975, ma solo quelli che si estrinsecano in una forma di manifestazione del pensiero (propaganda, istigazione, incitamento). La circostanza – atta a promuovere l’irrogazione della pena della reclusione da 2 a 6 anni – non è, dunque, applicabile agli atti di discriminazione violenta e non, mentre lo è per le condotte associative dell’art. 3 comma 3. (Visone, cit.). Restano in vigore le pene accessorie per questi delitti (obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività, obbligo di permanenza in casa entro orari determinati, sospensione della patente di guida o del passaporto, divieto di detenzione di armi, divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale) previste dall’art. 1 del d.l. n. 122/1993. Tutte le fattispecie previste dall’articolo in commento sono procedibili d’ufficio e di competenza del Tribunale collegiale. Per alcuni casi, per i più gravi, è possibile disporre intercettazioni ed applicare la custodia in carcere; per la promozione e l’organizzazione delle entità di cui al comma 2 è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380, comma 2, lett. l), c.p.p.); per le fattispecie di cui al comma1 n. 2), al comma 2 in riferimento alla condotta di mera partecipazione e per la propaganda, l’istigazione o l’incitamento di cui al comma 3 è previsto l’arresto facoltativo in flagranza. Le misure diverse dalla custodia in carcere sono applicabili per i reati di cui al comma 1, lett. b) ed al comma 2 in ordine alla condotta di mera partecipazione.
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La proposta di modifica 2018/0170 (COD) relativa alle indagini dell’ufficio europeo per la lotta antifrode Miriam Ferrara L’Ufficio Europeo per la lotta anti-frode (OLAF) è un servizio della Commissione Europea1, istituito con Decisione n.352/1999; attraverso tale atto si è inteso rafforzare la lotta contro la frode, la corruzione e tutte le attività illegali che incidono sugli interessi finanziari dell’Unione Europea2. A livello europeo suddette attività illegali vengono perseguite dall’OLAF in campo amministrativo e dalla Procura Europea (EPPO) a livello penale, proprio perché lesive di interessi primari dell’Unione3. L’OLAF svolge quindi un ruolo fondamentale, distinto e parallelo rispetto a quello della Procura Europea, orientato alla tutela del bilancio europeo (quindi dei soldi dei contribuenti) e, al fine di svolgere tale compito, è dotato di poteri di indagine, disciplinati dal Regolamento (UE, Euratom) n. 883/2013, e di poteri ispettivi, già previsti dal Regolamento (Euratom, CE) n. 2185/19964 .
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Appare opportuno ricordare che, a norma dell’art. 317 TFUE, la Commissione Europea è responsabile dell’esecuzione del bilancio. 2 Definizione di interessi finanziari dell’Unione data dall’art. 2 del Regolamento (UE, Euratom) n. 883/2013: entrate, spese e beni coperti dal bilancio dell’Unione europea, nonché quelli coperti dai bilanci delle istituzioni, degli organi e degli organismi e i bilanci da essi gestiti e controllati. 3 Art. 325 TFUE: 1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. 3. Fatte salve altre disposizioni dei trattati, gli Stati membri coordinano l’azione diretta a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione contro la frode. A tale fine essi organizzano, assieme alla Commissione, una stretta e regolare cooperazione tra le autorità competenti. 4. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, previa consultazione della Corte dei conti, adottano le misure necessarie nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente in tutti gli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. 5. La Commissione, in cooperazione con gli Stati membri, presenta ogni anno al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sulle misure adottate ai fini dell’attuazione del presente articolo. 4 L’art. 2 del Regolamento prevede la possibilità di effettuare controlli e verifiche sul posto durante i quali gli
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Partendo dal dato certo e volendo sintetizzare, di norma la procedura OLAF consta di tre momenti. Una prima fase di inchiesta, dove vengono svolte le indagini in collaborazione con le Autorità nazionali degli Stati Membri, a seguito della quale viene redatta una relazione che può poi eventualmente essere seguita da una raccomandazione non vincolante diretta agli Stati Membri o agli organi europei sull’opportunità di intraprendere azioni disciplinari, amministrative o giudiziarie. Per capire la centralità di tale istituto, basti pensare che tra il 2010 e il 2017 l’OLAF ha condotto più di 1800 indagini5 riguardanti il recupero di circa 6,6 miliardi di euro6. Pur prevedendo espressamente i poteri sopra citati, le norme europee non disciplinano tutto, ma anzi rinviano spesso alle normative nazionali, creando una molteplicità di dubbi sia in ordine ai tempi e alle modalità di collaborazione tra OLAF e Autorità competenti, sia riguardo la portata applicativa del diritto nazionale. Le insidie principali riguardano soprattutto le indagini esterne, o ispezioni in loco, disciplinate dall’art. 3 del Regolamento n.883/2013. In virtù di tale disposizione “l’Ufficio può procedere, conformemente alle disposizioni e alle procedure previste dal regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96, a controlli e verifiche sul posto presso gli operatori economici. 3. Nel corso dei controlli e delle verifiche sul posto, il personale dell’Ufficio agisce, su riserva del diritto dell’Unione applicabile, in osservanza delle norme e delle prassi dello Stato membro interessato, nonché delle garanzie procedurali previste dal presente regolamento. Su richiesta dell’Ufficio, l’autorità competente dello Stato membro interessato fornisce al personale dell’Ufficio l’assistenza necessaria ad eseguire efficacemente le sue mansioni, quali specificate nell’autorizzazione scritta di cui all’articolo 7, paragrafo 2. Se per tale assistenza è necessaria l’autorizzazione di un’autorità giudiziaria conformemente alle norme nazionali, è richiesta tale autorizzazione. Lo Stato membro interessato assicura, conformemente al regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96, che il personale dell’Ufficio possa avere accesso, alle stesse condizioni delle proprie autorità competenti e nel rispetto del diritto nazionale, a tutte le informazioni e alla documentazione relative alla questione oggetto dell’inda-
operatori sono tenuti a permettere l’accesso ai locali, terreni, mezzi di trasporto e altri luoghi adibiti ad uso professionale. L’art. 7 invece prevede invece che I controlli della Commissione hanno accesso, alle medesime condizioni dei controllori amministrativi nazionali e nel rispetto delle legislazioni nazionali, a tutte le informazioni e alla documentazione relative alle operazioni di cui trattasi necessarie ai fini del buon svolgimento dei controlli e delle verifiche sul posto. Essi possono utilizzare gli stessi mezzi materiali di controllo di cui si avvalgono i controllori amministrativi nazionali e in particolare possono prendere copia dei documenti pertinenti. I controlli e le verifiche sul posto possono riguardare in particolare: – i libri e i documenti professionali, come fatture, capitolati d’appalto, ruolini paga, distinte dei lavori, estratti di conti bancari detenuti dagli operatori economici; – i dati informatici; – i sistemi e i metodi di produzione, di imballaggio e di spedizione; – il controllo fisico della natura e del volume delle merci o delle azioni svolte; – il prelievo e la verifica dei campioni; – lo stato di avanzamento dei lavori o degli investimenti finanziati, l’utilizzazione e la destinazione degli investimenti portati a termine; – i documenti contabili e di bilancio; – l’esecuzione finanziaria e tecnica dei progetti sovvenzionati. 5 Solo nel 2017 sono state concluse 197 indagini che hanno portato all’emanazione di 309 raccomandazioni non vincolanti. 6 Dati ufficiali del sito istituzionale: https://ec.europa.eu/anti-fraud/investigations/fraud-figures_it
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gine che si dimostrino necessarie per uno svolgimento efficace ed efficiente dei controlli e delle verifiche sul posto”7. Come è possibile notare, la norma, obbligando ad una stretta collaborazione tra OLAF e Stati Membri (che chiaramente operano sulla base del diritto nazionale), non chiarisce quale sia in concreto l’Autorità nazionale competente, e quali siano i limiti e poteri di quest’ultima durante le ispezioni in loco. Ciò crea il problema definito “geometrie variabili”8, ovvero il fenomeno per il quale i Paesi europei designano autorità competenti diverse9, alcune delle quali agiscono in regime di diritto penale altre di diritto amministrativo, secondo normative differenti che a volte non assicurano lo stesso livello di garanzie durante le ispezioni. Così facendo, l’efficacia delle indagini dell’OLAF varia a seconda del luogo nel quale è stabilito l’operatore economico controllato. A titolo di esempio, è sufficiente sottolineare che in alcuni Stati l’autorizzazione di cui al paragrafo 3 è sempre considerata necessaria prima di procedere all’ispezione e, inoltre, gli operatori interessati hanno diritto di essere informati del proprio diritto a resistere all’ispezione, cosa che non avviene in altri Paesi. Infine, la relazione di indagine presentata dall’Ufficio può avere un diverso valore probatorio nei vari Stati. In aggiunta a ciò, la normativa europea non chiarisce quando e come è necessario applicare il diritto nazionale in luogo di quello europeo e, conseguentemente, quando far valere le guarentigie previste a livello sovranazionale piuttosto che quelle dei singoli Stati Membri. Tali problematiche sono emerse nel caso Sigma Orionis v. Commissione (T-48/16)10. In tale occasione il Tribunale Generale, respingendo il ricorso, ha avuto l’occasione di chiarire alcuni punti oscuri della normativa, poi ripresi nella proposta di modifica 2018/0170 (COD). Pertanto, il grande merito della sentenza è quello di chiarire la primazia del diritto europeo rispetto alle normative nazionali. Il Tribunale ha quindi dichiarato che l’OLAF agisce primariamente secondo quanto stabilito dal Regolamento e, solo nel caso in cui si renda necessaria l’assistenza delle Autorità Nazionali, queste, congiuntamente all’Ufficio, eseguono l’ispezione in loco nel rispetto della legislazione nazionale, che comprende anche le garanzie da essa previste. Nel caso in cui l’OLAF riesca ad agire autonomamente, quindi in assenza di resistenza da parte dell’operatore, si applica esclusivamente il diritto europeo, per il quale non è sempre necessaria la preventiva autorizzazione e non vi è alcun diritto ad essere informati prima dell’ispezione. Tali conclusioni sono state pedissequamente riprese dalla proposta della Commissione qui esaminata, che però persegue anche ulteriori finalità.
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Paragrafi 2 e 3 dell’art. 3 del Regolamento (UE, Euratom) n.883/2013. K.H.P. Bovend’Eerdt, The Applicable law in OLAF’s on-the-spot inspections, in European Law Blog, 28.06.2018, europeanlawblog.eu/2018/06/28/the-applicable-law-in-olafs-on-the-spot-inspections/). 9 A titolo di esempio, in Italia il servizio di coordinamento antifrode è svolto dalla Guardia di Finanza, in Germania, Francia, Estonia, Danimarca e Finlandia da divisioni specializzate dei Ministeri delle Finanze, in Ungheria dall’Amministrazione centrale tributaria e doganale nazionale che fa capo al Ministero dell’Economia, nel Regno Unito dalla National Police Coordinators Office for Economic Crime (Economic Crime Directorate) che fa capo alla Polizia della Città di Londra. 10 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:62016TN0048&from=EN. 8
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Tale atto ha in primo luogo l’obiettivo di accrescere l’efficacia delle indagini OLAF, eliminando le ambiguità e chiarendo il rapporto tra normativa europea e leggi nazionali. Pur non toccando le disposizioni del Regolamento 883/2013 da un punto di vista sostanziale, la Commissione compie un’opera chiarificatrice, specificando il significato delle norme, in modo da rendere le stesse trasparenti ed uniformi. Per tale motivo, sulla scia della sentenza Sigma-Orionis, la proposta chiarisce una volta per tutte che l’OLAF, durante lo svolgimento delle ispezioni in loco, è soggetta esclusivamente al diritto europeo e, pertanto, si applicano solo le garanzie dallo stesso previste (diritto a non auto-incriminarsi e diritto ad essere assistiti da una persona di fiducia). Tale soluzione risulta essere perfettamente in linea con il modello normativo già adottato per le indagini di altri organismi europei, quali ad esempio la Banca Centrale Europea11 e la Commissione europea12. Si aggiungono inoltre ulteriori poteri all’Ufficio anti-frode. In particolare, vengono attribuiti maggiori strumenti per i controlli in materia di IVA e avrà accesso anche alle informazioni bancarie dell’operatore. Il primo profilo viene garantito creando una maggiore cooperazione con Eurofisc, istituita dal regolamento n. 904/2010, mentre, per quanto attiene le informazioni bancarie, la proposta suggerisce di modificare l’art. 7 par. 3 del Regolamento al fine di ottimizzare lo scambio informativo. Gli Stati dovrebbero quindi trasmettere all’OLAF tutte le informazioni riguardanti il conto bancario del soggetto, incluse le informazioni sui titolari contenute nei registri nazionali centrali. Infine, qualora le indagini lo necessitino, dovrebbero essere forniti anche tutti i dati relativi alle transazioni finanziarie. In secondo luogo si migliorano i meccanismi di cooperazione tra l’ufficio europeo antifrode e la Procura Europea, disegnando così un sistema di competenze parallele ma non sovrapponibili13, finalizzate comunque ad un obiettivo comune, ovvero la tutela degli interessi finanziari dell’Unione. La sinergia così creata tra i due organismi si appoggia quindi su una chiara e precisa distinzione di competenze. In particolare, le indagini dell’OLAF possono avere ad oggetto le irregolarità non fraudolente, i reati di frode e corruzione nei Paesi che non partecipano all’EPPO e, al contrario, per le irregolarità fraudolente rilevate dall’Ufficio antifrode e perpetrate negli Stati Membri che prendono parte alla Procura Europea, l’OLAF collabora e fornisce supporto a quest’ultima. Infine, la proposta di modifica 2018/0170 (COD) chiarisce definitivamente la valenza probatoria della relazione OLAF di cui all’art. 11 par. 2 del Regolamento 883/13. In tal senso, le relazioni così elaborate dall’Ufficio antifrode dovrebbero costituire prove ammissibili nei procedimenti giudiziari di natura non penale e nei procedimenti amministrativi.
