Il diritto penale della globalizzazione 3/2019

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3 • luglio-settembre 2019

Rivista trimestrale 3 • luglio-settembre 2019

Il diritto penale

globalizzazione della

Il diritto penale della globalizzazione

Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini

In evidenza: Il Paradosso di Montevideo. Le misure alternative alla detenzione come strumento di lotta al crimine organizzato Giovanni Tartaglia Polcini Note in tema di gravità del crimine nella giustizia penale internazionale Cesare Augusto Placanica Convenzione sulla lotta contro la manipolazione delle competizioni sportive approvata dal Consiglio d’Europa il 18 settembre 2014. L’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione con la Legge n.39 del 3 maggio 2019 manipolazioni sportive Nikita Micieli de Biase Consolidamento della cooperazione giudiziaria EUROJUST nuovo registro giudiziario antiterrorismo Marco Petillo, Rubinia Proli

ISSN 2532-8433



Indice In evidenza A cura di Giovanni Tartaglia Polcini, Il Paradosso di Montevideo. Le misure alternative alla detenzione come strumento di lotta al crimine organizzato.............................................................p. 255

Editoriale A cura di Adelmo Manna e Andrea

de

Lia, Convinzioni etico-religiose e principio di laicità.............» 259

Saggi Cesare Augusto Placanica, Note in tema di gravità del crimine nella giustizia penale internazionale.....................................................................................................................................» 267 Marilisa De Nigris, La disciplina del recepimento delle norme internazionali nel sistema italiano..» 275 Pierluigi Guercia, Prove tecniche di trasmissione di populismo penale: l’ennesima riforma dello scambio elettorale politico-mafioso....................................................................................................» 297

Giurisprudenza Giurisprudenza nazionale Cass. pen., sez. V, sent. 36143/2019 con nota di Antonio De Lucia, Innegabile per la SC la legittima difesa anche nel caso di azione imprevedibile e sproporzionata........................................» 317

Giurisprudenza internazionale Antonio De Lucia, La Corte internazionale di giustizia si pronuncia sulla Convenzione di Vienna..................................................................................................................................................» 319

Giurisprudenza europea Marilisa De Nigris, Criticità di alcuni aspetti del sistema carcerario italiano e necessario superamento dell’ergastolo ostativo.....................................................................................................» 321

Osservatorio Osservatorio normativo Andrea Racca, La riforma al reato di scambio elettorale politico-mafioso..........................................» 325

Osservatorio internazionale Nikita Micieli de Biase, Convenzione sulla lotta contro la manipolazione delle competizioni sportive approvata dal Consiglio d’Europa il 18 settembre 2014. L’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione con la Legge n.39 del 3 maggio 2019 manipolazioni sportive...........» 331

Osservatorio europeo Marco Petillo, Rubinia Proli, Eurojust: l’evoluzione del sistema europeo antiterrorismo...................» 333

Osservatorio nazionale Elena Valguarnera, Codice antimafia. Tra misure di prevenzione e procedure concorsuali.............» 339


Indice

Focus Francesca Rodella, L’irto cammino delle competenze ancillari di Eppo: uno sguardo d’insieme......» 345

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In

evidenza

Il Paradosso di Montevideo: le misure alternative alla detenzione come strumento di lotta al crimine organizzato Contrastare il sovraffollamento carcerario costituisce oltre che un mezzo di tutela dei diritti umani, uno strumento indispensabile per evitare l’infiltrazione del crimine organizzato nelle carceri che, rese più efficienti, consentono di dedicare circuiti penitenziari speciali ai più pericolosi detenuti, evitando reclutamento, proselitismo e che i centri penali si trasformino in scuole del crimine. Un sistema sovraffollato e privo di classificazione impedisce il funzionamento di istituti giuridici come quello previsto dall’Art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano ed ostacola il perseguimento di concrete finalità rieducative della pena (art.27 comm. 3 della Costituzione).

Seminario Intercontinentale “Misure alternative alla detenzione” – Montevideo 19-20 settembre 2019.


In evidenza

Segnatamente, molti Stati registrano un sovraffollamento carcerario che a volte raggiunge livelli allarmanti. Il sovraffollamento costituisce di per sé un male per la società, in quanto oltre a ledere la dignità umana delle persone private della libertà, impedisce o rende di difficile attuazione la corretta esecuzione dei programmi di reinserimento sociale, la separazione fisica tra detenuti ritenuti pericolosi e delinquenti di minore gravità o comuni. In particolare, il sovraffollamento ostacola il processo di identificazione dei profili dei detenuti, la loro classificazione, la gestione e la diversificazione della popolazione carceraria in base ai vari livelli di pericolo, ed impedisce – di conseguenza – una corretta organizzazione di un regime detentivo differenziato. Numerosi studi internazionali sottolineano che il carcere non può essere considerato come l’unica soluzione per affrontare la delinquenza e dimostrano che spesso esso diventa una vera e propria “scuola del crimine”, o come pure si legge in letteratura, un’università del delitto, favorendo la proliferazione di gruppi criminali che agiscono dalle prigioni, all’interno e all’esterno delle mura carcerarie, mettendo in pericolo la sicurezza dei detenuti e della società nel suo complesso. Diverse sono le organizzazioni criminali che sono sorte e si sono rafforzate all’interno del carcere facendo leva sulle debolezze del sistema dovuto all’elevato sovraffollamento. Per questo motivo uno dei compiti principali da assolvere è costituito dalla necessità di supportare la previsione e l’attuazione di misure alternative alla privazione della libertà, considerandole fondamentali per: A. ridurre significativamente il problema del sovraffollamento (decongestionare i sistemi carcerari); B. concentrare l’attenzione sulle persone private della libertà personale socialmente più pericolose, che possono potenzialmente reclutare i propri affiliati all’interno del carcere. Per queste ragioni, si deve considerare che le misure alternative non costituiscono assolutamente uno sconto di pena per le Persone Private della Libertà bensì, da questo punto di vista, uno strumento essenziale nella lotta alla criminalità organizzata. In sintesi, il problema del sovraffollamento delle carceri comporta tre conseguenze principali: 1. Incide sui Diritti Umani. Tenendo conto dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il sovraffollamento mette a repentaglio il raggiungimento di molti suoi obiettivi e non solo in quelli riportati nel goal n. 16, bensì anche di quelli presenti nei n.1, 2, 3, 5, 6, 8, e 10. Nessuno può negare che il sovraffollamento carcerario produca conseguenze negative sulla povertà, benessere, istruzione, uguaglianza di genere, igiene, lavoro dignitoso, riduzione delle disuguaglianze sociali. 2. Impedisce un impegno efficace per il recupero e reinserimento della Persona Privata della Libertà, con conseguenze dirette sulla sicurezza dei cittadini, perché i detenuti che tornano in libertà dopo un’esperienza carceraria sono spesso molto più pericolosi rispetto a quando sono entrati in prigione. 3. Contribuisce a creare le condizioni per favorire l’infiltrazione di gruppi criminali nelle carceri che diventano scuole del crimine, università del crimine, in cui gli appartenenti alle maras (Barrio 18, Salvatrucha, pandillas, gangs, cartelli, gruppi criminali transnazionali come il Primeiro Comando da Capital [PCC]) praticano proselitismo, reclutamento, radicalizzazione e formazione di detenuti comuni o sottoposti alla prima condanna della loro vita, che ritornano alla libertà come nuovi soldati al servizio delle mafie.

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Il Paradosso di Montevideo: le misure alternative alla detenzione come strumento di lotta al crimine organizzato

In alcuni casi, le prigioni si trasformano in veri e propri quartieri generali dei gruppi criminali: dal carcere vengono commissionati reati gravi come i traffici illeciti, le tratte, omicidi ed estorsioni. Ciò è favorito dalla mancanza di controllo dovuto all’elevato tasso di sovraffollamento, dai contatti con i detenuti che ritornano in libertà e dall’incapacità dei sistemi penitenziari di impedire le comunicazioni all’interno del carcere e dal carcere verso l’esterno. Giovanni Tartaglia Polcini

Seminario Intercontinentale “Misure alternative alla detenzione” – Montevideo 19,20 settembre 2019

Quali sono le possibili risposte a queste sfide? 1. In primo luogo, occorre lavorare per un cambiamento di scenario che dovrebbe essere sostenuto guardando al sistema giudiziario penale nel suo complesso per decongestionare il numero dei detenuti nelle carceri. 2. Allo stesso tempo, le misure alternative alla detenzione dovrebbero essere affrontate come una tema trasversale che necessita di una visione olistica, di un forte coordinamento e di un cambiamento culturale condiviso tra tutti gli attori coinvolti nel problema, anche attraverso la comunicazione per favorirne l’implementazione. Grande importanza sul piano della comunicazione, infine, per favorire il successo dell’implementazione delle misure alternative, va conferita al tema dei costi economici della deten-

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In evidenza

zione, che sono risultati statisticamente superiori a quelli che si sopportano a livello istituzionale in caso di misure alternative alla detenzione. Nel contempo, è stato evidenziato come il tasso di recidiva per gli ammessi alle misure alternative sia di molto inferiore rispetto ai detenuti intramurari. A cura di Giovanni Tartaglia Polcini

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Editoriale

Convinzioni etico-religiose e principio di laicità*

Sommario: 1. Introduzione. – 2. La sentenza della Corte costituzionale sul “caso Tarantini”. – 3. In particolare sul favoreggiamento della prostituzione, la sua endemica indeterminatezza ed il rimedio offerto dal principio di offensività. – 4. Conclusioni, con riferimento al “caso Tarantini”. – 5. Riflessioni conclusive, con particolare riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale sul caso Cappato.

1. Introduzione. Il principio di laicità, che costituzionalmente deriva in particolare dagli artt. 3, 19 e 21 Cost., non costituisce a nostro avviso soltanto un principio e non già un carattere, quindi, giustiziabile, ma possiede un significato assai più profondo perché contrassegna l’indipendenza dello Stato-Nazione, soprattutto nel nostro Paese, rispetto alle diverse concezioni che invece caratterizzavano gli Stati pre-unitari, tra i quali, in particolare, lo Stato Pontificio1. Anche dopo l’Unità d’Italia, il principio di laicità ha sempre dovuto combattere per affermarsi, in quanto si è dovuto contrapporre soprattutto alle convinzioni etico-religiose provenienti dal Vaticano. Uno degli ultimi “conflitti” tra Stato e Chiesa, è a nostro giudizio rintracciabile in due pronunce della Corte costituzionale. L’una attinente al c.d. “caso Cappato”, e l’altra, su cui si soffermerà in particolare la nostra attenzione, quella relativa al c.d. “caso Tarantini”, nel quale la Consulta ha rigettato la questione di legittimità delle figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, con riferimento alla questione delle c.d. “escort”. Iniziando dal primo caso, che ha visto protagonista la vicenda del “DJ Fabo”, che in una situazione patologica di tetraplegia, ed avendo già deciso, sua sponte, di recarsi in una clinica svizzera per praticare l’aiuto al suicidio, si fece accompagnare dal radicale Marco Cappato per poter mettere in pratica la sua volontà, ciò che infatti fece. Il Cappato si autodenunciò all’Autorità giudiziaria di Milano, che in un primo tempo intravvide la ricorrenza sia dell’istigazione sia dell’aiuto al suicidio, anche se, archiviata l’ipotesi dell’istigazione al suicidio, dichiarò non manifestamente infondata e non irrilevante rispetto al procedimento in corso la questione di legittimità dell’ipotesi di aiuto al suicidio2. La Corte costituzionale, con un’ordinanza invero “atipica”, in quanto concretizzantesi in un non liquet, rinviò la questione al Parlamento perché entro il 24 settembre 2019 intervenisse a

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L’editoriale è frutto della riflessione comune degli Autori. In ogni caso, i paragrafi 1-2-5 sono da attribuire a Manna, mentre i paragrafi 3-4 a De Lia. 1 Per una disamina approfondita del pensiero statalista attribuibile a Machiavelli e Guicciardini, ma che si affermò solo dopo almeno tre secoli, cfr. ora Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia – resoconto di una disfatta, Torino, 2019. 2 Sia consentito in argomento il rinvio a Manna, Artt. 579-580 – Omicidio del consenziente ed istigazione o aiuto al suicidio: l’eutanasia, in Id. (a cura di), Reati contro la persona, Torino, 2007, pp. 40 ss. e gli AA. ivi citati.


Editoriale

disciplinare la materia3. Nell’ordinanza stessa, però, la Corte costituzionale ebbe cura di fornire importanti suggerimenti al Legislatore, così mostrando una posizione, secondo alcuni interpreti, orientata all’accoglimento della questione sollevata in via incidentale4. A nostro sommesso avviso questa convinzione circa il futuro esito del giudizio innanzi alla Consulta è tutt’altro che scontato, tanto è vero che sembra profilarsi anche una sorta di “terza via”, nel senso che non si può escludere a priori un ulteriore rinvio alle Camere, tenendo conto del frattempo mutato assetto governativo-parlamentare. Ciò che tuttavia qui ci preme in particolare rilevare è il recente intervento del Presidente della CEI, divulgato attraverso i mezzi di comunicazione di massa, in cui si è negato da parte di quest’ultimo il diritto a morire, in quanto si è ulteriormente confermato come il bene della vita sia un dono divino, in quanto tale non disponibile dall’uomo, anche se in condizione-limite quali quelle in cui versava il DJ-Fabo.

2. La sentenza della Corte costituzionale sul “caso Tarantini”. Con la sentenza n. 141 del 6 marzo 20195, la Corte costituzionale ha invece rigettato, per infondatezza, le questioni di legittimità costituzionale delle fattispecie di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione disciplinate dall’art. 3 comma 1 nn. 4 e 8 della l. 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. “legge Merlin”), sollevate dalla Corte d’appello di Bari, a differenza della Corte d’appello di Milano che, invece, in una vicenda “parallela”, ha ritenuto di non dover proporre alcuna questione di legittimità. L’orientamento della Corte costituzionale si basa essenzialmente su due capisaldi. Il primo riguarda la negazione della libertà di autodeterminazione delle escort, giacché la questione era limitata a questi ultimi soggetti, in quanto la Corte ha ritenuto che l’esercizio della prostituzione, anche se effettuato ai più alti livelli, non possa mai dirsi effettivamente libero, in quanto condizionato sia da fattori endogeni che esogeni. Già su questo rilievo sia consentito manifestare notevoli riserve, in quanto a ben considerare qualunque comportamento umano è la sommatoria, seppur non aritmetica ma algebrica6, di fattori interni ed esterni; ma proprio il fatto che trattasi di una somma algebrica evidenzia come residui in capo ad ogni soggetto una “quota” di libertà del volere che, se fosse negata, comporterebbe il venir meno addirittura del fondamento stesso del diritto, che infatti si basa

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Corte cost., ord. 24 ottobre 2018, n. 207: in argomento, da ultimo, ed esaurientemente vd. Donini, Il caso Fabo/ Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione non penalistica della Corte costituzionale di fronte ad una trilogia inevitabile, in Giur. Cost., 2018, pp. 2855 ss. 4 Così ad es. le relazioni di G. D’Alessandro e C. Cupelli al recente Convegno organizzato dalla Camera Penale di Roma, e svoltosi il 13 settembre 2019 a Roma, dal titolo “Aiuto al suicidio e rilievo costituzionale della dignità nella morte: la disobbedienza civile di Marco Cappato in attesa della Consulta”. 5 In Guida al dir., 17 agosto 2019, nn. 35-36, 40 ss., con nota di Natalini, Lettura sociologica del fenomeno di stampo moralistico, in ibid. 50 ss; in argomento vd. anche Cadoppi, L’incostituzionalità di alcune ipotesi della legge Merlin ed i rimedi interpretativi ipotizzabili, in www.penalecontemporaneo.it, 2018, n. 18, 218-219; nonché De Lia, Le figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione al banco di prova della Consulta. Un primo commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019, in Forum di Quaderni Costituzionali, 20 giugno 2019. 6 Sia consentito sul punto il rinvio a Manna, L’imputabilità ed i nuovi modelli di sanzione – Dalle “finzioni giuridiche” alla “terapia sociale”, Torino, 1997, spec. 10 ss.

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(come in particolare avviene nel diritto penale) sulla funzione di orientamento culturale della norma giuridica7. L’argomento utilizzato dalla Corte costituzionale, quindi, rischia, come suole dirsi, di “provare troppo”, e quindi per le ragioni dinanzi esposte non pare tale da negare la questione relativa all’art. 2 della Costituzione. La Corte costituzionale medesima, tuttavia, ed in particolare il redattore della sentenza, il Prof. Modugno, utilizza un’acuta argomentazione giuridica, per spostare l’asse dall’art. 2 all’art. 41, comma 2 Cost. Il ragionamento si basa infatti sul fatto che le escort sarebbero imprenditrici del proprio corpo, e quindi nei loro confronti, anche perché sono soggette a tassazione, opererebbe appunto non già l’art. 41, comma 2 Cost., che certo prevede la libertà di iniziativa economico-private, ma pone a tale libertà alcuni limiti nel secondo comma, tra i quali quello che qui rileva è il fatto che l’impresa stessa non debba confliggere con la dignità umana. Questo, a ben considerare, è il vero argomento fondante il rigetto, perché qui evidentemente non si è trattato della problematica, a suo tempo sviluppata relativa alla distinzione tra dignità oggettiva e soggettiva8, bensì si è inserita la problematica nell’ambito dei rapporti economico-sociali e quindi ci si è posto il fondamentale quesito se la vendita imprenditoriale del proprio corpo contrasti o no con la dignità umana. In argomento, la Consulta ha ritenuto la sussistenza di un vulnus al concetto di dignità umana, ma, a nostro giudizio, facendo appunto prevalere una concezione etico-sociale e financo religiosa, che tuttavia non corrisponde alla maggioranza delle convinzioni morali del popolo italiano, che invece, dai dati statistici, si ricava come siano largamente favorevoli addirittura alla riapertura delle c.d. “Case chiuse”. Orbene, non vogliamo noi certo essere paladini di un ritorno ad un passato che ledeva fortemente la dignità della donna, ma nel contempo non possiamo non rilevare come non solo la legge Merlin ha generato una prostituzione da strada che certamente ha nociuto alla donna come persona, ma soprattutto e semmai interpretando la communis opinio riteniamo preferibile il modello c.d. “regolamentare” ove cioè sia consentita alle prostitute di associarsi in cooperative per poter essere autonomamente imprenditrici di se stesse e del proprio corpo, come in particolare avviene in taluni paesi del nord-Europa. Con ciò vogliamo intendere come esiste in realtà una pluralità di concezioni morali circa la vendita del proprio corpo ed il rapporto con la dignità umana, per cui si ha la netta sensazione che la Corte costituzionale abbia sposato una concezione dell’impresa sessuale più a tinte religiose che di tipo laico e secolare. Ne abbiamo una riprova, non a caso, in ciò che di recente ha affermato pubblicamente il Papa Francesco che, infatti, ha stigmatizzato e condannato moralmente perché contraria alla

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Cfr. sul punto, con particolare riguardo alle neuroscienze, che infatti tranne le posizioni più estreme non negano la libertà del volere, in particolare Ronco, Sviluppi delle neuroscienze e libertà del volere: un commiato o una riscoperta, in Id., Scritti patavini, II, Torino, 2017, 1709 ss. 8 Su cui Cadoppi, Dignità, prostituzione e diritto penale, in www.archiviopenale.it, 16 gennaio 2019; nonché Lasalvia, Libero sì, ma non a pagamento. Legge Merlin, sesso e diritto penale, in ibid. 11 marzo 2019; De Lia, “Nessun aiuto a Bocca di Rosa”: il monito della Cassazione ed il punto sulla rilevanza penale degli annunci “A.A.A.” agli effetti della legge Merlin, in Cass. Pen., 2018, 326 ss; nonché volendo anche Manna, La legge Merlin e i diritti fondamentali della persona: la rilevanza penale della condotta di favoreggiamento, in Cadoppi (a cura di), Prostituzione e diritto penale. Problemi e prospettive, Roma, 2014, 316 ss.

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religione cattolica, ogni forma di prostituzione non tanto perché secondo la dottrina cattolica la sessualità è finalizzata alla procreazione, quanto e soprattutto perché la vendita del proprio corpo è stata ritenuta anche dal Santo Padre, non a caso, un’attività contraria alla dignità della persona. Se quindi poniamo in rapporto quanto affermato dalle più alte gerarchie cattoliche non solo in rapporto al “caso Cappato” ma anche al “caso Tarantini”, ne traiamo l’impressione di interventi dello Stato della Chiesa in vicende di notevole importanza etico-sociale che, tuttavia, ricadono inevitabilmente sulla giurisdizione di uno Stato indipendente come quello italiano, con il rischio di un condizionare in maniera non irrilevante addirittura il più alto consesso giurisprudenziale del nostro Paese.

3. In particolare sul favoreggiamento della prostituzione, la sua endemica indeterminatezza ed il rimedio offerto dal principio di offensività. Uno dei problemi più annosi e preoccupanti che erano stati posti all’attenzione della Corte costituzionale era l’endemica indeterminatezza della condotta di favoreggiamento della prostituzione, su cui non si è mai riusciti a trovare una delimitazione accettabile, tanto che parecchi anni addietro addirittura si era manifestato un orientamento presso la Procura della Repubblica di Perugia che contestava il reato de quo anche al cliente che dopo aver consumato il rapporto sessuale con la prostituta la riportava con la sua auto sul “luogo di lavoro”. La conseguenza era anche quella di sequestrare l’auto al cliente, in quanto quest’ultima era considerata mezzo per l’esecuzione del delitto, e quindi sovente giungeva a casa del cliente medesimo il decreto di sequestro, che ovviamente anche i familiari, e l’eventuale moglie, potevano visionare; ciò comportò addirittura alcuni casi di suicidio, tanto che proprio a causa di questi eventi tragici e luttuosi, fortunatamente il Tribunale del riesame di Perugia non seguì la strada intrapresa dalla Procura del reato di favoreggiamento della prostituzione. Ciò però in linea teorica non impedisce che fenomeni analoghi non accadano di nuovo a livello giurisprudenziale, proprio a causa della praticamente totale carenza di confini della figura criminosa in disamina. Trattavasi quindi di una questione di notevole rilevanza anche pratica, ma la Corte costituzionale ha ritenuto di risolverla attraverso il ricorso al principio di offensività9. Orbene, si deve tener conto in primo luogo che la Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 333 del 199110 ha sposato una concezione “debole” dell’offensività stessa, facendola sostanzialmente coincidere con la ragionevolezza, nel senso cioè che in particolare le figure di pericolo astratto e/o presunto sarebbero costituzionalmente legittime, laddove incontrassero una precisa ratio legis. In secondo luogo, e conseguentemente, il principio di offensività residua però non solo come (seppur flebile) monito al legislatore, ma anche come criterio interpretativo, ed è questo il profilo che intendiamo ora sviluppare in ordine al favoreggiamento della prostituzione.

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Sul principio in oggetto cfr. per tutti MANES, Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005. Da ultimo in argomento, sia consentito il rinvio a De Lia, “Ossi di seppia?”. Appunti sul principio di offensività, in www.archiviopenale.it, 2019. 10

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Siamo infatti dell’avviso che il richiamo in subiecta materia del principio di offensività come canone ermeneutico sia veramente di scarso ausilio per l’interprete, e soprattutto rimandi inevitabilmente alla discrezionalità dell’organo giudiziario e soprattutto alla sua “concezione del mondo”, in quanto quest’ultimo dovrà, caso per caso, verificare se la condotta che si assume di favoreggiamento della prostituzione incida o no sulla dignità umana, quale bene giuridico sotteso al richiamo all’art. 41, comma 2, Cost. Non v’è chi non veda come anche in questa particolare e assai ridotta prospettiva il principio di offensività risulti di ben scarsa utilità in rapporto alla funzione assegnata ad esso dalla Corte costituzionale in rapporto al delitto di favoreggiamento della prostituzione, che invece avrebbe meritato un intervento assai più demolitivo, tuttavia impensabile in una Corte costituzionale ove evidentemente sono prevalse anche in quest’ultimo caso determinate concezioni etico-religiose, rispetto al principio di laicità.

4. Conclusioni, con riferimento al “caso Tarantini”. Da quanto sopra rilevato, emerge, soprattutto in relazione al “caso Tarantini”, perché in rapporto al “caso Cappato” si deve attendere l’ulteriore intervento della Corte costituzionale, la pronuncia di rigetto della Consulta non appare dovuta al “classico” horror vacui, che in genere frena come sappiamo gli interventi ablativi della Corte costituzionale medesima, soprattutto in rapporto al diritto penale sostantivo, bensì il timore di una conseguente “legittimazione” non solo giuridica, ma anche etico-sociale, della vendita del proprio corpo, seppur esercitata in forma d’impresa. Ciò però significa far prevalere una determinata concezione etico-religiosa rispetto al principio di laicità11, che infatti di per sé non può non comportare l’esistenza di una pluralità, anche antitetica, di “concezioni del mondo”12, che però a ben considerare, proprio in rapporto alle disposizioni compendiate nella Carta sopra richiamate, dovrebbero essere trattate come pari in dignità sociale e non, quindi, secondo una gerarchia fondata su di una prevalenza di una concezione piuttosto che un’altra, ma non a causa di motivazioni di carattere razionale, bensì in base a quello che si ritiene essere il “sano sentimento” del Popolo Italiano.

5. Riflessioni conclusive, con particolare riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale sul caso Cappato. La Corte costituzionale dal 24 settembre c.a. si è riunita in Camera di Consiglio per esaminare la legittimità costituzionale della punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. Il 25 settembre c.a. è stato diramato dall’Ufficio Stampa della stessa Corte costituzionale un comunicato, che enuncia sostanzialmente il decisum della Corte, in attesa del deposito della sentenza. La Corte costituzionale, tenuto conto anche della precedente ordinan-

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Sul tema del rapporto tra principio di laicità dello Stato e diritto penale cfr. Paliero, Laicità penale alla sfida del “secolo delle paure”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2016, 1154 ss; Pulitanò, Laicità e diritto penale, in ibid. 2006, 55 ss. 12 Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto: fondamenti di razionalità nella prassi decisionale del giudice, Napoli, 1986.

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za n. 207 del 2018, che aveva rinviato la questione al Parlamento ma enunciando importanti criteri per quanto attiene alla questione della liceità dell’aiuto al suicidio, ha scelto la strada da noi ritenuta più consona ai principi costituzionali, cioè la non punibilità ai sensi dell’art. 580 del codice penale dell’agevolazione all’esecuzione del proposito di suicidio. Ciò però, secondo la Corte, può avvenire solo a determinate condizioni, nel senso che: a) il proposito di suicidio deve essersi autonomamente e liberamente formato; b) il paziente deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) deve essere affetto da una patologia irreversibile; d) tale patologia deve essere fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; e) ma il paziente stesso deve risultare pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In attesa di un necessario intervento del legislatore la Corte ha, pertanto, subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua, ex artt. 1 e 2, L. 219/2017, nonché alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, sentito il parere del Comitato etico territorialmente competente. La Corte sottolinea infine che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso. Va da sé, infine, che rispetto alle condotte già realizzate dovrà essere il giudice a valutare la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate13. Dal comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, potrebbe apparire, nonché dal contesto del comunicato medesimo, che la Corte, che ovviamente non può che dichiarare soltanto non punibile l’aiuto al suicidio, senza quindi prendere posizione a livello dogmatico sulla ratio della non punibilità, tuttavia avendo indicato numerose condizioni solo in presenza delle quali il soggetto che ha aiutato altri al suicidio non risulta punibile, farebbe pensare che la Corte si sia avvicinata alla, o che comunque la ratio della non punibilità risieda nella c.d. “giustificazione procedimentale”14. Tale tesi, seppure autorevolmente sostenuta, tuttavia non ha mai convinto completamente perché rischia di rimanere sostanzialmente di carattere descrittivo, senza cioè un approfondimento della ragione che possa avere indotto in questo caso la Corte costituzionale a dichiarare legittima la punizione dell’aiuto al suicidio. A nostro avviso la Corte costituzionale appare essersi ispirata in particolare alla legge olandese ed alla legge belga in tema di eutanasia, giacché anche in tali leggi la ragione della liceità questa volta addirittura dell’eutanasia attiva, risiede in condizioni pressoché analoghe, cioè a dire: 1) una patologia di carattere allo stato irreversibile; 2) una sofferenza fisica o psichica non altrimenti lenibile; 3) il consenso valido ed effettivo del paziente15. Sia facendo riferimento alle caratteristiche delle leggi indicate che alla pronuncia della Corte costituzionale ci sembra appropriato il riferimento allo stato di necessità, in quanto colui che aiuta al suicidio non appare punibile proprio perché ha come obiettivo quello di salvare

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Cfr. Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 25 settembre 2019: in attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita. 14 In argomento, in particolare nella letteratura tedesca, Hassemer, Prozedurale Rechfertigungen, in Festcherift für G. Mahrenholz, 1994, 731. 15 Sia di nuovo consentito il rinvio a Manna, Art. 579-580, etc. cit., spec. 58 ss., per quanto riguarda non solo la legge olandese e la legge belga ma anche leggi extraeuropee come ad esempio quella dell’Oregon del 1994 e quella del 1995 del territorio del Nord dell’Australia.

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altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, certamente a colui che presta aiuto non volontariamente causato, né per le sofferenze estreme in cui versa il paziente, altrimenti evitabile e proprio l’incurabilità della malattia rende il fatto proporzionato al pericolo. Pur tuttavia potrebbe apparire in un certo senso eterodosso applicare lo stato di necessità addirittura ad un’ipotesi di non punibilità di aiuto al suicidio ma, a nostro avviso, lo stato di necessità qui va inteso non già come giustificante bensì come scusante, che fa cioè riferimento ad un conflitto di doveri tra quello di salvare comunque la vita al paziente, tipica del giuramento di Ippocrate e quello altrettanto valido e cogente di eliminare sofferenze altrimenti non sopportabili dal soggetto stesso16. Il problema, però, è che nella legge olandese ed in quella belga in particolare trattandosi di eutanasia attiva è competente il medico nell’ambito del quale si pone quel conflitto di doveri tra il giuramento di Ippocrate e l’obbligo comunque di alleviare le sofferenze, mentre dal comunicato stampa della Corte costituzionale italiana sembrerebbe che non sia appannaggio esclusivamente del personale sanitario l’aiuto al suicidio, pur se non può non rilevarsi come proprio la Corte costituzionale, con riferimento alle legge 219/2017, richiede la verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del Comitato etico territorialmente competente. Ciò significa che in sintesi nonostante le apparenze anche secondo l’ottica della Corte costituzionale pare emergere come l’aiuto al suicidio per risultare non punibile, deve essere effettuato in un ambito sanitario, addirittura con il parere positivo del Comitato etico territorialmente competente, per cui sembra proprio valere anche nel caso italiano la tesi del conflitto di doveri peraltro sostenuta dallo stesso Francesco Viganò attualmente giudice della Corte costituzionale. Tale tesi tuttavia non appare escludere, proprio come si evince dal caso concreto sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale, che possa anche essere un cittadino comune e dunque non appartenente all’ambito sanitario, ad aiutare il soggetto determinatosi già al suicidio. A nostro avviso anche quest’ultima ipotesi, per evidenti questioni attinenti alla uguaglianzaragionevolezza, non possono non rientrare nell’alveo della non punibilità, sia perché siamo sempre di fronte ai requisiti indicati dalla Corte che fanno propendere per la sussistenza dell’art. 54 c.p., almeno a nostro giudizio, sia perché, anche diversamente opinando, i requisiti di liceità o di non punibilità stabiliti dalla Corte costituzionale devono valere sia per il personale sanitario che eventualmente anche per coloro che, pur non appartenendo a tale ambito, comunque contribuiscono con il loro ausilio al suicidio della persona già autonomamente convinta di ciò. Va da sé, però, che proprio dal “dispositivo” della Corte costituzionale emerge comunque una sorta di “cordone sanitario”, che non solo appare quello più adatto a preparare il terreno per l’aiuto clinico al suicidio, come infatti avviene in Svizzera ed anche in Germania, ma anche perché detto cordone sanitario possiede pure il fondamentale compito di verifica della sussistenza delle modalità di esecuzione, che devono avvenire proprio da parte di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale. Sussiste tuttavia un profilo che, almeno a nostro giudizio, non convince del tutto ed è il riferimento al requisito del paziente “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”.

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Per tale prospettiva, cfr., in particolare, Viganò, Stato di necessità e conflitto di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000; nonché già Baratta, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienza. Contributo alla filosofia e alla critica del diritto penale, Milano, 1963.

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Orbene, se si comprende che con tale riferimento la Corte costituzionale si mostra evidentemente condizionata dalle caratteristiche del caso concreto sottoposto alla sua attenzione, a livello giuridico, tuttavia, questo ulteriore elemento -che infatti non ritroviamo né nella legge olandese, né in quella belga, né in quella dell’Oregon, né, tanto meno in quella dell’Australia del Nord- ci sembra francamente dar luogo ad un requisito che restringe irragionevolmente la non punibilità dell’aiuto al suicidio, perché fa rientrare nel penalmente rilevante l’aiuto fornito ad un paziente comunque affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche che reputa intollerabili, ma ancora pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In altri termini non si riesce davvero a comprendere perché la non punibilità sia per forza legata anche all’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, giacché, ad esempio, se si tratta di un soggetto con un tumore al quarto stadio, cioè praticamente inoperabile e quindi che soffre fisicamente o psicologicamente in modo intollerabile e che mostra la volontà libera e consapevole di essere aiutato al suicidio, non possa ritenersi non punibile l’aiuto fornito anche a tale ultimo tipo di malato, pur se non è ancora tenuto in vita e forse potrebbe anche non esserlo mai, dato il tipo di patologia di cui soffre, da trattamenti di sostegno vitale. Fra l’altro un requisito ulteriore di tal fatta può anche, non solo in teoria, ridurre lo spazio di libertà posseduto dal paziente in ordine alla decisione consapevole di suicidarsi, per cui appare in definitiva un elemento ulteriore di carattere controproducente. Nonostante detto rilievo critico, resta indubitabile il notevole passo avanti effettuato dalla Corte costituzionale sul tema del fine vita, allineando così anche la legislazione del nostro Paese alle legislazioni più avanzate in materia, come ad esempio quella svizzera e quella tedesca, pur se va rilevato che di recente anche in tali ordinamenti è stato introdotto il delitto di istigazione o aiuto al suicidio che tuttavia risulta penalmente rilevante e dunque punibile solo laddove venga effettuato a scopo di lucro. In ogni caso bisognerà attendere la motivazione della sentenza della Corte costituzionale per poter fornire un giudizio più completo su di una pronuncia che comunque, a differenza di quella relativa al caso Tarantini, si mostra molto più in linea con il principio di laicità dello Stato, nonostante recenti ed importanti “pressioni” in senso contrario delle più alte autorità ecclesiastiche. Adelmo Manna e Andrea De Lia

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Note in tema di gravità del crimine nella giustizia penale internazionale Sommario: 1. Rilevanza della nozione di gravità del crimine. – 2. Le norme sostanziali e processuali ove la gravità del crimine viene in evidenza. – 3. La gravità nei crimini contro la Pace e l’Umanità e il Genocidio. – 4. La Giurisprudenza. – 4.1. Venezuela, Palestina, Iraq 4.2. Il caso Abu Garda. – 4.3. Gaza Freedom. – 5. Conclusioni. Abstract The paper frames the concept “gravity of crime” in light of the Jurisprudence of International Criminal Court and the rules applied by the Office of the Prosecutor and the articles of Rome Statute and other rules of international law. The relevance of the test “gravity” is as substantial as procedural. This assessment can prevent to investigate violations of international law including international and human rights law. The article highlights the difficulties arising from the absence of a clear jurisprudence about the question, in the decisions of Pre- Trial Chambers (see the differences about the case-law Abu Garda and Gaza Freedom. Lo scritto inquadra il concetto di “gravità del crimine” alla luce della Giurisprudenza della Corte Penale Internazionale e delle disposizioni applicate dall’Ufficio del Procuratore presso la Corte Penale Internazionale e degli articoli dello Statuto di Roma e delle disposizioni di diritto internazionale. Il rilievo della verifica della “gravità del crimine” è sia sostanziale che procedurale. Il giudizio può impedire le indagini sulle violazioni delle leggi internazionali comprese quelle sui diritti umani. L’articolo sottolinea le difficoltà nascenti, nel delineare il concetto, dall’ assenza di una chiara giurisprudenza, nelle decisioni delle Camere della Corte Penale Internazionale (si vedano le differenze sottolineata nello scritto tra le conclusioni del caso Abu Garda e quelle del caso Libertà per Gaza)

1. Rilevanza della nozione di gravità del crimine. Il concetto di gravità del crimine è richiamato in documenti ufficiali della Corte penale internazionale, si veda il Policy Paper on the Interest of Justice del settembre 2007 del Procuratore presso la CPI dove a pag. 4 par.2, si parlava di “The Gravity of crime”. Il termine è utilizzato anche nelle fonti normative sia di tipo consuetudinario che pattizio, ma la sua rilevanza è anzitutto processuale. Infatti, l’art. 17 dello Statuto di Roma, così recita, regolando le cosidette “questioni di ammissibilità” “con riferimento al comma 10 del preambolo e all’art. 1 del presente Statuto, la Corte dichiara improcedibile il caso se (d) il caso non è sufficientemente grave da giustificare un’ulteriore azione da parte della Corte”. L’art. 1 dello Statuto di Roma stabilisce, infatti, il principio secondo cui è istituita la Corte “quale istituzione permanente, che esercita la propria giurisdizione sulle persone fisiche per i più gravi crimini di portata internazionale come definiti nel presente Statuto”. Ecco tornare l’espressione “gravi crimini” per fondare la Giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Essa è inserita in un contesto in cui si fa riferimento alla istituzione e alle funzioni della Corte da intendersi come costituito da fatti che, per loro natura, ledono gravemente i rapporti e l’ordine internazionale tra le nazioni e il diritto internazionale. Conferma questa interpretazione anche il comma 10 del Preambolo, laddove si valorizza, nel rappresentare l’interesse degli Stati parte a costituire la Corte, il sistema delle Nazioni Unite e si esplicita il


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concetto evidenziato che la Corte “è competente a giudicare sui crimini più gravi che costituiscono motivo di allarme per la Comunità internazionale nel suo insieme”. Tornando all’art. 17 (1) (d) e ai suoi profili processuali, nel paper del Procuratore del 2007 si aggiungeva che, nel determinare se la situazione era di sufficiente gravità, l’Ufficio considerava la scala del crimine, la natura dello stesso, le sue modalità di commissione ed il suo impatto (soprattutto nell’opinione pubblica). Questo elemento sembrava specificare quello della gravità per i rapporti intercorrenti tra gli Stati. Il procuratore inoltre affermava che, prima di stabilire la conclusione che vi erano ragioni sostanziali per ritenere che non era nell’interesse della giustizia di iniziare una investigazione, si doveva, sempre, valutare positivamente, se il caso giustificasse l’inizio dell’azione penale stessa. Il documento così precisava “These reflections demonstrate both the central importance of the element of gravity of the crime, as well as the strong presumptions in favour of initiating an investigation where the threshold of sufficient gravity is met”. In altri termini e qui sembrava esser presente una tautologia nel ragionamento del Procuratore, si doveva ritenere, per l’importanza dell’elemento oggetto di considerazione, che esistesse una forte presunzione a favore della possibilità di iniziare le indagini, quando la sufficiente gravità del crimine era riscontrato. Le previsioni dell’art. 17 dello Statuto della Corte penale Internazionale e dell’art. 53, più sopra richiamati, si riferiscono alla gravità del caso per quanto concerne la scelta “dell’oggetto” dell’indagine. Alla Conferenza Internazionale che diede luogo alla elaborazione dello Statuto di Roma, secondo alcuni rappresentanti degli Stati aderenti il concetto di “gravity of crime” appariva troppo generico e vago. Quando la Corte acquistò operatività, il Procuratore, nelle prime linee guida, ritenne che andasse utilizzato per scegliere e distinguere i cosiddetti “case”. Le prime situazioni da investigare (Repubblica Democratica del Congo, Uganda, Repubblica Centroafricana, Darfur) erano molto ampie. Ve ne potevano essere alcune dove era necessario, proprio a causa della massività dei crimini, selezionare adeguatamente le persone da indagare. All’inizio vi era una certa vaghezza nell’ indicare quali casi fossero da ritenere gravi. Si oscillava nel ritenere rilevante o una gravità quantitativa (numero delle vittime) o invece qualitativa (Paper on some policy issues bifore the Office of the Prosecutor del 2003). Ciò verrà ribadito anche successivamente (Policy Paper on Preliminary Examinations del 2010). Comunque già nel 2009 i concetti della modalità del fatto, del suo impatto, delle modalità della sua commissione (già indicati nel 2007) furono ribaditi nelle “Regulations of the Office of the Prosecutor”. Si trattava di una fonte con la quale il Procuratore presso la Corte penale Internazionale regolamentava la sua attività. Nella regola 29 intitolata “initiation of an investigation or prosecution” vi era prevista una “section 3” (preliminary examination and evalutation of the information”) in cui si stabiliva che la lista di cui sopra non era comprensiva di tutte le ipotesi possibili, al fine di scongiurarne una applicazione troppo rigida. Nel 2013 veniva pubblicato altro “Policy Paper on preliminary examinations” in cui si diceva che il “gravity assessment” di cui all’art 53 dello Statuto di Roma doveva tener conto del numero di “case” generabili da una certa investigazione. Il termine “case” in definitiva afferiva al procedimento contro il singolo prevenuto e sembrava essere stato inserito per escludere dalla Giurisdizione della Corte quelle situazioni in cui il numero degli imputati era particolarmente basso.

