Rivista 3-4/2017 sfogliabile

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3-4 • settembre-dicembre 2017

Rivista trimestrale 3-4 • settembre-dicembre 2017

Il diritto penale

globalizzazione della

ISSN 2532-8433

Il diritto penale della globalizzazione

Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini

In evidenza: Riflessioni sulla corruzione e sugli indici di percezione del fenomeno in Italia ed in altri Paesi Armando D’Alterio

Il caso Taricco: prove di dialogo tra Corti Federica Tondin e Sonia Piccinni Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale: dalle specialist chambers del Kosovo verso la tutela dei diritti fondamentali Alessandro Quattrocchi L’Agenda 2030 ed il principio della sostenibilità nel diritto internazionale Nico Longo

Pacini


Indice In evidenza a cura di Giovanni Tartaglia Polcini, La funzione del diritto penale di fronte al terrorismo: verso nuove prospettive..................................................................................................................p. 287

Editoriale a cura di Lorenzo Salazar, Una procura per l’Unione nell’Europa degli Stati..................................» 289

Saggi Armando D’alterio, Riflessioni sulla corruzione e sugli indici di percezione del fenomeno in Italia ed in altri Paesi.............................................................................................................................» Nico Longo, L’agenda 2030 ed il Principio della sostenibilità nel diritto internazionale................» Giovambattista Palumbo, L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e il pericolo dell’autoriciclaggio........................................................................................................................» Alessandro Parrotta, Amministrazione di fatto e bancarotta fraudolenta: i profili della prova nel processo penale..............................................................................................................................» Stefano Maranella - Maria Stefania Cataleta, Il mandato di arresto europeo nell’ordinamento italiano, il superamento del sistema estradizionale conformemente ai diritti fondamentali...........» Miriam Ferrara, Gli strumenti di contrasto al terrorismo: tra prevenzione e repressione..................»

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Giurisprudenza Internazionale The Specialist Chamber of the Constitutional Court, 28 giugno 2017, KSC-CC-PR-2017-03, con nota di Alessandro Quattrocchi, Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale: dalle specialist chambers del Kosovo verso la tutela dei diritti fondamentali.........» 351

Nazionale Corte di Giustizia UE 5 dicembre 2017; Corte Cost. ordinanza 24/2017; Corte di giustizia, Grande Sezione, sent. 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco c. Italia, con nota di Federica Tondin – Sonia Piccinni, Il caso Taricco: prove di dialogo tra Corti.................................................» 369 Cass. Penale sez. IV, 20 aprile 2017, (dep. 7 giugno 2017), n. 28187, con nota di Andrea Racca, La responsabilità medica colposa a seguito della L. 24/2017.............................................................» 379

Europea CEDU, Sez. V, 1 giugno 2017 (dep.1 settembre 2017), n.21571/05, con nota di Marta Patacchiola, Corte edu: caso Mindadze e Nemsitsveridze c. Georgia.....................................................................» 385

Osservatorio Europeo Giorgio Malfatti Di Monte Tretto, Programma europeo per il contrasto alla criminalità organizzata in America Latina.....................................................................................................» 389 Nikita Micieli De Biase, L’ordine europeo di indagine penale D.Lgs. 108/2017..................................» 391


Indice

Internazionale Alessandro Parrotta – Francesco Urbinati, Caso “Contrada”: Adeguamento della Suprema Corte di Cassazione alla Corte EDU. Cade il concorso esterno in associazione mafiosa................................» 395

Nazionale Marta Patacchiola, Misure di prevenzione: art. 80 D.lgs. 6 settembre 2011 n. 159 (obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali)..................................................................................» 403

Normativo Marilisa De Nigris, Nuove disposizioni antiriciclaggio ed antiterrorismo D.Lgs. 25 maggio 2017 n. 90. Obblighi degli operatori in materia di antiriciclaggio.............................................................» 407

Focus Nicoletta Parisi e Dino Rinoldi, “Economia lecita” e protezione del bilancio dell’Unione Europea tramite il diritto penale. Spunti in occasione dell’adozione della direttiva relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Organizzazione................................................» 409

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In

evidenza

La funzione del diritto penale di fronte al terrorismo: verso nuove prospettive Sommario: 1. Ratio. – 2. Riflessioni di ordine metodologico. – 3. Interrogativi di ordine pratico applicativo.

1. Ratio. Il fenomeno del terrorismo non può essere disciplinato entro i confini di un diritto penale classico. Esso, per come noi lo concepiamo, non è in grado di affrontare attacchi frontali di tipo radicale caratterizzati da emergenza e straordinarietà. In altri termini, non si può affidare al solo diritto penale la risposta alla complessità insita nel fenomeno del terrorismo moderno. A fortiori, il diritto penale che fronteggia il terrorismo non può essere lo stesso che punisce il cittadino che infrange la legge e sanziona i singoli fatti delittuosi, per quanto gravi essi siano. Invero, il fenomeno terroristico mostra un vero animus belli ed è manifestazione di antagonismo vicino alla guerra. Difatti, non si tratta di un mero comportamento deviante, indesiderato, incompatibile con un determinato modello sociale che costituisce la definizione tradizionale del reato. In detta prospettiva, la finalità della pena quale risposta per determinare classi di condotte devianti non può essere la stessa di fronte al terrorismo. Né pensare al diritto penale come espressione di lotta o come strumento per combattere gli attacchi in esame può essere considerato “estremismo” lessicale, considerando i più importanti trattati internazionali che hanno affrontato il tema, come il Trattato di Maastricht del 1992 che disciplina anche il contrasto al terrorismo, o ancora la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, che richiama il concetto di lotta. Non mancano poi modelli filosofici già elaborati in materia nel senso proposto: da un lato vi è quello statunitense che qualifica i terroristi come unlawful combats, dall’altro quello tedesco del Feindstrafrecht che elabora la teoria del “diritto penale del nemico”1.

2. Riflessioni di ordine metodologico. Di fronte alle sfide del terrorismo di matrice islamica, che sfociano in attentati sempre più cruenti e dalle conseguenze drammatiche, è doveroso ed opportuno svolgere una riflessione sull’adeguatezza dell’odierno arsenale giuridico a disposizione delle nostre forze di polizia e della magistratura in subjecta materia. Gli strumenti di intervento, di investigazione ed indagine, così come i mezzi di ricerca della prova contemplati dal nostro ordinamento, difatti, potrebbero in astratto rivelarsi inadeguati alla sfida della Jihad globale strategicamente praticata dai terroristi (ieri da Al Qaeda ed oggi dall’Isis). In tale sede, alludo alla proporzionalità e all’equilibrio tra necessario ampliamento dei poteri pubblici e correlata riduzione degli spazi di garanzia. Si tratta di un approfondimen-

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Dalla prefazione di un elaborato del Capo Polizia F. Gabrielli su un testo relativo all’antiterrorismo di F. Roberti e L. Giannini.


In evidenza

to funzionale e valoriale che, a mio avviso, spetta al giurista, il quale è chiamato ad elaborare risposte sul piano delle basi di riferimento della politica criminale. Suddetto assunto ontologico, peraltro, affonda le sue radici su precedenti di esperienza, che hanno visto proprio i giuristi pratici elaborare nuove strategie di contrasto per fenomeni criminali nuovi e gravi, come il terrorismo eversivo e le mafie, – beninteso – sempre muovendosi nel quadro costituzionale vigente dei principi fondamentali, dei diritti della persona e della ragionevolezza. Abbiamo già reiteratamente applicato, nel nostro recente passato, i principi dello Stato di diritto, senza però deflettere rispetto alle nuove sfide della criminalità. Costituisce, difatti, una realtà storica non revocabile in dubbio, l’adozione di statuti speciali antiterrorismo ed antimafia, contenenti nuovi istituti normativi, moduli organizzativi e speciali poteri riconosciuti alle forze dell’ordine ed alla magistratura, in misura considerevolmente maggiore rispetto a quelli comuni. Siffatte disposizioni speciali hanno dato buoni frutti, giungendo addirittura a costituire, soprattutto nel caso della lotta alle mafie, modelli di riferimento nella globalizzazione del diritto penale.

3. Interrogativi di ordine pratico applicativo. Il terrorismo islamico ha caratteristiche tutte sue proprie; è invero difficile qualificare come fattispecie di reato un attentato terroristico. Addirittura, volendo interpretare la realtà cruda dei fatti di attentato più recenti, dagli attacchi alle torri gemelle ad oggi, la Jihad stenta ad essere suscettibile di inquadramento – per eccesso – nella stessa idea di guerra moderna. Le guerre non coinvolgono quasi mai come obiettivo primario i civili, gli inermi, gli indifesi: la Jihad si caratterizza, invece, per l’attacco indiscriminato ai civili, vale a dire coloro i quali rappresentano durante gli attacchi armati un possibile danno collaterale e che per l’Isis sono un target ben delineato. L’autore di attentati terroristici – suicida o meno – non è un delinquente che possiamo considerare comune. Egli non identifica lo Stato che attacca e, di conseguenza, non può riconoscerne la giustizia. I delitti di attentato terroristico di matrice estremistica e religiosa impongono un’anticipazione ed un rafforzamento della soglia di tutela della collettività. Si tratta di un principio già veicolato in alcune disposizioni di legge adottare proprio in subjecta materia e che risultano, a ben vedere, ispirate proprio alla necessità di adottare strumentari speciali parametrati alla intensità della minaccia come, ad esempio, le intercettazioni preventive. A tal riguardo, occorre verificare se la strada intrapresa in suddetto percorso di riforme possa dirsi compiuta. Concludo questo approccio motivazionale delle argomentazioni di seguito illustrate, con un esempio pratico. Si ipotizzi che alcuni attentatori sfuggano alle maglie dell’intelligence e procedano dall’ideazione e preparazione del fatto, alla vera e propria azione, indossando cinture esplosive mentre si recano in determinati punti sensibili di una metropoli; successivamente, uno di essi viene fermato in tempo e neutralizzato. Le informazioni che egli può fornire risulteranno decisive per salvare vite umane ed evitare che l’attacco venga portato ad ulteriori conseguenze. Quali sono i poteri degli operatori di polizia giudiziaria nell’attuale quadro normativo? Potranno interrogare il fermato e come? Dovranno procedere alla nomina di un difensore di ufficio nelle forme previste dal codice di procedura penale e nominare un interprete per tradurre gli atti nella lingua dell’indagato? Queste poche e del tutto ipotetiche domande vogliono esclusivamente rendere chiara la ratio dello sforzo argomentativo intrapreso con la presente riflessione e fungere come monito sulla concretezza della problematica affrontata. Nei prossimi numeri cercheremo con Ranieri di affrontare l’argomento sotto il profilo propositivo. Giovanni Tartaglia Polcini

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Editoriale

Una procura per l’Unione nell’Europa degli Stati Viviamo un’epoca preoccupante, dove con sempre maggiore frequenza si assiste a disimpegni dagli accordi internazionali e dagli obblighi ad essi sottesi. Se Stati Uniti e Russia, pur firmatari dello Statuto di Roma, non hanno mai aderito alla Corte Penale Internazionale (e la Russia ha addirittura annunziato il proprio completo ritiro dalla stessa), un crescente numero di Stati africani, già parti alla stessa, sembra volersene allontanare e si è financo parlato di una possibilità di ritiro collettivo dell’Unione africana dalla ICC. Nel più ristretto quadro geografico europeo, accanto alle crescenti insofferenze britanniche nei confronti delle sentenze della Corte di Strasburgo, la Russia ha recentemente sospeso il proprio contributo al bilancio del Consiglio d’Europa, quale misura di ritorsione conseguente al mancato ripristino dei pieni poteri della propria delegazione in seno all’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione; anche la Turchia ha da ultimo annunciato il proprio ritiro dal novero dei 6 Paesi maggiori contributori a seguito dell’attribuzione da parte della stessa Assemblea del premio Václav Havel 2017 per i diritti umani al giudice Murat Arlsan, arrestato dopo il tentativo di colpo di Stato. All’interno dell’Unione europea, va ricordato come ad un annunzio di Brexit già si fosse in realtà assistito allorquando il Regno Unito decise di sottrarsi completamente agli obblighi derivanti dagli strumenti di cooperazione giudiziaria penale e di polizia adottati prima della data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona pur di non assoggettarsi alla giurisdizione della Corte di giustizia che su di essi sarebbe venuta automaticamente a stabilirsi alla scadenza del periodo transitorio settennale previsto dal protocollo al Trattato, il 1° dicembre 2014, salvo poi decidere di rientrare in alcuni degli stessi attraverso un cherry picking giuridico che ha lasciato, tra l’altro, scoperto l’intero complesso degli obblighi britannici nei confronti dell’Unione nei delicati settori della lotta alla frode ed alla corruzione. In tale clima, non certo esaltante per il diritto penale globale, non può non guardarsi con soddisfazione, ad oltre 4 lustri di distanza dalle prime proposte in materia, alla avvenuta approvazione da parte del Consiglio dei Ministri della giustizia dell’Unione, lo scorso 12 ottobre, del regolamento istitutivo della Procura europea (oramai per tutti “EPPO”, secondo l’acronimo in lingua inglese, European Public Prosecutor Office), primo esempio di pubblico ministero a natura realmente sovranazionale. All’esito di un non facile percorso negoziale durato oltre 4 anni, 20 Stati membri hanno deciso di avvalersi della speciale procedura di cooperazione rafforzata apprestata dall’art. 86 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, mentre Malta, Polonia, Svezia, Ungheria ed Olanda (anche se il nuovo Governo di quest’ultima lascia intravedere sicuri spiragli di ripensamento) hanno deciso di rimanere fuori dalla stessa, così raggiungendo Danimarca, Regno Unito ed Irlanda, esclusi ab origine dal computo della necessaria unanimità in virtù dei rispettivi statuti speciali. L’EPPO avrà la sua sede in Lussemburgo e nasce con competenza oggi limitata al solo perseguimento dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, reati che saranno giudicati dalle ordinarie giurisdizioni degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi senza procedere alla creazione di tribunali penali europei specializzati. I reati di competenza dell’EPPO sono individuati attraverso rinvio alla direttiva (UE) 2017/1371 sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione (“la direttiva PIF”), includendo anche le frodi all’IVA di maggiore gravità, le condotte di partecipazione ad un’organizzazione criminale strutturata alla commissione di reati PIF nonché, a titolo di competenza c.d. “ancillare”, qualsiasi altro reato “indissolubilmente legato” ad un reato PIF, purché di minore gravità rispetto ad esso. Quanto alla sua struttura, discostandosi sensibilmente dal modello verticistico inizialmente proposto dalla Commissione europea, l’EPPO presenta una composizione collegiale, articolata su un livello centrale ed un livello decentrato. Il primo è formato da un Procuratore capo europeo posto a capo di un collegio composto da un procuratore europeo per Stato partecipante, mentre delle “camere permanenti” ne costituiranno la struttura operativa di base. Il livello de-


Editoriale

centrato è invece costituito dai procuratori europei delegati (PED), in numero da determinare e variabile per ciascuno Stato partecipante, i quali sono pubblici ministeri nazionali che riceveranno istruzioni e direttive solo dal livello centrale della Procura e solo ad esso risponderanno del loro operato, anche se potranno continuare ad esercitare le proprie funzioni di procuratori nazionali ove il core business della loro attività lasci sufficiente tempo a disposizione. Nonostante il ruolo costantemente spiegato da parte dell’Italia al fine di salvaguardare l’iniziale livello di ambizione dello strumento, nel corso della intera trattativa si è assistito ad un progressivo slittamento dei poteri decisionali dell’EPPO dal livello centrale verso la dimensione nazionale (rafforzando il c.d. “national link”). Si è così dato vita ad un sistema nel quale le inchieste su frodi commesse in Italia verranno in concreto condotte da un procuratore delegato italiano che risponderà nella sostanza al “suo” procuratore europeo di riferimento, anch’esso italiano; sull’attività di entrambi la competente camera permanente potrà esercitare una vigilanza che non potrà che rivelarsi limitata, per ragioni di lingua, conoscenza del sistema giuridico, etc. e con possibilità assai ridotte di avocare i procedimenti al livello centrale e, più in generale, di intervenire incisivamente su quello decentrato. Il regolamento è in vigore dal 20 novembre 2017, ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 31 ottobre della L.283. Verranno a breve messe in cantiere le attività propedeutiche alla sua concreta entrata in funzione, a cominciare dalle procedure di selezione del procuratore capo e dei procuratori europei, che si svolgeranno nel corso del 2018, e dalla predisposizione del regolamento di procedura. Il concreto avvio delle indagini e delle azioni penali potrà però avvenire a non meno di tre anni di distanza dall’entrata in vigore e sarà dunque solo a partire dal 2021 che verremo verosimilmente ad assistere al concreto inizio dell’attività del nuovo organismo dell’Unione. Nonostante i segnalati limiti inerenti la sua struttura e funzionamento, la Procura europea può comunque venire considerata un unicum nel panorama mondiale, proponendosi come dotata di reale natura sovranazionale e potendo operare sul territorio degli Stati membri (partecipanti) attraverso autonomi poteri di intervento senza necessità di rivolgere richieste di cooperazione agli stessi a differenza di quanto avviene per le Corti internazionali delle Nazioni Unite, quali l’ITCY o l’ICC. Il momento della concreta entrata in attività del nuovo organismo sarà cruciale e segnerà l’atteso momento della verità per il suo funzionamento. Nel frattempo, sono già state da più parti avanzate proposte dirette al possibile allargamento della competenza della Procura europea al fine di ricomprendervi anche i più gravi reati transnazionali tra cui, in particolare, il terrorismo, come espressamente consente il Trattato, pur subordinatamente al raggiungimento dell’unanimità in seno al Consiglio europeo. L’Italia, con i ripetuti interventi del Ministro della Giustizia a sostegno di tale prospettiva, successivamente rilanciata anche dai Presidenti della Commissione europea e del Parlamento europeo e dal Presidente della Repubblica francese, si colloca in prima fila in un processo di estensione delle competenze che appare riscuotere interesse crescente: la stessa Commissione ha annunziato per il prossimo anno, parallelamente alla revisione dello statuto dell’Ufficio di lotta antifrode (OLAF), l’adozione di una comunicazione “in prospettiva 2025” che verrà anche ad affrontare il tema della possibile estensione del mandato dell’EPPO ai reati di terrorismo. All’interno del quadro a tinte fosche descritto in apertura, l’istituzione della nuova Procura sembra dunque recare qualche spiraglio di luce, soprattutto se essa sarà posta in condizione di operare con reale efficacia anche in vista della possibile futura espansione delle sue competenze. La risposta da offrire alle sfide globali poste dal terrorismo e dal crimine organizzato transnazionale non può infatti che trascendere il territorio, non di rado assai angusto, dei singoli Stati membri di un’Unione che già da tempo si è assegnata, sin dai suoi trattati costitutivi, l’obbiettivo di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia. Lorenzo Salazar

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Armando D’alterio

Riflessioni sulla corruzione e sugli indici di percezione del fenomeno in Italia ed in altri Paesi Sommario: 1. Il fenomeno della corruzione e case study. – 2. Rapporto Eurojust. – 3. Aspetti positivi del contrasto. – 4. Aspetti negativi del regime di contrasto. Abstract The last Corruption perception index by Transparency international places Italy in n. 60 position, among 176 Countries in the world. The author, who has a very long resume as prosecutor and is now general prosecutor in Potenza, points out that the index does not aim to reflect the real spectrum of corruption, nor to measure the efforts to contrast the phenomenon. In his view, n 60 position seems to reflect more the scarce statistics of corruption cases finally sentenced and the consciousness of ancient weaknesses of the legal system, than the real entity of the criminal phenomenon, also in comparison with its diffusion in those countries that are rewarded by a best rank in Transparency International classification. The report then makes the example of investigations in countries covering respectively n. 19 e n. 41 positions in Transparency index, concerning cases of huge and serious corruption, which are rarely found in the Italian national experience. Furthermore, quoting positive reforms of the Italian system (as the reform of statutory limitations, the setting up of Anac – the national anti-corruption agency, finally structured in 2014 – the implementation of U.E. Directives on seizure and confiscation of proceeds of crime (legislative decrees n. 35/ 2016 and n. 137/2015) the implementation of U.E. directives concerning investigating joint teams (legislative decree n. 34/2016) and the introduction in criminal proceedings concerning corruption and similar offences, of the mitigating circumstance pertaining to the collaboration by the defendant (art. 323 bis co. 2 c.p., introduced by art. 1 of statute n. 69/2015) he finally wishes for the introduction in the Italian legal system of the possibility to contrast corruption with under-cover activities of police officers, an investigative tool already allowed by art. 9 of n. 146/2006 statute also for offences which, according to the Italian penal code, are punished by penalties less heavy than those provided for corruption offences. L’ultimo indice di percezione della corruzione elaborato da Transparency international colloca l’Italia nella posizione n. 60, fra 176 Paesi nel mondo. L’autore, a lungo pubblico ministero, ora procuratore generale in Potenza, evidenzia che l’indice non riflette la reale entità della corruzione, né misura gli sforzi del Paese nel contrasto del fenomeno. In tale prospettiva, la posizione attribuita all’Italia sembra riflettere maggiormente le scarse statistiche dei procedimenti penali concernenti la corruzione che giungono a sentenza di condanna che la reale entità del fenomeno criminale, anche a confronto con la diffusione dello stesso in Paesi che fruiscono di un indice migliore, secondo Trasparency international. A tale proposito viene fatto l’esempio di indagini condotte in Paesi che ricoprono posizioni ampiamente migliori nell’ambito della classifica, concernenti tuttavia casi di estesa e grave corruzione, che possono raramente ritrovarsi nella esperienza italiana. Inoltre, citando positive riforme del sistema italiano (la riforma della prescrizione, il definitivo consolidamento, fra il 2012 ed il 2014, dell’ANAC come Agenzia nazionale anticorruzione, l’attuazione di direttive europee concernenti il sequestro e la confisca dei profitti del reato e l’attenuante prevista dall’art. 323 bis co. 2 c.p., riconosciuta al responsabile di reati contro la pubblica amministrazione che fornisca collaborazione) l’autore auspica infine l’introduzione nel sistema italiano della possibilità di utilizzare per il contrasto della corruzione l’attività degli agenti sotto copertura, già consentita per reati di minore gravità rispetto al fenomeno in argomento.


Armando D’alterio

Un’analisi comparativa del fenomeno non può prescindere dal riferimento agli indici di Corruzione percepita (indice Transparency international), per evidenziare che i nostri alti livelli di corruzione percepita sono anche – o forse soprattutto – il riflesso della percezione dei bassi livelli della corruzione processata e sentenziata nel merito nelle valutazioni delle fonti interpellate, più che dell’entità della diffusione del fenomeno. Va ricordato che l’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International misura la corruzione nel settore pubblico e politico di 176 Paesi nel Mondo. L’ultimo indice di Percezione della Corruzione colloca l’Italia al 60° posto nel mondo (con l’attribuzione dell’indice di punteggio 47, migliore di tre punti rispetto ai precedenti e quindi sostanzialmente equidistante fra lo 0, indice della minima corruzione, ed il 100, indice della massima. In Europa siamo tuttavia fra gli ultimi, seguiti solo da Grecia e Bulgaria, rispettivamente al 69° e 75° posto della classifica mondiale, mentre risultano virtuosi Danimarca, Nuova Zelanda, Finlandia e Svezia, non a caso forse proprio i Paesi caratterizzati da legislazioni avanzate su accesso all’informazione, diritti civili, apertura e trasparenza dell’amministrazione pubblica. Sul versante opposto, quello dei Paesi meno virtuosi, secondo quanto ritenuto da Transparency international (e non solo): “This year’s results highlight the connection between corruption and inequality, which feed off each other to create a vicious circle between corruption, unequal distribution of power in society, and unequal distribution of wealth. In too many countries, people are deprived of their most basic needs and go to bed hungry every night because of corruption, while the powerful and corrupt enjoy lavish lifestyles with impunity”. – José Ugaz, Chair of Transparency International The interplay of corruption and inequality also feeds populism. When traditional politicians fail to tackle corruption, people grow cynical. Increasingly, people are turning to populist leaders who promise to break the cycle of corruption and privilege. Yet this is likely to exacerbate – rather than resolve – the tensions that fed the populist surge in the first place”. Ogni commento è superfluo. Ciò premesso, partendo dalla considerazione relativa ai minimi dati statistici concernenti la corruzione processata – dati obbiettivi, che conseguono in larga parte al nostro regime dell’istituto della prescrizione1, ben lungi, anche dopo la recente riforma, dall’aspirare alla limitazione dell’istituto alla fase delle sole indagini, come invece accade nella maggioranza degli ordinamenti – v’è da chiedersi in che misura essa danneggi il nostro indice di percezione del fenomeno ed allo scopo analizzare le esperienze giudiziarie di altri Paesi.

1. Il fenomeno della corruzione e case study. La verifica consente di affermare che anche fra i Paesi con indici largamente inferiori al nostro il fenomeno è non meno grave.

1 Si ritiene che il 10% dei processi di corruzione italiani venga bloccato dalla prescrizione contro la media degli altri stati europei che oscilla tra lo 0,1% e il 2%. Nel caso della corruzione internazionale il dato relativo alle indagini prescritte salirebbe al 62%.

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Riflessioni sulla corruzione e sugli indici di percezione del fenomeno in Italia ed in altri Paesi

È il caso degli Stati Uniti d’America e della Spagna – rispettivamente al 18° e 41° posto nella classifica di Trasparency international del 2016 (l’ultima ad oggi disponibile) quindi classificati meglio dell’Italia, che si colloca al 60° posto. Ebbene, dal rapporto annuale FBI per il 2005 può trarsi la descrizione del seguente, sintomatico, caso giudiziario. Case Study 4.1: Operation Greylord Si tratta di un caso affrontato dalla giurisprudenza Americana relativo a corruzione in una contea dell’Illinois, la contea di COOK, nella quale sussistevano sospetti che processi penali fossero oggetto del versamento di tangenti a favore di giudici e pubblici ministeri al fine di ottenere l’assoluzione. Previa informativa all’Attorney federal, l’FBI iniziò un’operazione sotto copertura, durata ben quattro anni di indagini preliminari. Già questo la dice lunga sulle minori opportunità offerte dal nostro codice, che avrebbe imposto un termine complessivo di un anno e sei mesi (massimo 2 anni) e proroghe (notificate agli indagati) già a partire dal primo semestre, incompatibili con il segreto che l’operazione under cover esige. Furono infatti impiegati agenti FBI provvisti dell’abilitazione forense, che assunsero il ruolo di pubblici ministeri e di avvocati difensori in vari procedimenti. Inoltre, l’FBI ottenne che un pubblico ministero ed un giudice venissero assegnati alla Contea interessata per trattare effettivamente una serie di procedimenti già pendenti, in accordo con gli investigatori, al fine di assicurare la collaborazione necessaria per individuare i casi sospetti e i responsabili. Un’operazione a tenaglia, dunque, in cui i giudici, i PM ed i difensori corrotti si trovarono circondati, da un lato dagli investigatori sotto copertura con funzioni di PM e avvocati, dall’altro da un giudice ed un PM effettivi. Grazie alle intercettazioni dei colloqui intrattenuti dagli agenti under cover con i soggetti corrotti agenti presso la contea, furono registrate centinaia di conversazioni con giudici e legali che rivelavano che i giudici abitualmente accettavano tangenti per archiviare i casi ovvero per assegnarne le difese di ufficio. Ne consegue che furono condannati 15 giudici e 49 avvocati che scontavano periodi di detenzione in carcere.

2. Rapporto Eurojust. Tornando in Europa, dal rapporto di Eurojust per il 2016 si legge di un’indagine in Spagna su corruzione e riciclaggio di danaro in operazioni di commercio internazionale che ha inizio nel 2013, a seguito di una richiesta di assistenza giudiziaria proveniente dal Lussemburgo, dalla quale emergeva che parte dell’attività criminale lì svolta era diretta da soggetti residenti in Spagna. Erano coinvolte pubbliche istituzioni africane (angolane) ed enti pubblici e privati in Spagna. La pratica illecita vedeva agire la polizia nazionale angolana quale committente della fornitura, da parte di amministratori di un ente pubblico spagnolo, di veicoli, uniformi ed altre provviste logistiche. Nell’ottobre 2014 il giudice istruttore del Lussemburgo chiudeva il caso e trasmetteva gli atti per competenza alle autorità spagnole, sotto forma di scambio di informazioni ai sensi dell’art. 7 della convenzione europea di assistenza giudiziaria del 29 maggio 2000. Si scoprì che le autorità dell’Angola avevano pagato più di 150 milioni di euro per acquistare beni del valore inferiore a 50 milioni, il residuo costituendo l’importo totale delle tangenti pagate ai terminali spagnoli e angolani dell’illecito, tangente occultata in una rete di conti bancari sparpagliati fra Angola, Paesi europei e Spagna.

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Armando D’alterio

Decisiva allo scopo fu una richiesta di mutua assistenza trasmessa nel 2015 dagli inquirenti spagnoli a quelli angolani ai sensi della Convenzione di Merida, la Convenzione del 2003, che l’Italia ha seppur tardivamente, ratificato. Grazie anche alla collaborazione richiesta dalle autorità spagnole ad Eurojust nel giugno 2015, fu instaurata cooperazione con le autorità di Lussemburgo, Belgio, Svizzera, ai sensi della convenzione OCSE “On Combating Bribery of Foreign Public Officials in International Business Transactions” (Parigi 17 dicembre 1997)”. Ulteriori richieste di assistenza furono inoltrate in Francia, Italia, Portogallo e UK nell’ ottobre 2015. Grazie alla collaborazione di Eurojust, il processo pende in Spagna dallo scorso anno nei confronti di numerosi imputati. Dunque, quanto esposto offre uno spunto di riflessione sul fenomeno della corruzione, che in Italia risulta essere grave, gravissimo, ma non quanto denuncia il livello di corruzione percepita; non siamo certo soli né in Europa, né nel mondo; non è dunque vero che l’Italia sia un paese irrimediabilmente corrotto. Il che significa che a. molto può essere fatto, b. non poco è stato già fatto, anche se non basta affatto.

3. Aspetti positivi del contrasto. In tale ambito va valorizzata la sequenza di riforme degli ultimi anni: - L’istituzione dell’ANAC fra il 2012 e 2014, allorché si è completata la ristrutturazione del sistema che ad essa fa ora capo, fra riforme e fusioni di pregressi istituti - L’emanazione dei decreti legislativi n. 35 del 2016 (sequestro del prezzo o proventi reato in ambiti Ue) n. 137 del 2015 (art 14 per divisione del bene o valori confiscati) la ratifica con legge 116 del 2009, per ambiti extra ue della Convenzione Onu di Merida Onu, del 2003, che ha introdotto gli artt. 740 bis e ter c.pp (che disciplinano l’attribuzione del bene sequestrato allo stato emittente). - L’attenuante della collaborazione, introdotta con l’art. 323 bis co. 2 c.p., comma aggiunto dall’art. 1 l.n. 69/2015, che riduce la pena da un terzo a due terzi per chi ha collaborato ad evitare le conseguenze ulteriori del reato, contribuito a ricostruire responsabilità, sequestrare somme ed utilità trasferite per i reati di cui agli artt. 318,319, 319 ter, 319 quater. - La riforma del reato di corruzione fra privati che ora sanziona anche la condotta, anche al di fuori degli ambiti delle società commerciali, estendendola all’amministratore di ente di qualsiasi tipologia. Si tratta del decreto legislativo n. 38 del 15.3.2017 che, modificando le previsioni dell’art. 2635 c. civ., in attuazione della decisione Quadro Del Consiglio UE n. 568/2003 (previsioni analoghe a quelle della Convenzione di Merida del 2003) prevede la pena della reclusione da uno a tre anni per gli amministratori, direttori generali sindaci e liquidatori di società o enti privati che sollecitano o ricevono danaro o altra utilità o accettano promessa o offerta per compiere un atto in violazione degli obblighi d’ufficio o obblighi di fedeltà. Prevede la perseguibilità d’ufficio del reato, allorché la condotta abbia prodotto una distorsione della concorrenza nell’acquisto di beni o servizi, nonché l’applicabilità della confisca per equivalente.

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Riflessioni sulla corruzione e sugli indici di percezione del fenomeno in Italia ed in altri Paesi

4. Gli aspetti negativi del regime di contrasto. Aspetto negativo del contrasto è indubbiamente costituito dal c.d. spacchettamento del reato di concussione nelle fattispecie di cui all’art. 317 c.p. e 319 quater c.p., conseguito alla riforma del 2012 (l. 6 novembre 2012, n. 190). L’indebolimento del sistema è evidente ove si tenga conto di quanto deciso dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 10/2013, in data 24.10.2013 (e, successivamente, in senso conforme, Cass. Pen. Sez. VI, 10.3.2015, dep. 28.5.2015, n. 22526) che, partendo dalla giurisprudenza formatasi prima della scomposizione della fattispecie unitaria di cui all’art. 317 c.p. conseguita alla riforma con l. 6.11.2012 n. 190, giunge ad ulteriori sviluppi, attraverso un’interpretazione del discrimine fra le due nuove ipotesi (317 e 319 quater c.p.) fondato sulla rilevabilità, nel soggetto destinatario dell’induzione, di un interesse conforme allo scopo illecito perseguito dal pubblico ufficiale agente. L’effetto è: - La non punibilità, in assenza dell’interesse all’atto pubblico da parte del soggetto indotto, del pubblico ufficiale inducente (oltre che del privato destinatario dell’induzione); - il crollo delle denunce da parte del privato indotto (divenuto concorrente nel reato nell’ipotesi di fattispecie punibile). Quanto sia ancora da fare, è evidente ove si consideri prima di tutto l’esigenza di garantire l’estensione ai reati di cui all’ art. 323 bis co 2 c.p. (reati contro la P.A., inclusa la corruzione) per cui è già prevista la speciale attenuante per la collaborazione, della possibilità di attivare operazioni sotto copertura, ora consentita, ai sensi dell’art. 9 l. 146 del 2006, solo per le indagini concernenti reati di estorsione, sequestro di persona a fini di estorsione, riciclaggio e reimpiego di profitti delittuosi, contraffazione di marchi, traffico di migranti clandestini, stupefacenti, terrorismo ed eversione, per i reati inoltre di cui al libro 2° titolo XII, capo III, sez. I c.p. -delitti contro la libertà individuale- fra cui, oltre a reati come la riduzione in schiavitù, lo sfruttamento della prostituzione e la pornografia minorile, vi è anche il reato di cui all’art. 603 bis c.p., concernente l’ intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, punito con la reclusione da cinque a otto anni, quindi con pena ben inferiore rispetto a quelle previste per i reati di corruzione (art. 319 c.p.: reclusione da sei a dieci anni), 319 ter c.p. ( reclusione da sei a dodici anni) 319 quater c.p. ( reclusione da sei a dieci anni e sei mesi). In sostanza, l’istituto non trova applicazione per reati di non minore disvalore rispetto a quelli per i quali è previsto e parimenti caratterizzati, nelle frequenti ipotesi di corruzione sistematica e diffusiva, da un contesto pluripersonale fruente di molteplici e multiformi complicità, nel quale le operazioni sotto copertura trovano campo di azione elettivo. Da un punto di vista sistematico, ben più invasivo rispetto alle operazioni sotto copertura, è il prelievo del dna, eppure previsto per i delitti non colposi, tentati o consumati, per i quali è prevista la pena superiore nel massimo a tre anni. Ricordiamo tuttavia che le operazioni sotto copertura, legittimamente autorizzate, costituiscono causa di impunità per l’operatore di p.g. con riferimento a reati di acquisto ricezione, occultamento danaro, armi, falsificazione documenti, stupefacenti, ricezione o acquisto di beni provento di reato o mezzo, ovvero altre attività prodromiche e strumentali; ebbene, a tutela delle esigenze di proporzionalità, ove si intendesse estendere l’istituto anche alle indagini per reati di corruzione ed affini, sembra evidente l’opportunità di escludere in tal caso l’applicabilità della causa di non punibilità alle condotte relative ad armi e stupefacenti, difficilmente ricollegabili al reato di corruzione oggetto d’indagine. Potenza, 12.10.2017

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L’Agenda 2030 ed il principio della sostenibilità nel diritto internazionale Sommario: 1. Definizione di sviluppo sostenibile. – 2. Nuove sinergie tra l’Agenda 2030 ed il tessuto degli organismi internazionali. – 3. Conclusioni. Abstract Agenda 2030, an important strategic document in which the expectations and needs of both the developing and the advanced economies have been simultaneously reflected, is based on a holistic approach to sustainable, universal, indivisible and interconnected Sustainable Development Goals, more aware of the interrelations between the various Sustainable Development Goals (SDGs), articulated in 169 targets to be achieved by 2030. Agenda 2030 encloses the three dimensions of sustainable, social, economic and environmental development - for the first time expressed in a single document, which has universal legitimacy and is aimed at global implementation. There is growing importance and new synergies between Agenda 2030 and international bodies. Most of the SDGs have been studied and elaborated in recent decades by UN specialized agencies. Related data bases, such as UNCTAD for international trade, ILO for work, UNEP for environmental records, WHO for health and many others, are part of a know-how highly qualified of such Agencies that have faced sustainability issues well before 2015 and will continue to do so for the implementation of SDGs in collaboration with national governments and, according to the innovative spirit of Agenda 2030, also with other relevant stakeholders (multi-stakeholder approach, reiterated to SDS No. 17). L’Agenda 2030, importante documento strategico in cui le aspettative e le esigenze sia dei Paesi in via di sviluppo che delle economie più avanzate sono state contemporaneamente riflesse, fissa 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile a valenza universale, indivisibili e interconnessi, secondo un approccio olistico, più consapevole delle interrelazioni tra i vari SDGs (Sustainable Development Goals-SDGs), articolati in 169 Target da raggiungere entro il 2030. L’Agenda 2030 racchiude le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile-sociale, economico, ambientale- per la prima volta espresse in un unico documento, dotato di legittimazione universale e mirante ad un’attuazione globale. Vi è una crescente importanza e nuove sinergie tra l’Agenda 2030 ed il tessuto degli organismi internazionali. La maggior parte degli SDGs è stata studiata ed elaborata negli ultimi decenni da Agenzie specializzate dell’ONU. Le basi dati correlate, come quelle dell’UNCTAD per il commercio internazionale, dall’ILO per le attività di lavoro, dall’UNEP per i record ambientali, dall’OMS per le questioni sanitarie e per molti altri, sono parte di un know-how molto qualificato di tali Agenzie che hanno affrontato questioni di sostenibilità ben prima del 2015 e continueranno a farlo per l’attuazione degli SDGs in collaborazione con i governi nazionali e, secondo lo spirito innovativo dell’Agenda 2030, anche con altri importanti stakeholders (cd. multi-stakeholder approach, ribadito all’SDG n.17).

1. Definizione di sviluppo sostenibile. Il concetto di sviluppo sostenibile, secondo la definizione che per primo ne diede nel 1987 il Rapporto Brundtland della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED)1,

1 Nel 1983 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite affidò alla “World Commission on Environment and Development”, la redazione di un rapporto sulla situazione mondiale dell’ambiente e dello sviluppo. Il Rapporto, dal titolo “Our Common Future”, è rimasto noto come Rapporto Brundtland, dal nome del Primo ministro norvegese, Gro Harlem Brundtland, che presiedeva la Commissione.


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implica che qualsiasi attività umana che miri a soddisfare i bisogni dell’attuale generazione non comprometta la capacità delle generazioni future di rispondere alle loro necessità. Una società sostenibile è sinonimo di capacità di garantire un futuro alle prossime generazioni attraverso una progressiva riduzione delle emissioni di gas serra ed una maggiore equità sociale ed economica a livello globale. Nel 1992, a tale concetto di equità intergenerazionale farà richiamo la Dichiarazione finale della Conferenza ONU di Rio su ambiente e sviluppo2. Nel 2000, l’Assemblea generale dell’ONU adotta gli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals-MDGs)3, un “overarching development framework” varato per un arco temporale di 15 anni. All’approssimarsi di tale termine, nel 2012, la Conferenza ONU “Rio +20” nel suo documento finale “The Future We Want”, avvia numerosi processi internazionali su temi cruciali per il futuro del pianeta, tra cui la definizione di nuovi Obiettivi globali, come seguiti dell’agenda allo sviluppo post-20154. Quando l’Assemblea Generale dell’ONU adotta il 25 settembre 2015 la Risoluzione “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development”, conosciuta comunemente come Agenda 20305, un complesso processo politico internazionale durato decenni viene finalmente raggiunto, consacrando a livello globale il concetto di sostenibilità6. L’Agenda 2030 fissa 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals -SDGs), articolati in 169 Target da raggiungere entro il 2030. Essa fornisce un importante documento strategico in cui le aspettative e le esigenze sia dei Paesi in via di sviluppo che delle economie più avanzate sono state contemporaneamente riflesse. La logica dei precedenti MDGs adottati nel 2000, che si concentrava quasi esclusivamente sulle attività di cooperazione allo sviluppo, è stata così sostituita da un nuovo quadro globale che ne colma le lacune, attraverso 17 Obiettivi a valenza universale, indivisibili e interconnessi, secondo un approccio olistico, più consapevole delle interrelazioni tra i vari SDGs. L’Agenda 2030 racchiude le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile -sociale, economico, ambientale- per la prima volta espresse in un unico documento, dotato di legittimazione universale e mirante ad un’attuazione globale. Un’Agenda tutta ispirata al dovere etico del “noone must be left behind”, anche perché come nota l’economista Thomas Piketty “le refus de compter fait rarement le jeu des plus pauvres”7. La prassi internazionale non ricorda alcun documento ufficiale che miri a tutti gli Stati delle Nazioni Unite in quasi tutti i settori delle politiche nazionali e internazionali e condivide in

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Rio Declaration on Environment and Development, UN doc. A/CONF.151/26, del 12 agosto 1992. UN Millennium Declaration, Ris. n.55/2 dell’8 settembre 2000. 4 Conferenza ONU sullo Sviluppo Sostenibile (UNCSD-United Nations Conference on Sustainable Development), denominata anche Rio+20, in quanto tenutasi a 20 anni di distanza dal Vertice della Terra di Rio del 1992. Svoltasi anch’essa a Rio, dal 20 al 22 giugno 2012, con l’obiettivo di rinnovare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile, il suo documento finale è stato recepito nella Risoluzione dell’Assemblea Generale A/RES/66/288, adottata il 27 luglio 2012. 5 Ris. A/RES/70/1. 6 È possibile sostenere, con essa, l’avvento di un’epoca di post-globalizzazione, “regolamentata” dagli SDGs. Il processo di globalizzazione, inteso come una crescente integrazione economica, finanziaria, sociale e culturale a livello mondiale in assenza di regole e principi ordinatori, è iniziato negli anni’90 e può considerarsi concluso proprio negli anni che danno vita all’Agenda 2030. Essa inaugura una fase nuova, in cui si avverte l’esigenza che la crescita e le relazioni su scala mondiale non siano più sregolate e sbilanciate, ma piuttosto guidate da un quadro regolatorio, con regole universali nel senso indicato dai criteri della sostenibilità. 7 T. Piketty, Le Capital au XXI siècle, ed. du Seuil 2013, 950. 3

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parallelo, sin dall’inizio, un tale consenso inconfutabile, espresso dall’impegno contemplato al punto 60 della Risoluzione stessa: “60. We reaffirm our strong commitment to the full implementation of this new Agenda. We recognize that we will not be able to achieve our ambitious Goals and targets without a revitalized and enhanced Global Partnership and comparably ambitious means of implementation”. La definizione complessiva di tali ambiziosi obiettivi e, in prospettiva, l’importante aspetto della loro misurabilità implicano che l’attuazione tenga conto delle interrelazioni fra SDGs secondo un approccio coerente e finiscono per incidere, in ultima analisi, sulle condizioni di pace e sicurezza globali (“sustaining peace” nel linguaggio onusiano della Risoluzione 2282 adottata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza il 27 aprile 2016)8. L’elenco dei 17 SDGs non è solo un catalogo di aspettative indistinte: ogni obiettivo è riferito ad un sistema di misura da svolgere a livello nazionale e globale e la stessa Agenda 2030 prevede un articolato meccanismo di “monitoring e review” facente capo alle Nazioni Unite, ove un ruolo centrale viene riconosciuto al Forum Politico di Alto Livello (HLPF, High Level Political Forum), che esamina le presentazioni nazionali volontarie dell’applicazione dell’Agenda globale.