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Regolamento (UE) n.1024/2013. Regolamento (CE) n.1/2003. C.d. principio di “non-duplication of investigation”.
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Ergastolo ostativo: limiti e contraddizioni dell’attuale normativa tra ordinamento nazionale e comunitario Marilisa De Nigris È incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo prima che abbiano scontato 26 anni di detenzione. Questo è quanto deducibile, in sintesi, dalla decisione della Corte Costituzionale espressa con sentenza dell’11 luglio 2018, n. 149. Dalla lettura della pronuncia, infatti, si evince che la Corte sottolinea, in particolare, come siano incompatibili con il vigente assetto costituzionale norme “che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari per particolari categorie di condannati (…) in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati”. Nella sentenza viene evidenziato come le conclusioni da essa raggiunte siano coerenti con gli insegnamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui gli Stati hanno l’obbligo “di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena”. Affrontando in maniera organica il tema trattato dalla Corte Costituzionale recentemente, va anzitutto sottolineato come nel nostro ordinamento si prevede che, dopo avere scontato 10 anni di carcere, l’ergastolano, qualora mostri una dinamica partecipazione ad un programma rieducativo, può beneficiare dei primi permessi premio e può essere autorizzato dal giudice ad uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario per svolgere l’attività lavorativa all’esterno delle mura penitenziarie. In questo contesto va ricordato che l’articolo 17 del Codice penale, rubricato Pene principali, essenzialmente stabilisce che per i delitti la pena applicabile è l’ergastolo. Una pena detentiva di tipo perpetuo, così come deducibile anche dall’articolo 22 c.p., rubricato “Ergastolo”, ove il legislatore, riconosce al detenuto la possibilità di svolgere lavoro all’aperto. L’ordinamento italiano prevede essenzialmente due tipologie di ergastolo: ordinario e ostativo; il primo si concretizza, tra l’altro, nel riconoscere al condannato opportunità e benefici, quali permessi premio, semilibertà ovvero liberazione condizionale; per il secondo, invece, come dice la parola stessa, non viene concessa la possibilità di alcun beneficio. L’ergastolo ostativo, elemento molto dibattuto sia in ambito nazionale, sia in ambito comunitario, ha sollevato non pochi problemi. In relazione ad un ambito prettamente costituzionale è da sottolineare che la costituzionalità dello stesso entra in “conflitto” con l’articolo 27 della Carta Costituzionale ove si legge che “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tali problemi sono stati superati dalla Consulta che, con consolidato orientamento (cfr. sentenza del 1974 numero 264), ha stabilito che la pena non possiede più il carattere della
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perpetuità. Pertanto, effettuando una riflessione su tale assunto, non si comprende bene se l’ergastolo ostativo, quantomeno in via puramente teorica, debba avere o meno un carattere permanente, dando vita ad un ragionamento puramente basato sul calcolo detentivo per cui il reo non ritenuto pericoloso, che abbia espiato almeno 10 anni di pena, può usufruire, come detto, dei permessi premio, nonché dopo 20 anni di espiazione può ottenere la semilibertà (salvo ovviamente che non si tratti di ergastolo ostativo). Una volta ottenuta la libertà condizionale, quindi dopo 26 anni, non cumulando quindi la decurtazione dei 45 giorni a semestre, il reo è in libertà vigilata per i successivi 5 anni, se non commette reati, pertanto dopo circa 31 anni di reclusione la pena è considerata estinta e l’ergastolano è cittadino libero. Diverso è invece quanto previsto per i condannati all’ergastolo ostativo. Quanto ai detenuti condannati a scontare il c.d. ergastolo ostativo, infatti, l’interrogativo da porsi è se anche essi abbiano diritto di godere dei benefici e delle misure alternative alla detenzione. Tale tema, nel marzo 2018, è stato oggetto di una proposta di legge firmata dal membro della Commissione antimafia, Enza Bruno Bossio, che in poco più di dieci giorni ha ricevuto l’adesione di un discreto numero di parlamentari. A carattere strettamente normativo è da ricordare, in relazione a tale tema, che l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto all’inizio degli anni Novanta dopo le stragi di mafia, stabilisce che i condannati per alcuni reati gravi definiti “ostativi” non possano accedere alle misure di rieducazione e reinserimento nella società in caso di mancata collaborazione con la giustizia, «divieto che, nel caso dei condannati all’ergastolo, si traduce in una sorta di “pena di morte occulta”». La proposta di legge prevedeva di modificare l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario allargando i benefici anche in caso di mancata collaborazione purché fossero ravvisabili i requisiti per accedere ai benefici e si fosse in presenza di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, oltre che l’assenza della pericolosità sociale. A fine 2014 i condannati all’ergastolo in Italia erano circa 1.584, di cui 86 stranieri, molti dei quali reclusi da oltre 26 anni, altri da più di 30. Tra di loro, i cosiddetti “ostativi”, molti dei quali coinvolti in reati legati all’associazione mafiosa, sono circa un migliaio. Sempre in relazione a tale argomento è da ricordare che «secondo l’ordinamento penitenziario se l’ergastolano ostativo non collabora non avrà più accesso ai permessi premio, né tantomeno alla detenzione domiciliare, all’affidamento in prova o alla libertà condizionale di cui godono invece gli altri ergastolani dopo 26 anni di reclusione». Se si è condannati per un reato grave che “osta” all’accesso di alcuni benefici, si potrà accedere ai benefici, ai percorsi di rieducazione e alle misure alternative al carcere solo se si collabora in maniera concreta. L’ergastolo ostativo è incostituzionale in quanto genera un trattamento equivalente, secondo molti, alla tortura. Tortura somministrata lentamente, ora dopo ora, determinando un trattamento contrario al senso di umanità. Inoltre, tale forma di detenzione non riconosce e non garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2, Cost.). Diritti dell’uomo, e non del cittadino, poiché la natura di questi diritti va oltre la dimensione politica della cittadinanza. I diritti inviolabili sono garantiti anche dai trattati europei e quindi non solo nella propria nazione di nascita. Ancora non è prevista la concessione, in nessun caso, dei benefici carcerari, riservandosi di concedere questi ultimi solo ai condannati che collaborano con la giustizia. Tale collaborazione si traduce in un comportamento produttivo di vantaggi, altrimenti non conseguibili, e soprattutto si traduce in un baratto tra la propria libertà e quella altrui.
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Ergastolo ostativo: limiti e contraddizioni dell’attuale normativa tra ordinamento nazionale e comunitario
In relazione a quanto detto è possibile asserire che tale forma detentiva non risponde al bisogno di giustizia, ma a quello di vendetta. In un Paese civile ed avanzato la sicurezza individuale è tutelata da una giustizia equa, invece, una giustizia vendicativa e non rieducativa non riduce la criminalità, anzi è un pessimo insegnamento per i cittadini. L’ergastolo, secondo alcuni, è una pena non molto diversa dalla pena capitale perché di fatto toglie, oltre alla libertà di agire anche la libertà di pensare e di progettare. La questione in esame è stata nel corso del tempo più volte al centro del dibattito anche in ambito europeo visti anche i diversi modi di intendere le finalità connesse alla funzione della pena desumibili nei diversi ordinamenti degli Stati aderenti alla Comunità. Così la Corte europea dei diritti dell’uomo (“C.E.D.U.”) quanto all’ ergastolo ha sviluppato una giurisprudenza volta a verificare se tale tipo di pena possa essere compatibile o meno con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Negli ultimi anni molteplici sono stati i “casi” aventi ad oggetto tale normativa affrontati dalla CEDU, due dei quali direttamente riconducibili all’Italia. Il primo è il caso Garagin c. Italia, riguardante l’ergastolo “ordinario”, mentre il secondo, ben più interessante, è il caso Viola c. Italia che riguarda l’ergastolo “ostativo” previsto dall’articolo 4bis della legge n. 354 del 1975. In questo contesto a livello Comunitario fondamentale è il ruolo del C.P.T. ossia il meccanismo di controllo previsto dalla Convenzione per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (anche nota come “la Convenzione per la prevenzione della tortura”) sottoscritta dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, concepito nella convinzione che la protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani o degradanti delle persone private di libertà possa essere rafforzata attraverso un sistema non giudiziario di natura preventiva. Riguardo all’Italia, il C.P.T. ha esaminato con attenzione il regime del c.d. carcere “duro” stabilito dall’articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975 (si vedano le osservazioni e le raccomandazioni contenute nei rapporti del 2004, 2008, 2012 e 2016), istituto previsto dal legislatore italiano che impedisce l’accesso ai benefici penitenziari alle persone condannate per reati di particolare gravità in un modo del tutto simile a quello previsto dall’ergastolo “ostativo”, ma non si è mai pronunciata né ha valutato tale regime. In effetti, l’ergastolo senza alcuna possibilità di riesame e di rilascio com’è l’ergastolo “ostativo”, può costituire una forma di maltrattamento e una violazione dell’articolo 3 della Convenzione e, a maggior ragione, può ben essere contraria alla Convenzione per la prevenzione della tortura che ha lo scopo di prevenire ogni forma di maltrattamento, dando indicazioni di buona prassi agli Stati aderenti e quindi costituendo un logico antecedente e uno strumento volto ad evitare ogni violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
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Osservatorio
normativo
Legittima difesa: evoluzione del diritto di difendersi e nuove forme di attuazione Marilisa De Nigris Il diritto di difendersi, universalmente riconosciuto fin dalle origini dell’Uomo, affonda le sue radici nell’istinto di conservazione e di autotutela delle persone. Già in epoca Romana vigeva l’assunto in forza del quale “vim vi repellere lice”, fermo restante che anche in tale contesto storico la difesa doveva concretizzarsi, nel caso di specie, in una forza uguale e contraria al fine di non sfociare in una mera vendetta, anticipando così il concetto di proporzionalità, altro presupposto che risiedeva nell’attualità del pericolo. Tale concezione della legittima difesa approdò, quasi immutata, nel codice Zanardelli del 1889, che prescriveva l’equivalenza fra i mezzi adoperati: ad esempio, ad un’aggressione a mani nude era consentito rispondere a mani nude. Nello specifico l’istituto della legittima difesa era visto, come desumibile dall’articolo 49 del Codice Penale Zanerdelli, quale scriminante che ben esemplifica uno dei principi fondamentali di autoconservazione dell’individuo, ossia come difesa di se stessi e di altri, strumento di garanzia per l’ordine sociale e legale. L’istituto in esame è stato, nel corso del tempo, recepito anche dal codice penale attualmente in vigore in Italia dal 1930 meglio noto come “Codice Rocco”. Più specificamente il vigente art. 52 del c.p. ha conservato il requisito dell’attualità, modificando invece quello della proporzionalità, ora sganciato dal diretto riferimento agli strumenti adoperati, elemento invece presente in precedenza. Dar vita alla propria difesa significa in concreto essere costretti a commettere un reato al fine di tutelare “un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Essenzialmente ci si trova nella necessità di salvaguardare il diritto violato, respingendo la violenza, senza arrecare al suo autore un danno più grave di quello indispensabile. La proporzionalità fra azione e reazione diviene elemento indispensabile facendo sì che chi viene colpito nel patrimonio può reagire mettendo in fuga il ladro, minacciandolo, anche con le armi, perfino arrestandolo (l’art. 383 c.p.p. prevede la facoltà di arresto da parte dei privati), ma non certamente accoltellandolo o sparandogli, ledendo così un bene, quale l’incolumità fisica, la vita, socialmente superiore rispetto al bene aggredito, portafogli, borsa, auto ecc. In sintesi, la legge consente di difendersi, a condizione che: 1. la difesa sia necessaria; 2. il pericolo sia attuale; 3. l’offesa sia ingiusta, cioè arrecata in violazione di norme giuridiche; 4. la difesa sia proporzionata all’offesa. Qualora ricorrano, cumulativamente, le menzionate circostanze, chi agirà per difendersi sarà assolto per aver agito in presenza di una causa di giustificazione, con la formula processuale perché il fatto non costituisce reato. A fronte di quanto detto dobbiamo, comunque, non sottostimare il fatto che l’esito del processo non è per nulla scontato: il giudice, infatti, esaminerà i vari elementi acquisiti in quanto