2. Le norme sostanziali e processuali ove la gravità del crimine viene in evidenza. Interessante è notare che l’espressione ricorra in altre norme di diritto internazionale, tanto di natura sostanziale che processuale. La prima e più importante è altresì l’art. 8 dello Statuto sulla Corte Penale Internazionale, che reca la rubrica “crimini di guerra”. Innanzitutto al n. 1

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di questa disposizione si afferma che “la Corte ha Giurisdizione nei confronti dei crimini di guerra, in particolare come parte di un piano o di una politica o della commissione su vasta scala di tali crimini”. Vedremo in seguito il rilievo di questa norma per il nostro lavoro. Nelle altre disposizioni di questo articolo, che evidenziano i vari tipi di crimini di guerra, il concetto di gravità del crimine ricorre sempre. E infatti al n. 2 si dice “agli effetti dello Statuto per crimini di guerra si intendono a) infrazioni gravi alla Convenzione di Ginevra del 12 Agosto 1949, vale a dire uno dei seguenti atti posti in essere contro persone o beni protetti dalla convenzione di Ginevra…Omissis… b) altre gravi violazioni delle leggi e degli usi applicabili, all’interno del quadro consolidato del diritto internazionale nei conflitti armati internazionali…Omissis… c) nel caso di un conflitto armato non di carattere internazionale, gravi violazioni dell’art. 3 comune delle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 Agosto 1949, vale a dire uno degli atti di seguito enumerati commessi contro coloro che non partecipano direttamente alle ostilità…Omissis… d) Altre gravi violazioni delle leggi e degli usi, applicabili, all’interno del quadro consolidato del diritto internazionale nei conflitti armati non di carattere internazionale”. Espressioni analoghe si trovano nell’art. 2 dello Statuto della TPIJ (Corte Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia) e nell’art. 4 dello Statuto TPIR (Corte Penale per il Ruanda). Si deve, a proposito di queste disposizioni, rilevare che il concetto di gravità del crimine è trasfigurato in quello di gravità della violazione, cioè in un concetto di tipo normativo, facendosi riferimento ad una violazione del diritto pattizio o consuetudinario. La nozione è precisata nel testo di Antonio Cassese (Lineamenti di diritto internazionale penale, 2005, Bologna, pag 53) che rammenta che “secondo quanto sancito dalla Camera d’Appello della TPIJ nel caso Tadic i crimini di guerra devono consistere in una grave violazione di una norma internazionale posta a protezione di beni primari e una tale infrazione deve determinare gravi conseguenze per la vittima”. Questo autore allarga e interpreta il concetto oggetto di analisi, facendo riferimento, per l’identificazione dello stesso, al requisito del bene tutelato dalla norma violata, che deve esser “primario” e alle gravi conseguenze per la vittima. Il presupposto dell’interesse della vittima ricorre anche nell’altra norma processuale rilevante, ricordata nel paper del Procuratore del 2007, relativo allo “Interest of Justice”, per escludere l’apertura di un’inchiesta. Essa è rappresentata dalle disposizioni dell’art. 53 (1) (c) e 53 (2) (c) dello Statuto di Roma. Nella prima si dice “se in considerazione della gravità del reato e degli interessi delle vittime vi sono motivi gravi di ritenere che una inchiesta non favorirebbe gli interessi della giustizia…”. Nella seconda si aggiunge “l’avvio di un’azione giudiziaria non sarebbe nell’interesse della giustizia in considerazione di tutte le circostanze del caso, ivi compresi la gravità del reato e gli interessi delle vittime”. In altra disposizione del medesimo articolo si aggiunge che se il Procuratore “determina che non vi sono motivi gravi per iniziare un’azione giudiziaria e che la sua determinazione è unicamente fondata sul capoverso (c) il Procuratore ne informa la Camera Preliminare”. In altri termini la gravità delle conseguenze per la vittima è considerata come espressione della gravita del crimine, e può avere effetti opposti. Da un lato (vedi caso Tadic), può rilevare per fondare la procedibilità. Ma l’interesse della vittima (da considerare alla luce delle disposizioni 68 (1) e 54 (1) (b) dello Statuto di Roma) può valere anche ad escludere che il Procuratore apra un’inchiesta. In definitiva bisogna fare riferimento alle specifiche circostanze di fatto e alle ragioni sostanziali per stabilire che è interesse della giustizia procedere oppure non procedere (espressioni tutte già utilizzate nel paper del 2007 alle pagine 2,3, dal titolo significativo del capitolo: “the balancing test”).

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3. La gravità nei crimini contro la pace l’umanità e il genocidio L’art. 7 dello Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale definisce i crimini contro l’umanità affermando che “ai fini del presente Statuto, per crimine contro l’umanità si intende uno degli atti di seguito elencati, commesso nell’ambito di un attacco esteso e sistematico contro una popolazione civile, con la consapevolezza dell’attacco”. Espressione analoga, usa, l’abbiamo visto, l’incipit dell’art. 8 (crimini di guerra), laddove si richiede, perché possa affermarsi una violazione grave in relazione agli stessi, che essi siano commessi come parte di un piano o di una politica o della commissione su vasta scala di questi crimini. Si può ritenere che se ricorrono questi elementi si è in presenza di un crimine grave. Ciò anche perché può esser coinvolta non soltanto una responsabilità individuale, ma anche una responsabilità statale o collettiva. Un discorso a parte merita il crimine di genocidio definito dall’art. 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), ove si afferma che per genocidio “si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Disposizioni analoghe contiene l’art. 2 dello Statuto TPIR (1994), l’art. 4 dello Statuto TPIJ (1993) e l’art. 6 dello Statuto di Roma (1998). Il crimine di genocidio è stato identificato, dalla giurisprudenza dei Tribunali ad hoc, come il crimine dei crimini”. Esso è stato definito “crimine delle elites”. Un commentatore (Paolo De Stefani) ha affermato “Queste osservazioni sul peso decisivo delle elites conducono a trattare la dimensione della responsabilità dello Stato, e non solo quella dell’individuo, per il crimine di genocidio. La convenzione del 1948, infatti, afferma anche che è responsabilità degli Stati prevenire e punire la commissione di tale delitto. Dietro il crimine degli individui, dunque, specialmente se quegli individui appartengono all’elite di una comunità, si profila la responsabilità internazionale dello Stato”. È dunque particolarmente grave nell’ottica della violazione dell’ordine internazionale tra gli Stati.

4. La giurisprudenza Intendo qui ripercorrere brevemente la Giurisprudenza della Corte Penale Internazionale che ha contribuito a definire il concetto, oggetto del presente studio.

4.1. Venezuela, Palestina, Iraq Per il Venezuela il Procuratore nel suo “Response” del 9 febbraio 2006 stabilì che vi fosse un’insufficienza di informazioni per integrare il requisito del “ragionevole fondamento per ritenere” che fossero stati commessi crimini, compresi nella Giurisdizione della Corte. Per quanto riguarda la Palestina si valutò, invece, per escludere l’avvio delle indagini, che non fosse chiaro se si trattasse di una entità statale. Solo gli Stati infatti possono essere parti di un processo presso la CPI. Per l’Iraq non vi era stata una denuncia (referral) di uno Stato parte, ma dei reclami che concernevano il comportamento delle truppe Britanniche durante l’invasione del 2003 da parte della coalizione occidentale. L’assenza del referral non permise di ricorrere alle Camere della Corte, dopo la decisione del Procuratore di non aprire l’indagine. All’epoca l’Iraq non era parte dello Statuto di Roma, ma la Corte era munita di poteri di indagine in quanto i crimini erano stati posti in essere da cittadini Britannici, pertanto, di uno Stato che aveva ratificato

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il Trattato istitutivo della CPI. Il Prosecutor Moreno Ocampo ritenne che poiché si deduceva che fossero stati commessi crimini di guerra, l’attività di indagine poteva essere proseguita solo nel caso in cui i crimini predetti facessero “parte di un piano o disegno politico o come parte della commissione su larga scala di crimini analoghi”. Si concluse che questo criterio non ricorresse, poiché il numero delle vittime era minore di quella di altre situazioni, come nel Nord Uganda, Repubblica Democratica del Congo e Darfur. Questa presa di posizione fu criticata da chi obiettava che una gravità per comparazione non avesse fondamento normativo nello Statuto di Roma.

4.2. Il caso Abu Garda Il 20 novembre 2008 il Prosecutor presso la CPI richiese alla Pre Trial Chamber l’emanazione di un mandato d’arresto o della citazione a comparire a carico di Ba- har Idriss Abu Garda, cittadino sudanese Vice Presidente e secondo in comando e Segretario Generale del Justice and Equality Movement (JEM) e quindi Presidente del United Resistence Front (URF). Secondo il Procuratore egli aveva commesso “crimini gravi” punibili secondo le norme dello Statuto di Roma, nell’ambito del conflitto non internazionale tra il governo del Sudan e gruppi armati ribelli. Tali reati avrebbero comportato una ulteriore azione avanti la Corte. Si identificava la gravità secondo un criterio prettamente qualitativo. Non il numero delle vittime, ma la violazione dell’art. 8 (2)(c)(iii) dello Statuto di Roma; Idriss Abu Garda avrebbe compiuto attacchi intenzionali contro personale, installazioni, materiali, unità o veicoli dell’ONU coinvolti in una missione di peacekeaping. L’accusa sosteneva che la circostanza che il personale coinvolto fosse impegnato in una operazione delle Nazioni Unite “condotta nel comune interesse della comunità internazionale e in conformità con i principi e gli scopi della Carta delle Nazioni Unite” comportava una lesione del “ cuore stesso del sistema giuridico internazionale istituito allo scopo di mantenere la pace e la sicurezza internazionali per mezzo di misure di sicurezza collettiva adottate per prevenire e rimuovere le minacce alla pace. La comunità internazionale ha una responsabilità particolare nel garantire il perseguimento degli individui che si rendano responsabili di attacchi contro il personale delle Nazioni Unite e personale associato che spesso si verificano in situazioni in cui il sistema di giustizia nazionale non è completamente funzionante o in grado di fornire una risposta adeguata ai crimini commessi”. La Pre-Trial-Chamber ha accolto la richiesta e ordinato la citazione dell’indagato. La Camera ha affermato che le conseguenze erano state gravi non solo per le vittime, cioè per il personale ONU impegnato nell’operazione, ma anche per le famiglie e ciò integrava la sufficiente gravità richiesta dallo Statuto di Roma.

4.3. Gaza Freedom Il caso giurisprudenziale Gaza Freedom nasce dell’embargo navale che lo Stato di Israele il 3 gennaio 2009 aveva imposto fino a 20 miglia nautiche dalla costa della Striscia di Gaza. Lo Stato ebraico intendeva così attuare una politica di restrizioni alla circolazione del flusso delle persone e delle merci in questa zona della Palestina, a seguito della vittoria di Hamas alle elezioni del 2006. Nel 2010 una piccola flotta composta da 8 imbarcazioni si diresse verso la zona dell’embargo per portare aiuti alimentari e medicine da far sbarcare nella Striscia. Il 31 maggio 2010, sei di queste piccole navi furono attaccate dall’esercito israeliano e una settima il 6 giugno. Dieci attivisti pro-palestinesi furono uccisi e cinquanta o cinquantacinque rimasero feriti. Si verificarono torture e offese alla dignità personale, quando alcune persone coinvolte nella missione furono arrestate e portate in detenzione nello Stato di Israele. La maggior parte delle vittime si trovava sulla nave Mv Mavi-Marmara, iscritta nel registro navale delle Isole

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Comore che sono uno Stato-parte del Trattato istitutivo della Corte penale Internazionale. Le Comore proposero un referral al Prosecutor della Corte per denunciare i crimini commessi durante l’abbordaggio delle imbarcazioni e subito dopo. A seguito di ciò il Procuratore Fatou Bensouda rese noto che avrebbe iniziato un esame preliminare, per stabilire se vi erano i requisiti necessari per aprire un’indagine. Nel referral si denunciavano crimini di guerra e contro l’umanità. Il 6 novembre 2014, l’organo inquirente rese noto che se pur vi erano fondati elementi per ritenere che sulla Mv Mavi Marmara erano stati commessi “crimini di guerra” non fossero emersi casi “sufficientemente gravi” da legittimare l’apertura di una indagine. La soglia di gravità precisò Fatou Bensuda imponeva di perseguire i soli crimini di guerra commessi su larga scala o quelli commessi in esecuzione di un piano sistematico o di una politica generale. Pertanto il 6 novembre 2014 il Prosecutor dichiarò chiuso l’esame preliminare. Il 29 gennaio 2015 il Governo dell’Unione delle Comore rivolse alla Pre-Trial- Chamber 1 una richiesta di riesame della decisione, basata sulla circostanza che il Prosecutor avesse errato nell’applicare la formula del “ragionevole fondamento per ritenere” indicata dallo Statuto di Roma per identificare quando esistono prove sufficienti per aprire una indagine. Il 16 luglio del 2015 la PTC1 stabilì che l’accusa nella decisione del 6 novembre 2014 aveva errato e pertanto, se ne chiedeva un riesame. Ritengo questa decisione dirimente nel delineare il tema trattato per cui vi torno nel prossimo paragrafo.

5. Conclusioni. Il concetto di “gravità del crimine” come abbiamo visto implica più interpretazioni, alla luce del contesto normativo in cui si esplica. La predetta pluralità interpretativa comporta effetti diversificati ed è però, suscettibile di esser ricondotta ad unità, solo che si realizzi una analisi sistematica delle fonti. Inoltre, la sua definizione risulta non solo dalla codificazione, ma anche dalla Giurisprudenza della Corte e dalle linee guida utilizzate dall’Ufficio del Procuratore e dalle Camere. Anche facendo riferimento alla decisione della Pre-Trial Chamber in Gaza Freedom dopo l’appello dello Stato delle Isole delle Comore è corretto ritenere che gli elementi rilevanti per definire la “gravity” e i suoi effetti processuali siano costituiti a) dalla individuazione esatta dei responsabili, ciò che nella fase pre-investigativa importa una valutazione prospettica di quali siano i soggetti su cui cade la responsabilità maggiore per i crimini commessi, b) la gravità del crimine deve essere valutata dal punto di vista quantitativo e qualitativo, tenendo conto dei seguenti elementi: estensione del crimine, sua natura, modalità di commissione, impatto sulle vittime Nel caso Gaza Freedom la Pre-Trial Chamber concluse che non si poteva negare fondatezza alla circostanza che i “capi gerarchici delle Israeli Defence Forces o i leaders politici dello Stato Ebraico”, avessero eseguito e pianificato l’attacco, elemento rilevante, al fine di individuare se ricorresse quello ulteriore della necessità di perseguire innanzitutto “i maggiori responsabili”. Pertanto doveva ritenersi che il crimine fosse sufficientemente esteso, tanto che aveva prodotto 10 o 15 morti e centinaia di offese alla dignità personale. Occorreva inoltre tener conto della qualificazione giuridica del crimine e in particolare che i fatti integravano la tortura e trattamenti inumani e degradanti.

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Bibliografia Antonio Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale 1. Diritto sostanziale, Bologna, 2005. Antonio Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale 2. Diritto processuale, Bologna, 2006. Paolo De Stefani, Genocidio e giustizia internazionale in Il crimine dei crimini, Stermini di massa nel novecento, Milano, 2008. Valentina Rainò, Quando è abbastanza grave? La soglia di gravità nella giurisdizione della Corte Penale Internazionale in Giurisprudenza penale (utilizzato per i documenti dell’Ufficio del Prosecutor presso la CPI), 2016. Giulia Guagliardi, Gravità del crimine e giudizio di “ammissibilità” nel procedimento penale internazionale. La situazione “Gaza Freedom” dinanzi alla Cpi in Osservatorio sulla Corte Penale Internazionale (utilizzato per la Giurisprudenza della Corte penale Internazionale).

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Marilisa De Nigris

La disciplina del recepimento delle norme internazionali nel sistema italiano Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il concetto di rilevanza tra il diritto comunitario e diritto nazionale. – 3. Il principio del riconoscimento automatico delle decisioni straniere. – 4. La definizione del riparto tra funzioni normative di diritto internazionale privato e comunitarie. – 5. Conclusioni.1 Abstract The rule applicable between different legal systems and the value of decisions taken on the basis of their own internal rules vis-à-vis different legal systems has always been a matter of doctrine. Authors such as Savigny, Piquet and the Italian Mancini have attempted to resolve this problem without ever reaching the concept of universal law so longed for. In fact, in doctrine there is a tendency for the most part to delimit the existing relationship between a legal system and everything external to it, placing it on different levels. The first level is an equal relationship, which presupposes equality between the orders. The second is a vertical relationship, which denotes a diversity in the power of the orders. The first case is realized in the relationship between national systems, whereby the reception, in the state system, of elements of other systems is linked to voluntary relationships that bind the States de quibus. These elements can belong indifferently to the three sovereign powers of the State, which is why we could have the insertion, in the state system, of legislative names, expressions of executive power or judicial decisions from other States. La problematica relativa alla norma applicabile tra diversi ordinamenti e la valenza delle decisioni, prese in base alla propria regolamentazione interna nei confronti di ordinamenti diversi, ha da sempre interessato la dottrina. Importanti autori quali il Savigny, Piquet e l’italiano Mancini si sono cimentati al fine di dirimere tale problematica senza però mai pervenire a quel concetto di diritto universale tanto agognato. Infatti, in dottrina si tende per lo più a delimitare il rapporto sussistente fra un ordinamento giuridico e tutto ciò che è esterno allo stesso situandolo su differenti livelli. Il primo livello è un rapporto paritario, che presuppone eguaglianza fra gli ordinamenti. Il secondo è un rapporto verticale, che denota una diversità quanto alla potestà degli ordinamenti. Il primo caso si realizza nel rapporto fra ordinamenti nazionali, per cui la ricezione, nell’ordinamento statuale di elementi di altri ordinamenti, è legato a rapporti volontaristici che legano gli Stati de quibus. Tali elementi possono appartenere indifferentemente ai tre poteri sovrani dello Stato, ragion per cui potremmo avere inserzione, nell’ordinamento statuale, di nome legislative, di espressioni del potere esecutivo o di decisioni giudiziarie provenienti da altri Stati1.

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Sperduti, Saggi di teoria generale del diritto internazionale privato, Milano, 1967, p. 73 ss.


Marilisa De Nigris

1. Introduzione. Le norme entrano a far parte dell’ordinamento attraverso il Diritto penale internazionale, convenzioni, accordi internazionali specificatamente accettati tramite legge di ratifica o consuetudinariamente accolti opinio iuris ac necessitatis2. Le norme che concretizzano il potere esecutivo raramente fuoriescono dai confini statuali ed il loro interesse è minimale in questo ambito. È possibile che vi siano rinvii specifici alle norme di attuazione esecutiva tramite capitolati, allegati e postille dei predetti accordi3. In pochi casi è manifestato un interesse generale per tali norme (es.: patenti di guida, rilascio autorizzazione amministrativa, riconoscimento estero). Nell’ambito delle decisioni giurisprudenziali vengono individuate, anzitutto, le pronunce che possono varcare i limiti dell’ordinamento e le caratteristiche che le stesse debbano avere4. Si pone, dunque, un problema di insiemistica e di limite all’accezione tecnica di “decisione”. È ben noto che la legge 218 del 1995 fornisce uno schematico e laconico quadro di quali decisioni, in quali casi e con quali possibilità possano ottenere effetti in altri ordinamenti, ma, invero, non si può non rilevare che tale quadro è e resta laconico se non ancorato alla realtà fattuale delle Corti che di molto ha modificato, cesellato e quasi temperato le norme. Prima di passare ad analizzare compiutamente tale settore, è doveroso analizzare la seconda ipotesi succitata, ovvero i rapporti tra l’ordinamento e le realtà estere di maggiore rilevanza, ovvero l’ambito internazionale e, caso di specie, l’ambito comunitario. Vale la pena ricordare, a tratti sommari considerandolo elemento di superata conoscenza, che l’ambito internazionale potrà introdursi nell’ordinamento statuale non solo a mezzo di accordi internazionali o a mezzo dei c.d. principi, ma anche (e soprattutto) a mezzo di pronunce emanate dagli organi della comunità internazionale che, pur non influenzando i cittadini degli Stati, influenzano e ricadono sugli Stati di loro appartenenza5. Ciò comporta, in ambito economico-politico, un enorme rilievo e peso di tali enti (es. embargo) che, pertanto, avranno libertà di manovra e codici di applicazione normativa estremamente limitate. In un quadro di siffatta realtà, la prospettiva della Comunità Europea è nuova ed interessante: essa non solo non si sottrae alla realtà internazionale, ma vi si aggiunge, divenendo sovra-nazionale. Ovvio che tale posizionamento dell’ordinamento comunitario fa sì che le sue norme divengano trasversali e di ben più ampia applicazione delle normative puramente internazionali. Ricadono sull’ordinamento interno non solo direttive, regolamenti e decisioni della Commissione, ma anche del Consiglio, le medesime decisioni della Corte di Giustizia: tutti aventi il medesimo potere verso, non solo gli Stati, ma verso i singoli cittadini e l’ordinamento in genere.

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Pocar, Treves, Clerici, De Cesari, Trombetta-Panigadi, Codice delle convenzioni di diritto internazionale privato e processuale, 3 ed., Milano, 1999, p. 8 ss. 3 Decleva, Criteri di collegamento sussidiari e complementari, Trieste, 1943, p. 65. 4 La Pergola, Costituzione e adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale, Milano, 1961 p. 80. 5 Boschiero, Appunti sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, Torino, 1996, p. 293 (dedicato esclusivamente alle questioni di carattere generale).

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Ovviamente, diverse e ben conosciute sono le modalità di ricezione di questi atti: ritroviamo il dislivello fra atti normativi comunitari, che entrano a far parte loro modo nell’ordinamento statuale, e atti giurisprudenziali, a mezzo di volontarie espressioni personali. Tradizionalmente la determinazione della competenza di ciascun giudice all’interno dello Stato, individuata sulla base di quanto ora detto, avveniva ad opera del legislatore nazionale6. Le Convenzioni internazionali provvedono invece a delimitare l’ambito della giurisdizione degli Stati contraenti in ragione della maggiore o minore intensità del criterio adottato, del contatto della questione da giudicare con l’ordinamento dell’uno o dell’altro Stato. Diversa è la prospettiva attuale che emerge dalla combinazione delle norme dei citati regolamenti comunitari con quelle della legge vigente: infatti la nuova legge in talune materie fa dipendere la giurisdizione dalla circostanza che sia dato rinvenire un giudice italiano dotato di competenza per territorio. D’altra parte i regolamenti non si limitano a individuare le rispettive sfere di giurisdizione degli Stati contraenti, bensì talvolta (ad es. con l’art. 5, parr. 1 e 2 del regolamento del 2000) determinano anche il singolo giudice nazionale competente. Conviene ancora osservare che i regolamenti comunitari utilizzano l’espressione “competenza” anche per individuare la nozione che nel linguaggio giuridico italiano si identifica con il termine “giurisdizione” (il titolo della versione italiana del regolamento del 2000 parla in effetti di competenza giurisdizionale)7. Si deve inoltre sottolineare che la ripartizione (cioè l’attribuzione) di giurisdizione operata dai regolamenti ha carattere esclusivo nel senso che sostituisce, in principio, l’attribuzione di giurisdizione operata dai singoli legislatori nazionali a favore dei propri giudici: quest’ultima sopravvive soltanto con carattere residuale potendo esplicarsi solo qualora nessuno dei titoli di giurisdizione stabiliti dai regolamenti medesimi operi a favore di uno Stato comunitario8.

2. Il concetto di rilevanza tra il diritto comunitario e diritto nazionale. Le idee di Mancini9, largamente condivise dagli altri studiosi italiani della materia, trovarono puntuale riscontro nelle disposizioni incluse nella codificazione operata dal legislatore italiano del 1865, disposizioni per le quali lo stesso Mancini fu Relatore alla Camera e che egli propose agli altri Stati come modello da imitare sia perché convinto della loro bontà, sia perché per questa via ci si sarebbe comunque, in qualche misura, avvicinati a quell’armonia internazionale delle soluzioni10. Nel tradurre in termini di diritto positivo il suo principio di nazionalità, lo stesso Mancini fu tuttavia costretto a fare subito i conti con la realtà, riconoscendo che per legge nazionale

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Picone, Focarelli, Codice del diritto internazionale privato, Napoli, 1996, p. 3 ss. Ballarino, Diritto internazionale privato, III ed., Padova, 1999, pp. 774. 8 Annibale, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, Padova, 1997, pp. 356. 9 Pasquale Stanislao Mancini è stato uno dei padri fondatori del D.i.p. al quale si sono ispirati diversi ordinamenti europei per la regolamentazione dei rapporti di diritto privato tra diversi ordinamenti. 10 Castangia, Il criterio della cittadinanza nel diritto della cittadinanza nel diritto internazionale privato, Napoli, 1983, p. 3 ss. 7

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dovesse intendersi e non potesse intendersi altro che la legge dello Stato di cui l’individuo possiede la cittadinanza11. Solo in epoca recente il legislatore italiano ha concentrato in un unico testo la disciplina nazionale (l’importanza di questo qualificativo emergerà più avanti) del diritto internazionale privato12, inteso nella sua accezione intermedia, comprensiva anche dei profili processuali. Si tratta della legge 31 maggio 1995, n. 218 dedicata appunto alla «Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato»13. All’art. 1 della legge di riforma si parla di “diritto applicabile” mentre negli altri articoli vi è l’indicazione di “legge applicabile” anche se appare più corretta l’accezione di “diritto” in quanto la norma di conflitto richiama un ordinamento nel suo complesso e la identificazione della (norma di) legge in concreto applicabile non è direttamente operata dalla norma di conflitto ed ha invece luogo sulla base delle norme dello stesso ordinamento richiamato che definiscono la gerarchia delle fonti normative, i canoni ermeneutici e le regole circa la successione delle norme nel tempo14. Nel 2001 è stata approvata la legge costituzionale che porta modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione (la c.d. legge sul federalismo, poi confermata attraverso referendum). L’art. 117 della Costituzione, nella sua nuova formulazione, attribuisce alle Regioni la potestà legislativa nelle materie di legislazione concorrente, tra le quali figura quella relativa ai “rapporti internazionali e con l’Unione europea”. Prevede, altresì, che le Regioni, “nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi co-

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Sembra utile ricordare qui, pur nel suo linguaggio antico, l’affermazione di Mancini, secondo cui «ogni legislatore esercita […] il diritto di sovranità e d’indipendenza politica, allorché assoggetta indistintamente gli stranieri al pari dei nazionali alla osservanza delle leggi penali del territorio, a tutte le leggi di ordine pubblico del paese ed allo scrupoloso rispetto del suo diritto pubblico». 12 Rimangono altresì al di fuori della legge del 1995 la disciplina dell’arbitrato internazionale e dell’efficacia dei lodi stranieri, e dell’ordinamento dello stato civile (D. P. R. 3 novembre 2000, n. 396): né la nuova legge espressamente contempla la materia del fallimento. Non sono stati abrogati (ma hanno in seguito per altra via subito ritocchi) gli artt. 115-116 cod. civ. riguardanti il matrimonio del cittadino all’estero e dello straniero in Italia, e le norme del codice di procedura civile in tema di notificazioni e di assunzione di prove all’estero (e più precisamente in Paesi non comunitari: in ambito comunitario infatti vigono rispettivamente i regolamenti n. 1348/2000 del 29 maggio 2000 e n. 1206/2001 del 28 maggio 2001). Continuano a vigere inoltre gli artt. 3 n. 2 lett. e) e 12 quinquies della L. 1° dicembre 1970, n. 898 – modificata dalla L. 6 marzo 1987, n. 74 – in materia di scioglimento del matrimonio, nonché le norme di conflitto previste nel codicedella navigazione. Infine non trattandosi di problemi di d.i.p., la legge del 1995 non affronta il problema del trattamento dello straniero e della condizione di reciprocità di cui si occupa l’art. 16 disp. prel. cod. civ. 1942 (che infatti non è stato espressamente abrogato dalla legge stessa) e che oggi deve essere letto alla luce della Carta costituzionale nonché del diritto comunitario, e con riferimento al cittadino extracomunitario, alla luce del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decr. legisl. 25 luglio 1998. n. 286, oggetto di ripetute modifiche, prima tra tutte quella avvenuta con L. 30 luglio 2002, n. 189). 13 Il corrispondente disegno di legge era stato originariamente presentato al Senato nel corso dell’XI legislatura: n. 1192 in data 29 aprile 1993; la Relazione ministeriale e gli atti parlamentari sono riprodotti in Pocar, Il nuovo diritto internazionale privato italiano, 2° ed., Milano, 2002. Alla base di quel disegno di legge è il progetto redatto da una Commissione ministeriale di esperti, pubblicato in Documenti Giustizia, 1990, n. 1, p. 260. 14 Regolata espressamente all’art. 15 delle legge n. 218 del 1995.

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munitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”15. A sua volta il nuovo art. 120 Cost. contempla il potere sostitutivo del Governo nel caso di mancato rispetto della normativa comunitaria (oltre che per altre ipotesi); la legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostituivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione16. Può dirsi, pertanto, che giunge a conclusione il faticoso iter diretto a riconoscere alle Regioni quelle competenze in materia di attuazione della normativa comunitaria, nonché di partecipazione alla fase “ascendente” che da lungo tempo erano state rivendicate e tenacemente ostacolate17. Si deve, inoltre, sottolineare il tenore dell’art. 117 che, nella sua nuova versione, introduce una novità di assoluto rilievo: pur trattandosi di norma diretta a regolamentare la ripartizione delle competenze normative tra Stato centrale e Regioni, la sua portata di ordine più generale non può essere sottovalutata. Stabilendo al primo comma che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto … dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», tale disposizione introduce una “costituzionalizzazione” della normativa comunitaria (che sembra ricavarsi, anche dei trattati internazionali, il che rappresenta una novità assoluta per il nostro ordinamento), che si erge così a limite costituzionale alla potestà legislativa sia dello Stato che delle Regioni18. Nonostante il fallimento del disegno di legge costituzionale varato dalla Commissione bicamerale (sopra esaminato), attraverso questa legge costituzionale si è sancito, forse in via indiretta ma in modo chiaro e incontrovertibile, la supremazia del diritto comunitario sulle norme interne, statali e regionali, e, più in generale, si è dato rilievo costituzionale alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea, ratificando la legittimità costituzionale degli impegni che l’Italia assume in tale sede19. Fuori dei casi in cui la normativa comunitaria ha efficacia diretta, lo Stato è chiamato ad adottare tutti quei provvedimenti normativi che si rendano necessari per la corretta attuazione degli obblighi posti dal diritto comunitario. Questa esigenza si pone in particolare per le direttive che, imponendo agli Stati destinatari il conseguimento di un certo risultato, lo lasciano libero di scegliere forme e mezzi idonei a tal fine; ma anche per gli altri atti comunitari non direttamente applicabili richiedenti prov-

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Ieva (a cura di), La condizione di reciprocità. La riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. Aspetti di interesse notarile, Milano, 2001, pp. 682. 16 Picone, Saggio sulla struttura formale del problema delle questioni preliminari nel diritto internazionale privato, Napoli, 1971. 17 Garofalo, Interpretazione e conflitti di leggi, Torino, 2003, pp. 102. 18 Tonolo, Il rinvio di qualificazione nei conflitti di leggi, Milano, 2003. 19 In tale materia occorre dar conto di una novità: essa riguarda il disegno di legge di revisione costituzionale recante modifiche alla parte II della Costituzione approvato dalla Camera nella seduta del 15 ottobre 2004, che modifica la legge costituzionale 8 marzo 2001. In esso viene soppresso il riferimento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali quale limite alla potestà legislativa esercitata dalle Regioni, mentre viene mantenuto il riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

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vedimenti attuativi, nonché per le sentenze della Corte di giustizia che impongano allo Stato l’abrogazione o la modifica di atti interni incompatibili col diritto comunitario20. Le direttive contengono solitamente un termine entro il quale lo Stato deve dare loro attuazione; ma accade sovente, almeno nel nostro ordinamento, che si verifichino ritardi considerevoli in tale adempimento21: lo Stato italiano è stato più volte convenuto dinanzi alla Corte di giustizia per mancata ottemperanza alle prescrizioni comunitarie; ritardi che possono far sorgere la responsabilità dello Stato, secondo il principio stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Francovich22. Per cercare di ovviare a tale situazione di cronica inadempienza, è intervenuta la legge 9 marzo 1989, n. 86 (c.d. Legge La Pergola), già modificata dalla legge 24 aprile 1998, n. 128, ora sostituita dalla legge 4 febbraio 2005, n. 11 con la finalità di disciplinare il processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti dell’Unione europea e di garantire l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, conseguenti: a) all’emanazione di ogni atto dell’Unione che vincoli l’Italia ad adottare provvedimenti di attuazione; b) all’accertamento giurisdizionale, a seguito di sentenza della Corte di giustizia, dell’incompatibilità di norme legislative e regolamentari dell’ordinamento nazionale con le disposizioni dell’ordinamento comunitario; c) all’emanazione di decisioni quadro e di decisioni adottate nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. La legge 4 febbraio 2005, n. 11 prescrive (art. 8) che il Presidente del Consiglio dei Ministri, o il Ministro per le politiche comunitarie, presenti al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno (la previsione di tale scadenza intende consentire una verifica periodica dello stato di conformità), un disegno di legge (la “legge comunitaria”, già prevista dalla legge La Pergola) nel quale sono indicate le disposizioni necessarie per adeguare l’ordinamento italiano al diritto comunitario, previa verifica dello stato di conformità dell’ordinamento interno e degli indirizzi di politica del governo; nelle materie di loro competenza, tale verifica è operata dalle Regioni e dalle Province autonome e le risultanze sono trasmesse alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la formulazione di ogni opportuna osservazione. Il periodico adeguamento è assicurato dalla legge comunitaria secondo le possibilità in essa indicate (art. 9), in particolare la legge comunitaria può contenere direttamente norme modificative o abrogative di norme statali vigenti, in contrasto col diritto comunitario o oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione nei confronti dell’Italia23; Sulla problematica relativa ai rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento comunitario si innesta la delicata questione del ruolo delle autonomie regionali in ordine all’attuazione degli obblighi comunitari24:la questione non è rilevante per l’ordinamento comunitario, ma lo

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Facci, Diritto internazionale privato, Padova, 2000, pp. 242. Barone, L’efficacia diretta delle direttive fra certezze (comunitarie) e fraintendimenti (nazionali), in Foro It., 1996, IV, 358. 22 Mastroianni, Direttive non attuate, rimedi alternativi, principio di uguaglianza, in Dir. Unione Europea, 1998, 81. 23 Clerici, Mosconi, Pocar, Codice del diritto internazionale privato della Comunità europea, Milano, 1992, p. 306. 24 La Corte costituzionale rileva appunto “le conseguenze che, sui rapporti di competenza tra lo Stato e ... le Regioni, discendono dall’esistenza di una normativa comunitaria che ... richiede la predisposizione di strutture, procedure e competenze decisorie attuative, nell’ambito di ciascuno Stato membro”: sentenza n. 126 del 1996. 21

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è per quello interno25,in quanto investe la ripartizione delle competenze costituzionalmente stabilite e incide sulla stessa autonomia delle Regioni, in conseguenza dell’incidenza sempre più penetrante delle competenze comunitarie in settori rientranti nella loro autonomia normativa ed amministrativa, arrecando una sua innegabile menomazione. Di conseguenza si è imposta, in particolare, a seguito dell’attuazione del decentramento regionale avviato con la legge delega n. 382 del 1975, l’esigenza di una chiarificazione e precisazione del riparto delle competenze tra organi centrali e organi regionali in ordine alla partecipazione di questi ultimi all’elaborazione delle scelte governative a livello comunitario per le materie di competenza regionale (fase “ascendente”) e in ordine soprattutto alla competenza circa l’attuazione degli atti comunitari derivati (fase “discendente”): si tratta cioè di sapere se questa permanga sempre agli organi centrali o debba essere riconosciuta alle Regioni quando siano interessate materie rientranti nella loro sfera di attribuzioni. In linea di principio, non vi è alcun valido motivo, né alcun principio di ordine costituzionale, per ritenere che si operi in proposito una deviazione rispetto alla struttura costituzionale dell’ordinamento italiano che si articola in un sistema decentrato delle competenze, e che l’attuazione delle norme comunitarie venga in via generale e in assoluto sottratta alle Regioni nelle materie ad esse attribuite; purché naturalmente operino nel rispetto degli obblighi comunitari, che si impongono allo Stato unitariamente considerato, dunque tanto ai suoi organi che ai suoi enti decentrati, competenti per funzioni o per materia all’applicazione del diritto comunitario. Né può ragionarsi sulla base di una presunzione di possibile violazione da parte delle Regioni, che non è maggiore di quella ipotizzabile per gli organi centrali, per giustificare in via preventiva l’avocazione allo Stato della competenza all’esecuzione del diritto comunitario. Le disposizioni legislative adottate dallo Stato per gli adempimenti degli obblighi comunitari si applicano, nelle materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome, nelle quali non sia ancora in vigore la propria normativa di attuazione, al fine cioè di porre rimedio alla loro inerzia, a decorrere dalla scadenza del termine fissato per l’attuazione della normativa comunitaria e finché non sia entrata in vigore la normativa di attuazione da esse emanata: la regola dunque è l’intervento legislativo diretto delle Regioni, mentre l’intervento statale appare solo eventuale e non immediatamente produttivo di effetti sulla legislazione regionale vigente26. Quando le direttive attengono a materie di competenza esclusiva dello Stato, il Governo indica i criteri e formula le direttive cui devono attenersi le Regioni al fine di soddisfare esigenze di carattere unitario, il perseguimento degli obbiettivi della programmazione economica, il rispetto degli impegni internazionali. Come già affermato dalla Corte costituzionale, allo Stato residua il compito di supplire con proprie norme all’eventuale inerzia delle Regioni e a queste ultime il potere di fare uso in qualsiasi momento delle proprie competenze rendendo di conseguenza inapplicabile la normativa statale.

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È principio indubitabile che la partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea e agli obblighi che ne derivano deve coordinarsi con la propria struttura costituzionale fondamentale, della quale fa parte integrante lastruttura regionale dello Stato: sentenza n. 126 del 1996, cit. 26 Pagano, Lezioni di diritto internazionale privato, II ed., Napoli, 2003, pp. 272 ss.

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La legge n. 11 del 2005 disciplina altresì l’aspetto della partecipazione delle Regioni e Province autonome all’elaborazione degli indirizzi governativi nel processo di formazione degli atti normativi comunitari. A tal fine prevede (art. 5) in primo luogo che il Presidente del Consiglio dei Ministri, o il Ministro per le politiche comunitarie, informi le Regioni e le Province autonome, tramite la Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome, delle proposte e delle materie di competenza regionale che risultino iscritte all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea; su richiesta della Conferenza stessa, in sessione comunitaria, illustra, prima dello svolgimento delle riunioni, la posizione che il Governo intende assumere e successivamente la informa delle risultanze delle riunioni del Consiglio dell’Unione entro quindici giorni dal loro svolgimento27. La Corte, dunque, legittima definitivamente l’esercizio di poteri sostitutivi o repressivi da parte dello Stato anche nella sfera di competenza regionale, già previsti dal D.P.R. n. 616 e dalla legge La Pergola, non solo al fine di una corretta attuazione degli obblighi comunitari, ma anche per esigenze di uniformità o di unicità dell’attività richiesta, o per motivi di urgenza, tanto da dichiarare inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 6 del D.P.R. n. 616 e, in parte, dell’art. 9 della legge La Pergola, in quanto avrebbe comportato l’esclusione in assoluto di funzioni statali nell’ambito dei rapporti con la CE e non soltanto l’eliminazione di alcune disposizioni che limitano le competenze regionali in materia comunitaria28.