2. Nuove sinergie tra l’Agenda 2030 ed il tessuto degli organismi internazionali. È un dato della prassi internazionale come ormai, a due anni dalla sua adozione, l’Agenda 2030 venga recepita e assimilata sempre più nelle dinamiche internazionali, con policies dirette al rispetto di tali obiettivi, analizzandone l’impatto rispetto all’evoluzione della prassi convenzionale e degli strumenti non giuridicamente vincolanti di soft law. Vi è una crescente importanza e nuove sinergie tra l’Agenda 2030 ed il tessuto degli organismi internazionali che sempre più sono impegnati a trasporre ed integrare, in termini adempitivi, tale visione olistica nei propri scopi istituzionali (“mainstreaming”). La maggior parte degli SDGs è, del resto, stata studiata ed elaborata negli ultimi decenni da Agenzie specializzate dell’ONU. Le basi dati correlate, come quelle dell’UNCTAD per il commercio internazionale, dall’ILO per le attività di lavoro, dall’UNEP per i record ambientali, dall’OMS per le questioni sanitarie e per molti altri, sono parte di un know-how molto qualificato di tali Agenzie che hanno affrontato questioni di sostenibilità ben prima del 2015 e continueranno a farlo per l’attuazione degli SDGs in collaborazione con i governi nazionali e, secondo lo spirito innovativo dell’Agenda 2030, anche con altri importanti stakeholders (cd. multi-stakeholder approach, ribadito all’SDG n.17). Quali saranno, sul piano giuridico del diritto internazionale, gli effetti del principio di sostenibilità, attraverso l’esprimersi di una prassi “adempitiva” degli SDGs sempre più costante e uniforme? È sempre più evidente ormai che tali prassi venga accompagnata da una crescente sensibilizzazione non solo degli Stati e delle Organizzazioni internazionali, ma anche della società civile e degli stakeholder pubblici e privati, nel senso di una doverosità di adempiere agli obblighi internazionali in chiave “sostenibile”.

8 L’attuazione dell’Agenda 2030 rientra appieno nella visione di “pace sostenibile” (sustaining peace) delineata dalla Risoluzione n.2282. Tale visione abbraccia l’intero ciclo della pace, dalla prevenzione del conflitto alle operazioni di peacekeeping con i contributi delle entità regionali e sub-regionali (Unione Africana, NATO, OSCE e UE), fino ai percorsi di stabilizzazione post-crisi.

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Questi dati di fatto suggeriscono la domanda se siamo già di fronte al coagularsi di una prassi e di una opinio iuris tali da consolidare in termini giuridicamente vincolanti il principio di sviluppo sostenibile, nato con carattere programmatico, dello sviluppo sostenibile alla luce degli SDGs introdotti nel 2015, come obbligo di facere, cioè di gestire in modo razionale ed equo le risorse naturali, in un’ottica di equità intergenerazionale e di contemperamento delle politiche di sviluppo economico, ambientale e sociale. Alcune sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur senza pronunciarsi sul suo valore giuridico, hanno definito il “concetto” di sviluppo sostenibile: si pensi al caso Gabcikovo-Nagyramos (1997) in cui esso viene definito in fieri come “new norms and standards”9 in cui “this need to reconcile economic development with protection of the environment is aptly expressed in the concept of sustainable development”, oppure al caso Pulp Mills (2010) in cui la CIG ribadisce che “the balance between economic development and environmental protection [that] is the essence of sustainable development”. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’UE all’art.37, dedicato alla tutela dell’ambiente, fa riferimento al “principio” dello sviluppo sostenibile10. In ambito nazionale, il cd. Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n.152/’06) all’art.3-quater si riferisce allo sviluppo sostenibile come “principio” (“Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”). Inoltre, in continuità con i principi di Rio, l’Italia si era dotata dal 2002 di una Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile. Il suo aggiornamento, su base triennale, è previsto dalla Legge n. 221/2015, e viene curato su proposta del Ministero dell’Ambiente. L’ultimo aggiornamento è avvenuto in linea adempitiva con i 17 Obiettivi dell’Agenda 2030, e si è tradotto nella Presentazione nazionale volontaria all’HLPF presso l’ECOSOC il 18 luglio 2017 a New York. La via verso il consolidamento come norma consuetudinaria del principio di sviluppo sostenibile può dirsi incoraggiata dal Principio finale, il n.27, della Dichiarazione di Rio del 1992, che richiama gli Stati ad un adempimento dei precedenti 26 Principi secondo buona fede e per lo sviluppo progressivo del diritto: “States and people shall cooperate in good faith and in a spirit of partnership in the fulfilment of the principles embodied in this Declaration and in the further development of international law in the field of sustainable development”. Tale consolidamento passa attraverso una serie di regole accessorie, la cui giuridicità ed il carattere precettizio in taluni casi sono indiscussi, in altri dai contorni ancora incerti11. Alcune di esse sarebbero già consolidate in norme consuetudinarie, come il divieto di inquinamento transfrontaliero che arrechi danni significativi (Principio 2 della Dichiarazione di Rio, che ha come storico precedente il lodo arbitrale del 1941 Trail Smelter e che viene ripreso

9 Sentenza CIG del 25.9.1997 nel caso del Progetto Gabcikovo-Nagyramos (Ungheria c. Slovacchia), nel cui giudizio l’Ungheria invocava l’estinzione del trattato con la Cecoslovacchia per la realizzazione di un sistema di chiuse lungo il Danubio, anche sulla base del mutamento fondamentale delle circostanze (cd. principio rebus sic stantibus, art. 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969), appellandosi – tra l’altro – “allo sviluppo di nuove norme e prescrizioni del diritto internazionale dell’ambiente”. 10 Art. 37: “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”. 11 A. Tanzi, Introduzione al Diritto internazionale contemporaneo, V ed, Padova, 2016, 166.

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nel 1996 nel parere consultivo CIG sulla legalità della minaccia o uso di armi nucleari)12. Secondo l’opinione della Corte Permanente di Arbitrato (CPA) nel caso Iron Rhine (2005) è divenuto principio di diritto internazionale generale13 la stessa “no-harm rule” contenuta nel Principio 4 di Rio14 che – imponendo il dovere di prevenire il danno all’ambiente da parte di qualsiasi attività legata allo sviluppo economico – è senz’altro uno degli aspetti del principio di sviluppo sostenibile. Elementi a favore di tale tesi evolutiva, si possono trovare anche analizzando la “prassi conformativa” agli SDGs anche da parte delle organizzazioni internazionali, a cominciare dai molti fori multilaterali in materia di energia e ambiente. Va segnalato in proposito la costituzione nel 2016 di una nuova organizzazione basata a Vienna, Se4ALL (Sustainable Energy for All) nata dall’omonima iniziativa varata nel settembre 2011 del Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon15; l’OCSE si è dotata a dicembre 2016 di un apposito Piano d’Azione sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, al quale ha fatto seguito la creazione di un organismo apposito, il Consiglio OCSE sugli SDGs (“Council on the 2030 Agenda”), riunitosi per la prima volta ad aprile 2017; in ambito UE, la Commissione ha adottato la Comunicazione del novembre 2016 per l’adempimento dell’Agenda 2030, e sono attualmente all’esame del Consiglio le “draft Conclusions” per tracciare il percorso di trasposizione dell’Agenda 2030 nelle politiche dell’UE rilevanti per gli SDGs contribuendo, in tal modo, all’attuazione in ambito regionale ma soprattutto all’interno dei Paesi membri16. Analoghi elementi di indagine emergono anche dagli accordi multilaterali, come l’Agenda di Addis Abeba sul Finanziamento dello Sviluppo Sostenibile, da considerarsi parte integrante

12 Sulle sentenze sopra richiamate, i lavori di Bonfanti e Sossai, riportati in bibliografia, sono utili per ricostruire la natura del divieto di uso nocivo del territorio come un obbligo per lo Stato di prevenzione e di protezione-controllo (cd. due diligence) e come obbligazione di mezzi (“obligations to endeavour”). 13 Baetens, Freya in “The Iron Rhine Case”, nota come “the true value of the Iron Rhine award precisely lies in its search for the ‘right balance’ of sustainable development in its economic and environmental form” e nell’opinione sopra espressa nel lodo CPA, secondo cui “where development may cause significant harm to the environment, there is a duty to prevent or at least mitigate such harm [which] in the opinion of the Tribunal, has now become a principle of general international law”. 14 Il Principio 4 della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo del 1992 afferma che “in order to achieve sustainable development, environmental protection shall constitute an integral part of the development process and cannot be considered in isolation from it”, mentre il Principio 1 ricorda come “human beings are at the centre of concerns for sustainable development”. 15 L’iniziativa Se4All si prefiggeva di raggiungere tre obiettivi a livello mondiale entro il 2030: l’accesso universale a servizi energetici tecnologicamente moderni, raddoppiando sia il tasso di efficienza energetica, che la percentuale di energia rinnovabile nell’energy mix mondiale. Da luglio 2016 SE4ALL ha assunto lo status giuridico di ‘quasi-international organization’, particolare organizzazione no profit, beneficiando di una legge austriaca del marzo 2016. L’evoluzione fa salvo il legame speciale con le Nazioni Unite. Restano invariate alcune caratteristiche istituzionali proprie dell’iniziativa originale: il ruolo di rappresentante Speciale del Segretario Generale proprio del CEO, il reclutamento del personale tramite UNOPS (UN Office for Project Services), la presenza di un Advisory Board presieduto dal Segretario Generale ONU e dal Presidente della Banca Mondiale, e composto da 50 eminenti personalità (Capi di Stato e di Governo, vertici di organizzazioni internazionali, ONG ed imprese, fra cui l’AD di ENEL). SE4ALL si configura come la prima iniziativa nata in ambito Nazioni Unite che, pur mantenendo forti legami col sistema onusiano, acquisisce autonomia in funzione di una maggiore duttilità operativa. 16 “Next steps for a sustainable European future. European action for sustainability” COM (2016) 739 del 22 novembre 2016.

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dell’Agenda 2030, che ha innovato il quadro concettuale di riferimento dei tradizionali mezzi di finanziamento dello sviluppo.

3. Conclusioni. La Convenzione sulla diversità biologica (CBD)17 che tutela la biodiversità, nel cui ambito la Cancun Declaration adottata nel dicembre 2016 dalla sua COP13 (Conference of the Parties), prevede il “mainstreaming” della biodiversità in piani, programmi e politiche settoriali sostenibili. L’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, adottato da 195 Paesi alla COP21 del dicembre 2015, nell’ambito della Convenzione quadro ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC), è entrato in vigore il 4 novembre 2016. Esso è il primo accordo globalmente vincolante (“legally binding”), che stabilisce l’impegno comune di contenere il riscaldamento terrestre al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, ed è anche un esempio della interconnessione con cui operano gli SDGs. In particolare, di come gli impegni di riduzione delle emissioni clima alteranti (SDG13: promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico) si possano realizzare in modo interconnesso all’SDG7 (assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni). Sempre per quanto riguarda il livello pattizio, un aspetto del cambiamento generale in atto delle politiche commerciali ispirato dall’Agenda 2030 emerge dalla disanima delle “clausole di sostenibilità”, sempre più spesso inserite ai fini di attenuare gli squilibri e le diseguaglianze create dalla globalizzazione. Si intendono come tali quelle clausole che promuovono lo sviluppo sostenibile, in accordo agli SDGs e alla Responsabilità sociale d’impresa (RSI o, in inglese, Corporate social responsibility - CSR). Tali aspetti si intersecano nelle loro connessioni tra business & human rights (BHR)18, che dischiudono un orizzonte della sostenibilità per gli aspetti collegati all’utilizzo responsabile delle risorse umane, economiche ed ambientali, e che vanno ben oltre il tema della tutela delle condizioni di lavoro, da garantire a livelli almeno pari a quelli definiti nelle Convenzioni fondamentali dell’ILO. Si tratta di clausole CSR che richiamano lo spirito dei dieci Principi del Global Compact dell’ONU19 e riconducibili ai suoi quattro volets di protezione dei diritti umani fondamentali, diritti dei lavoratori, tutela dell’ambiente e contrasto alla corruzione, e come tali funzionali al raggiungimento di uno sviluppo sociale ed economico sostenibile, nell’alveo di una nozione d’impresa socialmente responsabile. Tali clausole sono ormai parte dell’armamentario “standard” per la negoziazione degli accordi commerciali da parte dell’UE. Anche se incorporate in via primaria negli accordi di liberalizzazione degli scambi (FTA-free trade agreements), a seguito della quasi completa attrazio-

17 Firmata a Rio de Janeiro il 5 giugno 1992, entrata in vigore il 29 dicembre 1993, e ratifica da parte italiana con Legge 14 febbraio 1994 n.124. La Conferenza delle Parti (COP) è l’organo decisionale della CBD, che ad oggi ha adottato due Protocolli di Cartagena e Nagoya. 18 In data 1 dicembre 2016 è stato adottato dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani-CIDU, il Piano di Azione Nazionale (PAN) quinquennale su Impresa e Diritti Umani 2016-2021. Il Piano attua i “Principi guida su imprese e diritti umani” (“UN Guiding Principles on Business and Human Rights”) approvati nel 2011 dal Consiglio Diritti Umani dell’ONU, fondati sui tre obblighi per gli Stati di “protect, respect, ensure access to effective remedy”. 19 Il Global Compact varato nel 2000 dall’ONU è l’iniziativa volontaristica di responsabilità d’impresa più diffusa al mondo: http://www.globalcompactnetwork.org/it/

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ne degli investimenti nella politica commerciale comune operata dal Trattato di Lisbona, esse si applicano anche agli accordi sugli investimenti, quando negoziati in via separata rispetto agli accordi di libero scambio, o negli accordi bilaterali di protezione degli investimenti (BITs) che gli Stati membri concludano con Paesi terzi, previa autorizzazione della Commissione (cd. “second generation agreements”). In chiave pattizia di adesione agli SDGs, andranno esaminate anche le “Joint Declarations” (“Dichiarazioni congiunte per una cooperazione rafforzata nel campo dell’energia sostenibile”) che dal 2014 la Commissione UE ha firmato con una ventina di Paesi in via di sviluppo in materia energetica. La ricerca sul consolidamento di prassi e opinio potrà giovarsi anche di un’analisi della politica estera internazionale, per verificare se anche in tale ambito l’Agenda 2030 diventi sempre più pervasiva di un numero crescente di dossier, in quanto declinata in chiave di «diplomazia della sostenibilità», come moltiplicazione degli sforzi diplomatici e di cooperazione allo sviluppo per affrontare le sfide scaturenti dall’impatto geopolitico dei cambiamenti climatici. Se questi ultimi agiscono come un moltiplicatore di minacce, lo scopo di una “diplomazia della sostenibilità” sta nel trovare risposte trasversali efficaci. Si tratta di un’ottica di diplomazia preventiva, che ha, tra le altre finalità, quella di preservare da situazioni di conflitto e da minacce alla sicurezza globale20. Un esempio di adempimento degli SDGs in chiave di dialogo, partenariati e coinvolgimento della società civile, università e centri di ricerca, limitatamente alle infrastrutture energetiche per l’Africa, è costituito dall’AEEP (Africa-EU Energy Partnership), piattaforma di dialogo strutturato tra UE e Africa in materia di energia, soprattutto con riferimento alla promozione delle rinnovabili. AEEP è una delle otto “Joint Africa-EU Strategic Partnerships” ( JAES) varate dalla Commissione UE nel 2007, ed è attualmente co-presieduta dall’Italia assieme alla Germania. L’azione diplomatica italiana si muove nel perseguimento di questi obiettivi di sostenibilità sul piano internazionale21. Avvalendosi della propria azione esterna tanto presso fori e iniziative multilaterali – tematiche o regionali – quanto nei rapporti bilaterali, l’Italia si adopera per affermare costantemente i criteri di sostenibilità in modo propedeutico (enabler) alla realizzazione dell’Agenda 2030, sia nella dimensione esterna che in quella domestica. La stessa Enciclica di Papa Francesco Laudato si’, espone le sfide ambientali del nostro tempo e contiene un’esplicita presa di posizione a favore dello sviluppo sostenibile, come imperativo etico e politico, invitando i Governi a dare attuazione concreta agli accordi internazionali, in un’ottica di buona fede e responsabilità: “173. Urgono accordi internazionali che si realizzino, considerata la scarsa capacità delle istanze locali di intervenire in modo efficace. Le relazioni tra Stati devono salvaguardare la sovranità di ciascuno, ma anche stabilire percorsi

20 Tali sfide sono evidenti, per esempio, in Africa, ove il tema dell’acqua e della desertificazione è all’origine di molti dei fenomeni migratori o di questioni confinarie. Numerosi paesi asiatici, d’altro lato, sono alle prese con migrazioni interne dalle aree rurali alle città, a seguito di ricorrenti inondazioni, forzando le persone a spostarsi verso aree urbane sovrappopolate. Si pensi poi all’innalzamento dei livelli del mare e agli impatti per alcuni Paesi, dalla Malesia al Bangladesh, o per gli Stati insulari del Pacifico (cd. SIDS, Small Island Developing States). 21 L’azione dispiegata dal nostro Paese, in particolare per conciliare energia e clima, si alimenta dall’affermato “international standing” che l’Italia si è guadagnata nel promuovere l’expertise tecnica delle proprie imprese sulle fonti rinnovabili. Il settore energetico globale è infatti responsabile per circa due terzi delle emissioni totali di gas serra.

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concordati per evitare catastrofi locali che finirebbero per danneggiare tutti. Occorrono quadri regolatori globali che impongano obblighi e che impediscano azioni inaccettabili, come il fatto che imprese o Paesi potenti scarichino su altri Paesi rifiuti e industrie altamente inquinanti”22. Si tratterebbero di un nuovo percorso, illuminato dal principio della buona fede e dal rispetto del principio di legalità, in attuazione dell’SDG16 sulla rule of law. In tal senso, è significativo l’emergere di una consapevolezza verso un diritto penale della globalizzazione, dal momento che, come afferma il giudice Tartaglia Polcini: “La piena condivisione internazionale di principi e di istituti giuridici di prevenzione e di contrasto incontra ancora ostacoli e in tal senso, la elaborazione scientifica del diritto può molto, sia per propiziare il dibattito che per attuare il consenso mirato all’armonizzazione internazionale tra ordinamenti, cooperazione giudiziaria e di polizia”23. Nell’ottica dei target riconducibili all’SDG16, si instaura anche in questo ambito una visione di sviluppo progressivo delle regole, di approvazione di standard internazionali per un “ambiente legalmente orientato”24. “Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale”.

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Laudato Si’, lettera enciclica sulla cura della casa comune, par. 173, 131-132, Milano, 2015. L’omonima rivista “Diritto penale della globalizzazione”, diretta da Ranieri Razzante e Tartaglia Polcini, è stata presentata al Senato lo scorso 8 maggio 2017. http://www.ilvelino.it/it/article/2017/05/08/giustizia-grasso-al-battesimo-della-rivista-diritto-penale-della-globa/8436bc70-3b65-4173-9c1e-785612366ccb/ 24 In tale contesto di trasparenza e lotta alla corruzione dell’SDG16, la nostra politica estera contribuisce ai lavori del G20, del G7 – il cui tema è stato affrontato al vertice di Elmau nel 2015 con riferimento alle “Responsible Supply Chains” e al G7 di Ise-Shima del 2016, che ha elaborato il G7 Action to Fight Corruption – e dell’OCSE, promuovendo una visione ampia del fenomeno corruttivo, da contrastare pure in ordine ai suoi collegamenti con il crimine organizzato, il riciclaggio di capitali illeciti ed il finanziamento del terrorismo. In questo quadro viene sostenuta l’importanza del coinvolgimento del settore privato e della società civile nell’ottica dell’approccio multistakeholder e la messa a punto di indicatori oggettivi – e non basati sulla percezione – per misurare l’effettiva ampiezza della corruttela. 23


Giovambattista Palumbo

L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e il pericolo dell’autoriciclaggio Sommario: 1. effettività dell’obbligazione tributaria. – 2. Deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. – 3. Conclusioni. Abstract The deflationary institutes of tax litigation are an effective means for reducing judicial litigations and for recovering tax revenue. However, the combination with the legislation about the self laundering could cause unexpected problems for operators and taxpayers. The taxpayer who subscribes a court settlement or an assessment with acceptance and then uses the difference, “spared” thanks to the tax agreement, not for personal purposes but for investments, could indeed, in theory, be accused ex art. 648 ter. 1 of the Criminal Code. The concept, then, to be clarified is the relationship between the deflationary institutes of tax litigation and the constitutional principle of the unavailability of the tax obligation. Gli istituti deflativi del contenzioso tributario sono senz’altro un efficace strumento di riduzione delle liti e di veloce incasso. L’intreccio della normativa sull’autoriciclaggio potrebbe tuttavia provocare dei problemi inaspettati agli operatori e contribuenti. Il contribuente che sottoscriva un atto di adesione o conciliazione e che utilizzi poi la differenza rispetto all’accertato per fini non meramente personali, ma utilizzando appunto quel denaro, “risparmiato” grazie all’adesione o conciliazione, per investimenti, potrebbe infatti, in teoria, rispondere del reato ex art. 648 ter. 1 del Codice Penale. Il concetto allora da chiarire è il rapporto di tali istituti deflativi con il principio costituzionale di indisponibilità dell’obbligazione tributaria.

1. Effettività dell’obbligazione tributaria. Negli ultimi tempi si parla molto di rafforzamento degli istituti deflativi del contenzioso, visti come un efficace strumento di riduzione delle liti e di veloce incasso degli introiti. Sia la procedura di voluntary disclosure che il rafforzamento dell’istituto della conciliazione confermano l’importanza che si ripone in tali procedure. La normativa sull’autoriciclaggio, tuttavia, rischia di aprire un fronte inaspettato e un vulnus alla effettiva operatività di tali istituti. Sulla base della disciplina in tema di autoriciclaggio, infatti, anche il contribuente che sottoscriva un atto di adesione o conciliazione e che utilizzi poi la differenza rispetto all’accertato per fini non meramente personali, ma utilizzando appunto quel denaro, “risparmiato” grazie all’adesione o conciliazione, per investimenti, potrebbe rispondere del reato ex art. 648 ter. 1 del Codice Penale. Il tutto sta in effetti a chiarire una questione mai in realtà approfonditamente affrontata e cioè quale sia l’effettivo rapporto di tali istituti deflativi con il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria costituzionalmente sancito. Se infatti l’accordo con il Fisco comporta una sostituzione, con effetti ex tunc, di quella obbligazione tributaria, allora è chiaro che la differenza non pagata non può essere considerata frutto del reato e dunque che non ci possa essere alcuna fattispecie di autoriciclaggio. Se invece tale accordo è motivato (e giustificato) da altra ratio (per esempio valutazione di opportunità in termini di incasso veloce e sicuro) allora il rischio potrebbe permanere.


Giovambattista Palumbo

E non da ultimo, se fosse vera quest’ultima ipotesi, si dovrebbe anche comprendere se vi possono essere eventuali profili di responsabilità erariale e se sì come possono essere valutati. In effetti la procedura di adesione o conciliazione non è certo uno “sconto”, ma una transazione (legittimata dalla legge) tesa a deflazionare il contenzioso. Tali procedure non comportano però neppure una rideterminazione dell’effettiva, originaria, pretesa, dato che se l’Amministrazione volesse rideterminare la pretesa, in quanto sbagliata, lo strumento sarebbe un altro (e senza sanzioni) e cioè l’autotutela. Quindi a ben vedere la prima ipotesi della rideterminazione dell’obbligazione con effetti ex tunc, valida nel caso dell’autotutela, non regge nel caso degli istituti deflativi, con dunque il rischio effettivo dell’autoriciclaggio. Va considerato inoltre che alcune sentenze della Suprema Corte, nel definire la natura dell’accertamento con adesione e della conciliazione, ne richiamano la natura negoziale. Con la sentenza 12314/2001, per esempio, i giudici di legittimità hanno espressamente riconosciuto nella conciliazione giudiziale una “forma di composizione convenzionale della lite tributaria nella sede del processo” operante “in deroga al principio più generale della normale indisponibilità per l’erario del credito d’imposta”. Anche successivi interventi giurisprudenziali hanno confermato tale impostazione. Con la sentenza 21325/2006, per esempio, la Cassazione, ha affermato che “la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48 attiene all’esercizio di poteri dispositivi delle parti”, essendo “concepita come una forma di composizione convenzionale della lite nella sede del processo” e “pur nella sua indubbia specificità, costituisce un istituto deflativo di tipo negoziale”. La fase dell’accertamento con adesione comporta dunque una (eccezionale) possibilità di accordo tra le parti (Amministrazione Finanziaria e contribuente) sul quantum da pagare, in particolare in vista del rischio del contenzioso e dell’anticipazione della riscossione del credito vantato (o comunque di una sua parte). Ma che l’effettiva obbligazione tributaria effettiva sia e resti quella originaria è dimostrato dal fatto che la stessa Cassazione parla di deroga al principio della indisponibilità e dal fatto che può anche succedere che l’Ufficio faccia una proposta di adesione o conciliazione e questa però poi non venga accettata dal contribuente. In questo caso, però, una volta che il contenzioso prosegue, essendo decaduta la finalità deflativa del contenzioso stesso, non è che l’Ufficio continua solo per la pretesa oggetto di proposta (come sarebbe stato se quella fosse stata l’obbligazione correttamente dovuta), ma la pretesa tributaria “torna” quella originaria, come appunto esplicata nell’atto di accertamento. Il che è un’altra conferma della effettività dell’obbligazione tributaria. E dunque ancora conferma del pericolo di autoriciclaggio per la parte non pagata a seguito del raggiunto accordo di adesione o conciliazione. Istituti per i quali, del resto, non sussiste un’esclusione espressa del reato di autoriciclaggio, come invece esiste per la voluntary disclosure (a conferma ancora che se l’esclusione non ci fosse, non esisterebbe un’esclusione generalizzata per i casi di sanatoria e/o accordo ex post). Quanto poi alla natura derogatoria rispetto al principio di indisponibilità di tali istituti si evidenzia quanto segue. L’art. 13 del R.D. 23 dicembre 1923 n. 3269 vietava al Ministero delle Finanze, ai funzionari da esso dipendenti ed a qualsiasi altra autorità pubblica sia di concedere “alcuna diminuzione delle tasse e sovratasse stabilite da questa legge” che “di sospendere dalla riscossione senza divenire personalmente responsabili” e l’art. 49 del Regolamento di Contabilità dello Stato prevede che “nei contratti con lo Stato non si può convenire alcuna esenzione da qualsiasi specie di imposte o tasse vigenti all’epoca della loro stipulazione”.

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L’art. 23 della Costituzione esclude del resto che gli organi dell’Amministrazione finanziaria possano (disporre del potere di) determinare la misura del tributo, essendo in ogni caso l’agire amministrativo, volto alla definizione del prelievo, vincolato dalla legge. Ed anche l’art. 53 Cost., che sancisce l’inderogabile dovere di tutti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva sembrerebbe escludere la disponibilità del credito tributario, pena il superamento del citato dovere costituzionale. Né istituti introdotti dal legislatore ordinario, come appunto l’adesione e la conciliazione (D.lgs. 218/1997), potrebbero derogare il dettato costituzionale. Va dunque trovata una linea di sintesi che giustifichi la (indubbia) operatività di tali istituti con l’indisponibilità di cui alla norma costituzionale e tale linea potrebbe essere trovata in una sorta di bilanciamento del principio di indisponibilità con quello dell’efficienza della pubblica amministrazione e dell’effettività della pretesa fiscale. Come risulta però dalla giurisprudenza costituzionale in tema di condono, se il bilanciamento degli interessi coinvolti può giustificare un’eccezionale deroga al principio di indisponibilità, è tuttavia necessario che siffatto bilanciamento sia rigoroso e non meramente formalistico escludendosi comunque che la disposizione del credito tributario venga lasciata alla assoluta discrezionalità dell’Amministrazione finanziaria.

2. Deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. La chiave di volta, che consente una deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, è dunque la motivazione dell’atto di adesione o conciliazione e la possibilità che tale valutazione possa essere soggetta a sindacato giurisdizionale. Una sentenza della Corte dei Conti (Sez. Giurisdizionale della Corte dei Conti del Lazio, n. 5/2007), intervenendo proprio sulla materia, ha del resto condannato un direttore e un funzionario di un ufficio dell’Agenzia delle Entrate per danno erariale, causato dalla illegittima archiviazione, nell’ambito di un procedimento di adesione, di un rilievo fiscale. Tale ultima pronuncia si poneva sul solco di altre precedenti decisioni della medesima Corte che sembravano andare tutte nella stessa direzione: l’istituto dell’accertamento con adesione non presuppone un’attività discrezionale assoluta da parte dei funzionari degli Uffici. I giudici della Corte hanno dunque analizzato la ratio dell’istituto dell’accertamento con adesione, confermando che questa sarebbe esclusivamente quella di definire, in contraddittorio con il contribuente, le pretese tributarie, anticipandone la riscossione (pur con l’evidente vantaggio della riduzione delle sanzioni) ed evitando il contenzioso. Questo però, ad avviso dei medesimi giudici, non vuol dire che bisogna chiudere a tutti i costi il relativo procedimento, poiché “gli uffici non hanno la disponibilità della pretesa tributaria, ma devono operare tenendo conto degli eventi fattuali e contabili concreti che emergono dalle singole situazioni”. Eventi fattuali e contabili di cui dunque la motivazione dell’accordo deve dare conto, evidenziando le conseguenze giuridiche che a tali eventi la legge ricollega. L’azione amministrativa dei funzionari dell’Agenzia è dunque senz’altro caratterizzata da discrezionalità tecnica “pura”, laddove la fase discrezionale si esaurisce nel momento del giudizio, mentre la scelta della misura migliore per l’interesse pubblico è posta in essere direttamente dalla legge. Solo così la deroga al principio costituzionale diventa possibile. Pertanto, in caso di discrezionalità tecnica, vi dovrebbe essere una possibilità di verifica diretta da parte del giudice in ordine all’attendibilità delle operazioni tecniche effettuate (sindacato intrinseco), in particolare per quanto riguarda la motivazione data agli atti di competenza dell’Ufficio.

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Giovambattista Palumbo

Non c’è dubbio infatti che la motivazione degli atti è il primo parametro che consente, in concreto, l’accertamento dell’eventuale danno erariale da parte della procura contabile, non tanto e non solo come sindacato sulla discrezionalità tecnica del funzionario, ma come vera e propria violazione contra legem, in particolare ai sensi dell’art. 3 della L. 241/90 in tema di obbligo di motivazione degli atti amministrativi (compresi quelli tributari), compreso il caso della non idonea motivazione, laddove il giudice contabile potrà valutare se la condotta adottata è comunque non conveniente o irrazionale alla luce dei parametri desunti dalla comune esperienza amministrativa. Questo accertamento sulla motivazione degli atti di adesione e conciliazione però, in realtà, anche se cosa ai più poco nota, da qualche anno non esiste più per l’Amministrazione Finanziaria, il che può evidentemente comportare un vulnus nella legittimità della deroga al principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria. I funzionari dell’Agenzia delle Entrate, che provvedono alla conclusione dell’adesione, della mediazione o della conciliazione, godono infatti, per legge, di una responsabilità limitata, in sede di giurisdizione dalla Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica, ai fatti ed omissioni commessi con dolo. L’art. 39, comma 10, del DL n. 98 del 2011 dispone in particolare che “Ai rappresentanti dell’ente che concludono la mediazione o accolgono il reclamo si applicano le disposizioni di cui all’articolo 29, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”. Nella specie, il citato art. 29, comma 7, secondo periodo, del DL n. 78 del 2010 prevede che “Con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate ai fini della definizione del contesto mediante gli istituti previsti dall’articolo 182-ter del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, dal decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, e dall’articolo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, la responsabilità di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata alle ipotesi di dolo”. Se la norma certo consente ai funzionari di non temere di concludere accordi deflativi, incrementando così le possibilità di incasso, impedisce però così quel filtro di controllo sulla motivazione dell’accordo, che, come detto, solo potrebbe consentire una deroga al citato principio di indisponibilità tributaria. Tale circostanza inoltre, alla luce di quanto sopra evidenziato in tema di possibile soggezione del contribuente a contestazioni di autoriciclaggio, potrebbe addirittura aprire la strada a contestazioni di concorso nel reato del funzionario che ha sottoscritto l’accordo, anche considerato che già la disciplina ordinaria in realtà tutela il funzionario pubblico, laddove l’art. 23 del DPR 3/57 dispone che è danno ingiusto solo quello cagionato da dolo o colpa grave (consistente nella sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio).

3. Conclusioni. Il richiamo al requisito della colpa grave tende dunque già a rendere meno invasivo il profilo della responsabilità del dipendente pubblico rispetto alla responsabilità comune disciplinata dall’art. 2043 Cod. civ. (il semplice requisito della colpa); diversità di disciplina che ha comunque resistito a sospetti e censure d’incostituzionalità. E allora perché rafforzare ancora tale profilo di “irresponsabilità”? E del resto neppure la sopra detta previsione normativa dovrebbe in realtà essere sufficiente ad esonerare il dipendente da responsabilità erariale, se è vero che, a tale riguardo, la Corte dei Conti ha ripetutamente affermato il principio secondo cui neppure una specifica disposi-

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L’indisponibilità dell’obbligazione tributaria e il pericolo dell’autoriciclaggio

zione legislativa liberatoria (come ad esempio l’art. 66, comma 8, del D.Lgs. n. 165/2001 sulle conciliazioni nel contenzioso giuslavoristico) vale ad esonerare dalla responsabilità erariale il funzionario che, nella gestione della controversia, abbia posto in essere atti dannosi connotati da colpa grave (oltre che ovviamente, da dolo), rinvenibile in comportamenti palesemente arbitrari o irrazionali, ovvero in macroscopiche lacune culturali e professionali. E dunque mentre non danno adito a responsabilità penale gli errori materiali o concettuali, per ipotizzare il concorso in autoriciclaggio potrebbe essere sufficiente e necessaria la consapevolezza di aver dato un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione del reato (nel caso di specie, per quanto sopra detto, individuabile in un riutilizzo delle somme evase, e in parte non pagate all’Amministrazione grazie all’accordo transattivo, per fini di investimento), anche magari “solo” a causa della “sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio”, ovvero “per macroscopiche lacune culturali e professionali”. Siamo sicuri allora, a prescindere da eventuali profili di responsabilità erariale, che la coscienza e volontà di diminuire, seppur in sede deflativa, l’originaria ed effettiva obbligazione tributaria, non possa comportare rischi penali per tutte le parti dell’accordo, che, grazie allo stesso accordo, hanno di fatto consentito il riutilizzo delle somme già oggetto dell’originario accertamento?

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Alessandro Parrotta

Amministrazione di fatto e bancarotta fraudolenta: i profili della prova nel processo penale Sommario: 1. Premesse di metodo. – 2. Il ruolo fattuale del soggetto imputato di reato. – 3. L’incidenza dell’elemento soggettivo – 4. La diminuzione patrimoniale. – 5. Le aree di sovrapponibilità. 6 – Note conclusive. Abstract The author analyzes the configurable criminal liability features at the expense of the cd. administrator in fact of bankruptcy crimes, where the proof of its effective influence in the exercise of the business activity has not been reached on the external party. The paper offers a discussion on: i. Subjects involved; ii. nature of liability here; iii. reference legal sources; and iv. symptomatic factors like this as outlined by the norms of the civil code, of the bankruptcy law and of the jurisprudence of legitimacy, reconstructing so all the fundamental elements of the de facto administrator figure in the Italian legal system, up to identify the profiles of criminal relevance L’autore analizza i lineamenti di responsabilità penale configurabili a carico del cd. amministratore di fatto nei casi di reati fallimentari, ove sul soggetto esterno non sia stata raggiunta la prova della sua effettiva influenza nell’esercizio dell’attività di impresa. L’elaborato offre una disamina articolata su: i) soggetti coinvolti; ii) natura della responsabilità de qua; iii) fonti normative di riferimento; e iv) fattori sintomatici così come delineati dalle norme del codice civile, della legge fallimentare e dalla giurisprudenza di legittimità, ricostruendo così tutti gli elementi fondamentali della figura dell’amministratore di fatto nel sistema giuridico italiano, fino ad individuarne i profili di rilevanza penale.

1. Premesse di metodo. Come da ultimo ha ribadito la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione1, viene ormai consolidato l’orientamento di legittimità in materia di elemento soggettivo del reati fallimentari e prefallimentari nell’ipotesi in cui vi sia un soggetto che abbia direttamente od indirettamente detenuto la gestione sociale: un dominus che – di fatto e nell’ambito della stessa organizzazione d’impresa – abbia esercitato le medesime prerogative che la legge riserva all’amministratore di diritto, quale a titolo esemplificativo, corrispondere saldi a fornitori, decidere se applicare sconti ed abbuoni a clienti, etc. A tal proposito appare quanto mai evidente che l’amministratore effettivo/di fatto, quantomeno sotto il profilo dell’elemento soggettivo, sia penalmente responsabile degli eventuali illeciti commessi dall’imprenditore abusato. Tale responsabilità discende direttamente dalla disciplina civilistica applicabile agli amministratori della società per azioni, per non avere impedito l’evento che essi avevano l’obbligo

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Sentenza n. 24493, depositata il 5 giugno 2013.


Alessandro Parrotta

giuridico di impedire ai sensi del combinato disposto dell’art. 40, comma 2, c.p. e dell’art. 2392 c.c. La norma qui richiamata trova la sua generi nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori delle società per azioni dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto obbligo generale di intervento preventivo e successivo, ed attiene sia agli atti pregiudizievoli conosciuti, che devono essere impediti o dei quali devono essere neutralizzati gli effetti, sia agli atti dei quali l’amministratore può venire a conoscenza, vigilando sul generale andamento della gestione societaria e, quindi, adempiendo ai doveri primari di diligenza ed a quelli strumentali di informazione. Non trattasi però di inerzia colpevole dell’amministratore di diritto (per aver esposto la società dalla condotta fraudolenta dell’amministratore di fatto), bensì di vera e propria responsabilità diretta da reato. Infatti, i reati fallimentari sono suscettibili d’imputazione ai soggetti normativamente determinati che gestiscono o controllano l’impresa. La tematica della compartecipazione criminosa può quindi porsi nei seguenti termini: a) concorso dell’extraneus in un reato proprio dei soggetti richiamati dall’art. 223 L.F.; b) nel caso di organismi collegiali, sia di amministrazione, sia di controllo, concorso dei componenti, tutti dotati di qualifica soggettiva, nel rato proprio; c) per quello che concerne organismi collegiali amministrativi, ulteriore questione quella della capacità della delega di escludere la responsabilità. Le situazioni concorsuali prospettate non presentano particolari profili problematici da un punto di vista sostanziale quando se ne ipotizzi la configurazione commissiva; diverso è il concorso morale ed il concorso omissivo - in giurisprudenza si è sostanzialmente costruita una responsabilità per il mancato “agire contro”2. In tutti i casi si tratta anzitutto di individuare la sussistenza di una posizione di garanzia penalmente rilevante ex art. 40 cpv., le sue condizioni e i suoi limiti, definibili alla stregua della disciplina civilistica di riferimento: sarà poi l’Accusa procedente a raccogliere ogni elemento d’indagine utile all’assetto accusatorio, poggiante sulle solide basi dell’analizzata disciplina civilistica.

2. Il ruolo fattuale del soggetto imputato di reato. Poiché, come noto, la bancarotta fraudolenta è reato proprio di alcuni soggetti specificatamente identificati dalla normativa fallimentare, essa non potrà ravvisarsi in capo a chi non riveste tale qualifica. Si fornisca l’esempio della recentissima pronuncia della Corte d’Appello di Genova, sezione III penale, ud. 17.10.2016 [attualmente pendente avanti la Suprema Corte di Cassazione] con

2 GUP Trib. Torino, 9 aprile 1997, Romiti e Mattioli in Giur. it., 1998, p. 1691. In proposito A. Sereni, Istigazione al reato e autoresponsabilità. Sugli incerti confini del concorso morale, Padova, 2000, 54: “Mancando una prova certa della ‘direzione unitaria’, sfuma nei comportamenti tolleranti di compiacenza o di avallo: la mancata rimozione dell’amministratore colpevole, la mancata adozione di provvedimenti disciplinari o di blocco della carriera, il mancato intervento di rettifica delle false informazioni ricevute”. Per una opposta definizione dei criteri di accertamento, Cass. pen., 16 aprile-17 giugno 1998, Craxi in Guida al dir., 1998, n. 26, parimenti commentata da A. Sereni, Istigazione, cit., 55 ss.

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Amministrazione di fatto e bancarotta fraudolenta: i profili della prova nel processo penale

la quale un responsabile vendite automobili, ruolo in ogni caso dotato di ampia autonomia commerciale e non incompatibile con una amministrazione societaria in capo ad una diversa persona, è stato ritenuto responsabile del reato di bancarotta fraudolenza della fallita società per la quale operava. Dalle audizioni testimoniali, più che come amministratrice di fatto, imputata risulta come presenza costante nei locali di vendita e quotidiana partecipe all’attività di vendita e acquisto dell’azienda (quelle cioè di un preposto alle vendite!) ed in alcun modo si riporta a lei una attività gestorea della società fallita. Un’analisi che, in chiave meno inquisitoria, è in grado di ampiamente sostenere la tesi dell’assenza nello stesso della qualifica soggettiva necessaria per la sussistenza del reato. Così per punti: - testimoni escussi (ed eccezione del curatore per cui si rinvia al terzo punto): tutti i soggetti sentiti venivano interpellati per aver intrattenuto rapporti con l’azienda fallita. I summenzionati rapporti avevano ad oggetto la vendita o l’acquisto di singoli motoveicoli: evidentemente e naturalmente i soggetti escussi riferivano di aver avuto contatti l’imputato presso la sede di esposizione e di vendita della società. Così confermavano il fatto che il medesimo fosse preposto a compiti propri del ruolo di addetto vendite cui era effettivamente adibita l’odierna imputata. Va da sé che il cliente di un motoveicolo si interfaccia col venditore e non certo con la Proprietà. - amministratore di fatto, assente: grande rilevanza era data alle attestazioni dell’amministratore di diritto della società fallita, il quale aveva, per evidenti ragioni, interessi processuali contrapposti a quelli dell’imputato e che avrebbe dovuto portare a considerarlo quale teste del tutto inattendibile; - il Curatore, estensore della relazione fallimentare: descrive l’addetto alle vendite come unica persona che gestiva e amministrava ma interviene, come ovvio per un curatore, in un momento di stasi dell’attività e non è in grado di affermare con assoluta certezza quanto sopra, non avendovi assistito direttamente. Vi è di più. Il curatore, per propri poteri istruttori, può raccogliere informazioni presso ogni soggetto che – a diverso titolo – hanno orbitato attorno all’attività decotta, ivi compresi venditori, agenti, mandanti, etc.. Deve, tuttavia, dare conto della metodologia delle proprie indagini e di come queste influiscono sulla relazione. In altri termini, la sua attività non può e non deve sostituire quella dibattimentale.

3. L’incidenza dell’elemento soggettivo. Ciò detto sugli elementi oggettivi del reato e sulla qualifica che necessariamente dovrebbe ricoprire il soggetto responsabile di una bancarotta, urge altresì considerare l’elemento soggettivo del reato. La giurisprudenza è conforme nel ritenere che, perché il dolo dell’asserito bancarottiere sia completo ed idoneo a fondare la responsabilità penale, il medesimo soggetto dovrà prefigurarsi e volere la condotta distrattiva in sé, bensì anche l’effetto dannoso che essa potrà avere rispetto allo stato di salute dell’azienda prevedendo, o accettando il rischio, del futuro dissesto. La Suprema Corte, ribadendo che “Nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione lo stato di insolvenza che dà luogo al fallimento costituisce elemento essenziale del reato, in qualità di evento dello stesso, e pertanto deve porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente, e deve altresì essere soggetto dall’elemento soggettivo del dolo” (Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502), ha infatti più volte affermato che tale consapevolezza e volizione

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Alessandro Parrotta

debbano essere oggetto di specifico accertamento e valutazione. Le recenti discipline del diritto e del processo societario rafforzano sempre più il convincimento che il rapporto esistente tra amministratore e società vada ricondotto ad un contratto di lavoro autonomo senza ulteriori aggiunte, con tutte le conseguenze in punto autonomia gestionale che ne conseguono, al pari dell’attività imprenditoriale. Come è a tutti noto, l’attività dell’amministratore, infatti, si identifica «nella gestione stessa dell’impresa sociale, tanto sotto il profilo dell’organizzazione interna quanto sul piano esterno, per il conseguimento dell’oggetto cui l’impresa stessa è preordinata, [è] un’attività ampia ed indeterminata per essere ricondotta alla mera applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche occorrenti all’adempimento delle singole prestazioni d’opera intellettuale; le quali, ove in concreto esplicate dallo stesso amministratore [...], restano [...] assorbite nel più vasto ambito della gestione dell’impresa3». E di vera e propria “gestione d’impresa” si può pacificamente argomentare sull’attività svolta dagli amministratori di diritto che altro non avrebbero potuto testimoniale – in modo del tutto inattendibile e per sgravarsi da ogni responsabilità – se non quanto dichiarato al Tribunale, non smentito dai testi a difesa che non sono stati introdotti come sopra espresso. Inoltre, è aclarato come la disciplina sostanziale in tema di accertamento di elementi sintomatici di gestione devono “risultare dall’organico inserimento del III soggetto, quale intraneus, che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione, commercializzazione dei beni/servizi, quali rapporti con i dipendenti, materiali e negoziali con fornitori, clienti, banche, professionisti e tutto ciò che regola la produttività, l’amministrazione e la disciplina societaria4“.