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la norma conferisce allo stesso il più ampio margine di discrezionalità, dovendo egli attribuire o meno alla reazione difensiva il carattere di “proporzionalità” rispetto all’offesa, secondo le risultanze oggettive, vagliate dal suo prudente apprezzamento. Perché sia esclusa la punibilità del soggetto agente è pertanto necessario che l’aggressione abbia per oggetto un diritto o interesse giuridico, personale o patrimoniale, proprio o altrui; che l’aggressione determini un pericolo immediato, non futuro, per tale diritto o interesse; che la reazione difensiva dell’aggredito costituisca l’unica possibilità di tutela del bene minacciato, ovvero sia insostituibile con altra meno dannosa; che l’aggressione non trovi alcuna giustificazione nell’ordinamento giuridico; che vi sia proporzione tra il bene giuridico minacciato ed il bene giuridico dell’aggressore leso dall’azione difensiva. L’evoluzione sociale e le condizioni attuali hanno fatto sì che negli ultimi anni la recrudescenza dei delitti contro la persona ha determinato un consistente incremento del ricorso alla difesa privata e, negli inevitabili processi, gli aggrediti sono stati spesso condannati per carenza del requisito della proporzionalità con la formula dell’eccesso colposo, secondo quanto disposto dall’art. 55 c.p.). Si è pertanto avvertita in ambito sociale, con sempre maggior vigore, la sopravvenuta inadeguatezza della norma che, in buona sostanza, pone sullo stesso piano aggressore ed aggredito, omettendo di considerare che quest’ultimo è stato costretto, suo malgrado, ad esporsi al duplice rischio di veder lesa la propria incolumità e di dover ledere quella di chi, per propria esclusiva volontà, ha illegalmente creato quella situazione. Appare evidente, infatti, che soprattutto negli episodi posti in essere dalla criminalità abituale e professionale, l’aggressore versa in una condizione più favorevole rispetto alla vittima; l’aggressore ha ideato e pianificato il colpo, si è adeguatamente attrezzato, ha una certa abitualità nel commettere tali atti, confida nell’effetto sorpresa e nella soggezione psicologica dell’aggredito, conosce benissimo, ed ha preventivamente accettato, il rischio di essere arrestato e sa che l’imprevedibile reazione della vittima può minacciare la sua incolumità, se non addirittura la sua vita. Per contro, la vittima non è preparata a far fronte ad un’azione violenta, tra l’altro come spesso accade proprio nel luogo che reputa più sicuro; da non sottovalutare poi anche l’impatto psicologico, il trauma, che l’aggredito subisce. A tal proposito in Parlamento l’argomento è al centro del dibattito politico e vari sono i tentativi di riformare tale istituto. Il testo di legge n. 3785 recante “Modifiche agli articoli 52 e 59 del codice penale in materia di legittima difesa” in sintesi prevede: - la modifica del secondo comma dell’art. 52 c.p., nel senso di ritenere coperta dalla scriminante della legittima difesa “la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o sulle cose ovvero con minaccia o con inganno”; - l’aggiunta di un secondo comma all’art. 59 c.p. che, nei casi di legittima difesa, esclude la colpa dell’agente “quando l’errore è conseguenza del grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione posta in essere in situazioni comportanti un pericolo attuale per la vita, per l’integrità fisica o per la libertà personale o sessuale”; - l’attribuzione a carico dello Stato delle spese processuali e dei compensi degli avvocati in tutti quei casi in cui sia dichiarata la non punibilità per legittima difesa dell’aggredito. La proposta di legge sopra enunciata è da intendersi quale parte di un’azione politicolegislativa molto più ampia che ha trovato altri margini di sviluppo, sempre all’interno del Parlamento, con le ipotesi e le rielaborazioni proposte da diversi esponenti politici. Basti pensare a quanto deducibile da ciò che viene proposto da alcuni deputati secondo i quali l’articolo 52 del codice penale, ribaltando la logica dell’attuale scriminante, verrebbe reinterpretato nella misura in cui: “colui che commette il fatto per difendere un diritto proprio o altrui, contro un
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pericolo attuale esercita un diritto, il proprio diritto di difesa”. Si riconosce sempre, “il diritto di difesa a chi reagisce ad una violazione di domicilio o al tentativo di violazione di domicilio realizzati con violenze alle persone o sulle cose, con minaccia o con inganno. Il concetto di domicilio si estende anche all’ufficio, al negozio e all’impresa”. L’articolo prevede che tutte le spese relative alla giustizia per colui che ha esercitato il diritto di difesa debbano essere a carico dello Stato. Altri esponenti politici, operanti in sede parlamentare, propongono invece la modifica dell’articolo 52 del codice penale “con l’intento di rafforzare le tutele per colui che reagisce a una violazione del domicilio”. Una proposta che si sostanzia in due punti, l’uno consistente nel modificare l’articolo 52 del codice penale intervenendo sul principio di proporzionalità tra difesa ed offesa, l’altro volto ad inasprire le pene per chi commette furti in abitazione. Secondo la proposta, la legittima difesa può dirsi tale quando si respinge l’ingresso o l’intrusione in un immobile mediante violenza o minaccia, quando l’ingresso è avvenuto mediante effrazione o contro la volontà del proprietario o di chi vive nella sua abitazione. Nella proposta non vi è richiamo alla proporzione tra difesa ed offesa e con l’articolo 2 si tende ad aumentare le pene per il delitto di furto in abitazione. “La pena della reclusione – attualmente stabilita in 3 anni nel minimo e 6 anni nel massimo – viene portata a 5 anni nel minimo e 8 anni nel massimo; la congiunta pena pecuniaria viene portata a 10mila euro minimo e 20mila euro massimo”. Inoltre, la proposta di legge consente di ritenere come prevalente alle aggravanti solamente l’attenuante della minore età. La proposta istituisce, “sulla falsariga di un’analoga previsione del codice penale francese”, una presunzione di legittima difesa per gli atti diretti a respingere l’ingresso, mediante effrazione, di sconosciuti in un’abitazione privata o presso un’attività commerciale. L’articolo 1 della proposta prevede un’aggiunta all’articolo 52 del codice penale: “Si considera che abbia agito per legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario o di chi ha la legittima disponibilità dell’immobile, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di una o più persone, con violazione del domicilio di cui all’articolo 614, primo e secondo comma, ovvero in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Tali modifiche hanno destato sin da subito numerose perplessità in chi ha ravvisato elementi di criticità nella rielaborazione della normativa attualmente in vigore, ma soprattutto nella concretizzazione di quanto proposto, concetto di difficile determinazione ed accertamento nel caso concreto che necessita di una accurata valutazione.
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Il Ministerio Publico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires di Horacio Corti* a cura di Augusto Chiaia**
Sommario: 0. Presentazione. – 1. Il potere giudiziario della città autonoma di Buenos Aires. – 2. Il Ministero Pubblico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires. Funzioni, integrazione e suo modello di difesa pubblica. – 3. Le aree del Ministero Pubblico della Difesa dedicate al sostegno della difesa pubblica ed al lavoro con la comunità. – 4. L’importanza del Diritto alla Città .– 5. Difesa pubblica e restrizioni finanziarie. – 6. Interventi eccezionali del Ministero Pubblico della Difesa davanti al Tribunale Superiore di Giustizia ed alla Corte Suprema di Giustizia della Nazione in materia di contenzioso amministrativo e fiscale. – 7. Cause giudiziarie emblematiche in cui il Ministero Pubblico della Difesa ha avuto un ruolo rilevante. – 7.1. “Rodrigo Bueno”. – 7.2. “Mendoza”. – 7.3. “Elefante bianco”. – 7.4. “Vera”. – 7.5. “Ramòn Carrillo”.
0. Presentazione a cura di Augusto Chaia In un percorso di Diplomazia Giuridica, che è stato attivato con le esperienze realizzate dal MAECI in Centro America, in particolare nella lotta al crimine organizzato attraverso le procedure di confisca dei beni delle organizzazioni mafiose, questa volta ci occupiamo del diritto alla difesa delle persone che è particolarmente sentito in America Latina e che viene esercitato con modalità per noi innovative. Nel diritto comparato ci sono due modelli per garantire il diritto alla difesa delle persone che non hanno risorse economiche. Quello più diffuso consiste nella assunzione dei costi, da parte dello Stato, delle parcelle di avvocati privati affinché assumano la difesa in casi particolari. Il modello alternativo consiste nell’organizzare un’istituzione pubblica specificamente dedicata alla fornitura del servizio di difesa dei diritti delle persone. Questo secondo modello è quello al quale si fa riferimento in generale in America Latina ed in particolare nella città di Buenos Aires. Il Difensore Generale della Città Autonoma di Buenos Aires, il dr. Horacio Corti, ha realizzato a maggio 2017 alcuni incontri in Italia su questo specifico tema, culminati con la presen-
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Laureato in giurisprudenza nella Facoltà di giurisprudenza e scienze sociali (Università di Buenos Aires). Difensore Generale della Città Autonoma di Buenos Aires (Argentina). È autore dei paragrafi da 1 a 7. ** Laureato nella Facoltà di Architettura (Università di Roma “Sapienza”). Urbanista. È autore della Presentazione del Focus.
Focus
tazione del modello argentino nel seminario sull’”Integrazione in Europa ed America Latina: uno sguardo sui diritti economici, sociali e culturali” nell’ambito delle attività della Cattedra “Protezione Internazionale dei diritti umani” dell’Università di Roma Tre. La tematica è di crescente attualità, non solo per la crescita della povertà che continua ad ampliare il bacino di reclutamento da parte della criminalità, ma anche per quella crescita di inurbamento incontrollato ed ingestibile che i fenomeni di migrazioni generano sia in Europa che in America Latina. In tutta l’America Latina, e non solo in Argentina, il problema degli insediamenti urbani è cresciuto fortemente. La città attrae la gente in cerca di opportunità, ma molte città non sono preparate e questa crescita accelerata comporta la formazione di insediamenti informali con accesso limitato ai servizi pubblici e diritti di proprietà di accesso precario e che portano alla urbanizzazione non pianificata. In relazione a questo fenomeno secolare, questo tipo di urbanizzazione è cresciuta fortemente a partire dalla seconda metà del 20° secolo, ma con forme molto precarie e con un’assoluta mancanza di infrastrutture primarie. Si chiamano “favelas” in Brasile, “cantegriles” in Uruguay e “villas” in Argentina. Al fenomeno, fondamentalmente legato alla povertà delle classi rurali nazionali, dall’inizio del XXI secolo si aggiunge oggi anche un grande cambiamento dovuto ai flussi migratori tra nazioni confinanti e non solo. In questi contesti, nella città di Buenos Aires (CABA), il Ministero Pubblico della Difesa non si limita a fornire solo assistenza legale agli imputati in procedimenti penali senza mezzi economici, ma garantisce anche ai settori più esclusi della popolazione la difesa integrale dei loro diritti umani. Mette cioè a disposizione della popolazione più indigente un difensore pubblico che li salvaguardi anche nei riguardi dello Stato stesso, ed in molte e diverse situazioni amministrative e nei procedimenti giudiziari. Infatti, la riforma costituzionale del 1994 ha operato un importante decentramento delle funzioni e dei poteri della sfera “Nazionale” a quella “ Provinciale “, generando una nuova organizzazione della magistratura, e quindi la Città Autonoma di Buenos Aires (CABA), (che dalla riforma costituzionale del 1994 è stata posta allo stesso livello di una Provincia), sta realizzando la sua completa autonomia , in termini di sicurezza pubblica e di amministrazione della giustizia a Buenos Aires. Pertanto oggi, il “Potere Giudiziario” della CABA è composto dalle seguenti istituzioni: - Ministero pubblico, che comprende il Ministero della Difesa; - Tribunale Superiore di Giustizia; - Consiglio della Magistratura; - Tribunali di primo e secondo grado. Nelle “Villas” dove è stato adesso iniziato il processo di recupero urbano, i primi ad essersi insediati sono stati i magistrati e gli operatori del Ministero Pubblico della Difesa, che hanno subito avviato processi di assistenza per i cittadini coinvolti in programmi di ristrutturazione urbana, tra cui il trasferimento di famiglie coinvolte nella demolizione di edifici fatiscenti e nella creazione di spazi adeguati per l’urbanizzazione. Su questi temi drammatici delle periferie urbane si sta attivando da parte dell’IILA un dialogo con il Ministero Pubblico di Difesa de la CABA considerando che le esperienze italiane nella loro storia hanno sempre dato priorità ai diritti umani in tutte le procedure di recupero urbano. Oggi la riurbanizzazione in Italia è incentrata soprattutto sui processi di integrazione e di riqualificazione urbana e punta sulla ricerca di identità dei quartieri periferici e dei nuclei urbani sviluppati intorno alle Città consolidate.
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Ma queste esperienze, certamente diverse in contesti non comparabili, possono attivare uno scambio ed un trasferimento di modi di operare come in questo caso a partire da una più approfondita conoscenza degli approcci giuridici innovativi che conduce la Città Autonoma di Buenos Aires .
1. Il potere giudiziario della città autonoma di Buenos Aires La città di Buenos Aires ha un regime giuridico speciale e unico nella Repubblica Argentina, che è stato stabilito dalla Costituzione Nazionale a partire dall’ultima riforma del 1994. L’art. 129 della Costituzione Nazionale stabilisce infatti che la Città di Buenos Aires “abbia un governo autonomo, con propri poteri di legislazione e giurisdizione, ed il suo capo di governo sia eletto direttamente dalla popolazione della città”. Di conseguenza, a partire dal 1996, la Città Autonoma di Buenos Aires (CABA) è dotata di una propria costituzione, che prevede, in conformità con la Costituzione Nazionale, l’esistenza di una vera e propria magistratura, composta dal Ministero Pubblico, dai Tribunali di primo e secondo grado, dal Tribunale Superiore di Giustizia e dal Consiglio della Magistratura (vedi articolo 107, Costituzione della Città Autonoma di Buenos Aires). All’interno del Potere Giudiziario della Città Autonoma di Buenos Aires, il Ministero Pubblico ha autonomia funzionale ed autarchia, ed è diretto da un Procuratore Generale, un Difensore civico Generale e da un Assistente Generale per gli Incapaci, che svolgono le loro funzioni dinanzi al Tribunale Superiore di Giustizia (Vedi articolo 124, Costituzione della Città Autonoma di Buenos Aires). Le funzioni più in generale del Ministero Pubblico sono quelle di promuovere le attività di giustizia in difesa della legalità e degli interessi generali della società, controllare che vengano effettuate le normali prestazioni dei servizi di giustizia ed ottenere nei tribunali la soddisfazione dell’interesse sociale. Il Ministero Pubblico esercita anche la direzione della polizia giudiziaria (vedi articolo 125, Costituzione della città autonoma di Buenos Aires). Attualmente, il Potere Giudiziario della Città Autonoma di Buenos Aires è circoscritto a due ambiti, (I) il contenzioso Amministrativo e Tributario e (II) il contenzioso Penale per le Infrazioni e per le Omissioni, in modo che solo in questi campi interviene la difesa pubblica locale.