3. Il principio del riconoscimento automatico delle decisioni straniere. L’espressione diritto internazionale privato allude ad un complesso di norme giuridiche statali in cui ciascuno Stato ha le proprie regole di diritto internazionale privato, poste dal legislatore o elaborate dalla giurisprudenza (regole comuni in quanto comunemente applicabili). Tuttavia la consapevolezza dell’utilità della cooperazione internazionale ai fini della disciplina di fattispecie del tipo indicato, e più specificatamente la consapevolezza dell’opportunità che situazioni non totalmente interne ai singoli Stati, proprio per tale loro carattere, vengano disciplinate in maniera uniforme, ha indotto gli stessi Stati (a coppie o, volta a volta, a gruppi più o meno numerosi) a dotarsi di regole uniformi attraverso la stipulazione di un crescente numero di trattati internazionali29. Sono, queste, regole di diritto speciale che in quanto tali prevalgono su quelle comuni, autonomamente poste dal legislatore nazionale. Taluni di questi trattati pongono norme di diritto materiale rivolte a sostituire in toto quelle delle quali ciascuno Stato contraente si era unilateralmente dotato30.

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31 marzo 1971, Commissione c/ Consiglio, causa 22/70, in Raccolta, 263. 13 maggio 1971, International Fruit Company, cause 41-44/70, in Raccolta, 411; 25 marzo 1982, Moskel, causa 45/81, ivi, 1129. 29 Bellagamba, Il sistema italiano di diritto internazionale privato. Rassegna di giurisprudenza. In appendice: la Legge 31 maggio 1995, Milano, 2005, pp. 328. 30 È il caso per es. della Convenzione di Ginevra del 19 marzo 1931 recante la legge uniforme sugli assegni: L. 4 gennaio 1934, n. 61. 28

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Altri riguardano soltanto fattispecie a carattere transnazionale in quanto pongono norme rivolte ad affiancare al diritto materiale31 degli Stati contraenti che inciascuno di essi continuerà a regolare le fattispecie totalmente interne32. Questo è il modus procedendi usuale della Comunità europea che non solo ha promosso la stipulazione di convenzioni di diritto internazionale privato di estrema importanza, ma che oggi, a seguito delle modifiche apportate con il Trattato di Amsterdam, può adottare «misure nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile» (art. 61 C.E.) che includono tra l’altro «il miglioramento e la semplificazione … del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale» e «la promozione della compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di competenza giurisdizionale» (art. 65 C.E.). Lo strumento attraverso cui vengono adottate dette misure è il regolamento che, oltre ad essere direttamente applicabile all’interno degli ordinamenti nazionali (e dunque non richiedendo atti di adattamento ad hoc), consente di uniformare completamente le normative nazionali (la direttiva infatti necessiterebbe di integrazioni che potrebbero essere diverse da Stato a Stato). L’interesse della Comunità per il d.i.p. è maturato lentamente. I primi regolamenti adottati sulla base dell’art. 65 C.E. sono iregolamenti del 29 maggio 2000 relativi rispettivamente alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi (n. 1347/2000, poi sostituito dal regolamento n. 2201/2003); alle procedure di insolvenza (n. 1346/200033); alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale (n. 1348/200034). Sono seguiti il regolamento del 22 dicembre 2000 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (n. 44/200135), il regolamento del 28 maggio 2001 relativo alla cooperazione fra autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore della assunzione delle prove in materia civile e commerciale

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Per norma materiale si intende, come meglio si vedrà in seguito, la norma che detta una disciplina idonea a regolare concretamente la situazione o il rapporto giuridico: per es. l’art. 2 cod. civ. stabilisce che «la maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno» e che «con la maggiore età si acquista la capacitàdi agire». Si parla dunque qui di norme materiali per distinguerle dalle norme di d. i. pr. che hanno carattere strumentale e rispettivamente indicano se il giudice abbia titolo per giudicare – norme di diritto processuale civile internazionale – e in base alle norme di diritto materiale di quale Stato dovrà eventualmente farlo – norme di conflitto –: per es. l’art. 23, comma 1, della legge del 1995 stabilisce che «la capacità di agire delle persone fisiche è regolata dalla loro legge nazionale». 32 È il caso per es. di due Convenzioni elaborate in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite: la Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 sui contratti di vendita internazionale di merci (L. 11 dicembre 1985, n. 765) e la Convenzione di New York del 23 novembre 2005 sull’uso di comunicazioni elettroniche nei contratti internazionali. 33 In G.U.C.E. n. L 160 del 30 giugno 2000. Modifiche sono state apportate con regolamento (CE) n. 694/2006 del Consiglio del 27 aprile 2006, in G.U.C.E. n. L del 6 maggio 2006. 34 In G.U.C.E. n. L 160 del 30 giugno 2000. Il regolamento n. 1348/2000 è oggetto di una proposta di regolamento di modifica, presentata dalla Commissione in data 11 luglio 2005 (COM(2005) 305 def.), e oggetto di parere del Comitato economico e sociale (14 febbraio 2006). In data 8 novembre 2005, la Cortedi Giustizia si è per la prima volta pronunciata sul regolamento n. 1348/2000 (causa C-443/03, Leffler). 35 In G.U.C.E. n. L 12 del 16 gennaio 2001.

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(n. 1206/200136), il regolamento del 25 aprile 2002 che delinea un quadro generale comunitario di attività per agevolare la cooperazione giudiziaria in materia civile, istituendo un Atlante giudiziario europeo in materia civile, disponibile in tutte le lingue ufficiali dell’Unione europea ed accessibile via internet (n. 743/200237), il regolamento del 21 aprile 2004 che istituisce il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati (n. 805/200438), nonché il regolamento del 12 dicembre 2006 che sostituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento (n. 1896/2006): il regolamento relativo alle misure atte a semplificare ed accelerare il contenzioso in materia di controversie di modesta entità39. Negli ultimi anni la Comunità ha altresì valutato l’ipotesi di uniformare le norme di conflitto, soprattutto nel settore delle obbligazioni40. Sono già state inoltre elaborate dalla Commissione tre proposte di regolamento. Il 22 luglio 2003 è stata presentata dalla Commissione la proposta di regolamento c.d. Roma II sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali. Il 15 dicembre 2005 la Commissione ha invece presentato la proposta di regolamento c.d. Roma I sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali41 e quella sulla giurisdizione, la legge applicabile, il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze e la cooperazione amministrativa in materia di obbligazioni alimentari42. I1 legislatore comunitario assume l’esistenza di una reciproca (piena) fiducia tra gli ordinamenti e i giudici dei diversi Stati membri e da tale assunto fa derivare l’impostazione e la soluzione dei problemi relativi alla circolazione delle sentenze. Illuminanti appaiono al riguardo due passi del preambolo del regolamento n. 44/2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che conviene citare testualmente:

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In G.U.C.E. n. L 174 del 27 giugno 2001. In G.U.C.E. n. L 115 del 1° maggio 2002. 38 In G.U.C.E.n. L 143 del 30 aprile 2004. 39 La proposta è stata presentata dalla Commissione il 15 marzo 2005. Il regolamento n. 1896/2006 è in G.U.C.E. n. L 399 del 30 dicembre 2006. Vanno evidenziate le seguenti iniziative: la creazione del Libro verde sul credito ipotecario (parere del Consiglio economico e sociale del 15 dicembre 2005); la decisione 2001/470/CE del 28 maggio 2001 relativa all’istituzione di una Rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale (in G.U.C.E.n. L 174 del 27 giugno 2001); nonché le direttive 2000/35/CE del 29 giugno 2000, sul ritardo nei pagamenti nelle transazionicommerciali (in G.U.C.E.rn. L 200 dell’8 agosto 2000), e 2002/8/CE del 27 gennaio 2003, intesa a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere attraverso la definizione di norme minime comuni relative al patrocinio a spese dello Stato in tali controversie (in G.U.C.E.n. L 26 del 31 gennaio 2003). 40 Si veda la risoluzione presentata dalla Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio in tema di “coerenza nel diritto contrattuale europeo: un piano d’azione” del 2003 (COM(2003) 68, 12 febbraio 2003). 41 Volta a trasformare in regolamento la Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. 42 Gli altri settori nei quali sono in corso tentativi di “comunitarizzazione” sono quelli attinenti alle successioni e ai testamenti (Libro verde, presentato dalla Commissione in data 1° marzo 2005: c.d. progetto Roma IV), al divorzio (Libro verde, presentato dalla Commissione in data 14 marzo 200519: c.d. progetto Roma III). Nel Programma dell’Aja sul rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell’Unione europea del 2004, il Consiglio europeo ha inoltre previsto per il 2006 la predisposizione di un Libro verde in materia di regime patrimoniale fra coniugi. In tutti questi settori l’intenzione sarebbe di uniformare contemporaneamente le norme sulla giurisdizione, sul diritto applicabile e sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni straniere. 37

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«La reciproca fiducia nella giustizia in seno alla Comunità implica che le decisioni emesse in un altro Stato membro siano riconosciute di pieno diritto, ossia senza che sia necessario esperire alcun procedimento, salvo che vi siano contestazioni. La reciproca fiducia implica altresì che il procedimento inteso a rendere esecutiva, in un determinato Stato membro, una decisione emessa in un altro Stato membro si svolga in modo efficace e rapido. A tal fine la dichiarazione di esecutività di una decisione dovrebbe essere rilasciata in modo pressoché automatico, a seguito di un controllo meramente formale dei documenti prodotti e senza che il giudice possa rilevare d’ufficio i motivi di diniego dell’esecuzione indicati nel presente regolamento»43. Al fine quindi di effettuare un’analisi mirata delle problematiche più sopra descritte appare necessario analizzare le fattispecie dei singoli regolamenti, innanzi richiamati, posti in essere dal legislatore comunitario.

4. La definizione del riparto tra funzioni normative di diritto internazionale privato e comunitarie. L’elevato numero di normative emanate nel settore della cooperazione giudiziaria civile, unitamente alla rilevanza degli argomenti da esse disciplinati, dà luogo ad un duplice ordine di conseguenze. Innanzitutto, dal punto di vista comunitario, gli Stati membri dell’Unione Europea44 si sono trovati ad affrontare nell’ultimo periodo questioni molto tecniche e complesse, il cui grado di difficoltà è comunque destinato ad aumentare. Infatti, la difficoltà maggiore è data dal fatto che il legislatore comunitario finisce per occupare spazi un tempo riservati alla sola sovranità nazionale45. Inoltre, il voler promuovere «la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili agli Stati membri»46, fa sì che gli Stati debbano confrontarsi con regole ed istituti processuali diversi dai propri, con tutte le difficoltà che inevitabilmente questo comporta47.

43

Ballarino, Mari, Uniformità e riconoscimento. Vecchi problemi e nuove tendenze della cooperazione giudiziaria nella Comunità europea, in Rivista di diritto internazionale, 2006, pp. 7-46. 44 Il numero degli Stati membri dell’UE è salito da 25 a 27 a seguito dell’ingresso della Romania e Bulgaria, avvenuto il 1° gennaio 2007. 45 Il riferimento è in primo luogo al regolamento n. 805 del 2004 che ha istituito il titolo esecutivo europeo: infatti questa norma dispone come si è avuto modo di analizzare nella Parte II, par. 4, che una decisione giudiziaria, una transazione giudiziaria o un atto pubblico (che rispettino tutti i requisiti fissati dal regolamento) possano ricevere la certificazione del titolo esecutivo europeo, e possano, conseguentemente, essere direttamente eseguiti in ogni Stato membro. Per iniziare la fase esecutiva è quindi sufficiente consegnare all’ausiliare del giudice il certificato di titolo esecutivo europeo. Il regolamento n. 805 del 2004 incide quindi notevolmente nell’ambito del processo esecutivo che rappresenta ancora uno degli ultimi baluardi dell’imperium statale. In questo senso, vedasi l’ampio approfondimento di De Cristofaro, La crisi del monopolio statale dell’imperium all’esordio del titolo esecutivo europeo, in Int’llis, 2004, p. 141 ss. Sul rapporto tra sovranità statale e normative comunitarie, sempre in relazione al regolamento su l titolo esecutivo europeo, vedasi anche Biavati, Europa e processo civile. Metodi e prospettive, Torino, 2003, p. 142 ss. 46 Così l’art. 65, lett. C, Trattato CE. 47 A questo proposito meritano di essere ricordate le difficoltà a cui il Consiglio ha dovuto far fronte in sede di negoziazione del progetto di regolamento che istituisce un procedimento di ingiunzione di pagamento analizzate

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Affrontando il tema, quindi, delle norme interne e di quelle di provenienza comunitaria, si rende necessario delimitare il campo di analisi. La problematica relativa all’individuazione della ricostruzione dei criteri che governano i rapporti tra le fonti comunitarie ed interne si sdoppia in due profili: l’individuazione dell’area di potenziale collisione (e quindi possibili insorgenze delle antinomie) tra la sfera dell’ordinamento comunitario e quella dell’ordinamento interno e l’identificazione dei criteri di soluzione delle antinomie, con conseguente determinazione della qualificazione più appropriate delle norme interne che risultino recessive48. Il concorso di una pluralità di criteri posti dal trattato per la determinazione delle competenze rende estremamente ampie, se non del tutto imprevedibili, lo sviluppo delle incidenze del diritto CE sui sistemi nazionali. Una significativa manifestazione dell’intento della Comunità di svolgere un ruolo a tutto campo nella elaborazione di norme uniformi di d.i.p. e della disponibilità degli Stati terzi a riconoscerle questo ruolo va ravvisata nell’adesione della Comunità alla Conferenza dell’Aja di d.i.p. che è stata oggetto della decisione del Consiglio del 5 ottobre 200649 dopo che da parte sua la Conferenza dell’Aja aveva proceduto a modificare il proprio Statuto, sinora aperto solo agli Stati, al fine di rendere possibile l’adesione della Comunità. Ma anche soluzioni diverse sono state sperimentate (con il risultato di rendere assai complesso il quadro normativo): una decisione del Consiglio 18 novembre 2002 ha autorizzato gli Stati membri a ratificare o ad aderire, nell’interesse della Comunità, alla Convenzione internazionale sulla responsabilità e sul risarcimento dei danni prodotti daltrasporto via mare di sostanze pericolose e nocive, Convenzione HNS, del 199950. Detta convenzione è destinata ad incidere anche sull’applicazione del regolamento n. 44/2001. Sotto la rubrica «Convenzioni internazionali», nell’art. 2 della legge 218 del 1995 si rinvengono due disposizioni di carattere generale che, sebbene a rigore superflue, rivestono un’indubbia importanza ricognitiva e pedagogica. Infatti, è fuor di dubbio che per legge non si può regolare il valore di norme di origine convenzionale e che quindi il dire che «le disposizioni della presente legge non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia» risulta del tutto inutile sul piano strettamente tecnico-giuridico51. Tuttavia, rispetto a una problematica tanto delicata quale è quella dei rapporti tra fonti normative appartenenti a ordinamenti giuridici diversi, altrettanto indubbia appare l’opportunità della disposizione in esame52.

nella Parte II, par. 4. 48 Come si è analizzato nel corso di questo lavoro, il problema viene risolto con la soccombenza delle norme interne salvo i limiti predisposti dal D.i.p. dell’ordine pubblico e delle norme ad applicazione necessaria. 49 Mosconi - Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, Utet, 2008, p. 13 ss. 50 In RDIPP, 2003, p. 337. 51 Giardina, Le convenzioni di diritto uniforme nell’ordinamento interno, RDI, 1973, p. 701. 52 Che del resto trova puntuale riscontro per es. nell’art. 53 della legge federale austriaca del 15 giugno 1978, n. 304 sul d. i. pr. («La presente legge federale non incide sulle disposizioni delle convenzioni internazionali») e nell’art. 12 della legge federale elvetica sul d.i.p. del 18 dicembre 1987 («Sono fatti salvi i trattati internazionali»).

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In presenza di una giurisprudenza che talora ignora (consapevolmente o meno) una convenzione applicabile; che spesso richiamava i precetti convenzionali solo ad abundantiam, per convalidare e rafforzare soluzioni già raggiunte sulla base delle disposizioni nazionali di d.i.p.; che talora applica Convenzioni non ancora ratificate senza fornire in proposito spiegazione alcuna e quindi sostituendosi, verosimilmente senza esserne consapevole, al Governo e al Parlamento, lo sforzo «pedagogico» del legislatore non sembra certo da biasimare, e appare del tutto coerente con quanto si legge nel 1° comma dell’art. 117 successivamente introdotto nella Costituzione53. Non è questa la sede per un approfondito studio delle problematiche attinenti alla stipulazione dei trattati e delle modalità mediante le quali avviene l’adattamento dell’ordinamento italiano alle norme internazionali, ovvero, detto in altro modo, delle modalità attraverso le quali le norme internazionali vengono introdotte nell’ordinamento italiano. Basti qui ricordare che se il diritto internazionale non impone che nella stipulazione si segua un iter formativo particolare, sul piano interno va pur sempre soddisfatta l’esigenza, posta dall’art. 80 della nostra Costituzione, che sia autorizzata dalle Camere, con legge, la stipulazione dei trattati che «importano […] modificazioni di legge». Quanto all’adattamento per le norme convenzionali il procedimento regolarmente seguito è un procedimento speciale, che si realizza mediante un ordine relativo a ogni singolo trattato (cosiddetto ordine di esecuzione) che può essere dato con atto amministrativo quando l’accordo riguarda materie discrezionalmente disciplinabili dalla Pubblica Amministrazione, ma che nelle materie che qui interessano viene impartito dal legislatore, con legge54. Di solito, nella stessa legge con la quale viene autorizzata la ratifica di un trattato trova spazio una disposizione per mezzo della quale al trattato stesso viene data «piena ed intera esecuzione». Questa procedura di adattamento è però utilizzabile soltanto quando le norme del trattato sono formulate in maniera tale da essere direttamente applicabili dagli operatori giuridici interni (cioè in ultima analisi dal giudice) o quando, pur essendo bisognose di integrazione e completamento, all’interno del nostro ordinamento già esistono norme idonee a svolgere una simile funzione55. Altrimenti occorrono atti specifici del legislatore che deve intervenire attraverso il procedimento normativo ordinario, vale a dire attraverso la statuizione di norme che non si distinguono da quelle che esso normalmente pone, se non per la occasiolegis cioè per il motivo che ne determina l’emanazione, che è appunto quello di produrre nell’ordinamento giuridico italiano norme corrispondenti a determinate norme convenzionali, o suscettibili di completarle.

53

Così modificato dalla L. costituz. 18 ottobre 2001, n. 3: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto [...] dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». 54 Pesce, Le convenzioni internazionali in materie particolari ed il conflitto con la Convenzione di Bruxelles 27 settembre 1968 e con la Convenzione di Lugano 16 settembre 1988 in materia di litispendenza, Diritto Marittimo, 1993, p. 675. 55 Ad es. talune disposizioni del Titolo IV della legge del 1995 sono idonee ad assolvere una funzione di questo tipo rispetto a quelle convenzioni che impegnano gli Stati contraenti a dare esecuzione alle rispettive sentenze purché rispondenti a determinati requisiti, senza regolare la procedura che, per la verifica di questi requisiti, deve essere seguita in ciascuno Stato contraente).

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Norme di questo tipo sono talvolta dettate mediante una legge apposita, talaltra, in pratica quando la loro necessità viene tempestivamente avvertita, sono incluse nella stessa legge che autorizza la ratifica e ordina l’esecuzione del trattato56. L’art. 2.1 della legge di riforma fa salve le convenzioni «in vigore per l’Italia» e questa sottolineatura può essere messa in relazione con la formula dell’ordine di esecuzione, venuta cristallizzandosi nella prassi legislativa, che fa esplicito riferimento alle disposizioni con le quali il singolo trattato oggetto dell’ordine d’esecuzione regola la propria entrata in vigore. Si può dunque affermare, in via esemplificativa, che il giudice dovrà di volta in volta verificare non solo che la ratifica sia stata autorizzata, ma anche che l’atto di ratifica sia stato firmato dal Presidente della Repubblica e che ne abbia avuto luogo lo scambio, ovvero, per le convenzioni multilaterali, il deposito e, sempre per le convenzioni multilaterali per le quali tale necessità non risulti esclusa (convenzioni erga omnes), che anche l’altro Stato specificamente interessato abbia depositato il proprio strumento di ratifica, ed altresì che sia stato raggiunto il numero minimo di ratifiche richiesto per la cosiddetta entrata in vigore internazionale del trattato, ossia per la sua prima entrata in vigore57. Sempre in relazione ai Trattati multilaterali, infine, il giudice dovrà ancora accertare se siano state eventualmente apposte riserve da parte dell’Italia o dell’altro Stato specificamente interessato. E, ancora, il giudice dovrà accertare che si sia compiuto il periodo di vacatioe che, d’altro canto, non si siano verificate cause di estinzione del trattato. Quanto alle norme di d.i.p. contenute in atti comunitari, occorre distinguere a seconda della natura dell’atto in questione. I regolamenti sono infatti direttamente applicabili nell’ordinamento statale in forza dell’art. 249 (ex 189) del Trattato istitutivo della Comunità europea e del relativo ordine di esecuzione (L. 14 ottobre 1957, n. 1203) e le norme di d.i.p. in essi racchiuse prevalgono in forza del principio della preminenza («primauté») del diritto comunitario sia su quelle poste mediante convenzioni internazionali sia su quelle della legge del 1995. Analoga la situazione (diretta applicabilità e «primauté») delle Convenzioni stipulate dalla Comunità, una volta perfezionato il loro iter formativo e prescrittane l’esecuzione con decisione ad opera della stessa Comunità. Per le direttive, invece, in forza sempre dell’art. 249 C.E., è in principio necessaria l’emanazione di provvedimenti statali di attuazione sicché le norme di d.i.p. da esse previste saranno applicabili da parte dei nostri giudici solo in virtù (e con il rango) del relativo provvedimento di attuazione.

56

Esempi di tutte le ipotesi prospettate si rinvengono nella complessa L. 15 gennaio 1994, n. 64 così intitolata: Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento, aperta alla firma a Lussemburgo il 20 maggio 1980, e della Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, aperta alla firma a L’Aja il 25 ottobre 1980; norme di attuazione delle predette Convenzioni, nonché della Convenzione in materia di protezione dei minori, aperta alla firma a L’Aja il 5 ottobre 1961, e della Convenzione in materia di rimpatrio dei minori, aperta alla firma a L’Aja il 28 maggio 1970. 57 Ziccardi, Questioni dubbie sulla legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, Comunicazione Studi, vol. XXI, Milano, 1997, p. 13.

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Sembra utile aggiungere qualche ulteriore precisazione innanzitutto quanto al rango, nella gerarchia delle fonti italiane, delle norme di (adattamento a) un trattato: è il rango della norma che contiene l’ordine di esecuzione, cioè di regola, per i trattati che qui interessano, il rango della legge ordinaria58. Il procedimento dell’ordine di esecuzione, tuttavia, attribuisce carattere speciale alle norme del trattato, escludendo che possano venire modificate da successive norme di legge (salvo che si tratti di norme puntualmente rivolte a revocare l’efficacia dell’ordine di esecuzione) e giustificandone in tal modo la prevalenza rispetto al diritto nazionale comune che è essenzialmente rappresentato dalla stessa legge del 1995, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. Pertanto, anche in assenza della statuizione dell’art. 2.1, le convenzioni il cui ordine di esecuzione risale a prima dell’entrata in vigore della legge di riforma, se tuttora internazionalmente vigenti, sarebbero comunque applicabili da parte del giudice italiano. Sull’altro versante va ricordata la funzione di limite svolta dai precetti (da tutti i singoli precetti) costituzionali: nel senso che si dovrebbero riconoscere illegittime le norme con le quali si fosse adattato (si fosse preteso di adattare) il nostro ordinamento a norme convenzionali che contrastino con norme costituzionali. A meno che l’adattamento sia stato operato a livello costituzionale o non sia dato rinvenire all’interno della stessa Carta costituzionale una statuizione idonea a «rafforzare» l’ordine di esecuzione assicurandogli una valenza giuridica maggiore di quella della legge ordinaria con cui è stato impartito59. In realtà, sinora, nessun ordine di esecuzione è stato mai impartito con legge costituzionale, né le convenzioni di diritto internazionale privato (così come quelle di diritto materiale uniforme) sembrano trovare specifico appoggio nei precetti costituzionali. Va tuttavia ricordato che nell’art. 11 della Costituzione si rinviene da una parte la giustificazione dell’impiego di leggi ordinarie per autorizzare la ratifica ed ordinare l’esecuzione dei trattati istitutivi della Comunità e dell’Unione europea (così come della Carta delle NazioniUnite), dall’altra parte la giustificazione, che passa attraverso il citato art. 249 C.E., del prevalere rispetto alle leggi ordinarie anche successive dei regolamenti comunitari e delle convenzioni concluse dalla Comunità: sicché, oltre al principio di specialità, anche questo percorso logico-giuridico risulta atto a giustificare la preminenza che deve essere riconosciuta alle norme di d.i.p. rinvenibili nei regolamenti e, in futuro, negli accordi comunitari. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (sia della Corte di Giustizia comunitaria che della nostra Corte Costituzionale), al diritto comunitario viene infatti riconosciuta preminenza («primauté») rispetto al diritto degli Stati membri (ivi comprese le norme di applicazione necessaria)60.

58

Mosconi - Campiglio, op. cit., 20 ss. Davì, Le questioni generali del diritto internazionale privato nel progetto di riforma, RDI, 1990, p. 556. 60 Con una sentenza del 2 marzo 2005, n. 4466, la Corte di Cassazione ha affermato che le autorità italiane, sia giudiziarie che amministrative, sono tenute a non applicare le norme nazionali (ossia italiane) che la Corte di Giustizia, condannando il nostro Stato per violazione del diritto comunitario, abbia appunto ritenuto con esso incompatibili. Sempre all’art. 11 della Costituzione viene ricondotta l’idoneità di obblighi sanciti dalla Carta O.N.U. e da risoluzioni adottate dagli organi delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali ad interferire con il funzionamento del nostro sistema di d.i.p. 59

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L’art. 2 della legge non menziona il diritto comunitario, ma l’esigenza di una interpretazione autonoma e uniforme sussiste anche per le norme di d.i.p. poste mediante regolamenti comunitari: deriva direttamente dal Trattato C.E. e l’art. 234 (ex 177) a tal fine attribuisce la competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Quest’ultima ha affermato la propria competenza anche nei casi in cui il legislatore nazionale decida di estendere l’applicazione delle norme contenute in una direttiva a situazioni diverse da quelle rientranti nel loro ambito di applicazione, così modellando la normativa nazionale sul diritto comunitario61. Va ancora notato che il rapporto tra legge italiana e norme di origine internazionale implica che le norme di funzionamento stabilite, unilateralmente, dal nostro legislatore (le «Disposizioni generali» del Titolo III, Capo I della legge del 1995) non siano di per sé applicabili rispetto alle convenzioni di d.i.p. Un’importante eccezione sembra tuttavia da ammettere in relazione all’operare del limite dell’ordine pubblico. In seguito è intervenuta la legislazione europea, con il Regolamento (CE) 44/2001 (denominato “Bruxelles I”), secondo cui una sentenza pronunziata in uno Stato membro dovrà essere riconosciuta negli altri Stati membri senza la necessità di alcuna procedura speciale, poi sostituito dal regolamento (UE) n. 1215/2012, consistente in un aggiornamento e rifusione del Regolamento “Bruxelles I”. Il 20.12.2012 è stato pubblicato sulla G.U.U.E. n. 351/2012 il regolamento (UE) 12.12.2012, n. 1215, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Il nuovo regolamento, che è entrato in vigore il ventesimo giorno successivo (10.1.2013) (art. 81, co. 1), ha abrogato il regolamento (CE) n. 44/2001 (art. 80), ma è destinato a trovare applicazione a decorrere dal 10.1.2015 (art. 81, co. 2); in deroga all’art. 80, alle decisioni emesse nei procedimenti promossi anteriormente al 10.1.2015, continua ad applicarsi il reg. n. 44/2001 (art. 66.2). Il reg. n. 1215/2012 è composto da un’Epigrafe, che ne contiene i considerando e di 5 capi. Il primo dei considerando dà conto dell’essersi ritenuto opportuno, per motivi di chiarezza, procedere alla rifusione del precedente regolamento, una volta avvertita la necessità di apportarvi modifiche per migliorare l’applicazione di determinate disposizioni e ciò nell’intento di agevolare ulteriormente la libera circolazione delle decisioni e garantire un migliore accesso alla giustizia. Rispetto al reg. n. 44/2001, l’ambito di applicazione del reg. n. 1215/2012 registra talune modificazioni. Il nuovo art. 1, al co. 1, dichiara che la materia civile e commerciale non si estende, oltre che alla materia fiscale, doganale e amministrativa, alla responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii). Lo stesso articolo, al co. 2, precisa che dall’ambito di applicazione del regolamento sono esclusi, come già il regime patrimoniale fra i coniugi, quello derivante da rapporti che secondo la legge applicabile hanno effetti comparabili al matrimonio (lett. a) e, come già i testamenti e le successioni, le obbligazioni alimentari mortis causa (lett. f), nonché quelle derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di

61

Corte di Giustizia C.E., 17 luglio 1997, causa C-28/95, Leur-Bloem; e 7 gennaio 2003, causa C-306/99, BIAO). Questa soluzione è naturalmente estensibile a norme racchiuse in altre fonti comunitarie e può interessare particolarmente l’Italia (a proposito degli artt. 3.2 e 57 della legge n. 218/1995).

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matrimonio o di affinità (lett. e). Infine (lett. b), precisa che, come già i fallimenti, dall’ambito di applicazione del regolamento sono escluse le procedure relative alla liquidazione di società o altre persone giuridiche che si trovino in stato di insolvenza. Alla disciplina del riconoscimento ed esecuzione delle decisioni il reg. n. 44/2001 aveva dedicato, nel testo, il capo III intitolato appunto Riconoscimento ed esecuzione, con gli artt. da 33 a 56, preceduti dall’art. 32 volto a definire la comprensività del termine decisione: questi articoli erano a loro volta suddivisi in tre sezioni, la prima (artt. da 33 a 37) dedicata al Riconoscimento, la seconda (artt. da 38 a 52) all’Esecuzione, la terza (artt. da 53 a 56) alle Disposizioni comuni e queste per aspetti afferenti principalmente alla documentazione dell’istanza. Nei considerando, alla materia erano dedicati i paragrafi (da 16 a 18) che, ponendo a base della disciplina il principio della reciproca fiducia nell’amministrazione della giustizia in seno alla Comunità, da un lato affermavano la riconoscibilità di pieno diritto delle decisioni, senza necessità di esperire alcun particolare procedimento in assenza di contestazioni, dall’altro ne delimitavano il campo di applicazione alle decisioni emesse in uno Stato membro, così restringendo il generale campo di applicazione segnato dalla materia civile e commerciale, a sua volta delimitata dalle materie escluse (art. 1). I punti di tale disciplina venivano indicati nella necessità che, mentre la dichiarazione di esecutività dovesse essere rilasciata in base ad una verifica documentale, escluso il rilievo d’ufficio dei motivi di diniego pur previsti dal regolamento, alla controparte, come al richiedente in caso di rifiuto, dovesse essere riconosciuto il diritto al ricorso. Il reg. n. 1215/2012 ha dislocato in diverso modo la disciplina della materia, che è risultata allo stesso tempo estesa ad ulteriori profili. La definizione del termine decisione ai fini del riconoscimento e dell’esecuzione nel reg. n. 1215/2012 si trova spostata all’art. 2, lett. a): il termine resta riferibile alle sole decisioni di un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro e per il resto la definizione riproduce il contenuto dell’art. 32 reg. n. 44/2001. La sua comprensività risulta allargata ai provvedimenti provvisori e cautelari se emessi da giudice competente secondo il regolamento a pronunciarsi nel merito, ciò però in quanto il convenuto sia stato previamente invitato a comparire ed in mancanza sotto condizione che – se contenuto in una decisione – questa debba essere stata notificata o comunicata al convenuto prima che il provvedimento provvisorio o cautelare possa essere eseguito. La disciplina della materia – nel capo III – è stata ripartita in quattro sezioni, la terza delle quali a sua volta suddivisa in due sottosezioni. Al Riconoscimento è intitolata la prima con gli artt. da 36 a 38; all’Esecuzione la seconda con gli artt. da 39 a 44; al Diniego del riconoscimento e dell’esecuzione la terza. Di questa, la sottosezione prima è relativa al Diniego del riconoscimento e l’art. 45 contiene l’elencazione delle ipotesi in cui – su istanza di ogni parte interessata – il riconoscimento è negato; la sottosezione seconda riguarda il Diniego dell’esecuzione, con gli artt. da 46 a 51, nel primo dei quali è sancito che «Su istanza della parte contro cui è chiesta l’esecuzione, l’esecuzione di una decisione è negata qualora sia dichiarata la sussistenza di uno dei motivi di cui all’articolo 45». La quarta sezione, infine, negli artt. da 52 a 57, contiene Disposizioni comuni a prevalente carattere procedimentale, ma tra queste è anche compresa, prima fra le altre, quella dettata nell’art. 52, secondo la quale «In nessun caso una decisione emessa in uno Stato membro può formare oggetto di un riesame del merito nello Stato membro richiesto». Nei considerando, al principio della fiducia reciproca nell’amministrazione della giustizia è riportata la conseguenza che ai fini della sua eseguibilità la decisione dell’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dovrebbe essere equiparata a quella dello Stato richiesto, sì da non poter essere applicata la disposizione del suo diritto processuale che richiedesse per l’esecuzione della sentenza straniera una previa specifica dichiarazione di esecutività (26): l’art. 39

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reg. dispone così che «La decisione emessa in uno Stato membro che è esecutiva in tale Stato membro è altresì esecutiva negli altri Stati membri senza che sia richiesta una dichiarazione di esecutività».62

5. Conclusioni. La definizione dei rapporti intercorrenti tra l’ordinamento comunitario e l’ordinamento giuridico italiano è uno dei problemi più complessi e delicati che hanno accompagnato il cammino del nostro paese verso l’integrazione europea. Basti ricordare le difficoltà presenti in dottrina in relazione al rapporto intercorrente tra le due tipologie di norme, in particolare il nocciolo del problema deriva, per l’essenziale, dalla circostanza che l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione dei trattati istitutivi è dato con la legge ordinaria: ciò significa secondo i principi generali che regolano l’adattamento del nostro ordinamento al diritto pattizio, che le norme dei trattati comunitari, comprese le modifiche convenzionali intervenute successivamente, e le norme comunitarie emanate secondo i meccanismi di produzione ivi previsti e per le quali non è richiesto alcun provvedimento ad hoc di recepimento ma eventualmente solo provvedimenti di attuazione per conformarsi agli obblighi comunitari assumono nel nostro ordinamento rango di legge ordinaria: con l’ulteriore conseguenza che, nel caso di contrasto della norma interna con quella comunitaria, si applica il principio della legge nel tempo (lexposteriorderogat priori). Tale principio è in grado di risolvere agevolmente l’eventuale conflitto quando la norma interna configgente sia anteriore alla norma comunitaria: quest’ultima prevale anche semplicemente in virtù della sua forza di legge ordinaria che le deriva dalla legge di esecuzione dei trattati istitutivi. Invece, il problema si faceva particolarmente delicato nell’ipotesi opposta, quando la norma interna configgente era successiva alla norma comunitaria, poiché in virtù del ricordato principio quest’ultima era destinata a soccombere63. Questa situazione ha reso fragile e aleatorio non solo il dovere incombente allo Stato di uniformarsi agli obblighi comunitari, ma la stessa permanenza dell’Italia in ambito comunitario dal momento che le sue norme sarebbero suscettibili di disapplicazione a seguito di una diversa e configgente statuizione del legislatore nazionale. Inoltre, bisogna considerare che il sistema comunitario, cui l’Italia ha aderito, comporta rilevanti deroghe o deviazioni rispetto a norme e principi costituzionali dell’ordinamento giuridico nazionale e che una semplice legge ordinaria di esecuzione non è in grado né di ordinare né di risolvere. Per questo motivo alcuni Stati membri hanno scelto di introdurre un’apposita norma costituzionale atta a giustificare trasferimenti di sovranità e la superiorità del diritto comunitario64.

62

http://www.treccani.it/enciclopedia/riconoscimento-delle-sentenze-straniere-in-materia-civile-e-commercialedir-proc-civ-int_(Diritto-on-line)/ 63 La situazione cambierà successivamente con la nuova versione dell’art. 117 Cost. 64 Come l’art. 23 della Legge fondamentale tedesca, l’art. 88 della Costituzione francese o l’art. 93 della Costituzione spagnola.