4. La diminuzione patrimoniale. Secondo impostazione generalmente diffusa, sono le singole condotte di depauperamento del patrimonio sociale ad assumere valore offensivo e, quindi, rilevanza penale, mentre la decisione di condurle a sanzione solo in via subordinata rispetto all’apertura della procedura concorsuale costituisce una scelta di opportunità liberamente effettuata dal legislatore penale. In tal senso, la dichiarazione di fallimento rappresenta una condizione obiettiva di punibilità di tipo estrinseco e, in quanto tale, non contribuirebbe in alcuna misura a delineare l’offesa derivante dalla condotta illecita. Invece, secondo diversa opinione, poiché nella dichiarazione di fallimento, che appare strettamente connessa al bene giuridico tutelato, è concentrato il disvalore della condotta incriminata, al punto che l’autore è punito solo se interviene la declaratoria de qua, questa non può essere ricondotta al novero delle condizioni di cui all’art. 44 c.p.. La disposizione da

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Così, Cass. Civ. 14.9.1995, n. 9692, Fa, 1996, 177; nello stesso senso v. già Cass., 11.10.1969, n. 3284, GI, 1971, I, 1, 143; Cass., 17.3.1981, n. 1554; Cass., 11.4.1983, n. 2542, FI, 1983, I, 1244; successivamente, v. Cass., 26.2.2002, n. 2769 e Cass., 23.7.2004, n. 13805. In dottrina, id pluris, v. G. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 382 s.; [inserire iniziale nome] Greco, Le società, [inserire città e anno pubblicazione], 324 s.; P. Cecchi, Gli amministratori, [inserire città e anno pubblicazione], 56; F. Galgano - R. Genghini, Il nuovo diritto societario. Le nuove società di capitali e cooperative 2, in Tratt. Galgano, 2004, 256, n. 19. 4 Così, tra tante, Cass. Pen. 12.05.2006, n. 18464, in C.P. 2006, CED, rv. 234254.

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Amministrazione di fatto e bancarotta fraudolenta: i profili della prova nel processo penale

ultimo richiamata è, infatti, norma eccezionale, che si discosta dagli ordinari principi in tema di nesso causale ed elemento soggettivo del reato, riferibile solo a quei reati nei quali la punibilità si situa al di fuori del processo esecutivo del reato e si differenzia nettamente dall’evento criminoso. Primo, imprescindibile corollario della qualificazione del fallimento come evento del reato di bancarotta, è che esso soggiace necessariamente alla disciplina ordinaria dettata dal codice in tema di elemento soggettivo e nesso di causalità. Sotto il primo profilo, il richiamo è agli artt. 42 e 43 c.p. che «costituiscono l’ossatura della responsabilità penale personale del nostro ordinamento» ed al paradigma costituito dall’art. 27 Cost., con la conseguente affermazione del principio per cui, al fine di consentire la contestazione all’autore del reato di bancarotta fraudolenta, il fallimento deve essere preveduto e voluto dallo stesso, anche nella forma sfumata del dolo eventuale. Occorre osservare che l’agente non solo deve avere consapevolezza della natura distrattiva degli atti compiuti, come sino a questo momento sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, ma deve essersi altresì prefigurato l’effetto dannoso che gli stessi potranno avere rispetto allo stato di salute dell’azienda, prevedendo o accettando il rischio del futuro dissesto. Il fallimento deve, quindi, rientrare nel fuoco del dolo e costituire oggetto di specifico accertamento. In particolare, l’imputato amministratore di fatto risulta essere extraneo alla dichiarazione di fallimento. Pertanto, non possono più trovare asilo le presunzioni più o meno assolute circa la consapevolezza da parte dell’agente dell’insolvenza, desunte sulla scorta di una valutazione ex post in ordine alla pericolosità in concreto degli atti dispositivi da quest’ultimo realizzati. Sul piano del nesso causale, poi, la premessa relativa al fallimento come evento del reato produce una pluralità di effetti. Primo tra tutti, quello discendente dal ragionamento sillogistico per cui, non essendo rintracciabili elementi costituitivi del fatto tipico che possano ritenersi causalmente svincolati dalla condotta, anche il dissesto, per poter essere attribuito all’agente sul piano materiale, dovrà essere conseguenza dell’azione o dell’omissione di questi. Ne discende che dovrà passare all’esame della lente di ingrandimento dell’interprete l’arco temporale eventualmente intercorso tra la commissione del fatto e la dichiarazione di fallimento, poiché gli atti di disposizione dei beni dell’impresa assumeranno il carattere di illecito solo in quanto costituenti condicio sine qua non dell’evento. Né tutti gli atti distrattivi, a prescindere dalla loro portata e dalla loro effettiva incidenza sul dissesto, potranno essere considerati causali del fallimento. Il nesso di condizionamento dovrà, in particolare, essere escluso nel caso in cui si siano verificate e vengano accertate serie causali apparentemente indipendenti, ossia fattori sopravvenuti che abbiano prodotto l’evento per forza propria, pur presupponendo un iter criminis precedentemente realizzato. Rimane, cioè, per ipotesi applicabile anche alla fattispecie di bancarotta fraudolenta l’art. 41, comma 2, c.p. È noto che nell’ambito dell’attività gestoria dell’impresa numerosi sono gli atti dispositivi posti in essere dall’imprenditore, di diversa natura e portata a seconda delle necessità. Essi possono, anche a fronte di una difficoltà contingente, portare nel breve-medio periodo sostanziali benefici alla società, risultando scollegati ad un successivo stato di illiquidità, la cui causa potrebbe anche essere rinvenuta all’esterno (ad esempio, una crisi economica generale o dello specifico ambito in cui l’impresa opera). In altre parole, l’accertamento sul nesso di condizionamento costituirà, in base a tale orientamento della Suprema Corte che si ritiene di sposare appieno, il discrimen sulla scorta del quale individuare le condotte rilevanti in connessione alla dichiarazione di fallimento, prima

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Alessandro Parrotta

ancora di procedere all’ulteriore verifica sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato. Una nota critica può essere espressa solo nella misura in cui, forse nel tentativo di non apparire troppo tranchante rispetto al precedente orientamento di maggioranza, il supremo Collegio sembra suggerire che l’accertamento del nesso causale tra condotta ed evento appaia necessario solo in presenza di circostanze di fatto che, come nel caso di specie, siano idonee a porre in dubbio una generalizzata presunzione (a questo punto, senz’altro relativa) di consequenzialità causale tra gli elementi del fatto tipico. La dimostrazione della consapevolezza dello stato di insolvenza in capo all’extraneus dovrà a maggior ragione assumere connotati di assolutezza ed inequivocabilità per poter orientare il giudice verso una pronuncia di condanna. Anche in base ad un’applicazione rigorosa dell’in dubio pro reo che trova la sua traduzione processuale nel limite dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma da altro verso è decisivo che la destinazione assegnata alla ricchezza pertinente al patrimonio del debitore persegua una finalità diversa rispetto all’interesse dell’impresa, sì da prospettare il pericolo della incapienza (parziale o completa) dei creditori al momento in cui faranno valere la loro pretesa. Così non è stato.

5. Le aree di sovrapponibilità. La sentenza ad esordio presa ad esempio, soprattutto per la complessità del capo d’imputazione, poi, si sofferma sulla rilevanza dell’art. 223, comma 2, l. fall., ipotesi incriminatrice che nella duplice formulazione si struttura a reato ad evento, assumendo che essa sia portatrice di “aree di perfetta sovrapponibilità”: circostanza da cui desume per tutto il perimetro del reato di bancarotta fraudolenta sia il collegamento eziologico tra condotta e dissesto sia copertura psicologica dell’evento fallimentare. Il ragionamento è sicuramente debole: le “aree di perfetta sovrapponibilità” possono rinvenirsi soprattutto tra l’art. 216 e l’art. 223, comma 1, che è disposizione non connotata da evento, mentre è assai difficile scorgere oltre l’identità invocata. Si tratta di ipotesi ben diverse da quella della bancarotta ‘propria’. Basti considerare il diverso novero soggettivo indicato dal legislatore, i ben difformi doveri giuridici che regolano le dinamiche delle operazioni societarie rispetto all’ambito operativo dell’imprenditore individuale: tanto esclude la ritenuta ‘sovrapponibilità’. Anzi, a conferma del fondamento dell’indirizzo tradizionale, si osserva che allorquando il legislatore ha inteso costruire la condotta di offesa agli interessi creditori mediante una conseguenza esterna all’azione tipicizzata, lo ha espressamente affermato mediante il richiamo al verbo ‘cagionare’ ed alla menzione espressa al rapporto di causa/effetto nella trama letterale. Proprio questa più recente novella, rispetto alla complessiva disciplina, attesta l’infondatezza del diverso assunto interpretativo. Non può sicuramente convenirsi con l’opinione per cui l’art. 223, comma 2, l. fall. svolga una funzione sostanzialmente interpretativa del sistema e, cioè, di «chiarire che i fatti di bancarotta di tipo patrimoniale in tanto rilevano in quanto abbiano qualche rilevanza nella produzione del dissesto». Invero, la previsione discende dall’art. 4 del d.lg. 11 aprile 2002, n. 61 e, dunque, da ben più recente intervento normativo rispetto all’originario compendio fallimentare (portato dal r.d. 16 marzo 1942) ed il legislatore, ove fosse stato animato da pulsione ermeneutica autentica, sarebbe intervenuto – con un tratto foriero di omogeneità – su tutte le norme fallimentari che coinvolgono le condotte di impoverimento dell’asse attivo, sancendo per tutte il nesso causale con il dissesto. Invece, ha conservato la vistosa difformità tra l’art. 216 testuale e la disposizione dell’art. 223.

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Né la dinamica del danno interferisce con le considerazioni al riguardo, essendo la medesima autonomamente regolata (ed in guisa speciale) a mezzo dell’art. 219, comma 1, l. fall. Piuttosto, volendo seguire la tesi della Corte territoriale che qui si critica, si darebbe vita ad una sostanziale, quanto irragionevole, sovrapposizione di norme incriminatrici, postoché la causazione dolosa del dissesto verrebbe a confondersi con le azioni già richiamate nella bancarotta impropria (mediante il rinvio previsto dall’art. 223, comma 1, l. fall.) ovvero supponendo un concorso formale necessario tra le norme, assunto giustamente negato dalla costante giurisprudenza.

6. Note conclusive. In verità, Tullio Ascarelli nei suoi scritti diretti a confutare la teoria dell’imprenditore occulto di Walter Bigiavi, scriveva più di mezzo secolo orsono che «non è possibile imputare un’attività indipendentemente dall’imputazione degli atti che la integrano e non è perciò possibile qualificare un soggetto in funzione dell’attività compiuta da un altro... La «spendita del nome» non è affatto un requisito che si possa aggiungere o non aggiungere agli altri necessari per qualificare l’imprenditore, ... essa invero si identifica con la imputabilità a un soggetto degli atti nei quali si concreta l’attività imprenditrice... l’art. 2082 riporta l’attribuzione della qualifica dell’imprenditore innanzi tutto all’esercizio di un’attività che a sua volta si traduce in una serie di fatti...»5. Ineccepibile.

5 T. Ascarelli, Società di persone tra società, cit., 408; e prima ancora Id., Società e personalità giuridica, in Riv. dir. comm., 1954, 129.

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Stefano Maranella

e

Maria Stefania Cataleta

Il mandato di arresto europeo nell’ordinamento italiano, il superamento del sistema estradizionale conformemente ai diritti fondamentali Sommario: 1. Il principio della fiducia reciproca. – 2. I diritti del ricercato nel M.A.E. – 3. Compatibilità del M.A.E. con la Costituzione italiana. – 4. I principi interpretativi della Suprema Corte di Cassazione alla luce dell’art. 17, comma 4 della legge n. 69/2006. – 5. L’interpretazione della dottrina. – 6. L’inversione di rotta. – 7. L’orientamento dottrinale. – 8. Conclusioni. Abstract It is following to the 2001 Nice Treaty that, in name of the mutual recognition of the judicial decisions in criminal subject, the order of European arrest is introduced, what new system simplified of delivery of individuals, investigated or already convicted, among the different judicial authorities. The approximation of the European juridical systems in criminal matters foresees, therefore, a simplified and swifter procedure of delivery of researced people, delivery at first submitted to the traditional institute of the extradition, follows to the 1957 extradition European Convention, and today to the most effective order of European arrest, that has aroused a vivacious debate in theme of respect of the guarantees of the defense and conformity to the Italian Constitution. It is in the Italian system that the Supreme Court’s interpretation of the order of European arrest is addressed to realize the goal typical of such an instrument, that is the overcoming of the extraditional procedure. Moreover, even if it keeps safe garantees, the Court changes its previous interpretation. È nel quadro del Trattato di Nizza del 2001 che, in nome del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia penale, viene introdotta la legge quadro istitutiva del mandato d’arresto europeo, quale nuovo sistema semplificato di consegna di individui, indagati o già condannati, tra le diverse autorità giudiziarie. Il ravvicinamento degli ordinamenti giuridici europei in ambito penale prevede, dunque, una procedura semplificata e più celere di consegna delle persone ricercate, consegna dapprima affidata al tradizionale istituto dell’estradizione, seguito alla Convenzione europea di estradizione del 1957, ed oggi al più efficace mandato di arresto europeo, che ha suscitato un vivace dibattito in tema di rispetto delle garanzie della difesa e di conformità alla Costituzione italiana. Proprio nell’ordinamento italiano, l’orientamento della Suprema Corte in tema di mandato d’arresto europeo è volto a realizzare l’obiettivo di tale strumento, vale a dire il superamento della procedura estradizionale. Tuttavia, pur mantenendo lo stesso obiettivo garantista, la Corte giunge a ribaltare il proprio iniziale orientamento.

1. Il principio della fiducia reciproca. Il mandato di arresto europeo (M.A.E.) è la prima concretizzazione, nel settore del diritto penale, del principio del riconoscimento reciproco, in quanto poggia su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri. Esso è, altresì, uno strumento emblematico del progressivo ravvicinamento degli ordinamenti giuridici degli Stati membri. Si tratta, in buona sostanza, della fase


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evolutiva più rappresentativa della cooperazione giudiziaria penale tra gli Stati dell’U.E.1, che, in più, preserva e tutela le garanzie costituzionali proprie agli ordinamenti nazionali2. Il M.A.E. è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro in vista dell’arresto e della consegna, da parte di un altro Stato membro, di una persona ricercata, ai fini dell’esercizio di un’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà. Gli Stati membri sono tenuti a dare esecuzione ad ogni mandato d’arresto europeo in applicazione del principio del riconoscimento reciproco (art. 1, § 2 della Decisione quadro) ed in conformità alla Decisione quadro del Consiglio n. 584 del 13 giugno 2002, adottata ai sensi degli artt. 31 e 34 del T.U.E. ed entrata in vigore il 7 agosto 2002 (in G.U.C.E. 18 luglio 2002, n. 190). Mediante tale Decisione, gli Stati membri della U.E. hanno raggiunto un accordo volto ad integrare alcune norme dei vari sistemi giudiziari europei, allo scopo di rendere più agevoli le procedure di consegna delle persone ricercate, condannate con sentenza definitiva, o in attesa di giudizio3. Si è, pertanto, passati dal tradizionale istituto dell’estradizione, strumento di natura politica, ad uno più celere e snello, predisposto per meglio tutelare la sicurezza delle comunità nazionali, degli individui e dei mercati di fronte ai rischi posti dalla quasi illimitata libertà di movimento e di circolazione delle persone, dei capitali e delle merci nel territorio dell’U.E. Il M.A.E. esclude qualsivoglia intervento politico-governativo, in quanto la sua esecuzione dipende esclusivamente dalla cooperazione tra le diverse strutture giudiziarie, in collaborazione con il Sistema di informazione di Schengen (S.I.S.) ed i servizi Interpol4. Si tratta di una procedura di consegna semplificata dove i motivi di rifiuto possono essere obbligatori, come nel caso del ne bis in idem o della non punibilità per ragioni di età (art. 3 della Decisione quadro), o facoltativi, come la prescrizione del reato nello Stato richiesto (art. 4 della Decisione quadro). Ai sensi dell’art. 2, § 1 della Decisione quadro, può essere emesso un mandato d’arresto europeo per fatti puniti dalle leggi dello Stato membro emittente con una pena afflittiva o con una misura di sicurezza privativa della libertà di durata massima non inferiore a dodici mesi ovvero, in caso di condanna ad una pena detentiva o ad una misura di sicurezza privativa della libertà di durata non inferiore a quattro mesi. Mentre, secondo il § 2 dello stesso articolo, senza verifica della doppia incriminazione, una serie di reati puniti con una pena detentiva pari o superiore a tre anni danno luogo alla consegna di una persona ricercata o condannata, a seguito di emissione del M.A.E. Si tratta di una lista di ben trentadue ipotesi delittuose, come il terrorismo, la partecipazione

1 V. G. De Amicis - G. Iuzzolino, Lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia nelle disposizioni penali del trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, in Cass. Pen., 2004, 3067 ss.; S. Maranella, Mandato d’arresto europeo, Enciclopedia Giuridica, 200, XIX, 2004; E. Selvaggi - O. Villoni, Questioni reali e non sul mandato europeo di arresto, in Cass. Pen., 2002, 445 ss. 2 V. G. Vassalli, Mandato d’arresto e principio di uguaglianza, in Giusto proc., 2002, 129 ss.; V. Caianiello - G. Vassalli, Parere sulla proposta di decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, in Cass. Pen., 2002, 462 ss.; E. Selvaggi, Il mandato europeo e il rispetto del sistema di arresto, in Giusto proc., 2002, 147 ss. 3 Per un’ampia riflessione sul tema, G. Iuzzolino, Il mandato di arresto europeo: cos’è, come funziona e quando si applicherà, in Diritto e giustizia, 2003, 90 ss.; G. Iuzzolino, Una procedura che taglia i tempi di esecuzione: dopo la richiesta consegna in meno di un mese, in Guida dir., 2004, 98 ss.; E. Selvaggi, Con l’avvio del mandato di arresto europeo per l’Italia si impone una scelta di qualità, in Guida dir., 2004, 108 ss.; M. Pedrazzi, Mandato d’arresto europeo e garanzie della persona, Milano, 2004. 4 Vedi E. Selvaggi, Filo diretto tra i giudici e Stato straniero per la domanda di consegna dei ricercati, in Guida. dir.,2001, n. 3, 106 ss.

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ad un’organizzazione criminale, la corruzione, l’omicidio ed altre fattispecie caratterizzate da un elevato tasso di antisocialità codiviso da tutti gli Stati membri. È esclusa la verifica della doppia incriminazione ad eccezione di quella facoltativa per i reati esclusi dall’elenco di cui al § 2 dell’art. 2. In altri termini, la consegna può essere subordinata alla condizione che i fatti per i quali è stato emesso il M.A.E. costituiscano reato per la legge dello Stato membro di esecuzione. A ben vedere, un controllo “minimo” è sempre previsto ad opera dello Stato dell’esecuzione al fine di scongiurare una violazione, da parte dello Stato emittente, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 e della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. Mentre è sempre escluso un sindacato sul merito del procedimento in virtù di una fiducia reciproca tra autorità richiedente e richiesta. La procedura si compone di tre fasi. Se il luogo ove si trova il ricercato è conosciuto, l’autorità richiedente comunica il provvedimento, tradotto, all’autorità dello Stato membro di esecuzione (art. 9, § 1, della Decisione quadro); in caso contrario, la persona viene segnalata nel sistema di informazione di Schengen. Il mandato, poi, deve contenere l’identità e la cittadinanza del ricercato, specificare l’autorità giudiziaria emittente, indicare l’esistenza di una sentenza esecutiva o di altra decisione giudiziaria esecutiva, indicare la natura e la qualificazione giuridica del reato, descrivere le circostanze di tempo e di luogo della commissione del reato, specificare la pena inflitta, in caso di condanna passata in giudicato, ovvero la pena minima e massima stabilita dalla legge dello Stato di emissione. La seconda fase prevede che l’autorità dell’esecuzione possa o meno dare esecuzione al mandato. In particolare, la stessa rifiuta allorquando: il reato per cui si procede è coperto da amnistia nello Stato membro di esecuzione (art. 3, § 1); l’autorità di esecuzione è a conoscenza che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro, a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione (art. 3, § 2); la persona ricercata, in base alla legge dello Stato di esecuzione, non è imputabile per ragioni di età (art. 3, § 3). L’autorità dell’esecuzione, invece, può rifiutare di dare esecuzione al mandato quando il fatto che è alla base del provvedimento non costituisce reato per la propria legge (art. 4, § 1); quando contro la persona attinta dal mandato d’arresto è in corso un’azione nello Stato membro di esecuzione per il medesimo fatto; quando, secondo la legge dello Stato di esecuzione, l’azione penale o la pena è caduta in prescrizione. Nell’ultima fase della procedura, l’autorità giudiziaria decide sulla consegna, dopo aver ricevuto o meno il consenso irrevocabile della persona ricercata. L’art. 11 della Decisione quadro introduce una serie di garanzie che assistono la persona ricercata, che sia stata previamente informata delle conseguenze della sua decisione. La persona viene informata del mandato d’arresto, del suo contenuto e dei fatti su cui si fonda, della facoltà di consentire o meno alla consegna, del diritto alla difesa tecnica di un legale e di un interprete. Qualora l’interessato non presti il consenso alla consegna, gode del diritto ad essere condotto innanzi all’autorità giudiziaria dello Stato membro dell’esecuzione per essere ascoltato (art. 14). La procedura di esecuzione deve compiersi in un lasso di tempo ragionevole, non oltre dieci giorni dalla comunicazione del consenso e, in caso di diniego, entro sessanta giorni dall’arresto (artt. 13 e 17). La persona è, comunque, scarcerata qualora, entro dieci giorni dalla decisione definitiva, lo Stato dell’esecuzione non proceda alla consegna5.

5 La Corte di giustizia dell’U.E., nella causa Vilkas T., con pronunciamento del 25 gennaio 2017 ha interpretato l’art. 23, paragrafo 3, della Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al M.A.E. ed alle

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2. I diritti del ricercato nel M.A.E. Si discute circa l’indeterminatezza del sistema di garanzie individuali predisposto dal legislatore comunitaro nella Decisione quadro, il quale avrebbe previsto solo un nucleo essenziale, lasciando ad ogni Stato membro l’onere di applicarle secondo il proprio diritto interno6. In particolare, sono state sollevate critiche da parte della dottrina che sottolinea una carenza in relazione alla tutela dei diritti fondamentali delle porsone ricercate, laddove non è prevista l’eventualità che l’esecuzione, sia essa obbligatoria o facoltativa, concreti una violazione di tali diritti7. Un aspetto carente riguarda la mancata previsione del contraddittorio al momento in cui l’autorità decide sullo stato di detenzione. Infatti, contro la decisione dell’autorità non è previsto il diritto dell’interessato a chiedere la verifica giudiziale del suo stato di detenzione, contrariamente a quanto previsto dall’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Qualora non intervenga il consenso della persona richiesta, è previsto che l’arrestato ha diritto ad essere ascoltato dall’autorità dell’esecuzione, senza che, tuttavia, sia specificata la funzione, la natura e le modalità di detta audizione. Siamo, dunque, ben lontani dal diritto ad un ricorso effettivo avente ad oggetto la legittimità della detenzione, contrariamente a quanto prescritto dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Più garantista risulta l’art. 5 della Decisione quadro, nella parte in cui prevede, per la persona condannata in absentia, che la consegna avvenga solo a condizione che l’autorità dello Stato richiedente assicuri formalmente che il soggetto richiesto possa ottenere un nuovo processo, qualora non sia stata in precedenza citata o, comunque, informata della data e del luogo dell’udienza (art. 5, n. 1). Inoltre, se per il reato per cui si procede è prevista la pena dell’ergastolo, l’esecuzione del mandato può essere subordinata alla condizione che lo Stato emittente preveda la revisione del processo (art. 5, n. 2). Nel complesso, l’impianto garantistico della Decisione quadro risulta oltremodo restrittivo e non pienamente effettivo, prevedendo esclusivamente l’assistenza legale e linguistica e rimetten-

procedure di consegna tra gli Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, statuendo che, in caso di forza maggiore, entro un termine di dieci giorni successivi a una prima nuova data di consegna concordata - nel caso di specie si trattava di resistenza alla consegna ripetutamente opposta dall’interessato, a cui faceva seguito il rifiuto di imbarco dello stesso da parte del pilota dell’aeromobile -, l’autorità giudiziaria emittente e l’autorità giudiziaria dell’esecuzione concordano una nuova data di consegna, «sempreché, a causa di circostanze eccezionali, non fosse possibile, per tali autorità, prevedere siffatta resistenza e non fosse possibile evitarne le conseguenze, malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso da parte delle stesse autorità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. L’articolo 15, paragrafo 1, e l’articolo 23 della Decisione quadro 2002/584, come modificata dalla decisione quadro 2009/299, devono essere interpretati nel senso che le stesse autorità continuano ad essere tenute a concordare una nuova data di consegna in caso di scadenza dei termini fissati da tale articolo 23». 6 Sul punto v. F. Pocar, Patto internazionale sui diritti civili e politici ed estradizione, in F. Salerno (a cura di), Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione. Atti del Convegno di studio organizzato dall’Università di Ferrara per salutare Giovanni Battaglini (29-30 ottobre), Padova, 2003, 79 ss.; M. Lugato, La tutela dei diritti fondamentali rispetto al mandato d’arresto europeo, in Riv. dir. intern., 2003, 27 ss.; C. Focarelli, Equo processo e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2001; B. Randazzo, Mandato d’arresto europeo: sì all’attuazione ma senza “calpestare” la nostra Costituzione, in Guida dir., 2003, 11 ss. 7 Cfr. M. Lugato, ibidem.

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do alla legislazione nazionale la tutela dei diritti fondamentali. Tale carenza poggia sulla presunzione che gli Stati membri dell’Unione siano egualmente dotati di sistemi evoluti e garantistici8. Conformemente al decimo «considerando» del preambolo della Decisione quadro, la sospensione del M.A.E. può verificarsi solo allorquando il Consiglio constati, con la procedura “aggravata” di cui all’art. 7 del TUE, l’esistenza, in uno Stato membro, di una generale e sistematica violazione dei diritti umani, più segnatamente i diritti sanciti dall’art, 6, § 1, del TUE9, così come richiamati anche dal dodicesimo «considerando», il quale afferma altresì che «la presente Decisione quadro non osta a che gli Stati membri applichino le loro norme costituzionali relative al giusto processo». Si tratta delle garanzie individuali così come sancite dal Preambolo della Decisione quadro, la cui violazione è causa di mancata esecuzione del mandato. La giurisprudenza interna ed internazionale ha, inoltre, avallato quanto contenuto nel tredicesimo «considerando» in relazione ai motivi che ostano all’allontanamento, che sono ravvisabili nel rischio di violazione del diritto alla vita, dei diritti di libertà, dei diritti processuali e del diritto al rispetto della vita privata e familiare10; ed invero, nel mentovato «considerando» si afferma che «nessuna persona dovrebbe essere allontanata, espulsa o estradata verso uno Stato allorquando sussista pericolo alla pena di morte, alla tortura o ad altri trattamenti o pene inumani o degradanti», anche se non si comprende la scelta della formula condizionale. Ma la non esecuzione non si limita alla violazione dei diritti del ricercato, estendendosi anche al semplice rischio di violazione di questi ultimi, così come si desume dal § 3 dell’art. 1 della Decisione quadro, che afferma che «l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea non può essere modificato dalla Decisione quadro». Del resto, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo conforta una impostazione da cui discende l’obbligo, per gli organi giurisdizionali, di conformarsi ai principi sanciti nel preambolo dell’atto comunitario11. Tuttavia, come rilevato in dottrina, la mancata previsione, in seno alla Decisione quadro, di criteri garantistici meglio definiti conduce al rischio di un’applicazione non uniforme dei diritti fondamentali del ricercato, atteso che la loro applicazione è rimessa a Paesi membri che non presentano lo stesso grado di tutela degli stessi. Questo rischio sarebbe stato evitato con uno standard uniforme ed inderogabile per tutti i Paesi dell’Unione, che avrebbe controbilanciato la discrezionalità interpretativa spettante ai legislatori e ai giudici nazionali12.

8 In questa prospettiva si veda anche G. De Amicis - G. Iuzzolino, Lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia nelle disposizioni penali del trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, in Cass. pen., 2004, 3067 ss. Per un quadro meno ottimistico della amministrazione della giustizia nell’Unione europea si veda Iakobi, The Main Human Rights Concerns About the Warrant, lezione tenuta alla Fair Trials Abroad Copenhagen Conference 2002 su “Implementing the European Arrest Warrant: How Best to Guarantee the Defendant’s Rights”, citato in M. Lugato, I diritti fondamentali rispetto al mandato d’arresto europeo, cit. 9 Sul punto vedi G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, III edizione, Bari, 2003, 5 ss., si tratta di «una ipotesi limite che molto difficilmente si verificherà» e al tempo stesso di applicazione «alquanto improbabile». 10 Per tutti G. Gaja, Rapporti fra trattati di estradizione e norme internazionali sui diritti umani, in F. Salerno (a cura di), Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione, cit., 125 ss. 11 Cfr. D. Flore, Le mandat d’arrêt européen: première mise en œuvre d’un nouveau paradigme de la justice pénale européenne, in Journal des Tribunaux, 2002, 279 ss.; E. Selvaggi - O. Villoni, Questioni reali e non sul mandato europeo di arresto, in Cass. pen., 2002, 445 ss. 12 Sul punto vedi M. Lugato, La tutela dei diritti fondamentali, cit., 44 ss.; v., altresì, G. De Amicis -I G. uzzolino, Lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, cit.

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Di fronte alla violazione dei diritti fondamentali compiuti nell’esecuzione di un mandato di arresto europeo è, pertanto, essenziale l’effettivo accesso al ricorso giurisdizionale. Ora, il TUE affida alla Corte di giustizia delle Comunità europee il compito di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità ed interpretazione delle decisioni quadro, a condizione che gli Stati membri dichiarino di accettare la sua competenza (art. 35, § 2). La circostanza che non tutti gli Stati membri abbiano reso tale dichiarazione, contribuisce ulteriormente alla carenza di uniformità nell’opera di interpretazione delle garanzie individuali sancite nella Decisione quadro in parola. A ciò si aggiunga che, relativamente agli atti del terzo pilastro, è esclusa la legittimazione dell’individuo ad avvalersi del controllo giurisdizionale innanzi alla Corte di giustizia, riservato pertanto al giudice nazionale che ravvisi una violazione dei diritti umani. Inoltre, lo strumento giurisdizionale è azionabile solo una volta intervenuta la violazione, spesso a distanza di molto tempo, se si consideri che, in alcuni Stati membri, il ricorso in via pregiudiziale è proponibile solo innanzi al giudice di ultima istanza. Ne consegue che, di fronte alla lesione di un diritto fondamentale del ricercato, l’effettività della tutela giurisdizionale ne risulta grandemente scemata. Questo significa che è insufficiente l’apparato garantistico predisposto dal preambolo della Decisione quadro, che non prevede per l’individuo alcun accesso diretto al controllo giurisdizionale della Corte di giustizia, ad eccezione di quanto avviene per le direttive comunitarie13.

3. Compatibilità del M.A.E. con la Costituzione italiana. In relazione alla conformità del M.A.E. con i principi costituzionali dello Stato italiano, un vivace dibattito politico e dottrinario è sorto, in particolare, in ordine al rispetto dei diritti fondamentali. È indubbio, infatti, che il M.A.E. debba offrire la garanzia di un livello di tutela dei diritti umani non inferiore a quello costituzionalmente tutelato14. Questo è quanto prescrive l’art. 2 della legge n. 69 del 22 aprile 2005 (in G.U. 29 aprile 2005, n. 98), che introduce il M.A.E. nell’ordinamento italiano e che menziona esplicitamente le garanzie costituzionali e quelle stabilite dagli artt. 5 e 6 della C.e.d.u., più segnatamente il diritto al giusto processo, alla libertà personale, alla difesa, alla responsabilità penale ed alla qualità delle sanzioni penali, oltre al principio di uguaglianza. A ben vedere, una parte della dottrina critica tale compatibilità, ritenuta solo formalmente, stante l’abolizione del principio della doppia incriminazione – con riferimento ai reati inclusi nella lista di cui all’art. 2 della Decisione quandro 2002/584/GAI –, che non terrebbe conto delle sensibili differenze tra i diversi sistemi penali e giudiziari degli Stati membri. Suddetta lista, invero, lungi dal contenere un’indicazione di specifiche ipotesi di reato comuni a tutta l’U.E., non si risolverebbe se non in una elencazione di generiche categorie di illeciti penali, con conseguente violazione del principio di tassatività e determinatezza (art. 25, § 2, Cost. e

13 In tal senso si riscontrano aperture ad opera della Corte di giustizia e del Tibunale di primo grado, vedi Tribunale di primo grado, 27 giugno 2000, cause riunite T-172/98, da T-175/98 a 177/98, Salamandre AG c. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in Raccolta, 2000, II-2487 ss. 14 Vedi V. Caianello - V. Vassalli, Parere sulla proposta di decisione quadro sul mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2002, 462 ss.; G. Vassalli, op. cit.; B. Randazzo, Mandato d’arresto europeo: sì all’attuazione ma senza “calpestare” la nostra Costituzione, in Guida dir., 2003, 11 ss.

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art. 7 C.e.d.u.), oltre che del diritto di difesa sancito all’art. 24 della Costituzione, nella misura in cui priverebbe l’imputato della possibilità di confrontarsi con una imputazione precisa. In concreto, a causa della non sempre agevole comparazione tra il fatto per cui è richiesto l’arresto e le ipotesi di reato di cui all’art. 2 della Decisione quadro, vi sarebbe il rischio di applicazione di misure restrittive della libertà anche con riferimento a fatti che non costituiscono reati nell’ordinamento interno, in contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale. Un’autorevole dottrina, dunque, critica l’impianto normativo della Decisone quadro, carente sotto il profilo del rispetto dei diritti umani, nella parte in cui incide sulla potestà punitiva e sul potere legislativo degli Stati membri, che nel loro esclusivo esercizio della sovranità nazionale statuiscono i contenuti dei singoli fatti reato e determinano l’ambito spaziale di applicazione delle norme penali sostanziali, eventualmente deroganti al principio di territorialità15. Secondo una chiave interpretativa, l’introduzione del M.A.E. creerebbe uno spazio comune europeo in cui sia possibile l’esecuzione automatica di misure cautelari, nella forma del M.A.E., in modo che possa configurarsi un diritto penale comune e comunitario in relazione al quale i fatti reato, da chiunque commessi, siano indifferentemente perseguiti dai giudici degli Stati membri, superando in tal modo i limiti nazionali nell’applicazione della legge penale. Siffatta impostazione, tuttavia, si rivelerebbe lesiva dell’art. 13 Cost., che statuisce che ogni provvedimento limitativo della libertà personale debba essere disposto, nei casi previsti dalla legge, dall’autorità giudiziaria nazionale. In particolar modo, si teme per l’attribuzione esclusiva del potere restrittivo della libertà dell’indagato all’organo inquirente e non al giudice. Inoltre, la previsione di limitate ipotesi di rifiuto del M.A.E. fa valutare con perplessità l’automatismo di esecuzione della richiesta di arresto, senza alcuna verifica effettiva da parte dello Stato richiesto della presenza dei presupposti formali e sostanziali a supporto della richiesta. Altra parte della dottrina16 ritiene che la Decisione quadro non intacchi i principi costituzionalmente garantiti, in particolare: la potestà punitiva dello Stato; la tassatività e determinatezza delle fattispecie in relazione alle quali è emesso il mandato di cattura europeo; la riserva di legge e la garanzia di giurisdizione e motivazione nella restrizione della libertà personale; da ultimo, il criterio della doppia incriminazione, ancorché esso appaia ridimensionato. Quanto alla potestà punitiva, essa sembrerebbe rispettata dal dettato del § 1 dell’art. 2 della Decisione quadro, il quale attribuisce l’emissione del mandato d’arresto a ciascuno Stato membro per fatti puniti dalle leggi di quest’ultimo17. Nella stessa ottica, non si ritengono ne-

15

Vedi V. Caianello - G. Vassalli, op. cit.; di diverso avviso A. Mambriani, Il mandato di arresto europeo. Adeguamento dell’ordinamento italiano e diritti della persona, in M. Pedrazzi (a cura di), Mandato d’arresto europeo e garanzie della persona, Milano, 2004, 73 ss., secondo il quale non sarebbero nemmeno violati i principi di tassatività e determinatezza, stante l’omogeneità dei sistemi giuridici dei Paesi membri, i quali si conformano a tali principi in quanto aderenti alla C.e.d.u. In virtù della stessa omogeneità tra ordinamenti, perde valore il principio della doppia incriminazione, escluso per i reati di cui alla lista contenuta nell’art. 2 della Decisione quadro proprio perché conserva una sua valenza solo in presenza di ordinamenti disomogenei. 16 Per tutti, E. Selvaggi - O. Villoni, Questioni reali e non sul mandato europeo di arresto, in Cass. pen., 2002, 449450; G. Iuzzolino, Una procedura che taglia i tempi di esecuzione: dopo la richiesta consegna in meno di un mese, in Guida dir., 2004, 98 ss.; M. Pedrazzi, Considerazioni introduttive in Mandato d’arresto europeo, cit.; L. Salazar, Il mandato di arresto europeo: un primo passo verso il mutuo riconoscimento delle decisioni penali, in Dir. pen. e processo, 2002, 1041 ss. 17 V. A. Mambriani, Il mandato di arresto europeo. Adeguamento dell’ordinamento italiano e diritti della persona, in M. Pedrazzi, op. cit., 73 ss.

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anche violati i principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, nella misura in cui l’elencazione di cui al § 2 dell’art. 2 ha il mero scopo processuale di evitare che lo Stato di esecuzione verifichi la sussistenza della c.d. «doppia incriminazione», che invece sussiste per tutti i reati non riconducibili alle categorie di cui al suddetto elenco18. D’altro canto, sarebbe difficile ipotizzare una violazione del principio di tassatività e determinatezza da parte di sistemi giuridici omogenei ed aderenti tutti alla C. Eur. Dir. uomo, dal momento che tale principio è sancito all’art. 7 della Convenzione (nonché all’art. 25, secondo comma della Costituzione italiana). Alla stessa idea di omogeneità si deve far ricorso per ciò che concerne il principio della doppia punibilità, la cui valenza avrebbe senso in presenza di ordinamenti giuridici disomogenei. Del resto, il M.A.E. rappresenta «la prima concretizzazione nel settore del diritto penale del principio del riconoscimento reciproco», il cui meccanismo poggia su un elevato livello di fiducia degli Stati membri19. Ed invero, a norma degli artt. 2 § 2, e 8 della Decisione quadro, lo Stato di esecuzione, una volta accertato che il reato rientra nelle categorie di cui all’art. 2, § 2, dovrà consegnare la persona ricercata senza alcun preventivo controllo in ordine alla qualificazione del fatto come reato in base alla propria legislazione20. Quanto alla garanzia della riserva di legge (art. 13 della Costituzione italiana), occorre sottolineare che il mandato d’arresto europeo altro non è che una procedura semplificata di estradizione che, per essere attuata, necessita di una legge dello Stato che introduca le relative previsioni nell’ordinamento interno. Si obietta che, quanto al requisito della motivazione (art. 11 della Costituzione italiana), la Decisione quadro prescriva, in realtà, solo la mera descrizione delle circostanze della commissione del reato, compreso il momento, il luogo ed il grado di partecipazione del ricercato e, per quanto possibile, «le altre conseguenze del reato» (art. 8, § 1, lettere e) e g)). Di fronte a tali obiezioni, però, occorre considerare che uno Stato membro non può sindacare nel merito un mandato emesso da un altro Stato membro, ciò significherebbe violare i principi di reciproca fiducia e mutuo riconoscimento alla base della Decisione quadro. Il legislatore italiano, con la legge di attuazione n. 69 del 29 aprile 2005, ha inteso sottoporre ogni provvedimento straniero relativo ad un mandato di arresto europeo ad un penetrante esame anche di merito, ciò in contrasto con il presupposto della fiducia reciproca sotteso alla Decisione quadro. Invero, la legge si caratterizza per l’apprezzabile tutela dei diritti individuali e delle garanzie procedurali nel caso in cui l’Italia sia Stato esecuzione del M.A.E. Il testo specifica una serie di motivi che legittimano il rifiuto dell’esecuzione da parte della Corte d’appello, ispirati al rispetto dei diritti fondamentali e conformemente al preambolo ed all’art. 1, § 3, della Decisione quadro. In particolare, l’art. 18 della legge prevede che la Corte d’appello rifiuti la consegna nelle seguenti ipotesi: se ricorrono oggettivi motivi per ritenere che il mandato sia stato emesso con finalità discriminatoria; se il fatto è manifestazione della libertà di associazione, della libertà di stampa o di altri mezzi di comunicazione; se la legi-

18

A. Mambriani, op. cit.; A. Barazzetta, I principi di specialità e doppia incriminazione: loro rivisitazione nel mandato di arresto europeo, in Pedrazzi, op. cit., 116. 19 V. N. Galantini, Relazione al convegno della Camera penale di Milano «Il mandato di arresto europeo», Cernobbio, 18 maggio 2003; V. Grevi, Il mandato d’arresto europeo, Bologna, 2002, 106 ss.; L. Salazar, Commento alla Decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, in Dir. pen. e processo, 2002, 1041. 20 P. Gualtieri, I reati perseguibili con il mandato di arresto europeo, in E. Rozo Acuna (a cura di), Mandato di arresto europeo ed estradizione, Padova, 2004, 51 ss.

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slazione dello Stato membro di emissione non preveda i termini massimi della carcerazione preventiva cautelare; se vi è ragione di ritenere che la sentenza irrevocabile, che ha dato corso al mandato, non sia stata emessa in un processo equo, condotto nel rispetto dei diritti minimi; se sussiste un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene inumane e degradanti. Si aggiungono, poi, altri motivi, fonte di non poche perplessità21, non rientranti nella Decisione quadro, quali l’ipotesi in cui il diritto è stato leso con il consenso di chi può validamente disporne, l’ipotesi in cui, per la legge italiana, il fatto costituisce esercizio di un diritto, adempimento di un dovere, oppure è stato determinato da caso fortuito o forza maggiore, o, ancora, l’ipotesi in cui la sentenza per la cui esecuzione è stata chiesta la consegna contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. Si auspica che l’iter di attuazione della Decisione quadro possa incrementare il principio della fiducia reciproca, scalfito dalle molteplici garanzie di esecuzione del M.A.E. nel nostro paese.