2. Il Ministero Pubblico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires. Funzioni, integrazione e suo modello di difesa pubblica. Il Ministero Pubblico della Difesa assegna i difensori pubblici, vale a dire attribuisce l’assistenza legale ed il patrocinio giuridico gratuito alle persone accusate di infrazioni, omissioni o reati penali, ma anche a quanti hanno bisogno di promuovere azioni legali contro il Governo di Buenos Aires per difendere i propri diritti. In base alla Legge Organica del Ministero Pubblico della Città Autonoma di Buenos Aires (Legge n° 1903), il Ministero Pubblico della Difesa mette a disposizione difensori ufficiali per le persone in condizioni di povertà e per quelle assenti che necessitino di difendere i loro diritti nei casi di contenzioso amministrativo, e per tutti coloro che ne hanno bisogno, in caso di infrazioni e procedimenti penali (cfr. Articolo 45).
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Prima di continuare con la descrizione, è necessario fare una distinzione concettuale. Nel diritto comparato ci sono due modelli per garantire il diritto alla difesa delle persone che non hanno risorse economiche. Uno di questi consiste nella sovvenzione, da parte dello Stato, di avvocati privati affinché realizzino la difesa in casi particolari. Il modello alternativo consiste nell’organizzare un’istituzione pubblica specificamente dedicata alla fornitura del servizio di difesa. Questo è il modello seguito in generale in America Latina e in particolare nella città di Buenos Aires e penso che abbia enormi vantaggi. In primo luogo, consente lo sviluppo di una politica pubblica in materia di difesa. Ciò significa stabilire criteri generali di intervento e definire un orientamento politico su cosa significhi il diritto di difesa e il giusto processo. In secondo luogo, un’istituzione può organizzare una molteplicità di strutture di supporto ai compiti specifici dei difensori che consenta di fornire un servizio di qualità. Di seguito illustreremo alcune di queste strutture ma, ad esempio, in materia penale, sono fondamentali gli uffici che prendono contatto con le persone sin dal primo momento della loro detenzione nelle stazioni di polizia; quelli che permettono di produrre autonomamente una prova per sostenere, dal punto di vista operativo, la strategia della difesa in tutto il processo, soprattutto nella fase orale, ed infine, gli uffici che forniscono il servizio di assistenza alle persone private della loro libertà all’interno del sistema penitenziario. Il Ministero Pubblico della Difesa è composto da ventiquattro difensori civici di primo grado davanti al foro Penale, delle Infrazioni e delle Omissioni e due difensori dinanzi alla Corte d’Appello del foro Penale, delle Infrazioni e delle Omissioni. Lo integrano, inoltre, sei difensori di primo grado dinanzi al Foro del contenzioso Amministrativo e Tributario e due difensori davanti alla Camera di Appello della stessa giurisdizione. Ci sono inoltre due uffici di difesa aggiunti che collaborano con il Difensore Civico nelle azioni davanti al Tribunale Superiore di Giustizia della Città e davanti alla Corte Suprema di Giustizia della Nazione. Il Ministero Pubblico della Difesa dispone anche di tecnici esperti e di gruppi interdisciplinari specializzati in habitat, diritto alla città, approccio territoriale, assistenza alle persone con disturbi mentali, diritti culturali, mediazione comunitaria, processi di sfratto, vittime di violenza istituzionale, diritto alla salute, genere, diversità sessuale e diritto degli anziani, conflitto sociale, diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e diritto penale minorile ed altri. Torneremo su di loro più avanti. La difesa pubblica è un’istituzione fondamentale per garantire l’accesso alla giustizia per tutte le persone, senza discriminazioni per ragioni economiche. Il Ministero Pubblico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires ha l’obiettivo di un’assistenza attiva e integrale ed è impegnato nell’interesse delle persone assistite, che in genere appartengono alla parte della popolazione più vulnerabile della città. Come denominatore comune, sia per la giustizia penale che per il contenzioso amministrativo, la difesa è gestita in modo attivo, sin dal primo momento dell’intervento di difesa pubblica. In materia penale, si lavora energicamente per ottenere prove, raccogliere informazioni, per poter formulare una teoria del caso che segni la strategia di difesa, garantisca la possibilità del
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processo in contraddittorio e la qualità del contenzioso. Il difensore pubblico è un operatore fondamentale per il rafforzamento del giusto processo e delle garanzie di procedura penale con le caratteristiche di libertà, sancite dalla Costituzione della Città Autonoma di Buenos Aires. In questo senso, il Ministero Pubblico della Difesa fornisce ai suoi difensori, attraverso la Direzione dell’Assistenza Tecnica (DAT), una assistenza professionale e tecnica in diverse aree, finalizzata a fornire elementi probatori a parità di condizioni con l’accusa (“parità delle armi”), garantire l’accesso alla giustizia, il corretto esercizio del diritto di difesa ed il giusto processo. Il DAT conta su diversi gruppi di lavoro: esperti, assistenti sociali, ricercatori, ecc. Questa struttura è appositamente prevista dalla legge organica della Procura della Repubblica (vedi articolo 21)1. Nell’ambito del contenzioso amministrativo e fiscale viene proposto un modello di difesa che è vicino alla gente, partecipativo e di accompagnamento non solo nella fase giudiziaria, ma anche prima e dopo di essa. Questi assi costituiscono i punti di partenza per raggiungere l’obiettivo di essere permanentemente presenti come protagonisti nelle dinamiche generali per il perseguimento della giustizia. E in questo senso, si affiancano le persone che devono sottoporsi al sistema giudiziario, con una difesa di qualità. Il Ministero Pubblico della Difesa svolge un compito importante nell’adempimento dei diritti economici, sociali e culturali. L’Argentina, in generale, e la città di Buenos Aires in particolare, sono caratterizzate da una struttura sociale basata sull’esclusione e su persistenti disparità. La Costituzione della Città di Buenos Aires parte da questa situazione e stabilisce un vero diritto all’inclusione sociale, che ingloba l’insieme dei diritti economici, sociali e culturali. Il Ministero Pubblico della Città di Buenos Aires ha avuto sin dall’inizio un ruolo molto attivo e originale nella promozione dell’accesso alla giustizia e nella difesa degli interessi generali della società, in particolare in relazione alla realizzazione di diritti economici, sociali e culturali. In questo senso, è interessante notare che all’inizio del Foro del Contenzioso Amministrativo e Tributario (2001), le azioni di protezione relative al diritto all’abitazione rappresentavano la maggior parte del lavoro di difesa pubblica. Oltre l’80% dei consulenti del Ministero Pubblico della Difesa ed oltre il 75% delle cause avviate dal Ministero Pubblico erano legati a situazioni di emergenza abitativa2. Inoltre, gli operatori del Ministero Pubblico, sin dall’inizio dell’esistenza della magistratura locale, riconobbero che era una condizione necessaria per l’adempimento del dovere costitu-
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Sulla relazione tra questo ufficio del Ministero pubblico della Difesa e la polizia giudiziaria responsabile della Procura della Repubblica, vedi H. Corti, A. Eljatib, J. Telias, Costituzione della città autonoma di Buenos Aires. Edizione Jusbaires, Buenos Aires, 2016, 1261-1263. 2 In quella fase iniziale, è stato evidenziato il caso “Pérez, Víctor”, in cui quattro uomini ospitati in una casa temporanea hanno denunciato le spaventose condizioni di vita dello stabilimento e il conseguente danno al loro diritto alla salute. A quel tempo, più precisamente a metà del 2001, il potere esecutivo della città adottò alcune misure che portarono a un numero significativo di ingiunzioni che erano molto importanti nella storia della giurisdizione controversa. La comunicazione da parte del Potere esecutivo della chiusura imminente del programma approvato dal decreto n. 607/97 è stata la ragione per cui l’unica difesa ha poi avviato 103 atti di protezione giuridica, tra i quali spiccano “Fernández Silvia”, “Ortiz, Célica “E” Victoriano “, tutti risolti alla fine del 2001 e considerati importanti casi nella Giurisdizione Contenziosa Amministrativa della Città Autonoma di Buenos Aires.
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zionale quella di promuovere per via giudiziaria la difesa della legalità e gli interessi generali della società e di poter contare su una legittimazione processuale non solo diversa, ma anche più ampia di quella di un singolo cittadino. In questo senso, riteniamo che i magistrati del Ministero Pubblico abbiano il potere di proteggere in piena autonomia i diritti collettivi degli abitanti della Città Autonoma di Buenos Aires. In tale ottica, la giurisprudenza è sempre stata favorevole alla legittimazione dei magistrati del Ministero Pubblico nel ricercare informazioni pur nel rispetto della legge sull’accesso alle informazioni della Città Autonoma di Buenos Aires (legge n 104), e ha anche definito un’interpretazione particolarmente ampia del suo testo, nei casi in cui l’informazione viene richiesta dal Ministero Pubblico3. È interessante ricordare che la Legge Organica del Ministero Pubblico autorizza tutti i giudici del Ministero Pubblico nel richiedere rapporti informativi ad organismi amministrativi ad imprese che forniscono servizi pubblici ed a privati, cosi come a ricorrere all’intervento dell’autorità competente per portare avanti i procedimenti e convocare le persone nei propri uffici, fatte salve le altre competenze a loro attribuite dai regolamenti procedurali nello specifico settore delle cause in corso (articolo 20).
3. Le aree del Ministero Pubblico della Difesa dedicate al sostegno della difesa pubblica ed al lavoro con la comunità. Il Ministero Pubblico della Difesa è una istituzione per la difesa dei diritti umani nel territorio della Città di Buenos Aires. Il suo ruolo viene sviluppato attraverso molteplici mezzi: reclami amministrativi; azioni individuali e collettive riferite a vari diritti quali il diritto all’abitazione, l’accesso ai servizi pubblici, alla salute, all’istruzione, ad una alimentazione adeguata. Per questo suo approccio prevede anche un lavoro di forte inserimento nel territorio. Con uffici decentralizzati in tutta la città di Buenos Aires, il Ministero Pubblico della Difesa partecipa attivamente alle assemblee, alle reti e alle riunioni di quartiere. In questo modo, contribuisce al radicamento degli abitanti nella città, in modo che la loro voce sia ascoltata. Non solo assume la loro difesa in tribunale, ma assolve anche a compiti di promozione e diffusione dei loro diritti. Per raggiungere questi obiettivi di difesa sono necessarie specifici gruppi che possano agire insieme ai difensori pubblici. Si tratta di gruppi specializzati di natura interdisciplinare, che comprendono, tra gli altri, operatori sanitari, architetti, sociologi, assistenti sociali, mediatori, ecc.
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Vedi Tribunale Superiore di Giustizia della Città di Buenos Aires, “Ministero Pubblico - Ufficio Generale della Città Autonoma di Buenos Aires”, Expte. N. 11396/14, sentenza del 14/06/2015. La Camera II della Camera del Tribunale Tributario Amministrativo e Tributario ha interpretato, da parte sua, la restrizione dell’articolo 2 in fine della legge n. 104 (secondo un testo attualmente non in vigore), secondo cui “l’organo richiesto non ha obbligo di creare o produrre informazioni che non contano al momento dell’ordine, “non è applicabile quando la richiesta proviene dal Ministero pubblico, dal momento che non si può presumere che la richiesta impedisca o ostacoli l’esecuzione dell’Amministrazione, ma al contrario (vedi Sala II, “Moreno, Gustavo Daniel”, Exp. No. 7134/0, sentenza del 30/09/2003).