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In effetti i problemi non sono tardati ad arrivare ed hanno dato luogo ad una laboriosa e complessa giurisprudenza della Corte costituzionale che, nel corso degli ultimi anni, ha tentato di dare una sistemazione al problema dei rapporti con l’ordinamento comunitario. Evidentemente il problema è acuito ed evidenziato dalla concezione dualista che informa i rapporti tra diritto interno e ordinamenti giuridici esterni, internazionale, ma anche altri, che basandosi sul principio del monopolio statale del diritto, postula che qualsiasi norma o imperativo giuridico non possa valere nel nostro ordinamento che a seguito di un richiamo, o “ricezione” da parte del legislatore statale. Che l’ordinamento comunitario trovi il suo fondamento in un trattato internazionale non pare contestabile: la singolarità e l’autonomia che lo contraddistinguono, sottolineata con sempre maggior forza dalla Corte di giustizia, non determinano tuttavia una modifica dell’impianto teorico, né una configurazione diversa dei meccanismi di adattamento. Certamente è vero che gli Stati membri hanno rinunciato a favore della Comunità alla disciplina normativa in diverse materie al fine della creazione di un diritto c.d. unitario. D’altro canto ogni singolo Stato ha, comunque al proprio interno, delle norme di diritto internazionale privato cui allude e che sono talora marginali, talaltra profonde; norme, quindi, che gli ordinamenti statali presentano in tutti i settori che li compongono e la percezione che ciascun ordinamento ha della propria finitezza e della necessità, o quanto meno della opportunità, di darsi regole che tengano conto della specificità di quelle fattispecie (e dunque in definitiva di quei fatti della vita sociale) che non sono totalmente interne all’ordinamento medesimo. Fattispecie che per ciò stesso, salvo ipotesi assai particolari, concernenti accadimenti in alto mare o nello spazio aereo relativo, o persone prive di cittadinanza (apolidi), sono con maggiore o minore intensità collegate anche con uno o più ordinamenti di altri Stati. In termini attuali si potrebbe forse tentare di ricondurre un tale obbligo almeno indirettamente al canone dei diritti della persona umana che è venuto componendosi a partire dalla Dichiarazione universale adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948. In termini di ricostruzione storica ci si potrebbe d’altro canto riallacciare al contesto culturale e giuridico nel quale si è avuta la prima elaborazione del problema, e in particolare alle concezioni dei giureconsulti (glossatori e postglossatori) che per primi ebbero ad occuparsene quando, venuta meno l’unità legislativa del Sacro Romano Impero, in Italia e in altre Regioni d’Europa andarono moltiplicandosi e differenziandosi normative locali. Per determinare l’ambito di efficacia di tali normative si faceva ricorso a principi d’ordine superiore, in pratica a principi desunti dal diritto romano, sentito ancora come, almeno potenzialmente, idoneo a vincolare tutte quante le neonate entità locali. Se si propende invece per la tesi della opportunità e si ritiene che non esista un obbligo di diritto internazionale generale, ossia una consuetudine obbligatoria per tutti quanti gli Stati, conviene precisare che si dovrebbe correttamente parlare di diritto privato internazionale e vedere nella sequenza in cui compaiono gli aggettivi che qualificano il sostantivo (e definiscono la materia) il risultato dell’attrazione esercitata dalla locuzione diritto internazionale pubblico. Effettivamente nella tradizione accademica italiana due distinte discipline sono state a lungo e tuttora sono spesso associate in un solo insegnamento, sotto l’etichetta «Diritto internazionale»; ed è proprio per distinguere tali discipline che si parla di diritto internazionale pubblico e di diritto internazionale privato. Con la prima espressione, nella quale l’aggettivo pubblico è peraltro pleonastico, si fa riferimento al diritto della Comunità internazionale, cioè al complesso di norme che regolano i rapporti tra i soggetti internazionali, che sono principalmente, ma non solo, gli Stati: si tratta dunque di norme che si formano al di sopra dei singoli Stati, scaturendo dalla loro cooperazio-

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ne e dalla loro contrapposizione (nelle altre lingue: Vólkerrecht; International Law, ma anche Public International Law; Droitdes gens, ma anche Droitinternational e Droitinternational public). Con l’espressione diritto privato internazionale o normalmente, come si è detto, diritto internazionale privato, ci si riferisce all’insieme delle norme che ciascuno Stato si dà per disciplinare situazioni e rapporti (ossia fatti della vita reale) che coinvolgono privati (persone fisiche ed enti collettivi) e che, in ogni settore del proprio ordinamento, non sono totalmente interni all’ordinamento medesimo: situazioni e rapporti cioè che presentano qualche carattere di estraneità rispetto all’ordinamento statale in questione ovvero, come anche si dice, presentano connotati di internazionalità o transnazionalità. È il caso di osservare che in questa sede, parlando in generale, ci si riferisce a una nozione sociologica di internazionalità, dovendosi poi in concreto valutare, dal punto di vista dello specifico sistema normativo nella cui ottica ci si colloca, la rilevanza o irrilevanza giuridica di quel carattere di internazionalità, ossia di estraneità, rispetto al sistema medesimo. Ed è altresì da notare che la valutazione suddetta non è statica e definitiva, ma va riferita ad un dato momento ed è pertanto suscettibile di mutazione: ad esempio un rapporto totalmente interno all’ordinamento giuridico italiano cessa di essere tale nel momento in cui una delle parti assuma una cittadinanza straniera e perda quella italiana o anche, più semplicemente, trasferisca all’estero la propria residenza. Quanto al termine transnazionalità, esso viene usato nell’espressione rapporti transnazionali, di conio relativamente recente, proprio per chiarire meglio che ci si riferisce a situazioni e rapporti tra individui e non fra Stati, ossia internazionali in senso proprio. Ma l’espressione diritto internazionale privato non viene sempre usata con il medesimo significato, o meglio con la medesima portata. In una prima, più ampia accezione essa riguarda tutti quanti i settori dell’ordinamento giuridico. Vi sono infatti, nel nostro e negli altri ordinamenti, norme di diritto penale e di diritto processuale penale internazionale, di diritto amministrativo internazionale, di diritto tributario internazionale riconducibili, al pari di quelle di diritto processuale civile internazionale e di diritto privato internazionale, alla nozione data di diritto internazionale privato. È invece soltanto a queste due ultime categorie di norme, che riguardano i profili sia processuali che materiali dei rapporti privatistici, che in un’accezione intermedia si parla di diritto internazionale privato. Infine, nel suo significato più ristretto, che è forse quello maggiormente radicato nella tradizione didattica italiana, l’espressione diritto internazionale privato esclude anche i profili processuali. Del resto è proprio rispetto alle relazioni interindividuali, cioè del diritto privato, che si è storicamente cominciato ad avvertire il problema della disciplina di situazioni non totalmente interne; che il problema stesso ha assunto le dimensioni più vistose e che, per risolverlo, si sono affinate tecniche particolari e differenziate rispetto a quella ordinaria della produzione di norme che direttamente forniscono la disciplina concreta o materiale della fattispecie. La principale e più caratteristica di queste tecniche consiste nella produzione di norme idonee a guidare il giudice nella individuazione del diritto da applicare, e questo spiega l’impiego frequente di espressioni quali norme di scelta (del diritto applicabile) oppure norme di conflitto o anche norme di collisione (choice of law rules, conflictrules, Kollisionsnormen), così come si parla di conflitti di leggi (conflicts of laws. conflits de lois) sulla traccia delle formule «de collisione statutorum» e «de conflictulegum» impiegate negli scritti dei giureconsulti e nelle legislazioni municipali del medioevo italiano.

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E vale la pena di notare che l’espressione «conflitti di leggi» (conflicts of laws, conflits de lois), già presente nella Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali65 è stata introdotta anche nel Trattato istitutivo della Comunità europea. L’art. 65 lett. b) di quest’ultimo Trattato, nella sua versione attuale, affida alla Comunità il compito di adottare misure idonee a promuovere, oltre che “il miglioramento e la semplificazione … del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale”, anche la «compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di competenza giurisdizionale». Questa terminologia mette in risalto il problema centrale della materia, ossia la coesistenza di distinti ordinamenti giuridici statali, diversi l’uno dall’altro, i quali in virtù dei contatti che presentano con un medesimo fatto di vita sociale «aspirano» o, per dir meglio, tacitamente si candidano a regolarlo, ciascuno a suo modo. Ma dire che così si configurino conflitti di giurisdizioni e conflitti di leggi è puramente metaforico e non sottintende affatto, appena il caso di dirlo, un conflitto fra Stati.66 Solo in epoca recente il legislatore italiano ha concentrato in un unico testo la disciplina nazionale (l’importanza di questo qualificativo emergerà più avanti) del diritto internazionale privato, inteso nella sua accezione intermedia, comprensiva anche dei profili processuali. Si tratta della legge 31 maggio 1995, n. 218 dedicata appunto alla «Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato»: essa è entrata in vigore il 1° settembre 1995 (ad eccezione del Titolo IV la cui entrata in vigore è stata via differita ed è avvenuta il 31 dicembre 1996). La particolarità alla luce di quanto esposto è che per la natura di determinati regolamenti gli stessi trovano diretta applicazione all’interno del nostro ordinamento al fine di favorire il disegno comune ai padri fondatori del diritto internazionale privati quello di un diritto uniforme in tutti gli Stati. Conviene ancora osservare che i regolamenti comunitari utilizzano l’espressione competenza anche per individuare la nozione che nel linguaggio giuridico italiano si identifica con il termine giurisdizione (il titolo della versione italiana del regolamento del 2000 parla in effetti di competenza giurisdizionale). Questa terminologia riflette l’usuale terminologia francese (lingua nella quale era stata negoziata la Convenzione di Bruxelles) e, come è facile comprendere, finisce per influenzare anche il linguaggio italiano. È peraltro importante altresì notare che, nel redigere i regolamenti che verranno ora esaminati, il legislatore comunitario si è posto in buona sostanza di fronte allo spazio rappresentato dai territori degli Stati membri dell’Unione Europea come di fronte a uno spazio giudiziario unitario, ossia nella stessa ottica di un legislatore nazionale allorché ripartisce per territorio la competenza tra i propri giudici. Si deve inoltre sottolineare che la ripartizione (cioè l’attribuzione) di giurisdizione operata dai regolamenti ha carattere esclusivo, come indica la rubrica dell’art. 6 del regolamento n. 2001/2003, nel senso che sostituisce, in principio, l’attribuzione di giurisdizione operata dai singoli legislatori nazionali a favore dei propri giudici: quest’ultima sopravvive soltanto con carattere residuale potendo esplicarsi solo

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In particolare l’art. 1.1: L. 18 dicembre 1984, n. 975, con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 (L. 16 giugno 1998, n. 209). 66 Correttamente Cass., sez. un., 8 febbraio 2001, n. 47, parla di “conflitto virtuale” tra norme di Stati diversi.

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qualora nessuno dei titoli di giurisdizione stabiliti dai regolamenti medesimi operi a favore di uno Stato comunitario. L’unico limite, quindi, al ricorso a tale forma di diritto internazionale uniforme è data dai quei due principi dell’ordine pubblico e delle norme ad applicazione necessaria che limitano l’applicazione della norma straniera all’interno del nostro ordinamento. Infine, appare orami evidente che l’intento del legislatore di un diritto uniforme, in grado di regolare le fattispecie di diritto comune in modo identico anche oltre i confini nazionali,in particolare di ciò sarebbero contenti i padri della dottrina tra cui il Mancini. Infatti sebbene si stia apprestando una base di diritto comune transnazionale bisogna però sottolineare che lo stesso trova applicazioni solo all’interno dei confini della comunità europea allontanandosi da quel concetto di diritto spontaneo, di natura pattizia, che alcuni autori alla metà dell’ottocento auspicavano al fine di determinare convenzionalmente tra le parti il diritto applicabile. Certo quanto sin ora fatto dal legislatore europeo e nazionale apparirebbe a tali teorici un’incredibile passo in avanti tanto è vero che il principio stesso di sovranità dello Stato viene meno al solo fine di favorire i rapporti, anche commerciali, tra i cittadini degli stessi, cosa per l’epoca non concepibile. Infine, dalla disamina più sopra effettuata si può tranquillamente asserire l’importanza di tale evoluzione che non deve essere però un punto di arrivo per il legislatore futuro, che in tal senso si cimenterà, ma un punto di partenza volto a colmare le lacune che ancora determinati regolamenti presentano e fornendone le basi di altri affinché l’idea tanto cara al Mancini ed al Savigny trovi una concreta applicazione senza alcuna limitazioni territoriale, sia europea che nazionale.

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Prove tecniche di trasmissione di populismo penale: l’ennesima riforma dello scambio elettorale politico-mafioso Sommario: 1. Premessa. La legge n. 43/2019: un manifesto a forti tinte simbolico-espressive. – 2. Linee evolutive dei differenti interventi riformisti della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, sino alla legge n. 43/2019. – 2.1. L’ampliamento della platea dei soggetti attivi: esplicitazione dell’inclusione degli intermediari ed immutata area di operatività della fattispecie. – 2.2. Le condotte incriminate. L’oggetto della controprestazione del promissario tra la precedente inclusione di «altra utilità» e le imponenti criticità della «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa». – 2.3. Il “ruolo” del c.d. metodo mafioso e l’affiancamento della promessa resa da “soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis”. – 2.4. La deriva populistica si abbatte sulla dosimetria sanzionatoria. – 2.5. Il terzo comma del «nuovo» art. 416-ter: la trasformazione del voto di scambio in “reato di danno”. – 2.6. Sintetiche considerazioni conclusive. La pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Abstract The author intends to analyse the peculiar changes to the case of political-mafia electoral exchange, introduced by the Law 21 May 2019, n. 43. In the media, the non-marginal innovations found in the reformist plant, accidents both in the primary precept and on the sanctioning side, frame a range of mutations that end up ranging between substantial neutrality and irrelevance of some, with respect to the irrational patent of others. The dim lights of the new legislation are overwhelmed by much more imposing shadows. to the unreasonableness of a tightening of the punitive response related to the satisfaction of populist demands for strict repression. Altogether, there is a well-founded suspicion that the markedly symbolic and vacuously proclaiming nature of the recently coined regulatory text could result in a further detriment to the application possibilities of art. 416-ter c.p. L’autore intende analizzare le peculiari modifiche alla fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso introdotte dalla Legge 21 maggio 2019, n. 43. In medias res, le non marginali innovazioni rinvenibili nell’impianto riformista, incidenti tanto sul piano del precetto primario, quanto sul versante sanzionatorio, incorniciano un ventaglio di mutazioni che finiscono per spaziare tra la sostanziale neutralità ed irrilevanza di talune, rispetto alla patente irrazionalità di talaltre. Le fioche luci della novella legislativa risultano travolte da ben più imponenti ombre: tra queste, le più ingombranti appaiono afferire da un lato all’incapacità di incidere positivamente in termini di effettività della fattispecie, dall’altro all’irragionevolezza di un inasprimento della risposta punitiva connessa al soddisfacimento di populistiche esigenze di rigorosa repressione. Complessivamente, si ricava il fondato sospetto che la natura marcatamente simbolica e vacuamente proclamatoria del testo normativo di recente conio, potrebbe tradursi in un ulteriore detrimento delle possibilità applicative dell’art. 416-ter c.p.

1. Premessa. La legge n. 43/2019: un manifesto a forti tinte simbolico-espressive. La Legge 21 maggio 2019, n. 43 (“Modifica all’art. 416-ter del codice penale in materia di voto di scambio politico-mafioso”), entrata in vigore l’11 giugno 2019, configura l’ennesimo


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intervento riformatore dell’art. 416-ter realizzato nel corso degli ultimi anni; difatti, in precedenza, l’art. 1, l. 17 aprile 2014, n. 62, aveva condotto a compimento la tanto sospirata riforma dell’originaria formulazione introdotta dall’art. 11-ter, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, in l. 7 agosto 1992, n. 356. A sua volta, l’art. 15, l. 23 giugno 2017, n. 103, c.d. “Riforma Orlando”, aveva già profondamente inciso in punto di dosimetria sanzionatoria, mediante un primo sensibile incremento delle cornici edittali di pena. Prima di procedere ad una compiuta ricognizione delle peculiari modifiche intessute dalla legge di recente conio, appare alquanto impellente l’anticipazione di una valutazione inerente alla natura ed alla portata complessiva del medesimo testo normativo. Difatti, la legge n. 43/2019 pare inesorabilmente porsi in linea di sostanziale continuità rispetto ad oramai sempre più dilaganti tendenze di matrice simbolico-espressiva all’interno della legislazione penale, veicolate da un linguaggio giuridico contrassegnato da «forti tinte emozionali, ove sovente si fa strame dei principi fondamentali in nome di una risposta che possa calmare i bisogni emotivi di pena della popolazione. Da ciò, naturalmente, un linguaggio penalistico a forti tinte simbolico-espressive, che caratterizzano il c.d. populismo penale»1. Non può, in tal senso, non condividersi la pregevole rilevazione in base alla quale «l’ispirazione populistica si è notoriamente tradotta in una accentuata strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche […]»2: nel caso di specie, la più recente riforma in materia di voto di scambio politico-mafioso finisce per risolversi in un impiego strumentale del diritto penale, stimolato da un’intuitiva possibilità aggregativa di consensi intorno a leggi che si propongono di contrastare fenomeni di imponente allarme sociale, quale è la contiguità politico-mafiosa di tipo elettorale, mediante la predisposizione di un elevato ed, come avremo modo di rilevare più ampiamente in seguito, alquanto irragionevole innalzamento del carico sanzionatorio. Il complesso impianto riformista, introdotto dalla legge n. 43/2019, è bene anticiparlo in questa sede, si compone di non secondarie innovazioni rispetto alla previgente disciplina, incidenti tanto sul piano del precetto primario, afferente alla condotta penalmente rilevante, quanto su quello del precetto secondario, relativo alla dosimetria sanzionatoria; il quadro che ne promana tratteggia l’introduzione di modifiche alla fattispecie che, nella migliore delle ipotesi, non paiono apportare alcun significativo contributo riformatore alla disciplina pregressa, rispetto ad altre le quali, diversamente, comportano l’elaborazione di soluzioni avvinte da una patente dose di irrazionalità3. Ancora una volta, l’approccio populistico4 riverbera una pericolosa ed ingiustificata svalutazione della dimensione

1

Così, pregevolmente, Manna, Uno spettro si aggira per l’Europa: il populismo politico penale, in Aa.Vv. (a cura di Fanti), Diritto e processo amministrativo. Giornate di studio in onore di Enrico Follieri, Atti del Convegno – Lucera, 22-23 giugno 2018, Diritto e processo amministrativo, Quaderni, n. 30, Esi, 2019. 2 Cfr. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, 97; nonché, Pulitanò, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, 125, secondo il quale l’odierna legislazione penale «ben si presta a mettere in scena risposte rassicuranti ad emozioni e paure, alla paura del crimine, a bisogni di sicurezza e di pena (o di vendetta?)». 3 In tal senso, cfr. Amarelli, La riforma dello scambio elettorale, in www.penalecontemporaneo.it, 4 giugno 2019. 4 Per una mirabile dissertazione in tema di approccio populistico, cfr. Fiandaca, op. cit., 101, il quale rileva che: «Atteggiamenti politici come questi ora riportati sono sintomatici di populismo penale? In effetti direi di sì, e per più di una ragione. Intanto, per la propensione a vedere nell’intervento penale uno strumento di per sé decisivo

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tecnica della legiferazione penale, nonché dell’imprescindibile ossequio ai profili garantistici. Divengono, conseguentemente, consistenti i dubbi circa l’effettiva tenuta della novella legislativa nella concreta prassi applicativa, paventandosi il condivisibile rischio che «la legge 43/2019 potrebbe condividere un destino non solitario, lo stesso che hanno corso e corrono tutte le norme “manifesto” in cui la tecnica nomopoietica cede il passo al proclama e annacqua, sino all’inapplicabilità, i precetti sanzionatori»5.

2. Linee evolutive dei differenti interventi riformisti della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, sino alla legge n. 43/2019. Nel tentativo di prefigurare le peculiari modifiche, introdotte dall’ennesima e più recente riforma in tema di voto di scambio politico-mafioso, diviene impellente una riconduzione, seppur necessariamente contraddistinta da un elevato grado di sintesi, delle linee evolutive che hanno caratterizzato la conformazione contenutistica della presente fattispecie, a far luogo dalla sua originaria formulazione, introdotta nella legge di conversione del d.l. n. 306/92, recante “Misure urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”. La tensione ricostruttiva che ivi ci impegna, risulta alimentata dalla volontà di tratteggiare tanto il processo di riscrittura dell’art. 416-ter c.p., intervenuto in seguito all’approvazione della legge n. 62/20146, quanto, in misura ancor più compiuta, di procedere all’analisi delle rilevanti innovazioni, rispetto alla stessa riforma del 2014, condotte ad emersione dall’entrata in vigore della legge n. 43/20197.

per contrastare un fenomeno pur complesso come l’inquinamento mafioso della politica; e, nel contempo, per la tendenza […] a identificare nel varo di una nuova norma penale il traguardo finale idoneo a dare senso e, perciò, a coronare un lungo impegno politico. Ancora, è sintomatica di un approccio populistico proprio la svalutazione quasi preconcetta sia della dimensione tecnica della legiferazione penale, sia dei profili garantistici. Come se si trattasse, piuttosto che di problemi seri di politica criminale, di sofisticherie e di bizantinismi da professori lontani dalla sostanza delle cose e poco sensibili alle reali aspettative dei cittadini. Insomma, la tecnica penalistica (con tutto ciò che vi è connesso anche in termini di principio) faccia un passo indietro di fronte alla necessità (politica) di dare un segnale politico!». 5 Così Cisterna, Voto di scambio politico-mafioso: con la nuova normativa aumentano gli anni di reclusione e scatta l’interdizione perpetua, in GDir, 26/2019, 23. 6 Legge 17 aprile 2014, n. 6. Modifica dell’art. 416-ter del codice penale, in materia di scambio elettorale politicomafioso. Art. 1. 1. L’articolo 416-ter del codice penale è sostituito dal seguente: «Art. 416-ter. - (Scambio elettorale politico-mafioso). - Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma. […]». 7 Legge 21 maggio 2019, n. 43. Modifica dell’art. 416-ter del codice penale, in materia di scambio elettorale politico-mafioso. Art. 1. Modifica al codice penale. 1. L’articolo 416-ter del codice penale è sostituito dal seguente: «Art. 416-ter. - (Scambio elettorale politico-mafioso). - Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis. La stessa pena si applica

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Nel medesimo humus concettuale, necessario punto di approccio iniziale diviene una stringata proposizione di un dato, da considerarsi ormai assolutamente incontrovertibile, inerente all’assoluta inadeguatezza dell’originaria fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso a fornire risposte soddisfacenti nei riguardi delle esigenze di repressione del fenomeno della contiguità politico-mafiosa, certamente a cagione del contesto emergenziale posto a base della sua intera gestazione, foriero di un terminale “prodotto sterile della legislazione simbolica”8, privo di auspicati risvolti in punto di effettività9. In particolare, pur evitando di indugiare oltremodo su aspetti di alquanto dilagante notorietà, profonde criticità del primigenio testo normativo inerivano tanto al rigido ancoraggio al rapporto sinallagmatico “promessa di voti versus erogazione di denaro”10, quanto all’identificazione del momento consumativo del reato nell’erogazione di una somma di denaro ad opera del candidato, piuttosto che nell’antecedente contesto temporale di stipulazione del pactum sceleris. Le presenti complessità, hanno condotto autorevole dottrina11 a salutare, pur nella permanenza di peculiari aspetti controversi, in termini di pregnante positività l’opera riformatrice compiuta dalla l. n. 62/2014, capace di procedere, mediante una profonda incisione tanto sul tipo criminoso, quanto sulla cornice edittale della risposta sanzionatoria, ad una strutturazione del voto di scambio in senso implementante la sua efficacia applicativa e la sua razionalità. Per converso, la novella legislativa elaborata con la l. n. 43/2019, prefigura l’assunzione da parte del reato di scambio elettorale politico-mafioso di problematici risvolti costitutivi, disvelando, come cercheremo di dimostrare nel prosieguo del nostro percorso espositivo, una conformazione complessiva contraddistinta da asperità di particolare momento.

2.1.

L’ampliamento della platea dei soggetti attivi: esplicitazione dell’inclusione degli intermediari ed immutata area di operatività della fattispecie. Per quanto peculiarmente attiene al novero dei soggetti attivi, non v’è dubbio alcuno che la modifica impregnata della maggior carica innovativa sia stata quella realizzata dalla precedente

a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma. Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis aumentata della metà. In caso di condanna per i reati di cui al presente articolo, consegue sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici […]». 8 In questi termini, Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso. Una più chiara graduazione del disvalore delle condotte di contiguità mafiosa?, in Dir. pen. cont., n. 2/2014, 5. 9 Per una puntuale ricostruzione dell’origine della fattispecie e dei suoi congeniti difetti strutturali cfr., ex multis, de Francesco, Commento all’art. 11 ter d.l. 8 giugno 1992, n. 306, in Leg. pen., 1993, 122 ss.; Visconti, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. pen., 1993, 273 ss.; Fiandaca, Accordo elettorale politico-mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa. Una espansione incontrollata del concorso criminoso, in FI, 1996, V, 127 ss; Panetta - Balsamo, Sul patto elettorale politico mafioso vent’anni dopo. Poche certezze, molti dubbi, in CP, 11/2012, 3756 s.; Madia, Scambio elettorale politico-mafioso: il fascino riscoperto di una fattispecie figlia di un dio minore, in CP, 9/2013, 3328 ss. 10 Cfr. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 9. 11 Cfr. Fiandaca, Scambio elettorale politico-mafioso: un reato dal destino legislativo e giurisprudenziale avverso?, in FI, 2015, 522 ss.; Squillaci, Il “nuovo” reato di scambio elettorale politico-mafioso, in www.archiviopenale.it, 2014, 7; nonchè Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Dike Giuridica Editrice, 2017, 262 ss.

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riforma del 2014, comportante un mutamento della struttura della fattispecie di voto di scambio politico-mafioso. L’impianto originario, difatti, configurava un’esemplare ipotesi di figura criminosa plurisoggettiva necessaria impropria, laddove a fronte del necessario riferimento ad una condotta plurisoggettiva sul piano naturalistico, la stipulazione di un patto tra promittente e promissario, per una precisa scelta politico-criminale si comprimevano i soggetti punibili con esclusivo riferimento al candidato in cerca di consensi elettorali, presumendo che la punizione del contegno del partecipe intraneo al sodalizio mafioso avrebbe potuto compiersi ai sensi dell’art. 416-bis c.p.12. La radicale trasformazione dello scambio elettorale politico-mafioso in fattispecie plurisoggettiva necessaria propria, nella quale chi promette di procurare voti è punito, oltre che per la partecipazione nell’associazione di stampo mafioso, altresì per la mera stipulazione dell’accordo, ha avuto l’indiscusso merito di elidere l’anomala conformazione di un reato-contratto nel quale, a fronte del carattere sinallagmatico delle reciproche prestazioni pattuite, si assisteva all’esclusiva punizione di un contraente, reputandosi l’altra parte punita a titolo di partecipazione all’associazione. L’introduzione, ad opera della l. n. 62/2014, del secondo comma dell’art. 416-ter c.p., non completamente esente da rilevazioni critiche13, ha, altresì contribuito, pur collocandosi in posizione più defilata rispetto alla colorazione della promessa di procacciamento voti “mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis”, al mutamento della «qualità tipologica del patto politico mafioso incriminato»14, posta in essere mediante l’ulteriore ricomprensione di un’eventuale controparte del candidato alle elezioni

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In argomento, cfr. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 11, il quale evidenzia che: « D’altronde, l’esigenza di prevedere la punibilità per tali condotte anche del sodale oltre che del mero contiguo era stata teoricamente appagata dallo stesso legislatore del 1992 tramite la contestuale introduzione nell’art. 416 bis, comma 3 c.p. della finalità “di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”; in questo modo si pensava di aver previsto la sanzionabilità dell’appartenente al clan mafioso che stringeva accordi con un politico in vista delle elezioni a titolo di partecipazione e, quindi, il reato di cui all’art. 416 ter c.p. serviva unicamente ad estendere la punibilità allo stesso titolo di reato all’estraneo alla cosca mafiosa», concludendo però, condivisibilmente, che «Tuttavia, si trascurava di considerare che il comma 3 dell’art. 416 bis c.p. non aveva una funzione incriminatrice, essendo invece una norma meramente definitoria dei caratteri dell’associazione il cui fine era di contribuire a descrivere gli elementi da cui desumere la natura mafiosa del sodalizio a cui un soggetto è affiliato, ma non di elencare tassativamente i fatti specifici che integrano la sua condotta di partecipazione» 13 Una posizione radicalmente contraria all’esplicita previsione di punibilità del promittente si rinviene in Merenda, La rilevanza del metodo mafioso nel nuovo art. 416-ter c.p.: la Cassazione alla ricerca del “compromesso” interpretativo, in CP, n. 2/2016, 525, secondo la quale: «Alla base dell’innesto legislativo pare esserci la volontà di inasprire quanto più possibile la risposta sanzionatoria nei confronti degli associati di mafia; ci sembra però che in questo caso «la foga punitiva» abbia spinto il legislatore a forzare un po’ troppo la mano e a non valutare che l’art. 416-ter c.p. descrive una condotta prodromica rispetto al successivo utilizzo della forza di intimidazione, al fine di procurare voti, che trova esplicito riconoscimento quale forma di partecipazione al delitto di associazione mafiosa. Motivo per cui la strada dell’assorbimento dello scambio politico-mafioso nella previsione di cui all’art. 416-bis c.p. pare a ben vedere scelta obbligata, là dove non si voglia incorrere in palesi violazioni del divieto del bis in idem sostanziale». 14 Così Maiello, La nuova formulazione dello scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter c.p.), in Studium iuris, 2015, 3; in senso conforme, cfr. Della Ragione, Il nuovo articolo 416-ter nelle prime due pronunce della Suprema Corte, in Dir. pen. proc., n. 3/2015, 308, secondo il quale l’incriminazione non avrebbe avuto più ad oggetto solo l’«accordo con la mafia», bensì avrebbe comportato l’inclusione di tutti quelli con «chiunque prospetti una promessa di appoggio elettorale caratterizzato dal metodo mafioso».

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che risulti del tutto estranea ad una consorteria mafiosa, oppure, ancora, identificabile quale membro dell’associazione agente, però, uti singulus15, purché in grado di assicurare, nell’attività di rastrellamento del consenso elettorale, l’impiego della modalità mafiosa. Nello specifico, il contributo offerto dall’esplicitazione della punibilità dei soggetti promittenti può cogliersi nell’esigenza di pervenire all’incriminazione dell’interlocutore del politico anche nelle ipotesi in cui lo stesso non fosse un membro del sodalizio criminale, punibile ex art. 416-bis c.p. In tale ambito materiale, il testo normativo di recentissimo conio non comporta alcuna significativa alterazione riguardo alla conformazione della fattispecie quale reato comune: ciò determina la preservazione di maglie particolarmente ampie nell’individuazione dei soggetti punibili, tanto sul versante del promittente, quanto su quello del promissario. Ancor di più, guidato dalla smania di addivenire ad un’ulteriore estensione dell’area di operatività della fattispecie, la l. n. 43/2019 perviene alla puntualizzazione che tanto la promessa, quanto l’accettazione della stessa, possa compiersi “direttamente o a mezzo di intermediari”. Non v’è chi non veda, però, come l’esplicita inclusione del riferimento agli intermediari non comporti alcuna mutazione in senso ampliativo dell’area di operatività, in quanto già nella previgente formulazione gli stessi intermediari potevano rientrare nel novero dei soggetti attivi sia direttamente, trattandosi di reato comune realizzabile da “chiunque”, sia indirettamente, mediante il combinato disposto con l’art. 110 c.p. che permetteva la perseguibilità di contegni agevolativi tanto unilaterali, quanto bilaterali della stipula di un patto politico-mafioso16. Contrariamente, complessità applicative in punto di individuazione dei soggetti attivi potrebbero scaturire, sull’esclusivo versante dei promittenti, dalla specificazione che gli stessi possano essere “soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’art. 416-bis”; bisogna, difatti, interrogarsi sulle specifiche modalità identificative di questi soggetti che appartengano a clan mafiosi. In argo-

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In senso contrario, cfr. Fiandaca, Scambio elettorale politico-mafioso, cit., 529, il quale autorevolmente evidenzia come il prospettato mutamento della qualità tipologica del patto politico-mafioso risulti, in realtà, lontano dalle caratteristiche criminologiche del fenomeno regolato, essendo poco plausibile che un «candidato interessato al sostegno elettorale mafioso assuma a suo interlocutore negoziale un terzo del tutto estraneo all’universo criminale»; nonché Visconti, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso: andiamo avanti, ma con giudizio, in www.penalecontemporaneo.it, 17 giugno 2013, 11, il quale propendeva per l’inserimento della locuzione «in cambio promettendo all’associazione mafiosa» al fine di «definire meglio lo sfondo applicativo della fattispecie, identificandolo in fenomeni caratterizzati dal coinvolgimento anche potenziale dell’organizzazione criminale nel suo insieme, lasciando così alla normativa specifica gli episodi di corruzione e coercizione elettorale di tipo “individuale”». In argomento, cfr. altresì Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 14, il quale evidenzia che: «Forse a tale riguardo si sarebbe potuto specificare che la prestazione del candidato doveva essere rivolta all’associazione mafiosa intera e non al singolo soggetto con cui è stato stretto l’accordo, così facendo si sarebbe probabilmente modellata una fattispecie più rispettosa del principio di offensività, dal momento che avrebbe ristretto il campo dei fatti punibili ai soli comportamenti pericolosi per l’ordine pubblico, vale a dire quelli riguardanti l’intera associazione.» concludendo, tuttavia, che «Non essendo, però, stata esplicitata una simile prerogativa sembra doversi reputare applicabile la fattispecie in questione senza limiti soggettivi peculiari e, quindi, sia agli estranei al sodalizio, sia agli intranei che agiscano per finalità personali, purché naturalmente promettano di procurare voti mediante le modalità di cui all’art. 416 bis, comma 3 c.p.». 16 In tal senso, cfr. Amarelli, La riforma dello scambio elettorale, cit., 1. In senso parzialmente antitetico, cfr. Cisterna, Voto di scambio politico-mafioso, cit., 24 secondo il quale l’aggiunta del riferimento agli intermediari potrebbe, comunque, risultare «rilevante per segnalare la pericolosità di quelle strutture che realizzano collegamenti tra il candidato e le organizzazioni nel tentativo di schermare lo scambio illecito».

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mento, ci sembra di poter condividere quell’impostazione che prescinde da un preesistente accertamento di natura giudiziaria, «posto che si è in presenza di un elemento costitutivo della fattispecie ex art. 416-ter del Cp che, come tale, è oggetto di specifico accertamento nell’alveo del nuovo testo normativo»17, senza alcuna possibilità di deroga, beninteso, rispetto ad un accertamento di carattere inevitabilmente pieno e compiuto.

2.2.

Le condotte incriminate. L’oggetto della controprestazione del promissario tra la precedente inclusione di «altra utilità» e le imponenti criticità della «disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa».

Volgendo la nostra lente di osservazione al precipuo profilo inerente alle condotte dei protagonisti del pactum sceleris passibili di repressione penale, risulta opportuno soltanto accennare alla pressoché sostanziale identità dell’impianto normativo di nuovo conio rispetto alla disciplina previgente, con riferimento al soggetto promittente: la condotta incriminata permane, difatti, quella della promessa di procurare voti, seppur declinata nei “casi di cui al primo comma”, implicante un alternativo riferimento all’appartenenza ad associazioni mafiose o, comunque, alla possibile riferibilità ad un successivo impiego delle modalità mafiose. Per converso, i nostri maggiori sforzi ricostruttivi verranno in questa sede indirizzati alla enucleazione dei profondi mutamenti che hanno interessato il versante del promissario, non tanto in punto di condotte punibili quanto, soprattutto, in relazione all’oggetto della sua prestazione. L’impianto riformista del 2014 aveva modificato, con più opportuna opzione terminologica, l’originaria punibilità di chi “ottenesse” la promessa di voti, in luogo della repressione di un contegno consistente nell’“accettazione” di una promessa di procurare voti, compiendo «un passo in avanti rispetto al passato»18, rappresentato dalla precisazione che la condotta di accettazione punibile dovesse essere esclusivamente quella collegata ad una promessa di procacciamento di voti, da compiersi attraverso lo sfruttamento del vincolo di assoggettamento ed intimidazione derivante dall’appartenenza al sodalizio mafioso. Tralasciamo volutamente, in questa sede, le riflessioni inerenti alla rilevanza da riservare all’elemento del c.d. metodo mafioso, che impegneranno le pagine susseguenti del nostro percorso espositivo19. Nel presente contesto, viceversa, appare necessario procedere all’esame delle innovazioni relative alla prestazione del politico; nella legge n. 43/2019 viene conservata l’opportuna possibilità alternativa che l’intreccio sinallagmatico, sotto il profilo appunto del promissario, riguardi non soltanto l’erogazione, bensì anche la promessa di erogazione. L’ampliamento dei fatti punibili da ricomprendere nel contenuto della controprestazione del politico, portata a compimento già nel 2014, ha rappresentato il recepimento a livello normativo di un orientamento giurisprudenziale20, collocabile in prossimità di alquanto controversi confini rispetto ad un’applicazione analogica contra legem, il quale, nonostante l’originaria formulazione del

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Così, Cisterna, Voto di scambio politico-mafioso, cit., 26. Cfr. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 15. 19 Cfr. par. 2.3. 20 Cfr. Cass., 2 marzo 2012, n. 32820, in CP, 9/2013, 3149 secondo la quale: «Il reato di scambio elettorale politicomafioso si perfeziona al momento delle reciproche promesse, indipendentemente dalla materiale erogazione del denaro, essendo rilevante – per quanto attiene alla condotta dell’uomo politico – la sua disponibilità a venire a patti con la consorteria mafiosa, in vista del futuro e concreto adempimento dell’impegno assunto in cambio dell’appoggio elettorale». 18

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voto di scambio contemplasse un isolato riferimento all’erogazione, si era spinto a considerare il termine “erogazione” in un’accezione debole, richiedente per la consumazione del reato la mera stipulazione delle reciproche promesse indipendentemente dalla materiale erogazione del denaro. Tratti ancor più problematici ineriscono allo specifico ambito dell’oggetto della controprestazione: la l. n. 62/2014 aveva affiancato al denaro l’erogazione o la promessa di erogazione di “altra utilità”21, ponendo riparo ad un’endemica ineffettività della fattispecie originaria e, contemporaneamente, arginando quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, manifestamente contra legem se ricondotto alla primigenia formulazione dell’art. 416-ter, secondo cui il reato avrebbe potuto applicarsi anche nei casi in cui la controprestazione del politico avesse avuto ad oggetto non il denaro, ma anche « qualsiasi bene che rappresenti un «valore» appunto di scambio in termini di immediata commisurazione economica, restando invece escluse dalla portata precettiva altre utilità, che solo in via mediata possono essere trasformate in utili monetizzabili e, dunque, economicamente quantificabili»22. Il più recente intervento riformatore, limitandosi all’inserimento dell’aggettivo indefinito “qualunque”, giustapposto alla locuzione altra utilità, non ha comportato alcuna ulteriore significativa estensione nella riferibilità ad una volontà di perseguimento di vantaggi ricavabili dalla pattuizione illecita. L’incisione, viceversa, ad opera della l. n. 43/2019 risulta profonda e, riteniamo, alquanto problematica, per quanto attiene all’introduzione della possibilità che l’erogazione, o la promessa della stessa, consista nella “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. In profondo ossequio a quanto già evidenziato da autorevole dottrina23, non possiamo non rilevare l’assoluta vaghezza ed incertezza connesse ad un elemento privo della previsione di un contegno ben incorniciato, prefigurante un evidente vulnus al principio di determinatezza nonché, conseguentemente, al principio di offensività, disvelandosi il rischio di incriminazione anche di fatti radicalmente privi di qualsivoglia carica lesiva ovvero, nell’ipotesi meno catastrofica, di repressione di una condotta, comunque deci-

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Per una considerazione critica nei confronti dell’inserimento della locuzione “altra utilità”, cfr. Squillaci, Punti fermi e aspetti problematici nella riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in AP, n. 3/2013, 11, secondo il quale la predetta introduzione espone al rischio di una « sistematica estensione della norma all’attività politica, soprattutto allorquando quest’ultima si connoti per il raggiungimento di interessi pubblici che possano però anche comportare il complementare soddisfacimento di interessi privati, magari riferibili pure ai membri di un’associazione mafiosa. Insomma, il rischio è che l’introduzione di questo requisito possa seriamente condizionare gli stessi rapporti tra politica e magistratura. Nel senso che il riferimento espresso ad una non meglio definita “utilità” quale oggetto della controprestazione del politico potrebbe rivelarsi nulla più che l’occasione per avviare una indagine penale nel corso di una certa campagna elettorale, onde potere in tal modo risalire anche alla scoperta di altri fatti di reato, tuttavia in quel momento storico ancora soltanto sospettati». 22 Cfr. Cass., 30 novembre 2011, n. 46922, in CP, 9/2012, 2948. 23 Cfr. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, cit., 100, secondo il quale: «Che si trattasse di una formula così indeterminata da giustificare serie preoccupazioni sotto più punti di vista, è evidente. È ben comprensibile, quindi, che non solo giuristi ma persino pubblici ministeri esperti della materia avanzassero riserve critiche idonee a mettere in allarme i decisori politici, e così riassumibili: la disponibilità a favorire le organizzazioni criminali è un dato psicologico troppo labile come requisito di fattispecie per non paventare il rischio sia dell’apertura di un numero esorbitante di inchieste destinate però a probabili assoluzioni, sia di pericolose strumentalizzazioni politico-mediatiche. In ogni caso, mancando la previsione di una condotta ben profilata così come richiesto dal principio penalistico di tipicità, tutto si giocherebbe sulla difficile prova di un elemento di per sé vago e incerto».

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samente meno disvalorata, con le medesime pene comminate per ulteriori condotte contrassegnate da maggiore grado di determinatezza e gravità, in patente violazione altresì del principio di proporzionalità della pena24.

2.3. Il “ruolo” del c.d. metodo mafioso e l’affiancamento della promessa resa da “soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis”.