4. I principi interpretativi della Suprema Corte di Cassazione alla luce dell’art. 17, comma 4 della legge n. 69/2006. Occorre soffermare l’attenzione sui principi interpretativi giurisprudenziali seguiti dalla Suprema Corte di cassazione in riferimento ad alcuni profili del M.A.E. relativi alla valutazione degli indizi di colpevolezza, alla possibilità di chiedere all’Autorità giudiziaria straniera un’integrazione probatoria e al rifiuto di consegna. Si può affermare che l’indirizzo con il quale si esclude il potere da parte del Giudice di esecuzione di valutare autonomamente gli indizi di colpevolezza assunto con le sentenze della Suprema Corte di cassazione – Sez. Fer. Pen. 13-14 settembre 2005, n. 33642, Sez. Pen. VI 23-26 marzo 2005, n. 34355, confermato poi con le sentenze della Sez. Pen. VI 13 ottobre 2005, n. 37649, 14 dicembre 2005, n. 45508, 24 ottobre-5 dicembre 2005, n. 44235, 10 novembre 2005, n. 42803; 12-14 giugno 2006, n. 20412; n. 16542 del 8-15 maggio 2006; n. 14993 del 28-4-2006; n. 12453 del 3-7 aprile 2006; n. 7915 del 3-7 marzo 2006 – appare sinora costante. Le sentenze n. 33642/05 e n. 34355/05 affrontano le problematiche interpretative dell’art. 17, comma 4, della legge 69/2005 istitutiva del M.A.E. relative alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Con la prima sentenza22 la Suprema Corte, nel respingere il ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, con cui si disponeva la consegna di una persona accusata di terrorismo e destinataria di un mandato di arresto europeo emesso dall’Autorità giudiziaria del Regno Unito, ha stabilito un indirizzo interpretativo di rilevante portata.

21

M. Bargis, Il mandato di arresto europeo dalla Decisione quadro alle prospettive di attuazione, in Pol. dir., 2004, 49 ss. 22 Suprema Corte di cassazione, Sez. feriale Penale, sentenza n. 33642/2005 del 13-9-2005. Con tale provvedimento la Corte ha respinto il ricorso di un cittadino marocchino indiziato per gli attentati di Londra, che chiedeva l’integrazione delle fonti di prova non concessa dalla Corte di appello. In particolare, si era disposta la consegna all’Autorità giudiziaria del Regno Unito di Hussain Osman, nei cui confronti era stato emesso in data 29 luglio 2005 un mandato di arresto europeo.

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In tale occasione, la Corte ha precisato che le finalità e la natura della decisione in materia di mandato di arresto europeo consistono nella facilitazione dell’estradizione tra gli Stati membri dell’Unione e nella prevenzione dei conflitti di giurisdizione. Ha, inoltre, ribadito che il M.A.E. è fondato su un grado di elevata fiducia fra gli Stati membri ed è finalizzato a superare la procedura tradizionale di estradizione con la sostituzione della consegna delle persone ricercate nel quadro dell’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giurisdizionali. La Corte statuisce, poi, che il Giudice dell’esecuzione non può chiedere all’autorità straniera l’acquisizione di una nuova prova non assunta o non ancora assunta, in quanto la corretta interpretazione dell’art. 6 della legge 69/2005 non può essere intesa come attribuzione al Giudice italiano di una facoltà, la quale non solo non si concilia con la celerità dell’istituto, ma urta anche contro la sovranità degli Stati membri. Esclude, altresì, la Corte che il Giudice dell’esecuzione possa valutare la gravità degli indizi su cui si basa il provvedimento cautelare emesso dal Giudice straniero, in quanto tale giudizio rientra nell’esclusiva competenza dell’Autorità giudiziaria che tale mandato ha emesso. Tale indirizzo, secondo il ragionamento della Corte, si basa sulla ratio di tale istituto, teso a eliminare le complessità procedurali e le lungaggini correlate all’applicazione della disciplina sull’estradizione non convenzionale. La Corte statuisce, in applicazione del canone interpretativo logico e sistematico, che il controllo affidato al Giudice italiano in ordine alla sussistenza della motivazione dell’esigenza cautelare e delle fonti di prova non va inteso come una penetrante valutazione delle fonti stesse analoga a quella spettante nell’ordinamento interno al Tribunale per il riesame, in quanto un controllo incisivo costituirebbe, secondo l’assunto della Corte, “un passo indietro rispetto, addirittura, al procedimento estradizionale e sarebbe impedito dalla mancanza degli atti del procedimento”. La Corte sancisce, quindi, che il controllo del Giudice di esecuzione va circoscritto alla sola verifica della sussistenza della motivazione “cui deve essere equiparata la mera apparenza della stessa, dovendo il mandato di arresto europeo essere fornito di argomentazioni adeguate e controllabili”. Sulla stessa scia si muove l’indirizzo assunto dalla Corte con la sentenza n. 34355/2005 della VI Sezione penale23, che nel respingere il ricorso presentato da imputato colpito da M.A.E., emesso da un Giudice Istruttore belga, avverso la decisione con la quale la Corte di appello di Roma ha disposto la consegna dell’imputato all’autorità giudiziaria del Regno del Belgio, ha ritenuto l’infondatezza dei motivi di censura addotti, consistenti nell’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ed illogicità della motivazione. Con tale sentenza vengono sviluppate e puntualizzate le argomentazioni contenute nella precedente sentenza del 13 settembre 2005, n. 33642. La Corte sostanzialmente statuisce che:

23 Suprema Corte di cassazione, Sez. pen. VI, sentenza n. 34355/05 del 23-9-2005. Tale provvedimento riguarda il caso di un cittadino rumeno, Ilie Petre, arrestato a Roma il 25 luglio 2005, in quanto colpito da un provvedimento restrittivo della libertà personale, emesso dal Giudice Istruttore di un Tribunale di Prima istanza belga in relazione ai reati di rapina aggravata, sequestro di persona e detenzione di armi da sparo, commessi in territorio belga nell’aprile 2005 e del quale la Corte di appello di Roma, in data 31 agosto 2005, aveva disposto la consegna all’Autorità giudiziaria del Belgio.

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a) il Giudice dell’esecuzione deve limitarsi ad accertare che il mandato di arresto europeo, per il suo contenuto intrinseco o per gli altri elementi raccolti in sede investigativa o processuale, sia basato su un compendio giudiziario che l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione ha ritenuto dimostrativo di un fatto reato commesso dal soggetto di cui si richiede la consegna. In tali termini deve essere esercitato il controllo sufficiente spettante, secondo la Decisione quadro, al Giudice dell’esecuzione; b) il presupposto della prescritta motivazione, alla cui esistenza è subordinato l’accoglimento della domanda di consegna, non può essere desunto dalla nozione propria del nostro ordinamento giuridico (vale a dire l’esposizione logico-argomentativa del significato e delle implicazioni del materiale probatorio); c) l’infondatezza di una tesi diretta a sostenere che il legislatore italiano nel dare attuazione alla Decisione quadro abbia voluto stabilire un regime valutativo e motivazionale modellato su quello stabilito dall’art. 705 c.p.p. per i casi di estradizione da uno Stato con il quale non esistono speciali convenzioni; d) unico elemento rilevante è che l’Autorità giudiziaria del Paese emittente “dia ragione” del provvedimento stesso, circostanza questa che può risultare anche dalle allegazioni delle evidenze fattuali a carico del soggetto di cui si chiede la consegna; e) l’indirizzo interpretativo è conforme anche al principio accolto dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 170/198424, secondo cui in sede interpretativa deve valere la presunzione di conformità della legge interna alla normativa europea.

5. L’interpretazione della dottrina. L’interpretazione seguita dalla Suprema Corte è stata oggetto di due diversi orientamenti dottrinali. L’uno pienamente adesivo ai principi da essa fissati sia per considerazioni di ordine strettamente formale che sostanziale25. Secondo tale indirizzo, l’interpretazione data dalla Corte è pienamente conforme alla lettera ed allo spirito della Decisione quadro ed ai criteri stabiliti dalla Corte di giustizia della Comunità europea in materia. Partendo dal carattere vincolante delle decisioni quadro per gli Stati membri quanto al risultato da raggiungere, la Corte di giustizia ha statuito al riguardo che deve essere utilizzato «il principio di interpretazione conforme» con l’effetto che, nell’applicare il diritto interno, «il Giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro». Sotto altro verso, di notevole rilevanza appare l’osservazione della Corte secondo la quale un controllo più incisivo da parte del Giudice dell’esecuzione determinerebbe non una sem-

24 Corte costituzionale, sentenza 8 giugno 1984, n. 170, con la quale si dichiarava inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del D.P.R. 22-9-1978, n. 6955, sollevata con ordinanza emessa dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra Granital S.p.A. e Amministazione delle Finanze dello Stato, in riferimento all’art. 111 Cost. ed in relazione agli artt. 177 e 189 del Trattato di Roma. Vedi anche Foro Italiano, 1984, I, 2026, con nota di A. Tizzano, La Corte Costituzionale e il diritto comunitario: vent’anni dopo. 25 E. Selvaggi, Dai principi generali interni europei i parametri di controllo sufficiente, in Guida al Diritto, n. 41 del 22 ottobre 2005, 83 ss.

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plificazione (scopo questo perseguito dalla decisione quadro), ma una regressione rispetto al sistema estradizionale. Con la legge di attuazione, ove letteralmente intesa, diventerebbe «più difficile consegnare una persona in base al M.A.E. che estradarla verso un Paese fuori dall’Unione»26. L’altro indirizzo dottrinale ritiene, viceversa, che la Suprema Corte, essendo un giudice non solo di legittimità ma anche di merito sulla procedura di consegna, possa esercitare il suo controllo sino all’esame e valutazione delle prove27. Si osserva, in particolare, in riferimento ai gravi indizi di colpevolezza, che il sistema italiano «almeno sulla carta, è più rigorosamente garantista, poiché li esige gravi. E che di tale grado possa pretendere che essi siano gravi anche per privare della libertà una persona al fine di riconsegnarla ad altro Stato, derivando ciò da una riserva di salvezza delle norme nazionali sul giusto processo, fatta già al n. 12 dei consideranda della Decisione quadro e, quindi, dal rispetto del principio di uguaglianza in tema di garanzie della libertà personale». L’indirizzo assunto dalla Corte viene, altresì, censurato sotto il profilo che l’esclusione del potere-dovere del Giudice italiano di valutare sul piano probatorio la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (con la riduzione del sindacato del giudice al mero controllo formale della motivazione e della sua apparenza), urterebbe contro «elementari canoni ermeneutici», configurandosi l’interpretazione accolta dalla Suprema Corte di cassazione come «una esegesi sostanzialmente abrogante dell’art. 17, comma 4, della legge n. 69/2005». Si è osservato, altresì, che il principio del mutuo riconoscimento non potrebbe mai dare luogo ad una esecuzione automatica della sentenza emessa da una autorità giudiziaria straniera. Si assume, infine, che il controllo del Giudice italiano non può essere limitato ad una mera delibazione di legittimità formale, in quanto il principio del mutuo riconoscimento comporterebbe, in ogni caso, che la decisione giudiziaria straniera dovrebbe ricevere un trattamento analogo a quello previsto per la decisione emessa dal Giudice italiano, il quale è tenuto a rispettare il principio contenuto nell’art. 13, comma 1, della Costituzione in ordine all’obbligo di motivazione. D’altro canto, la mancata osservanza delle garanzie poste a tutela della libertà personale e, quindi, la diversificazione di trattamento, a seconda che si tratti di provvedimento cautelare interno ovvero proveniente da altro paese, urterebbe con il principio di uguaglianza28. A sostegno della tesi dell’esigenza di un controllo sul rispetto di alcuni diritti di garanzia in materia di libertà personale, viene invocata anche la sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Aquilea c. Malta29, con la quale viene stabilita la violazione dell’art. 5, comma 3, C.e.d.u., in quanto il giudice nazionale non disponeva di nessun controllo, se non di carattere formale, sui motivi di giustificazione delle misure adottate.

26

E. Selvaggi, Mandato europeo di arresto: la conformità con la decisione quadro quale criterio ermeneutico e altre questioni, in Cass. pen., dicembre 2005, n. 12, 3778. 27 G. Frigo, Va seguito un modello di massima garanzia, in Guida al Diritto, n. 41, 2005, 86 ss., nonché Mandato d’arresto europeo, profili generali e primi problemi applicativi della legge interna d’attuazione, in L. Filippi (a cura di), Equo processo, normativa italiana ed europea a confronto, Padova, 2006, 245 ss. 28 C. Valentini, Procedimento di decisione e garanzie interne, in E. Rozo Acuna (a cura di), op. cit., 248 ss. 29 Corte europea dei diritti dell’uomo, T. W. Contro Malta, sentenza del 29 aprile 1999, relativa al caso di un cittadino britannico, residente nella località maltese di Luqa, sospettato di oltraggio al pudore, che avendo presentato domanda di scarcerazione su offerta di cauzione, fu liberato dopo ben nove giorni dall’arresto. Vedi anche Diritto Penale Processuale 1999 n. 844.

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6. L’inversione di rotta. La Suprema Corte ha, in seguito, mutato il proprio orientamento ed in tal senso, di particolare rilevanza appaiono i principi contenuti nella sentenza depositata il 15 maggio 2006 della IV Sezione della Suprema Corte di cassazione30, con la quale è stato disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza della Corte di appello di Venezia, che aveva disposto la consegna di persona imputata di reato di truffa, accogliendo la richiesta di cui al mandato di arresto europeo emesso dall’Autorità giudiziaria belga. La Corte veneziana, nel prendere atto della esistenza della doppia incriminazione, in Belgio e in Italia, del reato di truffa, della descrizione dei fatti contestati e della acquisizione della copia del provvedimento del Giudice belga, da cui emergevano sia un’adeguata motivazione delle circostanze di fatto sia delle specifiche esigenze cautelari, aveva statuito l’inesistenza di cause ostative ai sensi dell’art. 18 della legge n. 69/2005 e la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della richiesta di consegna. Tra i motivi di censura dedotti nel ricorso, la Suprema Corte, dopo aver affermato l’infondatezza delle censure concernenti il mancato accertamento dell’autenticità del mandato d’arresto, l’insussistenza della causa ostativa di consegna di cui all’art. 18 lett. p) della legge attuativa, l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 17 della mancanza di indicazione delle fonti di prova e della motivazione del provvedimento dell’Autorità belga, ha ritenuto di accogliere il motivo dedotto in ordine alla sussistenza della causa ostativa espressamente prevista dall’art. 18 lett. e) della legge 69/2005, in quanto nell’ordinamento giuridico dello stato emittente non è contenuta alcuna norma (circostanza, peraltro, direttamente accertata dalla Corte con richiesta di informazioni al Ministero di giustizia del Regno del Belgio) sul limite massimo della custodia cautelare preventiva31. La decisione della Corte si basa sui seguenti motivi: a) l’art. 18, lett. e), della legge 69/2006 prevede per il caso in esame il rifiuto di consegna; b) il principio contenuto nell’art. 18, lett. e), pur non essendo previsto nella Decisione quadro, è modellato su quanto disposto dall’art. 13, ultimo comma, della Costituzione, che dispone la presunzione di innocenza dell’imputato (principio operante in tutti i Paesi dell’U.E. ed in quelli che hanno sottoscritto la C.e.d.u.); c) che nel caso in esame non è possibile il ricorso ad un’interpretazione sistematica e razionalizzatrice seguita dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 34355/2005, in quanto il principio dell’interpretazione conforme al diritto comunitario accolto in tale sentenza, non può condurre, anche secondo l’orientamento seguito dalla Corte di giustizia del Lussemburgo (Corte di giustizia – Grande Sezione – in causa C – 105/03 P. C/Italia del 16 giugno 2005), ad una interpretazione “contra legem” del diritto nazionale; d) l’applicazione di tale principio, nonché l’obbligo del rispetto dei criteri stabiliti dall’art. 12 delle preleggi (criterio letterale, logico e sistematico), precludono la possibilità di rivolgersi

30 Suprema Corte di cassazione, Sez. pen. IV, sentenza n. 16542/2006 del 8-5-2006. Con tale provvedimento la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza con la quale la Corte di Appello di Venezia aveva disposto la consegna di Rosanna Cusini all’Autorità giudiziaria del Regno del Belgio, accogliendo la richiesta di cui al mandato di arresto europeo, emesso dal Gip del Tribunale di Charleroi in data 29 settembre 2005 per il reato di truffa. 31 Vedi anche Cass. 24705 del 12-18 luglio 2006 sulla normativa francese; n. 14040 del 7-20 aprile 2006 che precisa l’assenza di disposizioni in merito alla necessità che informazioni in merito debbano essere allegate con il mandato d’arresto.

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alla Corte di giustizia di Lussemburgo per una pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione delle decisioni quadro e delle sentenze applicative nonché alla Corte costituzionale per carenza di un vizio di legittimità costituzionale, in quanto la norma in questione è conforme a quanto disposto dall’art. 13, ultimo comma, della Costituzione; e) rientra nella scelta insindacabile del Parlamento decidere se la condizione ostativa prevista dalla normativa vigente possa essere superata mediante una modifica normativa, che stabilisca che possa essere considerata equipollente alla previsione di predeterminazione normativa dei limiti massimi di carcerazione preventiva. Il meccanismo seguito in altri Paesi secondo il modello inglese, è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rispettoso delle garanzie fondamentali previsto dall’art. 5, comma 3, della Convenzione sottoposto a controlli periodici da parte del giudice con cadenze predeterminate. Fino a che non intervenga alcuna innovazione normativa, la condizione ostativa contenuta nella legge italiana costituisce un vincolo insuperabile per il Giudice italiano, che non può dare corso al mandato di arresto e consegnare l’imputato all’Autorità giudiziaria del Paese di emissione.

7. L’orientamento dottrinale. In ordine a tale particolare motivo di rifiuto si è formato un duplice orientamento dottrinale. Una parte della dottrina32 osserva che se il mandato di arresto europeo è fondato sull’esigenza di assicurare la libera circolazione delle pronunce giudiziarie, in carenza di un livello di garanzie omogeneo negli ordinamenti giuridici dei vari Stati dell’Unione, il potere di consegna da parte dello Stato richiesto non discende in via automatica dalla presenza di un provvedimento esecutivo del Paese emittente, ma resta soggetto ad un complesso di requisiti, molti dei quali rimandati alla scelta discrezionale della legislazione interna. Il legislatore interno, secondo tale indirizzo, nella regolamentazione della materia deve introdurre misure atte a garantire il rispetto dell’art. 13, comma 5, della Costituzione che impone alla legge ordinaria di fissare i limiti massimi della carcerazione preventiva nonché dell’art. 27, comma 2, della Costituzione che, nello stabilire la presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva, vieta di anticipare la sanzione fino a che non venga inflitta una condanna definitiva. Un diverso orientamento dottrinale33 formula rilievi critici sulla previsione di inserire nella legge di attuazione della Decisione quadro motivi ulteriori e diversi da quelli contemplati nella Decisione quadro stessa per il seguente ordine di ragioni: a) il meccanismo di consegna è basato sulla sola eurordinanza, contenente le informazioni stabilite dalla Decisione quadro ritenute necessarie a verificare l’eventuale sussistenza di motivi di rifiuto di consegna tra i quali non è previsto quello stabilito dall’art. 18, lett. e); b) tale motivo di rifiuto non è stato stabilito né dalle leggi adottate dagli altri Stati membri dell’Unione per attuare la Decisione quadro sul mandato di arresto europeo, né dalle con-

32

A. Scafati, Mandato di arresto: contenuti dell’atto ed esercizio del potere coattivo nello Stato di esecuzione, in E. Rozo Acuna (a cura di), Il mandato di arresto europeo e l’estradizione, op. cit., 234. In termini analoghi C. Pansini, Il rifiuto della consegna motivato da esigenze processuali, in Pansini-Scafati (a cura di), Il Mandato di arresto europeo, Jovane, 2005, 164. 33 G. Iuzzolino, La decisione sull’esecuzione sul mandato dell’arresto europeo, in M. Bargis - E. Selvaggi (a cura di), Il Mandato di arresto europeo, cit., 285 ss.

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venzioni internazionali in vigore per l’Italia in materia di estradizione, né dalle disposizioni contenute nel Codice di procedura penale. Non va sottaciuto il fatto che una tale verifica da parte del giudice italiano implicherebbe pur sempre un controllo sulla sentenza straniera, che non sembra trovare giustificazione nella Decisione quadro e che sembra confliggere con il principio del reciproco riconoscimento dei provvedimenti giudiziari. Inoltre, l’introduzione di nuove ipotesi di rifiuto nell’ordinamento italiano non sembra possa contribuire alla concreta realizzazione del sistema semplificato di consegna adottato in sede europea, pur perseguendo l’obiettivo di tutelare diritti fondamentali. Concludendo sul punto, si può sostenere che la Suprema Corte di cassazione con la sopra citata sentenza n. 16542/06 afferma da un lato la piena compatibilità della norma ai principi del nostro ordinamento costituzionale, dall’altro la prevalenza del diritto interno sulle previsioni contenute nella Decisione quadro, che non sembra lasciare spazio ad altre ipotesi di rifiuto di consegna oltre a quelle espressamente contemplate dalle norme contenute nella Decisione stessa e a quelle desumibili dal considerandum n. 12. Tuttavia, si ritiene che le ipotesi di consegna previste nella legge di attuazione italiana vadano al di là delle ipotesi esplicite o implicite della Decisione quadro. Non è fuori luogo ricordare che durante i lavori preparatori alcuni Stati (Danimarca, Finlandia, Grecia, Irlanda, Svezia) avevano proposto tra i motivi di non esecuzione anche il contrasto con i principi fondamentali dello Stato di esecuzione o con l’ordine pubblico c.d. internazionale, vale a dire i valori supremi dell’ordinamento. Tali proposte furono respinte dalle delegazioni di altri Paesi, in quanto considerate già incluse nella clausola sui diritti fondamentali. Così stando le cose, l’indirizzo assunto dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 16542 del 8-15 maggio 2006 che, a ben vedere, non sembra del tutto in linea con i principi affermati dalla Corte stessa nelle precedenti decisioni numeri 33462/2005 e 34355/2005, desta qualche perplessità laddove afferma che nel caso in esame manchino i presupposti per investire la Corte di giustizia di Lussemburgo ai fini di ottenere una pronuncia pregiudiziale sulla interpretazione della Decisione quadro limitatamente alla specifica questione. Tali perplessità aumentano se si tiene conto che la stessa Corte di cassazione nella sentenza n. 16542/2006 ha affermato che: «la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha non soltanto, ripetutamente giudicato questi ultimi sistemi (vale a dire quelli dei controlli periodici del Giudice, effettuati con cadenze predeterminate) perfettamente rispettosi delle garanzie fondamentali previste dall’art. 5, comma 3 della Convenzione... ma si è mostrata piuttosto scettica verso astratte, pur se ovviamente legittime, previsioni legislative». Qualche breve considerazione s’impone sul recente indirizzo assunto dalla Suprema Corte di cassazione in ordine alla legittimità del rifiuto dell’esecuzione del mandato d’arresto europeo nel caso di mancata previsione, nello Stato emittente, dei limiti massimi della carcerazione preventiva, così come previsto dall’art. 18, lett. e) legge n. 69/2005. Occorre notare che nel nostro ordinamento costituzionale la previsione del termine massimo di misure restrittive della libertà personale trova fondamento nell’art. 13, comma 5 della Costituzione, che stabilisce che la legge deve predeterminare i limiti massimi della carcerazione preventiva e nell’art. 27, comma 2, da cui si desume il divieto di anticipare la sanzione prima della condanna definitiva. Infatti, la disciplina dettata con la legge di attuazione della Decisione quadro nel diritto interno è indubbiamente tesa ad ampliare le garanzie della persona ricercata e a consentire l’attuazione della Decisione stessa nei limiti in cui: «le disposizioni non sono incompatibili con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali nonché in materia di diritti di libertà e di giusto processo (art. 1)».

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È presumibile ritenere che, per il raggiungimento di tali finalità, il legislatore italiano ha inserito, accanto alle ipotesi previste come obbligatorie di rifiuto di esecuzione del mandato di arresto europeo dagli articoli 3 e 4 della Decisione quadro, nonché a quelle desumibili dai consideranda nn. 12 e 13, altre ipotesi aggiuntive. Tale integrazione sembra, però, contrastare, anzitutto, con il principio del reciproco riconoscimento delle sentenze penali, nonché con le finalità del mandato d’arresto europeo diretto, da un lato, a ridurre, in modo significativo, i controlli dell’Autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione e, dall’altro, a demandare le verifiche più penetranti allo Stato emittente, conferendo, in tal modo, al mandato la natura di strumento semplificato di consegna delle persone condannate o ricercate. Inoltre, come è stato osservato in dottrina34, il caso di rifiuto previsto dall’art. 18, lett. e) della legge di attuazione, non ha fondamento né esplicito né implicito nella Decisione quadro, né trova supporto nelle leggi attuative degli altri Stati membri, né è prevista dalle convenzioni internazionali in vigore in Italia in materia di estradizione e dalle disposizioni contenute nel codice di procedura penale, sempre i tema di estradizione. Inoltre, non può sottacersi che l’art. 117 della Costituzione, nel testo riformulato, prevede che l’esercizio della potestà normativa deve rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, sancendo, in tal modo, il principio della superiorità delle disposizioni comunitarie su quelle interne. La Corte di giustizia, già con la nota sentenza del 9 marzo 1978, in causa n. 106/77 sul caso Simmenthal, ha statuito che spetta al giudice nazionale garantire la piena efficacia delle disposizioni comunitarie, disapplicando le norme interne contrastanti senza sollecitare l’intervento caducatorio del competente organo giurisdizionale. La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n.170/1984, ha stabilito che il giudice nazionale deve disapplicare le norme interne incompatibili con le norme comunitarie. Oltre tutto, occorre osservare che appare inconferente il richiamo che fa la Corte Suprema alla sentenza Pupino35 del 16 giugno 2005 della Corte di giustizia, poiché in essa non si discuteva della difformità tra la Decisione quadro e la normativa d’attuazione, come invece accade nel caso in esame. Le suesposte considerazioni portano a ritenere opinabile l’indirizzo accolto dalla Suprema Corte di cassazione, secondo il quale il giudice italiano non può seguire un criterio di stretta interpretazione, che porti ad un’esegesi “contra legem” del diritto nazionale. In ogni caso, la Corte di cassazione, anche al fine di realizzare una uniforme applicazione della Decisione quadro in tutto il territorio dell’U.E. e porre termine alle controversie interpretative esistenti, avrebbe potuto promuovere l’intervento della Corte di giustizia per ottenere una decisione sulla compatibilità della norma d’attuazione con le statuizioni contenute nella Decisione quadro. Una siffatta soluzione avrebbe meglio garantito il rispetto del principio della certezza del diritto nell’ambito dell’ordinamento comunitario36.

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G. uzzolino, ibidem. Sentenza del 16 giugno 2005, causa C-105/03. Procedimento penale a carico di Maria Pupino. 36 E. Selvaggi, Le condizioni per l’esecuzione del Mandato d’arresto europeo, in Cass. pen., 3145-3152; Maranella, Rilievi critici alla legge istitutiva del mandato d’arresto europeo (n. 69/2005), in attuazione della decisione quadro n. 587 DEL 13-6-2002 (seconda parte), in “L’Amministrazione italiana”, n. 5/2007, 689-690. 35

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8. Conclusioni. L’introduzione del M.A.E. ha comportato il ravvicinamento degli ordinamenti giuridici degli Stai membri favorendo la libera circolazione delle decisioni giudiziarie penali, sia definitive che ancora soggette a gravame, purché esecutive, sulla base del principio del reciproco riconoscimento37. Ed invero, il sindacato “minimo” sulla legittimità del provvedimento viene calibrato sul presupposto che entrambe le autorità giudiziarie, richiedente e richiesta, appartengano a sistemi strutturati in guisa da giustificare “un elevato livello di fiducia reciproco”38. L’intento perseguito era, pertanto, di venire incontro all’esigenza di realizzare una più penetrante cooperazione penale tra i paesi dell’Unione, senza, tuttavia, affievolire le garanzie costituzionali riconosciute da questi ultimi ai soggetti ritenuti responsabili di fatti delittuosi39. Possiamo concludere che questo obiettivo non è stato sempre raggiunto, malgrado l’ipertrofia garantistica dell’ordinamento italiano inficiante il principio della fiducia reciproca, e che permangono ancora sostanziali differenze tra i sistemi di garanzia degli Stati membri.

37 V. L. Salazar, Il mandato d’arresto europeo: un primo passo verso il riconoscimento delle decisioni penali, in Dir. pen. e processo, 2002, 1041 ss. 38 V. V. Ranaldi, La cooperazione internazionale in materia penale tra estradizione e mandato d’arresto europeo, in Giur. It., 2004, 228 ss. 39 V. G. Vassalli, Mandato d’arresto e principio di uguaglianza, in Giusto proc., 2002, 129 ss.

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Gli strumenti di contrasto al terrorismo: tra prevenzione e repressione Sommario: Introduzione. – 2. Le intercettazioni preventive. – 3. I colloqui investigativi e i colloqui a fini preventivi. – 4. Le attività sotto copertura. – 5. Le espulsioni amministrative per motivi di prevenzione del terrorismo. – 6. Le novità del contrasto al terrorismo in rete. – 7. Cenni sulle misure di contrasto del finanziamento al terrorismo. – 8. Il coordinamento investigativo: La Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. – 9. Un efficace circuito di condivisione informativa. – 10. Conclusioni. Abstract This work takes into consideration the main detective instruments about fighting terrorism. This last, especially the one originating from Islam, appears nowadays as a global, violent and even boundless phenomenon. In the last years, Isis has unfortunately demonstrated its own power bound to terryfing European countries, through the presence and the action of his members living in the EU. For this reason the amendments, which have been consequently duly modified, will be shown from a procedural point of view. The so-called “antiterrorism package”, adopted after the Paris attacks on January 7th 2015, represents therefore the Italian necessary awarness to contrast by different measures this new terroristic phenomenon. A perspective of a real prevention is closely related to the need for studying, investigating and implementing the “law instruments”, having always in mind two main points: on one hand, the balance game between safety and freedom, on the other one, the necessary share of information. It will be possible to face an asymmetric war only if there is a coordination among the several international policies and intelligence forces. Il presente lavoro analizza i principali strumenti investigativi in materia di contrasto al terrorismo. Quest’ultimo, ed in particolare quello di matrice islamica, si presenta oggi come un fenomeno globale, violento e senza confini. Negli ultimi anni, infatti, l’Isis ha dimostrato la propria capacità di terrorizzare gli Stati Europei attraverso la presenza e l’azione di soggetti affiliati presenti nel territorio dell’Unione; per tale motivo saranno esposte le modifiche conseguentemente apportate da un punto di vista procedurale. Il c.d. “pacchetto antiterrorismo”, adottato a seguito degli attentati di Parigi del 7 gennaio 2015, rappresenta quindi la necessaria consapevolezza del legislatore italiano dell’esigenza di contrastare questa nuova manifestazione di terrorismo con strumenti diversi. In un’ottica di prevenzione del fenomeno, appare pertanto necessario studiare, approfondire ed applicare le “armi normative” tenendo sempre a mente due punti cardini: da un lato il sottile gioco di equilibrio tra sicurezza e libertà, dall’altro la necessaria condivisione delle informazioni. Una guerra asimmetrica può essere affrontata solo garantendo un coordinamento tra le varie forze di polizia e strutture di intelligence, tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale.

1. Introduzione. Lo studio di un fenomeno è il punto di partenza indispensabile per ogni attività di contrasto efficace. Per tale ragione, appare imprescindibile per colui che si approccia allo studio degli strumenti di contrasto al terrorismo, una base solida e aggiornata della componente geopolitica. Attualmente, il terrorismo rappresenta una minaccia asimmetrica non solo per lo Stato Italiano, ma per tutto il mondo, caratterizzata quindi da una multidimensionalità del rischio.


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Non è più una guerra fatta solamente di risoluzioni strategiche o militari, bensì è un fenomeno dilagante, dove non vi è più nulla di prevedibile, che causa destrutturazioni cognitive nei soggetti più influenzabili, che da emarginati diventano “eroi”. Per tali motivi, l’ordinamento deve dotarsi di strumenti nuovi e rivedere quelli già esistenti, lasciando da parte schemi concettuali appartenenti al passato o applicabili ad altre forme di criminalità. La minaccia jihadista rappresenta quindi una tipologia del tutto nuova e differente rispetto alle forme di terrorismo con cui gli ordinamenti europei si sono confrontati durante il secolo scorso e per questo è necessario dotarsi di strumenti di contrasto specifici, bilanciando diversamente i valori costituzionali della libertà e della sicurezza: in caso di pericolo, è necessario innalzare l’efficacia e l’intensità delle misure preventive ed abbassare il livello delle garanzie. Se in un’ottica garantista la precedente affermazione potrebbe essere facilmente criticata, richiamando forse il concetto di “Stato di Polizia”, un’interpretazione onesta, sistematica e storica dimostra invece che ciò è necessario: anche il terrorismo eversivo degli anni Settanta è stato sconfitto attraverso strumenti giuridici fortemente derogatori rispetto allo standard precedente, come ad esempio quelli previsti nella Legge Cossiga sull’ordine pubblico del 1979. Forte dell’esperienza passata, il legislatore italiano, a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, è dunque intervenuto con quattro importanti modifiche1; tra queste, quella che ha disciplinato maggiormente gli aspetti tecnico-investigativi è il d.l. 7/2015, il c.d. “pacchetto antiterrorismo”. Si procederà ora all’ esame dei principali strumenti di contrasto.

2. Le intercettazioni preventive. L’art. 226 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale disciplina l’intercettazione2 e i controlli preventivi sulle comunicazioni. Tratto caratterizzante di tali strumenti è la loro inutilizzabilità all’interno del processo penale: gli elementi così acquisiti infatti possono essere utilizzati solamente a fini investigativi, non possono essere menzionati in atti di indagine e non possono costituire oggetto di deposizione o di altro tipo di divulgazione, pena la reclusione da sei mesi a tre anni. Prima del decreto n.374/2001, le intercettazioni preventive erano riservate ai reati di mafia; successivamente agli attentati dell’11 settembre 2001 la loro applicabilità è stata estesa anche ai reati con finalità di terrorismo e di eversione3, ed il d.l. 7/2015 ha ulteriormente ampliato il numero dei reati, includendovi i delitti, consumati o tentati con finalità di terrorismo, di cui all’art. 51 comma 3-quater c.p.p.. Le intercettazioni preventive possono essere di natura telefonica, ovvero avere ad oggetto conversazioni o comunicazioni telefoniche ed altre forme di telecomunicazione, di natura telematica, riguardanti flussi di comunicazioni relativi a sistemi informatici o telematici, o di natura ambientale, consentendo quindi l’acquisizione di comunicazioni tra presenti, anche in luoghi

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Il d.l. n.374/2001, il d.l. n. 144/2005, il d.l. n. 7/2015 e la L. 153/2016. Per intercettazioni preventive intendiamo le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni necessarie per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di alcuni delitti, ritenuti di particolare allarme sociale, commessi mediante l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche. 3 Reati di cui all’art. 407, comma 2, lettera a, n.4 c.p.p. 2

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di privata dimora. Più in generale può essere acquisita qualsiasi informazione utile detenuta dai gestori di telecomunicazioni, compresi i tabulati telefonici e la localizzazione. Per quanto riguarda il procedimento, essendo un mezzo a forte vocazione preventiva che tocca il diritto alla riservatezza, la legge prevede particolati adempimenti. In primo luogo, la richiesta avanzata al Procuratore della Repubblica competente4 può provenire dal Ministro dell’Interno o, su delega, dai responsabili dei Servizi Centrali o interprovinciali della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, nonché dal Questore, dai Comandanti provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza e dalla Polizia Postale e delle Telecomunicazioni. I soggetti sopra citati, qualora ritengano necessarie le intercettazioni preventive al fine di acquisire elementi conoscitivi utili ad approfondire l’indagine, chiedono al Ministro dell’Interno di emettere un decreto che li deleghi a richiedere l’autorizzazione al Procuratore della Repubblica. Le intercettazioni vengono eseguite mediante impianti installati presso i locali della Procura della Repubblica o presso altre strutture idonee, individuate ed autorizzate dal Procuratore. I servizi hanno un periodo massimo di durata di 40 giorni, prorogabili con decreto motivato di ulteriori 20 giorni. Al Ministro dell’Interno deve essere inoltre data comunicazione della data di inizio, di fine e dell’eventuale proroga. I soggetti delegati devono redigere un verbale sintetico delle operazioni svolte, da depositare, congiuntamente ai supporti utilizzati, presso il Procuratore entro cinque giorni dal termine delle stesse. Il d.l. n.7/2015 ha inoltre esteso a dieci giorni in termine per il deposito, nel caso in cui sussistano esigenze di traduzione; disciplina questa che appare particolarmente utile in tema di terrorismo jihadista, vista la difficoltà per gli organi inquirenti italiani di reperire interpreti in grado di capire e tradurre la varietà dei dialetti arabi esistenti. Una volta verificata la conformità delle attività compiute all’autorizzazione concessa, il Procuratore dispone l’immediata distruzione di quanto depositato. La novità più incisiva risulta introdotta dall’art. 2 comma 1 quater lett. b del decreto sopra citato, che ha aggiunto il comma 3 bis all’art. 226. Il legislatore, per far fronte all’allarme sociale provocato dagli attentati ultimamente commessi in Europa, ha infatti previsto un’importante deroga all’obbligo di immediata distruzione di quanto acquisito mediante le intercettazioni preventive: qualora ciò risulti indispensabile per l’attività preventiva, il Procuratore può autorizzare la conservazione dei dati acquisiti, esclusi i contenuti delle conversazioni, per un periodo non superiore a 24 mesi. Infine, il decreto ha inserito nel codice di rito anche l’art. 234 bis, per il quale “è sempre consentita l’acquisizione di dati e documenti informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso del legittimo titolare”. Per quanto riguarda invece le attività di intelligence, il d.l. n.144/2005 aveva introdotto la possibilità per le Agenzie di Informazione e Sicurezza, dipendenti dal Ministero dell’Interno, di effettuare intercettazioni di comunicazioni ed acquisire tabulati telefonici e telematici. Essi possono infatti svolgere le attività previste dall’art. 226 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, chiedendo l’autorizzazione al Procuratore Generale di Roma5.

4 Procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto ove si trova il soggetto da sottoporre a controllo ovvero, nel caso non sia determinabile, del distretto in cui sono emerse le esigenze di prevenzione. 5 Prima della l. 133/2012 l’autorizzazione poteva essere data da tutti i Procuratori Generali.

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Fermi restando i medesimi limiti stabiliti dall’articolo sopra citato, la legge n.133/2012 ha esteso l’operatività di tale strumento investigativo, prima previsto solo in tema di criminalità organizzata e terrorismo, a tutte le attività di competenza sia dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna che dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna. Considerate le possibili interferenze che possono sorgere nel corso delle attività preventive e di indagine tra i Servizi e gli Organi Giudiziari, risulta fondamentale un effettivo coordinamento tra il Procuratore di Roma ed il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. In conclusione, vista la centralità che i sistemi informatici rivestono nel terrorismo di matrice jihadista, a parere di chi scrive, probabilmente le intercettazioni preventive possono essere una risorsa preziosa, in grado di dare efficace attuazione alle nuove norme incriminatrici recentemente introdotte.

3. I colloqui investigativi e i colloqui a fini preventivi. I colloqui investigativi consentono di ottenere, in modo informale, informazioni rilevanti a fini investigativi da parte di soggetti detenuti o internati, in carcere o agli arresti domiciliari. L’istituto nasce con la legge n.356/1992, che ha inserito l’art. 18 bis all’interno dell’ordinamento penitenziario6. Il decreto Pisanu ha esteso l’operatività della norma, parificando la minaccia mafiosa a quella terroristica, così da prevedere la “possibilità di acquisire informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico”7. Dall’esperienza acquisita nella lotta alla criminalità organizzata, il legislatore ha comunque previsto la possibilità di raccogliere informazioni da qualsiasi soggetto detenuto, anche per reati comuni, che potenzialmente potrebbe essere a conoscenza di notizie relative a condotte eversive. Lo stesso articolo stabilisce i soggetti legittimati a svolgere i colloqui: il personale della Direzione investigativa antimafia e antiterrorismo, dei servizi centrali e interprovinciali della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri competenti in materia di terrorismo, gli ufficiali responsabili a livello centrale del Corpo della Guardia di Finanza, solo per quanto riguarda le ipotesi di finanziamento del terrorismo, ed infine il Procuratore Nazionale Antimafia, senza necessità di autorizzazione. Come già sottolineato, l’acquisizione avviene in modo completamente informale, in quanto è vietata qualsiasi documentazione o verbalizzazione, ed i dati così raccolti non possono essere mai utilizzati in ambito processuale. L’esperienza purtroppo insegna che l’ambiente carcerario spesso non raggiunge la finalità rieducativa che si prefigge, ma anzi diventa culla della formazione criminale. La stessa Direzione Nazionale Antimafia ha dichiarato che è necessario “un adeguato monitoraggio della numerosa popolazione carceraria di fede islamica, al fine di individuare possibili forme di proselitismo volte a realizzare, tra tale popolazione carceraria forme di radicalizzazione estrema della fede religiosa che possa portare alla formazione di cellule terroristiche, legate a Daesh”, difatti la stessa DNAeA, nella Relazione Annuale presentata il 12 aprile 2017, ha reso noto che dal 1° luglio 2015 al 30 giugno 2016 sono stati effettuati in totale 14 colloqui investigativi. 8.

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Legge 26 luglio 1975, n. 354. Art. 1 d.l. 144/2005. Direzione Nazionale Antimafia, Relazione Annuale 2015, 441.

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A livello europeo, anche l’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence sostiene che le prigioni europee siano il centro di gravità del movimento jihadista, dove spopola il proselitismo e vengono reclutati nuovi membri: secondo i loro dati infatti, circa il 57% dei foreign fighters hanno vissuto un periodo di detenzione prima della loro mobilitazione9. I futuri combattenti stranieri entrano in giovane età all’interno del sistema penitenziario per qualsiasi tipo di reato, dalla rapina10 all’omicidio11, e sono visti come una facile preda, fortemente vulnerabile, a causa della rabbia e dell’avversione verso le Autorità Statali, dello sradicamento dalla propria famiglia e dal proprio ambiente sociale, e dell’ostilità che trovano all’interno delle prigioni, dove i detenuti si dividono per religione, etnia e ideologia. Inoltre, tali individui risultano particolarmente utili agli scopi dell’ISIS poiché, essendo inseriti ed avendo legami con il circuito criminale del Paese di appartenenza, sono in grado di procurare, una volta radicalizzati, documenti di identità falsi, armi, soldi e case sicure per i nuovi “fratelli di fede”. Risulta quindi imprescindibile un controllo pregnante di ciò che avviene all’interno di questi luoghi; a parere di chi scrive, tale monitoraggio ben può essere attuato attraverso i colloqui investigativi e quelli a fini preventivi, che costituiscono uno strumento fondamentale in un momento come quello attuale, in cui è estremamente necessario raccogliere il maggior numero di informazioni possibili al fine di prevenire attacchi terroristici.

4. Le attività sotto copertura. Per quanto riguarda le attività sotto copertura, occorre premettere che la legge n.146/200612 dava la possibilità agli agenti utilizzati nelle operazioni undercover di utilizzare generalità di copertura, e l’art. 497, comma 2 bis c.p.p., dispone che questi debbano mantenerle anche in sede processuale, qualora siano chiamati a deporre come testimoni. L’art. 8, comma 1, del “pacchetto antiterrorismo” ha poi esteso l’utilizzazione delle generalità di copertura nelle deposizioni testimoniali anche ai dipendenti dei servizi di informazione per la sicurezza che agiscono sotto copertura, agli ausiliari e ai soggetti privati di cui i servizi si avvalgono. Mentre nelle operazioni effettuate dalla Polizia Giudiziaria il Pubblico Ministero

Un esempio emblematico è quello riguardante il soggetto marocchino espulso il 6 dicembre 2016: l’ex Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha infatti dichiarato che lo straniero “aveva confidato ad un compagno di detenzione l’intenzione di realizzare, una volta libero, un attentato in Vaticano, utilizzando una macchina piena di esplosivo e un’arma di tipo kalashnikov, che gli sarebbero state procurate a Roma da un suo referente... si era radicalizzato durante la precedente detenzione presso il carcere Regina Coeli ed era stato indicato come responsabile dell’indottrinamento di un altro detenuto”. 9 ICSR, Criminal Pasts, Terrorist Features: European Jihadists and the New Crime-Terror Nexus, 29. 10 Come nel caso di Harry Sarfo, cittadino tedesco, poi partito per la Siria, che era stato condannato nel 2010 per una rapina in un supermercato. 11 Come nel caso di Mehdi Nemmouche, cittadino francese che nel maggio del 2014 aveva ucciso quattro persone nel Museo Ebraico di Bruxelles, partito per la Siria dopo 3 settimane dal suo rilascio. 12 Art. 9 comma 2: gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto e comunque entro le quarantotto ore dall’inizio delle attività.