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La difesa pubblica lavora quotidianamente con le comunità della Città Autonoma di Buenos Aires che vivono escluse – per la loro segregazione socioeconomica, ma anche per il loro status di migranti, per il loro genere, per la loro malattia mentale –, affinché la loro voce venga invece ascoltata, ma, in assenza di una risposta del governo di Buenos Aires, porta le rivendicazioni davanti al Potere giudiziario. Non si tratta solo di offrire un servizio legale, ma, più profondamente, di collaborare nei processi di creazione dello stato di cittadinanza, dello sviluppo consapevole dell’azione collettiva, della diffusione delle conoscenze giuridiche e di una cultura costituzionale e dell’accesso alle istituzioni statali, siano esse amministrative come giudiziarie. Al fine di promuovere l’accesso alla giustizia per gli abitanti dei quartieri emarginati di Buenos Aires, il Ministero Pubblico della Difesa, con una prospettiva interdisciplinare e trasversale, svolge le sue attività su due fronti. Il primo, incentrato sulla promozione della partecipazione delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari e il secondo, dando assistenza tecnica al lavoro dei difensori pubblici nelle specifiche istanze giudiziarie, tanto nelle cause individuali o collettive nelle quali interviene, quanto contribuendo alla difesa ed alla promozione dell’integralità dei diritti umani. Il Ministero Pubblico della Difesa fornisce consulenza ai residenti della Città di Buenos Aires attraverso le sue ventisei sedi dedicate alla “orientamento del residente”, che si trovano nelle aree di maggiore esclusione sociale. Ha anche un numero di telefono gratuito, 0800-DEFENDER (3333-6337), attraverso il quale vengono fornite informazioni immediate a chi lo chiama. Ha anche un sistema di informazione online sul sito www.mpdefensa.gob.ar Attraverso la Direzione di Orientamento per i Residenti, si consiglia ed informa tutti i cittadini e chiunque vi si rivolga perché si trova in condizioni di povertà, di emarginazione, con necessita di base o con scarse possibilità di accesso ai servizi pubblici. Questa Direzione dispone di un gruppo specializzato capace di convogliare l’assistenza sociale verso gli adeguati canali amministrativi. Nei casi di violazione dei diritti da parte del Governo della Città di Buenos Aires o del Potere Esecutivo Nazionale, la Direzione dispone di consulenti capaci di portare in ambito giuridico la problematica ricorrendo ai difensori di primo grado del Ministero Pubblico della Difesa. Le relazioni interistituzionali sono articolate e sviluppate con altre organizzazioni locali o nazionali allo scopo di garantire un accesso effettivo al godimento dei diritti fondamentali. La direzione ha ricevuto 9.891 consultazioni tra il 1° aprile 2014 e il 30 novembre 2016. Per l’ambito delle infrazioni e dei crimini, il Ministero Pubblico della Difesa dispone di squadre di lavoro che intervengono fin dal primo momento dell’arresto, con presenza negli uffici di polizia. Il compito di assistenza continua nel periodo di esecuzione della pena può fornire assistenza anche negli istituti penitenziari, al fine di collaborare al successivo reinserimento sociale degli assistiti. Attraverso l’area interessata, sono assistiti i difensori civici ufficiali nell’assistenza alle persone private della libertà. A partire da una organizzazione di guardie, è fornito un servizio 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, e si realizzano su base giornaliera visite nei centri di detenzione della Città di Buenos Aires per garantire i diritti delle persone private della libertà. La persona viene contattata immediatamente dopo aver avuto notizia dell’arresto e gli viene offerto il patrocinio legale per garantirgli il diritto di difesa. Allo stesso modo, i contatti quotidiani vengono mantenuti con le forze di sicurezza e i centri di detenzione locali, intervistando le persone private della libertà e controllando le condizioni di detenzione. In questo modo sono garantiti i diritti dei detenuti. Quando vengono intervistati nel luogo in cui sono privati della loro libertà, i detenuti ricevono informazioni sul loro processo e viene controllato che i termini e le condizioni di detenzione siano appropriati.
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Inoltre, attraverso la Direzione di Intervento Interdisciplinare si presta assistenza ai difensori pubblici per contribuire alla protezione dei diritti delle persone coinvolte in procedimenti penali e contenzioso-amministrativo, attraverso un approccio interdisciplinare – che include tra l’altro psicologia, medicina , lavoro sociale, terapia occupazionale, ecc. - con particolare attenzione alla vulnerabilità psicosociale degli assistiti. Il lavoro di questa direzione materializza le linee guida del “Regolamento di Brasilia”, che sono obbligatorie, come ha stabilito la Corte Suprema di Giustizia della Nazione (Acordada CSJN n 5/09). Questa direzione ha due aree principali di lavoro: una incentrata su questioni penali e penitenziarie e l’altra sulla salute mentale.
Nell’area penale e penitenziaria, il “Programma di intervento interdisciplinare rivolto a persone private della libertà nelle carceri” fornisce assistenza e sostegno psicosociale a persone private della loro libertà di movimento ed alla loro famiglia; controlla le condizioni di detenzione; svolge attività di reinserimento sociale e lavorativo per le persone che escono dall’ambiente carcerario; facilita il dialogo e la comunicazione con i difensori civici ufficiali. In risposta alle richieste dei difensori ufficiali, il team interdisciplinare prepara rapporti sullo stato del follow-up del caso o sui rapporti psicologici, psicosociali e socio-ambientali. Nel 2015 sono stati fatti e consegnati 38 rapporti di questo tipo insieme a 15 comunicazioni di un altro carattere. Nel 2016 sono stati inviati, rispettivamente, 31 rapporti e 23 comunicazioni.
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D’altro lato, il “Programma di politiche attive di monitoraggio psicosociale di persone che sono soggetti al regime di sospensione del processo per prova in materia penale” fornisce consulenza sulla proposta di norme di condotta; accompagnamento dell’assistito seguendolo nel raggiungimento degli obiettivi graduali; canali di dialogo e comunicazione con i difensori civici ufficiali. I difensori civici ufficiali hanno segnalato 310 nuovi casi nel 2015. L’area ha trattato 615 casi in totale durante questo periodo. Nel 2016, c’erano 326 nuovi casi. A dicembre 2016 ci sono stati 723 casi che hanno richiesto un intervento del Programma. Nei compiti di accompagnamento, lo staff del Programma ha partecipato insieme agli assistiti ad interviste di controllo nelle diverse agenzie responsabili. Nel 2015 sono state condotte 118 interviste di controllo e nel 2016, 325. Nel 2015 sono stati prodotti 682 rapporti e nel corso del 2016 sono stati prodotti 493 rapporti. Nell’ambito della salute mentale, il “Programma di assistenza professionale specialistica” (PAPE) fornisce assistenza, interventi e supporto alla difesa pubblica nei confronti delle persone con disturbi mentali; si concentra su: assistenza e contenimento psicosociale a persone che hanno malattie mentali; consulenza ai difensori civici ufficiali e attività di consulenza nell’area. Il PAPE è stato creato come programma pilota alla fine del 2014. Nel 2015 è intervenuto in un totale di 61 casi e nel 2016 in 64 casi. Pertanto, durante questi due anni il programma ha trattato 125 casi in totale. Nel follow-up di questi casi, nel corso del 2015, sono stati condotti 211 colloqui personali con i consulenti, su presentazione spontanea o in interviste programmate, e 152 contatti telefonici. Durante il 2016, le interviste personali condotte sono state 241 e sono stati presi 34 contatti telefonici con gli assistiti. In totale durante questi due anni di attività, abbiamo condotto 452 interviste e 186 contatti telefonici.
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Nel campo della salute, il Ministero pubblico della Difesa ha istituito un programma specifico che mira a facilitare l’accesso ai servizi sanitari di base e adeguate infrastrutture sanitarie, da un punto di vista integrale che promuove lo sviluppo sano in armonia con l’ambiente ; sviluppare azioni per promuovere e proteggere il diritto ad una salute globale e ad un ambiente sostenibile per gli abitanti della città, dando priorità alle rivendicazioni dei vicini nelle aree più trascurate; facilitare l’accesso e il pieno esercizio del diritto alla salute degli abitanti della città di Buenos Aires, da una prospettiva globale che includa le condizioni di vita e l’ambiente; promuovere l’uguaglianza nell’accesso all’assistenza sanitaria, svolgere attività di informazione, formazione e promozione del diritto alla salute. Fin dal suo inizio, nel mese di aprile 2016, il programma ha svolto, su richiesta della difesa, diverse indagini e rapporti tecnico-sanitari, e cioè: a) nel quartiere Mujica, caseggiati 9 e 10, del quartiere Los Piletones, caseggiato 27a dell’Elefante Bianco, Focolare Martín Rodríguez Viamonte; b) sono stati condotti sondaggi negli ospedali pubblici generali di emergenza della città, al fine di raccogliere casi di persone internate con dimissioni mediche senza la possibilità di uscire per motivi sociali e sono stati riscontrati 30 casi che sono stati presi a carico dal Ministero Pubblico della Difesa per la loro soluzione; c) tra luglio e ottobre 2016 è stata condotta una ricerca sul livello di applicazione della legge di rispetto del parto, per un totale di 120 casi in cinque ospedali pubblici nella città autonoma di Buenos Aires. D’altra parte, ha creato un programma per la difesa dei diritti degli anziani, che si propone di assistere e guidare gli anziani che vedono violati alcuni dei loro diritti nella città. Fornisce un’attenzione personalizzata con l’obiettivo di raggiungere un invecchiamento attivo e sano delle persone. È attuato da una squadra che lavora attraverso un sistema di accompagnamenti, strumenti per gestire le soluzioni amministrative alle consultazioni e quindi evitare l’inutile ricorso a forme legali per l’ottenimento delle richieste. Realizza anche incontri informativi. Durante i 18 mesi dalla sua creazione (agosto 2015), questo programma ha realizzato 90 accompagnamenti a distinti uffici, con esito positivo. Nell’ambito delle infrazioni e dei crimini, il sostegno è fornito ai difensori civici attraverso la Direzione di Assistenza alla Mediazione, al fine di assistere le persone che vengono denunciate di aver commesso crimini o violazione delle norme. L’intervento è effettuato su richiesta dei difensori civici che stanno intervenendo. In questo contesto, con le modalità di una collaborazione con questi difensori civici, un team di avvocati e psicologi con particolare competenza nel campo della mediazione opera in assistenza alle persone accusate in modalità gratuita e confidenziale, al fine di facilitare la risoluzione dei conflitti. Per parte sua, il “Programma di intervento giudiziario nei casi complessi”, che dipende dalla Difesa civica Generale Aggiunta per l’ambito Penale, delle Infrazioni e dei Reati Minori, si propone di aiutare i difensori civici nel corso delle indagini complessi che coinvolgono il pubblico ministero per motivi di crimini o violazioni. La maggior parte degli interventi di questo programma sono stati collegati ai casi di venditori ambulanti su strade pubbliche per aver usato lo spazio pubblico. Un totale di 159 persone sono state accusate di violazione dell’art. 83, secondo comma del Codice delle Contravvenzioni, 54 persone soggette a confisca e sequestri di merci che non sono state imputate, e si è anche intervenuti nei casi di infrazione all’art. 78 del Codice Contravvenzionale e per il reato di danno aggravato (art. 184 inc. 1 e 5 del codice penale). Su un totale di 213 interessati da un’indagine, sono state registrate 65 persone di nazionalità argentina e 148 stranieri. Tra ottobre 2014 e febbraio 2017 ci sono stati 79 perquisizioni di persone e automobilisti e il sequestro di 8 auto. Le perquisizioni sono state effettuate in case private, hotel a gestione
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familiare, locali e magazzini. Tali misure di coercizione con finalità probatorie iniziali si sono concluse in 31 casi con la prescrizione dell’azione, 34 sospensioni del giudizio in attesa di prova, 9 decisioni di soprassedere e 5 giudizi abbreviati. 79 casi sono stati archiviati. Attualmente, il programma lavora in assistenza a 80 persone. Per quanto riguarda il diritto alla casa, all’habitat ed al diritto alla città, il Ministero Pubblico della Difesa porta avanti una molteplicità di azioni, oltre a quelle strettamente connesse ai casi giudiziari. Come indicato sopra, i diritti sociali ed economici sono una priorità nel nostro modello di difesa pubblica.
Un gran numero di norme di livello costituzionale e legale mette a carico del Governo municipale la responsabilità di garantire e tutelare il diritto a un alloggio dignitoso e ad un habitat adeguato per i suoi abitanti. Tuttavia, ci sono persone e intere famiglie che dormono e vivono per strada, così come altre che rischiano di doverlo fare perché già si trovano in un’emergenza abitativa. In questo contesto, il Ministero della Difesa Pubblico, attraverso la Direzione dell’Orientamento per il cittadino, impiega un intenso lavoro per prestare attenzione alle consultazioni sui problemi abitativi, in particolare delle persone già sulla strada. Quelle questioni che non possono essere risolte nella sede amministrativa, sono trasferite alla sfera legale. In questo senso, l’attività di difesa pubblica è uno strumento fondamentale per rispondere al problema degli alloggi e garantire l’accesso alla giustizia per le persone in settori di povertà critica e con bisogni di base insoddisfatti, promuovendo risposte giurisdizionali, oltre ad assumere un ruolo attivo nella riformulazione delle politiche pubbliche volte ad affrontare la crisi abitativa.