Giunti al presente stadio di avanzamento nella nostra disamina, diviene non più procrastinabile la trattazione del profilo, afferente alla tipicità della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, che aveva assunto dimensione prioritaria all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 62/2014, con la quale si era pervenuti all’esplicita previsione che la promessa di procurare voti dovesse essere caratterizzata dalla sussistenza delle “modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis”, sollecitando una consequenziale disputa, tanto dottrinaria quanto giurisprudenziale, sul ruolo che il predetto requisito del c.d. metodo mafioso avrebbe dovuto giocare nella complessiva economia descrittiva della fattispecie. In medias res, le oscillazioni ermeneutiche muovevano da due, antitetici, poli di partenza; parte della dottrina, difatti, reputava la promessa dell’eventuale ricorso al metodo mafioso nella futura attività di procacciamento dei voti quale «ulteriore elemento costitutivo del fatto tipico e, quindi, anche aspetto che deve essere oggettivamente accertato, nonché necessariamente coperto sotto il profilo psicologico del dolo del promissario»25. Pertanto, originando dalla considerazione del metodo mafioso quale requisito modale dell’accordo, veniva considerato imprescindibile l’accertamento sul piano oggettivo che il politico, o un suo intermediario, accettasse la promessa di un suo interlocutore di procacciargli, in cambio di denaro o altra utilità, un certo numero di voti grazie al possibile ricorso, con modi espliciti od anche solo impliciti, alla forza di intimidazione di cui potesse disporre a cagione della sua appartenenza ad un sodalizio mafioso, con peculiari ripercussioni sul versante soggettivo richiedendosi, altresì, ai fini della sussistenza del dolo, l’accertamento necessario che il promissario fosse a conoscenza della circostanza che la controparte potesse procurargli i voti promessi mediante ricorso eventuale al metodo mafioso. L’elemento costitutivo del ricorso potenziale al metodo mafioso era, in tale peculiare prospettiva, ritenuto foriero di maggiore precisione e robustezza al fatto oggetto di incriminazione nell’art. 416-ter c.p., conferente, altresì, «una carica di disvalore sociale al patto tale da renderlo effettivamente meritevole di un diverso e più severo trattamento sanzionatorio rispetto alle meno gravi ipotesi di comportamenti sussumibili nei reati elettorali di cui agli artt. 96 e ss. d.P.R. 361/1957»26. La predetta impostazione, veniva ad essere corroborata da talune pronunce dei giudici di legittimità, incardinate di un’interpretazione strettamente letterale della l. n. 62/2014, nonché su di un approccio particolarmente rigido con riguardo al controverso tema della promessa di procurare voti mediante ricorso al metodo mafioso, evidenziandosi come quest’ultimo costituisse preciso oggetto del patto elettorale politico-mafioso, richiedente pertanto non solo la prova dello scambio delle promesse, ma anche la dimostrazione che le parti avessero esplicitato, o quantomeno convenuto, le modalità mafiose con le quali avrebbe potuto attuarsi il procac-

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Sul punto, cfr. Amarelli, La riforma dello scambio elettorale, cit., 2. In questi termini, Amarelli, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale: elemento necessario o superfluo per la sua configurazione?, in www.penalecontemporaneo.it, 14 settembre 2014, 19. 26 Così, Amarelli, op. cit., 9 ss. 25

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ciamento dei voti27. Il presunto antidoto ad un’eccessiva restrizione del perimetro applicativo della fattispecie ex art. 416-ter c.p. veniva individuato nella prospettazione di una sufficienza probatoria incentrata sulla congiunta dimostrazione «della caratura mafiosa dei promittenti, della loro implicita allusione alla possibilità di procurare un determinato numero di voti grazie alla forza di intimidazione di cui godono e, sul versante soggettivo del promissario, della piena consapevolezza della ‘mafiosità’ della controparte e della sua capacità di procacciare preferenze grazie alla forza di intimidazione di cui è dotato ed a cui ha fatto, anche solo indirettamente, riferimento»28. In posizione radicalmente opposta si collocava altrettanto attenta dottrina, la quale propugnava l’assoluta impossibilità di ricomprensione, all’interno della struttura di tipicità dello scambio elettorale politico-mafioso, dell’elemento dell’avvalersi del metodo mafioso29. Tale differente ricostruzione interpretativa muoveva dalla considerazione dello scambio elettorale politico-mafioso in termini di reato-contratto di pericolo astratto, passibile di perfezionamento ed immediata consumazione già al momento del mero scambio delle promesse oggetto del programma negoziale, non risultando in alcun modo necessaria la circostanza che le parti del negozio illecito abbiano effettivamente portato a compimento l’impegno assunto. Da ciò se ne inferiva che l’anticipazione della soglia di punibilità anche alla fase di mera stipulazione del patto, incorniciasse una prospettiva ermeneutica in base alla quale «il ricorso alla forza di intimidazione che scaturisce dal vincolo associativo rappresenta solo un post factum, che – irrilevante nell’ottica di tutela definita dall’art. 416 ter c.p. – può dar luogo a differenti titoli criminosi quando si concretizzi in danno di singoli elettori»30. Le predette basi argomentative,

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Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 6 giugno 2014, Antinoro, in www.penalecontemporaneo.it, con commento di Amarelli, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale, cit. I giudici di legittimità, nella presente pronuncia, rilevano come: «Dal complesso delle superiori considerazioni si desume, pertanto, che ai sensi del nuovo art. 416 ter cod. pen. le modalità di procacciamento dei voti debbano costituire oggetto del patto di scambio politico-mafioso, in funzione dell’esigenza che il candidato possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso e che quest’ultimo si impegni a farvi ricorso, se necessario». 28 In questi termini, ancora, Amarelli, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale, cit., 10. 29 In tal senso, cfr. Maiello, Sulla pretesa riconducibilità del delitto di scambio elettorale politico-mafioso alla categoria di quelli “commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., in www.penalecontemporaneo. it, 11 gennaio 2016, 8 ss.; Id., Il nuovo art. 416 ter c.p. approda in Cassazione, in GI, 2014, 2837 ss; nonché Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p.: una nuova effettività per il reato di “scambio elettorale politico mafioso”?, in www.penalecontemporaneo.it, 18 marzo 2016, 4 ss., secondo il quale: «Innanzitutto, è apparsa discutibile la scelta di esplicitare il metodo mafioso come contenuto tipico della promessa di voti: e ciò perché, a ben vedere, il motivo determinante per cui un uomo politico si rivolge ad una associazione mafiosa risiede proprio nella capacità della stessa di farsi collettore di voti, anche ricorrendo alle sue modalità tipiche di azione, ovverosia violenza o minaccia. In altre parole, pare trattarsi di un elemento ultroneo rispetto al fatto oggetto di repressione penale; elemento che, oltretutto, rischia di compromettere l’effettività della norma, se interpretato in modo strettamente letterale». 30 Così, Maiello, Sulla pretesa riconducibilità del delitto di scambio elettorale politico-mafioso alla categoria di quelli “commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., cit., 9, il quale conclude rilevando come: «configurando la disposizione dell’art. 416 ter c.p. una tipica fattispecie di ‘reato-accordo’ – corrispondente ad una intesa negoziale con causa illecita, intercorrente, nondimeno, tra soggetti liberi di autodeterminarsi – viene logicamente a mancare ogni spazio per assegnare all’avvalersi del metodo mafioso il ruolo di elemento della tipicità. È di tutta evidenza, infatti, che l’impiego di questa modalità di condotta può radicarsi esclusivamente nel contesto di

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costituivano ineludibile sostrato di partenza per procedere ad una critica nei riguardi dell’esplicitazione del metodo mafioso, intervenuta con la riforma del 2014, come contenuto tipico della promessa di voti, in quanto il motivo determinante per cui un politico decide di rivolgersi ad un’associazione mafiosa deve rintracciarsi appunto nella capacità della stessa di procedere al procacciamento di voti, anche ricorrendo al suo tipico modus operandi, caratterizzato dall’uso di violenza o minaccia. Detto altrimenti, il riferimento espresso al metodo mafioso pareva condurre all’inserimento di «un elemento ultroneo rispetto al fatto oggetto di repressione penale; elemento che, oltretutto, rischia di compromettere l’effettività della norma, se interpretato in modo strettamente letterale»31. Tali ultime prospettazioni offrivano, conseguenzialmente, la stura per addivenire, anche in sede giurisprudenziale, ad un’interpretazione dell’art. 416-ter reputata maggiormente effettiva ed aderente alla realtà. Dal canto loro i giudici di legittimità, dopo alcune pronunce32 di non piana collocazione concettuale, sono pervenuti all’elaborazione

reati con vittima, ove quest’ultima si identifichi nel soggetto nei confronti del quale venga indirizzata la coartazione, espressa o implicita che sia. 31 In questi termini, Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p., cit., 5. 32 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 6 maggio 2014, in FI, 2015, 6, II, 363, nella quale la Suprema Corte, dopo aver evidenziato l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione del delitto, dell’esercizio concreto del metodo mafioso, in quanto ciò che assume immediata rilevanza penale è il fatto stesso dell’accordo tra malavitoso-promittente e politico-promissario, puntualizza altresì come il metodo mafioso «potrebbe costituire al più l’oggetto di una intenzione del promittente, o del patto concluso circa le modalità esecutive dell’accordo, ma non una componente materiale della condotta tipica, rispetto alla quale costituisce post factum, punibile semmai con riguardo a diverse ed ulteriori fattispecie criminose». Il medesimo arresto, inoltre, perviene ad un giudizio di irrilevanza, rispetto alla struttura della norma, di eventuali patti concernenti il metodo di procacciamento dei voti, argomentando come lo stesso non possa che essere notorio per le parti dell’accordo: «Se anche la ratio dell’incriminazione consiste nello specifico rischio di alterazione del processo democratico che si determina quando il voto viene sollecitato da una organizzazione mafiosa, il suo riflesso sul piano degli elementi di fattispecie si esaurisce nella logica del comportamento di chi, per proprie esigenze elettorali, promette denaro ad una organizzazione criminale siffatta, ovviamente consapevole della sua natura e dei metodi che la connotano», pertanto, in definitiva, «ciò che è essenziale alla configurazione del reato, e nella specie alla verifica degli indizi sul punto, è la certezza dell’intervento di componenti dell’associazione di stampo mafioso nel condizionamento del voto [...] la potenzialità lesiva della condotta è data dalla mercificazione del libero consenso democratico, di cui viene aumentata la potenzialità corruttiva in quanto perseguita attraverso l’attività di un gruppo associato, in attività della zona territoriale di interesse, e le cui connotazioni di pericolosità emergano e siano conosciute al proponente». Altrimenti detto, la sentenza Polizzi fonda le proprie configurazioni ermeneutiche sull’assunto in base al quale, poiché il pactum ex art. 416-ter è posto in essere con la mafia, soggetto che incorpora nelle proprie modalità operative il ricorso all’intimidazione, non risulta necessaria l’esplicita pattuizione circa l’intenzione di farvi ricorso, reputandosi sufficiente la conoscenza, da parte del promissario, della caratura mafiosa del suo interlocutore, elidendo qualsivoglia riferimento a promittenti differenti rispetto all’intraneus in una consorteria mafiosa agente nell’interesse della stessa. Le ambiguità di fondo che connotano le argomentazioni dei giudici di legittimità, collocano la predetta pronuncia a metà del guado tra i due contrapposti indirizzi; tanto ciò è vero, che quella parte della dottrina che aveva valutato positivamente le prospettazioni interpretative della pronuncia Antinoro, aveva quivi rintracciato linee espositive di evidente continuità: cfr. Amarelli, Il metodo mafioso nel nuovo reato di scambio elettorale, cit., 17, secondo il quale «Contrariamente da quanto si possa a primo acchito pensare, […] questa decisione non ribalta la precedente, innescando un conflitto sincronico orizzontale nella giurisprudenza di legittimità, bensì ribadisce le conclusioni cui questa era pervenuta, sancendo in maniera complementare che il delitto è integrato anche se in concreto, per l’esecuzione dell’accordo, il promittente non si avvalga della forza intimidatrice derivante dall’appartenenza ad un sodalizio mafioso»; nonché, in senso conforme, Gambardella, Diritto

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di una soluzione fondata su di un modello “sincretistico”33 di superamento dei due precedenti contrapposti indirizzi. Più nello specifico, mediante plurimi arresti di segno sostanzialmente identitario, la Suprema Corte è pervenuta all’affermazione in base alla quale, ai fini della prova del pactum sceleris, non risulta necessaria l’emersione di un’esplicita pattuizione del metodo, potendo quest’ultimo anche permanere soltanto sullo sfondo dell’accordo illecito34, di tal guisa da valorizzare un’interpretazione della fattispecie maggiormente in linea con il contesto effettuale di riferimento, nel quale anche il “non detto” si carica di pregnante significato35. Il presente traguardo ermeneutico veniva tagliato, cogliendosi in ciò l’essenza della dimensione compromissoria, senza determinare in alcun modo, a detta dei giudici di legittimità, la sfumatura di uno degli elementi costitutivi del reato, poiché il tacito impegno del promittente rimaneva comunque «il colore di fondo, la ragion d’essere del patto elettorale illecito”36. Ciononostante, la rilevanza attribuita altresì ad accordi taciti sulle modalità di procacciamento dei voti, prefigurava ineludibili ripercussioni sull’elemento soggettivo, relativamente cioè al dolo del promissario: è qui che veniva ad incastonarsi il profilo di maggiore carica innovativa, nel punto in cui si addiveniva ad una differente graduazione della consapevolezza del promissario, a seconda che il suo interlocutore potesse individuarsi in un intraneo al sodalizio criminoso, capace di impegnare la cosca di appartenenza con la sua parola, piuttosto che un mafioso agente uti singulus ovvero, ancora, un extraneus a qualsivoglia consorteria di carattere mafioso. Difatti, in ossequio alle argomentazioni della Suprema Corte, a fronte di un pressoché automatico riconoscimento della sussistenza del metodo mafioso, considerato immanente nella stipulazione del patto posto in essere con un partecipe dell’organizzazione mafiosa che agisca nell’interesse di quest’ultima, a cagione della fama criminale del promittente, diviene, viceversa, assolutamente ineludibile una prova «chiara ed immediata»37 della pattuizione delle

giurisprudenziale e mutamento legislativo. Il caso del delitto di scambio elettorale politico-mafioso, in CP, 11/2014, 3707 ss. Per converso, altra parte della dottrina, che aveva criticato l’approccio eccessivamente formalistico della sentenza Antinoro, passibile di una importante contrazione delle potenzialità applicative della fattispecie, individuava nella coeva pronuncia Polizzi auspicabili elementi di discontinuità ermeneutica: cfr., ex multis, le pregevoli argomentazioni di Fiandaca, Scambio elettorale politico-mafioso, cit., 528. 33 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19 maggio 2015, Albero, in CP, 2/2016, 514 ss., con nota di Merenda, La rilevanza del metodo mafioso, cit., 522 ss.; nonché, Cass. pen., Sez. VI, 10 giugno 2015, Annunziata, in CP, 4/2016, 1613 ss., con nota di Rippa, La Cassazione scopre il vero volto del nuovo scambio elettorale politico-mafioso, 1616 ss; ancora, in senso conforme, cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 ottobre 2015, n. 41801, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p., cit. 34 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 10 giugno 2015, Annunziata, cit., secondo la quale: «tanto non impone [...] che il patto sia necessariamente connotato dalla esplicitazione delle modalità di realizzazione dell’impegno assunto nei confronti del candidato, potendo la stessa desumersi, in via inferenziale, da alcuni indici fattuali sintomatici della natura dell’accordo». 35 Cfr. Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p., cit., 9. 36 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 ottobre 2015, n. 41801, cit. 37 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 10 giugno 2015, Annunziata, cit., nella quale si esplicita come: «sul piano probatorio, il discorso inferenziale afferente la dimostrazione che l’accordo riguardi modalità di procacciamento dei voti nei termini di cui all’art. 416-bis, comma 3, c.p. finisce evidentemente per risentirne. Diversamente dal caso dell’intraneo che agisce nell’interesse della associazione impegnandola a svolgere una campagna in favore del politico committente, in siffatti casi occorre infatti una prova chiara ed immediata della pattuizione delle modalità del procacciamento cui risulta piegato l’illecito patto di scambio elettorale, non potendosene ricavare la presenza dal mero

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modalità del procacciamento laddove la controparte del politico sia rappresentata dalle altre due divergenti figure di eventuali promittenti. Tale ultima divaricazione, non contiene il conclusivo esito di riconnettere all’accordo stipulato con un soggetto non mafioso la necessaria sussistenza di un’esplicitazione delle modalità realizzative del patto illecito, bensì orienta il profilo analitico sul versante probatorio, laddove l’ipotetica apertura al coinvolgimento anche di soggetti estranei alle organizzazioni criminali, comporta quale ineludibile conseguenza l’impossibilità di ricorrere ad «automatismi logici»38 nella dimostrazione della natura mafiosa del patto, cedendo il passo di fronte alla necessità di un accertamento puntuale e specifico. Tuttavia, nonostante gli sforzi di ermeneutica ricomposizione compiuti dalla Suprema Corte, non possono considerarsi del tutto elisi profili di criticità, sul versante squisitamente probatorio, afferenti proprio alle ipotesi in cui l’accordo illecito venga condotto a conclusione con un promittente che sia, rispettivamente, un intraneus agente per fini individuali, ovvero un extraneus rispetto al sodalizio mafioso. Difatti, richiedendo in tali casi la dimostrazione di un accordo intervenuto sul metodo intimidatorio di raccolta del consenso elettorale, i giudici di legittimità hanno finito per incorniciare «una sub-fattispecie a prova (quasi) impossibile»39: la predetta dimostrazione importa imponenti difficoltà di riscontro probatorio in quanto, pur ammettendosi l’eventualità di un loro superamento, in casi inevitabilmente del tutto sporadici ed isolati, a ciò dovrebbe ulteriormente associarsi una controversa attestazione equiparativa della serietà e pericolosità della promessa del singolo rispetto a quella di un’associazione mafiosa, permanendo, ad ogni modo, un evidente iato rispetto alla derivazione della forza di intimidazione proprio dall’appartenenza al vincolo associativo, così come prospettato dall’art. 416-bis, comma 3, c.p. Le predette argomentazioni, seppur soggette ad un’inevitabile opera di sintetica ricostruzione, gettano un ideale ponte di collegamento rispetto alla novella normativa introdotta con la l. n. 43/2019, peculiarmente nel punto in cui l’intervenuta divaricazione ratione personae appare essere ulteriormente corroborata dalla riferibilità alla promessa del procacciamento di voti instaurata con “soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’art. 416-bis”, espressamente affiancata alla considerazione dell’impiego di modalità mafiose. Ci sembra, difatti, che in tal modo l’impianto legislativo di più recente conio confermi, irrobustendola ulteriormente, la possibilità di illecita pattuizione tanto con i partecipi ad un sodalizio criminoso, adesso esplicitamente richiamati, quanto con l’ulteriore gamma di soggetti i quali prospettino, ad ogni modo, la riconducibilità all’utilizzo delle modalità mafiose. Volgendo lo sguardo alla valutazione della scelta di affiancamento operata dal legislatore, non può sfuggire come la stessa sia stata salutata da attenta dottrina40 come uno dei (pochi, reputiamo) punti di forza della riforma, in quanto il riferimento diretto ed esplicito alla promessa proveniente da soggetti appartenenti a consorterie mafiose consentirebbe di evitare che la punizione della condotta delittuosa evapori al cospetto delle cosiddette mafie silenti, il cui ricorso al metodo dell’intimidazione e dell’assoggettamento risulta più difficilmente intercettabile e, ancor di più, meno strutturato in termini di sistematicità. Sennonché, la specificazione normativa non pare alterare in misura sensibile l’economia complessiva della fattispecie di voto di scambio sul versante probatorio,

ruolo di interlocuzione riferito in precedenza esclusivamente all’organizzazione criminale». 38 Cfr., Merenda, La rilevanza del metodo mafioso, cit., 528. 39 Cfr., Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p., cit., 13. 40 Cfr. Cisterna, Voto di scambio politico-mafioso, cit., 25.

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nel punto in cui non risulta compiuta alcuna effettiva torsione all’ineludibile necessità ricostruttiva inerente al c.d. metodo mafioso: è sempre il metodo a connotare l’agente, e ciò se da un lato comporta che l’accettazione del metodo medesimo da parte del promissario elide ogni prospettabile incertezza in ordine alla sua consapevolezza della mafiosità della controparte, specularmente non riesce ad oltrepassare le riserve connesse all’eccessiva asperità probatoria afferente alle ipotesi di accordi illeciti che fuoriescano dalla dimensione associativo mafiosa del soggetto promittente.

2.4. La deriva populistica si abbatte sulla dosimetria sanzionatoria. Le rilevazioni critiche relative alla conformazione del testo legislativo di recentissima introduzione divengono, se possibile, ancor più pregnanti con peculiare riferimento all’ulteriore incremento della cornice edittale di pena. Difatti, le oscillazioni normative in punto di precetto secondario avevano condotto, mediante la modifica contenuta nella l. n. 62/2014, ad un’opportuna ed adeguata rimodulazione sanzionatoria afferente al reato di voto di scambio politico-mafioso, culminata nella predisposizione di una cornice di pena ricompresa tra i quattro ed i dieci anni, incardinata sulla corretta valutazione del differente disvalore connesso alle diversificate ipotesi delittuose di contiguità mafiosa. Non v’è chi non veda come l’anticipazione della tutela penale, in chiave di prefigurazione di un reato-accordo di mera condotta che trova il proprio momento consumativo nella stipula dell’illecita pattuizione, debba proporzionalmente riflettersi in una puntuale graduazione della risposta sanzionatoria, basata sul ridotto potenziale offensivo della condotta nei confronti del bene giuridico protetto41, rispetto al più grave delitto contemplato ex art. 416-bis c.p. e, di conseguenza, altresì in raffronto al concorso esterno, fenomeno giuridico quest’ultimo di evento richiedente l’imprescindibile accertamento in termini condizionalistici di un effettivo rafforzamento o conservazione in vita del sodalizio mafioso42. Sennonché, a fronte di tali ineludibili istanze di proporzionalità, adeguatezza e gra-

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In tal senso, Visconti, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 12, il quale limpidamente rileva come: «Un conto, infatti, è punire il patto in quanto tale, altro è condizionarne la punibilità all’avvenuto rafforzamento dell’organizzazione criminale, implicando ciò una progressione del potenziale offensivo della condotta rispetto al bene giuridico “ordine pubblico”». In senso conforme, cfr. altresì Amarelli, La contiguità politicomafiosa, cit., 378; nonché Squillaci, Punti fermi ed aspetti problematici, cit., 16. 42 Cfr. Cass., sez. un., 12 luglio 2005, Mannino (II), in FI, II, 2006, 80 ss. In tale sentenza c.d. sistema, i giudici di legittimità, nel silenzio assordante del legislatore, hanno costruito a livello teorico generale il fenomeno giuridico del concorso esterno evidenziando come, ai fini della sua configurazione «non è affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo». La Suprema Corte ha optato, viceversa, per l’accoglimento del modello di sussunzione della teoria della condicio sine qua non sotto l’egida di leggi scientifiche di copertura: l’accertamento del nesso di derivazione funzionale della condotta del concorrente esterno, rispetto alla produzione degli alternativi eventi di «conservazione» o di «rafforzamento» dell’organizzazione criminale, deve realizzarsi mediante un giudizio ex post, basato su «massime di esperienza di empirica plausibilità». All’esito di tale accertamento, i giudici di legittimità hanno ritenuto possibile l’applicazione del combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p. laddove risultasse sostenibile la tesi in base alla quale la condotta del concorrente abbia «inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali». Per una condivisibile critica della predetta pronuncia delle Sezioni Unite, cfr. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, IVa ed., Wolters Kluwer, 2017, 539 ss., il quale rileva come:

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dualità della risposta punitiva, i più recenti interventi riformatori hanno fatto registrare l’avverso orientamento proteso all’innalzamento della cornice edittale prevista per il reato di scambio elettorale politico-mafioso. Difatti, già con la c.d. Riforma Orlando43 la sanzione detentiva era stata innalzata mediante la previsione di una cornice ricompresa tra un minimo di sei ed un massimo di dodici anni, giustificandosi tale implementazione nella necessità di ridimensionare l’eccessiva divaricazione della risposta sanzionatoria nei confronti dei limiti edittali dell’art. 416-bis c.p., questi ultimi poco tempo prima incrementati alla forbice da dieci a quindici anni di reclusione44; attenta dottrina aveva evidenziato, condivisibilmente, come l’inasprimento delle pene dell’art. 416-ter c.p., lungi dal risolvere un difetto di proporzione della forbice sanzionatoria del delitto di voto di scambio, tendesse soprattutto «a soddisfare una domanda emotiva di rigore punitivo nei confronti della ‘zona grigia’ della contiguità politico-mafiosa che affiora in diverse aree della società civile e che trova nei media un validissimo amplificatore», disvelando la sua reale natura di «passaggio necessario per implementare l’ambiguo ed abusato concetto bellico-giuridico di ‘lotta alle mafie’, nonché per stigmatizzare ulteriormente l’odiosa ed oscura area delle relazioni politico-mafiose di tipo elettorale ‘non causali’ rispetto al rafforzamento o al mantenimento in vita delle associazioni mafiose […]»45. La legge n. 43/2019, ripristinando l’originaria equiparazione sanzionatoria tra l’art. 416-bis e l’art. 416-ter c.p., non fa altro che sublimare l’affermazione di una preoccupante deriva populistica, rispondente alle predette46 istanze di matrice simbolico-espressiva, in aperto contrasto con il principio rieducativo e di proporzionalità delle pene47. Ancor di più, la novella legislativa

«Da un punto di vista del nesso di causalità, però, residuano alcune perplessità, in ordine alla reale possibilità di reperire delle leggi di copertura, o, comunque, anche delle massime di esperienza, che davvero possano essere utilizzate per l’accertamento ex post richiesto dalla sentenza stessa. Questo accertamento è reso ulteriormente difficile perché non si è di fronte ad un vero e proprio nesso di causalità materiale, dato che l’evento, cui fa riferimento la sentenza Mannino, appare integrare piuttosto un evento in senso giuridico, e non già naturalistico, perché non esplica i suoi effetti sul mondo esterno, provocandone una modificazione tangibile, e quindi accertabile in base a leggi generali di copertura. […] il limite di questo approccio è quello di aver “esportato” il modello della sentenza Franzese, che tuttavia “funzionava” perché in rapporto a beni giuridici di carattere individuale come la vita e l’integrità fisica, ove quindi si è di fronte ad eventi in senso naturalistico, alla criminalità organizzata, i cui reati appartengono al settore di quelli contro l’ordine pubblico, ovverosia di un bene meta-individuale, in relazione al quale, con riferimento ben inteso alle fattispecie associative ed al c.d. concorso esterno, gli eventi non possono consistere nella modificazione del mondo esteriore, come appunto richiede la concezione naturalistica dell’evento, bensì inevitabilmente non possono che concretizzarsi, come è appunto avvenuto, nella sentenza Mannino II, in eventi in senso giuridico, con tutto quel che di negativo, anche a livello probatorio, ciò comporta». 43 Cfr. Legge 23 giugno 2017, n. 103. Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario. Art. 1. 1 […] 5. All’articolo 416-ter, primo comma, del codice penale, le parole: «da quattro a dieci anni» sono sostituite dalle seguenti: «da sei a dodici anni». 44 Cfr. Legge 27 maggio 2015, n. 69, Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio. […] Art. 5. Associazioni di tipo mafioso, anche straniere. 1. All’articolo 416-bis del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, le parole: «da sette a dodici anni» sono sostituite dalle seguenti: «da dieci a quindici anni»; […]. 45 In questi termini, Amarelli, Prove di populismo penale: la proposta di inasprimento delle pene per lo scambio elettorale politico-mafioso, in www.penalecontemporaneo.it, 2 maggio 2017, 10. 46 Cfr. par. 1. 47 Cfr., ancora, Amarelli, Prove di populismo penale, cit., 10.

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di ultimo conio rischia di condurre ad esiti sanzionatori alquanto paradossali nella misura in cui, rispetto all’ipotesi delittuosa di scambio elettorale politico-mafioso, potrebbe prefigurarsi l’applicazione della seconda aggravante speciale disciplinata ex art. 7, d.l. n. 152/199148, consistente nel «fine di agevolare un’associazione di tipo mafioso» che, invece, nel caso del concorrente esterno, non trova applicazione in quanto «rientrante – seppur “atipicamente” – tra le condotte punite a titolo associativo che in quanto tali hanno già – per dir così – incorporato il fine di agevolare l’organizzazione di cui fanno parte»49. La bizzarria sanzionatoria verrebbe a tradursi, di conseguenza, nell’irragionevole eventualità di una più grave punizione delle condotte di mera accettazione della promessa da parte di estranei al sodalizio mafioso rispetto a contegni i quali, all’esito di un giudizio ex post, disvelino strali di concreto ed effettivo aiuto o sostegno ai clan: da ciò può limpidamente evincersi l’importanza di un ridimensionamento della cornice edittale di pena, afferente allo scambio elettorale politico-mafioso, incardinata sulla differente gravità in termini di potenziale offensività, manifestandosi, specularmente, l’irragionevolezza di fondo dell’avversa equiparazione sanzionatoria reintrodotta dalla l. n. 43/2019.

2.5. Il terzo comma del “nuovo” art. 416-ter: la trasformazione del voto di scambio in “reato di danno”.

L’analitica ricostruzione dei mutamenti riformisti apportati al reato di voto di scambio politico-mafioso, dalla novella normativa di ultima produzione, ci conducono alla ponderazione della possibile portata effettuale inerente all’introduzione di un nuovo terzo comma dell’art. 416-ter c.p., il quale disciplina l’applicazione di un aumento fisso del quantum sanzionatorio, corrispondente alla metà della pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis, nelle ipotesi in cui «colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale». La predisposizione di tale singolare circostanza aggravante ad effetto speciale impone la rilevazione di perplessità di particolare momento, vagliata la portata potenzialmente inficiante tanto il piano di conformazione strutturale della fattispecie, quanto quello afferente all’ineludibile necessità di una risposta sanzionatoria rispettosa di istanze rieducative e di proporzionalità della pena. In primis, la configurazione del delitto ex art. 416-ter in chiave di reato-contratto di pericolo astratto, contrassegnato da un evidente arretramento della soglia del penalmente rilevante50, arrestatasi in punto

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D.l. 13 maggio 1991, n. 152. Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa. […] Art. 7. Per i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale (a) ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. […]. 49 Cfr. Visconti, Verso la riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 12. 50 Sul punto, in senso favorevole alla riconducibilità della fattispecie di voto di scambio ad una, seppur minima, compatibilità con il principio di offensività, cfr. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, cit., 16, il quale rileva che: «si potrebbe, quindi, sostenere che la definizione di un simile accordo costituisca, sulla base di una presunzione ragionevole e, quindi, non censurabile costituzionalmente, una fonte di pericolo significativa per i beni protetti, incidendo in termini negativi non solo sull’ordine pubblico, ma anche su un altro interesse fondamentale in uno Stato democratico, quale la libertà morale dei cittadini di esprimere il proprio voto e di contribuire alla democratica elezione dei rappresentanti nelle pubbliche assemblee, interesse che può essere protetto da intimidazioni mafiose, già prima che esse raggiungano lo scopo di condizionare effettivamente il voto. Natural-

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di effettiva stipula di un pactum sceleris intriso di potenziali note modali di mafiosità, subisce una controversa trasmutazione che muove la collocazione del voto di scambio politico-mafioso verso i lidi del “reato di danno”; la presente opzione politico-criminale, pertanto, risulta fondata sulla possibilità di imperniare la sussistenza di una peculiare circostanza aggravante su di un dato, quello dell’elezione del candidato, che, apparendo avulso ed indipendente rispetto all’illecita pattuizione, incontra la più rilevante complessità in punto di accertamento probatorio di una colleganza causale tra il previo pactum sceleris ed il fausto esito elettorale per il politico. Altrimenti detto, pur ammettendosi l’eventualità, tutt’altro che agevole, che riscontri probatori riescano a far emergere un impegno del promittente al procacciamento, in linea con le ipotesi contemplate dal primo comma dell’art. 416-ter c.p., di uno specifico numero di voti, seguito da un’effettiva attività di condizionamento elettorale, permarrebbe comunque a livello della concreta impossibilità, posto l’insormontabile ostacolo rappresentato dalla segretezza del voto, la dimostrazione che l’elezione del candidato possa effettivamente essere imputata alla preferenza espressa da elettori illecitamente compulsati51. Inoltre, profilo, se possibile, affetto da ancor più evidente criticità, è quello che specificamente attiene alla previsione di un incremento sanzionatorio fisso, in patente contrasto con le previsioni, afferenti al peculiare versante delle pene fisse, contenute in recenti interventi della Consulta: «ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità; e tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda “proporzionata” all’intera gamma dei comportamenti tipizzati»52. Nel caso di specie, la previsione del rigido aumento della metà di una pena già particolarmente elevata, se considerata alla luce del reale disvalore della condotta punita, non pare in alcun modo poter

mente, per essere tollerata in un sistema penale informato dai principi costituzionali, tra cui quello di offensività, una fattispecie di questo tipo deve comunque essere interpretata ed applicata alla luce di quest’ultimo nella sua dimensione c.d. ‘in concreto’, vale a dire come criterio ermeneutico per guidare le decisioni della giurisprudenza. In chiave, viceversa, antitetica cfr. Cavaliere, Lo scambio elettorale politico-mafioso, in Aa.Vv. (a cura di Moccia), Trattato di diritto penale. I delitti contro l’ordine pubblico, I, 2006, ESI, 642, il quale dopo aver individuato il bene giuridico tutelato nella libertà morale di una pluralità di persone, evidenzia, tuttavia, come ciò non comporti «che la disposizione risulti legittima dal punto di vista della soglia di tutela: al contrario, anche una volta che il bene tutelato sia stato ricostruito in maniera afferrabile e relativamente prossima all’aggressione da parte del soggetto attivo, resta […] il dato per cui si punisce, in sostanza, un’ipotesi di accordo non eseguito o di istigazione privata accolta, anche se il reato non è commesso, in deroga al principio di cui all’art. 115 c.p.»; nonché, in senso ancor più marcatamente critico, cfr. Squillaci, Punti fermi e aspetti problematici, cit., 7, secondo il quale il momento consumativo non dovrebbe andare a coincidere con la mera promessa, bensì individuarsi, già a livello legale, nella stipula «di un accordo stabile, serio ed effettivo tra le parti». 51 In tal senso, cfr. Cisterna, Voto di scambio politico-mafioso, cit., 27, il quale rileva come: «A nessuno può venire in mente che questo sia sufficiente per irrogare l’aumento di pena ora indicato, posto che nessuno può sapere se i cento accoliti o i cento succubi del boss Tizio abbiano effettivamente votato in ossequio alla promessa. […] pretendere che si dimostri che [il politico, ndr] ha guadagnato uno scranno (grande o piccolo che sia), perché i voti del boss Tizio sono stati determinanti costruisce una scelta velleitaria e, sostanzialmente, destinata al nulla». 52 Cfr., C. cost., 25 settembre 2018, n. 222, in GCost, 6, 2018, 2566 con nota di Bartoli, Dalle “rime obbligate” alla discrezionalità: consacrata la svolta, nonché in www.penalecontemporaneo.it, con commento di Galluccio, La sentenza della Consulta su pene fisse e ‘rime obbligate’: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, 10 dicembre 2018.

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prefigurare profili di complessiva proporzionalità nell’ambito della struttura della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso; inoltre, la cornice edittale ricompresa tra i 15 ed i 22 anni e mesi 6 di reclusione comporta, nei confronti del candidato eletto, un regime sanzionatorio più elevato rispetto non solo ai partecipi effettivi di un’associazione mafiosa, bensì addirittura in confronto ai vertici del sodalizio criminale. Non v’è chi non veda come una simile soluzione finisca per disvelare tutta la propria irragionevolezza, prospettandosi un ineludibile vulnus al principio di proporzionalità della pena, nonché una radicale compromissione del processo rieducativo, impedendosi altresì una corretta individualizzazione della risposta sanzionatoria53.

2.6. Sintetiche considerazioni conclusive. La pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Prima di procedere ad un alquanto stringato riassunto dei complessivi profili valutativi ricavabili dall’analitica osservazione del novellato testo dell’art. 416-ter c.p., appare imprescindibile l’accentuazione di un’ulteriore innovazione normativa, introdotta nel quarto comma del medesimo articolo. In assoluta linea di continuità con la recente riscoperta delle pene accessorie, il legislatore riformista perviene alla previsione, appunto, della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, da irrogarsi in tutte le ipotesi di condanna per il reato di voto di scambio politico-mafioso. L’inflizione di una sanzione accessoria fissa, per quanto connessa, nel caso che qui ci impegna, alla necessità di impedire che un soggetto condannato per delitti legati all’assunzione di cariche elettive possa in futuro ricoprire ulteriori incarichi pubblici, trova proprio nella sua dimensione di perpetuità un insormontabile profilo di irra-

53

Cfr., C. cost., 21 settembre 2016, n. 236, in www.penalecontemporaneo.it, con commento di Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont., 2/2017, 61 ss. In tale fondamentale sentenza la Consulta inaugura un rinnovato approccio nella valutazione della proporzionalità della pena, conservando gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., come parametri del giudizio, abbandonando però il tradizionale requisito del tertium comparationis al quale era solita condizionare l’ammissibilità di simili questioni di legittimità costituzionale: «È costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali. E la tutela del principio di proporzionalità, nel campo del diritto penale, conduce a «negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni». […] Anche la finalità rieducativa della pena, nell’illuminare l’astratta previsione normativa, richiede «un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra», mentre la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale produce «una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione». Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta descritta dalla fattispecie normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta, del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta e dal disvalore da essa espressa. In tale contesto, una particolare asprezza della risposta sanzionatoria determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena».

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Prove tecniche di trasmissione di populismo penale: l’ennesima riforma dello scambio elettorale politico-mafioso

gionevolezza, impedendo una graduabilità della risposta sanzionatoria all’effettiva gravità del contegno criminale del reo e frustrando, altresì, qualsivoglia possibilità di individualizzazione della pena rispettosa delle fondamentali istanze rieducative54. Riavvolgendo, a questo punto, il filo rosso del nostro percorso espositivo, non possiamo esimerci dal rimarcare un sentimento di complessiva insoddisfazione nei confronti dell’impianto riformista della fattispecie di scambio elettorale politico-mafioso, così come delineato nella l. 43/2019. Disvelando unicamente una volontà diretta alla possibilità di fornire rassicuranti risposte nei riguardi di un fenomeno, quello della contiguità politico-mafiosa, contrassegnato da un livello particolarmente elevato di allarme sociale, nonché alimentato dalla consapevolezza della raccolta di facili consensi elettorali intorno ad una rigorosa risposta punitiva, il legislatore ha finito per incorniciare una fattispecie la quale, oltre a non registrare significativi avanzamenti in punto di effettività, finisce per essere contraddistinta da soluzioni marcatamente irragionevoli, le quali raggiungono il proprio acme in un irrigidimento sanzionatorio che serve «solo simbolicamente a ‘mostrare i muscoli’ avverso un fenomeno fortemente disapprovato dalla comunità, a sopire paure più o meno reali e a creare consenso sociale (e, quindi, politico) attorno a scelte legislative che appagano sterili, ma voraci, richieste ‘di più penale’»55.

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In argomento, cfr. Manna, Sull’illegittimità delle pene accessorie fisse: l’art. 2641 del codice civile, in GCost, 1980, 940; nonché, Id., Corso di diritto penale. Parte generale, cit., 651 ss., il quale limpidamente sottolinea come: «Le pene accessorie dovrebbero infatti essere tutte temporanee, così come lo dovrebbe essere la pena detentiva principale, in quanto, la pena accessoria perpetua altro non è che una pena fissa e, come tale, in contrasto sia con l’art. 27, co. 3 della Costituzione, che, in primo luogo, con lo stesso art. 3». Per la giurisprudenza costituzionale, v. antea, nota n. 52. 55 Così, condivisibilmente, Amarelli, Prove di populismo penale, cit., 11.

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Giurisprudenza

nazionale

Cass.pen., sez. V, sent. 16 agosto 2019 n. 36143 legittima difesa, scriminante, stato di necessità Il Pakistan riveda la condanna a morte della presunta spia indiana in quanto il suo modus operandi “ha privato la Repubblica dell’India del diritto di comunicare con il suo cittadino, di fargli visita nel corso della detenzione e di organizzare la sua rappresentanza legale”. Questo quanto affermato dai giudici della Corte Internazionale a fronte della richiesta avanzata dallo Stato indiano.

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Innegabile per la SC la legittima difesa anche nel caso di azione imprevedibile e sproporzionata Con la sentenza n. 36143 del 2019, recentemente la Suprema Corte, in particolare la V sez. penale, si è pronunciata in materia di scriminanti trattando l’istituto della legittima difesa. Il provvedimento adottato dai giudici del Supremo Consesso trae origine dal ricorso proposto dal sig. G.I. a fronte dei precedenti provvedimenti adottati dai Giudici di merito, che avevano portato alla sua condanna. Il sig. G.I., percorrendo a piedi in compagnia della sua famiglia una strada, veniva quasi investito dal sig. M.M. che sopraggiungeva a forte velocità a bordo della sua autovettura. L’imputato, dunque, data la situazione ebbe un forte diverbio con il sig. M.M. che, vistosi aggredito, estraeva dalla propria auto una mazza da baseball con la quale aggrediva il sig. G.I. e successivamente a pugni si scagliava anche contro la moglie dello stesso, intervenuta al fine di placare gli animi, provocandole lesioni. Il signor G.I., pertanto, riusciva ad impossessarsi della mazza da baseball e colpiva il sig. M.M. provocandone lesioni guaribili in dieci giorni. In forza di tale comportamento, dunque, G.I., soprattutto perché si era impossessato della mazza con la quale aveva aggredito M.M. era stato condannato sia in primo che in secondo grado di giudizio. Essenzialmente, la Corte d’Appello asseriva, nel suo provvedimento confermativo della sentenza del giudice di primo grado con cui G.L era stato condannato per il reato di lesioni personali aggravate ai sensi dell’art. 576 e 61, n. 1, cod. pen., che al sig. G.I. non poteva essere riconosciuta l’attenuante della legittima difesa, in quanto la causa di non punibilità non può essere applicata nei confronti di chi “ abbia contribuito volontariamente alla creazione di una situazione di pericolo alla quale volontariamente si espone”; manca uno dei requisiti fondamentali per l’applicazione della scriminante ossia, della necessità. Infatti, la l’art. 52 c.p. impone che il soggetto debba trovarsi davanti alla stringente alternativa tra offendere ed essere offeso. Da qui l’esclusione della legittima difesa da parte del giudice d’appello, visto che secondo una certa giurisprudenza “le lesioni volontarie reciproche tra due contendenti non implicano necessariamente che uno di essi abbia agito in stato di legittima difesa.”