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è a conoscenza della reale identità del testimone, in quelle effettuate dall’intelligence, l’autorità giudiziaria rimane estranea, poiché la procedura di attribuzione delle generalità di copertura passa esclusivamente per il potere esecutivo. Garanzia differente è quella prevista invece dall’art. 8 comma 2 lett. d) della legge di conversione. In questo caso l’Autorità Giudiziaria, su richiesta del direttore generale del DIS o dei direttori dell’AISE o dell’AISI, quando sia necessaria mantenerne segreta la reale identità’ nell’interesse della sicurezza della Repubblica o per tutelarne l’incolumità’, autorizza gli addetti al DIS, all’AISE e all’AISI, a deporre in ogni stato o grado di procedimento con identità’ di copertura. Tale norma, a differenza dell’art. 497 c.p.p., si applica esclusivamente ai soggetti facenti parte dei servizi, che possono utilizzare le generalità di copertura anche quando non hanno utilizzato le stesse durante le operazioni o quando non c’è stata alcuna operazione. Sul punto, la Corte di Strasburgo si è pronunciata più volte in tema di garanzie del contraddittorio in rapporto alla concessione dell’anonimato13. Riprendendo la novella legislativa del 2015, a fronte dell’emergenza terroristica, il legislatore in sede di conversione ha introdotto ulteriori garanzie funzionali con durata limitata al 31 gennaio 2018: è stato ampliato il novero delle condotte previste dalla legge come reato per le quali non è prevista la punibilità per gli appartenenti ai servizi sotto copertura14. Tale norma non può però operare retroattivamente, ovvero rimangono illeciti i fatti previsti dalle fattispecie indicate, commessi prima dell’entrata in vigore della legge. Infine, con l’art. 8, comma 2 bis, della legge n.43/2015, viene attribuito all’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, “il compito di svolgere attività’ di informazione, anche mediante assetti di ricerca elettronica, esclusivamente verso l’estero, a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali della Repubblica Italiana. Il Presidente del Consiglio dei Ministri informa il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica con cadenza mensile circa le attività’ di ricerca elettronica”. La norma è evidentemente ispirata a contrastare le forme di criminalità che svolgono le proprie attività preparatorie o esecutive attraverso le nuove tecnologie, attribuendo all’AISE il potere di penetrare all’interno di sistemi informativi stabiliti fuori dai confini italiani.

5. Le espulsioni amministrative per motivi di prevenzione del terrorismo. L’ordinamento giuridico italiano prevede diverse tipologie di espulsione degli stranieri dai territori italiani.

13 Di particolare interesse risulta a riguardo la sentenza “Van Mechelen ed altri c. Paesi Bassi”, 23 aprile 1997. In tale occasione, i giudici europei in primis ricordano che “la testimonianza anonima non contrasta di per sé con la C.E.D.U., a condizione però che quella testimonianza non costituisca la prova esclusiva su cui sia stata fondata la sentenza di condanna”. Successivamente, la Corte si spinge oltre: “nei casi in cui viene concesso l’anonimato ai testimoni dell’ accusa, la difesa si trova ad affrontare difficoltà che di norma non dovrebbero sussistere in un processo penale...dopo aver osservato che i testi della accusa sono membri delle forze di polizia dello Stato, ritiene che la loro posizione sia sostanzialmente diversa da quella di un testimone disinteressato o di una vittima. Ad avviso della Corte, infatti, costoro sono tenuti ad un dovere generale di obbedienza alle autorità dello Stato e, generalmente, agiscono a stretto contatto con la pubblica accusa; pertanto, la loro escussione come testimoni anonimi deve essere limitata a circostanze eccezionali”. 14 Artt. 270 comma 2, 270 ter, 270 quater, 270 quinquies, 302, 306 comma 2, 414 comma 4 c.p.

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Le espulsioni giudiziarie sono quelle disposte dall’Autorità giudiziaria a titolo di condanna, di misura di sicurezza o come misura sostitutiva o alternativa alla detenzione. Nonostante l’importanza che questa prima tipologia può rivestire all’interno della lotta al terrorismo, la presente trattazione si concentrerà sulle espulsioni amministrative, istituto a vocazione preventiva e fortemente derogatorio delle garanzie processuali. Pur essendo una categoria che abbraccia vari provvedimenti, tutte le espulsioni amministrative presentano caratteristiche comuni sulle quali è opportuno soffermarsi. In primo luogo, essendo un provvedimento amministrativo e non giudiziario, esse sono adottate da organi del potere esecutivo attraverso atti politici altamente discrezionali. Tali atti rivestono la forma del decreto, opportunamente motivato e convalidato da un organo giudiziario, il quale è immediatamente esecutivo: il ricorso al Tar non sospende infatti l’esecutività del decreto15. In secondo luogo, nel caso in cui lo straniero sia sottoposto a procedimento penale, l’organo politico, per procedere all’espulsione, deve richiedere il nulla osta da parte dell’Autorità Giudiziaria procedente: il giudice di pace deve infatti convalidare il provvedimento di accompagnamento coattivo alla frontiera e l’art. 19 del d.lgs. n.286/1998 stabilisce i casi in cui questo non può essere mai disposto. Passando ora ad analizzare le forme di espulsione normativamente tipizzate, occorre partire dall’art. 13 del Testo Unico sull’Immigrazione. Tale articolo prevede sia l’espulsione disposta dal Ministro dell’Interno che quella disposta dal Prefetto. Per quanto riguarda la prima16, questa viene ordinata dal vertice politico, previa comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli Affari Esteri, per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello stato. Il provvedimento generalmente è il risultato di attività di indagine svolte dall’Autorità Giudiziaria o dall’ intelligence “allorché le indagini abbiano evidenziato concreti indicatori di pericolosità ma non consentano l’acquisizione di elementi probatori, ovvero si riferiscano a condotte che non integrino elementi costitutivi del reato”17. Pertanto l’espulsione è il frutto di una procedura molto veloce, basata sul sospetto, in quanto gli elementi che giustificano un’espulsione non sono mai sufficienti per giustificare un arresto o una condanna. Siamo quindi in presenza di un basso livello di garanzie, con una tutela giurisdizionale ex post: il provvedimento può essere impugnato dinanzi al Tar del Lazio dopo l’accompagnamento coattivo fuori dai territori dello Stato. Il secondo comma dell’art. 13 del T.U. sull’Immigrazione disciplina poi l’espulsione disposta dal Prefetto nei casi previsti dalla medesima disposizione. Il d.l. n.7/2015 ha ampliato il ventaglio di ipotesi previsto dal d.l. n.159/2011, includendo, tra i possibili destinatari del provvedimento, anche i foreign fighters: l’autorità prefettizia può infatti espellere anche coloro che vogliono “prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270 sexies del c.p.”18.

15 Corte Cost. sent., 14 dicembre 2007, n. 432: “L’efficacia dei provvedimenti amministrativi non è sospesa nell’ipotesi in cui venga proposto ricorso in sede giurisdizionale. Il giudice amministrativo può, però, in via cautelare, sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato”. 16 Art 13 comma 1 d.lgs. 286/1998. 17 F. Roberti - L. Giannini, Manuale dell’Antiterrorismo. Evoluzione normativa e nuovi strumenti investigativi, 194. 18 Art 4 comma 1 lett. a d.l. 7/2015.

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Per quanto utili e ben disegnate, in realtà la prassi insegna che si ricorre a tale provvedimento solo qualora non sussistano i presupposti per le espulsioni ministeriali. L’art. 3 del d.l. n.144/2005 ha infine previsto un’ulteriore ipotesi di espulsione amministrativa. Il Ministro dell’Interno, o il Prefetto delegato, può disporre tale provvedimento quando lo straniero appartiene ad una delle categorie indicate dall’art. 18 l. 152/1975 o nei cui confronti vi sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali. Il richiamo della c.d. “Legge Reale”, emanata durante gli anni di piombo al fine di contrastare il terrorismo interno, può costituire un importante spunto di riflessione per capire che, nonostante le caratteristiche profondamente diverse dell’attuale terrorismo islamico estremista rispetto a quello eversivo italiano degli anni Settanta, le categorie elaborate dal legislatore risultano ben disegnate anche per far fronte a minacce diverse, e del tutto inaspettate, rispetto a quelle per le quali la norma era stata concepita. Al contrario di Paesi quali la Francia e il Belgio, in Italia ad oggi si contrasta ancora un terrorismo esogeno internazionale, in quanto tali soggetti non sono considerati cittadini ma ancora stranieri; pertanto le espulsioni amministrative rimarranno in Italia uno strumento importante ed efficace solo a condizione che si continui a contrastare un fenomeno esogeno19. A titolo informativo, si segnala che, secondo i dati rilasciati dal Ministero dell’interno, dal 1 Gennaio 2017 al 6 Dicembre 2017 sono state eseguite un totale di 97 espulsioni amministrative per motivi di terrorismo e, quelle eseguite dal 1° gennaio 2015, sono in totale 229.

6. Le novità del contrasto al terrorismo in rete. Il terrorismo attuale combatte metà delle loro battaglie nel mondo virtuale. Pertanto, sarebbe totalmente insufficiente pensare di sconfiggere tale fenomeno senza validi strumenti per neutralizzare l’attività in rete. Consapevole di ciò, il legislatore italiano, con la legge n.43/2015, di conversione del decreto n.7/2015, oltre a prevedere aumenti di pena nel caso in cui i delitti di terrorismo siano commessi mediante l’uso di strumenti informatici o telematici, ha predisposto anche importanti novità all’art. 2 commi 2,3,4 del decreto sopra citato. In realtà, gli strumenti che si andranno ora ad analizzare, altro non sono che il risultato di anni di attività di contrasto alla pedopornografia in rete. Il comma secondo prevede infatti l’istituzione di una black list di siti internet utilizzati per le attività di cui agli art. 270 bis e 270 sexies c.p., nella quale confluiscono sia le segnalazioni della Polizia che quelle dell’Autorità Giudiziaria. Al Servizio di Polizia Postale e delle Comunicazioni è affidato il compito di aggiornare costantemente tale elenco, al fine di agevolare le attività sotto copertura e quelle di contrasto in rete. Il Ministero dell’Interno deve poi dare conto dell’attività svolta nella relazione annuale presentata al Parlamento. Nonostante la dici-

19 Tale aspetto potrebbe in alcuni casi non essere un problema. Un soggetto marocchino espulso l’8 settembre 2016, ha infatti invitato i suoi familiari e conoscenti a rifiutare la cittadinanza italiana, esattamente come aveva fatto lui rifiutando di prestare giuramento ai principi della Costituzione Italiana, in quanto, stando alle sue parole, questi risultano pienamente incompatibili con l’osservanza dei precetti salafiti e quindi inaccettabili per un vero musulmano. (Notizia Ministero dell’Interno 08/09/2016)

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tura “siti”, sembra preferibile ritenere che la norma si riferisca non solo alle pagine web appositamente create, ma anche ai sistemi di messaggistica istantanea delle chat, ai blog e ad ogni spazio virtuale che potenzialmente potrebbe essere utilizzato a fini terroristici. Il comma terzo prevede poi una particolare misura cautelare, ovvero la facoltà per l’Autorità Giudiziaria, preferibilmente per il tramite della Polizia Postale, di ordinare agli internet providers di inibire l’accesso ai siti inseriti nella black list. Sono poi previste sanzioni pecuniarie in caso di inottemperanza. Anche di tali provvedimenti il Ministero dell’interno deve dare notizia nella relazione annuale sopracitata. Il comma successivo affida poi al Pubblico Ministero, nel caso in cui si proceda per i delitti di cui agli art. 270 bis, 270 ter, 270 quater, 270 quinquies c.p. commessi con le finalità di cui all’art. 270 sexies c.p., la possibilità di ordinare, con decreto motivato, la rimozione dalla rete di contenuti a connotazione terroristica, nel caso in cui sussistano concreti elementi che consentano di ritenere che qualcuno commetta uno dei predetti reati per via telematica. L’ordine di rimozione è diretto agli internet providers e deve essere ottemperato entro 48 ore dalla ricezione della notifica; inoltre, nel caso in cui i contenuti siano generati dagli utenti ospitati da piattaforme riconducibili a terzi, viene ordinata la rimozione del singolo contenuto. In caso di inosservanza, l’Autorità Giudiziaria dispone l’interdizione all’accesso al dominio internet, ovvero l’oscuramento del sito web, tramite sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., garantendo comunque, ove tecnicamente possibile, la fruizione dei contenuti estranei alle condotte illecite. Il sequestro non è però ammesso in riferimento alle pagine web di testate giornalistiche telematiche regolarmente registrate. Per concludere vediamo ora qualche criticità dell’articolo analizzato. In primo luogo è possibile notare una svista del legislatore, che tra i reati per i quali è possibile la rimozione del contenuto dalla rete, non ha previsto l’art. 270 quater.1, che punisce l’organizzazione di trasferimenti per finalità terroristiche. In secondo luogo, nonostante il grande impegno della Polizia Postale, che solo nel 2016 ha monitorato più di 412.447 siti web, profili Twitter e Facebook, oscurando 510 indirizzi web per terrorismo20, gli strumenti disegnati dal pacchetto antiterrorismo potrebbero risultare poco efficaci, essendo i siti internet facilmente e velocemente riproducibili. Inoltre, spesso i providers hanno sede all’estero e, per tale motivo, sarebbero necessari ulteriori accordi internazionali, al fine di imporre l’adempimento dell’ordine di rimozione.

7. Cenni sulle misure di contrasto del finanziamento al terrorismo. Prima di analizzare i possibili strumenti di contrasto, è opportuno definire l’oggetto di tale attività. La legge n.153/2016 ha inserito all’interno del codice penale l’art. 270 quiquies.1, ovvero il reato di “finanziamento di condotte con finalità di terrorismo”. Nonostante l’ampiezza del tema, appare opportuno ricordare brevemente quali sono le principali tecniche di terrorist financing, quindi l’origine, e quali siano i principali utilizzi che le associazioni terroristiche ne fanno, ovvero i fini.

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D. D’Elia, Polizia Postale, 510 siti oscurati per terrorismo nel 2016, in La Repubblica, 03/01/2017.

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Per quanto attiene al primo punto, è necessario distinguere due categorie: meccanismi illegali e meccanismi apparentemente legali21. Nel primo gruppo vi rientrano indubbiamente attività quali il contrabbando di beni, la riproduzione illecita di carte di credito, la vendita illegale di petrolio, le frodi assicurative e bancarie, le rapine, i sequestri di persona a scopo di estorsione, la falsificazione di denaro, il commercio di armi e sostanze stupefacenti e lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Nel secondo gruppo si inseriscono invece attività che di per sé non sarebbero illecite, ma lo diventano finanziando attività terroristiche. Le più comuni sono l’impiego di risorse provenienti da organizzazioni no profit, le donazioni di individui o di società, la riscossione delle tasse nell’autoproclamato Stato Islamico, i risparmi dei singoli jihadisti e i guadagni di attività controllate quali concessionari e ristoranti. Occorre ora esaminare la destinazione delle risorse provenienti dalle fonti sopra indicate. Secondo il report 2015 della F.A.F.T., i terroristi utilizzano il denaro per le operazioni, la propaganda, il reclutamento e l’addestramento dei nuovi affiliati, gli stipendi per i combattenti e per le loro famiglie e per il mantenimento di servizi alla popolazione locale. Una volta evidenziate le origini e le destinazioni del denaro, è opportuno ricordare che vi sono numerose modalità di trasferimento del denaro22, molte delle quali ancora poco regolamentate. Passando ora all’aspetto operativo, appare evidente come la sopravvivenza di qualsiasi forma di criminalità dipenda dalla quantità di risorse a disposizione. I reati di riciclaggio e finanziamento sono estremamente connessi tra di loro, soprattutto quando le risorse provengono da fonti apparentemente illecite. In tali casi, è necessario infatti prima “lavare” il denaro al fine di occultare l’origine illecita e successivamente destinarlo ad altra operazione illegale, quindi terroristica. Pertanto, successivamente al classico “money laundering”, si assiste ad un fenomeno di “money dirtying”. Inoltre, anche nel caso in cui i fondi provengano da fonti apparentemente lecite, i terroristi avvertono comunque la necessità di occultarne l’origine, e quindi di celare il collegamento tra l’associazione terroristica e il donatore o la charity. In tale evenienza, non sembra potersi configurare un fenomeno di riciclaggio, neanche in senso lato, ma è opportuno rimanere nella definizione di “occultamento dell’origine”. Consapevole di tale intrinseca connessione, il legislatore, con il d.l. n. 109/200723, recante “misure per prevenire, contrastare e reprimere il finanziamento del terrorismo e l’attività dei Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale”, ha previsto strumenti affini a quelli in tema di antiriciclaggio. Il decreto prevede quindi sia obblighi di comunicazione che di obblighi di segnalazione, a carico dei soggetti destinatari della normativa antiriciclaggio. Per quanto riguarda i secondi, lo strumento più importante è sicuramente la segnalazione di operazioni sospette (S.O.S.) all’Unità di Informazione Finanziaria24, da effettuare seguendo gli indicatori25 emanati dalla Banca d’Italia e dall’U.I.F.

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FAFT, Emerging Terrorist Financing Risks, 2015, 13-20. Si veda anche S. De Vido, Il contrasto al finanziamento del terrorismo internazionale. Profili di diritto internazionale e dell’Unione Europea, 24-31. 22 Solo a titolo esemplificativo: banche off-shore, money transfert, sistema delle hawala e dei cash couriers, deep web, bitcoin e lite coin. 23 Il decreto ha attuato la direttiva 2005/60/CE. 24 Secondo i dati riportati dall’UIF, nel 2015 ci sono state circa 273 segnalazioni di operazioni sospette per finanziamento del terrorismo. 25 Indicatori specifici in materia di finanziamento del terrorismo sono: l’appartenenza alle liste comunitarie (Regolamen-

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Circa gli obblighi di comunicazione, posizione centrale, tanto in Italia quanto in Europa, riveste il congelamento dei beni e delle risorse finanziarie, applicato ai soggetti appartenenti alle black list comunitarie, ministeriali o dell’UIF. Una volta applicata tale misura, i soggetti indicati devono darne comunicazione, assieme all’indicazione dei nominativi, dell’ammontare e della natura dei fondi, all’UIF entro 30 giorni. È, peraltro, prevista la comunicazione, nel medesimo termine, di operazioni, rapporti e ogni informazione disponibile, riconducibile ai soggetti delle liste. Ulteriori misure sono poi previste a livello internazionale. Tra queste vi rientrano le clever o smart sanctions disposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che includono sia misure di congelamento, che sanzioni finanziarie e restrizioni alla libertà di movimento, per soggetti sospettati di implicazioni in attività terroristiche26. Oltre alle attività dell’intelligence finanziaria, è opportuno segnalare anche quelle svolte dalla Guardia di Finanza, polizia specializzata in indagini finanziarie, che si occupa anche del contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, secondo le linee guida del M.E.F. Come suggerito dalla Risoluzione n. 1373/01 del Consiglio di Sicurezza, le attività di contrasto al terrorismo internazionale devono concentrarsi, parallelamente al contrasto fisico, sull’aspetto economico-patrimoniale, attraverso la scoperta di flussi economici illegali. In questo contesto, l’attività della Guardia di Finanza ha un compito concorsuale rispetto alle altre forze di polizia, e svolge sia un’attività preventiva che repressiva. In tema di terrorismo, gli strumenti a disposizione di tale struttura sono gli accertamenti a seguito delle S.O.S., le indagini di Polizia Giudiziaria e le ispezioni presso operatori finanziari e non, al fine di verificare il rispetto della normativa. Le Segnalazioni di Operazioni Sospette, elaborate dall’intelligence finanziaria, danno quindi la possibilità alla Guardia di Finanza di iniziare le indagini finanziarie.

8. Il coordinamento investigativo: La Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Il terrorismo di matrice islamica è un problema comune a tutti gli Stati Europei e non solo, che, ai fini del contrasto, richiede “interdipendenza strategica tra i vari soggetti, che condividono la stessa minaccia”27. Per tale motivo, è estremamente necessario un coordinamento reale tanto giudiziario quanto investigativo, sia a livello nazionale che internazionale. A livello nazionale, fin dagli attentati dell’11 settembre 2001, si è sentita l’esigenza di centralizzare in un unico organo, il coordinamento e l’impulso in materia di terrorismo, esattamente come avvenne negli anni Novanta per i reati di criminalità a stampo mafioso28. A tal proposito, il d.lgs. n.159/2011, attraverso alcune modifiche apportate al codice antimafia, affidò al Procuratore Nazionale il potere di impulso e di coordinamento delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti dei soggetti di cui agli artt. 4 lett. d), 16 lett. a) e b) del decreto sopra citato.

to UE No 881/2002 e No 753/2011) o ministeriali, la localizzazione in aree a rischio degli operatori e gli enti no profi. 26 Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 1267/99 e n.1373/01 27 F.Roberti - L. Giannini, Manuale dell’Antiterrorismo. Evoluzione normativa e nuovi strumenti investigativi, 99. 28 D.L. 20 novembre 1991, n.367, convertito dalla legge 20 gennaio 1992, n.8.

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Al fine di dare efficace attuazione a tale previsione normativa, il d.l. n. 7/2015 ha definitivamente attribuito al P.N. anche la competenza di coordinamento e di impulso investigativo in materia di terrorismo: la D.N.A., istituita presso la Procura Generale della Corte di Cassazione, è diventata quindi Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. In sede di conversione, il testo, con evidenti lacune, è stato modificato, come suggerito anche dalla delibera del C.S.M. Del 18 marzo 2015. Le novità più rilevanti appaiono le seguenti. In primis è stata data al Procuratore Nazionale la facoltà di accedere a tutti i registri relativi ai procedimenti penali e all’applicazione di misure di prevenzione, nell’ambito delle funzioni previste dall’art. 371 bis c.p.p. L’effettività dei poteri attribuiti al P.N. si basa essenzialmente sulla conoscenza delle informazioni, pertanto, oltre all’accesso ai registri, è stato prevista la creazione di un’unica banca dati centralizzata presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, consultabile esclusivamente dal Procuratore Nazionale e dai Procuratori Distrettuali e caratterizzata da riservatezza e confidenzialità delle informazioni ivi contenute. Inoltre, è stata affidata al medesimo soggetto la possibilità di avvalersi, in relazione ai procedimenti per i delitti di cui all’art. 51 c.3 quater c.p.p., dei servizi centrali e interprovinciali delle forze di polizia, e di impartire a questi ultimi direttive a fini investigativi. Infine, è stata estesa la normativa sui collaboratori di giustizia e quella in materia di rogatorie internazionali, anche in materia di terrorismo29. In sintesi, è evidente come tali novità rappresentano un passo importante, volto a garantire “il coordinamento investigativo, la circolazione delle informazioni e la condivisione delle conoscenze. Quindi completezza e tempestività delle indagini”30.

9. Un efficace circuito di condivisione informativa. Per rendere efficaci tutti gli strumenti di contrasto sopra analizzati, è necessario garantire in termini tecnico-operativi un triplo circuito di condivisione: i servizi di intelligence e le forze di polizia di uno stesso Paese dovrebbero lavorare insieme; le forze di polizia nazionali dovrebbero coordinarsi con quelle degli altri Paesi; i servizi segreti dovrebbero dialogare con quelli degli altri Stati. L’Italia in questo settore è uno dei più avanzati: a seguito dell’attentato di Nassiriya, è stato istituito, con Decreto del Ministro dell’Interno31, il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (C.A.S.A.), meccanismo di raccordo tra i servizi di informazione e le forze di polizia giudiziaria italiane32. La prima “alleanza” si realizza quindi all’interno di un tavolo permanente, dove vengono periodicamente condivise e valutate le informazioni sulle minacce terroristiche, nazionali ed internazionali, al fine di pianificare le azioni di prevenzione. Nella Relazione Annuale della

29 Il procuratore Generale deve trasmettere al Procuratore Nazionale copia delle rogatorie provenienti dalle autorità straniere e quelle provenienti dalle autorità italiane, in materia di terrorismo e di mafia. 30 F. Roberti - L. Giannini, Manuale dell’Antiterrorismo. Evoluzione normativa e nuovi strumenti investigativi, 120 31 Decreto del Ministro dell’Interno, 6 maggio 2004 32 Secondo quanto dichiarato dall’ex Ministro dell’Interno Alfano, durante la riunione CASA a seguito dell’attentato di Nizza, nell’ambito dei controlli straordinari pianificati in ambito CASA, “sono state controllate 154 mila persone e 32 mila veicoli, sono state effettuate oltre 2.600 perquisizioni, sono state 532 le persone arrestate, 837 le persone indagate e quasi un centinaio le espulsioni tra cui anche 7 imam”. Articolo della Polizia di Stato, 15/07/2016.

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Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, presentata il 12 aprile 2017, emerge come dal 1° luglio 2015 al 30 giugno 2016 sono state effettuate 62 riunioni di coordinamento in materia di terrorismo. La seconda fase di condivisione, ovvero il c.d. law enforcement, generalmente si realizza all’interno dell’Europol, più precisamente in materia di terrorismo con ECTC33, ma per quanto riguarda la fruibilità delle informazioni tra un paese e l’altro, la materia è stata recentemente rivisitata dal Decreto Legislativo n.54/2015, che ha dato attuazione alla decisione quadro 2006/960/GAI del Consiglio del 18 dicembre 2006. Tale provvedimento è volto a garantire la velocità dello scambio informativo transfrontaliero, secondo il principio di disponibilità. Per quanto riguarda la terza ed ultima “alleanza”, l’intelligence è l’attività di ascolto profondo della società, una sorta di “polizia di osservazione della società”, che raccoglie e analizza dati in un’ottica di prevenzione, al fine di supportare i processi decisionali. Se i sistemi di intelligence occidentali tradizionali sono stati sufficienti per contrastare le azioni eversive degli anni Ottanta, oggi, con il terrorismo internazionale, questi non bastano. Di fronte ad una minaccia comune, è necessaria un’azione comune, che imprescindibilmente dipende dal livello di comunicazione tra le parti. In tal senso, il nostro Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica, prevede lo strumento degli accordi generali di sicurezza. Questi, non essendo né trattati internazionali né atti rientranti nell’art. 80 Cost., rivestono la forma di accordi informali, bilaterali o plurilaterali, che necessitano la sola sottoscrizione del testo. In Italia il potere di firma è attribuito al Direttore Generale del DIS, previa autorizzazione firmata dal Presidente della Repubblica e controfirmata dal Ministro degli Esteri, il quale esprime anche un parere in fase di negoziazione, circa la conformità dell’accordo alla normativa italiana e internazionale. Tali accordi garantiscono lo scambio con altri Paesi o con organizzazioni internazionali di “informazioni classificate”34. In conclusione, bisogna riconoscere che tale strumento ha il pregio di identificare le Autorità di sicurezza nazionale negli altri Paesi, di garantire canali di comunicazione ufficiali delle informazioni classificate, nonché la reciproca protezione delle stesse.

10. Conclusioni. “Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità”. Le parole di uno dei più grandi strateghi di tutti i tempi, risultano oggi più attuali che mai. Interpretando in chiave moderna i pensieri di Sun Tzu, si potrebbe affermare che egli avrebbe considerato la vittoria ottimale quella conquistata attraverso le misure preventive. Dello stesso avviso appare il legislatore italiano, il quale ha ritenuto opportuno potenziare i mezzi preventivi, volti a prevenire la commissione dei reati, al fine di evitare che anche l’I-

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European Counter Terrorism Centre, creato il 20/11/2015 all’interno dell’Europol. “Ogni informazione, atto, attività, documento, materiale inclusi oggetti e infrastrutture, a cui è stata attribuita una classifica di sicurezza, in conformità con le leggi ed i regolamenti nazionali delle parti”. Nel nostro Paese, le classifiche di sicurezza sono: riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo. 34

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talia venga colpita da atti terroristici in grado di creare una situazione di panico e insicurezza nella popolazione, proprio come è avvenuto recentemente in Paesi non lontani da noi, quali la Francia, il Belgio e la Germania. Tirando le fila del lavoro svolto, appaiono opportune alcune considerazioni. Per iniziare, occorre riconoscere meriti all’organo legislativo italiano, il quale, negli ultimi anni, ha tentato di costruire tutti i possibili strumenti necessari al fine di contrastare il terrorismo di matrice jihadista, tenendo sempre a mente l’inevitabile bilanciamento tra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali. Invero, tutti i mezzi investigativi analizzati possono risultare efficaci solo a condizione che, una volta messi da parte pensieri guidati da moralismo e scarsa conoscenza del fenomeno, le forze di polizia e di intelligence applichino correttamente il disposto legislativo, in un’ottica di coordinamento e di condivisione delle informazioni. Si può affermare quindi che i mezzi ci sono, ma vanno utilizzati correttamente. I motivi per i quali ad oggi non si sono ancora verificati eventi nefasti nel nostro Paese sono molteplici. Proprio in ragione dell’attuale mancanza di atti terroristici, forse in Italia non si è ancora diffusa la consapevolezza che il mondo sta vivendo una guerra asimmetrica, ma lo stato di allerta è massimo e la propagazione di fenomeni, quali il reducismo e gli attacchi dei cd. lupi solitari, sono destinati a non terminare nel breve periodo. Pertanto, una volta analizzati tutti gli strumenti investigativi volti a prevenire e a reprimere il terrorismo di matrice jihadista, sono auspicabili i seguenti sviluppi. In primo luogo appare opportuna la promozione di attività formative, tanto per la magistratura quanto per le forze di polizia, aventi ad oggetto sia gli strumenti investigativi disponibili in materia di antiterrorismo che la conoscenza approfondita del fenomeno in esame, con particolare attenzione agli aspetti che toccano l’Italia in prima persona. Ci si riferisce quindi a problematiche quali la radicalizzazione all’interno delle carceri, l’utilizzo di internet per reclutare e diffondere i messaggi jihadisti in tutto il mondo, la nascita di cellule terroristiche individuali, prive di legami ufficiali con Daesh, le attività di finanziamento al terrorismo provenienti da canali apparentemente legali e i possibili legami e alleanze tra le organizzazioni terroristiche e quelle mafiose. In secondo luogo è necessario lasciare ampi spazi di manovra alle Forze dell’Ordine, soprattutto nell’utilizzo di strumenti quali le intercettazioni e i colloqui preventivi. Bisogna ricordare sempre che non sono le Autorità in questione a voler limitare la libertà di espressione e di credo dei soggetti fondamentalisti radicali, ma anzi sono questi ultimi a non accettare, e quindi voler eliminare, il diverso che non si converte. Tutto ciò, in una società laica di matrice liberale come quella italiana, non può essere permesso, proprio al fine di tutelare quella libertà di pensiero finalizzata a mantenere un dialogo interculturale ed intereligioso.

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Giurisprudenza

internazionale

The Specialist Chamber of the Constitutional Court, 28 giugno 2017, KSC-CC-PR-2017-03 Kosovo – Specialist Chambers – Remote interceptions and searches – Captatore informatico – Virus di stato – Diritti fondamentali – Privacy

Il 28 giugno 2017 la Specialist Chamber of the Constitutional Court della Repubblica del Kosovo ha emesso la prima sentenza in tema di intercettazioni e perquisizioni mediante captatore informatico (remote interceptions and searches) in particolare esaminandone la compatibilità con i principi di tutela dei diritti fondamentali. Trattasi della prima decisione adottata in materia da parte di un organo giudiziario internazionalizzato. On the 28th of June 2017 the Specialist Chamber of the Constitutional Court of the Republic of Kosovo has considered if investigative tools, such as remote interceptions and searches, are consistent with fundamental and human rights protection. This is the first judgement of an internazionalized court on this matter.

(Omissis) 83. In the context of investigative measures and, more particularly, the carrying out of searches of property belonging to a suspect, the Court observes that the Rules do not provide, expressly, for remote searches of computerised devices with the aim of searching them for the purpose of obtaining relevant evidence or copying data. Increasingly, investigating authorities deem such remote searches of suspects’ devices to be an important and necessary investigative tool in efforts to combat serious and complex crimes as it allows them to look for and obtain evidence that may not otherwise be accessible. Such remote searches are to be distinguished from a more routine search of a suspect’s computer’s hard drive or mobile device following its physical seizure. They can also be distinguished from covert interception of communications passing by way of computer. For example, remote searches may involve, with the appropriate software, the input of a key word in order to locate evidence that may be relevant to the investigation of a suspect. 84. In some instances, remote searches can provide investigative authorities with access to all data held on an individual’s device together with information flowing to and from that device. This type of investigative search is likely to enable the authorities to collect significantly greater quantities of data, much of which may be highly personal or

of a sensitive nature. It has the potential for increased levels of invasiveness when compared to traditional covert activities, such as, wiretapping. Consequently, remote access searches may pose particular challenges insofar as the right to privacy is concerned. 85. In the event of an application by the Specialist Prosecutor for an order permitting a remote online search, the Rules contain a number of provisions that oblige the Panel to balance the interests at stake. Rule 31, for example, requires the Panel to assess the necessity and proportionality of an interference. In several rules minimum safeguards are provided in the area of technical infiltration. Rules 34 and 35, on special investigative measures, specify the nature of offences which may give rise to such an order, the categories of persons in respect of whom such a measure may be applied, a limit on the duration of the measure and the obligation to notify the subject thereof. 86. Notwithstanding such existing safeguards, remote access is a highly intrusive measure which calls for stricter conditions in order to ensure that the resulting interference remains within the confines of what is constitutionally permissible. These may include specific procedures for data related to a core area of private life, a narrowing of the categories of offences that may give rise to such an order and a shorter duration permitted for the taking of such a measure. Other safeguards might include a requirement that any changes


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to the targeted information technology system be automatically reversed as far as technically feasible, that a device’s security level is not reduced and that key information related to the technical means used is recorded and logged. 87. In connection with higher standards required in the area of technical infiltration, the Court notes that the strict condition set out in Rule 37(1) on search and seizure operations – that the search may be carried out where evidence ‘may not be otherwise obtained’ and ‘appears to be the only effective means for the purposes of the investigation’ – would be an appropriate standard for remote searches. At the same time, the obligation placed on the Specialist Prosecutor under Rule 39(1)(a) to provide, prior to search, the person concerned with a certified copy of the decision thereof would require recon-

sideration so as to avoiding frustrating the very purpose of a remote search. 88. In that light and in order to enable the Specialist Prosecutor to resort to remote searches in the course of his or her investigations, the Plenary may wish to give further consideration to such measures while ensuring that any amendments to the Rules are articulated with a view to striking a balance between, on the one hand, the significant benefits to be gained by the use of remote access tools in terms of investigative efficiency and, on the other, their heightened interference with the right to privacy. 89. Notwithstanding the foregoing, the Court finds that Rule 39, on its face, is not inconsistent with Chapter II of the Constitution. (Omissis)

Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale: dalle specialist chambers del Kosovo verso la tutela dei diritti fondamentali Sommario: 1. Le Specialist Chambers del Kosovo e le Rules of procedure and evidence. – 2. La decisione della Specialist Chamber of the Constitutional Court in tema di remote interceptions and searches. – 3. Crittografia, captatore informatico e diritti fondamentali: il difficile bilanciamento. – 4. Riflessioni conclusive.

1. Le Specialist Chambers del Kosovo e le Rules of procedure and evidence. Nel 2015 in Kossovo sono stati istituiti due nuovi organismi per la repressione dei crimini commessi dall’Esercito di liberazione kosovaro in occasione del conflitto armato degli anni 1998-2000. Trattasi delle Specialist Chambers e dello Specialist Prosecution’s Office1.

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Istituiti per mezzo della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 adottata dal Parlamento della Repubblica del Kosovo, in

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Lo scorso 28 giugno 2017, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale della Repubblica del Kosovo ha avuto occasione di pronunciarsi sulla compatibilità della riformata normativa relativa ai procedimenti innanzi alle stesse Specialist Chambers con la Costituzione kosovana. La pronuncia si segnala perché, come si vedrà, è la prima decisione di un organo giudiziario internazionalizzato2 ad affrontare il tema delle intercettazioni e perquisizioni mediante captatore informatico (cc.dd. remote interceptions and searches) sotto il profilo della compatibilità di tali speciali tecniche investigative con i principi di tutela dei diritti fondamentali. Per contestualizzare e apprezzare tale arresto giurisprudenziale occorre rilevare che in precedenza, il 17 marzo 2017, la seduta plenaria dei giudici delle Specialist Chambers, in ossequio alla relativa legge istitutiva, aveva adottato le cc.dd. Rules of procedure and evidence, concernenti la conduzione dei processi innanzi ai medesimi organismi3. A tale seduta plenaria, per espressa previsione legislativa, non avevano preso parte i giudici della Specialist Chamber della Corte Costituzionale, chiamati a fornire all’adottanda normativa un diverso apporto, attraverso il vaglio di compatibilità e di coerenza con il sistema di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali scolpito nelle Carte dei diritti internazionali e sovranazionali nonché nella stessa Costituzione kosovana4.

attuazione della legge di modifica costituzionale n. 05/D-139 contestualmente approvata, entrambi gli organi sono parte integrante del sistema giudiziario del Kosovo. Il loro scopo è quello di condurre processi in relazione alle accuse di gravi violazioni del diritto internazionale contenute nella relazione del Consiglio d’Europa del 7 gennaio 2011. Specialist Chambers e Specialist Prosecution’s Office hanno un mandato temporaneo (cinque anni dall’istituzione) e una giurisdizione specifica, circoscritta ad un elenco tipico di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e altri reati di diritto penale kosovaro commessi tra l’1 gennaio 1998 e il 31 dicembre 2000. Segnatamente, l’art. 3 della legge istitutiva prevede la costituzione di una Specialist Chamber per ogni livello della giurisdizione kosovara. Pertanto, si hanno una Specialist Chamber presso il Tribunale di primo grado, una presso la Corte d’Appello, una presso la Corte Suprema ed una presso la Corte Costituzionale. Per approfondimenti, cfr. https://www.scp-ks.org/en. 2 Possono definirsi tali quei tribunali “ibridi”, i cui statuti scaturiscono dalla cooperazione tra uno Stato ed altre organizzazioni internazionali o sovranazionali, che combinano in vario modo elementi di diritto interno e di diritto internazionale. Di norma, l’istituzione di tribunali fa parte del processo di c.d. post conflict peace building, volto a ricostruire il tessuto istituzionale di uno Stato o di un territorio dopo la fine di un conflitto armato internazionale o di una guerra civile. Oltre alle Specialist Chambers e allo Specialist Prosecution’s Office del Kosovo, sono riconducibili a tale novero, ad esempio, la Corte speciale per la Sierra Leone, le Camere straordinarie per la Cambogia, il Tribunale speciale per il Libano nonché le Sezioni specializzate per i crimini internazionali istituite in seno alle Amministrazioni delle Nazioni Unite a Timor Est (UNTAET - United Nations Transitional Administration in East Timor). I tribunali internazionalizzati, pur nella loro diversità, hanno alcune caratteristiche comuni: il coinvolgimento di organi sovranazionali nella loro istituzione; la composizione mista del collegio giudicante formato sia da giudici nazionali sia da giudici internazionali; l’applicazione di norme sostanziali e processuali sia interne sia internazionali; l’esercizio di una competenza ratione temporis, ratione materiae e ratione loci ben definita. Cfr. N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino, 2017, 241 ss. 3 Trattasi del comma 1 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053, alla cui stregua sono gli stessi giudici delle Specialist Chambers in seduta plenaria ad adottare la normativa relativa alla conduzione dei processi innanzi alle stesse, con l’espressa esclusione da tale plenaria dei giudici della Specialist Chamber della Corte Costituzionale. 4 In tal senso, il comma 5 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 prevede che le nuove disposizioni o gli emendamenti relativi alle Rules of procedure and evidence vengano sottoposti al vaglio della Specialist Chamber della Corte Costituzionale, che entro trenta giorni deve verificarne la compatibilità con la Costituzione e, laddove non la riscontrasse, deve rimettere la questione alla plenaria degli altri giudici delle Camere Specializzate affinché intervengano sulla disposizione o sulle disposizioni censurate.

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Il successivo 27 marzo 2017, il Presidente delle Specialist Chambers, proprio al fine di assicurare tale conformità, aveva quindi rimesso la normativa appena approvata alla Specialist Chamber della Corte Costituzionale, la quale, in data 26 aprile 2017, aveva sancito il contrasto di alcune disposizioni rispetto al dettato costituzionale e, segnatamente, in relazione al suo Capitolo II intitolato ai diritti e alle libertà fondamentali5. A seguito di tali censure, il 29 maggio 2017, la seduta plenaria dei giudici delle altre Specialist Chambers, sempre al netto dei giudici della Camera Specializzata della Corte Costituzionale, aveva proceduto ad emendare la normativa in questione, nell’esercizio della peculiare prerogativa riconosciutale dalla relativa legge istitutiva6. Sicché, in data 31 maggio 2017, il testo riformato era stato nuovamente rimesso alla Specialist Chamber della Corte Costituzionale affinché, a seguito della menzionata modifica, si pronunciasse sulla tenuta costituzionale delle correzioni apportate e sull’adeguatezza degli emendamenti a garantire il rispetto degli standard di tutela dei diritti fondamentali.

2. La decisione della Specialist Chamber of the Constitutional Court in tema di remote interceptions and searches. Con la decisione KSC-CC-PR-2017-03 la Specialist Chamber della Corte Costituzionale ha preliminarmente verificato la sussistenza dei presupposti della rimessione della questione alla propria attenzione e l’ha dichiarata ammissibile, rammentando che la legge istitutiva, all’art. 49, la designa quale autorità suprema relativamente all’interpretazione della Costituzione in rapporto alle materie soggette alla giurisdizione delle Specialist Chambers e dello Specialist Prosecutor’s Office. La stessa Camera Specializzata, quindi, si è premurata di precisare che gli artt. 3 e 19 della legge istitutiva impongono a tutte le Specialist Chambers di funzionare nel rispetto non solo della Costituzione ma anche del diritto internazionale dei diritti umani, inclusa la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (meglio nota come Patto internazionale sui diritti civili e politici). Tuttavia, la revisione delle Rules of procedure and evidence posta in essere dalla plenaria delle Specialist Chambers pare essersi tradotta nella mera circoscrizione, a volte considerevole, dei poteri d’indagine dello Specialist Prosecutor. Una restrizione che, come la stessa Corte Specializzata della Corte Costituzionale ha sottolineato, non costituiva il proposito delle proprie censure originariamente mosse alle Rules of procedure and evidence. La pura e semplice sottrazione di poteri investigativi, infatti, rischia unicamente di frustrare l’esercizio del mandato di ricerca di giustizia dello Specialist Prosecutor. Preferibile sarebbe stato allora l’assoggettamento di tali misure investigative ad adeguate garanzie, incluso il controllo giudiziario, nell’ottica di un appropriato bilanciamento tra interessi pubblici e privati.

5 Si tratta, segnatamente, degli artt. 19, co. 3, 31, 32, 33, 35, co. 1, lett. b) e c), e co. 3, 36, co. 1 e 2, 38 co. 1 e 5, 54 co. 4 e 158, co. 2, dichiarati incompatibili con il Capitolo II della Costituzione. Invece, rispetto all’art. 134, co. 3, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale non ha potuto dichiarare la compatibilità. Le altre disposizioni delle Rules of procedure and evidence, infine, non sono state ritenute incompatibili con il dettato costituzionale. 6 Il comma 4 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 prevede infatti che le Rules of procedure and evidence possano essere emendati dai giudici in seduta plenaria.


Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale

Tanto premesso a titolo di considerazioni preliminari e generali, il giudizio della Specialist Chamber della Corte Costituzionale si rivolge ed abbraccia una consistente varietà di materie, quali il rapporto tra le intercettazioni e le relazioni confidenziali, la disciplina dell’assenza dei giudici, gli ordini di comparizione, arresto e detenzione, lo svolgimento del processo, soffermandosi poi diffusamente, in particolare, sulle misure investigative7. Tra queste ultime, particolare attenzione viene dedicata alle remote interceptions and searches, cioè le intercettazioni e perquisizioni “da remoto” poste in essere attraverso il c.d. captatore informatico, rispetto alle quali la Camera Specializzata della Corte Costituzionale rileva che le Rules non prevedono espressamente investigazioni siffatte nei confronti dei dispositivi computerizzati. Nondimeno, si tratta di strumenti d’indagine che le autorità inquirenti ritengono vieppiù importanti, se non proprio indispensabili, al fine di contrastare talune forme di criminalità complesse, in quanto permettono di rinvenire evidenze di colpevolezza che, diversamente, non sarebbero accessibili con le tradizionali tecniche investigative. Le intercettazioni e perquisizioni tramite captatore informatico, infatti, si distinguono dalle tradizionali forme di investigazioni informatiche (cc.dd. digital forensics)8, di cui normativa cardine è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, sottoscritta a Budapest il 23 novembre 2001, la quale ha permesso di introdurre una disciplina specifica in tema di acquisizione degli elementi di prova digitali in numerosi ordinamenti, tra cui quello italiano9, con particolare riferimento ad ispezione10, perquisizione11, sequestro12, acquisizione e conservazione dei dati presenti su supporti o sistemi informatici13.