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Tra aprile 2014 e aprile 2017, i difensori civici hanno presentato 1.591 azioni di protezione per il diritto all’abitazione. A partire dal 2016, il Pubblico Ministero della Difesa partecipa al Tavolo degli Alloggi della Città Autonoma di Buenos Aires, dove si è aggiunto a più di trenta organismi del Potere Giudiziario nazionale e locale, accademici e della società civile a livello locale, con l’obiettivo di incidere nell’agenda pubblica per quanto riguarda l’accesso a Habitat e il diritto alla città. Attraverso questo spazio, sono state sviluppate azioni coordinate tra il Ministero Pubblico della Difesa e diversi attori della società civile e degli spazi accademici per influenzare il problema dell’accesso all’alloggio nella città autonoma di Buenos Aires. In particolare, si ha partecipato attivamente a linee concrete di lavoro dell’“Accordo per l’urbanizzazione delle villas”, firmato dal Ministero Pubblico della Difesa nel 2016. Nella stessa maniera si affrontano le problematiche connesse con l’habitat ed il diritto alla Città attraverso tre gruppi di lavoro (denominati “Programmi”) specificatamente dedicati a queste problematiche. L’obiettivo è quello di fornire assistenza per la difesa e la promozione integrale dei diritti umani da una prospettiva territoriale; promuovere l’integrazione sociale, culturale e urbana di complessi, nuclei spontanei e insediamenti; facilitare l’accesso di tutta la popolazione ai servizi di base e garantire la partecipazione delle persone colpite nella difesa dei loro diritti, attraverso audizioni pubbliche e tavoli di lavoro, tra tutti. Il primo di questi gruppi di lavoro assiste le azioni giudiziarie derivante dalla sentenza della causa “Mendoza, Beatriz Silvia e altri c / Stato Nazionale e altri s / danni ed indennizzi - danni derivanti da inquinamento ambientale di Matanza-Riachuelo” che colpisce gli abitanti della Villa 21-24, Villa 26, insediamento Lamadrid, insediamento Magaldi, insediamento El Pueblito, complesso urbano Padre Mugica, complesso urbano San Francisco, complesso urbano Los Piletones (in zona Riachuelo), complesso urbano Lacarra, complesso urbano Luzuriaga e Villa 1.11.14. Il secondo di questi gruppi di lavoro è coinvolto in casi giudiziari legati agli abitanti di questi quartieri e insediamenti: Rodrigo Bueno, Elefante Bianco, Isolato 27 bis di Villa 15, Santander, Las Palomas, quartiere Ramon Carrillo, insediamento Scapino, quartiere INTA, quartiere di insediamenti Maria Auxiliadora e Bermejo e Playòn de Chacharita. Il terzo di questi gruppi di lavoro interviene in casi giudiziari legati agli abitanti della Villa 20, Villa 31, Villa 31 bis, del quartiere di Los Piletones (è intervenuta per garantire l’effettiva partecipazione dei residenti nel processo di riqualificazione e la cura delle situazioni abitative più critiche), del quartiere di La Esperanza (sono state promosse assemblee di quartiere e viene controllato il rispetto della fornitura di acqua potabile da parte del governo locale). In tutti i casi, è stata fornita assistenza e sostegno ai difensori civici incaricati dei casi giudiziari, è stata promossa la partecipazione della comunità e sono stati organizzati laboratori nei quartieri. In questo stesso ordine di cose, il Ministero Pubblico della Difesa ha una direzione dedicata all’assistenza integrale delle persone coinvolte negli sfratti. Quando interviene in un caso, esegue in primo luogo un’indagine completa sui gruppi familiari che abitano nell’edificio, al fine di conoscere la totalità dei problemi che affliggono le famiglie per fornire loro l’assistenza corrispondente. Fornisce consulenza sul processo in corso e sui diversi strumenti esistenti nel Ministero Pubblico della Difesa per assisterli sia legalmente sia in relazione ai vari problemi sociali (sussidi per l’alloggio, ottenimento del documento di identità (DNI), inclusione nei programmi sociali, ecc.). L’intervento è stato organizzato in base alla situazione di ogni famiglia e alle sue esigenze. L’obiettivo è quello di fornire una panoramica generale delle situazioni che generano un processo di sfratto al fine di sistematizzare i vari problemi dei casi ed essere in grado di affrontarli in modo integrale. E nel contempo anche valutare se la risposta dello Stato alle persone coin-
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volte in procedimenti di sfratto è sufficiente per poter uscire dallo stato di necessità e vulnerabilità i cui erano al momento dello sfratto, o se, al contrario, continuano ad essere impantanati nella stessa situazione tanto da doversi cercare alloggio in maniera abusiva. D’altra parte, il Ministero Pubblico della Difesa fornisce attraverso la sua Direzione della Mediazione Comunitaria un servizio di mediazione gratuito e riservato, al fine di risolvere i conflitti tra le persone in maniera volontaria ed agile, con l’intervento di un mediatore. Il processo di mediazione comunitaria consente ai vicini di essere i protagonisti nella risoluzione del conflitto, come soggetti attivi e partecipativi. Interviene per risolvere i conflitti tra vicini o parenti senza dover passare attraverso un complicato processo giudiziario. È una proposta di dialogo, di facilitazione, a cui partecipa un mediatore, appositamente formato per risolvere conflitti come problemi di costruzione, rumori fastidiosi, ricongiungimento familiare, problemi del consorzio, e simili. La Direzione della Mediazione Comunitaria interviene in situazioni come violazione delle regole di convivenza, fastidiosi rumori, problemi di costruzione e delle infrastrutture, contese di mediazioni, problemi all’interno di un consorzio, reclami da parte di vicini di casa nei confronti di enti pubblici, e molti altri problemi. Tra aprile 2014 e il 30 novembre 2016 sono state condotte 801 mediazioni. In un altro ordine di cose, il Ministero Pubblico della Difesa ha anche un programma incentrato su questioni relative al genere e alla diversità sessuale, al fine di cercare l’accesso alla giustizia e l’esercizio effettivo dei diritti politici e sociali, economico e culturale delle persone e dei gruppi che subiscono un qualche tipo di violazione per ragioni di genere o diversità sessuale. Promuove l’esercizio paritario dei diritti nella città autonoma di Buenos Aires e considera le differenze di genere al fine di evitare il ripetersi e l’accrescersi delle disuguaglianze. Cerca di rompere i circoli dell’esclusione e assicurare una partecipazione effettiva alla vita politica, economica e pubblica di tutte le persone. Il Ministero Pubblico della Difesa promuove il riconoscimento dei beni culturali come parte dell’identità sociale della comunità e la necessità di garantire la sua protezione speciale negli ambienti urbani. Viene fornita consulenza e assistenza sui diritti e le politiche culturali e sulla libertà di espressione. Le azioni sono sviluppate per proteggere il patrimonio storico, architettonico, culturale ed artistico. Nella pratica, il “Programma sui diritti culturali” è responsabile della consulenza e dell’assistenza a tutti quei gruppi e individui che subiscono la violazione dei loro diritti in questo settore. Tra questi, il diritto di partecipare alla vita culturale; di godere dei beni culturali; di esercitare la libera espressione artistica e creativa; di creare e preservare spazi culturali; di sviluppare la formazione artistica e artigianale; di proteggere e diffondere le manifestazioni della cultura popolare e delle sue tradizioni; di salvaguardare e recuperare il patrimonio storico urbano, e di preservare la memoria e le identità culturali. L’obiettivo del programma è quello di garantire l’accesso ai diritti culturali, di promuovere di una risoluzione extragiudiziale delle controversie nonché di offrire la cooperazione e l’assistenza al Mediatore nei casi che richiedono un intervento nell’area di competenza del Ministero Pubblico della Difesa. Tra queste sono prioritarie: la promozione dell’abilitazione dei Centri Culturali; l’accompagnamento degli artigiani nei loro reclami contro il governo locale per lo svuotamento delle fiere dell’artigianato; la consulenza agli artisti sull’osservanza delle normative locali. In termini di violenza istituzionale, il Ministero della Difesa pubblica lavora per prevenire e controllare qualsiasi pratica che implichi una violazione dei diritti umani. Promuove la diffusione di diritti sociali, politici, economici e culturali riferibili all’isolamento per motivi o pretesto di razza, etnia, genere, orientamento sessuale, età, religione, ideologia, nazionalità, caratteristiche fisiche, condizione psico-fisico, sociale, economica o qualsiasi altra circostanza che implichi distinzione, esclusione, restrizione o menomazione.
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In questo ambito, esiste un “Programma contro la violenza istituzionale”, che mira a prevenire e controllare la violenza istituzionale esercitata da operatori appartenenti a qualsiasi organismo, ente, o istituzione pubblica che risulti danneggiare la libertà, l’integrità, la dignità e la vita delle persone, specialmente di quei gruppi sociali in condizioni vulnerabili, generando tipi di azioni differenziate per via amministrativa e fornendo assistenza e supporto durante i procedimenti giudiziari. A partire dal 2015, il programma ha attuato una serie di strategie e azioni per far risaltare, identificare, e denunciare le principali forme di violenza istituzionale esercitata dalle forze di sicurezza nel controllo dello spazio pubblico basata su pratiche arbitrarie, discriminatorie e illegali. Il Ministero della Difesa pubblica ha anche un gruppo di lavoro dedicato ai conflitti sociali, che opera per garantire, in scenari di conflitto sociale, il diritto all’esercizio costituzionale della protesta, della ricerca di una soluzione pacifica, completa e priva di violenza fisica e psicologica. Per suo altro ruolo, il Ministero Pubblico della Difesa promuove, attraverso un’area specifica, politiche pubbliche e interventi giudiziari per proteggere bambini, bambine ed adolescenti. Tra gli altri interventi, quest’area promuove azioni collettive e individuali che mettono in guardia sulla possibile privazione del diritto all’istruzione, per garantire pari opportunità, possibilità e l’accesso, la permanenza e il reinserimento degli abitanti della città al sistema di istruzione pubblica.
Villas nel quartiere Barracas.
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Anche per quanto attiene la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti è stato istituito nel 2015 il “Programma degli interventi giovanile” (PIPJ), che dipende dalla Segreteria Generale Aggiunta per l’ambito Penale, delle Infrazioni e dei Reati Minori, che è interviene nella detenzione dei bambini e adolescenti, trasferiti al Centro per l’identificazione e l’alloggiamento provvisorio di bambini e adolescenti (CIAPNNA). Al fine di individuare e prevenire la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti da parte delle forze di sicurezza - sia al momento della detenzione e / o trasferimento del bambino o dell’adolescente, sia durante la verifica delle condizioni di salute del bambino o dell’adolescente, il Ministero Pubblico della Difesa ha introdotto a partire da agosto 2016, un habeas corpus collettivo correttivo e preventivo al fine di garantire la visita medica del bambino o dell’adolescente detenuto prima del suo ingresso al CIAPNNA ed al momento della sua ‘uscita. Finora sono stati rilevati 2 casi di tortura, trattamenti inumani e degradanti la cui denuncia è stata presentata dal difensore civico competente presso la Procura per la Violenza Istituzionale del Ministero Pubblico fiscale della Nazione (PROCUVIN). Detto programma accompagna anche le visite al Centro di Ammissione e Seguito ed ai Centri Socioeducativi a regime di clausura ed alle Residenze socioeducativi a Libertà Limitata, quando ciò viene richiesto dai difensori civici che lo hanno in carica. Tra le azioni più importanti del programma di intervento penale giovanile ci sono le seguenti: (i) assistenza legale specializzata dal momento dell’arresto di un bambino o di un adolescente; (ii) monitoraggio delle condizioni e delle circostanze della loro detenzione e misure per prevenire la tortura; (iii) collaborazione e coordinamento con il difensore penale a quel momento in servizio e la difesa penale giovanile specializzata, competente per area, per il trattamento del caso e l’accompagnamento del bambino o dell’adolescente; (iv) collaborazione e coordinamento con altre aree del Ministero Pubblico della Difesa che lo richiedono. D’altra parte, il “Programma di Diritto Internazionale dei Diritti Umani” del Ministero Pubblico della Difesa intende monitorare gli sviluppi giuridici nel campo, curare il collegamento con organizzazioni internazionali e fornire supporto nelle diverse modalità, alle diverse aree del Ministero pubblico nella misura in cui lo richiedono, principalmente nell’applicazione di strumenti internazionali e nell’individuazione di nuovi argomenti di difesa. Altro obiettivo è quello di inserire il Ministero Pubblico della Difesa nel contesto internazionale. Le attività del programma si sono concentrate su quattro aree: sostegno ai difensori civici; studi di cause giudiziarie che hanno esaurito le istanze nazionali e sono pronte a portare il contenzioso al livello internazionale; alleanze istituzionali nella presentazione di relazioni ed attività di formazione sul diritto internazionale nel settore della difesa. A questo proposito, il Ministero Pubblico della Difesa ha sostenuto diversi incontri con rappresentanti di organizzazioni internazionali, tra i quali si evidenziano (I) la riunione con il Relatore speciale contro la tortura, Juan Mèndez, con il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro la donna, le sue cause e conseguenze, Dubravka Šimonović, e con Vitit Muntarbhorn, primo esperto indipendente nella protezione contro la violenza e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, nominato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite; (II) nel quadro della promozione di un Centro di Difesa dei diritti dell’uomo, il Ministero Pubblico della Difesa ha partecipato nella città di Lima alle consultazioni regionali per la predisposizione del Piano Strategico 2017-2020 della Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani (CIDH). In questo stesso ordine di idee, è interessante ricordare che il Ministero Pubblico della Difesa, nel quadro del parere consultivo richiesto dallo Stato del Costa Rica, riferendosi all’interpretazione di obblighi derivanti dal trattato sulle identità di genere e cambio di nome e le conseguenze di proprietà del legame tra persone dello stesso sesso, ha presentato un memo-
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riale come amicus curiae ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 73 paragrafo 3 e 44 del regolamento della Corte, al fine di portare il suo parere in materia proposto.