Giurisprudenza nazionale

Inoltre, non solo l’imputato non si è allontanato dal luogo dell’aggressione, ma restando in loco ha determinato lo stato di pericolo subito, anche per questo la legittima difesa deve essere esclusa. Per queste ragioni, in caso di rissa viene esclusa la legittima difesa. Per la Cassazione il principio è corretto ma non può essere avallato nel caso in esame in quanto considera esclusivamente gli sviluppi iniziali senza considerare la situazione imprevedibile venutasi a creare. Per la Corte, infatti, la legittima difesa deve essere riconosciuta quando a fronte della sussistenza di tutti i requisiti richiesti dall’ art. 52 c.p. “vi sia un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia un’offesa che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta”. In estrema sintesi, con il provvedimento che essenzialmente annulla e rinvia alla Corte d’Appello competente per una nuova valutazione relativamente alla sussistenza della legittima difesa, si potrebbe sostenere che il Supremo Consesso ha, in pratica, sostenuto che la Corte di merito non ha rilevato nel giudizio lo stato di concitazione provato dal ricorrente al momento del fatto “determinato dall’imprevedibile sviluppo della lite che lui stesso aveva concorso a determinare consistente nell’aggressione perpetrata in danno di sua moglie”. Un principio in materia di legittima difesa al quale la Corte d’Appello dovrà attenersi valutando la condotta contestata al pedone e rivalutandola nel quadro dei principi in materia di legittima difesa, al fine di stabilire se la condotta, con un giudizio ex ante, ovvero valutando le circostanze concrete esistenti al momento della reazione, possa dirsi necessitata e proporzionata rispetto all’offesa ingiusta subita dalla moglie e pertanto la reazione possa essere considerata “necessitata e proporzionata rispetto all’offesa ingiusta subita dalla moglie e, dunque, se possa essere scriminata ai sensi dell’articolo 52 del Codice penale”. Antonio De Lucia

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Giurisprudenza

internazionale

Corte Internazionale di Giustizia, sent. 17 luglio 2019 n. 168 Convenzione di Vienna, Pakistan, terrorismo Il Pakistan riveda la condanna a morte della presunta spia indiana in quanto con il suo modus operandi “ha privato la Repubblica dell’India del diritto di comunicare con il suo cittadino, di fargli visita nel corso della detenzione e di organizzare la sua rappresentanza legale”, questo quanto affermato dai giudici della Corte Internazionale a fronte della richiesta avanza dallo Stato Indiano

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La Corte internazionale di giustizia si pronuncia sulla Convenzione di Vienna La Corte internazionale di giustizia, Tribunale internazionale dell’Aja, con la sentenza relativa al case 168-20190717 India /Pakistan si è pronunciata in un caso avente ad oggetto l’applicazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, tra Stati, del 24 aprile 1963. I giudici internazionali, con il loro operato, hanno essenzialmente eccepito la violazione del trattato internazionale motivando la loro decisione sulla base del fatto che le controversie relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione sono obbligatoriamente di competenza della Corte internazionale di giustizia. Questo perché uno degli Stati convenuti, il Pakistan, non aveva concesso ad un cittadino indiano, condannato a morte da un Tribunale militare del Pakistan, di poter incontrare e chiedere assistenza al proprio console, non consentendo, di fatto, la piena realizzazione del diritto di difesa. I giudici della Corte dell’Aja, tuttavia, hanno ordinato al Pakistan di riconsiderare la condanna a morte, ma non hanno accolto la richiesta del Governo indiano relativa all’annullamento del verdetto. Il caso in esame vede coinvolto un cittadino indiano giudicato dalla giustizia pakistana in modo illegittimo almeno a dire del proprio governo, e che aveva presentato ricorso alla Corte internazionale di giustizia l’8 maggio 2017 sostenendo che il Pakistan avesse violato la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, ratificata da entrambi gli Stati. La vicenda vedeva il cittadino indiano e agente militare segreto, arrestato in Balochistan il 3 marzo 2016 per accuse di spionaggio e terrorismo contro il Pakistan. A causa delle due dichiarazioni confessionali di J., una resa a marzo 2016 e l’altra a giugno 2017, J. era stato, per effetto delle stesse, condannato a morte ad aprile 2017 per spionaggio. A fronte di ciò l’India, proponendo la vicenda alla Corte Internazionale, ha insistito sul fatto che J. non era colpevole, classificando questa decisione come un “omicidio premeditato. Inoltre, stando alla ricostruzione dell’India, contestata dal Pakistan, malgrado le autorità nazionali di Nuova Delhi avessero presentato più volte la richiesta di poter comunicare con il proprio cittadino sostenendo tra l’altro che J. non era una spia indiana, ogni istanza era stata respinta. L’uomo, ritenuto colpevole di spionaggio e terrorismo, era stato così condannato a morte ed era in attesa dell’esecuzione della pena capitale.


Giurisprudenza internazionale

Pertanto, l’India aveva anche chiesto alla Corte di concedere le misure provvisorie del caso e i giudici internazionali avevano, così, ordinato al Pakistan di sospendere l’esecuzione. Circa un anno dopo, mercoledì 17 luglio 2019, l’ICJ ha pronunciato il suo giudizio sul caso di J. in base alle udienze pubbliche iniziate il 18 febbraio 2019. Nel suo giudizio, La Corte internazionale di giustizia ha, in primis, chiesto al Pakistan un’efficace revisione e riconsiderazione della sua condanna. La Corte nella sua Pronuncia ha constatato, poi, la violazione della Convenzione di Vienna e ha respinto la tesi pachistana secondo la quale l’articolo 36 escluderebbe alcune categorie di persone dall’assistenza consolare, in particolare quando coinvolte nei casi di spionaggio. L’articolo 36, infatti, stabilisce che “quando un cittadino di un paese straniero viene arrestato, devono ricevere la notifica del consolato del loro paese e dovrebbero anche avere il diritto di consultare regolarmente i funzionari del loro consolato durante la detenzione e il processo”. Attraverso questo verdetto, l’ICJ ha cercato di far fronte alle possibili lacune e consentire un processo più equo e accettabile. In effetti, l’articolo 36 richiede che la notifica sia effettuata senza ritardo e, così, l’informazione dopo tre settimane non può essere considerata conforme agli obblighi internazionali. La Corte ha osservato che il mancato accesso al console comporta una violazione del diritto di difesa. Il Pakistan, stando al verdetto della Corte, dovrà sospendere l’esecuzione della pronuncia e consentire il contatto con l’autorità consolare in linea con l’articolo 36 della Convenzione. Per l’Aja spetta però al Pakistan la scelta dei mezzi che porteranno a riconsiderare la situazione del condannato. Antonio De Lucia

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Giurisprudenza

europea

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 13 giugno 2019, Viola c. Italia, ricorso n. 77633/2016 CEDU, ergastolo ostativo, ordinamento penitenziario, trattamenti inumani e degradanti L’Italia bocciata definitivamente dalla Grand Chambre,: neccessario rivedere la legge che nega benefici sulla pena ai condannati per mafia o terrorismo che non collaborano con lo Stato. Chi è detenuto non può del tutto essere privato anche della speranza di un recupero, al soggetto in carcere va riconosciuta la possibilità di redimersi e di pentirsi ed avere quindi l’ultima chance di migliorare la propria condizione.

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Criticità di alcuni aspetti del sistema carcerario italiano e necessario superamento dell’ergastolo ostativo L’Ordinamento Italiano necessita di un adeguamento normativo dell’ordinamento penitenziario italiano secondo quanto previsto dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani che letteralmente all’art. 3 recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”. In sintesi quanto deducibile dalla Pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativamente al caso Viola contro Italia (ricorso n. 77633/16, Affaire Viola c. Italia) In effetti, i Giudici europei hanno condannato l’Italia, Stato in causa, in quanto il c.d. carcere ostativo, previsto dagli art. 22 c.p. e 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario, contrasta apertamente con quanto disposto dall’art. 3 della Convenzione che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Le misure vigenti nel nostro ordinamento non rispetterebbero, infatti, per i giudici europei, la dignità umana, oggetto di attenzione da parte della Convenzione europea. Nel caso di specie, la richiesta alla Corte UE era stata mossa da un cittadino italiano detenuto in regime di “carcere duro” per un determinato periodo di tempo (art. 41 bis ord. Pen.) presso la struttura di Sulmona in cui doveva scontare una pena dell’ergastolo per reati di associazione di stampo mafioso, omicidio e altri crimini. A fronte del ricorso presentato dai suoi difensori, la Corte UE ha analizzato la normativa interna in base alla quale è preclusa, per i detenuti che non hanno cooperato con la giustizia, la possibilità di accedere a permessi, libertà condizionale o a riduzioni di pena, così come il ricorso a pene alternative. La Corte sottolinea che la dignità umana, è un valore fondamentale del sistema istituito dalla Convenzione, che non può consentire di privare una persona della sua libertà senza favorire il suo reinserimento e senza offrirgli la possibilità di recuperare un giorno di libertà. Evidentemente il rapporto tra benefici e collaborazione non ha persuaso, anzi sembra aver influenzato negativamente i giudici, i quali hanno sottolineato che la mancanza di collaborazione non può essere intesa esclusivamente come scelta volontaria e libera, e che l’assenza di collaborazione non può valutarsi esclusivamente come presunzione automatica di pericolosità sociale. La Cor-


Giurisprudenza europea

te, inoltre, ha precisato che il carcere a vita è giustificabile solo se si profilano, in prospettiva, ipotesi di reinserimento sociale, purché ricorrano determinati presupposti. La Corte, inoltre, osserva che la personalità di un condannato varia nel corso del tempo e che la pena può condurre il detenuto a modellarla nel senso positivo del termine. La Corte conclude, pertanto, che l’ergastolo ostativo (art. 4-bis ord. pen.) limiti indebitamente un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena. Pertanto, questa non può essere qualificata come comprimibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte respinge l’eccezione del governo relativa allo status di vittima del ricorrente e conclude che i requisiti di cui all’articolo 3 a tale riguardo non sono stati soddisfatti». La Corte europea ha chiesto, anche in ragione dei diversi provvedimenti pendenti per motivi analoghi, che l’Italia riveda le sue posizioni garantendo la possibilità di un riesame della pena ed esamini la possibilità, in modo concreto, di superare alcuni automatismi, legati a tale tipo di detenzione. Infine i giudici di Strasburgo hanno asserito che la possibilità del riesame del carcere a vita non propende per la scarcerazione se il condannato costituisce ancora un pericolo per la società. La Corte ha ammesso che il regime del 41-bis, meglio noto come “carcere duro”, e che la previsione della pena massima, nello specifico l’ergastolo ostativo, prevista dall’ordinamento penale italiano (in base alla legge n. 356/1992), siano misure inserite dal legislatore italiano e dettate da una situazione di grave emergenza per la società italiana in conseguenza dei tragici eventi ad opera delle preminenti organizzazioni di stampo mafioso. Tuttavia, gli sforzi compiuti dall’Italia nel far fronte alla criminalità organizzata non giustificano alcuna deroga all’art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e di ogni trattamento inumano e degradante), riconosciuta a ben vedere quale norma imperativa e inderogabile del diritto internazionale. In riferimento al caso di specie, la Corte ha sottolineato, però, che la sua decisione in merito non implica in alcun modo la prospettiva di un rilascio imminente per il ricorrente. La sentenza non è definitiva, pendendo il termine per la richiesta di rinvio alla Grande Camera da parte del Governo. In questo contesto è doveroso prendere in esame la recentissima sentenza della Corte di Strasburgo. La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 in merito alla decisione avente ad oggetto il caso del boss della ‘ndrangheta Viola. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che la condanna al carcere a vita “irriducibile” – senza poter accedere a permessi e benefici – inflitta al ricorrente violi l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani. La decisione investe un tema senza dubbio sentito soprattutto nell’ordinamento Italiano. Nelle condizioni di Viola versano centinaia di boss mafiosi, condannati per stragi, terrorismo, che non hanno in alcun modo collaborato con la giustizia. Il caso Viola vede un soggetto condannato a quattro ergastoli per omicidi plurimi, occultamento di cadavere, sequestro di persona e detenzione di armi. Secondo l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, il sig. Viola non può beneficiare dell’assegnazione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione, in quanto non ha offerto alcuna collaborazione, anche quella che risulta oggettivamente irrilevante alle indagini. Strasburgo gli aveva dato ragione: ora conferma quella decisione respingendo il ricorso dell’Italia. La Cedu, infatti, aveva definito “trattamento inumano e degradante” l’istituto giuridico dell’ergastolo ostativo. I giudici di Strasburgo sottolineano che “lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Riesame che, si legge nella sentenza, “permetterebbe alle autorità di

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Criticità di alcuni aspetti del sistema carcerario italiano e necessario superamento dell’ergastolo ostativo

determinare se, durante l’esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia fatto progressi tali” da non giustificare più, legittimamente, “il suo mantenimento in detenzione”. La Corte, inoltre, “pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione dall’ambiente mafioso”, evidenzia “che tale rottura può esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia” e senza l’automatismo legislativo attualmente vigente. A margine di quanto esposto, la pronuncia dei giudici di Strasburgo ha nuovamente riproposto il diverbio tra quanto il legislatore italiano ha elaborato nel corso degli anni e quanto disposto dall’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo ratificata dall’Italia. Sulla base di una nuova e recentissima presa di posizione dei giudici costituzionali italiani, sembra ancor maggiore la necessità di affermare che l’Italia è un Paese nel quale l’inflizione della pena ha sicuramente finalità rieducativa, ma i problemi derivanti dal fenomeno della criminalità organizzata, in special modo di quella di stampo mafioso, richiedono un atteggiamento più incisivo da parte del legislatore, più pragmatico e tendente ad estirpare il fenomeno fin dalla radice. Pertanto, il contrasto tra quanto previsto dal nostro ordinamento (art. 416 bis c.p.p. e 41 bis o.p.) e quanto ribadito dai giudici europei, l’intervento della Corte Costituzionale apre un nuovo scenario dal quale si evince che a fronte dei principi riconducibili alla salvaguardia dell’individuo e alla sua persona in quanto tale bisogna comunque contrappore gli interessi della collettività Marilisa De Nigris

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Giurisprudenza europea

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Osservatorio

normativo

La riforma al reato di scambio elettorale politico-mafioso Andrea Racca

Sommario: 1. Il testo del nuovo art. 416 ter c.p. – 2. Analisi della riforma. – 3. L’impianto sanzionatorio. – 4. Conclusioni.

1. Il testo del nuovo art. 416 ter c.p. La Legge n. 21 maggio 2019, n. 43, entrata in vigore l’11 giugno 2019, apporta alcune importati modifiche inerenti al reato di scambio elettorale politico-mafioso, previsto dall’art. 416 ter c.p. La fattispecie, già precedentemente disciplinata dal D.L. n. 306 del 1992 convertito con modificazioni dalla legge n. 356 del 7 agosto 1992 e modificato ancora con la Legge del 17 aprile 2014 n. 62, è stata negli ultimi anni oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale, proprio in relazione alle novelle intervenute, a cui a seguito del lungo iter parlamentare, è pervenuta la seguente riformulazione: «Chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416-bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa è punito con la pena stabilita nel primo comma dell’articolo 416-bis. La stessa pena si applica a chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma. Se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale, si applica la pena prevista dal primo comma dell’articolo 416-bis aumentata della metà. In caso di condanna per i reati di cui al presente articolo consegue sempre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici». Come argomentato nel progetto di legge, da ultimo, approvato alla Camera dei Deputati1 la riforma intende colpire maggiormente il fenomeno delle connessioni politico-mafiose particolarmente frequenti in occasione delle consultazioni elettorali. In tal senso viene punito sia il politico (o aspirante tale) che accetta la promessa di voti, sia il promittente, cioè l’apparte-

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Le abbinate proposte di legge A.C. 1302 dapprima approvata dal Senato e poi A.C. 766 (c.d. Colletti), approvata alla Camera hanno novellano l’articolo 416-ter c.p., a seguito del parere del Commissione Affari Costituzionali.


Osservatorio normativo

nente all’organizzazione mafiosa o similare (di cui al secondo comma), che tali voti promette di procurare grazie alla forza di intimidazione derivante dalla consapevolezza del vincolo associativo mafioso. Prestazione e controprestazione oggetto dell’illecito consistono, infatti da un lato nel procacciamento di voti, dall’altro nell’utilità (in denaro o meno) data o promessa, mentre l’altra utilità consiste in qualunque altro vantaggio, diverso dal denaro, quale ad esempio la promessa di altri comportamenti indebiti e vantaggiosi per il clan, come l’assegnazione di appalti, l’assunzione di lavoratori o altri diversi benefici.

2. Analisi della riforma. Il nuovo testo dell’articolo, come si può leggere, apporta numerosi cambiamenti al previgente, con il principale obbiettivo proprio l’inasprimento sanzionatorio, per cercare di escludere la presenza insidiosa di uno dei fenomeni più inquietanti e controversi del nostro Paese, che vede coinvolta la Mafia nella politica, e nello specifico, nello scambio elettorale. Come ricorda la Suprema Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 54344 del 20 novembre 2018 il delitto di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’art. 416-ter c.p., rientra infatti nel novero dei tipici reati commessi avvalendosi delle modalità delle associazioni di tipo mafioso (ex art. 416 bis c.p.) ed è, quindi, incluso fra le ipotesi contemplate dall’art. 407, comma 2, lett. a), n. 3, c.p.p.; tanto che il termine di fase della custodia cautelare, decorrente dall’inizio della sua esecuzione, deve considerarsi quello annuale previsto dall’art. 303, comma 1, lett. a), n. 3, c.p.p2. Nella XVII Legislatura già la Legge 17 aprile 2014, n. 62 aveva ampliato l’elemento oggettivo del reato integrando nella controprestazione dello scambio di voti, non solo il denaro ma anche qualsiasi “altra utilità”, inserendo l’esplicito riferimento al metodo mafioso (“alle modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416-bis”) che deve connotare la promessa di procurare voti in cambio di specifica utilità; incriminando anche la condotta del soggetto, che promette di procacciare i suffragi, con punizione quindi di entrambi i protagonisti del patto criminale, comportando così la trasformazione del reato da plurisoggettivo improprio, a reato plurisoggettivo proprio. Il delitto di cui in analisi si tratta, infatti, di un reato comune, principalmente di pericolo sia con riferimento al soggetto del promissario, sia con riferimento a quello del promittente. Quest’ultimo, in particolare, come chiarito dalla giurisprudenza, può essere un esponente di una cosca mafiosa, un mafioso, che opera uti singulus, ma anche un soggetto del tutto estraneo ad una consorteria criminale. Ciò premesso, le prime apparenti modifiche della più recente riforma riguardano proprio i soggetti attivi, nei quali viene incluso oltre il promittente e il promissario dei voti, anche gli intermediari o eventuali mediatori esterni. In tal guisa, il procacciatore può essere anche un membro appartenente ad associazioni di tipo mafioso anche straniere (416 bis c.p.) od una persona che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo persegua scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso (art. 416 bis, comma 3: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per

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Cass. Pen. Sent. n. 54344 del 20 novembre 2018 - dep. 5.12.2018.

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La riforma al reato di scambio elettorale politico-mafioso

commettere delitti (…) Ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali»). In realtà, già con la sentenza 4801 del 2015 la Corte di Cassazione aveva ritenuto che “con l’introduzione del 2° comma, poi, l’art. 416-ter diviene fattispecie plurisoggettiva necessaria propria, dal momento che è prevista la punibilità tanto per il promissario, quanto per il promittente. È, inoltre, reato comune: e ciò sia con riferimento al soggetto del promissario, sia con riferimento a quello del promittente. Il promissario, infatti, può essere lo stesso candidato in cerca di voti, ovvero un suo collaboratore o, più in generale, un qualsiasi soggetto che agisca per conto o anche solo nell’interesse del politico; dal canto suo, il promittente può in teoria essere: a) un esponente di una cosca mafiosa, capace di impegnare con la sua parola la cosca di riferimento, oppure b) un mafioso agente uti singulus, oppure ancora c) un soggetto del tutto estraneo ad una tale consorteria criminale”3. Pertanto, la precedente formulazione in via estensiva includeva già entrambi i soggetti, che potevano essere coinvolti direttamente od anche indirettamente. Dal punto di vista della formulazione crea, dunque, qualche dubbio interpretativo l’esplicitazione che il promittente i voti possa essere anche un soggetto appartenente al sodalizio mafioso, poiché la formulazione pregressa già prevedeva tra i soggetti autori di reato quello che prometteva di procurare i voti senza specificazioni di sorta, ma in questo caso la precisazione “appartenenti” alle associazioni mafiose; non offre una chiara comprensione se a tal fine si debba richiedere la condanna definitiva per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., oppure ci si possa accontentare di altro, come, ad esempio, una condanna di primo grado, l’applicazione di una misura cautelare o di una misura di prevenzione4. D’altro canto, il nuovo articolo menziona una nuova forma possibile per la realizzazione del patto criminale, non solo attraverso le modalità già citate nell’articolo precedente, ovvero l’erogazione di denaro e la promessa di erogazione di denaro o di altra utilità, ma anche “in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”, che integrerebbe un’utilità intrinseca alla cosca di rafforzare il proprio potere. Come ricorda infatti sempre la Corte di Cassazione con una sentenza di qualche giorno precedente all’entrata in vigore della riforma, in tema di scambio elettorale politico-mafioso, l’esistenza dell’intesa per il procacciamento di voti con modalità mafiose può desumersi, in via indiziaria, da indicatori sintomatici quali la fama criminale del procacciatore, la forza intimidatrice promanante dagli affiliati all’associazione di tipo mafioso reclutati per la raccolta dei consensi e la valutazione di utilità del loro apporto nella zona d’influenza dell’organizzazione criminale, risultando, per converso, irrilevante il “post factum” costituito dal mancato incremento delle preferenze5.

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E. Zuffada, La Corte di Cassazione ritorna sull’art. 416-ter c.p.: una nuova effettività per il reato di “scambio elettorale politico mafioso”?, Diritto Penale Contemporaneo 2015 4 G. Amarelli, La riforma dello scambio elettorale, Diritto penale contemporaneo, 4 giugno 2019. 5 Cassazione penale sez. V, 07/05/2019, n. 26426. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione cautelare adottata in un caso nel quale il procacciatore era stato consapevolmente individuato dal candidato in ragione della sua “prossimità” al clan camorristico operante sul territorio e si era avvalso della collaborazione di soggetti coindagati per il delitto di estorsione commesso in danno di altri candidati.

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Osservatorio normativo

3. L’impianto sanzionatorio. Dal punto di vista sanzionatorio viene, invece, reintrodotta la precedente equiparazione del trattamento sanzionatorio con il delitto di partecipazione associativa mafiosa, stabilendo che ad entrambi i contraenti del sinallagma illecito si applichino le pene previste dall’art. 416 bis, comma 1 c.p. La norma non effettua, dunque, distinzioni dal profilo repressivo tra i soggetti attivi e il concorrente esterno, ritenendo tutti i contributor egualmente responsabili. Indubbiamente detta parificazione deve rilevarsi dal punto di vista della politica criminale e non tanto dalla pratica processuale, poiché la condotta di un eventuale contributo esterno dovrà comunque rilevarsi in vista del proprio apporto causale, che come insegnatoci dalle Sezioni Unite n.33748 del 12 luglio 2005, forgiando il c.d. “modello misto” e dunque facendo leva sia sulla affectio societatis, sia sul contributo dinamico fornito alla vita associativa, tanto rispetto a quello del concorrente esterno che, sempre secondo il Supremo consesso, non è integrato da una mera condotta potenzialmente idonea ad aiutare un gruppo mafioso, ma dalla effettiva causazione in termini condizionalistici di un macro evento di rafforzamento o mantenimento in vita dell’intero sodalizio6. Viene, inoltre, prevista una nuova aggravante ad effetto speciale che determina un aumento fisso della metà della pena base nell’eventualità in cui il candidato alle elezioni risulti eletto a seguito della promessa elettorale di origine mafiosa. La formulazione in tal senso pone qualche aporia pratica, poiché non si comprende su cosa risieda l’aumento di pena in questo caso, essendo collegato ad un dato neutro e potenzialmente indipendente dal voto di scambio qual è l’elezione del candidato e comunque difficilmente dimostrabile in sede processuale considerando il principio della segretezza del voto, che non consentirebbe mai di poter verificare se effettivamente gli elettori compulsati dal mafioso abbiano rispettato le ‘consegne’ e, dunque, abbiano inciso causalmente con i loro voti sull’esito della consultazione elettorale. Indubbiamente, e forse questo rappresenta il dato più significativo, il politico che risultasse implicato in un rapporto con esponenti dei gruppi mafiosi, anche a distanza di anni dalla tornata elettorale subirebbe una pena estremamente incisiva. Infatti, la previsione di un aumento di pena fisso, peraltro della metà di una pena base già molto elevata, produrrebbe l’esito paradossale di infliggere una pena di ventidue anni al politico beneficiario della promessa e, quindi, una pena ben più alta di quella riservata dal codice ad un partecipe effettivo di una associazione mafiosa e, addirittura, ad un suo vertice, prevedendo il primo comma una pena massima di diciotto anni di reclusione. Il Legislatore integra, poi, nel intento di aggravamento della fattispecie la reintroduzione del comma IV con la previsione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici dei protagonisti dell’intesa politico-mafiosa in caso di condanna. La previsione di una pena accessoria perpetua e non graduata induce a ritenere che il soggetto, che sia stato condannato per un delitto legato al futuro esercizio di funzioni pubbliche cruciali, quali sono quelle a cui si accede su base elettiva non possa più ricoprire alcun incarico pubblico. Questa previsione, sebbene possa essere ritenersi condivisibile, pare tuttavia porre qualche dubbio di costituzionalità circa la compatibilità tra la stessa misura interdittiva perenne e la finalità rieducativa della pena.

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I. Giugni, Il problema della causalità nel concorso esterno, Diritto penale Contemporaneo, 7 ottobre 2017.

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La riforma al reato di scambio elettorale politico-mafioso

4. Conclusioni In conclusione, la recente riforma dell’art. 416 ter sembra in sostanza voler sanzionare con un’unica disposizione tutti i protagonisti dello scambio elettorale politico-mafioso: promissario, promittente, procacciatore e contribuente esterno. L’intento è quello di rimediare alle forti criticità, che aveva mostrato la previgente formulazione dell’art. 416-ter, comportando diverse difficoltà alla magistratura con riguardo alla dimostrazione caso per caso dell’uso del metodo mafioso. La riformulazione dell’articolo in esame amplia dunque l’oggetto della fattispecie, comprendendo nell’area della punibilità anche il politico parte “attiva” dell’illecito (oltre colui che “accetta le promessa” di procacciare voti, anche colui che “chiede” od “ottiene” tale promessa); punisce anche l’opera dell’intermediario tra il politico e il mafioso, ovvero colui che si adopera per far ottenere la promessa; parendo infine chiarire che il denaro (o altra utilità) possa essere erogato anche a persone diverse da chi procura i voti. L’intervento normativo, proprio alla luce del richiamo al terzo comma dell’art. 416-bis e di quanto espresso nella relazione illustrativa, sembra quindi voler confermare la punibilità parimodo di tutti i contraenti il patto criminale. Tuttavia, dalla formulazione letterale della disposizione emerge esplicitamente solo l’illiceità di chi “accetta direttamente o a mezzo di intermediari (...) la promessa di procurare voti” ossia del politico, e di “chi promette, direttamente o a mezzo di intermediari” ossia del mafioso o dell’appartenente all’associazione criminale, mentre la figura dell’intermediario stesso pare non ben tratteggiata, quasi a non ben qualificarsi quella figura che opera come interlocutore tra il mondo della criminalità organizzata e la sfera politico-istituzionale. Al riguardo potrebbe essere opportuna un’interpretazione pratica da parte della giurisprudenza a fini di chiarire una più puntuale formulazione delle disposizioni in esame, che preveda esplicitamente e specificatamente l’illiceità di quell’attività, non sempre così facilmente individuabile, di chi si adopera per intrattenere legami tra le organizzazioni di cui all’art. 416 bis c.p. e il modo della politica.

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Osservatorio

internazionale

Convenzione sulla lotta contro la manipolazione delle competizioni sportive approvata dal Consiglio d’Europa il 18 settembre 2014. L’Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione con la Legge n. 39 del 3 maggio 2019 (manipolazioni sportive) Nikita Micieli de Biase La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione delle competizioni sportive a Macolin (Magglingen), Svizzera il 18.9.2014 firmata dall’Italia insieme ad altri stati membri, è una risposta all’esigenza indicata dal piano d’azione del terzo vertice dei capi di Stato e di governo del Consiglio d’Europa1 di formare progressivamente un quadro comune, europeo e globale, per lo sviluppo dello sport, connesso alle nozioni di democrazia pluralista, stato di diritto, diritti umani ed etica dello sport. La manipolazione dello sport, in conseguenza della sua natura transnazionale dovuta all’utilizzo diffuso di piattaforme digitali di scommesse sportive che ha favorito il coinvolgimento del crimine organizzato richiede un intervento globale e coordinato degli Stati anche di quelli non membri del Consiglio d’Europa in termini di cooperazione nazionale e internazionale rinforzata, rapida, sostenibile e ben funzionante. Lo scopo della Convenzione è la lotta alla manipolazione delle competizioni sportive al fine di proteggere l’integrità e l’etica dello sport conformemente al principio dell’autonomia dello sport. L’art. 1 della norma pattizia elenca i seguenti principali obiettivi: a) prevenire, identificare e sanzionare le manipolazioni nazionali o transnazionali delle competizioni sportive nazionali o internazionali; b) promuovere la cooperazione nazionale e internazionale contro la manipolazione delle competizioni sportive tra le autorità pubbliche interessate e con le organizzazioni coinvolte nello sport e nelle scommesse sportive. Il contrasto alla manipolazione delle com-

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Il 3° Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Consiglio d’Europa (Varsavia, 16-17 maggio 2005) che ha raccomandato ai Stati membri il settore dello sport tra le attività del Consiglio d’Europa


Osservatorio internazionale

petizioni sportiva avviene nel rispetto dei diritti umani2, legalità; proporzionalità; protezione della vita privata e dei dati personali. L’art. 3, per individuare il suo ambito applicativo, definisce le nozioni di competizione sportiva, organizzazione sportiva, organizzatore di competizioni, informazioni privilegiate, oltre alle parti interessate alla competizione come atleti, funzionari, personale di supporto agli atleti. È da evidenziare che la manipolazione di competizioni sportive è definita come accordo, un atto o un’omissione intenzionali volti a modificare impropriamente il risultato o lo svolgimento di una competizione sportiva al fine di eliminarne in tutto o in parte l’imprevedibilità per ottenere un indebito vantaggio per se stessi o per altri. La scommessa sportiva è qualsiasi puntata di una somma di denaro in vista di un premio in denaro che dipende dal verificarsi di un avvenimento futuro e incerto collegato a una competizione sportiva. La Convenzione fa una tripartizione delle scommesse sportive in illegale, irregolare e sospetta nell’ottica di anticipare l’intervento di contrasto anticipando ad operazioni che, secondo prove attendibili e concordanti, appare collegata a una manipolazione della relativa competizione sportiva. La L. 2019 n. 39 designa come autorità per la regolamentazione delle scommesse sportive l’Agenzia delle dogane e dei monopoli. La Convenzione disciplina la cooperazione tra le Parti, nonché misure quali la trasparenza delle misure di prevenzione quale la valutazione del rischio, azioni di educazione e sensibilizzazione, la trasparenza dei flussi finanziari destinati alle organizzazioni sportive, azioni specifiche per autorità per la regolamentazione delle scommesse o alle altre autorità responsabili e per gli operatori del settore. Vengono indicate sanzioni contro gli operatori di scommesse sportive illegali quali la chiusura delle attività anche quelle telematiche, blocco dei flussi finanziari, divieto di pubblicità, oltre l’adozione di attività di sensibilizzazione verso i consumatori sui rischi delle scommesse illegali. Lo scambio delle informazioni avviene secondo le norme del diritto nazionale e coinvolge tutte le autorità competenti e gli addetti del settore in conformità al diritto di tutela della privacy. Esso avviene in via telematica tramite la piattaforma nazionale cui compiti sono definiti dall’art. 13 della Convenzione. Il Capo IV indica i reati che le Parti dovrebbero introdurre nella propria legislazione come la manipolazione delle competizioni sportive implicante pratiche coercitive, di corruzione o fraudolente; il riciclaggio dei proventi dei reati relativi alla manipolazione delle competizioni sportive; la complicità e favoreggiamento, le sanzioni verso le persone giuridiche. Vengono indicate sanzioni amministrative, sanzioni penali verso persone fisiche, sanzioni patrimoniali come sequestro e confisca, misure preventive, oltre ai criteri per determinare la giurisdizione, nonché modalità di cooperazione internazionale penale. L’attuazione della convenzione è demandata al Comitato di follow-up3 dove ciascuna Parte può essere rappresentata da uno o più delegati, compresi rappresentanti delle autorità pubbliche responsabili dello sport, dell’applicazione della legge o della regolamentazione delle scommesse.

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Il preambolo della Convenzione fa un richiamo alla CEDU finalizzato a garantire una interpretazione conforme a essa in sede attuativa. 3 All’interno del Comitato di follow-up L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e gli altri pertinenti comitati intergovernativi del Consiglio d’Europa nominano un rappresentate ciascuno. Il Comitato di follow-up della Convenzione può, se del caso, invitare con decisione unanime qualsiasi Stato che non sia parte della Convenzione e qualsiasi organizzazione o organo internazionale ad essere rappresentati da un osservatore alle riunioni senza diritto di voto.

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Osservatorio

europeo

Eurojust: l’evoluzione del sistema europeo antiterrorismo Marco Petillo e Rubinia Proli “Eurojust has played a key role in guaranteeing the security of Europeans. The vote in the Parliament allows Eurojust to pursue its mission in the fight against cross-border crime and terrorism. With a strengthened agency, the security of European citizens will be improved”. Con queste parole, il commissario europeo per la giustizia, Věra Jourová, si è espressa in occasione dell’adozione del regolamento 2018/1727. Ripercorrendo le tappe evolutive dell’Eurojust occorre preliminarmente citare il Consiglio Europeo di Tempere 1999 che, come è noto, ha posto al centro dell’attenzione l’esigenza di “rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità’ organizzata”. L’idea di una forma strutturata di coordinamento giudiziario sovranazionale - il cui nodo cruciale è principalmente rappresentato dal tema del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie- ha assunto, con la Conclusione n. 46 del Consiglio, un ruolo significativo. Gli eventi dell’11 settembre 2001, collocandosi in tale contesto storico, hanno riverberato i propri effetti anche sul contesto politico europeo; l’Unione Europea ha dovuto infatti prendere atto dell’inadeguatezza ed insufficienza dei mezzi per il contrasto al crimine transnazionale e dei meccanismi di cooperazione giudiziaria all’epoca vigenti. L’impulso “torri gemelle” ha pertanto accelerato i negoziati tra Stati membri in ordine all’adozione di strumenti adeguati alla lotta al terrorismo e portato infine all’adozione, l’anno successivo, della decisione 2002/187/ GAI istitutiva dell’Eurojust. L’istituzione dell’organismo ha completato l’opera di consolidamento, ad un livello strutturale, organizzativo ed operativo, della cooperazione intergovernativa, sorta in seno al Consiglio di Tempere. In tale contesto si inserisce nel 2009 il Trattato di Lisbona che ha, in primo luogo, riformato e innovato la struttura europea, abrogando i tre pilastri istituiti con il Trattato di Maastricht nel 1992, ed ha, nondimeno, fatto della cooperazione fra Stati, e nello specifico, della cooperazione giudiziaria penale un primario obiettivo dell’Unione Europea. L’art. 85 TFUE ha definito, infatti, il quadro giuridico dell’Eurojust, attribuendole il compito di potenziare la cooperazione giudiziaria con Europol1 ed esaltandone il ruolo di coordinatore sovranazionale. Le ha, inoltre, conferito il potere di avviare indagini nonché prevenire e risolvere conflitti di giurisdizione, trasformandola da “mero mediatore sovranazionale a soggetto dai più netti profili operativi, con incisive e vincolanti prerogative giudiziarie”. Parallelamente, è stata avviata una vasta riforma sulla “prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali” talché il Consiglio Europeo ha adottato, nel mese di dicembre, la decisione 2009/426/GAI. Rileva, a tal proposito,

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Regolamento UE 2016/794 del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto


Osservatorio europeo

evidenziare che la norma, sebbene priva del requisito dell’efficacia diretta, avrebbe dovuto assumere un sicuro valore orientativo relativamente alla natura, obiettivi e funzionamento dell’organismo.2 Tuttavia, l’impatto della decisione 426 è rimasto assai limitato a causa dei ritardi nelle trasposizioni negli ordinamenti interni nonché dei disallineamenti sorti a livello nazionale. Al contempo, però, il Trattato di Lisbona ha offerto una solida base giuridica per potenziare e rafforzare l’Eurojust ed in tal senso, la Commissione europea ha colto l’input presentando, il 17 luglio 2013 – nell’ambito di una strategia legislativa unitaria altresì comprendente la creazione della Procura Europea3 e l’assetto giuridico inerente la lotta contro le frodi lesive degli interessi finanziari europei4 – la proposta di regolamento5 per la riconfigurazione dell’organismo alla luce dell’art. 85 TFUE, sulla cui base si formerà il nuovo Regolamento 2018 /1727, riformatore dell’Eurojust. Il frastagliato quadro giuridico all’interno del quale si inserisce il nuovo regolamento ha costituito la principale motivazione del ritardo nell’adozione dello stesso. È difatti, d’uopo ricordare, che, oltre al Regolamento EPPO6, che vede all’interno dei soggetti con cui dovrà relazionarsi la nuova Procura europea proprio l’Eurojust, nel panorama normativo europeo si rinviene la presenza sia del Regolamento UE 2016/794 del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto7 (Europol) che del Regolamento UE 2016/679 avente ad oggetto la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali8. Dall’analisi normativa del recente Regolamento emerge come quest’ultimo, perdendo l’occasione di recepire tutte le possibilità aperte dall’art. 85 TFUE, si sia per lo più limitato a fornire maggiore efficacia, attraverso l’uso del Regolamento, ai contenuti già inaugurati dalla decisione del Consiglio.

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In merito si è pronunciata la Corte Costituzionale (n. 227 del 21 giugno – 24 giugno 2010). Il Giudice delle leggi – chiamato a pronunciarsi su un’eccezione di costituzionalità riguardante la violazione, tra l’altro, dell’art. 117, co.1, da parte dell’art. 18, lett. r), della l. 22 aprile 2005, n. 69, recante l’attuazione nel nostro ordinamento della decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo - ha affermato che “gli atti nazionali che danno attuazione ad una decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in particolare nell’ex terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale, non sono sottratti alla “verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato FUE, che integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio” 3 La procura europea sarà istituita con il Regolamento UE 1939/2017 “EPPO” facendo ricorso alla procedura di cooperazione rafforzata ai sensi dell’art. 86 TFUE, atteso il non raggiungimento dell’unanimità in seno al Consiglio. 4 Direttiva UE 1371/2017 “PIF”. 5 Si veda la proposta COM(2013) 535 del 17-7-2013 della Commissione europea di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust). 6 Si veda nota n. 2. 7 Il Regolamento si pone in linea di continuità sostituendo ed abrogando le precedenti decisioni del Consiglio 2009/371/GAI, 2009/934/GAI, 2009/935/GAI, 2009/936/GAI e 2009/968/GAI. 8 Il Regolamento de quo ha abrogato la Direttiva UE 2016/680 riguardante anche la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali nonché alla libera circolazione di tali dati.