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Cfr., rispettivamente, i seguenti paragrafi della sentenza in commento: §21, §27, §94, §97, §29. Per una approfondita disamina dell’argomento, cfr. S. Aterno, voce Digital foresics (investigazioni informatice), in Dig. disc. pen., agg. VIII, Torino, 2014, 217 ss. 9 Trattasi della legge n. 48/2008, in merito alla quale sia consentito il rinvio a M. L. Di Bitonto-A. Vitale-A. MacrillòA. Barbieri-E. Forlani, La ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sul cybercrime: profili processuali, in Diritto dell’internet, 2008, 503 ss. 10 Segnatamente, in tema di ispezioni, l’art. 244 c.p.p. stabilisce che l’autorità giudiziaria può disporre “ispezioni informatiche”, cioè rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ogni altra operazione tecnica, anche in relazione a sistemi informatici o telematici, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione. 11 L’art. 247 c.p.p., al co. 1 bis, prevede che, ove si abbia motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, deve esserne disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione. 12 Durante un’attività di indagine, in caso di ritrovamento di un computer o altro dispositivo informatico spento, non è possibile procedere né ad ispezione né a perquisizione e si procede normalmente al sequestro del sistema informatico che verrà successivamente sottoposto ad un accertamento tecnico ai sensi dell’art. 359 c.p.p. o ai sensi dell’art. 360 c.p.p., ossequiando i criteri di garanzia e integrità della prova digitale. Ciò che viene posto sotto sequestro probatorio è il documento informatico contenuto all’interno del sistema e non il dispositivo informatico. È necessario pertanto assicurare la genuinità sia del supporto e sia del documento esistente all’interno del supporto. 13 La fase acquisitiva consiste in un’operazione di estrapolazione e riproduzione su idoneo supporto del dato digitale oggetto di indagine. Essa deve svolgersi nella piena garanzia di integrità e non alterabilità dei dati e nella prospettiva di una eventuale ripetibilità dell’operazione, tenendo presente la necessità di garantire la genuinità del dato informatico. Tale fase acquisitiva viene effettuata attraverso software e hardware dedicati che effettuano una 8

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Le remote interceptions and searches si distinguono altresì dalle intercettazioni di comunicazioni tra computer, le quali rientrano nella (oramai) tradizionale ipotesi di intercettazione del flusso di dati relativo a sistemi informatici o telematici14. Il controllo “da remoto”, ancorché permetta di conseguire risultati analoghi a quelli dei tradizionali strumenti investigativi (quali perquisizioni ed intercettazioni), se ne distingue e si caratterizza per essere realizzato senza la necessità di un accesso fisico al dispositivo bensì attraverso l’installazione a distanza di un software di tipo trojan horse, emblematicamente definito dalla dottrina “virus di stato”15. Tale virus, che potrebbe essere installato sull’apparecchio elettronico anche manualmente, di norma viene installato clandestinamente da remoto, cioè mediante l’invio di messaggi al dispositivo (email, aggiornamenti di applicazioni, comunicazioni del gestore dei servizi di messaggistica o social network), la cui apertura o visualizzazione dà luogo alla c.d. “inoculazione”16. Il captatore informatico, altrimenti noto come agente intrusore, consiste dunque, essenzialmente, in un virus che, una volta installato surrettiziamente sul dispositivo da controllare (computer, smartphone o tablet), agisce all’insaputa del relativo titolare senza rivelargli la propria presenza17. Sicché, servendosi della connessione ad internet per comunicare con un centro remoto di comando e controllo che lo gestisce, tale programma acquisisce i dati veicolati dal dispositivo infettato18. In particolare, si distinguono due modalità captative. La prima è la on line surveillance e consiste proprio nell’acquisizione del flusso di dati che passa attraverso le periferiche del dispositivo preso di mira (video, tastiera, microfono, webcam) e che consente di monitorare in tempo reale tutto ciò che viene visualizzato sullo schermo (screenshot), digitato attraverso la tastiera (keylogger), detto attraverso il microfono o visto tramite la webcam. La seconda è la on line search e consiste nella possibilità di effettuare a distanza una ricerca tra i file presenti nel dispositivo monitorato e di fare copia, totale o parziale, delle relative unità di memoria19.

sorta di “clonazione” del supporto informatico sotto sequestro dalla quale scaturisce una “immagine” cristallizzata del contenuto dell’hard disk su altro supporto. Tale procedura consente di operare l’analisi forense su un supporto praticamente identico all’originale senza però alterarlo. 14 In assenza di una definizione legislativa di intercettazione, tale vuoto normativo è stato colmato dalla giurisprudenza, la quale in maniera consolidata la descrive in termini di captazione, posta in essere attraverso strumenti tecnici di registrazione, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione segreta in corso tra due o più persone, operata da parte di un soggetto che nasconde la propria presenza agli interlocutori. Cfr., ex multis, Cass., sez. un., 28/05/2003 n. 36747, in Arch. nuova proc. pen., 2003, 540. 15 Cfr. M Torre, Il virus di Stato nel diritto vivente tra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali, in Dir. pen. proc., 2015, 1163 ss. 16 Il virus, ancorché definito “di stato”, lo è solo nella misura in cui esso viene utilizzato dalle forze dell’ordine nazionali. Tuttavia, tale tecnologia è sviluppata da imprese private, tra cui spiccano la FinFisher e l’italiana Hacking Team. I software da essi sviluppati rientrano nel novero dei c.d. prodotti dual-use, utilizzabili cioè in applicazioni sia civili che militari, in quanto tali sottoposti a una precipua normativa che ne disciplina le esportazioni per assicurare il rispetto degli impegni e delle responsabilità internazionali assunti dagli Stati che hanno aderito ai regimi di controllo all’esportazione. Per un approfondimento si rinvia al sito internet del Ministero dello sviluppo economico consultabile all’indirizzo http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/commercio-internazionale/import-export/dual-use. 17 Cfr. A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea, in Cass. pen., 5, 2016, 2274 ss. 18 Cfr. A. Testaguzza, I sistemi di controllo remoto: fra normativa e prassi, in Dir. pen. proc., 2014, 759 ss.
 19 Così A. Testaguzza, Digital forensics. Informatica giuridica e processo penale, Padova, 2014, 1163 ss.

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Le informazioni così acquisite dal virus vengono trasmesse, in modalità protetta e nascosta all’utente, a server esterni, collocati presso apposite sale di ascolto, sfruttando la connettività a internet del dispositivo elettronico monitorato. Laddove difetti tale connettività, le informazioni vengono salvate in locale ed inviate al server non appena risulti disponibile un collegamento alla rete20. Ne consegue che i dispositivi ove il virus è installato possono realizzare vere e proprie intercettazioni ambientali, con la fondamentale precisazione (e differenza) che non occorre collocare materialmente la microspia sul luogo di interesse investigativo, essendo sufficiente procedere all’installazione del software sul dispositivo interessato, il quale fungerà da trasmittente delle comunicazioni avvenute non solo per suo tramite ma anche solamente in sua presenza. Per l’effetto, quanto intercettato dal microfono del dispositivo integrerà una intercettazione ambientale vera e propria, avente ad oggetto le conversazioni svolte tra presenti nel raggio di captazione dell’apparecchio “infettato”, il quale si comporterà alla stregua di una microspia. Appare dunque di tutta evidenza la straordinaria potenzialità delle remote interceptions and searches, trattandosi di strumenti capaci, da un lato, di raggiungere risultati analoghi a quelli delle tradizionali investigazioni informatiche in maniera più agile e, dall’altro lato, di conseguire risultati ulteriori che diversamente non sarebbe possibile raggiungere. In quest’ultimo senso, per intercettare le comunicazioni realizzate attraverso l’impiego di apparati mobili collegati a reti Wi-Fi “aperte” o effettuate da utilizzatori di sistemi crittografati (si pensi alle conversazioni VoIP nonché alle comunicazioni realizzate mediante sistemi di messaggistica quali Whatsapp, Messenger e Telegram, che implementano efficacissimi sistemi di crittografia), è indispensabile ricorrere a un sistema diverso dalle tradizionali intercettazioni telematiche, che si svolgono con l’assistenza tecnologica dei fornitori del servizio di accesso alla rete, consentendo l’acquisizione dei soli dati “in chiaro”. Diversamente, il virus effettua la captazione della voce o dei messaggi dell’utilizzatore prima che questi vengano criptati ovvero dopo che gli stessi siano stati decifrati21. Questa tecnica investigativa permette così di accedere e immagazzinare, potenzialmente, una quantità di dati, inclusi quelli personali e sensibili, significativamente maggiore rispetto alle intercettazioni tradizionali, telefoniche o ambientali. Sicché, essa ha una ben maggiore attitudine invasiva della sfera della riservatezza altrui. Ne consegue la necessità di porre in essere un più attento bilanciamento tra le esigenze d’indagine e il diritto alla riservatezza della vita privata. Invero, le Rules of procedure and evidence non prevedono nulla di specifico in tema di remote interceptions and searches, limitandosi a contemplare un certo numero di previsioni sulle misure investigative in generale, le quali, di volta in volta, impongono il bilanciamento degli interessi in considerazione. Nondimeno, ad opinione della Specialist Chamber of the Constitutional Court, tali disposizioni sono suscettibili di trovare estensivamente applicazione altresì alle indagini condotte attraverso il captatore informatico. Sicché, in ipotesi di perquisizioni online disposte dallo Specialist Prosecutor, la sentenza evoca preliminarmente l’art. 31 delle Rules, che in generale, in tema di misure investigative, postula il rispetto di garanzie minime. Tale disposizione, infatti, prevede che le indagini che possono interferire con i diritti fondamentali di cui al dettato costituzionale debbano essere

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Ivi, 81 ss. Ibidem.

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autorizzate da un collegio (Panel), previo apprezzamento della necessità e della proporzionalità di tale interferenza22. La sentenza richiama altresì gli artt. 34 e 35 delle Rules, dettati in tema di misure investigative speciali, i quali individuano ulteriori presupposti e condizioni che la Camera Specializzata ritiene applicabili altresì all’ordine di perquisizione online. Essi concernono, segnatamente, le tipologie di reati per cui si procede e/o le categorie di soggetti destinatari della misura, il limite di durata della stessa e, laddove ciò non comprometta le indagini, l’obbligo di notifica allo stesso soggetto sorvegliato23. Tuttavia, nonostante la potenziale estensione di tali guarentigie alle indagini condotte per mezzo del captatore informatico, è opinione della Specialist Chamber della Corte Costituzionale che tale modalità d’indagine, per la fisiologica attitudine ad essere altamente intrusiva rispetto alla sfera privata degli indagati, postuli condizioni applicative più stringenti al fine di assicurarne la permanenza entro i confini della legittimità costituzionale. Si ipotizzano pertanto, de iure condendo, l’implementazione di specifiche procedure laddove siano coinvolti dati sensibili dell’indagato, una limitazione delle categorie di reati che ne ammettono l’utilizzo e una più breve durata consentita. Ulteriori salvaguardie del diritto alla riservatezza dell’indagato potrebbero consistere, ad esempio, nell’automatica cancellazione di ogni modifica del sistema informatico sottoposto a controllo, una volta che la perquisizione o intercettazione online sia terminata e, laddove ciò sia tecnicamente possibile, nel non ridurre il livello di sicurezza del dispositivo “infettato”. Ancora, nella prospettiva del rispetto di più alti standard di tutela dei diritti fondamentali, la Camera Specializzata della Corte Costituzionale rileva che la stringente condizione posta dall’art. 37 delle Rules relativamente alle operazioni di perquisizione e sequestro, alla cui stregua la perquisizione può essere condotta solo ove la prova non possa essere ottenuta altrimenti ovvero la stessa perquisizione appaia l’unica misura efficace ai fini dell’indagine, sarebbe appropriata altresì per le perquisizioni online e, più in generale, per le indagini condotte a mezzo di captatore informatico. Allo stesso tempo, però, l’obbligo posto in capo allo Specialist Prosecutor in forza dell’art. 39 di fornire, prima dell’avvio della perquisizione finalizzata al sequestro, una copia del prov-

22 Segnatamente, ai sensi dell’art. 31, co. 1, lett. b) e c), le misure devono essere necessarie rispetto all’indagine e l’interferenza con il diritto all’integrità personale, alla riservatezza e alla proprietà deve essere proporzionale al legittimo scopo dell’indagine e non negare l’essenza del diritto garantito. 23 In particolare, l’art. 34 statuisce che le misure investigative speciali possono essere adottate solamente: 1) laddove vi sia un fondato sospetto che un reato tra quelli tassativamente elencati sia stato commesso o sia in procinto di essere commesso; 2) laddove le prove non possano essere ottenute in altro modo meno intrusivo; 3) relativamente a soggetti o in specifici luoghi in cui vi sia il fondato sospetto che detti soggetti abbiano commesso, stiano commettendo o siano in procinto di commettere alcuno dei reati predetti ricadenti nella giurisdizione delle Specialist Chambers. Notifica dell’attività di indagine in corso di espletamento spetta al soggetto solo laddove essa non comprometta l’obiettivo dell’indagine. L’art. 35, invece, impone allo Specialist Prosecutor di richiedere autorizzazione a un collegio (Panel) per l’adozione delle misure investigative speciali, il quale è chiamato a verificare il soddisfacimento delle garanzie minime di cui all’art. 31 e delle condizioni di cui all’art. 34. Riscontrato ciò, il collegio è tenuto a scrutinare altresì: 1) il periodo per cui la richiesta è avanzata, in relazione alle specifiche esigenze dell’indagine, senza potere in ogni caso eccedere i sessanta giorni; 2) la procedura per le comunicazioni relative all’attuazione delle misure autorizzate e alla raccolta delle prove, entro termini periodici o alla scadenza delle misure stesse; 3) l’autorizzazione, ove necessaria, relativa all’accesso in un luogo specifico per eseguire, mantenere o terminare la misura investigativa.

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vedimento che la dispone alla persona interessata, andrebbe riconsiderato allo scopo di evitare che lo scopo della perquisizione online rimanga frustrato. In questa prospettiva e allo scopo di consentire allo Specialist Prosecutor di fare ricorso alla “sorveglianza a distanza” nel corso delle proprie indagini, secondo la Specialist Chamber of the Constituzional Court, la Plenaria potrebbe dare maggiore considerazione a tali tecniche investigative, al contempo assicurando che ogni emendamento alle Rules venga articolato al fine di bilanciare l’efficacia delle remote interceptions and searches con la loro spiccata intrusività della sfera della vita privata della persona. Ciononostante, la Specialist Chamber costituzionale, pur avendone suggerita la riformulazione nei termini predetti, ha conclusivamente ritenuto che l’art. 39, prima facie, non risulta incompatibile con il dettato costituzionale kosovaro.

3. Crittografia, captatore informatico e diritti fondamentali: il difficile bilanciamento. La crittografia, quella tecnica che permette di “cifrare” un messaggio rendendolo incomprensibile a tutti fuorché al suo destinatario, è indubbiamente una barriera investigativa difficilmente penetrabile, specialmente laddove applicata all’informatica24. Nondimeno, attorno a tale barriera si è progressivamente rinsaldato un certo consenso, nella misura in cui essa risulta strumentale ad assicurare il fondamentale diritto alla riservatezza25. In tempi più recenti, tuttavia, la minaccia del terrorismo e del cyber-crimine ha in parte spostato l’opinione pubblica in senso inverso, rinsaldando la contrapposta idea che le forze dell’ordine debbano potere legalmente superare i limiti crittografici per perseguire fini di giustizia26. In questa prospettiva, dunque, occorre declinare il ricorso a tecniche investigative siffatte, le quali, permettendo l’accesso ai dati prima del loro criptaggio o dopo il loro decpritaggio, da una parte rendono più effettive ed efficaci le indagini, ma dall’altra parte danno accesso a una quantità significativa di dati, anche sensibili, senza la possibilità di distinguerli da quelli di interesse investigativo. Il virus di stato, infatti, ha le potenzialità per rendere l’invasione della sfera della riservatezza altrui più pregnante se comparato alle tradizionali attività d’indagine. Ciò nella misura in

24 Per un approfondimento sull’utilizzo della crittografia nonché sull’utilizzo di tecniche di hacking da parte delle forze dell’ordine sia consentito il rinvio alla pubblicazione curata dal Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs dell’Unione Europea intitolata Legal frameworks for hacking by law enforcement: identification, evaluation and comparison of practices, 18 ss., reperibile online all’indirizzo http://www.europarl.europa.eu/ supporting-analyses. 25 Cfr. UN Human Rights Council. 2015. Report of the Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression. A/HRC/29/32, secondo cui “States should avoid all measures that weaken the security that individuals may enjoy online, such as backdoors, weak encryption standards and key escrows”. Si pensi altresì: al caso FBI v. Apple e al relativo dibattito circa la doverosità della cooperazione dei venditori con le forze dell’ordine; all’introduzione di nuove legislazioni sull’uso di tecniche di hacking da parte delle forze dell’ordine nei Paesi Bassi, Polonia e Regno Unito e all’incremento delle capacità di crittografia delle nuove applicazioni di comunicazione come Facebook, Whatsapp, Messenger, Telegram, ecc. 26 In tal senso è possibile rammentare le richieste, congiuntamente rivolte ai venditori di dispositivi da parte di numerose autorità nazionali, di introdurre “backdoor” che permettano di decriptare i dati alle forze dell’ordine.

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cui esso dà accesso a tutti i dati contenuti in un dispositivo e a tutte le informazioni che dallo stesso vengono veicolate, in entrata o in uscita. Il tema è di particolare attualità e vanta un respiro internazionale27, come ultimamente riprovato dal fatto che nel novembre 2016 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ribadendo quanto già affermato nelle precedenti risoluzioni del 201328 e del 201429 sullo stesso argomento, ha adottato la terza Risoluzione sul diritto alla riservatezza nell’era digitale30. In essa vengono espresse serie preoccupazioni per la minaccia ai diritti umani rappresentata dalla sorveglianza statale, dalle intercettazioni delle comunicazioni digitali e dalla raccolta dei dati personali. Tutte condotte collidenti non solo con il diritto alla riservatezza ma altresì con quello, ad esso strettamente interconnesso, della libertà di pensiero ed espressione, come sanciti dagli artt. 12 e 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dagli artt. 17 e 19 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. Tali diritti, sebbene afferiscano al novero di quelli fondamentali e trovino cittadinanza non solo nelle costituzioni nazionali ma altresì nelle carte internazionali dei diritti dell’uomo, sono ugualmente suscettibili di limitazioni31. Ne sono paradigmatici esempi l’art 8 CEDU come anche l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), in forza dei quali il diritto alla riservatezza (il c.d. rispetto della vita privata e familiare, secondo la dizione letterale delle disposizioni citate) può essere compresso al ricorrere di certe specifiche circostanze. Segnatamente, una ingerenza nella privacy altrui da parte dell’autorità pubblica è consentita laddove sia: 1) prevista dalla legge; 2) necessaria e proporzionata; 3) strumentale alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Le tecniche investigative basate sul captatore informatico, nondimeno, involgono con attitudine limitativa anche altri diritti fondamentali. Così l’art. 8 CDFUE, relativo al diritto di ogni individuo alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano, i quali devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata ovvero a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. E, parimenti,

27 A livello internazionale è d’uopo altresì ricordare: la Human Rights Council resolutions 28/16 del 26 marzo 2015 e 32/13 del 1 luglio 2016 (A/HRC/27/37); lo Special Rapporteur on the right to privacy (A/HRC/31/64 and A/71/368) and the Special Rapporteur on the right to freedom of opinion and expression (A/71/373, A/HRC/23/40 and A/ HRC/29/32). 28 UN General Assembly resolution 68/167 of 18 December 2013 on the right to privacy in the digital age. 29 UN General Assembly resolution 69/166 of 18 December 2014 on the right to privacy in the digital age. 30 UN General Assembly. 2016. The right to privacy in the digital age. A/C.3/71/L.39/Rev.1. La risoluzione, in particolare, raccomanda: la revisione delle procedure, pratiche e legislazioni concernenti la sorveglianza delle comunicazioni, la loro intercettazione e la raccolta di dati personali; di introdurre meccanismi di vigilanza idonei a garantire la trasparenza e la responsabilità di tali pratiche investigative; di fornire un rimedio efficace in caso di sottoposizione a sorveglianza illegale o arbitraria. 31 Nel caso Malone c. United Kingdom, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che un sistema legale che autorizzi l’intercettazione di comunicazioni da parte delle autorità di polizia sia necessario per prevenire crimini o disordini, ma che possa ritenersi legittimo e coerente con la CEDU a condizione che la limitazione della privacy fosse realizzata nel rispetto della legge e e fosse necessaria per lo scopo legittimamente perseguito. Cfr. C.edu, Malone c. United Kingdom, sent. 2 agosto 1984, n. 8691/79.

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gli artt. 10 CEDU e 11 CDFUE, i quali sanciscono che ciascuno ha il diritto alla libertà di espressione e informazione, incluso il diritto di ricevere e fornire informazioni senza interferenza delle autorità pubbliche, anch’esso suscettibile di compressione laddove le comunicazioni (incluse quelle digitali32) vengano intercettate. La stessa Unione europea ha già adottato importanti atti normativi in materia, sulla base dei citati artt. 7 e 8 CDFUE, nonché sulla scorta dell’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), il quale sancisce una generale competenza normativa sulla protezione dei dati33. Ulteriori possibili interventi, sulla scorta dell’attuale base legale34, potrebbero riguardare: 1) norme minime sulla reciproca ammissibilità delle prove raccolte nelle indagini attraverso il captatore informatico, se necessario per agevolare il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nonché la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale in tema di reati aventi dimensione transfrontaliera (art.82, par. 2, TFUE); 2) normativa comune sulle tecniche d’indagine come quelle basate sul captatore informatico in relazione all’individuazione di gravi forme di criminalità organizzata (art. 87, par. 2, lett. c), TFUE); 3) misure relative alla cooperazione operativa sull’uso delle tecniche di hacking tra polizia, dogana e altri servizi specializzati in materia di prevenzione, rilevazione e indagine in ambito penale (art. 87, par. 3, TFUE); 4) disposizioni relative ai diritti di protezione dei dati personali in caso di utilizzo di captatori informatici da parte delle forze dell’ordine (art. 16 TFUE, artt. 7 e 8 CDFUE)35. Sul fronte delle legislazioni nazionali è possibile riscontrare uno spaccato abbastanza variegato ma complessivamente orientato in senso assolutamente favorevole all’utilizzo del virus di stato36.

32 Sull’applicabilità dell’art. 11 CEDU alle comunicazioni elettroniche cfr. Joined Cases C-203/15 (Tele2 Sverige AB.v Postoch telestyrelsen) e C-698/15 (Watson, Brice & Lewis v. Secretary of State for the Home Department) in http://curia.europa.eu/. 33 Si allude, segnatamente, ai seguenti atti normativi: il Regolamento 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (c.d. regolamento generale sulla protezione dei dati); la Direttiva 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio; la Direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (c.d. direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche). 34 Com’è noto, la base legale affinché l’Unione europea operi nell’ambito della giustizia penale è limitata all’area della cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia, come stabilito nel Titolo V della Parte 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In particolare, sulla scorta dell’art. 87(2)(c) TFUE, l’Unione può adottare atti normativi sulle comuni tecniche d’indagine in relazione alle serie forme di crimine organizzato. In tal senso, il captatore informatico è una tecnica investigativa e potrebbe essere utile a tale fine. Inoltre, l’art. 87(3) TFUE stabilisce che il Consiglio, in ossequio alla speciale procedura legislativa, può introdurre misure concernenti la cooperazione operativa tra polizia, dogana e altri servizi specializzati delle forze dell’ordine in relazione alla prevenzione, rilevazione e investigazioni relative a reati. 35 Il tutto subordinatamente alla condizione che si identifichino le indagini condotte attraverso captatore informatico come uno specifico aspetto della materia penale per cui il Parlamento europeo e il Consiglio possano introdurre regole minime in ossequio all’art. 82, par. 2, lett. d), TFUE. 36 Per un approfondimento sullo stato delle legislazioni nazionali, all’interno e all’esterno dell’Unione europea, cfr.

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Innanzitutto in Francia la Loi n° 2016-731 del 3 giugno 2016, emendando il Code de procédure pénale, ha introdotto la possibilità per le forze dell’ordine di accedere ai dati dei computer da remoto, subordinatamente al soddisfacimento di alcune condizioni espressamente indicate. In Germania, sebbene non esistano specifiche previsioni al riguardo in seno al Codice di procedura penale (Strafprozessordnung), la Legge sulla Polizia federale (Bundeskriminalamtgesetz), a seguito della riforma entrata in vigore l’1 gennaio 2009, permette esplicitamente a tale organo di condurre le indagini con i mezzi tecnici informatici, subordinatamente al soddisfacimento di certe condizioni37. In Polonia, la Legge del 15 gennaio 2016, emendando il Police Act and Certain Other Acts, ha introdotto l’“accesso a distanza” nel lessico legale polacco, permettendolo, a fini di giustizia, di estrarre e registrare dati da supporti di memoria, apparecchiature di telecomunicazione, sistemi informatici e di comunicazione. Nel Regno Unito la disciplina delle tecniche di hacking da parte delle forze dell’ordine è contemplata nell’Investigatory Powers Act, entrato in vigore nel novembre 2016, il quale definisce in modo esauriente e, in termini limitati, estende i poteri di sorveglianza elettronica della polizia del Regno Unito, al contempo migliorando le garanzie sull’esercizio di tali poteri. Peraltro, l’assenza di una disciplina precipua non è di per sé necessariamente ostativa all’utilizzo del captatore informatico, essendo quest’ultimo comunque sussumibile nell’“area grigia” delle previsioni legislative relative ai tradizionali strumenti d’indagine considerati simili. Così accade nei Paesi Bassi nonché in Italia, laddove, in attesa di una normativa ad hoc38, l’utilizzo del virus è attualmente disciplinato dalla vigente normativa sull’intercettazione di comunicazioni (art. 266 c.p.p.)39.

Legal frameworks for hacking by law enforcement: identification, evaluation and comparison of practices, cit., 72 ss. 37 Peraltro è possibile sostenere il ricorso al captatore informatico da parte delle forze dell’ordine in forza del Codice di procedura penale attraverso un’interpretazione estensiva delle disposizioni vigenti, come quella in tema di intercettazione delle telecomunicazioni (§100a StPO). 38 Il governo italiano è stato da ultimo delegato, con la L. 103/2017, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, ad adottare decreti legislativi per la riforma della disciplina in materia di intercettazione di conversazioni o comunicazioni (artt. 82 e ss.). Per un commento alla legge di delega, cfr. M. Gialuz-A. Cabiale-J. Della Torre, Riforma orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in www.penalecontemporaneo.it. 39 Com’è noto, in Italia la regolamentazione dell’utilizzo del captatore informatico è stata finora prevalente appannaggio della giurisprudenza. La Corte di Cassazione, Sez. V, 14 ottobre 2009, n. 16556/10, Virruso, in C.E.D. Cass., n. 246954, nonché Sez. VI, 27 novembre 2012, n. 15009, Bisignani, in C.E.D. Cass., n. 254865, aveva inizialmente ammesso l’utilizzo dell’agente intrusore, anche senza la previa autorizzazione del giudice, ritenendo che l’attività effettuata per mezzo del captatore informatico non fosse ricompresa nell’ambito della disciplina delle intercettazioni ma dovesse rientrare nel novero delle prove atipiche ex art. 189 c.p.p. Solo nel 2015, Cass., Sez. VI, 26 maggio 2015, n. 27100, Musumeci, in C.E.D. Cass., n. 265654, ha ritenuto che l’intercettazione di conversazioni tramite agente intrusore dia luogo ad un’intercettazione ambientale che può ritenersi legittima, ai sensi dell’art. 266, comma 2, c.p.p., in relazione all’art. 15 Cost., solo quando il decreto autorizzativo individui con precisione i luoghi in cui espletare l’attività captativa (“l’unica opzione interpretativa compatibile con il dettato costituzionale è quella secondo la quale l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto”). Alla luce di tale contrasto ermeneutico, la questione è stata infine rimessa alle Sezioni unite, che con sentenza 26 aprile 2016, n. 26889, Scurato, in C.E.D. Cass., n. 266905, hanno ammesso, nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13

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Rilevanti indicazioni alle normative nazionali in tale materia provengono altresì dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. A tal proposito, la recente sentenza della Grande Camera nel caso Zakharov c. Russia ha evidenziato la necessità dell’adozione di regole chiare e dettagliate sulle intercettazioni in considerazione della sempre maggiore sofisticazione della tecnologia applicata alle comunicazioni40. Quest’ultima pronuncia, in particolare, fornisce importanti indicazioni su alcuni fondamentali aspetti della materia, quali: 1) ambito di applicabilità delle intercettazioni41; 2) durata delle misure di sorveglianza segreta42; 3) procedure per la conservazione, l’accesso, l’esame, l’uso, la comunicazione e la distruzione dei dati conseguiti mediante intercettazioni43; 4) procedure di autorizzazione44; 5) supervisione sull’implementazione delle misure di sorveglianza segreta fondate su una appropriata autorizzazione giudiziaria45; 6) successiva comunicazione delle intercettazioni e rimedi disponibili46. Segnatamente, in relazione al contenuto dell’autorizzazione all’intercettazione, l’arresto giurisprudenziale precisa che essa deve indicare la persona da sottoporre a sorveglianza ovvero

del decreto legge n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione in essi si stia svolgendo l’attività criminosa. 40 C.edu, grande camera, sent. 4 dicembre 2015, Roman Zakharov c. Russia, n. 47143/06. Per un commento alla sentenza e la sui suoi riflessi applicativi con particolare riferimento all’ordinamento italiano, cfr. A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea, in Cass. pen., 5, 2016, 22742288. 41 Le legislazioni nazionali devono perimetrarne l’area di operatività attraverso una chiara indicazione dei reati che legittimano un ordine di intercettazione e le categorie di soggetti che possono esservi sottoposte, al fine di consentire la prevedibilità della misura, ancorché ciò non imponga una tassativa elencazione delle fattispecie incriminatrici, essendo sufficiente la specificazione della natura del reato e del massimo di pena edittale prevista. 42 Le legislazioni nazionali possono determinare la complessiva durata degli ordini e rinnovi delle intercettazioni, purché esistano idonee garanzie (precisa indicazione del termine oltre il quale la misura perde efficace, condizioni di rinnovazione e cessazione). 43 La normativa nazionale deve essere tale da minimizzare il rischio accessi o rivelazioni non autorizzate, deve imporre la distruzione di tutti i dati irrilevanti rispetto alle indagini e deve specificare i casi in cui sia consentita la conservazione dei dati oltre il termine del processo. 44 L’autorità competente all’autorizzazione può anche essere non giudiziaria, purché indipendente dal potere esecutivo, la quale deve verificare l’esistenza di un ragionevole sospetto nonché la sussistenza della necessità della misura in una società democratica e della proporzione rispetto al fine legittimamente perseguito. L’autorizzazione deve inoltre identificare precisamente la persona da sorvegliare ovvero i luoghi nei quali porre in essere l’intercettazione. Infine, l’autorizzazione alle intercettazioni deve essere presentata al fornitore di servizi di comunicazione prima di ottenere l’accesso alle comunicazioni a titolo di fondamentale garanzia avverso gli abusi di polizia. 45 Tale controllo può essere posto in essere anche da autorità non giudiziaria purché indipendente dalle autorità che attuano la sorveglianza e dotata di poteri idonei ad un controllo continuo ed effettivo. 46 La successiva comunicazione può essere impossibile in alcuni casi, sia perché l’attività sospetta avverso la quale la sorveglianza è stata disposta può protrarsi nel tempo dopo la sospensione della misura, l’ignoranza dell’intercettazione assicurandone l’efficacia; tuttavia, allorché la conoscenza dell’intercettazione non ne pregiudichi le finalità, essa dovrebbe essere comunicata, anche in ottica di effettività rimediale laddove il destinatario della misura volesse adire l’autorità giudiziaria lamentando una violazione dei propri diritti (si pensi ai destinatari non sottoposti a procedimento penale, i quali non abbiano notizia dell’intercettazione eseguita a proprio carico).

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l’unico insieme di luoghi rispetto ai quali viene disposta l’intercettazione. Posto che questi due elementi sono tra loro alternativi e non già cumulativi, ne deriva l’importante principio della non necessaria specificazione, in seno al provvedimento autorizzativo, dei luoghi in cui le intercettazioni debbano svolgersi laddove sia chiaramente identificata la persona da intercettare. Principio che, per ciò che qui rileva, risulta suscettibile di applicazione altresì alla sorveglianza a distanza effettuata mediante captatore informatico. Ciò legittimerebbe la c.d. “dinamicità” delle intercettazioni47, in forza della quale, posta l’univoca identificazione del loro destinatario, esse sono eseguibili altresì in ambienti diversi da quelli espressamente indicati nel provvedimento autorizzativo ma rientranti nella medesima categoria, senza che occorra la rinnovazione dell’autorizzazione ai fini della legittima prosecuzione dell’attività captativa48. Nonostante il Kosovo non risulti tra gli Stati firmatari dei finora citati strumenti internazionali deputati alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, la Repubblica kosovara essendosi dichiarata unilateralmente indipendente il 17 febbraio 2008 senza l’unanime riconoscimento da parte della comunità internazionale49, l’art. 22 della Carta costituzione di cui essa si è dotata dispone la diretta applicabilità in Kosovo di alcune convenzioni, tra le quali la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il successivo articolo 53 del dettato costituzionale, inoltre, rinsalda il valore già attribuito alla CEDU laddove dispone che “i diritti umani e le libertà fondamentali garantiti dalla presente Costituzione saranno interpretati in modo coerente con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani”. Ne discende il ruolo centrale della CEDU e dell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, che rende pregnanti anche per la Repubblica kosovara le considerazioni finora svolte circa limiti e condizioni di utilizzabilità del captatore informatico in relazione al rispetto e alla tutela dei diritti umani.

4. Riflessioni conclusive. L’utilizzo del captatore informatico da parte delle autorità inquirenti è divenuto pressoché necessario a fronte della crescente difficoltà di accedere ai dati caricati staticamente sui dispositivi elettronici nonché ai dati dinamicamente veicolati attraverso le reti di comunicazione. Difficoltà, questa ultima, dovuta tanto all’avanzamento tecnologico quanto alla diffusione della crittografia, le cui barriere risultano superabili solo attraverso l’utilizzo di tecniche di sorveglianza imperniate sull’agente intrusore. Il mancato accesso a dati siffatti mette a repentaglio l’incolumità pubblica e, a certe condizioni, rischia di lasciare impunita un’ampia sfera di criminalità che si avvale delle nuove tecnologie per pianificare o commettere reati.

47 Cfr. G. Amato, Intercettazioni mediante agenti intrusori: la Cassazione non è al passo con i tempi, in Guida dir., 2015, n. 41. 48 Ciò purché non si tratti del luogo di privata dimora, a meno che non vi sia fondato motivo di ritenere che in essi si stia svolgendo l’attività criminosa. 49 Cfr. E. Cannizzaro, Diritto internazionale, Torino, 2016, 292.

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Tuttavia, nonostante gli evidenti benefici alle indagini, il virus di stato presenta altresì numerosi e rilevanti minacce. In primo luogo, il rischio di vulnerare il fondamentale diritto alla riservatezza nelle sue molteplici declinazioni, attesa l’impossibilità di separare ciò che è rilevante e utilizzabile in seno al processo penale da ciò che dovrebbe rimanere privato. In secondo luogo, il potenziale nocumento alla sicurezza e al funzionamento del sistema hackerato e, più in generale, di internet. Infine, considerando che i sistemi informatici sottoposti a sorveglianza potrebbero essere localizzati ovunque, le autorità inquirenti, nell’espletamento delle indagini, corrono l’ulteriore pericolo di violare il principio della sovranità territoriale statale. L’investigazione informatica non si limita però a integrare i suddetti rischi, con particolare riferimento al diritto alla privacy. Il bene giuridico di nuova emersione esposto a pericolo dal virus di stato è infatti più ampio ed attiene alla tutela “virtuale” della vita privata della persona e, cioè, all’uso libero e riservato delle tecnologie informatiche, già affermato dalla Corte costituzionale tedesca in termini di “integrità dei sistemi informatici”50 e postulato altresì da parte della dottrina51. La realtà virtuale è infatti il luogo metaforico dove trova espressione e sviluppo la personalità dell’individuo e dove esso si proietta per svolgere la propria vita privata52. Nello spazio informatico, dunque, trovano potenziale manifestazione tutti gli aspetti della persona meritevoli di tutela: dalla libertà personale al domicilio, dalle comunicazioni alla libertà di circolazione e soggiorno senza restrizioni. A quest’ultimo fine i diritti fondamentali già esistenti appaiono inadeguati, atteso che i sistemi informatici si caratterizzano per la loro fisiologica attitudine a racchiudere un ampissimo novero di dati informativi aventi diversa natura e in grado di circolare, in ragione della loro immaterialità e duplicabilità, in maniera estremamente agevole e rapida. Sicché, la promiscuità e la facilità di diffusione dei dati informatici, che singolarmente considerati potrebbero apparire innocui ma che collegati tra loro possono svelare aspetti della vita di un soggetto che si desidererebbe invece mantenere riservati, integrano un pericolo che trascende la mera illecita raccolta presidiata dal diritto alla privacy. Piuttosto, si rende necessaria la salvaguardia del sistema informatico in quanto tale e cioè quale “luogo” in cui l’individuo manifesta la propria personalità a prescindere dalla natura delle informazioni in esso registrate53. Occorre dunque prendere atto dell’esistenza di spazi virtuali di manifestazione e svolgimento della personalità dell’individuo, che coincidono con l’interesse sostanziale alla protezione di informazioni riservate e al loro controllo nello svolgimento di rapporti giuridici e personali, online o in altri spazi informatici54. Con la conseguente enucleazione dell’inedito diritto fondamentale alla riservatezza informatica, quale “interesse al godimento e controllo esclusivo sia di

50 Sentenza 1 BvR 370/07–595/07 del 27 febbraio 2008, in www.bundesverfassungsgericht.de, ed annotata da R. Flor, Brevi riflessioni a margine della sentenza del Bundesverfassungsgericht sulla c.d. Online Durchsuchung, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, 695 ss. 51 Cfr. R. Orlandi, Osservazioni sul documento redatto dai docenti torinesi di Procedura penale sul problema dei captatori informatici, in Arch. pen. (bollettino web), 25 luglio 2016. 52 F. Iovene, Le c.d. perquisizioni online tra nuovi diritti fondamentali ed esigenze di accertamento penale, in Dir. pen. cont., 3-4, 2014, 334 ss. 53 Ivi, 335. 54 R. Flor, op. cit., 705.

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determinati dati e informazioni, che dei relativi mezzi e procedimenti informatici e telematici di trattamento, che pur configurandosi sempre quale diritto di escludere i terzi non legittimati dal corrispondente accesso e utilizzo, prescinde in tutto o in parte dai tradizionali limiti e presupposti dei concetti civilistici di proprietà o possesso, ovvero dalle condizioni che fondano la rilevanza giuridica del segreto o della riservatezza personale in genere”55. Diritto, questo ultimo, fondato e tutelato ai sensi degli artt. 8 CEDU56 nonché 7 e 52 CDFUE57 e che, al pari dei tradizionali diritti fondamentali (libertà personale, libertà domiciliare, libertà e segretezza delle comunicazioni), è suscettibile di limitazioni unicamente nel rispetto della riserva di legge ed alla luce del principio di proporzionalità. Rimane dunque da stabilire quando una ingerenza nella vita privata della persona perpetrata attraverso la descritta modalità esecutiva delle intercettazioni sia proporzionata o meno. Un giudizio di proporzionalità siffatto non può non tenere in dovuta considerazione la formidabile invadenza della sfera della riservatezza delle intercettazioni realizzate con il captatore informatico né può ignorarne le modalità applicative tendenzialmente semplici. Trattasi infatti di tecnologia avanzata ma al contempo di agevole installazione che abilita un controllo penetrante sulle comunicazioni di un numero potenzialmente molto esteso di individui58. Ne consegue la doverosità di un serio vaglio della necessità di tali misure di controllo a distanza e del consequenziale vulnus al rispetto della vita privata che esse arrecano in seno a una società democratica, secondo la dizione delle carte internazionali di tutela dei diritti. Scrutinio, questo ultimo, da condurre sulla scorta dei parametri della proporzionalità e del controllo, nel senso che l’intromissione dell’autorità pubblica nella sfera privata dell’individuo deve essere proporzionata all’obiettivo di giustizia perseguito e sottoposta ad un sistema di controllo adeguato ed effettivo. Ciò varrebbe a controbilanciare la compressione del diritto fondamentale e, come suggerito da autorevole dottrina59, dovrebbe implicare la valutazione di conformità dell’attività captativa al provvedimento autorizzativo della medesima misura da parte dell’autorità giudiziaria, con la conseguente interruzione dell’intercettazione laddove si eccedano i confini spaziali prestabiliti, l’introduzione di modalità documentative idonee a tracciare le operazioni, il potenziamento dei rimedi a disposizione della difesa, l’attuazione di procedure distruttive del materiale captato allorché irrilevante. Conclusivamente può quindi affermarsi come in tale materia si compendi, in tutta la sua complessa attualità, il tema dei rapporti tra diritto e tecnologia, laddove l’informatica si lega a filo doppio alle categorie giuridiche tradizionali.

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Così, L. Picotti, (voce) Reati informatici, in Enc. giur. Treccani, agg. VIII, Roma, 2000, 20 ss. La cui nozione di vita privata è infatti “ampia e non suscettibile di una definizione esaustica”, come affermato da Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Pretty v. United Kingdom, 29 aprile 2002, ric. n. 2346/02. 57 In forza del comma 3 dell’art. 52, «laddove la [...] Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla [CEDU], il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione» (si tratta della c.d. clausola di equivalenza). Pertanto, l’art. 7 va interpretato alla luce dell’art. 8 CEDU e del significato attribuito a quest’ultimo dalla giurisprudenza europea dei diritti dell’uomo. Il richiamo all’art. 8 CDFUE in tema di tutela dei dati personali, viceversa, risulta inconferente, In un ambito nel quale risulta praticabile una distinzione tra dati intimi, dati riservati e dati sociali. In termini F. Iovene, op. cit., 337. 58 In termini A. Balsamo, ult. op. cit., 2285. 59 Ibidem. 56

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Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale

Il captatore informatico, travolgendo i sistemi di protezione delle comunicazioni, è infatti in grado di fornire agli inquirenti un numero esponenziale di dati sensibili dell’individuo, estraendoli dalla vita sociale che ogni persona conduce online ed offline, senza poter aprioristicamente distinguere tra ciò che riguarda le indagini e ciò che non vi attiene, tra ciò che concerne l’indagato e ciò che interessa le persone che con questi interagiscono per altre ragioni, tra ambito privato e ambito professionale60. Una parziale limitazione dei diritti fondamentali, nei termini suddetti, è nondimeno indispensabile per realizzare una seria attività di contrasto dei fenomeni criminali, a loro volta potenziati dal ricorso alle medesime risorse tecnologiche. E poiché la libertà non si risolve nell’assenza totale di regole, ma in un sistema di garanzie capace di assicurare a ciascuno l’effettivo esercizio dei propri diritti61, uno dei compiti fondamentali delle istituzioni, nazionali e sovranazionali, è quello di costruirne uno il più adeguato possibile allo scopo e rispettoso degli standard minimi di tutela postulati dal vigente sistema multilivello dei diritti fondamentali. In tal senso sembra muovere, con il proprio sostanzioso (e sostanziale) contributo, la pronuncia della Specialist Chambers of the Constitutional Court della Repubblica del Kosovo, che si inserisce così nel solco del dialogo tra giurisdizioni internazionali, fornendo il proprio apporto alla tanto fondamentale quanto delicata opera di bilanciamento dei rapporti tra diritto e scienza. Alessandro Quattrocchi

60 G. Ziccardi, Parlamento Europeo, captatore informatico e attività di hacking delle Forze dell’Ordine: alcune riflessioni informatico-giuridiche, in Arch. pen., 1. 2017, 15. 61 S. Rodotà, Intervista su privacy e libertà, a cura di P. Conti, Laterza, 2005, 118.