4. L’importanza del Diritto alla Città. Come si può vedere, si tratta di un’istituzione che lavora in un ambito esclusivamente urbano. Quindi, tutti i problemi che affronta (siano essi penali, contravvenzionali o di carattere amministrativi) sono relazionati alla questione urbana. Questo ci ha portato ad approfondire una prospettiva legale basata sul diritto alla città. Si tratta di guardare alla città attraverso la lente del Diritto Internazionale dei diritti umani4. In questo modo partecipiamo alla conferenza internazionale tenutasi dalle Nazioni Unite Habitat III, che si è tenuta a Quito da 17-20 ottobre 2016. Consideriamo strategica la partecipazione delle istituzioni legate alla giustizia in un ambito dove è insolita la loro presenza. Sia lì che nei giorni preparatori e ora nei seguiti, che vengono organizzati dalle stesse Nazioni Unite, ci concentriamo sulla relazione tra il diritto alla città e l’accesso alla giustizia. Nella su menzionata conferenza Habitat III, abbiamo presentato un documento che contiene i Principi sull’accesso alla giustizia sociale urbana, basato sulla nostra esperienza nei contenziosi sui diritti sociali5. Da parte nostra, durante lo scorso anno, abbiamo organizzato nell’ambito delle attività di UN Habitat, il Campus dei Pensatori Urbani (Urban Thinkers Campus) al quale hanno partecipato esperti nazionali e internazionali.
5. Difesa pubblica e restrizioni finanziarie. In molte delle controversie in cui interveniamo (generalmente rivendicano diritti sociali), il Governo locale ha addotto l’assenza di risorse finanziarie per garantire i diritti in gioco. Questo ci ha portato ad approfondire l’argomento e abbiamo realizzato una pubblicazione dedicata esclusivamente a questo tema6. Tale problematica è oggi all’ordine del giorno sia in America Latina che in Europa, come risultato delle politiche di austerità legate alle crisi economiche contemporanee. In collaborazione con diverse organizzazioni sociali in America Latina, ci siamo presentati davanti alla Commissione interamericana sui diritti umani in un’audizione tematica. L’udienza si è tenuta l’11 maggio 2018 a Santo Domingo e tutte insieme le organizzazioni abbiamo
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Vedere uno sviluppo giuridico e politico dell’argomento in: H. Corti - J. Borja, Diritto alla città: conquista politica e rinnovamento legale, Buenos Aires, 2018. 5 Il documento può essere consultato in Diritto alla città. Senza la Giustizia Sociale Urbana non esiste la cittadinanza, Rivista Istituzionale della Difesa Pubblica della Città Autonoma di Buenos Aires, Anno 6, numero 10, settembre 2016 (https://www.mpdefensa.gob.ar/biblioteca/pdf/Revista -institutional-di-MPD-Nro.10-law-to-Ciudad. pdf). 6 Vedi: Diritti umani e restrizioni finanziarie, Rivista istituzionale della difesa pubblica della città autonoma di Buenos Aires, Anno 7, numero 11, giugno 2017.
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presentato il documento: “Politica fiscale e garanzia dei diritti economici, sociali e culturali in America Latina”.7
6. Interventi eccezionali del Ministero Pubblico della Difesa davanti al Tribunale Superiore di Giustizia ed alla Corte Suprema di Giustizia della Nazione in materia di contenzioso amministrativo e fiscale. Con l’intervento diretto della Defensoría General y de la Defensoría General Adjunta en lo Contencioso Administrativo tra aprile 2014 e aprile 2017 sono stati depositati presso il Tribunale Superiore della Città di Buenos Aires e la Corte Suprema di Giustizia della Nazione numerosi ricorsi nei quali, di base, era in discussione l’accesso a alloggi dignitosi e adeguati da parte della popolazione a basso reddito della città. Nel corso di queste cause il comportamento del Governo della Città di Buenos Aires si è andato trasformando in quanto si è rifiutato di continuare a pagare sussidi per la casa, ma mettendo la gente per strada, in quanto la mancata consegna, la riparazione e / o la costruzione di abitazioni, non consentivano di garantire, in forma effettiva, il diritto all’alloggio secondo le norme legali, costituzionali e sovranazionali vigenti. Si sottolineano i seguenti casi in cui il Tribunale Superiore di giustizia, nei riguardi di denuncia verso dinieghi di incostituzionalità da parte della Corte d’Appello risorse denuncia giurisdizionale negato da parte della Corte d’Appello, accolse gli argomenti sollevati dalla difesa pubblica e diede luogo alle azioni che si sono così articolate: I) nel caso “Cantero Bobadilla, Miguel Angel s / denuncia per ricorso di incostituzionalità negato a Bobadilla, Acosta Norma c / TWT e altri s / amparo”, il Tribunale Superiore ha annullato la sentenza della Corte d’Appello in quanto aveva escluso dalla protezione legale un giovane che aveva raggiunto la maggior età durante il processo giudiziario, sostenendo che non era evidente che avesse alcun impedimento al lavoro. In questo senso, i giudici sostennero che la vulnerabilità sociale del ricorrente deve essere valutata tenendo in conto la situazione del resto del suo gruppo di famiglia, ed ordinarono pertanto la sua reinserzione nella protezione legale e rispettando in questa maniera anche l’integrazione della famiglia. II) nel caso “Alonso, Gabriel s / denuncia per ricorso di incostituzionalità negato ad Alonso, Gabriel c /GCBA s / protezione legale (art. 14 CCABA)” si privò di effettiva sentenza della Corte d’Appello che ha dato luogo solo in parte all’azione definita dal Ministero Pubblico de la Defensa e quindi ha condannato l’amministrazione in termini analoghi a quelli che deliberati in precedenza nel procedimento “K.M.P.”, vale a dire, ordinando al governo di presentare una proposta che garantisca un alloggio adeguato al ricorrente adeguato alla sua situazione di vulnerabilità. Inoltre, vanno ricordate le varie istanze presentate dal Ministero pubblico della Difesa avverso la pretesa del governo di Buenos Aires di citare lo Stato nazionale come terzo nei giudizi che riguardano la protezione giuridica del diritto all’abitazione. il Tribunale Superiore di giustizia, nel contesto della causa “Silva Campos, Yuri Vanessa s / denuncia per ricorso di
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Può essere consultato su http://www.cesr.org/es/politica-fiscal-y-garantia-de-los-derechos-economicos-sociales-y-culturales-en-america-latina
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incostituzionalità negato a / Silva Campos, Yuri Vanessa c / /GCBA s / protezione legale “ ha sostenuto infine, in linea con i ricorsi del Ministero pubblico della Difesa, che non era ammissibile la citazione dello Stato nazionale nei processi in cui si richiede alla Città l’accesso a un alloggio decente. Pertanto, non solo si è raggiunto l’obiettivo di confermare l’autonomia della Città ai sensi dell’articolo 129 della Costituzione nazionale, ma anche quello di garantire alla popolazione vulnerabile della città un’adeguata assistenza da parte del Ministero pubblico della Difesa. Spiccano, tra gli altri, gli interventi fatti nel caso “Zarate Villalba Juan Ramòn c / GCBA s / protezione legale (art. 14, CCABA)”, dal momento che, su richiesta del Ministero pubblico della Difesa si è ottenuto un ambito di dialogo con la Governo della Città nel Tribunale Superiore di giustizia e, come risultato di quanto sopra, fu ottenuta l’emissione della legge n. 5.798, che diede l’avvio all’urbanizzazione del quartiere di Rodrigo Bueno. D’altra parte, in relazione allo sottovalutazione dil bilancio del governo municipale, nel caso “Nùñez Estigarribia”, al di là dell’esito favorevole del caso specifico, l’intervento del Ministero Pubblico della Difesa ha permesso di evidenziare (dopo diverse rapporti presentati a fronte delle richieste del Tribunale Superiore di giustizia) quanto è scadente la politica degli alloggi da parte del governo della Città di Buenos Aires, non solo in termini di scarsezza delle previsioni di bilancio per fronteggiare il grave deficit abitativo che si riscontra a livello locale, ma anche la sottoutilizzazione dei fondi di bilancio dei programmi abitativi attuati sia da parte dell’amministrazione centrale che da parte dell’Istituto case Popolari della città di Buenos Aires nel corso di numerosi esercizi di bilancio. La difesa pubblica è intervenuta in modo prominente anche in materia di diritto al lavoro. In questo senso, in molti casi è stata discussa l’estensione dell’orario di lavoro degli infermieri “indipendenti” che lavorano nelle aree critiche degli ospedali della città. Negli stessi termini nel contesto di un procedimento dal titolo “Mendoza Mirta Graciela e altri s /GCBA s / protezione legale”, attualmente pendente dinanzi al Tribunale Superiore di giustizia, si sta assistendo una gran quantità di insegnanti della Scuola di Belle Arti “Manuel Belgrano” dopo che in base al decreto n. 1.380 / 2008 si è disposto di porre fine alle attività didattiche e artistiche svolte nel suddetto istituto, legate allo sviluppo della carriera di magistero in disegno. Sebbene non ci sia ancora una sentenza definitiva nel merito, la presentazione della causa ha permesso il proseguimento delle lezioni fino ad ora, garantendo il diritto all’istruzione per gli studenti e il diritto alla carriera degli insegnanti. Inoltre, sono stati presentati vari ricorsi in tema di non discriminazione tra differenti professionisti della salute nell’ambito di concorsi per la copertura delle posizioni nei Centri di Salute e di Azione Comunitaria che dipendono dal governo della città. La difesa pubblica locale è intervenuta anche in materia di protezione dell’ambiente e del patrimonio storico. Ha partecipato a casi relazionati con la protezione dell’ambiente e del patrimonio storico e urbano della città di Buenos Aires. Rilevanti sono le presentazioni che sono state fatte nel caso “Martin Gabriel Octavio e altri c /GCBA s / protezione legale “, che ha lo scopo di impedire la demolizione della ex Cine Teatro “Urquiza” nel quartiere di Parque Patricios, la causa “Associazione degli amici del Lago di Palermo “che mira a proteggere il parco Tres de Febrero contro l’insediamento di imprese in violazione delle norme di pianificazione ambientale e urbanistica, o il caso” Ondina Fraga”, il cui scopo era quello di proteggere il valore patrimoniale e storico della cosiddetta “Casa Podestà”, dove visse Mons. Jerònimo Podestà.
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7. Cause giudiziarie emblematiche in cui il Ministero Pubblico della Difesa ha avuto un ruolo rilevante.
7.1. “Rodrigo Bueno”. Nel 2005, i residenti del quartiere di Rodrigo Bueno hanno presentato un’azione di protezione giuridica contro il decreto che ordinava lo sgombero dei terreni ubicati nel quartiere. In questa azione legale, si invitò il governo della città di Buenos Aires a rispettare il diritto degli abitanti di godere di un alloggio adeguato, provvedendo all’urbanizzazione del quartiere e fornendo i servizi pubblici necessari. Nel 2011, la Giudice emise una sentenza per questo caso e ordinò al governo di astenersi dall’effettuare sfratti nel quartiere o di adottare qualsiasi misura di segregazione o di espulsione. In questo ordine della giudice si dichiarano nulli i decreti con i quali si intendeva offrire agli abitanti compensi economici a fronte dell’abbandono dei luoghi. Ha anche ordinato al go-
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verno di adottare decisioni tendenti all’integrazione urbana e sociale del quartiere di Rodrigo Bueno, assegnando anche ai residenti un ruolo partecipativo effettivo in relazione a tali progetti. D’altra parte, ha dichiarato l’incostituzionalità del limite meridionale della riserva ecologica per non aver considerato la preesistenza del quartiere e ha ordinato la sua inclusione nel programma di radicazione ed integrazione delle Villas previste dalla Legge n. 148. Il governo fece appello contro la sentenza e, nel 2014 nell’Aula II della Corte di Appello sul contenzioso amministrativo (con voti a maggioranza) ha stabilito che l’insediamento in questione ricade nel territorio della Riserva ecologica e che è il Potere Legislativo ad avere la potestà di progettare l’urbanizzazione della Città Autonoma di Buenos Aires. Contro questa sentenza, i residenti ed i delegati del quartiere, con il patrocinio legale del Ministero della Difesa pubblico, hanno presentato ricorso di incostituzionalità dinanzi alla Corte d’Appello affinché il procedimento fosse presentato al Tribunale Superiore di Giustizia. Per tutto il 2016, due udienze sono state tenute dinanzi alla Corte Superiore di Giustizia della Città Autonoma di Buenos Aires. Il ministero della Difesa pubblico, insieme al corpo dei delegati del quartiere, il 5 luglio 2016, ha partecipato alla prima udienza dinanzi alla Corte superiore. In quell’occasione, i funzionari del governo della città si impegnarono nei confronti dei residenti ed i delegati del quartiere e delle autorità giudiziarie per riqualificare Rodrigo Bueno nello stesso luogo e richiesero un periodo di 45 giorni per predisporre con i residenti ed i delegati del quartiere e con il Ministero della Difesa pubblico un primo progetto. Da lì in poi, il Ministero Pubblico della Difesa ha accompagnato il gruppo dei delegati ai tavoli di lavoro con l’Istituto Case Popolari del governo della città, fornendo assistenza tecnica nella discussione dei progetti di riqualificazione presentati dal governo della città, così come alla bozza del disegno di legge. Parallelamente, a livello territoriale, abbiamo lavorato insieme ai vicini e al gruppo dei delegati per consolidare opportunità di incontro e di discussioni nel quartiere nel corso dei quali lavorare sui progetti di urbanizzazione e di normativa di legge. La seconda udienza davanti al Tribunale Superiore si è svolta il 23 novembre 2016. In quella occasione, l’Istituto case Popolari della città ha presentato i giudici della Corte il progetto preliminare per la riqualificazione del quartiere. In tale occasione, la difesa pubblica, in virtù dei compiti pendenti, ha suggerito di proseguire nella modalità del tavolo di lavoro e di tenere una nuova udienza dinanzi al Tribunale superiore nel maggio 2017. A dicembre 2016 il progetto è stato approvato in prima lettura a larga maggioranza, ed a partire da questo progetto abbiamo lavorato con i residenti per preparare l’audizione pubblica nel Palazzo Legislativo che si è svolta a febbraio 2017. In conclusione, nel marzo 2017, l’Assemblea Legiferante della città di Buenos Aires ha approvato in seconda lettura la legge che stabilisce la riqualificazione del quartiere. Parallelamente, insieme alla difesa pubblica, i residenti continuano ad agire davanti al Tribunale Superiore di giustizia superiore l’andamento del processo di urbanizzazione.