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Eurojust: l’evoluzione del sistema europeo antiterrorismo

Analizzando il corpus del nuovo Regolamento infatti si rinviene come le novità introdotte si arrestino a norme di funzionamento dell’organo senza effettivamente penetrare nel previgente assetto giuridico. Oltre alla, già da tempo auspicata, possibilità – prevista dall’art. 2 par. 3 – per l’Eurojust di prendere ex se l’iniziativa senza dover attendere l’attivazione da parte delle autorità nazionali e l’assunzione da parte dell’organo della veste di “Agenzia” dell’Unione Europea, rispetto alla precedente qualifica di unità di cooperazione giudiziaria9, la competenza ratione materiae resta infatti circoscritta, secondo l’Allegato 1 del Regolamento, alla lista dei 30 reati10 già demandati all’Agenzia di Polizia. Appare inoltre opportuno sottolineare che, nel momento in cui la Procura Europea assumerà i propri compiti di indagine e di esercizio dell’azione penale, i reati di competenza di tale organo saranno sottratti dalla competenza dell’Eurojust ad eccezione di quelli rispetto ai quali l’EPPO riterrà di non esercitare la propria competenza ovvero quelli che vedranno coinvolti Stati membri non partecipanti alla cooperazione rafforzata che sarà pertanto interessata dall’azione dell’Eurojust. Le funzioni “operative” dell’Eurojust. Al di là del ridondante aggettivo – “operative”- utilizzato dal legislatore europeo, l’area oggettiva di azione dell’Agenzia non sembra potersi definire propriamente riformatrice rispetto all’assetto previsto dalla precedente Decisione. Le attività continuano ad arrestarsi al rango di condotte “prodromiche” ad un esercizio realmente “attivo” dell’azione penale, condensandosi in cooperazione, assistenza, informazione e richiesta alle autorità nazionali di compiti effettivamente operativi. Dal punto di vista strutturale, l’Agenzia è composta di un collegio a cui sono demandati compiti di gestione, operativa e strategica, e di un comitato esecutivo- composto dal presidente e dai vice-presidenti di Eurojust, da un rappresentante della Commissione, dal direttore amministrativo, privo tuttavia del diritto di voto, e da due membri del collegio- deputato alle decisioni amministrative in tema di organizzazione e funzionamento dell’organo. Il Regolamento, oltre ad aver predisposto il coordinamento dell’Agenzia in tema di trattamento dei dati personali con il regime ordinario degli organi europei, affidandone il controllo al Garante europeo della protezione dei dati personali (EDP) anche in seno a tale organo, si occupa di prevedere, attraverso i nuovi articoli 9 bis e 9 septies, i poteri dei membri nazionali. A ben vedere, è su tale terreno che il nuovo Regolamento dispiega la sua vera forza innovatrice andando a completare significativamente il precedente assetto delineato dall’inattuata Decisione del Consiglio. Il percorso di allineamento dei membri dell’Agenzia con le magistrature ordinarie nazionali era infatti già stato intrapreso dalla Decisione del 2008, in virtù della quale, veniva disposto nei confronti degli Stati l’obbligo di fornire ai propri membri i poteri essenziali dall’art. 9 ter. Tuttavia, il disposto dell’articolo in questione si limitava a fissare poteri di ricezione, trasmissione ed implementazione delle informazioni sull’esecuzione di richieste di cooperazione giudiziaria, venendo fatta salva la facoltà degli Stati membri di definire la natura e la perimetrazione dei poteri cui dotare il proprio membro.

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Analogamente a ciò che è avvenuto per l’Europol, attraverso il Regolamento 2016/794. La lista dei reati costituenti i cd. “Eurocrimes” fu inserita nella decisione quadro 2002/584/GAI vertente sul mandato di arresto europeo. 10

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Osservatorio europeo

Il nuovo Regolamento, seguendo il fil rouge tracciato dai precedenti interventi, chiude finalmente il cerchio prevedendo che i membri dell’Eurojust possano beneficiare dei poteri necessari all’adempimento delle finalità dell’Agenzia. Tenuto conto che gli Stati membri avranno la facoltà, previa comunicazione all’Agenzia, di fornire ai propri membri poteri ulteriori conformemente all’ordinamento interno, l’art. 7 del Regolamento obbliga il conferimento dei poteri contenuti nel successivo art. 8. È evidente come il nuovo Regolamento, recidendo finalmente il cordone con le competenze previste per i singoli a livello nazionale, si preoccupi di stabilire direttamente i poteri di cui devono essere dotati tutti i membri nazionali. Secondo il dettato del già citato art. 7 agli Stati membri è fatto obbligo di fornire ai propri membri i poteri previsti dal Regolamento tra cui si annoverano principalmente: l’accesso alle informazioni contenute nei registri pubblici, l’emissione ed esecuzione delle richieste di assistenza giudiziaria, la richiesta e l’esecuzione dell’ordine di indagine penale11 secondo la direttiva 2014/41/UE, il reciproco scambio di informazioni sia con le squadre investigative nazionali che con le autorità sovranazionali come l’EPPO. È dato considerare come una siffatta implementazione affidata ad una fonte “self- executing” come quella regolamentare possa virtuosamente dispiegare i propri effetti nei confronti dei paesi- come, in primis l’Italia- che in passato hanno colposamente ritardato l’adattamento della propria normativa nazionale. Di recente, con esattezza il 1° settembre del 2019, l’Eurojust si è dotata, grazie al sostegno della Commissione Europea, di un efficace strumento “operativo”: il registro giudiziario antiterrorismo (Counter-Terrorism Register, CTR). Gli attacchi di cui l’Europa è stata protagonista negli ultimi anni hanno segnalato la necessità di rafforzare la risposta giudiziaria europea agli atti terroristici. La nascita del CTR muove infatti da questa esigenza e si è sviluppata al fine di divenire un rapido, efficiente ed uniforme strumento a disposizione di tutti i paesi dell’UE. “Per evitare angoli ciechi” e contrastare la minaccia terroristica occorre “avere una completa panoramica dei procedimenti giudiziari in corso negli Stati membri” ha affermato Frédéric Baab, promotore del registro. L’agenzia, gestendo in maniera accentrata il registro, sarà in grado di fornire un sostegno alle autorità nazionali e di coordinarsi, di concerto con i pubblici ministeri, per identificare reti e sospettati di potenziali crimini transfrontalieri. Il Commissario per l’Unione della sicurezza Julian King ha dichiarato, in occasione dell’inaugurazione del CTR: “Il nuovo registro giudiziario antiterrorismo aiuterà a stabilire proattivamente i nessi tra i casi per garantire che criminali e terroristi non restino impuniti. Questo nuovo strumento è un altro mattone dell’Unione della sicurezza.” Sebbene il nuovo strumento del registro giudiziario antiterrorismo rappresenti, senza dubbio, un ulteriore tassello per costruire una struttura volta, anche in ottica preventiva, alla garanzia della sicurezza europea, il nuovo Regolamento 2018 presta il fianco ad alcune critiche in ordine alla eccessiva timidezza con cui si instaura nel panorama normativo europeo. Il recente regolamento si è limitato per lo più a dotare del più pervicace strumento regolamentare l’asset-

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Il Regolamento prevede un’espressa deroga al conferimento del potere di eseguire richieste di assistenza giudiziaria nel caso in cui ciò si ponga in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento penale e con le norme delle Costituzioni nazionali, limitandosi, in tal caso, in una semplice richiesta alle autorità nazionali.

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Eurojust: l’evoluzione del sistema europeo antiterrorismo

to delineato dalla Commissione nel lontano luglio 2003, a cui aveva fatto seguito l’assordante silenzio degli organi legislativi europei. Le potenzialità offerte dal disposto dell’articolo 85 del TFUE, che avrebbero permesso all’Eurojust di avere a disposizione gli strumenti per avviare un’efficace azione penale dalla fase delle indagini assurgendo a vero e proprio organo attivo nella repressione del crimine transnazionale, non sono ancora state completamente attuate. Giova ulteriormente rilevare che tale organo potrebbe altresì dispiegare la propria efficacia fornendo finalmente risposta alle esigenze uniformemente avvertite in ordine al coordinamento operativo, che si rende sempre più necessario in materia di terrorismo e di cui il registro giudiziario ne rappresenta un primo incoraggiante segnale. Appare in altri termini sempre più impellente la necessità di predisporre, a livello europeo, una risposta ancor più efficace e di impatto ai fenomeni terroristici e di criminalità transazionale, di cui siamo stati e siamo spettatori, dando ad un organo competenze tali da agire su tutto il territorio europeo coordinando e cooperando con le autorità nazionali deputate allo svolgimento dei compiti maggiormente collegati al territorio.

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Osservatorio

nazionale

Codice antimafia. Tra misure di prevenzione e procedure concorsuali Elena Valguarnera A seguito dell’espansione della criminalità organizzata nei mercati economici, nel tempo, si sono resi necessari vari interventi del legislatore in tema di misure di prevenzione, prevedendo un affinamento dell’aspetto sanzionatorio mediante la creazione di “nuovi strumenti” finalizzati alla privazione - in capo ai soggetti criminali - dei vantaggi economici che tale attività criminosa genera. La creazione di nuovi strumenti ablativi ha, pertanto, avuto un impatto che può definirsi rivoluzionario nella lotta alla criminalità. In tale sede è opportuno evidenziare come, se da un lato il codice penale del 1930 si limitava a prevedere all’art. 240 unicamente la confisca quale misura di sicurezza patrimoniale dei beni direttamente collegati al reato, dall’altro con la legge n. 646/1982 sono stati introdotti nel nostro ordinamento il sequestro e la confisca - di prevenzione - dei patrimoni d’illecita provenienza nella disponibilità diretta o indiretta delle persone indiziate - e non condannate - di partecipazione ad associazione di tipo mafioso. Il carattere innovativo della confisca di prevenzione consisteva, dunque, non solo nel recidere il tradizionale nesso tra commesso reato e ablazione del bene, ma anche – e soprattutto – nell’assenza del presupposto della condanna del proposto. Un ulteriore ampliamento degli strumenti di contrasto è avvenuto con l’introduzione della confisca per equivalente o di valore, introdotta a partire dal 1996 con la modifica dell’art. 644 c.p., per determinate ipotesi di reato, anche queste progressivamente ampliate nel tempo; nello specifico, la caratteristica di tale sequestro è data dal fatto che il mancato rinvenimento dei beni soggetti a confisca obbligatoria impone l’ablazione di beni (sebbene di legittima provenienza) nella disponibilità – diretta o indiretta – del condannato, per un valore corrispondente. Con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 159/2011 (codice antimafia), il legislatore ha così delineato un confine, benché discusso in dottrina e giurisprudenza, tra i procedimenti di prevenzione (sequestro e/o confisca) e il fallimento, quando entrambe le procedure insistono sui medesimi beni. Il particolare e variegato contesto normativo è stato in parte disciplinato con il D. Lgs. 159/2011, con il quale il legislatore ha voluto mettere ordine alle varie ipotesi di sequestro patrimoniale in materia di misure di prevenzione, prevedendo una disciplina generale che costituisca il paradigma per la corretta gestione anche delle altre forme di sequestro. In dettaglio, il legislatore è passato da una disciplina improntata soprattutto sulla c.d. “prevenzione personale”, ad un disposto normativo che prende sempre più in considerazione la ricchezza accumulata con il reato, attraverso un aumento esponenziale delle misure di prevenzione patrimoniale (e di altre forme di sequestro di stampo penalistico, soprattutto preventivo), finalizzate alla sottrazione ai titolari dell’impresa soggetti ad indagine – attraverso lo spossessamento – delle aziende e dei patrimoni. La disciplina del D. Lgs. 159/2011 dopo alcuni anni di applicazione e numerose critiche soprattutto da parte della dottrina, è stata modificata dal legislatore con la legge del 27 settembre 2017. In un contesto di generale riforma del TU antimafia da parte del legislatore si è proceduto anche alla revisione di uno degli aspetti che maggiormente aveva ricevuto le critiche degli


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interpreti e che aveva ad oggetto i rapporti fra le misure di prevenzione e le procedure concorsuali. La sostanziale prevalenza delle misure di prevenzione patrimoniali ablative del sequestro, e della confisca sul fallimento, è stata introdotta dall’art. 13, legge delega 19/0/2017 n.155, per la riforma delle discipline della crisi d’impresa. Lo scopo è essenzialmente quello di privilegiare l’interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all’interesse meramente privatistico della par condicio creditorum sotteso alla disciplina fallimentare. La finalità pertanto è quella di assicurare effettività alla pretesa ablatoria dello Stato, ponendola al riparo dal rischio che il bene venga rimesso in circolazione o che ritorni nella disponibilità del soggetto attinto dalla misura - per tramite anche di un creditore di comodo. Come già anticipato, nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniale si colloca il delicato problema dei rapporti di tali forma di sequestro e confisca con la procedura fallimentare. Prima dell’emanazione del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione mancava una specifica normativa al riguardo, con la conseguenza che era controversa la disciplina dell’eventuale rapporto tra misure di prevenzione e fallimento e la soluzione era demandata soprattutto alle soluzioni giurisprudenziali ed alla elaborazione dottrinale. La lettura dell’articolo 631 (che disciplina l’ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento intervenga successivamente

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Salva l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento assunta dal debitore o da uno o più creditori, il pubblico ministero, anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, chiede al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a confisca. 2. Nel caso in cui l’imprenditore di cui al comma 1 sia soggetto alla procedura di liquidazione coatta amministrativa con esclusione del fallimento, il pubblico ministero chiede al tribunale competente l’emissione del provvedimento di cui all’articolo 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni. 3. Il pubblico ministero segnala alla Banca d’Italia la sussistenza del procedimento di prevenzione su beni appartenenti ad istituti bancari o creditizi ai fini dell’adozione dei provvedimenti di cui al titolo IV del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385. 4. Quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. La verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai suddetti beni viene svolta dal giudice delegato del tribunale di prevenzione nell’ambito del procedimento di cui agli articoli 52 e seguenti. 5. Nel caso di cui al comma 4, il giudice delegato al fallimento provvede all’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi nelle forme degli articoli 92 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, verificando altresì, anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 52, comma 1, lettere b), c) e d) e comma 3 del presente decreto. 6. Se nella massa attiva del fallimento sono ricompresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro, il tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento con decreto ai sensi dell’articolo 119 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni. 7. In caso di revoca del sequestro o della confisca, il curatore procede all’apprensione dei beni ai sensi del capo IV del titolo II del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni. Il giudice delegato al fallimento procede alla verifica dei crediti e dei diritti in relazione ai beni per i quali è intervenuta la revoca del sequestro o della confisca. Se la revoca interviene dopo la chiusura del fallimento, il tribunale provvede ai sensi dell’articolo 121 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, anche su iniziativa del pubblico ministero, ancorché sia trascorso il termine di cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il curatore subentra nei rapporti processuali in luogo dell’amministratore giudiziario. 8. L’amministratore giudiziario propone le azioni disciplinate dalla sezione III del capo III del titolo II del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, con gli effetti di cui all’articolo 70 del medesimo decreto, ove siano relative ad atti, pagamenti o garanzie concernenti i beni oggetto di sequestro. Gli effetti del sequestro e della confisca si estendono ai beni oggetto dell’atto dichiarato inefficace. 8-bis. L’amministratore giudiziario, ove siano stati sequestrati complessi aziendali e produttivi o partecipazioni societarie

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all’esecuzione del sequestro di prevenzione) e dell’articolo 642 (che prende in considerazione il sequestro di prevenzione che interviene a fallimento già dichiarato) dell’originaria versione D. Lgs. 159/2011 portava, difatti, a ritenere che il legislatore aveva (ed ha) ritenuto prioritaria la tutela dell’interesse pubblico rispetto a quello privatistico prevedendo – in termini generali – la prevalenza della procedura di prevenzione su quella civilistica del fallimento, ed in particolare sancendo la sottrazione del patrimonio sequestrato alla massa attiva fallimentare. Gli articoli in esame, nello specifico, prevedevano e prevedono le due ipotesi della dichiarazione di fallimento dell’impresa, successiva o antecedente all’amministrazione giudiziaria, che in modo concomitante risulta sottoposta a sequestro ed è in stato di insolvenza. La fattispecie è disciplinata dall’art. 63 D.Lgs. n. 159 del 2011, rubricato “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro” e prende in considerazione due istituti tipici del diritto fallimentare: l’iniziativa della dichiarazione di fallimento da parte del P.M (art. 63 comma 1 D. Lgs. 159/2011) e la disciplina della revocatoria (art. 63 comma 8 e 64 comma 9 D. Lgs. 159/2011). Tali due fattispecie non hanno subito modifiche, a seguito delle modifiche attuate dalla legge di riforma.

di maggioranza, prima che intervenga la confisca definitiva, può, previa autorizzazione del tribunale ai sensi dell’articolo 41, presentare al tribunale fallimentare competente ai sensi dell’articolo 9 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, in quanto compatibile, domanda per l’ammissione al concordato preventivo, di cui agli articoli 160 e seguenti del citato regio decreto n. 267 del 1942, nonché accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto n. 267 del 1942, o predisporre un piano attestato ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto n. 267 del 1942. Ove finalizzato a garantire la salvaguardia dell’unità produttiva e il mantenimento dei livelli occupazionali, il piano di ristrutturazione può prevedere l’alienazione dei beni sequestrati anche fuori dei casi di cui all’articolo48. 2 1. Ove sui beni compresi nel fallimento ai sensi dell’articolo 42 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 sia disposto sequestro, il giudice delegato al fallimento, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, dispone con decreto non reclamabile la separazione di tali beni dalla massa attiva del fallimento e la loro consegna all’amministratore giudiziario. 2. Salvo quanto previsto dal comma 7, i crediti e i diritti inerenti ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, ancorché già verificati dal giudice del fallimento, sono ulteriormente verificati dal giudice delegato del tribunale di prevenzione ai sensi degli articoli 52 e seguenti. 3. [Alla stessa verifica sono soggetti i crediti ed i diritti insinuati nel fallimento dopo il deposito della richiesta di applicazione di una misura di prevenzione.] 4. Se sono pendenti, con riferimento ai crediti e ai diritti inerenti ai rapporti relativi per cui interviene il sequestro, i giudizi di impugnazione di cui all’articolo 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, il tribunale fallimentare sospende il giudizio sino all’esito del procedimento di prevenzione. Le parti interessate, in caso di revoca del sequestro, dovranno riassumere il giudizio. 5. [Alle ripartizioni dell’attivo fallimentare concorrono, secondo la disciplina del capo VII del titolo II del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, i soli creditori ammessi al passivo fallimentare ai sensi delle disposizioni che precedono.] 6. I crediti di cui al comma 2, verificati ai sensi degli articoli 53 e seguenti dal giudice delegato del tribunale di prevenzione, sono soddisfatti sui beni oggetto di confisca secondo il piano di pagamento di cui all’articolo 61. 7. Se il sequestro o la confisca di prevenzione hanno per oggetto l’intera massa attiva fallimentare ovvero, nel caso di società di persone, l’intero patrimonio personale dei soci illimitatamente responsabili, il tribunale, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, dichiara la chiusura del fallimento con decreto ai sensi dell’articolo 119 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni. 8. Se il sequestro o la confisca intervengono dopo la chiusura del fallimento, essi si eseguono su quanto eventualmente residua dalla liquidazione.9. Si applica l’articolo 63 comma 8, ed ove le azioni siano state proposte dal curatore, l’amministratore lo sostituisce nei processi in corso. 10. Se il sequestro o la confisca sono revocati prima della chiusura del fallimento, i beni sono nuovamente ricompresi nella massa attiva. L’amministratore giudiziario provvede alla consegna degli stessi al curatore, il quale prosegue i giudizi di cui al comma 9. 11. Se il sequestro o la confisca sono revocati dopo la chiusura del fallimento, si provvede ai sensi dell’articolo 63, comma 7.

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Analizzando più nello specifico i due articoli, con riferimento al primo di tali istituti, la norma individua al primo comma il soggetto che potrà essere legittimato a chiedere il fallimento della società oggetto di sequestro, prevedendo che: “Salva l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento assunta dal debitore o da uno o più creditori, il pubblico ministero, anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti, chiede al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore i cui beni aziendali siano sottoposti a sequestro o a confisca”. Appare di tutta evidenza come il legislatore abbia previsto che l’imprenditore già colpito dal sequestro possa essere assoggettato al fallimento. In ordine ai soggetti legittimati a chiedere il fallimento dell’imprenditore sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale, l’articolo 63 prevede che oltre al debitore e ai creditori, il pubblico ministero (anche su segnalazione dell’amministratore giudiziario che ne rilevi i presupposti) può chiedere al tribunale competente che venga dichiarato il fallimento (o la dichiarazione di insolvenza ex art. 195 L.F. in caso di impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa cfr. art. 63 comma 2 D. Lgs. 159/2011) dell’imprenditore. Ed ancora, di notevole rilievo applicativo appare la previsione – nell’ambito dell’art. 63 TU antimafia – del comma 8 bis, il quale prevede la possibilità per l’amministratore giudiziario, nel caso in cui siano stati sequestrati complessi aziendali o produttivi o partecipazioni azionarie di maggioranza, prima della definitiva confisca, di presentare domanda di concordato preventivo, accordi di ristrutturazione o di piano attestato, con la contestuale alienazione di beni sequestrati quando tale cessione si inserisca nell’ambito di un piano di ristrutturazione aziendale finalizzato a mantenere i livelli di occupazione e di salvaguardia dell’unità produttiva. D’altro canto, anche l’art. 64 comma 1 D. Lgs. 159/2011 prevede – in osservanza al principio generale della prevalenza degli effetti della misura di prevenzione patrimoniale sul fallimento – che in caso di coincidenza dei beni sequestrati con quelli facenti parte dell’attivo fallimentare, il giudice delegato fallimentare, sentito il curatore ed il comitato dei creditori, disponga con decreto la separazione dalla massa attiva del fallimento dei beni sequestrati e la loro consegna all’amministratore giudiziario. Del resto, come osservato in dottrina, si tratta di un provvedimento che rappresenta l’esatto contrario del decreto di acquisizione ex art 25 L.F. e che è espressamente dichiarato non reclamabile: si è correttamente evidenziato come si tratta di problemi di tutela dei creditori di fronte ad un’erronea separazione di beni che, invece, non sarebbero dovuti uscire dalla massa fallimentare, residuando, tuttavia, la possibilità di sollecitare comunque il giudice delegato a revocare o rettificare la sua decisione. La nuova versione dell’art. 64 comma 2 citato prevede espressamente la competenza del giudice delegato dal Tribunale di Prevenzione per la verifica dei crediti ai sensi dell’art. 52 “ancorchè già verificati dal giudice delegato del fallimento”. Appare dunque evidente che, nel caso in cui la verifica dei crediti da parte del Giudice delegato civile sia già stata iniziata o terminata, tale attività dovrà nuovamente iniziare da parte del giudice delegato del Tribunale di prevenzione, dovendo tenere conto dei criteri del citato art. 52 D. Lgs. 159/2011. Peraltro, l’art. 52 D. Lgs. 159/2011, che fornisce utili parametri di valutazione della condotta del creditore, stabilendo che “nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi”. Per la giurisprudenza la buona fede sarà integrata da un “affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rende scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza” e quindi come “assenza di condizioni che rendano profilabile …… un qualsivoglia addebito di negligenza” (Cass. pen. Sez. I, 13 giugno 2001, n. 34019). La buona fede - peraltro - non

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può ritenersi sussistente quando l’ignoranza del nesso di strumentalità tra il credito e l’attività illecita sia dovuta a colpa. Ed infine, altro aspetto di centrale importanza nel rapporto tra legislazione antimafia e legge fallimentare, risiede nell’articolo 65 del Codice Antimafia. Quest’ultimo esamina il rapporto tra le misure di prevenzione patrimoniale ablative del controllo giudiziario delle aziende e dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende con il fallimento; specificamente, le misure di prevenzione patrimoniali dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziale presentano dei profili di atipicità rispetto alle altre misure di prevenzione patrimoniali tradizionali ablative, avuto riguardo alle condizioni soggettive e oggettive correlate al bene al momento della riposta o dell’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale: sequestro e confisca nel caso in cui i beni risultano nella disponibilità diretta o indiretta di un soggetto nei cui confronti del quale è stata presentata la proposta di prevenzione e che in esito agli accertamenti patrimoniali, sia risultato essere privo di una adeguata capacità reddituale sufficiente a dimostrare la legittimità del legame patrimoniale con detti beni; amministrazione giudiziaria o controllo giudiziario, vengono in gioco allorquando ricorrano sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche risulti inquinato da logiche o metodologie criminali occasionali o meno. Gli elementi di differenza, tra la misura dell’amministrazione giudiziaria e quella del controllo giudiziario risiedono nell’occasionalità dell’agevolazione prestata dagli enti imprenditoriali a taluno dei soggetti destinatari della proposta di prevenzione o di coloro ne cui confronti sia stata già applicata una delle suddette misure oppure ancora di soggetti sottoposti a procedimento penale per specifiche fattispecie delittuose nonché nello spossessamento delle facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende. È possibile quindi concludere che il rapporto tra i provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri, misure di prevenzione, confisca) ed i processi esecutivi individuali/concorsuali, risponde principalmente ad esigenze di tutela dei terzi. La norma in esame stabilisce i requisiti per sottoporre i beni a sequestro di prevenzione, affinché il frutto di attività illecite ne costituisca il reimpiego.

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L’irto cammino delle competenze ancillari di Eppo: uno sguardo d’insieme di Francesca Rodella Il 12 ottobre 2017, il Consiglio dei Ministri della giustizia dell’Unione ha adottato, attraverso una procedura di cooperazione rafforzata con la partecipazione di 20 Stati membri, il regolamento sull’istituzione di una Procura europea (EPPO) che avrà competenza ad indagare e perseguire, dinanzi alle singole giurisdizioni nazionali, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Tale competenza ratione materiae comprenderà i reati rientranti nel campo di applicazione della direttiva PIF, nonché qualsiasi altro reato “indissolubilmente legato” ad un reato PIF, ma solamente a determinate condizioni. Questo paper si propone l’arduo compito di ripercorrere l’iter che ha condotto alla attuale formulazione delle competenze ancillari, dalla loro iniziale concezione sino alle più recenti tappe di negoziato, attraverso una mutazione genetica che ne ha ridisegnato la latitudine applicativa.

Sommario: 1. Premessa: il punto di partenza. – 2. La storia dei negoziati. – 2.1 La proposta della Commissione. – 2.2 Il testo riveduto e la riunione del 5/6 maggio 2015. – 2.3 Il parere Servizio giuridico del 13 maggio 2015. – 2.4 Il testo del dicembre 2016. – 2.5 Il parere del Servizio giuridico dell’11 gennaio 2017. – 2.6 La Presidenza maltese e la necessaria cooperazione rafforzata. – 2.7 La sessione tecnica ristretta di Roma. – 3. Il quadro attuale. – 4. Conclusioni

1. Premessa: il punto di partenza. Il 17 luglio 2013, la Commissione Europea ha presentato la proposta di Regolamento1 avente ad oggetto l’istituzione di un Ufficio del Pubblico Ministero Europeo (European Public Prosecutor’s Office, di seguito “EPPO”) ritenendo necessario modificare il panorama normativo in tema di protezione degli interessi finanziari dell’Unione, nell’ambito della costruzione di uno Spazio europeo di Libertà, Sicurezza e Giustizia e fondata sull’articolo 86 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea2 (“TFUE”). In tale testo, la competenza della Procura europea veniva disegnata come una proiezione della direttiva relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione (di seguito la “Direttiva PIF”)3, all’epoca non ancora adottata.

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Doc. 12558/13 COM. In GUUE n. C 326 del 26/10/201. Direttiva n. 1371/2017, in GUUE L 198, 28.7.2017, 29.


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In relazione alla definizione dei reati PIF4, ossia i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione quali frode, corruzione, riciclaggio et cetera, occorre preliminarmente rilevare che l’art. 2 al § 2 della direttiva contiene un’importante clausola di limitazione della sua portata, definendola applicabile “unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA”. Quanto al concetto di “gravità”, esso si aggancia al carattere transfrontaliero delle condotte illecite (“connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione”) e all’elevato ammontare del pregiudizio per l’interesse finanziario UE (“danno complessivo pari ad almeno 10 000 000 EUR”). A parte tali limitazioni, tuttavia, la Direttiva PIF detta soltanto norme ‘minime’ e lascia intatta in capo agli Stati membri la “facoltà di mantenere in vigore o adottare norme più rigorose per reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”. Dunque, la competenza materiale dell’EPPO veniva definita all’articolo 125 del testo della proposta della Commissione con riferimento alla Direttiva PIF di futura adozione, lasciando spazio a sue eventuali successive modifiche attuate dal diritto nazionale in sede di trasposizione. Tanto premesso, occorrerà ora spostare l’attenzione sull’oggetto di tale analisi: i reati accessori. Essi possono essere definiti come quei reati “indissolubilmente collegati” ai reati che riguardino gli interessi finanziari dell’Unione, come quelli strettamente finalizzati ad assicurarsi il mezzo materiale o legale per commettere un reato rientrante nell’alveo della Direttiva PIF, o per assicurarsi il prodotto o il profitto dello stesso (considerando 22 della Proposta6). Si noti che garantire la competenza all’EPPO per i reati ancillari è uno snodo problematico, poiché lo si autorizza ad investigare e perseguire reati che non sono ricompresi nell’area applicativa dei reati PIF. Nei paragrafi che seguono, si ripercorreranno pedissequamente le tappe dei negoziati in cui si è affrontato tale tema, dalla proposta della Commissione fino ad arrivare all’approvazione del Regolamento, nel tentativo di comprenderne le evoluzioni e le ripercussioni applicative7.

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Per un’analisi di tale direttiva, si rimanda a E. Basile, Brevi note sulla nuova Direttiva PIF, Diritto Penale Contemporaneo, 12/2017. 5 Il testo della proposta così recitava: “Articolo 12 - Reati di competenza della Procura europea - La Procura europea è competente per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, di cui alla direttiva 2013/xx/UE quale attuata dal diritto nazionale.” 6 Il testo della proposta così recitava: “(22) I reati contro gli interessi finanziari dell’Unione sono spesso strettamente connessi ad altri reati. Per garantire l’efficienza procedurale ed evitare eventuali violazioni del principio del ne bis in idem, occorre che la Procura europea sia competente anche per quei reati che a livello nazionale non si qualificano tecnicamente come reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione ma i cui fatti costitutivi sono identici e indissolubilmente collegati a quelli dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. In tali casi “misti”, qualora prevalga il reato che lede gli interessi finanziari dell’Unione, spetterebbe alla Procura europea esercitare la propria competenza previa consultazione delle autorità competenti dello Stato membro interessato. La prevalenza dovrebbe essere funzione di criteri quali l’incidenza finanziaria del reato sul bilancio dell’Unione e sui bilanci nazionali, il numero delle vittime o altre circostanze legate alla gravità del reato, oppure le sanzioni applicabili.” 7 Per una compiuta e dettagliata analisi dell’intero Regolamento approvato, si caldeggia la lettura di L. Salazar, Habemus EPPO!
 La lunga marcia della Procura europea - Cultura penale e spirito europeo – Archivio penale n. 3/2017.

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2. La storia dei negoziati. 2.1. La proposta della Commissione8. Il testo della Proposta distingueva tra due categorie di reati, la prima (al già menzionato articolo 12) di competenza generale ed automatica della Procura europea e la seconda (articolo 139) di competenza della Procura europea in presenza di determinati collegamenti con reati della prima categoria, con relativa descrizione delle modalità di esercizio. Secondo tale primigenia formulazione, qualora i reati disciplinati dalla Direttiva PIF fossero indissolubilmente collegati ad altri reati e fosse nell’interesse della buona amministrazione della giustizia svolgere le indagini e le azioni penali congiuntamente, la Procura europea sarebbe stata competente anche per questi altri reati, a condizione che i reati PIF fossero prevalenti sui reati connessi, e che si basassero su fatti identici. Quanto alla determinazione della prevalenza, il già citato considerando 2210 ne attagliava la determinazione a criteri quali l’incidenza finanziaria del reato sul bilancio dell’Unione e sui bilanci nazionali, il numero delle vittime, la gravità del reato, o le sanzioni applicabili. Ove tali condizioni non fossero state soddisfatte, vale a dire se i reati PIF non fossero stati considerabili prevalenti rispetto ai reati connessi, lo Stato membro competente per questi ultimi sarebbe stato competente anche per i reati PIF. La competenza così tracciata sarebbe stata attribuita in seguito a consultazioni fra EPPO e le procure nazionali, con eventuale ausilio di Eurojust a norma dell’articolo 5711, mentre eventuali

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Per il testo ufficiale https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52013PC0534 Articolo 13 Competenza accessoria 1. Qualora i reati di cui all’articolo 12 siano indissolubilmente collegati ad altri reati e sia nell’interesse della buona amministrazione della giustizia svolgere le indagini e le azioni penali congiuntamente, la Procura europea è competente anche per questi altri reati, a condizione che i reati di cui all’articolo 12 siano prevalenti e gli altri reati si basino su fatti identici. Se tali condizioni non sono soddisfatte, lo Stato membro competente per gli altri reati è competente anche per i reati di cui all’articolo 12. 2. La Procura europea e le procure nazionali si consultano per determinare l’autorità competente ai sensi del paragrafo 1. Ove opportuno per agevolare la determinazione della competenza, Eurojust può essere associato a norma dell’articolo 57. 3. In caso di disaccordo tra la Procura europea e le procure nazionali quanto alla competenza di cui al paragrafo 1, l’autorità giudiziaria nazionale competente a decidere sull’attribuzione della competenza per l’esercizio dell’azione penale a livello nazionale decide la competenza accessoria. 4. La determinazione della competenza a norma del presente articolo non è soggetta a riesame 10 Vd nota n. 6 11 Articolo 57 - Relazioni con Eurojust: 1. La Procura europea instaura e mantiene relazioni privilegiate con Eurojust, basate su una stretta cooperazione e sullo sviluppo di reciproci legami operativi, amministrativi e di gestione come specificato in appresso. […] c) chiedendo a Eurojust di agevolare l’accordo tra la Procura europea e lo Stato o gli Stati membri interessati in materia di competenza accessoria a norma dell’articolo 13, fatta salva l’eventuale decisione dell’autorità giudiziaria dello Stato membro interessato, competente a decidere al riguardo; 9

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controversie tra la Procura europea e le procure nazionali sarebbero state risolte dall’autorità giudiziaria nazionale, senza possibilità di riesame.12 La prerogativa della competenza accessoria così tracciata veniva appoggiata anche dal Parlamento Europeo, il quale ha adottato un primo interim report sulla Proposta nel febbraio 2014, ed un secondo interim report nella plenaria del 29 aprile 201513, nei quali favoriva la creazione di una Procura europea forte ed indipendente, con l’estensione delle sue competenze anche ai reati connessi ai reati PIF.

2.2. Il testo riveduto e la riunione del 5/6 maggio 2015. La Presidenza lettone del Consiglio dell’Unione europea14, nel marzo 2015 proponeva un testo riveduto dell’articolo 13 della mentovata proposta15, dal quale emergeva il dubbio, sollevato da alcune delegazioni, circa la conformità o meno delle competenze ancillari con l’art. 86 TFUE16. Rimanevano comunque fermi i concetti di competenza ancillare in caso di fatti identici e di legame indissolubile con i reati PIF, che dovevano rimanere preponderanti. Quello che veniva ad accostarsi a tale quadro era il concetto di strumentalità dei reati connessi, nonché il fine di assicurarsi l’impunità, cristallizzata con la frase “account shall be taken as to whether one of the relevant offences has been instrumental in committing the other offence or to whether one offence has been committed with a view to ensuring impunity”. Inoltre, si introduceva il concetto di preponderanza del reato PIF in caso di danno all’Unione eccedente il danno causato dallo stesso al singolo Stato Membro, o in caso di pena superiore rispetto a quella comminabile al reato accessorio. Tale testo riveduto è stato esaminato più volte nelle riunioni del Gruppo “Cooperazione in materia penale” (di seguito COPEN17) e, in particolare, in quella del 5 e 6 maggio 2015. In occasione di tale riunione del Gruppo COPEN, il Servizio giuridico del Consiglio ha presentato il suo parere sulla conformità della disposizione riguardante la competenza accessoria con la base giuridica dell’articolo 86 TFUE.