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Giurisprudenza

nazionale

Corte di Giustizia UE, 5 dicembre 2017, causa C-105/14, Taricco c.Italia Corte Costituzionale, ord. 27 aprile 2017, n. 24 Corte di giustizia, Grande Sezione, sent. 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco c. Italia Frodi in materia di IVA – prescrizione del reato – disapplicazione –limiti

Il testo integrale della sentenza Corte di Giustizia UE, 5 dicembre 2017, causa C-105/14 è accessibile al seguente link. Il testo integrale della sentenza Corte Costituzionale, ord. 27 aprile 2017, n. 24 è accessibile al seguente link.

Il caso Taricco: prove di dialogo tra Corti Sommario: 1. La Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sul caso Taricco. – 2. Le questioni poste dalle ordinanze di rimessione. – 3. L’ordinanza n. 24 del 27 aprile 2017: la premessa. – 4. ... e le soluzioni ermeneutiche. – 5. La sentenza 5 dicembre 2017 “Taricco bis”.

1. La Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sul caso Taricco. Con la tanto nota quanto discussa sentenza resa in causa C-105/14, Taricco1, la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha statuito che il giudice nazionale ha il dovere di disapplicare la normativa interna in materia di termini massimi di prescrizione (artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p.) se e nei limiti in cui essa impedisce di adottare sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave, che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o, ancora, nei casi in cui i termini di prescrizione dei reati lesivi degli interessi finanziari dello Stato membro siano diversi e più ampi di quelli previsti per i reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione. Gli artt. 160, ultimo comma, c.p. e 161, secondo comma, c.p. sono stati ritenuti, infatti, incompatibili con l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (d’ora innanzi TFUE), il quale stabilisce che «l’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione” e che gli Stati membri adottano, “per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari».

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Corte di giustizia, Grande Sezione, sent. 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco c. Italia, in Dir. Pen. Cont., 29 ottobre 2015, con nota di A. Vengoni, La sentenza Taricco: una ulteriore lettura sotto il profilo dei riflessi sulla potestà legislativa dell’unione in diritto penale nell’area delle frodi.


Giurisprudenza nazionale

tributari, per i quali, prima della conclusione definitiva del procedimento, sarebbe maturato il termine di prescrizione, individuato in applicazione degli artt. 160 e 161 c.p. La pronuncia ha determinato, come prevedibile, contrastanti reazioni sia nella giurisprudenza sia nella dottrina2, tanto da indurre la Corte di appello di Milano3 e la terza sezione della Corte di cassazione4 a sollevare questione di legittimità costituzionale della cd. “regola Taricco”, ossia del sistema di disapplicazione delle disposizioni nazionali vigenti in materia di prescrizione così come delineato dalla citata sentenza, “anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost.”.

2. Le questioni poste dalle ordinanze di rimessione. Le ordinanze di rimessione, nel dubitare della legittimità costituzionale della regola di diritto formulata dai giudici della Corte di Lussemburgo, prospettano alla Corte costituzionale la possibilità di ricorrere alla cd. teoria dei controlimiti, individuando nel principio di legalità il valore supremo la cui violazione potrebbe imporne l’applicazione. Come appare evidente, il tema oggetto del giudizio di legittimità costituzionale si inserisce all’interno di una più ampia e complessa questione riguardante i rapporti tra diritto UE e ordinamento interno. Sul punto la giurisprudenza sembra ormai concorde nel ritenere che il rapporto tra i due ordinamenti debba essere inquadrato nell’ambito di un modello cd. “monistico”, che concepisce gli stessi come strettamente connessi e interdipendenti, nel rispetto, tuttavia, della sovranità di cui gode lo Stato in forza di quanto stabilito dall’art. 11 Cost. Fermo restando il generale riconoscimento del primato del diritto dell’Unione, proprio il riferimento al concetto di sovranità nazionale autorizza la Corte costituzionale a pronunciarsi quale giudice di ultima istanza ogniqualvolta le norme sovranazionali suscettibili di applicazione diretta (come quella di cui all’art. 325 TFUE) appaiano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano o con i diritti inalienabili dell’individuo. Per i sistemi di civil law come quello italiano la vicenda è tanto più complessa in quanto coinvolge un altro peculiare aspetto del diritto UE, ossia quello dell’efficacia generale che vie-

2 Tra i moltissimi contributi si segnalano: A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, 2017; C. Paonessa, L. Zilletti (a cura di), Dal giudice garante al giudice disapplicatore delle garanzie. I nuovi scenari della soggezione al diritto dell’UE: a proposito della sentenza della Corte di giustizia Taricco, Pisa, 2016; F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi in materia di IVA? Primato del diritto UE e nullum crimen sine lege in una importante sentenza della Corte di giustizia, in Dir. Pen. Cont., 16 settembre 2016; D. Pulitanò, La posta in gioco nella decisione della Corte costituzionale sulla sentenza Taricco, in Dir. Pen. Cont. – Riv. trim., n. 1/2016, pagg. 221 e ss.; Cass. Pen., sez. IV, 25 gennaio 2016, n. 7914, in Dir. Pen. Cont., con nota di A. Galluccio, La Cassazione di nuovo alle prese con Taricco: una sentenza cauta, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale; G. Salcuni, Legalità europea e prescrizione del reato, in Arch. Pen., 2015, fasc. 3. 3 Corte di appello di Milano, sez. II, ord. 18 settembre 2015, in Dir. Pen. Cont., 21 settembre 2015, con nota di Viganò, Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE: la Corte di appello di Milano sollecita la Corte ad azionare i controlimiti. 4 Cass. Pen., sez. III, ord. 30 marzo 2016, n. 28346, in Dir. Pen. Cont., 15 luglio 2016, e Cass. Pen., sez. III, ord. 31 marzo 2016, n. 33538.

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ne riconosciuta alle pronunce della Corte di giustizia, idonee a vincolare non solo il giudice a quo, ma anche tutti i giudici nazionali, i quali sono tenuti a dare immediata applicazione alla norma europea nell’interpretazione datane dall’unico organo a ciò deputato. Come chiaramente emerge dalla lettura delle ordinanze di rimessione, il profilo di maggiore criticità è rappresentato dal contrasto della disposizione sovranazionale, così come interpretata dalla Corte di giustizia, con il principio di legalità, inteso nella sua ampia e triplice accezione di riserva di legge, tassatività e irretroattività sfavorevole. Quanto al profilo del contrasto con il principio della riserva di legge, affrontato nello specifico dalla Corte di Cassazione, l’ordinanza di rimessione sottolinea come «la fonte dell’obbligo di disapplicazione e dei relativi effetti penali in malam partem resta la Corte di giustizia UE, che, sebbene deputata in via esclusiva a garantire l’interpretazione del diritto dell’Unione, è un organo giurisdizionale privo di legittimazione politica, che non può esprimere scelte di criminalizzazione nell’ordinamento nazionale»5. Tale considerazione ha indotto i giudici di legittimità a ritenere violato il principio di legalità, sub specie di riserva di legge, posto che la scelta di politica criminale, comprensiva del profilo attinente alla punibilità, è stata nel caso di specie sottratta all’organo che ne è titolare - il Parlamento - per essere di fatto attribuita a un organo giurisdizionale. Con riferimento al principio di irretroattività sfavorevole della legge penale, le ordinanze di rimessione rilevano, invece, come l’adesione dei giudici nazionali alla pronuncia della Corte UE determinerebbe un’applicazione retroattiva in malam partem delle disposizioni interne, producendo un allungamento dei termini prescrizionali anche in relazione a fatti commessi prima della sentenza Taricco. Ciò in considerazione della natura sostanziale riconosciuta dalla giurisprudenza interna all’istituto della prescrizione, circostanza che, sebbene non condivisa dai giudici di Lussemburgo, rappresenta il presupposto per ritenere applicabile nel caso di specie la disposizione di cui all’art. 25, comma 2, Cost. L’ultima declinazione del principio di legalità di cui si assume la violazione è rappresentata dalla tassatività, che sembra difettare nell’obbligo di disapplicazione così come formulato dalla “regola Taricco”. La genericità delle nozioni di “frode grave” e di “numero considerevole di casi” si pone, secondo i giudici rimettenti, in contrasto con il citato principio, attribuendo all’organo giurisdizionale un potere interpretativo eccessivamente ampio e di non facile controllo.

3. L’ordinanza n. 24 del 27 aprile 2017: la premessa. La Corte costituzionale, investita delle questioni, ha, per un verso, evitato di azionare i controlimiti – e di porsi, così, in aperto contrasto con i giudici di Lussemburgo6- e, per altro verso, ne ha con fermezza ribadito la consistenza, riaffermando, nel contempo, la centralità del proprio ruolo. Tale ingegnosa soluzione ha preso la forma dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea7, al fine di ottenere una ulteriore interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, ossia, sostanzialmente, una riscrittura della prima sentenza resa in causa Taricco.

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Cass., ord. 30 marzo 2016, n. 28346, par. 4.4.1., cit. Cfr. sul punto M. Caianiello, Processo penale e prescrizione nel quadro della giurisprudenza europea. Dialogo tra sistemi o conflitto identitario?, in Dir. Pen. Cont., 24 febbraio 2017. 7 Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, in www.giurcost.com. 6

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Giurisprudenza nazionale

L’ordinanza è stata oggetto di numerosissimi commenti che ne hanno messo in evidenza la rilevanza non solo per ciò che in essa viene espressamente detto (per quanto attiene alla definizione dei rapporti tra diritto interno e diritto UE e, di riflesso, tra Corti deputate a modularli) ma anche per ciò che in essa viene appena accennato ma non trattato (per quanto attiene, in particolare, alla riserva di legge)8. In sintesi la Corte ha ribadito che, fermo restando il primato del diritto comunitario sul diritto interno, il limite all’efficacia del primo resta l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona, poiché, nel caso9 di violazione di tali principi e di tali diritti, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge che ha autorizzato la ratifica dei trattati e che li ha resi esecutivi nella sola parte in cui consente la violazione. Orbene, in conformità di quanto già dichiarato nelle ordinanze di rimessione, uno di tali principi supremi è stato ritenuto quello di legalità in materia penale, enunciato dall’art. 25 Cost. In forza di tale principio nessuno può essere punito se non per un fatto previsto come reato da una legge entrata in vigore prima della sua commissione. Corollari del principio di legalità sono la tassatività, la riserva di legge e la retroattività. Come accennato, la Corte ha scelto di esaminare compiutamente solo il profilo della compatibilità con il profilo della tassatività, dedicando pochi passaggi alla retroattività e lasciando sullo sfondo quello che la dottrina considera il profilo più problematico, ossia la riserva di legge. Punto di partenza del ragionamento della Corte è la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione, che, attenendo alla punibilità, non può che essere soggetto al principio di legalità; da ciò consegue che esso deve essere «analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma di legge che vige al tempo della commissione del fatto»10. La Corte si sofferma, quindi, sulla tassatività, ossia sulla necessità che le norme di diritto penale sostanziale, ivi comprese quelle sulla prescrizione, siano formulate in termini «chiari, precisi e stringenti»11 a un duplice scopo: quello – soggettivo – di consentire all’agente di sapere – o di poter sapere – le conseguenze delle proprie azioni od omissioni nel momento in cui le commette e quello – oggettivo – di impedire l’arbitrio del giudice nella loro applicazione. Il primo significato che viene attribuito al principio di tassatività/determinatezza è, dunque, quello che impone al legislatore di disciplinare il reato e le sanzioni penali in modo tale da consentire a ciascun consociato di prevedere le conseguenze del proprio agire. Ma vi è di più; la Corte compie un ulteriore passo in avanti, attribuendo al principio di tassatività un’accezione ancora più ampia di quella sino ad ora affermata. Si spinge, infatti, fino al punto di includere nel fuoco della prevedibilità non solo la percezione del fatto di reato e della sanzione, ma anche l’estensione temporale della stessa pretesa punitiva12. Sul punto i giudici costituzionali, richiamando quanto già affermato dalla Corte di Strasburgo in relazione al principio di legalità di cui all’art. 7 della C.e.d.u., sostengono la necessità

8 Cfr. F. Viganò, Le parole e i silenzi, osservazioni sull’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale sul caso Taricco, in Dir. Pen. Cont., 27 marzo 2017. 9 Definito dalla stessa Corte come “improbabile”. 10 Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, par. 4, cit. 11 Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, par. 5, cit. 12 Per un commento critico cfr.: Francesco Viganò, Le parole e i silenzi, Osservazioni sull’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale sul caso Taricco, cit.

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«che reato e pena siano conoscibili dall’autore di un fatto fin da quando esso è commesso». Ne deriva che laddove la pretesa punitiva dello Stato in relazione a un determinato fatto di reato emerga, anche a seguito di un intervento giurisprudenziale di origine sovranazionale, in un momento successivo alla commissione dello stesso, la relativa sanzione non potrà trovare legittimamente applicazione perché frutto di un’operazione ermeneutico-interpretativa priva del necessario requisito della prevedibilità. Oltre che per l’ampiezza del significato attribuito alla “prevedibilità”, la motivazione della Corte desta particolare interesse per il fatto che il principio di determinatezza, riferito, nei sistemi di civil law, ad una norma giuridica, è stato considerato un parametro applicabile ad una regola di diritto individuata da una pronuncia giurisdizionale. Il passaggio logico è stato, in realtà, più sfumato e mediato dalla diretta applicabilità riconosciuta a una norma, ossia all’art. 325 TFUE, e deve essere così ricostruito: qualificata tale norma come direttamente applicabile – e, quindi, in grado di prevalere sulle norme statuali che, ove in contrasto con essa, debbono essere disapplicate –, e ammesso che la stessa produca effetti diretti anche in materia penale, si deve ad essa applicare, come alle norme penali sostanziali di diritto interno, il principio di legalità nel suo corollario della determinatezza. Tuttavia, poiché la Corte di Lussemburgo è deputata, in via esclusiva, a interpretare e a precisare la portata delle norme del Trattato, la regola di diritto risultante dalla esegesi della Corte è anch’essa soggetta al principio di determinatezza. L’evidente problema che tale opzione ermeneutica pone è l’attribuzione a una pronuncia giurisdizionale in materia penale del valore di fonte del diritto, attribuzione conseguente, per la portata riconosciuta nel diritto UE alle sentenze della Corte, al riconoscimento della diretta applicabilità di una norma in materia penale sostanziale. È questo il problema interpretativo di maggiore spessore sottoposto all’esame della Corte costituzionale dalle ordinanze di rimessione, poiché, come sopra ricordato, il riconoscimento della idoneità di una pronuncia giurisdizionale a produrre norme giuridiche in materia penale parrebbe trovare ostacolo nell’art. 25 Cost., e cioè proprio nel principio di legalità, elevato dalla stessa Corte a principio supremo dell’ordinamento, nel suo corollario della riserva di legge. Nonostante le sollecitazioni sul punto, la Corte ha scelto di non affrontare la questione, limitandosi ad analizzare il profilo della determinatezza. E tuttavia, proprio l’aver elevato il principio di legalità, come statuito nell’art. 25 Cost., a principio supremo dell’ordine costituzionale induce a dubitare della sua compatibilità con il riconoscimento a una sentenza della natura di fonte del diritto (penale).

4. ... e le soluzioni ermeneutiche. Dalla premessa secondo cui la cd. “regola Taricco” non rispetta il requisito della prevedibilità e della sufficiente determinatezza e, quindi, contrasta con un principio supremo dell’ordinamento interno, dovrebbe derivare, in via logica, la necessità di azionare i controlimiti, affermando la loro prevalenza sul diritto UE. Nell’ordinanza di rimessione, invece, la Corte evita il contrasto e indica altre possibili soluzioni, idonee a scongiurarlo. Nel primo dei tre nuclei argomentativi di cui si compone l’ultima parte dell’ordinanza la Corte richiama la necessità per il diritto UE e per le sue istituzioni di rispettare «l’identità nazionale» dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, TUE), quale risulta dalla sua «struttura fondamentale, politica e costituzionale». La Corte afferma testualmente che «la legittimazione (art. 1 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso

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Giurisprudenza nazionale

di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE)13». In tale modo, sulla base del principio di leale cooperazione che regola i rapporti tra Stati membri e Unione, la Corte pare individuare un limite intrinseco del diritto UE, consistente nella necessità di rispettare i principi fondanti l’identità nazionale di ciascuno degli Stati membri, sulle cui tradizioni costituzionali esso si fonda. Spetta, ovviamente, alla Corte UE il compito di interpretare il diritto dell’Unione in modo rispettoso di tale limite intrinseco, mentre spetta al singolo ordinamento l’individuazione del giudice competente a verificare se quella interpretazione sia effettivamente conforme ai principi supremi che ne costituiscono l’identità nazionale. Con ciò la Corte riafferma con forza il proprio ruolo di custode ultimo di tali principi, essendo, in base al diritto interno, l’unico organo a ciò deputato e, per questo, «bene hanno fatto perciò i rimettenti ad investirla del problema»14. Questa prima soluzione ermeneutica, come efficacemente sottolineato dalla dottrina15, mira a trovare un equilibrio tra il primato del diritto UE e le tradizioni costituzionali degli Stati membri che del primo costituiscono fondamento e ragione d’essere. Garanti di questo equilibrio non possono che essere, da un lato, la Corte di giustizia e, dall’altro, per il diritto italiano, la Corte costituzionale, la quale riafferma, in tale modo, la centralità della propria funzione. La seconda opzione suggerita in sede di rinvio pregiudiziale si sostanzia in un’interpretazione della “regola Taricco” conforme allo spirito di integrazione tra i due diversi ordinamenti – europeo e nazionale –, così come auspicato ed enunciato nei Trattati. La norma di riferimento è costituita dall’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (meglio nota come “Carta di Nizza”), che recita «nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti […] dalle costituzioni degli Stati membri» (cd. clausola di maggior tutela). Tale disposizione consentirebbe di conformare la regola enunciata dalla Corte di giustizia alle esigenze di tutela sottese all’ordinamento interno, al quale non è fatto divieto, in ogni caso, di prevedere soglie di protezione maggiori rispetto a quelle individuate dal diritto europeo. Il processo di integrazione europea, infatti, lungi dal comprimere l’autonomia e la sovranità degli Stati membri, si pone l’obiettivo di armonizzare quanto più possibile le legislazioni degli stessi, prevedendo soglie minime di tutela che debbono essere rispettate a condizione che non comportino una diminuzione del livello di protezione che il singolo Stato ritiene di dover garantire a taluni diritti, in conformità ai valori supremi espressi nel proprio ordinamento costituzionale. La terza e ultima opzione interpretativa prospettata dai giudici di costituzionalità è tutta interna al diritto UE, in quanto chiama i giudici di Lussemburgo a pronunciarsi sulla compatibilità tra l’art. 49 della Carta di Nizza, a cui è stato attribuito lo stesso valore dei Trattati (art. 6, paragrafo 1, TUE), e l’art. 325 TFUE, così come interpretato in causa Taricco. In particolare, l’art. 49 enuncia il principio di legalità cui è connaturato il corollario della determinatezza. Nel suo profilo oggettivo tale principio è finalizzato, come già visto, a evitare

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Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, par. 6, cit. Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, par. 6, cit. 15 Adriano Martufi, La minaccia dei controlimiti e la promessa del dialogo: note all’ordinanza n. 24 del 2017 della Corte Costituzionale, in Dir. Pen. Cont., 11.5.2017, 9; G. Repetto, Una ragionevole apologia della supremacy, par. 3, in www.diritticomparati.it 14

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Il caso Taricco: prove di dialogo tra Corti

l’arbitrio del giudice, che, nel sistema di civil law, non può essere incaricato «di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi ed in quali limiti ciò possa avvenire»16. Orbene, l’art. 325, come interpretato dalla Corte, indica uno scopo, senza tuttavia che sia enunciato esattamente e «con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire» per conseguirlo. Nell’ambito di un ordinamento di civil law, quindi, l’art. 325 TFUE parrebbe essere in contrasto con l’art. 49 della Carta di Nizza, se valutato sotto il profilo della determinatezza17. Sul punto autorevole dottrina ha rilevato, però, che il principio di legalità nella giurisprudenza UE pare configurarsi come un diritto soggettivo e non come criterio ordinamentale, per cui, per accogliere tale ultima sollecitazione, che presenta l’indubbio vantaggio di proporre una soluzione interna al diritto UE, la Corte dovrebbe rimodulare i contenuti del principio di legalità, sulla base del richiamo alle tradizioni costituzionali degli Stati membri18.

5. La sentenza 5 dicembre 2017 “Taricco bis”. Sul rinvio pregiudiziale disposto dalla Corte costituzionale italiana si è pronunciata la Grande Sezione della Corte di giustizia con sentenza depositata il 5 dicembre 201719. Questo il principio di diritto enunciato nel dispositivo: “l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”. Sulla base di una prima lettura della sentenza l’interprete non può che rilevare che essa non pare risolvere i nodi applicativi e interpretativi sollevati dalla Corte costituzionale. La Corte di giustizia riafferma, innanzitutto, quanto già sostenuto nella precedente pronuncia, ossia l’obbligo da parte degli Stati membri, in conformità di quanto previsto dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, “di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure effettive e dissuasive nonché di adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari”.

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Corte cost., ord. 26 gennaio 2017, n. 24, par. 9, cit. Nella sentenza 8 settembre 2015, Taricco, la Corte aveva già valutato la compatibilità dell’art. 325 TFUE con l’art. 49 della Carta sotto il diverso profilo della irretroattività, dando al quesito una soluzione positiva in riferimento ai procedimenti pendenti (par. 55) in cui la prescrizione non era ancora maturata. 18 A. Martufi, op. cit., 22 19 CGUE, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, C-105/14, in Dir. Pen. Cont. 17

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Giurisprudenza nazionale

A tal fine ribadisce che la disciplina legale della prescrizione prevista dal diritto nazionale deve essere concepita in maniera tale da garantire una repressione effettiva dei predetti reati fiscali20. Spetta, quindi, in primo luogo al legislatore nazionale “stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’art. 325 TFUE”. Tuttavia, la Corte sottolinea che alla data dei fatti del procedimento principale non era ancora stata emessa da parte dell’Unione la disciplina di armonizzazione di cui alla direttiva 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, in materia di lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, per cui “la Repubblica italiana era quindi libera, a tale data, di prevedere che, nel suo ordinamento giuridico, detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità dei reati e delle pene”21. In questo quadro, prosegue la Corte, spetta ai giudici nazionali, da un lato, dare piena efficacia agli obblighi derivanti dall’art. 325, paragrafi 1 e 2 TFUE, anche eventualmente mediante lo strumento della disapplicazione, come affermato nella prima sentenza Taricco, e, dall’altro lato, garantire il rispetto del principio di legalità. Nella interpretazione della Corte di Lussemburgo, il principio di legalità ha come corollari la “prevedibilità”, la “determinatezza” e la “irretroattività” della legge penale applicabile e trova il suo fondamento nell’art. 49 della Carta di Nizza, nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed in vari trattati internazionali e, segnatamente nell’art. 7, paragrafo 1, della C.e.d.u. Orbene, nei casi in cui la disapplicazione della normativa interna possa determinare una violazione del principio di legalità, il giudice deve assicurare il rispetto di quest’ultimo. In questo modo la Corte di giustizia fissa essa stessa un limite alla disapplicazione, dato, appunto, dal necessario rispetto del principio di legalità, sia nella sua accezione di determinatezza sia in quella di irretroattività. Sotto il primo profilo “spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dal punto 58 della sentenza Taricco (….) conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile. Se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione”. Sotto il secondo profilo, inoltre, “i requisiti menzionati.. (nella) presente sentenza ostano a che, in procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco, il giudice nazionale disapplichi le disposizioni del codice penale in questione. Infatti, la Corte ha già sottolineato (…) che a dette persone potrebbero, a causa della disapplicazione di queste disposizioni, essere inflitte sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate. Tali persone potrebbero quindi essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”. La seconda delle regole appena enunciate mette un punto fermo sui fatti posti in essere prima della emissione della sentenza “Taricco 1”, in quanto, limitatamente ad essi, il rico-

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CGUE, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, C-105/14, par. 41, cit. CGUE, Grande Sezione, 5 dicembre 2017, C-105/14, par. 45, cit.

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Il caso Taricco: prove di dialogo tra Corti

noscimento del principio di legalità impone l’applicazione dell’originaria disciplina prevista dall’ordinamento interno in materia di prescrizione, a nulla rilevando l’interpretazione datane dai giudici sovranazionali. Per le condotte poste in essere successivamente la Corte rimette, invece, al giudice nazionale di merito il compito di stabilire quando, nei reati aventi ad oggetto la violazione delle norme previste in materia di IVA, non sia possibile ricorrere all’istituto della disapplicazione, in quanto esso determinerebbe una violazione del principio di determinatezza. La scelta della Corte di Lussemburgo è, dunque, di attribuire, ancora una volta, ai giudici nazionali il difficile compito di interpretare clausole dal significato rimasto incerto, perché non specificato neanche in questa seconda pronuncia. Privo di soluzione è rimasto, quindi, il problema relativo alla compatibilità della “regola Taricco” – quanto meno per il futuro – con il principio di tassatività/determinatezza, poiché la Corte non ha delimitato i concetti di “frode grave” e di “numero considerevole di casi”, rimasti generici e ampiamente interpretabili, demandando ancora una volta tale compito al giudice nazionale. La questione interpretativamente più complessa è rappresentata, tuttavia, dal significato da attribuire al riconoscimento del principio di legalità quale limite all’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale prevista in materia di prescrizione. Infatti, pur riconoscendo tale principio come limite del diritto eurounitario, la Corte ha avuto cura di individuarne il fondamento tanto nelle tradizioni comuni agli Stati membri quanto nello stesso diritto UE (art 49 Carta di Nizza). Tale operazione, da un lato, non implica accoglimento della teoria dei “controlimiti” e, dall’altro, pare essere rapportabile ad una sorta di “europeizzazione” di siffatti controlimiti, resi espressione di un principio interno all’ordinamento UE. I dubbi lasciati dalla pronuncia rimangono, dunque, importanti e numerosi. Si dovranno attendere le future applicazioni della sentenza al fine di comprendere quale sarà l’orientamento a cui i singoli giudici nazionali decideranno di aderire e, cioè, se optare per una disapplicazione della normativa interna, laddove, a seguito di una complessa attività interpretativa, si profilino i presupposti di operatività della “regola Taricco”, ovvero rimettere nuovamente la questione alla Corte costituzionale. Federica Tondin e Sonia Piccinni

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Giurisprudenza

nazionale

Cass. Penale sez. IV, 20 aprile 2017 (dep. 7 giugno 2017), n. 28187 – Pres. Blaiotta – Rel. Montagni Colpa medica – Responsabilità colposa per morte o lesioni personali – Art. 590 sexies c.p.

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La responsabilità medica colposa a seguito della l. 24/2017 Sommario: 1. Premesse. – 2. La colpa medica. – 3. La sentenza in esame. – 4. La decisione.

1. Premesse. La Corte di Cassazione Quarta Sezione Penale con sentenza n.28187 del 7 giugno 2017 ha accolto il ricorso presentato dalla parte civile, che chiedeva l’annullamento della sentenza del GIP del Tribunale di Pistoia di non luogo a procedere nei confronti del medico psichiatra che aveva in cura, presso l’ufficio di salute mentale della zona, un paziente con gravi disturbi psichiatrici. Il medico indagato e processato per aver colposamente posto in essere, ai sensi dell’art. 589 c.p., una serie di condotte attive ed omissive, da qualificarsi come condizioni necessarie, affinché l’ospite della struttura, inserito in una struttura residenziale a basso livello assistenziale, ponesse in essere l’omicidio di un altro paziente. I giudici, investiti del delicato caso, non hanno potuto esimersi dall’esaminare la questione anche sulla base del nuovo disposto della L. 24/2017 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, c.d. Gelli-Bianco (G.U. n. 64 del 17.03.2017)1 e in particolare l’art. 590 sexies c.p., rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario” ai sensi del quale: “Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”2. Le introduzioni previste dalla L. n.24 del 8 marzo 2017 denotano, quindi, un importante impatto nel c.d. “medical malpractice”, facendo sorgere nel medico, tenuto ad attenersi alle

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In vigore dal 1° aprile 2017. Il secondo comma dell’art. 6 dispone l’abrogazione dell’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012 n. 158, convertito con modificazioni dalla L. 8 novembre 2012 n.189. 2


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raccomandazioni (sia pure con gli adattamenti propri di ciascuna fattispecie concreta), la possibilità a vedere giudicato il proprio comportamento proprio sulla base delle medesime direttive impostegli; al contempo, contribuendo a chiarire il significato della nuova fattispecie incriminatrice, fornendo cioè un inedito inquadramento precettivo che offre al giudice precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità. Infatti, in base al nuovo art. 590 sexies: i) al medico occorrerà riferirsi ad eventi che costituiscono espressione di condotte governate da linee guida accreditate sulla base di quanto stabilito all’art. 5 ed appropriate rispetto al caso concreto, in assenza di plausibili ragioni che suggeriscano di discostarsene radicalmente; ii) le raccomandazioni generali dovranno essere “pertinenti alla fattispecie concreta”, previo vaglio della loro corretta attualizzazione nello sviluppo della relazione terapeutica, con particolare riguardo alle contingenze del caso concreto; c) non assumeranno rilevo condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito della relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, ovvero siano connotate da negligenza o imprudenza e non da imperizia. In tali ultimi casi l’art. 590 sexies non avrà rilievo e troverà applicazione la disciplina generale prevista dagli artt. 43, 589 e 590 c.p3. Date queste premesse, risulta quindi necessario ripercorrere, in via semplificata, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di colpa medica, che influisce nel ragionamento dei Giudicanti nel caso di specie.

2. La colpa medica. Il sistema della responsabilità in ambito sanitario ha subito una profonda evoluzione nel corso degli ultimi tre decenni, soprattutto per il mutato orientamento della giurisprudenza della Cassazione. Sino agli anni ottanta del secolo scorso la giurisprudenza limitava infatti la responsabilità penale del medico, rispetto ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose, alle ipotesi di colpa grave, in conformità a quanto previsto, in tema di responsabilità civile, dall’articolo 2236 c.c., in riferimento alle prestazioni professionali comportanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà4. Il limite della colpa grave veniva solitamente riferito alla sola imperizia (quella cioè derivante dalla violazione delle leges artis), mentre rispetto alla negligenza ed all’imprudenza si riteneva che la valutazione dell’attività del medico dovesse essere improntata a criteri di normale severità5.

3 I Giudici della Suprema Corte tuttavia, ammettono che il catalogo delle linee guida non può esaurire del tutto i parametri di valutazione, ben potendo il terapeuta invocare in qualche caso particolare quale metro di giudizio anche raccomandazioni, approdi scientifici che, sebbene non formalizzati nei modi previsti dalla legge, risultino di elevata qualificazione nella comunità scientifica, magari per effetto di studi non ancora recepiti dal sistema normativo di evidenza pubblica delle linee guida di cui al richiamato art. 5. Consapevolezza, del resto, ben presente anche nel Legislatore, che nell’art. 590-sexies c.p. fa esplicito riferimento, seppure in via sussidiaria, al rispetto delle “buone pratiche clinico-assistenziali”. 4 Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 6650 del 27/01/1984, Ricolizzi, Rv 165329; Sez. 4, sentenza n. 9410 del 25/05/1987, Tomei, Rv. 176606; Sez. 2, sentenza n. 11695 del 23/08/1994, Leone, Rv. 199757. 5 Parallelamente in ambito civilistico prima del 1999 la responsabilità civile per i danni subiti a causa di errate prestazioni sanitarie veniva costantemente imputata a titolo di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cc), sia alle strutture sanitarie sia ai medici. A partire dalla sentenza n. 589 del 1999 la Cassazione ha ritenuto applicabile in tale

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Tale indirizzo è stato però messo in discussione, successivamente, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha negato l’applicabilità del principio di cui all’art. 2236 c.c., al diritto penale, affermando che nella materia devono trovare esclusivo accoglimento gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p., secondo il parametro consueto dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto6. La giurisprudenza successiva ha quindi costantemente rilevato che nella valutazione in ambito penale della colpa medica non trova applicazione la richiamata disciplina di favore di cui all’art. 2236 c.c., pertanto la graduazione della colpa assume eventuale rilievo solo ai fini della determinazione della pena7. In siffatta situazione, il Legislatore era poi intervenuto nel 2012 con il cd. “Decreto Balduzzi” (D.L. 13 settembre 2012 n. 158), convertito nella legge n. 189 dell’8 novembre 2012 contenente rilevanti modificazioni proprio per quanto riguardava la responsabilità del medico (rectius: di tutti gli esercenti le professioni sanitarie). L’art. 3 della Legge 189/2012 nell’introdurre una limitazione della responsabilità penale del medico in colpa lieve, quando si era attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, faceva salvo, anche nei casi in cui il professionista andava esente dalla responsabilità penale, l’obbligo di risarcire il danno e conteneva un esplicito richiamo all’art. 2043 cc (art. 3 comma 1 l. 189/2012). L’intervento legislativo del 2012, espressamente finalizzato a contenere la spesa sanitaria e a limitare la responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie per porre rimedio alla medicina difensiva, riguardava indubbiamente non solo la responsabilità penale ma anche la responsabilità civile, di cui si occupava, oltre che nel citato comma 1 dell’art. 3, anche laddove prevedeva che, per la liquidazione del danno biologico conseguente all’attività sanitaria, doveva farsi applicazione delle tabelle previste nel codice delle assicurazioni (artt. 138 e 139), sino ad allora ritenute applicabili dalla giurisprudenza solo per i danni derivanti dalla circolazione stradale. Orbene, con l’introduzione della recente L.24/2017 il Legislatore abbandona la scelta, operata nell’art. 3 della legge 189/2012, di escludere la punibilità del professionista sanitario nei soli casi di colpa lieve e, attraverso l’inserimento nel codice penale dell’art. 590 sexies, ritiene ora di escludere la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria per i delitti di lesioni personali colpose e di omicidio colposo se l’evento si è verificato a causa di imperizia, purché siano state rispettate le raccomandazioni previste nelle linee guida emanate ai sensi della legge (o, in mancanza di linee guida, le buone pratiche clinicoassistenziali) e che esse risultino adeguate alla specificità del caso concreto (art. 6)8.

settore la cd. teoria del “contatto sociale” ed ha iniziato a ricondurre la responsabilità risarcitoria (sia delle strutture che dei medici) nell’alveo della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 cc (cd. contrattuale), la quale come noto presenta un regime agevolato per il creditore/danneggiato, non solo sul terreno dell’onere della prova ma anche per la presunzione della colpa del debitore e per il più lungo termine di prescrizione (10 anni) del diritto al risarcimento del danno. 6 Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 11733, del 2/06/1987, Fora Boschi, Rv. 177085; Cass. Pen. Sez. IV, sentenza n. 11007, del 28/04/1994, Archilei, Rv. 200387. 7 Cass. Pen Sez. IV, sentenza n. 46412, 28/10/2008, Rv. 242251. 8 Con riferimento alla responsabilità civile, la legge 24/2017 prevede espressamente la responsabilità contrattuale (ex artt. 1218-1228 cc) delle strutture sanitarie (pubbliche o private), anche per le prestazioni rese dai professionisti sanitari di cui le strutture si avvalgono per adempiere le proprie obbligazioni, compresi i professionisti scelti dai pazienti, quelli che operano all’interno delle strutture come liberi professionisti o in regime di convenzione con il SSN (art. 7 commi 1 e 2). Inoltre, viene altresì affermato che, al di fuori dei casi in cui hanno agito in esecuzione di una

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Per ciò che attiene il concetto di colpa, la Corte specificatamente chiarisce che si deve trattare di una forma di colpevolezza che non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione di una prescrizione, ma è limitata ai risultati che la regola mira a prevenire. Prevedibilità e prevenibilità hanno infatti un importante ruolo nell’individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio. Si tratta di identificare una norma specifica posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che all’epoca della creazione della regola, consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio. L’individuazione di tale nesso consente specificatamente di distinguere la colpa dalla negligenza o imprudenza e di sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra regola violata ed evento; di una configurazione dell’evento stesso come condizione obiettiva di punibilità9. Dunque, le linee guida, non esaurendo la disciplina dell’ars medica, hanno contenuto orientativo, esprimono raccomandazioni; e vanno distinte da strumenti di “normazione” maggiormente rigidi e prescrittivi, solitamente denominati “protocolli” o check list. Esse non indicano un’analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico. Secondo la Suprema Corte ben può accadere che il professionista debba modellare le direttive, adattandole alle contingenze che nello specifico caso concreto gli si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e che, in alcuni casi, si trovi a dovervi addirittura derogare radicalmente.

3. La sentenza in esame. Recuperato, pertanto, il quadro teorico alla base della nuova norma e ritornando nel caso predetto dello psichiatra, diviene ineludibile sindacare la sua specifica posizione di garanzia e il contenuto dei conseguenti obblighi di protezione e controllo derivanti dalla sua figura, rispetto alle condotte autolesive o lesive del paziente verso terzi10. La Corte, recuperando pertanto i presupposti del concorso colposo del medico nel delitto doloso in casi analoghi, chiarisce che l’obbligo giuridico che grava sullo psichiatra risulta potenzialmente qualificabile al contempo come obbligo di controllo, equiparando il paziente ad una fonte di pericolo, rispetto alla quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso terzi, e di protezione del paziente medesimo, di per sé soggetto debole, da comportamenti pregiudizievoli anche per se stesso11.

obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente, i professionisti operanti all’interno delle strutture sanitarie pubbliche o private e quelli che svolgono la loro attività in regime di convenzione con il SSN rispondono del loro operato ai sensi dell’art. 2043 cc (art. 7 comma 3, primo periodo). Il secondo periodo del comma 3, ricalcando l’analoga previsione contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 3 della legge Balduzzi (comma abrogato dall’art. 6 della legge 24/2017) ribadisce che, nella determinazione del danno risarcibile da parte dell’esercente la professione sanitaria, il giudice tiene conto della condotta del professionista che si è attenuto alle raccomandazioni previste dalle linee guida o alle buone pratiche clinico assistenziali. 9 Cass. pen. Sez. IV, 7 giugno 2017, n. 28187. 10 Cass. Pen Sez. IV, sent. n. 48292 del 27/11/2008. 11 Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 14766 del 04/02/2016.

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Pertanto, il contenuto della circoscritta posizione di garanzia assunta dallo psichiatra deve essere circoscritto, tenendosi nel dovuto conto la contemporanea presenza di vincoli protettivi e pretese di controllo, unitamente alla particolare complessità della situazione rischiosa da governare. Tra il perimetro della posizione di garanzia e il rischio consentito esiste, infatti, uno stretto collegamento, nel senso che è proprio l’esigenza di contrastare e frenare un determinato rischio per il paziente (o realizzato dal paziente verso terzi) che individua e circoscrive, sul versante della responsabilità colposa, le regole cautelari del medico. In questo quadro, peculiare rilevanza assume la selezione delle regole tecniche, delle raccomandazioni, che orientano l’attività medica nella scelta del percorso terapeutico; selezione che si pone in termini ancor più problematici con specifico riferimento alla scienza psichiatrica, dato il fatto che le manifestazioni morbose a carico della psiche sono ritenute tendenzialmente meno evidenti e quindi percepibili delle malattie fisiche, per cui l’individuazione del trattamento appropriato può in certi casi diventare ancora più incerta che non nell’ambito dell’attività medica genericamente intesa12. In tali casi la regola cautelare delinea l’area dell’obbligo di garanzia, che a sua volta definisce la condotta omissiva tipica, alla quale assegnare idoneità salvifica, rispetto all’impedimento dell’evento, come in concreto verificatosi. Nell’adempimento della regola cautelare che involge la delimitazione del perimetro del rischio consentito insito nella pratica medica, assumono indubbiamente particolare rilievo le raccomandazioni contenute nelle linee guida, in grado di offrire indicazioni e punti di riferimento, tanto per il medico nel momento in cui è chiamato ad effettuare ex ante la scelta terapeutica adeguata al caso di specie, quanto per il giudice che ex post deve procedere alla valutazione giudiziale di quella condotta13. In tale ambito ricostruttivo, la Corte ha poi ritenuto che la regola cautelare violata deve comunque essere necessariamente diretta a prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo e che quest’ultimo deve risultare prevedibile per l’agente che risponde a titolo di colpa.

4. La decisione. La Corte ritenendo quindi, sulla base di quanto dedotto, che il GIP avesse trascurato nella propria decisione di non luogo a procedere di dare importanza ad un’approfondita valutazione scientifica della regola cautelare a cui il medico sarebbe stato sottoposto nel caso in esame, non esprimendo in maniera sufficientemente motivata e concludente l’inutilità della sede dibattimentale per tale accertamento, ha accolto il ricorso, annullando la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Pistoia. Andrea Racca

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Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 14766 del 04/02/2016. Cass. Pen. Sez. IV, sent. n. 4391 del 22/11/2011.

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europea

CEDU, Sez. V, 1 giugno 2017 (dep.1 settembre 2017), n.21571/05 – Pres. Angelika Nußberger Articolo 5 (3) Cedu – Ragionevole durata della custodia cautelare – Motivi “rilevanti” e “sufficienti” – Privazione della libertà personale– Esigenza di carattere pubblico – “Particolare diligenza” da parte delle autorità – Diritto alla libertà e sicurezza La ragionevole durata di un periodo di custodia cautelare non può essere valutata in abstracto. Piuttosto, la Corte EDU, per decidere se la detenzione sia giustificata ai sensi dell’art. 5 (3) della Convenzione, deve esaminare essenzialmente gli argomenti presentati dai ricorrenti nei loro ricorsi de libertate e le motivazioni fornite nelle relative decisioni da parte delle autorità giudiziarie nazionali. Tali decisioni, per giustificare la privazione della libertà personale, devono contenere motivazioni “rilevanti” e “sufficienti” e affrontare le caratteristiche specifiche del caso concreto1.

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Corte EDU: caso Mindadze e Nemsitsveridze c. Georgia Sommario: 1. Il Caso. – 2. La Giurisprudenza della Corte. – 3. Conclusioni.

1. Il Caso. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 1 giugno 2017 ha reso la decisione sul ricorso n. 21571/05 presentato da due cittadini georgiani, i sigg. David Mindadze, primo ricorrente, e Valerian Nemsitsveridze, secondo ricorrente, contro la Georgia, in relazione alla violazione degli artt. 3, 5 (1)(3)(4), 6(1) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nello specifico, i ricorrenti, accusati di tentato omicidio di un membro del Parlamento georgiano, avevano denunciato alla Corte che il sig. Mindadze aveva subito maltrattamenti dalla polizia al momento dell’arresto, che le condizioni di detenzione di entrambi erano pessime e la durata della custodia preventiva eccessiva. Inoltre, avevano lamentato che le ordinanze di custodia erano prive di motivazioni adeguate ed il procedimento penale nei confronti dei due era stato ingiusto. Per quanto riguarda la ragionevole durata della custodia cautelare, nel ricorso si segnalava la violazione, da parte delle autorità nazionali, dell’art. 5 (3) della CEDU, secondo il quale: “ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 (c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può

1 Non si tratta di “massima” nel senso tecnico del termine, ma di un estratto, ritenuto rilevante, della sentenza in commento.