7.2. “Mendoza”. Nel luglio 2008, la Corte Suprema di Giustizia della Nazione ha emesso una sentenza che ordina all’Autorità di Bacino di Matanza-Riachuelo (Acumar), allo Stato Nazionale, alla Città Autonoma di Buenos Aires ed alla Provincia di Buenos Aires il risanamento del bacino. Per portare a termine questo compito ha fissato come obiettivi quello di migliorare la qualità della vita degli abitanti e quello di ricostituire il suo ambiente (acqua, aria e suolo). Nel 2009, il giudice federale di Quilmes ha dato precisazioni sui mandati della Corte e ha ordinato all’Acumar di presentare un progetto di integrazione per il bacino prima del 31 dicembre dello stesso an-
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no. Ha disposto che siano programmate misure atte ad evitare nuovi insediamenti e procedere gradualmente all’urbanizzazione di quelli esistenti.
Il Riachuelo nei pressi de la Boca (foto del 2004). Nel dicembre 2009, Acumar ha presentato il piano globale di risanamento ambientale per il bacino di Matanza- (PISA). Il PISA ha stabilito diverse linee di azione. Una delle priorità era liberare l’invaso del fiume dalle Villas e dagli insediamenti informali e ricollocare altrove i suoi abitanti, ma dispose anche l’urbanizzazione o il trasferimento di altre Villas e insediamenti nel bacino. Il Ministero Pubblico della Difesa della Città Autonoma di Buenos Aires ha per parte sua presentato, davanti alla Corte Suprema di Giustizia, i ricorsi dei residenti colpiti dal provvedimento. Di conseguenza sta mantenendo un lavoro operativo e interdisciplinare sul territorio, assistendo a le persone nelle loro richieste, in assemblee di quartiere, promuovendo tavoli di lavoro dove pianificare il trasferimento dei residenti interessati e fornire strumenti formali per le rivendicazioni dei gruppi. Dopo dieci anni dalla sentenza della Corte, ci sono ancora famiglie senza ricollocazione e il Ministero Pubblico della Difesa continua ad assistere migliaia di famiglie della città di Buenos Aires, tutte le volte che riscontra che uno degli scopi finali della sentenza è il miglioramento della qualità della vita delle persone che abitano nel bacino.
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Raccolta di rifiuti dal Riachuelo (foto del 2004).
7.3. “Elefante bianco”. La causa dell’ex Centro di Salute Mataderos - che riguarda l’edificio denominato “Elefante Blanco”, situato nella Villa 15 di Villa Lugano -, ha dato vita a un processo giudiziario collettivo che coinvolge centinaia di famiglie che soffrono di gravi condizioni ambientali e abitative. Nel 2013, i difensori di prima istanza per il Contenzioso amministrativo hanno presentato una istanza di protezione giuridica chiedendo l’elaborazione di un piano di risanamento dell’edificio al fine di invertire le condizioni di vita critiche in cui si trovavano coloro che lo abitavano. Nel dicembre dello stesso anno, il giudice ordinò al governo di Buenos Aires di procedere in forma urgente, a realizzare una serie di opere per ripulire la proprietà, ed a presentare un piano di intervento integrale. La misura cautelare emessa dal tribunale, che di per sè è indubbiamente positiva, resta parzialmente neutralizzata dal non essere completata integralmente. Sebbene l’edificio sia stato finalmente disabitato, continua a rappresentare una sorgente di infezione contagiosa per l’intera area, e questo un problema va affrontato in modo efficace, al fine di fornire una soluzione definitiva. Dal Ministero Pubblico della Difesa è proseguito, per tutto il 2016, lo svolgimento di attività specifiche della misura cautelativa relazionate con la pulizia dell’edificio. Per altra parte, è stato avviato un lavoro con diverse famiglie che vivono nel Blocco 27 bis di Villa 15 poiché le loro case circondano e si appoggiano all’edificio dell’Elefante Bianco. Dall’ufficio del difensore civico sono state fatte diverse istanze giudiziarie, richiedendo che
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venissero prese misure per le suddette abitazioni, così come furono richieste singole richieste di protezione giuridica che richiedono politiche pubbliche per il ricollocamento di queste famiglie. Basandosi sulla possibile valorizzazione dell’edificio dell’Elefante Bianco, il governo ha offerto agli abitanti di La Manzana 27a il pagamento di un sussidio per l’alloggio in termini maggiorati, purché lascino i loro attuali alloggi. Di fronte a questo, la difesa incaricata sta portando avanti il processo. In questo contesto, il Ministero Pubblico della Difesa ha partecipato a riunioni con i funzionari per avere accesso alle informazioni sul processo in corso e sui piani per l’utilizzazione dell’edificio; ha partecipato alle assemblee di quartiere e ha monitorato la situazione di varie famiglie, con visite a casi particolari e l’accompagnamento di residenti con soluzioni abitative provvisorie. All’inizio del 2017, il governo ha annunciato pubblicamente un progetto per dare una nuova destinazione al complesso Elefante Blanco trasferendo lì il Ministero dell’Habitat e dello Sviluppo Umano. A fronte di questa iniziativa, la principale preoccupazione dei difensori civici è che, al di là della destinazione dell’edificio, la priorità resti quella di garantire diritti reali ed efficaci per le famiglie colpite. In questo spirito, le squadre del Pubblico Ministero della Difesa hanno condotto un’indagine esaustiva dello stato delle cose nella cosiddetta 27a Manzana, che serve come base per i tavoli di lavoro che attua la corte a partire da Agosto 2017. Contemporaneamente, il potere legislativo della città di Buenos Aires ha dato il via a un processo di riforma legislativa con l’obiettivo di cambiare la destinazione d’uso urbanistica dei suoli su cui è ubicato l’edificio Elefante Blanco, per renderlo congruo con il suddetto progetto di trasferimento del Ministero dell’Habitat e dello sviluppo umano. Il difensore incaricato è intervenuto nell’audizione pubblica tenutasi nella sede del Potere legislativo e ha spiegato la necessità che i progetti di sviluppo urbano siano realizzati nel quartiere con la priorità di tenere in considerazione la storia dei suoi abitanti ma anche il rispetto senza restrizioni dei loro diritti, in particolare , che sia garantito il diritto a un alloggio dignitoso, con una prospettiva globale di accesso a tutti i beni (salute, istruzione, trasporti, habitat adeguato) che consentirà loro di vivere in modo completo. Va tenuto presente che, purtroppo, la legge deliberata (legge n. 5.887) non ha contemplato questa prospettiva in tutti i suoi termini. Allo stato attuale, i residenti continuano a lottare per ricevere un trattamento equo e rispettoso.
7.4. “Vera”. Su richiesta dei difensori ufficiali si è discusso nell’ambito del caso “Vera, Lucas Abele” se in luoghi di libero transito a qualsiasi passante e senza un sospetto particolare su una persona, la polizia abbia il potere di privarla sia pur brevemente - della sua libertà di transitare e possa costringerla a mostrare i suoi documenti; o se, al contrario, il personale di polizia abbia bisogno di qualche ulteriore elemento di sospetto per agire. I fatti sono stati i seguenti: da “direttive superiori” ed a fronte di proteste generiche per presunta “insicurezza” in una zone, un funzionario della Divisione Roca della Soprintendenza federale dei trasporti della Polizia Federale Argentina ha organizzato nel Stazione ferroviaria “Costituzione” della Città, un “controllo della popolazione” per identificare le persone “a casaccio”. Durante la procedura, si è avvicinato a un giovane e ha chiesto che mostrasse il suo documento di identità. Questo, secondo la dichiarazione della polizia, ha iniziato a mostrare un certo nervosismo e in modo “spontaneo”, ha detto di possedere un’arma da fuoco. La procedura è culminata con una perquisizione, il sequestro dell’arma (che non era in grado di sparare) e l’arresto del giovane. Il difensore ufficiale nominato nel caso ha sollevato la nullità della procedura di polizia. Ha messo in discussione, in particolare, la facoltà del personale di 371
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polizia di effettuare un’identificazione casuale, poiché non esiste una norma legale che autorizzi tale attribuzione. Al tempo stesso ha fatto presente come era stata infranta la libertà di libera circolazione del giovane, che è garantita costituzionalmente. Il giudice di primo grado ha accettato la proposta di difesa e ha invalidato l’azione di polizia, una decisione che è stata confermata anche dall’Aula II della Camera di Appello in materia Penale, delle Infrazioni e delle Omissioni, che ha quindi sentenziato che il potere di impedire la libera circolazione – anche per un periodo di tempo minimo – e di chiedere l’esibizione dei propri documenti non sono poteri della polizia, se non vi è una ragione valida per procedere in questo modo. Al contrario, il 23 dicembre 2015 il Tribunale Superiore di Giustizia della Città di Buenos Aires ha deliberato che è nelle facoltà delle forze di sicurezza fermare le persone in strada per esigere la loro identificazione senza che esista come antecedente il sospetto oggettivo di un atto illecito Il Tribunale ha sostenuto, in questo senso, che si tratti di una competenza implicita della Polizia Federale, derivata dalla sua funzione di prevenzione della criminalità e che è insignificante la restrizione di libertà che il suo esercizio implica. Nell’aprile 2016, il Ministero Pubblico della Difesa ha presentato ricorso alla Corte Suprema di Giustizia della Nazione, per chiedere di riesaminare la decisione del Tribunale Superiore di Buenos Aires, ma su questo la Corte non si è ancora pronunciata.
7.5. “Ramòn Carrillo”. Il quartiere di Ramòn Carrillo è stato creato in seguito al trasferimento delle famiglie che vivevano in condizioni abitative critiche nell’Albergo Warnes negli anni 80. Sebbene sia uno dei complessi abitativi costruiti più recentemente, il quartiere è uno dei più colpiti in termini di decadimento delle infrastrutture e di scadente manutenzione. Nel 2004, la legge n. 1.333 ha dichiarato l’emergenza infrastrutturale nel quartiere di Ramòn Carrillo. Tale norma è stata prorogata per sette volte (dal 2004 al 2011) ed allo stato ha perso la sua vigenza. In parallelo ed a fronte del fallimento della legge n ° 1.333, i residenti del quartiere hanno presentato nel 2005 un procedimento di protezione legale affinché si provveda all’adeguamento delle infrastrutture del quartiere mirando ad ottenere il corretto funzionamento delle reti di smaltimento fognario, di deflusso delle acque meteoriche della rete sotterranea di distribuzione di energia elettrica, della rete sotterranea di distribuzione del gas naturale, della ripavimentazione, della costruzione di marciapiedi, della rete di illuminazione pubblica, e quant’altro. Nel 2010, il tribunale di primo grado ha dato origine all’azione presentata dai residenti, che nel 2012 è stata confermata dall’Aula II. Il difensore ufficiale ed il “Programma Habitat, diritto alla città e approccio territoriale” n. 2 del Ministero Pubblico della Difesa realizzano regolarmente riunioni con i residenti per informarli sullo stato e sui progressi della causa, e distribuire loro la documentazione sul processo Si tengono anche incontri specifici con gli attori della causa per definire la strategia giudiziaria. A fronte delle mancate realizzazioni di quanto previsto da parte del governo della città, per tutto il 2016, il difensore ha promosso l’esecuzione della sentenza da parte di terzi. Questa richiesta è stata accettata dal giudice, che ha designato la Facoltà di Agraria dell’Università di Buenos Aires per la preparazione degli studi sui suoli previsti. Rispetto agli altri punti della decisione giudiziaria, il difensore ha informato che i consulenti prescelti erano la Facoltà di Farmacia e Biochimica e la Cattedra Libera del Progetto Sociale della Facoltà di Architettura dell’Università di Buenos Aires. In questo ambito, a partire da luglio 2016, da parte del Ministero pubblico della Difesa si è proceduto ad accompagnare i professionisti dell’Università di Buenos Aires, tanto della Facoltà di Farmacia e Biochimica 372
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che della Facoltà di Design e Urbanistica, per consentirgli di eseguire i rapporti sul terreno e sull’acqua che erano stati richiesti nel dossier e la preparazione di un piano di lavoro preliminare che potesse contribuire al piano di lavoro richiesto dalla sentenza al Governo della città. A metà 2016, l’Istituto Case Popolari di Buenos Aires ha riferito in una riunione di quartiere che avrebbe iniziato a svolgere i lavori non ancora realizzati nel quartiere di Ramòn Carrillo. In funzione di questi, e per direttiva della difesa di primo grado, nel corso degli ultimi mesi del 2016 sono iniziati i lavori per la costruzione di spazi di partecipazione che permettono ai residenti di informarsi e commentare sulle azioni che il governo prevede di effettuare, e a sua volta garantire che lo sviluppo delle opere sia conforme al livello almeno minimo di quanto richiesto nella decisione giudiziaria.
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