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Sul punto, interessante l’analisi di L. H. Erkelens, A.W.H. Meij, M. Pawlik, The European Public Prosecutor’s Office: An extended arm or a Two-Headed dragon?, Springer, 18 set 2014. 13 PE546.675v02-00, punto 14. 14 Come noto, la presidenza del Consiglio UE è esercitata a turno dagli Stati membri dell’UE ogni sei mesi. Durante ciascun semestre, essa presiede le riunioni a tutti i livelli nell’ambito del Consiglio, contribuendo a garantire la continuità dei lavori dell’UE in seno al Consiglio. Per un approfondimento, vd https://www.consilium.europa.eu/it/ council-eu/presidency-council-eu/. La Lettonia ha presieduto il Consiglio nel semestre gennaio-giugno 2015. 15 Doc n. 7070/2015 e n. 8316/2015 (art. 18), non tradotti. 16 Nota n. 19 del testo: “Many delegations continue to question whether the legal basis in Article 86 TFEU covers this Article”. 17 Il Consiglio è coadiuvato dal Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri dell’UE (COREPER), organo a sua volta assistito da oltre 150 gruppi e comitati altamente specializzati, noti come “organi preparatori del Consiglio”. Tali organi esaminano le proposte legislative ed effettuano studi e altri lavori preparatori, che costituiscono la base per le decisioni del Consiglio. Uno di questi gruppi è il gruppo COPEN, che si occupa delle attività legislative relative alla cooperazione in materia penale. In particolare, il gruppo di lavoro COPEN-EPPO si è focalizzato precipuamente nei negoziati relativi alla proposta di Regolamento EPPO. Per un approfondimento https://www.consilium.europa.eu/en/council-eu/preparatory-bodies/working-party-cooperation-criminal-matters/, nonché https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_1_6_5_1.wp#PE;

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2.3. Il parere del Servizio giuridico del 13 maggio 201518. Il parere del Servizio giuridico nasceva in risposta ai succitati dubbi, sollevati da alcuni Stati Membri, circa la conformità in toto della disposizione riguardante la competenza accessoria con la base giuridica dell’articolo 8619 TFUE. Tale Parere traeva l’abbrivio dall’articolo 86, paragrafo 2, TFUE, il quale ufficialmente limita la competenza ratione materiae della Procura europea ai reati PIF. Ora, per estendere tale competenza ad altri tipi di reati collegati alla “criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale”, l’articolo 86, paragrafo 4, TFUE prevede una procedura di modifica dei paragrafi 1 e 2 dell’articolo 86 TFUE da parte del Consiglio europeo, che delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo e previa consultazione della Commissione. Dunque, qualsiasi estensione della competenza per materia al di là dei reati PIF per coprire altri reati deve rispettare il principio di attribuzione delle competenze di cui all’articolo 5 del trattato sull’Unione europea (“TUE”) e l’equilibrio istituzionale di cui all’articolo 13 TUE. Alla luce di tale premessa, qualsiasi estensione di tale competenza a reati ancillari riguardanti fatti identici non può essere giustificata esclusivamente da criteri imprecisi e privi di effetto normativo, come l’interesse della buona amministrazione della giustizia (articolo 13 della proposta) o l’efficienza procedurale (considerando 22 della proposta), poiché si verrebbe ad eludere la procedura di cui all’articolo 86, paragrafo 4, TFUE e si violerebbero gli articoli 5 e 13 TUE. Inoltre, a parere del Servizio giuridico, l’applicazione di criteri imprecisi avrebbe comportato una valutazione discrezionale da parte dell’EPPO sulla determinazione della competenza ratione materiae, il che avrebbe trasceso in una violazione del principio della legalità dei reati e delle pene di cui all’articolo 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. A quel punto, ne sarebbe scaturita una violazione del requisito della prevedibilità della determinazione dell’autorità competente ad esercitare l’azione penale, con conseguente applicazione di pene diverse a seconda che le azioni penali riguardassero un reato PIF indissolubilmente collegato ad un reato accessorio, o un singolo reato PIF/reato accessorio, con eventuale applicazione del principio del ne bis in idem. Tuttavia, proseguiva il Servizio giuridico nel suo parere, dei criteri precisi per individuare determinati tipi di reati accessori costituiti da fatti identici o indissolubilmente collegati a reati

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Doc n. 8904/15. L’articolo 86 TFUE, base giuridica della proposta di regolamento, prevede quanto segue: “1. Per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, può istituire una Procura europea a partire da Eurojust. Il Consiglio delibera all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo. (…) 2. La Procura europea è competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in collegamento con Europol, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, quali definiti dal regolamento previsto nel paragrafo 1, e i loro complici. Essa esercita l’azione penale per tali reati dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri. 4. Il Consiglio europeo può adottare, contemporaneamente o successivamente, una decisione che modifica il paragrafo 1 allo scopo di estendere le attribuzioni della Procura europea alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale, e che modifica di conseguenza il paragrafo 2 per quanto riguarda gli autori di reati gravi con ripercussioni in più Stati membri e i loro complici. Il Consiglio europeo delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo e previa consultazione della Commissione” 19

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PIF, avrebbero legittimato un’estensione conforme alla base giuridica dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE. Questo perché, in primis, la direttiva PIF è uno strumento di armonizzazione minima del diritto penale sostanziale destinata ad essere adottata sulla base dell’articolo 83, paragrafo 2, TFUE e ad applicarsi alla maggior parte dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. La competenza ratione materiae della Procura europea si estende in modo generale, secondo un’interpretazione letterale dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE, all’individuazione ed al perseguimento degli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Pertanto, il fatto che i reati accessori oggetto di azioni penali simultanee a quelle relative ai reati PIF non rientrino nel campo di applicazione della direttiva PIF, non implica automaticamente che debbano esulare dal campo di applicazione dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE. Al contrario, tali reati accessori possono rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE. In secundis, l’estensione della competenza per materia della Procura europea può essere giustificata, da un lato, dalla necessità di preservare l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE, dall’altro, dal carattere di strumentalità dei reati accessori rispetto ai reati PIF e con la prevalenza degli stessi. Quanto all’effetto utile, occorre stabilire in che misura l’estensione della competenza ratione materiae sia necessaria per preservare l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE e precisare le condizioni che devono essere soddisfatte. Il Servizio giuridico, a questo punto, applicava il concetto di interpretazione funzionale dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE alla luce dell’obiettivo di cui al paragrafo 1 del medesimo articolo, e si domandava se “combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”, abbia per conseguenza l’estensione della competenza della Procura europea ai casi frequenti di reati connessi e accessori a reati PIF per non privare l’articolo 86 TFUE di ogni effetto utile. A tal uopo, bisogna tenere in considerazione, come la Commissione stessa a segnalato20 che la maggior parte dei reati perseguiti non sono reati PIF in senso stretto ma altri reati, ad esempio la falsificazione di documenti per ottenere fondi provenienti dal bilancio dell’Unione, che sono indissolubilmente collegati a reati PIF. Per meglio comprendere tale legame, basti pensare al fenomeno delle frodi attuate dalle associazioni mafiose in Sicilia, ove negli anni scorsi è stato scoperto un business di terreni demaniali, ottenuti in concessione da amministratori corrotti o impauriti, a trenta euro per ettaro anziché tremila, per ottenere dall’Unione fondi da miliardi di euro per colture biologiche, mai impiantate, a far data dal 2006. Per ottenere tali fondi, venivano sovradimensionate le domande di aiuto all’Unione attraverso false dichiarazioni di particolari coltivazioni in aree geografiche non compatibili, false dichiarazioni di superfici coltivate in misura superiore a quelle reali, false dichiarazioni del numero di piante.21 Proseguiva il Servizio giuridico, affermando che il perseguimento dei due tipi di reati per fatti identici da parte delle due autorità diverse sarebbe inefficace e in molti casi priverebbe di

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COM (2013)851 final, punto 2.6.2) d. Per una compiuta cronaca della vicenda, si segnalano, ex multis, https://www.bbc.com/news/business-40645146, https://www.corriere.it/cronache/19_gennaio_30/i-tre-miliardi-truffati-ue-dalla-mafia-dei-pascoli-in-sicilia-librodenuncia-antoci-ce809d04-24c8-11e9-a99c-48a2f60b960f.shtml, https://www.ilgiornaledelcibo.it/fondi-europei-agricoltura-frodi-agromafia/; 21

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effetto utile il perseguimento da parte della Procura europea, in quanto in caso di esercizio di azioni penali parallele da parte di tali due autorità il principio del ne bis in idem quale previsto all’articolo 50 della Carta e all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, avrebbe la conseguenza di obbligare la Procura europea o la procura nazionale a porre fine all’azione penale una volta intervenuta una pronuncia definitiva per gli stessi fatti riguardanti una delle due categorie di reati. Pertanto, in assenza di una competenza accessoria rigorosamente circoscritta in presenza del principio del ne bis in idem, in molti casi la Procura europea sarebbe di fatto privata della possibilità di perseguire reati PIF per il solo motivo di affiancare reati connessi ed accessori (come, appunto, la falsificazione di documenti per appropriazione indebita di fondi dell’Unione) che sono già stati perseguiti separatamente dalle autorità nazionali e magari sfociati in una pronuncia definitiva. Successivamente, vengono esaminate le condizioni alle quali la competenza accessoria potrebbe essere giustificata alla luce della giurisprudenza: si evidenzia che la Corte europea dei diritti dell’uomo dà rilievo soltanto all’identità dei fatti, tralasciando la loro qualificazione giuridica22, e che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha statuito che “l’unico criterio pertinente ai fini dell’applicazione dell’art. 54 della CAAS23 è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro”24. Alla luce di quanto innanzi detto, il Servizio giuridico concludeva che un’estensione della competenza ratione materiae della Procura europea, limitata a reati costituiti da fatti identici e indissolubilmente collegati a fatti costitutivi di reati PIF, avrebbe consentito, tenuto conto dell’applicazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 50 della Carta e dall’articolo 54 della CAAS, di preservare l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE. Il perseguimento simultaneo di tali reati da parte della Procura europea sarebbe quindi assimilato ad un’azione volta a combattere i reati PIF ai sensi dell’articolo 86 TFUE. L’altra condizione che deve essere soddisfatta affinché l’estensione della competenza per materia sia considerata conforme all’articolo 86, paragrafo 2, TFUE è che i reati PIF abbiano carattere prevalente sui reati connessi ai reati PIF, per ciò detti accessori. Il testo della proposta della Commissione e il testo di compromesso della Presidenza sembravano in linea con tale assunto, che consente di evitare che la Procura europea leda le competenze attribuite alle autorità nazionali e al Consiglio europeo in applicazione dell’articolo 86, paragrafo 4, TFUE, preservando nel contempo l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE. 24. Ciò che occorreva per raggiungere la completa conformità con l’art. 86 era l’introduzione di criteri precisi che consentissero di identificare il carattere prevalente e le componenti accessorie dei reati, proprio al fine di evitare di ledere le competenze del Consiglio europeo. Così, i reati PIF sarebbero stati identificabili come la finalità o la componente prevalente delle attribuzioni della Procura europea, mentre gli altri reati sarebbero stati solo accessori, in quanto strumento attraverso il quale erano commessi i reati PIF.

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Intesi come un insieme di circostanze concrete riguardanti il medesimo autore e inscindibilmente collegate tra loro nel tempo e nello spazio. Sent. n. 14939/03, punto 84 e Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Grande Stevens e altri c. Italia, del 4.3.2014, punto 221 (n. 18640/10). 23 Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen 24 Sentenza della Corte, del 9 settembre 2006, nella causa C-439/04, Van Esbroeck, punto 36.

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L’assenza di criteri nel testo, o il riferimento ad una molteplicità di criteri rimessi alla libera valutazione della Procura europea, oppure un criterio meramente quantitativo di prevalenza in funzione del danno finanziario, non avrebbero soddisfatto l’esigenza di interpretazione dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE alla luce dell’articolo 86, paragrafo 4, TFUE, né l’esigenza di certezza giuridica. Il Servizio giuridico concludeva il parere dichiarando che, a condizione che l’articolo 18 dell’ultimo testo di compromesso della Presidenza venisse circoscritto in modo più rigoroso, in particolare rivedendo il criterio quantitativo di prevalenza previsto al paragrafo 3, lettera a), di tale articolo, quest’ultimo poteva essere considerato compatibile con la base giuridica dell’articolo 86 TFUE. Successivamente, il testo è stato oggetto di esame in sede di Consiglio GAI25 per parti successive, secondo la formula dell’approccio generale parziale26. Dopo aver raggiunto l’approccio generale sui primi 16 articoli del Regolamento e sulle norme relative alla conduzione delle indagini, alla validità delle prove, alla chiusura delle indagini e alle garanzie processuali (articoli 24-33 e 35), nel dicembre 2015 il Consiglio GAI è pervenuto ad un compromesso anche sulle rimanenti sezioni sostanziali del testo, relative alla competenza di EPPO e al suo esercizio, all’apertura e conduzione delle indagini (articoli 17, 19, 20, 22a e 28° - 2a, 2b and 2c - e 18, 22 e 23). Le successive Presidenze (olandese e slovacca27) hanno completato l’esame delle rimanenti parti del Regolamento, di natura eminentemente organizzativa. Il testo integrale del Regolamento EPPO è stato sottoposto per la prima volta ai Ministri al Consiglio GAI del 14 ottobre 201628, importante per l’inserimento delle frodi IVA transfrontaliere più gravi all’interno dell’ambito di applicazione della direttiva PIF, con estensione della competenza della Procura europea anche nei confronti di tale tipo di reati.

2.4. Il testo del dicembre 2016. La Presidenza slovacca ha poi presentato al Consiglio GAI del 2 dicembre 201629 un testo riformulato che alterava profondamente l’assetto delle competenze ancillari precedentemente esposto. Tale versione del testo non corrispondeva né alla versione della proposta della Commissione, né agli emendamenti proposti dal Parlamento europeo.

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Il Consiglio “Giustizia e affari interni” elabora politiche comuni e di cooperazione su vari aspetti transfrontalieri al fine di realizzare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia a livello di UE. Per un approfondimento in merito: https://www.consilium.europa.eu/it/council-eu/configurations/jha/. 26 Per una panoramica del processo decisionale del Consiglio UE, si veda https://www.consilium.europa.eu/en/council-eu/decision-making/. 27 Primo e secondo semestre 2016. 28 Si consiglia la visione dell’intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, con il quale lo stesso le proprie perplessità in relazione all’efficienza del testo in commento. In particolare, il Ministro ribadisce la già espressa necessità di rivedere le norme in materia di competenza, in modo da ribadire il principio della priorità della competenza dell’EPPO rispetto a quella delle procure nazionali, e ridefinendo le competenze ancillari dei reati non PIF. L’intervento si trova al minuto 2:20:00-2:24:00 del video al link https://video.consilium.europa.eu/en/ webcast/6917239d-893d-40ad-b2a2-339306dcb322. 29 Doc n. 15200/16.

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Il testo continuava a concedere la competenza all’EPPO per qualsiasi altro reato inestricabilmente legato a un reato PIF (articolo 17, paragrafo 2). Tuttavia, la condizione basata sull’interesse di una buona amministrazione della giustizia era scomparso e veniva sostituito da nuove condizioni previste dall’art. 20(3), che elencava le situazioni in cui l’EPPO si sarebbe dovuto astenere dall’esercizio della sua competenza. Da queste nuove condizioni risultava che, al fine di stabilire la propria competenza per i reati accessori, l’EPPO avrebbe dovuto determinare il reato in questione preponderante. Per misurare tale preponderanza, occorreva confrontare la gravità dell’infrazione PIF e dell’infrazione accessoria sulla base delle sanzioni massime comminate dal diritto nazionale (cfr. preambolo, considerando 4930 e art. 20, paragrafo 3, lettere a) e aa)). Così, l’EPPO avrebbe dovuto astenersi dall’esercitare la propria competenza, “cedendo il passo” alle autorità giudiziarie nazionali quando la pena massima prevista dalla legge nazionale per un reato PIF fosse meno severa o uguale alla pena massima del reato connesso. Diveniva inoltre necessario confrontare il livello dei danni causati all’Unione con quello causato ad altre vittime (articolo 20, paragrafo 3, lettera b). Tale sistema fotografava la tendenza a ridurre l’ambito di competenza materiale di EPPO attraverso mezzi indiretti: la sostituzione della condizione basata sulla buona amministrazione della giustizia con più condizioni “matematiche” volte a verificare la preponderanza dei risultati delle infrazioni PIF sfociava in una minor flessibilità e margine di manovra per l’EPPO. Anche se ciò contribuiva a garantire una maggiore certezza del diritto così come richiesta dal Servizio giuridico, alcuni si sono chiesti se questo corrispondesse all’interesse della giustizia31. L’attuazione pratica della competenza EPPO in materia di reati accessori così tracciata, non era certamente facile e avrebbe potuto portare a tensioni tra le due autorità. Nella nuova versione del testo, inoltre, i riferimenti alle consultazioni reciproche e ad una consulenza con Eurojust sono scomparsi, e sono stati sostituiti da un generico riferimento alla leale cooperazione (articolo 6, paragrafo 6). In caso di disaccordo, spettava ancora alle autorità nazionali decidere nel merito (Art. 20, paragrafo 5), ed è stata introdotta la possibilità di ricorso giurisdizionale alla Corte di giustizia delle Comunità europee. L’insoddisfazione espressa da più parti nei confronti del testo, anche nell’imminenza del Consiglio GAI dell’8 dicembre, ha indotto la Presidenza a presentare il testo per un dibattito orientativo.

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Considerando 49: The efficient investigation of crimes affecting the financial interests of the Union and the principle of ne bis in idem may require, in certain cases, an extension of the investigation to other offences under national law, where these are inextricably linked to an offence affecting the financial interests of the Union. The notion of inextricably linked offences should be considered in light of the jurisprudence of the Court of Justice of the European Union. Such may be the case, for example, for offences which have been committed for the main purpose of creating the conditions to commit the offence affecting the financial interests of the Union, such as offences strictly aimed at ensuring the material or legal means to commit the offence affecting the financial interests of the Union, or to ensure the profit or product thereof. On the contrary, such may not be the case of national tax frauds linked to VAT frauds as defined in Directive 2017/xx/EU, which do not rely on identical material facts. In cases of inextricably linked offences, where the offence affecting the Union’s financial interests is preponderant, the competence of the European Public Prosecutor’s Office should be exercised after consultation with the competent authorities of the Member State concerned. Preponderance should be established primarily on the basis of the offences’ gravity, as reflected in the applicable sanctions. 31 Interessante lo studio di A. Weyembergh e C. Briere, per LIBE COMMITTEE “Towards a European Public Prosecutor’s Office”, PE 571.399.

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Nella riunione del Gruppo COPEN del 6 dicembre 2016, è stato richiesto al Servizio giuridico un altro parere scritto in merito alla compatibilità del testo di compromesso riveduto, relativamente all’articolo 17 e all’articolo 20, paragrafo 3 del progetto di regolamento EPPO, con la base giuridica dell’articolo 86 TFUE, tenendo conto dell’analisi già svolta nel precedente parere giuridico del 13 maggio 2015. Il 22 dicembre 2016 è stato poi pubblicato un testo di compromesso della Presidenza aggiornato32.

2.5. Il parere del Servizio giuridico dell’11 gennaio 2017. Nel gennaio 2017, il Servizio giuridico presentava un nuovo parere33, nel quale ribadiva che il fatto che i reati accessori a reati PIF non rientrino nel campo di applicazione della direttiva PIF non implica automaticamente e necessariamente che essi debbano esulare dal campo di applicazione dell’articolo 86, paragrafo 2, TFUE. Tanto premesso, il Servizio giuridico specificava che l’ultima frase dell’articolo 17, paragrafo 1, “irrespective of whether the same criminal conduct could be classified, under national law, as another type of offence” non doveva essere considerata un’estensione della competenza della Procura europea oltre i reati PIF, in quanto rifletteva la situazione in cui una condotta criminosa qualificata come reato PIF, poteva altresì essere qualificata come un altro tipo di reato ai sensi della legislazione nazionale34. Una siffatta situazione, prevista dal regolamento EPPO, era pertanto in conformità dell’articolo 86 TFUE. Un’importante modifica vedeva l’aggiunta di un paragrafo 1a35 al testo dell’art. 17, volto a garantire che l’applicazione combinata delle norme dell’articolo 17 e dell’articolo 20, paragrafo 3, del progetto di regolamento non porti all’incompetenza di EPPO se l’attività criminosa di una organizzazione criminale era incentrata sulla commissione di un reato PIF, anche nei casi in cui la pena massima per la partecipazione a tale organizzazione criminale fosse maggiore di quella del reato PIF. Tale nuova disposizione continuava a limitare la competenza della Procura europea ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di cui all’articolo 86, paragrafo 2, TFUE ma preservava l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE. Nel caso de quo, il criterio di prevalenza adottato era qualitativo e si riferiva sia al centro dell’attività criminosa dell’organizzazione criminale36, sia ai reati PIF (commessi da tale organizzazione criminale) secondo quanto previsto all’articolo 17, paragrafo 1.

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Doc n. 15760/16: il testo aggiunge: “Such guidelines shall also allow the Permanent Chambers to refer a case to the competent national authorities where the European Public Prosecutor’s Office exercises a competence in respect of offences referred to in Article 3 (a) of Directive 2017/xx/EU and where the damage caused or likely to be caused to the Union’s financial interests does not exceed the damage caused or likely to be caused to another victim”. 33 Doc. n. 5137/2017. 34 Il cosiddetto concours d’infractions, che comporta la commissione successiva o simultanea di vari reati distinti basati su fatti identici o correlati da parte di uno stesso autore. 35 Art. 17,1a. The European Public Prosecutor’s Office shall also be competent for offences regarding participation in a criminal organisation as defined in Framework Decision 2008/841/JHA, as implemented in national law, if the focus of the criminal activity of such a criminal organisation is to commit any of the offences referred to in paragraph 1. 36 Definito dal riferimento alla decisione quadro 2008/841/GAI.

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Per questi motivi, ad avviso del Servizio giuridico tale estensione della competenza materiale della Procura europea ai reati rientranti nel campo di applicazione dell’articolo 17, paragrafo 1a, è conforme all’articolo 86 TFUE e all’esigenza di certezza del diritto. L’articolo 17, paragrafo 2, poi, estendeva la competenza della Procura europea ai reati indissolubilmente legati, mentre il considerando 49 del progetto forniva alcuni orientamenti sull’interpretazione del concetto di reati indissolubilmente legati. L’articolo 17, paragrafo 337, aggiunto nell’ultimo testo di compromesso della Presidenza, mirava ad escludere i reati in materia di imposte nazionali dirette, nel caso (improbabile) in cui detti reati potessero essere considerati indissolubilmente legati: difficilmente i fatti materiali costitutivi di un reato di frode a danno dell’IVA e di un reato connesso ad un’imposta nazionale diretta sono identici o sostanzialmente corrispondenti ai sensi della giurisprudenza della Corte cui si fa riferimento nel considerando 4938 del testo di compromesso della Presidenza. Il precedente criterio di prevalenza in funzione del danno finanziario veniva circoscritto e chiaramente definito nell’articolo 20, paragrafo 3, del progetto di Regolamento. Il primo criterio adottato nell’articolo 20, paragrafo 3, faceva riferimento all’entità della pena massima, a meno che, nel caso di sanzioni massime “uguali”, il reato indissolubilmente legato fosse strumentale alla commissione del reato. Inoltre, ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 3 bis39, la competenza della Procura europea poteva essere estesa con il consenso della procura nazionale interessata, anche se il criterio dell’entità della sanzione non era soddisfatto. Il criterio della strumentalità40 del reato, di cui all’articolo 20, paragrafo 3, lettera a), in via di eccezione al criterio principale dell’entità della sanzione, è quello che la Corte di giustizia adotta nella valutazione delle componenti preponderanti e accessorie dei reati per l’esercizio del controllo giurisdizionale sulla scelta della base giuridica da parte del legislatore dell’Unione. L’ultimo criterio previsto all’articolo 20, paragrafo 3, lettera b), basato sul danno finanziario, era un criterio orizzontale applicabile ai reati PIF indipendentemente dalla loro qualificazione

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3. “In any case, the European Public Prosecutor’s Office shall not be competent for criminal offences in respect of national direct taxes and the structure and functioning of the tax administration of the Member States shall not be affected by this Regulation.” 38 Il considerando (49) del progetto di regolamento è così formulato: “The efficient investigation of crimes affecting the financial interests of the Union and the principle of ne bis in idem may require, in certain cases, an extension of the investigation to other offences under national law, where these are inextricably linked to an offence affecting the financial interests of the Union. The notion of inextricably linked offences should be considered in light of the relevant case law which, for the application of the ne bis in idem principle, retains as a relevant criterion the identity of the material facts (or facts which are substantially the same), understood in the sense of the existence of a set of concrete circumstances which are inextricably linked together in time and space.” 39 Paragrafo 3 bis: “The European Public Prosecutor’s Office may, with the consent of relevant national prosecution authorities, exercise its competence even in cases which would otherwise be excluded due to application of paragraph 3 subparagraph a).” 40 Il considerando (49 bis) del progetto di regolamento è così formulato: “The notion of instrumental offences should cover in particular offences which have been committed for the main purpose of creating the conditions to commit the offence affecting the financial interests of the Union, such as offences strictly aimed at ensuring the material or legal means to commit the offence affecting the financial interests of the Union, or to ensure the profit or product thereof.”

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nella legislazione nazionale (articolo 17, paragrafo 1), ai reati connessi a reati PIF nel contesto di un’organizzazione criminale (articolo 17, paragrafo 1 bis) e ai reati indissolubilmente legati (articolo 17, paragrafo 2). Esso mirava a delimitare la competenza della Procura europea rispetto alla competenza delle autorità nazionali sulla base del danno causato agli interessi finanziari dell’Unione principalmente per motivi di sussidiarietà e tenuto conto del fatto che, in contrasto con quanto proposto dalla Commissione, la Procura europea non aveva competenza esclusiva in materia di individuazione, perseguimento e rinvio a giudizio per reati PIF. Il Servizio giuridico proseguiva il parere rilevando che il criterio del danno finanziario era stato circoscritto, onde preservare l’efficacia della competenza materiale per i reati PIF: l’ultimo capoverso dell’articolo 20, paragrafo 3, lettera b), escludeva tale criterio per le frodi a danno dell’IVA di cui all’articolo 3, lettera d), della direttiva PIF. Tale formalizzazione era essenziale dal momento che, ove non fosse inserita, la Procura europea non avrebbe mai potuto esercitare la propria competenza materiale per un siffatto reato poiché il danno al bilancio nazionale in caso di frode in materia di IVA è sempre superiore al danno causato al bilancio dell’Unione. Lo stesso capoverso escludeva altresì questo criterio per le frodi in materia di spese non relative ad appalti (ad es. i fondi strutturali che comportano un cofinanziamento a carico dell’UE e dei bilanci nazionali). L’esercizio della competenza della Procura europea è stato dunque limitato, dalla combinazione dei suddetti criteri, a quanto necessario per mantenere l’effetto utile dell’articolo 86 TFUE, e non va oltre i reati accessori ai reati PIF. Pertanto non sconfina nelle competenze del legislatore dell’Unione quali risultano dall’articolo 86 TFUE. Sulla base di quanto poc’anzi esposto, dunque, la delimitazione e l’estensione della competenza ratione materiae, in conformità dell’articolo 17 e dell’articolo 20, paragrafi 3 e 3 bis, del progetto di regolamento EPPO nella versione del 22 dicembre 201641, sia per quanto riguarda la definizione dei reati che rientravano nella competenza materiale della Procura europea che le limitazioni dell’esercizio di tale competenza sulla base di criteri chiaramente definiti, erano compatibili con la base giuridica dell’articolo 86 TFUE. Di fronte a tale testo, la Presidenza constatava un sostegno abbastanza ampio mostrato da un buon numero di Stati Membri, inteso come base per future discussioni a livello tecnico, finalizzate a risolvere le questioni problematiche evidenziate dalle delegazioni. I negoziati sono quindi proseguiti sotto Presidenza maltese.

2.6. La Presidenza maltese42 e la necessaria cooperazione rafforzata. L’intervenuta Presidenza maltese ha presentato al COREPER43 del 19.1.2017 il testo integrale del Regolamento EPPO per il raggiungimento di un approccio generale, chiedendo alle delegazioni di esprimere il proprio consenso o dissenso sul testo. All’esito del voto, è stata poi sottoposta al Consiglio GAI del 7 febbraio 2017 una raccomandazione per la constatazione formale della mancanza di unanimità.

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Doc. n. 15760/16. Malta ha presieduto il Consiglio nel semestre gennaio-giugno 2017. Vd. Nota n. 17.

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Una volta constatata la mancanza di unanimità, si è proceduto secondo le linee tracciate dall’art. 86 TFUE, che prevede una procedura legislativa speciale chiamata “cooperazione rafforzata44“. Il successivo 14 febbraio, un gruppo di 17 Stati membri (Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna) ha chiesto con un’apposita lettera indirizzata al Presidente del Consiglio europeo che il testo fosse sottoposto a quest’ultimo per la ricerca di un consenso e, in caso di esito positivo, rinviato al Consiglio dei Ministri per l’adozione all’unanimità. Nella riunione del 9-10 marzo, il Consiglio Europeo ha dovuto constatare la mancanza di consenso sul testo, riaprendo in tal modo la procedura dinanzi al Consiglio e, il 3 aprile 2017, un nuovo gruppo di sedici Delegazioni ha notificato al Parlamento europeo, al Consiglio ed alla Commissione l’intenzione di stabilire una cooperazione rafforzata. Quindi, in virtù del disposto del terzo comma, ultima parte, del paragrafo 1 dell’art. 86 TFUE, la necessaria autorizzazione a procedere alla cooperazione rafforzata (di cui all’art. 20, para. 2, TUE e art. 329, para 1, TFUE) è stata concessa. Si è quindi aperta l’ultima fase negoziale nei consueti organi preparatori del Consiglio (Gruppo COPEN), che ha assunto come base il testo maturato fino alla constatazione della mancanza di unanimità. Alla riunione del gruppo tecnico tenutasi il 6 aprile 2017, la Presidenza maltese45 ha ribadito l’intenzione di portare il dossier per un approccio generale al Consiglio GAI di giugno, mentre la Commissione sottolineava la necessità di apportare al testo ancora qualche modifica su taluni aspetti chiave, menzionando in particolare il tema degli obblighi di informazione (articolo 19) e della competenza (articolo 20). Con lo scopo di promuovere tali modifiche, le questioni problematiche sono state affrontate e discusse in una sessione tecnica dedicata, svoltasi a Roma in data 20.4.2016, da cui è scaturita una proposta di compromesso avente ad oggetto la modifica degli articoli 19 e 20, poi presentata alla riunione del gruppo COPEN del 27 e 28 aprile.

2.7. La sessione tecnica ristretta di Roma. La citata sessione tecnica “ristretta”, tenutasi a Roma il 20 aprile su iniziativa del Ministero della Giustizia italiano Andrea Orlando, ha visto la partecipazione di rappresentanti di Francia, Spagna, Germania, e della Commissione, si è concentrata sulle due questioni a maggiormente critiche, che compromettevano in maniera determinante l’ambizione del testo, ed in particolare l’eccessiva compressione delle competenze dell’EPPO a favore delle autorità nazionali (artt. 17-20); ed i limitati obblighi di informazione all’EPPO da parte delle autorità nazionali (art 19). In particolare, all’esito dell’incontro è stato redatto un testo consensuale degli articoli 19 e 20 che riducono i casi di cessione di competenza da parte dell’EPPO in favore delle autorità nazionali e garantisce un migliore bilanciamento dei criteri di ripartizione di competenza in caso di reati PIF e non PIF indissolubilmente connessi, e assicura che l’EPPO riceva tutte le

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La cooperazione rafforzata è una procedura decisionale istituzionalizza finalizzata a realizzare una più forte cooperazione su specifici temi e aree (come la giustizia) che non siano già di esclusiva competenza comunitaria, laddove, per ragioni politiche, non si raggiunga l’adesione della totalità degli Stati Membri (perché possa attuarsi è richiesta una partecipazione di almeno nove SM). La disciplina generale è ora contenuta negli articoli 20 del TUE e negli articoli 326-334 del TFUE, nella versione consolidata con il Trattato di Lisbona. 45 Doc. n. 7761/17.

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informazioni circa le decisioni delle autorità nazionali di conservare la propria competenza nei casi sopra indicati, in modo da mettere anche l’EPPO nella condizione di poter chiedere di riesaminare tale decisione. In data 8.5.2017, la Presidenza ha fatto circolare un nuovo testo46 della proposta di regolamento, che accoglieva sostanzialmente la soluzione di compromesso negoziata a Roma. Come si è detto, il precedente testo prevedeva in capo ad EPPO una competenza “nativa”, per i reati PIF e una competenza per connessione, estesa a tutti i reati (come definiti dal diritto interno degli Stati membri) indissolubilmente connessi ai reati PIF. EPPO era competente quindi per i reati PIF e non PIF, inestricabilmente connessi, ma solo nei casi di: - reato PIF punito più gravemente del reato non PIF; - reato PIF punito in modo equivalente al reato non PIF purché sussistente fra i due reati una relazione di strumentalità; - danno derivante dal reato PIF maggiore di quello derivante dal reato “non-PIF”. In mancanza di tali condizioni EPPO perdeva la propria competenza anche per i reati PIF che veniva attratta dalle autorità nazionali. Il testo attuale, negoziato nella riunione ristretta e recepito nella proposta di compromesso della Presidenza, prevede una riduzione dei casi in cui EPPO perde competenza a favore delle autorità nazionali. In particolare, grazie alla modifica introdotta, EPPO mantiene la competenza: - in tutti i casi di reati PIF e non PIF legati da nesso di strumentalità (non solo quindi nelle ipotesi di pena minore o equivalente); - in tutti i casi di danno derivante dal reato PIF (danno all’UE) superiore a quello derivante dal reato NON PIF (danno allo Stato membro o a terzi); - in tutti i casi di reati PIF che incidono sulle voci di spesa previste dal bilancio UE (es. frode su fondi di sviluppo regionale nei quali c’è una concorrenza di danno a carico dell’UE e della Regione erogante); - in tutti i casi di reati, di natura transnazionale, che riguardano l’IVA con danno superiore a 10.000.000 Euro (riferito al gettito di IVA). Anche nei casi di competenza delle Autorità Nazionali basata sul criterio del danno, potrà intervenire un accordo fra queste ed EPPO per consentire, per motivi di opportunità, che le indagini siano concentrate in EPPO ove questo appaia l’organo più idoneo a svolgere le indagini in modo efficace (ad es. in caso di più fatti connessi in indagini frammentate tra vari Stati membri). Vi è quindi un bilanciamento dei criteri di ripartizione della competenza tra l’EPPO e le autorità nazionali in caso di reati PIF e non PIF indissolubilmente connessi. Ciò permette un’espansione della competenza di EPPO anche sui reati non PIF connessi ai reati PIF in tutti i casi in cui vi sia un nesso di strumentalità tra gli stessi nonostante il reato non PIF sia punito più gravemente del reato PIF. Restano assorbiti dal criterio della preponderanza del danno i soli casi di reati PIF relativi ad entrate del bilancio dell’UE, connessi a reati “nazionali” con danno maggiore. Quanto, poi, agli obblighi di informazione, il testo della Presidenza maltese prevede che, anche qualora un reato PIF sia attratto alla competenza nazionale per effetto della connessione

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Doc. n. 9545/2/17.

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con un reato non PIF, le autorità degli Stati membri devono notificare l’apertura dell’indagine penale all’EPPO per consentirgli, se del caso, di contestare l’applicazione del criterio della “preponderanza” o sollecitare la cessione “volontaria” della competenza. È stato inoltre introdotto il potere di EPPO di chiedere informazioni alle autorità nazionali su un qualsiasi reato PIF per finalità operative. Questo ulteriore obbligo informativo delle autorità nazionali aumenta lo spettro cognitivo di EPPO e quindi la possibilità dello stesso di esaminare il caso e rivendicare la propria competenza o sollecitare la cessione “volontaria” della competenza da parte delle Autorità nazionali. Infine, è stata introdotta la possibilità per EPPO di chiedere informazioni alle autorità nazionali su un qualsiasi reato PIF, tranne per i casi minori (con danno, cioè, inferiore a 10.000 euro). È alla riunione di Roma, ed alle conseguenti rabberciate modifiche, che si deve il compromesso raggiunto, in occasione del Consiglio dei Ministri della Giustizia conclusivo della Presidenza maltese tenutosi a Lussemburgo l’8 giugno 2017. I 18 Stati membri che già avevano aderito alla iniziativa di cooperazione rafforzata in sede di Consiglio sono stati successivamente raggiunti dall’Italia che, con lettera del Ministro della Giustizia del 22 giugno, indirizzata ai Presidenti delle tre Istituzioni, ha comunicato ufficialmente la propria volontà di partecipare alla stessa. Ciò ha consentito di inviare il testo al Parlamento europeo per l’approvazione da parte di quest’ultimo. A seguito del positivo esito della votazione, tenutasi il 5 ottobre 2017, si è così pervenuti alla finale adozione del testo47 da parte del Consiglio dei Ministri della Giustizia in occasione della sessione tenutasi a Lussemburgo il successivo 12 ottobre.

3. Il quadro attuale. Ricapitolando tutto quanto detto innanzi, rileviamo come la competenza della Procura europea a perseguire reati dinanzi le competenti giurisdizioni nazionali viene individuata e delimitata (art. 4) attraverso il rinvio alla direttiva PIF ed in ciascuno Stato partecipante l’EPPO sarà quindi competente a perseguire tutti i reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE introdotti ai fini dell’attuazione della direttiva. Per quanto riguarda le frodi IVA, esse ricadranno all’interno della competenza dell’EPPO a condizione che le relative condotte siano connesse al territorio di due o più Stati membri e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro. Alla competenza dell’EPPO rimarranno attratte anche le condotte di partecipazione ad un’organizzazione criminale quando l’attività dell’organizzazione criminale si incentri sulla commissione dei reati PIF. Esercitando la competenza ancillare48, l’EPPO potrà procedere anche nei confronti di qualsiasi altro reato indissolubilmente legato ad un reato PIF, ma solamente alle condizioni determinate dall’articolo 25, paragrafo 349. Ai sensi dell’art. 22.4, sono in ogni caso esclusi dalla

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Reg. n. 1939/2017. 22 (3): L’EPPO è altresì competente per qualsiasi altro reato indissolubilmente connesso a una condotta criminosa rientrante nell’ambito di applicazione del paragrafo 1 del presente articolo. La competenza riguardo a tali reati può essere esercitata solo in conformità dell’articolo 25, paragrafo 3. 4. In ogni caso, l’EPPO non è competente per i reati in materia di imposte dirette nazionali, ivi inclusi i reati ad essi indissolubilmente legati. Il presente regolamento non pregiudica la struttura e il funzionamento dell’amministrazione fiscale degli Stati membri. 49 25 (3): L’EPPO si astiene dall’esercitare la sua competenza in relazione a qualsiasi reato rientrante nell’ambito 48

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competenza dell’EPPO i reati in materia di imposte dirette nazionali, precisandosi anche che il regolamento non pregiudica struttura e funzionamento dell’amministrazione fiscale degli Stati membri. Una volta che, a seguito della segnalazione, l’EPPO abbia deciso di esercitare la propria competenza, le autorità nazionali si troveranno spogliate del potere di esercitarla a loro volta in relazione alla medesima condotta criminosa, anche se potranno nel frattempo adottare le misure urgenti eventualmente necessarie per garantire l’efficacia delle indagini. Il già citato art. 25 del regolamento pone tuttavia una serie di argini all’esercizio da parte della Procura europea della propria competenza.
 Così, potrà esercitare la propria competenza nei confronti dei reati PIF comportanti un danno per gli interessi finanziari dell’Unione inferiore a 10.000 € (art. 23 comma 4 lett a)), soltanto in caso di “ripercussioni a livello dell’Unione”, oppure quando risultino coinvolti funzionari o agenti dell’Unione europea, ovvero membri delle istituzioni. Un’ulteriore limitazione al concreto esercizio della stessa da parte dell’EPPO è rinvenibile all’interno della disposizione relativa al diritto di avocazione (art. 28 bis). Al suo para. 2bis50, viene infatti prevista la possibilità per il collegio di emanare “direttive generali” che consentano ai procuratori europei delegati di decidere, “autonomamente e senza indebito ritardo”, di non procedere all’avocazione del caso qualora non sia necessario svolgere indagini o esercitare l’azione penale a livello dell’Unione in presenza di un danno per i suoi interessi finanziari inferiore a 100.000 €. Quanto alla competenza ancillare, il terzo comma dell’art. 25 prevede un vero e proprio dovere di astensione quando il reato ancillare sia punito dal diritto nazionale con sanzioni uguali o più gravi rispetto al reato PIF (salvo che il primo reato risulti meramente “strumentale” alla commissione del secondo), oppure quando il danno per gli interessi finanziari dell’Unione causato da un reato PIF non risulti superiore al danno arrecato ad un’altra vittima dello stesso. In tutti i casi di disaccordo tra l’EPPO e le procure nazionali sul trovarsi o meno in presenza delle organizzazioni criminali sulle quali EPPO può esercitare la propria competenza, o di reati ancillari, od ancora sulla sussistenza delle condizioni necessarie perché la Procura europea proceda anche nei casi di danno inferiore a 10000 €, a decidere saranno proprio quelle stesse

di applicazione dell’articolo 22 e, previa consultazione con le autorità nazionali competenti, rinvia senza indebito ritardo il caso a queste ultime a norma dell’articolo 34 se: a) la sanzione massima prevista dal diritto nazionale per un reato rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 22, paragrafo 1, è equivalente o meno severa della sanzione massima per il reato indissolubilmente connesso di cui all’articolo 22, paragrafo 3, a meno che quest’ultimo reato non sia stato strumentale alla commissione del reato rientrante nel campo di applicazione dell’articolo 22, paragrafo 1; o b) vi è motivo di presumere che il danno reale o potenziale per gli interessi finanziari dell’Unione causato da un reato di cui all’articolo 22 non sia superiore al danno reale o potenziale arrecato a un’altra vittima. La lettera b) del primo comma del presente paragrafo non si applica ai reati di cui all’articolo 3, paragrafo 2, lettere a), b) e d), della direttiva (UE) 2017/1371 quale attuata dal diritto nazionale. 50 2 bis. Qualora, con riguardo a un reato che comporti o possa comportare un danno per gli interessi finanziari dell’Unione inferiore a 100 000 EUR, il collegio ritenga che, tenuto conto del grado di gravità del reato o della complessità del procedimento nel singolo caso, non sia necessario svolgere indagini o esercitare l’azione penale a livello dell’Unione e che sia nell’interesse dell’efficienza delle indagini o dell’azione penale, esso emana, conformemente all’articolo 8, paragrafo 2, direttive generali che consentano alle camere permanenti di rinviare il caso alle autorità nazionali competenti.

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autorità nazionali che risolvono i conflitti di competenza sull’esercizio dell’azione penale a livello nazionale, con potenziale disparità di trattamento, da Stato membro a Stato membro, nei confronti della nuova Procura. Per completezza espositiva, occorre inoltre segnalare che la Commissione ha presentato, in data 19.9.2018, la comunicazione di un’iniziativa51 che prevede una modifica al trattato, per estendere le competenze dell’EPPO ai reati di terrorismo che interessano più di uno Stato membro, nell’ambito della risposta europea alle minacce terroristiche. Tale comunicazione è stata accompagnata da un allegato contenente un’iniziativa per l’eventuale adozione di una decisione del Consiglio che modifichi l’articolo 86, paragrafi 1 e 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) allo scopo di estendere le competenze dell’EPPO a reati terroristici che interessano più di uno Stato membro.

4. Conclusioni. Al termine di tale percorso, appare doveroso rilevare come il sistema della competenza di EPPO rispecchi, per alcuni versi, il primigenio spirito accentratore di tale organismo, basti pensare all’attribuzione della competenza allo stesso in tutti i casi di reati non-PIF indissolubilmente connessi ai reati PIF, inclusi i casi in cui i reati non PIF siano puniti con pene più severe dei reati PIF. Ancora, quando il danno causato dal reato PIF non sia preponderante, EPPO potrà, con il consenso dell’autorità nazionale, esercitare la propria competenza in relazione a entrambi i reati, PIF e non PIF, ove risulti l’organo più idoneo a condurre le indagini e ad esercitare l’azione penale. Ad uno spirito critico, tuttavia, il complesso delle regole di competenza potrebbe apparire sbilanciato in favore delle autorità nazionali, in particolare quando consente a queste ultime di ritenersi competenti a procedere nei confronti di tutti i reati connessi per i quali la pena edittale sia eguale o più elevata. Questo in ragione dello scarso livello di armonizzazione in materia sanzionatoria, che presta il fianco a notevoli disparità applicative da uno Stato membro all’altro, senza nemmeno l’occhio vigile della Corte di giustizia, come era stato precedentemente paventato52, atteso che la risoluzione degli eventuali conflitti tra EPPO ed autorità nazionali viene in buona parte devoluta alle singole giurisdizioni statali.

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COM (2018) 641 final. Vd paragrafo 2.4.

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