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essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza”. Il citato paragrafo (1) (c) dell’art. 5, prevede uno dei casi in cui il diritto alla libertà e alla sicurezza può essere limitato: “se [il soggetto] è stata arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso”. I ricorrenti erano stati tratti in custodia il 13 maggio 2004 e condannati in primo grado il 26 febbraio 2007. Pertanto, il periodo di carcerazione preventiva totale, ai sensi dell’art. 5 (1) (c) CEDU, era stato di trentasei mesi e tredici giorni. La detenzione preventiva dei ricorrenti era stata inizialmente autorizzata dalle decisioni del Tribunale Regionale di Tbilisi del 16 maggio, 27 maggio e 11 agosto 2004, che avevano fissato il 13 novembre 2004 come data per la cessazione della misura cautelare in questione. I ricorrenti denunciavano l’estensione della loro detenzione oltre quest’ultimo termine, avvenuta sulla base delle decisioni del Tribunale del 10 novembre 2004 e del 7 giugno 2005. Per quanto riguarda la decisione del 10 novembre 2004, i giudici del Tribunale georgiano avevano giustificato la necessità di mantenere i ricorrenti in stato di detenzione sostenendo che: 1) la gravità della loro eventuale condanna dimostrava il rischio di fuga; 2) il materiale probatorio relativo al caso aveva mostrato che i ricorrenti avrebbero potuto ostacolare le indagini. Tuttavia, rispetto alla prima motivazione, la Corte EDU nella sentenza dell’1 giugno 2017 ha rilevato che il rischio di fuga non può essere valutato esclusivamente sulla base della gravità di una sentenza eventuale, ma deve essere esaminato con riferimento ad un certo numero di altri fattori rilevanti, che non sono stati ricercati nella decisione de quo. Per quanto riguarda il rischio di ostacolare la ricerca della verità, la Corte di Tbilisi si era limitata a rilevare tale rischio senza fare, tuttavia, alcun riferimento alle circostanze specifiche del caso concreto. La Corte EDU, nella sentenza resa, ha ribadito che sebbene il pericolo di fuga possa costituire un elemento rilevante nel valutare la ragionevolezza di una misura di privazione della libertà, tale rischio non può essere stabilito in base a dichiarazioni astratte, non supportate da adeguate motivazioni. Quanto alla decisione del 7 giugno 2005, si trattava di un provvedimento di estensione del periodo di custodia cautelare emesso tramite un modello pre-stampato, con riferimenti al caso di specie, ma sprovvisto di adeguate motivazioni. Al riguardo la Corte di Strasburgo nella sentenza del 1 giugno ha espresso particolare preoccupazione per le modalità in cui il Tribunale regionale di Tbilisi aveva reso tale decisione: invece di mostrare un grado ancora maggiore di “ particolare diligenza “, in ragione di un periodo di detenzione che era già durato più di dodici mesi, il giudice nazionale aveva emesso una decisione basandosi su uno stampato standard e utilizzando termini astratti. La Corte EDU ha denunciato, inoltre, che nel caso di specie non erano stati esposti fatti specifici e pertinenti che giustificassero il prolungamento della custodia cautelare dei ricorrenti. I giudici di Strasburgo, in generale, hanno rilevato che la ragionevole durata di un periodo di custodia cautelare non può essere valutata in abstracto. Piuttosto, la Corte EDU, per decidere se la detenzione sia giustificata ai sensi dell’art. 5 (3) della Convenzione, deve esaminare essenzialmente gli argomenti presentati dai ricorrenti nei loro ricorsi de libertate e le motivazioni fornite nelle relative decisioni da parte delle autorità giudiziarie nazionali. Tali decisioni, per giustificare la privazione della libertà, devono contenere motivazioni “rilevanti” e “sufficienti” e affrontare le caratteristiche specifiche del caso concreto.

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Corte EDU: caso Mindadze e Nemsitsveridze c. Georgia

2. La Giurisprudenza della Corte. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, ai sensi dell’art. 5(3) CEDU 2, la persistenza di un ragionevole sospetto è condizione sine qua non per la validità del prolungamento della detenzione, ma, dopo un certo lasso di tempo, non è più sufficiente. La Corte deve poi stabilire se altri motivi, citati dalle autorità giudiziarie, continuino a giustificare la privazione della libertà e, laddove tali motivi siano “rilevanti” e “sufficienti”, se le autorità nazionali abbiano mostrato “particolare diligenza” nel comportamento. Il prolungamento della custodia cautelare può essere giustificato in un determinato caso, e cioè solo se vi sono indicazioni specifiche di un’autentica esigenza di tutela dell’interesse pubblico che, nonostante la presunzione di innocenza, deroghi il diritto della libertà individuale di cui all’art. 5 della Convenzione3. Spetta, in primo luogo, alle autorità giudiziarie nazionali garantire che, in un determinato caso, la detenzione preventiva di una persona accusata non superi un lasso di tempo ragionevole. A tal fine i giudici nazionali devono esaminare tutte le questioni a favore o contro l’esistenza di un’autentica esigenza di interesse pubblico che giustifichi, tenendo debitamente conto del principio della presunzione di innocenza, una deroga alla regola del rispetto della libertà personale ed enunciare tali fatti nelle decisioni di rigetto dei ricorsi de libertate4. La Corte ha inoltre più volte dichiarato5 che la giustificazione di qualsiasi periodo di detenzione, non importa quanto breve, deve essere dimostrata in modo convincente dalle autorità. Al fine di assicurare la presenza dell’imputato al processo, nel decidere se il soggetto debba essere liberato o meno, le autorità sono tenute a prendere in considerazione anche tutti gli altri strumenti alternativi alla detenzione. In altri termini, la Corte EDU, eventualmente chiamata a decidere, per valutare se vi sia stata violazione dell’art. 5 (3) della Convenzione si baserà sulle motivazioni fornite in queste decisioni e sulle circostanze fattuali menzionate dai ricorrenti nei propri ricorsi.

3. Conclusioni. Tenuto conto delle considerazioni sopra esposte, la Corte EDU nel caso de quo, ha constatato che i giudici nazionali, non avendo affrontato i fatti specifici contestati ai ricorrenti e sostenendo esclusivamente la motivazione della gravità delle accuse, avevano confermato la detenzione preventiva dei ricorrenti nelle decisioni 10 Novembre 2004 e 7 giugno 2005 sulla base di ragioni che, anche se “rilevanti”, non potevano essere considerate “sufficienti”. Di conseguenza, la Corte nel caso di specie ha condannato la Georgia per violazione dell’art. 5 (3) della Convenzione. In conclusione, quando il prolungamento della misura cautelare privativa della libertà personale sia giustificato dalle autorità nazionali esclusivamente sulla base della gravità delle

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Buzadji c. Repubblica di Moldova, n. 23755/07, 23 marzo 2006, para. 87. Kudła c. Polonia, n. 30210/96, 26 ottobre 2000, para.110. 4 Michta c. Polonia, n. 13425/02, 4 maggio 2006, para. 45, 46 e 47. 5 Letellier c. Francia, n. 12369/86, 26 giugno 1991, para. 35; Idalov c. Russia, n. 5826/03, 22 maggio 2012, para. 140. 3

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Giurisprudenza europea

accuse mosse nei confronti degli indagati, tale motivazione, pur integrando il criterio della “rilevanza”, non soddisfa quello della “sufficienza”. I due criteri, secondo la giurisprudenza della Corte, non sono alternativi, bensì cumulativi. Pertanto, laddove uno dei due sia carente, il prolungamento della misura cautelare deve considerarsi illegittimo ed in violazione dell’art.5.(3) CEDU. Marta Patacchiola

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Programma europeo per il contrasto alla criminalità organizzata in America Latina Giorgio Malfatti di Monte Tretto La Commissione Europea ha finanziato, nei mesi scorsi, un ambizioso programma di assistenza tecnica ai paesi latino americani per la lotta alla criminalità transazionale organizzata. L’iniziativa europea, denominata EL PAcCTO (Programma di Assistenza contro il Crimine Transnazionale Organizzato, per lo stato di diritto e la sicurezza cittadina), è implementata da un consorzio formato da agenzie di Italia, Francia, Spagna e Portogallo. Il programma nasce con l’obiettivo di contrastare il crimine transnazionale organizzato e di rafforzare lo stato di diritto e la sicurezza cittadina in diciotto Paesi dell’America Latina (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Ecuador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Salvador, Uruguay, Venezuela). Il progetto, che risponde ad un’esigenza espressa dai paesi latinoamericani nel corso della riunione dei Capi di Stato UE-CELAC del giugno 2015, parte dalla consapevolezza che, in un mondo globalizzato, nessun paese è immune agli effetti del crimine organizzato. Il capitolo 10 del piano di azione sulla Sicurezza Cittadina, adottato dalla stessa riunione, accolse quella richiesta e ne fece un impegno condiviso. Dopo questo incontro hanno avuto luogo diverse riunioni per definirlo e due a livello multilaterale: a Panama City nel febbraio 2016 e a Città del Messico nel gennaio 2017. In queste occasioni il programma ha avuto una definizione nei contenuti e una modalità di esecuzione. La delinquenza è un fenomeno antico, quella transnazionale organizzata moderno. Una criminalità senza frontiere, che rappresenta una minaccia per le istituzioni democratiche dei paesi e per lo stesso sviluppo economico di essi. Per contrastarla, serve un severo impegno politico dei governi ed una stretta collaborazione internazionale. Il concetto nuovo, emerso in sede internazionale, è che non può esservi un regolare sviluppo economico finché esista un tipo di criminalità cosi organizzata. Le organizzazioni criminali transnazionali, infatti, operano più facilmente in realtà che non hanno sviluppato efficaci strumenti giuridici di contrasto. Ciò comporta che, qualunque stato privo di tali strumenti e sistemi di controllo e prevenzione, può causare indirettamente rischi di infiltrazione per gli altri. Pertanto, i governi hanno la responsabilità di lavorare in collaborazione, tanto a livello europeo come internazionale, per affrontare la minaccia globale del crimine organizzato. EL PAcCTO è un programma innovativo sia nel contenuto sia nella forma di gestione. La complessità dei contenuti risponde alla natura del programma. La finalità è contribuire a rafforzare lo stato di diritto e la sicurezza cittadina in America latina. Il rafforzamento della sicurezza del cittadino nel rispetto dei diritti umani è un delicato tema politico. Si tratta di utilizzare norme e strumenti che non ledano le libertà individuali e democratiche. In questo, le esperienze di paesi europei che hanno saputo combattere forme di antica criminalità organizzata come la mafia o il terrorismo interno e internazionale, senza ricorrere a leggi coercitive, sono fondamentali.


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Il programma agisce sulla cooperazione nei tre principali pilastri sui cui poggia l’intera catena penale (il sistema di polizia, della giustizia e del penitenziario) e su quattro attività trasversali (corruzione, riciclaggio, cybercrime e politiche di genere). La struttura amministrativa è ugualmente complessa e prevede una co direzione franco spagnola con la sede centrale a Madrid. È la prima volta che la Commissione Europea ricorre a questa formula contrattuale tanto complessa. Ciascuno dei tre pilastri sarà coordinato e gestito da uno dei Paesi attuatori: quello della Polizia dalla Francia; della Giustizia dalla Spagna e del Penitenziario dall’Italia. Scenario di riferimento del programma, che ha avuto inizio lo scorso 15 giugno ed avrà una durata di cinque anni, è l’intero continente latinoamericano, mentre l’assistenza tecnica si sviluppa a partire dalle “best practices” di tutta l’Unione Europea. Obiettivi dell’azione tecnica di cooperazione sono il miglioramento degli strumenti legali finalizzati alla lotta al crimine organizzato e il rafforzamento delle reti latinoamericane, per un’azione intercontinentale efficace. Valorizzare le realtà migliori esistenti sul posto – tanto a livello normativo come organizzativo e pratico – costituisce un’ulteriore azione strategica proposta dal Programma. Elementi centrali del metodo d’azione proposto sono la “comproprietà”, l’approccio “su misura” e la valorizzazione delle realtà e delle buone pratiche esistenti. In base a questo principio tutte le azioni (analisi, sviluppo, monitoraggio) si realizzano in collaborazione costante con i soci latinoamericani. L’approccio “su misura” parte dalla consapevolezza che le iniziative destinate ai diversi paesi devono fondarsi su un’analisi dettagliata e personalizzata dei bisogni dei singoli paesi, talvolta molto diversi per storia e contesto economico-sociale. EL PAcCTO ha, come obiettivo specifico, la promozione e protezione dei diritti umani, un settore nel quale promuovere strumenti legali finalizzati a uno sviluppo sostenibile. Ente capofila attuatore del programma per l’Italia è l’Organizzazione Internazionale Italo Latina Americana (IILA), con sede a Roma, che si avvale di esperti indicati dal Ministero degli Esteri e dal Ministero della Giustizia. Essere stati richiesti dall’Unione Europea dall’Unione Europea di liderare le attività inerenti alla cooperazione nel settore penitenziario rappresenta per noi un significativo riconoscimento a livello internazionale. Le riforme attuate dall’Italia nel miglioramento delle strutture carcerarie e delle condizioni dei detenuti sono state ritenute esempi da seguire. La partecipazione italiana a EL PAcCTO rappresenta un’evoluzione su larga scala dell’esperienza maturata nella cosiddetta diplomazia giuridica sviluppata tramite progetti finanziati con il decreto missioni dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, che si sono distinti per il raggiungimento di risultati lusinghieri, riconosciuti a livello globale. In particolare con riferimento alla metodologia impiegata nell’assistenza tecnica, fondata su quattro pilastri di azione riguardanti la formazione (capacity building), gli aspetti organizzativi (istitutional building), l’applicazione della legge (law enforcement) e, sul piano normativo, la diffusione dei valori alla base delle iniziative proposte (consensus building). Il foro multilaterale globale con maggiori competenze in materia di lotta alla criminalità internazionale, l’Anti Corruption Working Group del G20, infatti, nel proprio implementation plan per il biennio in corso, su indicazione del nostro paese, ha voluto richiamare la metodologia sopra illustrata.

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L’ordine europeo di indagine penale D.Lgs. 108/2017 Nikita Micieli de Biase Il d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108 emanato in base alla delega di cui alla Legge 9 luglio 2015, n. 114 attua nell’ordinamento interno la direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all’ordine europeo di indagine penale. L’art. 1, ai fini dell’applicazione della norma, impone l’osservanza dei principi dell’ordinamento costituzionale e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e di giusto processo. Il Legislatore delegato regola espressamente come ulteriore principio cardine il principio di proporzionalità. Ai sensi dell’art. 8 “l’ordine di indagine non è proporzionato se dalla sua esecuzione possa derivare un sacrificio ai diritti e alle libertà dell’imputato o della persona sottoposta alle indagini o di altre persone coinvolte dal compimento degli atti richiesti, non giustificato dalle esigenze investigative o probatorie del caso concreto, tenuto conto della gravità dei reati per i quali si procede e della pena per essi prevista”. Sarà interessante verificare le prime interpretazioni giurisprudenziali sulla portata di tale principio1. L’obiettivo della norma è di propiziare in ambito U.E. la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la prevenzione ed il contrasto alla criminalità. È da evidenziare la definizione di ordine europeo di indagine penale come provvedimento emesso dalla autorità giudiziaria o dalla autorità amministrativa e convalidato dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro U.E., per compiere atti di indagine o di assunzione probatoria che hanno ad oggetto persone o cose che si trovano nel territorio dello Stato o di un altro Stato membro dell’Unione ovvero per acquisire informazioni o prove che sono già disponibili. Il d.lgs. 108/2017 regola gli aspetti che incidono l’ordinamento italiano come la fase esecutiva dell’ordine d’indagine emesso dall’autorità estera (procedura passiva) ed il procedimento di emissione dell’ordine emanato dall’autorità nazionale (procedura attiva) regolando anche l’utilizzabilità degli atti nel processo penale2. Il Legislatore delegato si preoccupa di garantire il diritto di difesa e di effettività della tutela giurisdizionale compatibilmente assicurando la

1 Per approfondimenti v. Caianiello, Il Principio di Proporzionalità nel Procedimento Penale, in «Rivista trimestrale Diritto Penale Contemporaneo», n. 3-4 (2014) consultabile al link: https://www.penalecontemporaneo.it/ foto/4062DPC_Trim_3-4_2014.pdf#page=149&view=Fit 2 Ai sensi dell’art. 36, sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431 c.p.p.: i documenti acquisiti all’estero mediante ordine di indagine e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità; i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera a), assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana. Nei casi e con le modalità ex art. 512bis c.p.p. il giudice dà lettura dei verbali di dichiarazioni rese all’estero, diversi da quelli di cui all’art. 431, comma 1, lettera e), c.p.p., acquisiti a seguito di ordine di indagine emesso nelle fasi precedenti il giudizio.


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celerità della procedura, anche se tali obiettivi possono essere pregiudicati dall’ampia discrezionalità attribuita all’autorità giudiziaria. È attribuita nel contesto della procedura attiva la facoltà di avviare il procedimento da parte del difensore dell’indagato, dell’imputato e della persona destinataria di una proposta di misura di prevenzione. Nel caso di rigetto della richiesta del difensore non è previsto alcun mezzo d’impugnazione, ma è soltanto possibile la reiterazione della richiesta. Il d.lgs. 108/2017 nell’ambito della procedura passiva indica i seguenti casi di rifiuto del riconoscimento e dell’esecuzione dell’ordine di indagine: l’atto richiesto per l’esecuzione dell’ordine di indagine non è previsto dalla legge italiana o non ricorrono i presupposti che la legge italiana impone per il suo compimento; l’ordine si fonda su un contenuto incompleto o su informazioni erronee o non corrispondenti al tipo di atto richiesto; il destinatario della procedura è un soggetto immune all’esercizio o al proseguimento dell’azione penale; pregiudizio alla sicurezza nazionale; si viola il divieto di ne bis in idem processuale a danno di persona già definitivamente giudicata; sussistono fondati motivi sull’incompatibilità dell’esecuzione dell’ordine con l’art. 6 TUE3 e le norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; si trasgredisce il principio della doppia incriminazione, salvo che ricorrono i delitti elencati dagli art. 9 comma 54 e 115. Sono previste disposizioni specifiche per determinati atti investigativi

3 Esso dispone che l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali U.E. del 7, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. L’Unione aderisce alla CEDU. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati I diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. 4 Ai sensi del comma 5 si provvede in ogni caso all’esecuzione dell’ordine di indagine avente ad oggetto: acquisizione dei verbali di prove di altro procedimento; acquisizione di informazioni contenute in banche dati accessibili all’autorità giudiziaria; audizione della persona informata dei fatti, del testimone, del consulente o del perito, della persona offesa, nonché della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato presenti nel territorio dello Stato; compimento di atti di indagine che non incidono sulla libertà personale e sul diritto all’inviolabilità del domicilio; identificazione di persone titolari di uno specifico numero telefonico o di un indirizzo di posta elettronica o di un indirizzo IP. 5 Il comma 11 elenca i seguenti delitti: partecipazione a un’associazione per delinquere; terrorismo; tratta di esseri umani; sfruttamento sessuale di minori e pornografia infantile; traffico illecito di stupefacenti e sostanze psicotrope; traffico illecito di armi, munizioni ed esplosivi; corruzione; frode, compresa la frode che lede gli interessi finanziari UE ai sensi della Convenzione del 26 luglio 1995, relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; riciclaggio; falsificazione e contraffazione di monete; criminalità informatica; criminalità ambientale, compreso il traffico illecito di specie animali protette e il traffico illecito di specie e di essenze vegetali protette; favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno illegali di cittadini non appartenenti a Stati membri U.E.; omicidio volontario, lesioni personali gravi; traffico illecito di organi e tessuti umani; sequestro di persona; razzismo e xenofobia; rapina commessa da un gruppo organizzato o con l’uso di armi; traffico illecito di beni culturali, compresi gli oggetti d’antiquariato e le opere d’arte; truffa; estorsione; contraffazione e pirateria in materia di marchi e prodotti; falsificazione di atti amministrativi e traffico di documenti alterati e contraffatti; falsificazione di mezzi di pagamento; traffico illecito di sostanze ormonali ed altri fattori di crescita; traffico illecito di materie nucleari e radioattive; ricettazione, riciclaggio e reimpiego di veicoli oggetto di furto; violenza sessuale; incendio; reati che rientrano nella competenza giurisdizionale della Corte penale internazionale; dirottamento di nave o aeromobile; sabotaggio.

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nelle procedure attiva e passiva come il trasferimento temporaneo sia in altro Stato membro di persone detenute nello Stato che in Italia di persone detenute nello Stato di emissione; l’audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva; le informazioni relative a conti e operazioni bancarie e finanziarie; la richiesta di operazioni sotto copertura da compiersi all’estero; la richiesta di ritardare od omettere atti di arresto o di sequestro; le intercettazioni. Sono previste disposizioni specifiche per determinati atti investigativi nelle procedure attiva e passiva come il trasferimento temporaneo sia in altro Stato membro di persone detenute nello Stato che in Italia di persone detenute nello Stato di emissione; audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva; informazioni relative a conti e operazioni bancarie e finanziarie; richiesta di operazioni sotto copertura da compiersi all’estero; richiesta di ritardare od omettere atti di arresto o di sequestro; le intercettazioni.

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Caso “Contrada”: adeguamento della Suprema Corte di Cassazione alla Corte EDU. Cade il concorso esterno in associazione mafiosa Alessandro Parrotta e Francesco Urbinati

Sommario: 1. Il fatto – 2. Breve ricostruzione della vicenda – 3. I profili critici: a) concorso esterno in associazione mafiosa e tipicità penale. b) conflitto tra “materia penale” interna ed elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU – 4. Conclusioni e possibili scenari futuri.

1. Il fatto. La tormentata vicenda “Contrada” giunge ad un altro, significativo, sviluppo. Significativo per almeno due motivi: il primo è costituito dalla sempre più ampia influenza delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e sulla loro progressiva attività di “erosione” del giudicato interno; il secondo riguarda la figura del c.d. “concorso esterno” in associazione mafiosa sotto due punti di vista, quello della tipicità e determinatezza della fattispecie (oggetto di critiche ed estenuanti dibattiti da svariati decenni) e quello dell’effetto della sentenza della Cassazione quale precedente giurisprudenziale per la risoluzione dei casi assimilabili a quello Contrada. Procediamo, però, con ordine. La Suprema Corte di Cassazione, I sezione penale, all’udienza in camera di consiglio del 6 luglio 2017, ha pronunciato sentenza avverso l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo, annullando senza rinvio la predetta ordinanza impugnata e dichiarando “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada Bruno dalla Corte di Appello di Palermo in data 25/02/2006, irrevocabile in data 10/05/2007”. Tale pronuncia mette fine ad una questione complessa che ha visto protagonista la Corte EDU, che, con sentenza del 14 aprile 2015, condannava l’Italia a risarcire l’imputato ricorrente per violazione dell’art. 7 CEDU, poiché la fattispecie del “concorso esterno” era, prima del 1994, anno in cui con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite “Demitry” si consolida la figura del concorso esterno, tutt’altro che dai contorni ben definiti e, dunque, né chiara né prevedibile. La Cassazione apre quindi degli scenari “tumultuosi”, a cui si aggiunge la problematica relativa al fatto che Contrada ha già interamente scontato la pena. Pare doveroso ripercorrere velocemente le tappe fondamentali che hanno portato alla pronuncia oggetto dell’odierno esame, per comprendere successivamente i risvolti che una tale vicenda potrà avere in futuro.


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2. Breve ricostruzione della vicenda. Bruno Contrada, già capo della squadra mobile di Palermo, poi dirigente dei servizi segreti italiani, venne condannato in via definitiva nel 2007 dalla Corte di Cassazione, confermando quando stabilito dalla Corte d’Appello di Palermo nel precedente grado di giudizio perché, tra il 1979 e il 1988, sfruttando la propria posizione nelle forze dell’ordine, contribuì in modo decisivo alla realizzazione degli scopi di “Cosa Nostra”, anche fornendo all’organizzazione malavitosa informazioni riguardanti le indagini in corso. Le successive richieste sia di revisione che di grazia non ebbero seguito né tantomeno le ripetute istanze di differimento pena per motivi di salute. La mancata concessione degli arresti domiciliari, peraltro, ha portato ad una prima pronuncia di condanna dell’Italia da parte della Corte EDU, datata 11 febbraio 2014, con la quale si condannava lo Stato italiano al risarcimento dei danni in favore di Contrada per violazione dell’art. 3 della Convenzione relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti, perché lo stato di salute dell’imputato era palesemente in contrasto con la detenzione carceraria. Di nostro interesse è, tuttavia, la successiva pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, del 14 aprile 2015, con cui il Giudice sovranazionale condannava l’Italia al risarcimento dei danni in favore di Contrada per violazione dell’art. 7 della Convenzione in tema di nullum crimen, poiché il c.d. “concorso esterno”, all’epoca dei fatti per cui l’imputato era stato processato, non era espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento. La Corte di Strasburgo affermò che “è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno” e, a sostegno di ciò, la Corte Europea sottolineò come la Corte d’Appello di Palermo, nella sentenza di condanna del 2006, fece riferimento alle sentenze “Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994, Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente”. La difesa di Contrada, auspicando che venisse recepita la pronuncia della Corte EDU, presentava nel luglio del 2016 alla Corte d’Appello di Palermo una istanza di revoca della sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p.. La Corte d’Appello, con ordinanza del 24 ottobre 2016, dichiarava inammissibile l’istanza per i motivi di seguito riassunti: - L’istituto di cui all’art. 673 c.p.p. non era applicabile al caso de quo, poiché operante esclusivamente “nel caso in cui, a seguito di innovazione legislativa o di declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un’ipotesi di abrogazione esplicita o implicita di una norma, non potendo, invece, la predetta disposizione trovare applicazione, quando l’eventuale abrogazione implicita derivi da un mutamento di indirizzo giurisprudenziale, che non può costituire “ius superveniens” anche a seguito di pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 13411/2013); - La pronuncia della Corte EDU si fondava su “una interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l’ordinamento giuridico italiano”, poiché faceva leva non sui casi di cui all’art. 673 c.p.p., ma in particolar modo sul principio di irretroattività, con un’interpretazione tuttavia disallineata dai principi costituzionali in materia penale dell’ordinamento italiano. La Corte d’Appello rilevava infatti che il “concorso esterno” non è istituto di creazione giurisprudenziale, ma fattispecie che “nel rispetto del principio di legalità, sancito dall’art. 396


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1 c.p. e dall’art. 25 Cost., comma 2” viene regolata dalla combinazione tra la singola norma penale incriminatrice (nel caso di specie l’art. 416 bis) e l’art. 110 c.p.. La Corte d’Appello richiama, a sostegno della propria tesi, una recente sentenza della Cassazione (Cass. pen., Sez. II, 21-30 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), n. 34147, Perego), la quale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 110 e 416 bis c.p., sollevata per il contrasto con gli artt. 25 co. II e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 7 della Convenzione EDU; - L’unico rimedio esperibile era dunque quello della revisione, che tuttavia era già stato promosso con riferimento alla sopravvenuta sentenza della Corte Europea di fronte alla Corte di Appello di Caltanissetta e dalla stessa respinto. Conclusione della vicenda è stata la summenzionata sentenza della prima sezione della Corte di Cassazione (di cui attendiamo le motivazioni), che annullando senza rinvio l’ordinanza di inammissibilità della Corte d’Appello di Palermo, ha revocato la sentenza di condanna a Bruno Contrada, ponendo fine ad una vicenda dal percorso a dir poco travagliato.

3. I profili critici. a) Concorso esterno in associazione mafiosa e tipicità penale. Prima di affrontare la questione definitoria della “materia penale” con riferimento agli orientamenti sostanzialistici della Corte EDU, è opportuno tratteggiare la figura del concorso esterno, per evidenziarne l’evoluzione e le criticità dal punto di vista meramente interno. Com’è noto, il concorso eventuale ex art. 110 c.p. si struttura nel codice penale del 1930 in maniera unitaria, parificando le varie figure dei concorrenti e le sanzioni, cosa che non avveniva nel previgente codice Zanardelli ove era prevista la tipizzazione dei vari soggetti concorrenti con pena differenziata. È stato giustamente rilevato che una formulazione siffatta del concorso eventuale comporta non pochi problemi di compatibilità coi principi costituzionali, poiché l’art. 110 c.p. è “una delle norme più sospette di illegittimità costituzionale, non solo perché parifica tutti i concorrenti e quindi si pone in contrasto con il principio di uguaglianza, ma anche, e conseguentemente, perché non tipizza le condotte concorsuali, con ciò risultando un vero e proprio “contenitore vuoto”, in contrasto con il principio di determinatezza e/o precisione”1. Alla carenza di tipicità della normativa del concorso hanno, per forza di cose, dovuto supplire dottrina e giurisprudenza (sono plurime le sentenze delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione), le quali hanno tentato di dare concretezza al “contenitore vuoto”. Non è questa la sede per fare il resoconto del percorso giurisprudenziale, ma si possono sintetizzare i criteri che delineano il concorso esterno in associazione mafiosa così come previsti dalla sentenza a Sezioni Unite “Mannino” (sent. n. 33748 del 12 luglio 2005 (dep. 20

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A. Manna, La sentenza Contrada ed i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, in «Diritto Penale Contemporaneo» (online), 4.10.2016, 6; l’Autore rimanda agli scritti di G. Vassalli, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna, in A. Pace (a cura di), Corte costituzionale e processo costituzionale, Milano, 2006, quivi 170 ss.

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settembre 2005) Presidente N. Marvulli, Relatore G. Canzio), ultima pronuncia del filone. Da una parte “si definisce “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima”. Per dimostrare concretamente la situazione di affiliazione la giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri rilevanti quali indizi gravi e precisi (tra gli altri, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”). Al contrario, è concorrente esterno colui che “non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”. Data dunque per certa la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo tramite l’estensione della tipicità dell’art. 110 c.p. in funzione di norma incriminatrice, le Sezioni Unite si dilungano a sottolineare la effettività del contributo causale che il concorrente deve offrire nel caso di specie. In sostanza si devono realizzare tutti gli elementi del fatto tipico previsto dalla norma di parte speciale e la condotta del concorrente deve essere oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi; il contributo del concorrente deve aver avuto una reale efficienza causale, cioè sia stato un elemento necessario per la realizzazione del fatto criminoso sulla base della teoria della condicio sine qua non; dal punto di vista dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo del concorrente con riferimento al fatto tipico e al contributo causale ed inoltre, pur in assenza della affectio societatis che contraddistingue il partecipe, è richiesta la rappresentazione e volontà da parte dell’extraneus che il suo contributo sia diretto alla realizzazione degli scopi criminosi dell’associazione; è richiesto infine l’accertamento ex post, sulla base dei rigidi criteri già enucleati nella Sentenza Franzese, peraltro espressamente richiamata dalle SS.UU. Tuttavia, attenta dottrina ha fatto notare come il richiamo alla teoria condizionalistica possa scadere a mero espediente retorico non essendo facile “rinvenire leggi di copertura, o anche solo generali massime di esperienza, grazie alle quali distinguere in modo rigoroso e univoco tra contributi espressamente dotati o privi di efficacia “condizionalistica” sotto il profilo del sostegno arrecato alla vita o al potenziamento delle organizzazioni criminali”2. Un elemento testuale di conferma della possibile configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, ripreso tra l’altro dall’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo del 2016, è dato dall’art. 418 co. I c.p., che prevede la fattispecie di “assistenza agli associati”, che punisce “chiunque, fuori dei casi di concorso (necessario) nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce il vitto a taluna delle persone che partecipano all’associazione”.

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G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale., settima edizione, 559.

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Evidente, come per le altre forme di concorso eventuale, che la previsione di tali fattispecie è dettata da una scelta di politica criminale volta ad estendere la punibilità a quelle situazioni di c.d. “zona grigia”. La domanda che ci dobbiamo porre, giunti a questo punto, è se la figura del concorso eventuale nel reato associativo sia, come affermato dalla Corte EDU, una “creazione giurisprudenziale”. Data per certa la base normativa (416 bis e 110 c.p.) che garantisce la legalità formale, ci si deve ora chiedere se la chiarezza e prevedibilità richieste dalla Corte di Strasburgo abbiano una qualche influenza rispetto al nostro modo di intendere la materia penale. Una dottrina ha fatto notare come, differentemente da quanto espresso dalla Corte EDU in tema di consolidamento della figura del concorso esterno a partire dalla sentenza Demitry del 1994, “il ‘tipo’ non si è affatto consolidato nel 1994 […], ma neppure nel 2005 con le Sezioni Unite Mannino. Esso, infatti, ondeggia anche oggi tra il paradigma organizzativo e il paradigma causale, con permanenti imputazioni alternative implicite tra quei due possibili esiti che rendono incerte le stesse strategie processuali di ogni possibile difesa tecnica dell’imputato”3. Insomma si può parlare di una tipicità conquistata a fatica e forse non ancora raggiunta, sulla quale molti studiosi del diritto penale auspicano un intervento da parte del Legislatore volto a limitare la discrezionalità giudiziale e ad individuare casi di concorso definiti con cornici edittali differenziate. Fatte queste brevi premesse, affrontiamo nel paragrafo immediatamente successivo la questione della compatibilità dei principi costituzionali interni con quelli enucleati dalla Corte Europea.

b) Conflitto tra “materia penale” interna ed elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU. Ritorniamo al caso Contrada c. Italia e occupiamoci di ricostruire i termini dello “scontro” tra norme interne e sovranazionali, lasciando un ultimo spazio per comprendere quali scenari futuri potrebbero dischiudersi. Primo punto da affrontare: la definizione della “materia penale” in ambito convenzionale. È noto che la Corte EDU, sulla base dei criteri enucleati nella famosa sentenza Engel del 1976, utilizza un principio sostanzialistico per individuare ciò che rientra nella materia penale: in altre parole, per fare un esempio, non è reato ciò che viene formalmente definito tale (principio di legalità formale, tipico del nostro Paese), ma quello che lo è nella sostanza, così come una sanzione amministrativa può avere una finalità essenzialmente punitiva tipica del diritto penale. Nel caso oggetto di analisi la Corte EDU ha sanzionato l’Italia per violazione dell’art. 7 CEDU, poiché ha condannato l’imputato ricorrente per un reato né chiaro né prevedibile, visto l’evidente contrasto giurisprudenziale “sanato” solo nel 1994. Anche qua la rilevanza data al “diritto vivente” da parte della Corte Europea entra in aperto conflitto col principio della riserva di legge, secondo il quale è solo l’organo legislativo che crea la norma penale. L’art. 7 CEDU, infatti, recita che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto

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M. Donini, Il concorso esterno “alla vita dell’associazione” e il principio di tipicità penale, in «Diritto Penale Contemporaneo» (online), 13.1.2017, 21.

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interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”. Come è agevole notare, non rinveniamo alcun riferimento alla riserva di legge come al contrario avviene nel codice penale italiano e all’art. 25 della Costituzione. Dunque la Corte EDU si limita ad affermare, in modo dissonante rispetto a quanto è abituato a vedere il giurista continentale, che l’imputato può essere punito in forza di una previsione, non importa se di matrice legislativa o giurisprudenziale, che sia però chiara e determinata. L’ordinanza della Corte d’Appello, annullata senza rinvio dalla Cassazione del 2017, rispondeva alla questione posta in sede sovranazionale tramite l’appiglio alla previsione normativa del concorso esterno in associazione mafiosa, così come confermato anche da una sentenza della Corte Costituzionale (sent. 25 febbraio - 26 marzo 2015, n. 48). Nella momentanea assenza delle motivazioni della Cassazione possiamo provare a comprendere se la legalità penale prevista all’art. 25 Cost. possa, in un certo senso, piegarsi alle conclusioni antiformalistiche previste dalla Corte EDU. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: è sufficiente la previsione legislativa del concorso eventuale nel reato associativo? Per la Corte di Strasburgo no. Ed è proprio questo il problema: la Corte afferma che non importa quale sia la fonte della fattispecie penale (quindi ben può l’Italia prevedere reati per il tramite esclusivo della legge), ma la previsione deve essere ben determinata. Il ruolo della Corte EDU diviene quindi quello di “verificare se il precetto normativo (qualsiasi sia la sua matrice) sia in grado di definire la fattispecie incriminatrice in modo chiaro, esaustivo e sufficientemente determinato, così da garantire il rispetto della sufficiente determinatezza in materia penale e di evitare che detta fattispecie sia applicata retroattivamente rispetto al momento dell’acquisizione giurisprudenziale della tassatività della norma così creata”4. È utile riportare il quesito che la Corte EDU si era posta al §64: “la Corte ritiene che la questione che si pone nella presente causa sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Si deve dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei suoi atti sul piano penale”. E la conclusione della Corte è nota: non bastando le disposizioni di legge, la chiarezza e prevedibilità della norma, e quindi la possibilità per il soggetto di orientare i propri comportamenti, possono ritenersi sussistenti esclusivamente a partire dalla già citata sentenza a Sezioni Unite del 1994. Deriva da ciò che la norma fino al 1994 era indeterminata e che l’applicazione della stessa a fatti precedenti il 1994 comportano l’applicazione retroattiva della legge incriminatrice, in violazione dei principi sia costituzionali che sovranazionali. Guardiamo, allora, al rapporto tra i principi costituzionali e convenzionali. Una dottrina ha interpretato il sistema delle garanzie dell’ordinamento italiano e quello di matrice convenzionale non come antinomici tra loro, ma come “complementari, alla luce del criterio della massimizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali che deriva dalla combinazione tra Costituzione e carte internazionali dei diritti, prima fra tutte la Convenzione europea; e che, pertanto, l’impatto del principio di legalità ‘europeo’ sul sistema penale italiano comporti in

4 S.E. Giordano, Il “concorso esterno” al vaglio della Corte Edu: prime riflessioni sulla sentenza Contrada contro Italia, in «Archivio Penale 2015» n. 2 (online), 14.

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Caso “Contrada”: adeguamento della Suprema Ccorte di Cassazione alla Corte EDU

linea di principio un innalzamento complessivo del livello di tutela dell’individuo nei confronti della potestà punitiva statale, rispetto al livello ricavabile dalla sola Carta costituzionale”5. Sulla base di tale assunto, si evidenzia che la Corte di Strasburgo, come già anticipato, non esprime preferenze sulle fonti del diritto penale, riservando all’Italia la facoltà di mantenere il principio di legalità e il divieto di creazione di reati da parte della giurisprudenza o da parte di fonti subordinate. Viene d’altra parte affermata la possibilità (o spesso necessità) che la giurisprudenza, nella sua attività interpretativa, precisi il contenuto della norma incriminatrice, non per sostituirsi al legislatore, ma per rendere la norma accessibile e prevedibile e, di conseguenza, innalzare gli standards di garanzia dell’individuo. Sul punto della prevedibilità, d’altra parte, è stato fatto notare che, nonostante i plurimi interventi delle Sezioni Unite sul concorso eventuale, non è stata ancora raggiunta una uniformità del “diritto vivente”, sia per la loro diversità che per “la circostanza per cui, essendo noi inseriti in un regime giurisprudenziale di carattere continentale, non applichiamo in sede penale la regola della vincolatività del precedente giurisprudenziale”6. In senso ostile alla pronuncia della Corte EDU è schierata altra parte della dottrina che ha bollato di inadeguatezza gli sforzi compiuti dalla Corte stessa in tema di ricaduta delle proprie elaborazioni giurisprudenziali sul diritto interno: è stato infatti osservato che “se i contrasti di giurisprudenza bastassero a rendere “imprevedibile” l’irrogazione di una pena, addirittura in senso retrospettivo (e dunque a prescindere dalla concreta possibilità, al momento del fatto, di letture divergenti del dettato normativo), l’efficacia del sistema di tutela penale dei beni giuridici sarebbe rapidamente dispersa. Con conseguenze altrettanto perniciose, fra l’altro, in punto di capacità evolutiva del diritto giurisprudenziale. Di più. Se un effetto di delegittimazione della condanna si collegasse addirittura a contrasti sulla qualificazione del fatto, comunque penalmente illecito (ché tali erano, comunque, quelli ascritti al Contrada), la stessa funzione di garanzia del principio di legalità risulterebbe stravolta”7. Si tratta, come si può notare, di materia assai delicata, che potrebbe aprire una nuova epoca della legalità penale per l’ordinamento interno e di cui è difficile dire con certezza quali saranno le evoluzioni.

4. Conclusioni e possibili scenari futuri. Che scenari si aprono a seguito di questa pronuncia? L’applicazione del principio che emerge dalla pronuncia della Corte di Strasburgo da parte della Corte di Cassazione potrà comportare, come è avvenuto per il caso Contrada, innanzitutto le eventuali ulteriori sanzioni della Corte Europea all’Italia per casi uguali a quello in esame (in presenza naturalmente di tutti i presupposti per proporre ricorso) ed inoltre la possibile revoca (in fase di esecuzione) di tutte le sentenze di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti precedenti al 1994.

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F. Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità ‘costituzionale’ vs. legalità ‘convenzionale’?, in «Diritto Penale Contemporaneo», 5.4.2017, 3. 6 A. Manna, op. cit., 5. 7 G. Leo, Concorso esterno nei reati associativi, voce per “Il libro Treccani dell’anno 2017”, rinvenibile su «Diritto Penale Contemporaneo» (online), 9.1.2017, 8.

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Osservatorio internazionale

Inoltre, è stato correttamente osservato come nella fase dell’esecuzione, nei casi di condanne per fatti precedenti al 1994, i soggetti condannati potrebbero sollevare questione di costituzionalità dell’art. 673 c.p.p. “nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna in caso di riconoscimento da parte della Corte EDU della ‘inesistenza’ del precetto, equiparando così quest’ultima alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, per cui è previsto il rimedio dell’articolo citato”8. In ogni caso la questione affrontata dalla Corte, sotto la lente della materia penale, non consiste tanto nel dire se Contrada abbia commesso dei fatti rientranti nel combinato disposto del 110 e del 416 bis c.p. (agevolazione, fuga di notizie o quello che fosse), ma si ferma ad uno stadio precedente, affermando che la fattispecie penale non era determinata e quindi nessuno poteva essere punibile in quel preciso momento storico perché non poteva sapere che le proprie azioni fossero soggette a sanzione penale. Per quanto riguarda la recentissima decisione della Corte di Cassazione, di cui, come detto, non conosciamo le motivazioni, si può ipotizzare che la Corte abbia recepito de plano la sentenza della Corte EDU, senza quindi pronunciarsi sul fatto, ma solo sulla determinatezza della fattispecie; oppure potrebbe aver confermato la commissione dei fatti da parte dell’imputato, ma comunque la sentenza sarebbe stata revocata in ogni caso perché quei fatti non potevano rientrare in una fattispecie che, secondo la Corte di Strasburgo, non era prevedibile (potevano magari essere ricondotti ad altra fattispecie). La questione resta aperta e a dir poco incerta. Non ci resta che attendere.

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S.E. Giordano, op. cit., nota 26.

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nazionale

Misure di prevenzione: art. 80 D.lgs. 6 settembre 2011 n.159 (obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali) Marta Patacchiola L’art. 80 del D.lgs. 6 settembre 2011, n.159 (c.d. Codice antimafia) prevede che le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione sono tenute a comunicare per dieci anni ed entro trenta giorni dal fatto al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Tali obblighi cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata. La disposizione si coordina e fa salvo quanto previsto dall’art. 30 l.n. 642/82, come modificato dall’art. 7, comma 1 lett. c) legge 136/2010 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia), che prevede il medesimo obbligo non solo per i soggetti suindicati, ma anche per le persone condannate con sentenza definitiva per delitti di criminalità organizzata (art. 51, comma 3-bis c.p.p) ovvero per trasferimento fraudolento di valori (art. 12 quinquies, comma 1, del d.l. 306/82 conv. dalla l. 356/92). Il secondo comma dell’art. 80, inoltre, dispone che i soggetti sopra indicati, entro il 31 gennaio di ciascun anno, sono tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto che dispone la misura di sicurezza ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. L’inottemperanza dell’obbligo previsto dal suddetto articolo è sanzionata dall’art. 76, comma 7 del Codice antimafia, con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.329 a euro 20.658. La fattispecie è da ricondurre nell’alveo dei delitti omissivi propri, poiché trattasi di reato che può essere commesso solo dai soggetti indicati dall’art. 801. Alla condanna segue la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati. Nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquistati ovvero del corrispettivo dei beni alienati, il giudice ordina la confisca, per un valore equivalente, di somme di denaro, beni o altre utilità dei quali i soggetti di cui all’art. 80, comma 1, hanno la disponibilità. L’art. 76, comma 7 D.lgs.159/2011 riproduce, quasi pedissequamente, il dettato normativo dell’art. 31 legge 646/1982, con la differenza che per il reato di omessa

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V. Maiello, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, in F. Palazzo, C.E. Paliero (a cura di), Trattato Teorico-Pratico di diritto penale, Torino, 2015,445 ss.


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comunicazione previsto dal Codice antimafia il giudice ha la facoltà di ordinare la confisca per equivalente. Dal quadro sopra descritto, si può ricavare che la norma precettiva (art. 80) e quella sanzionatoria (art. 76, comma7) sull’obbligo di comunicazione di variazione patrimoniale di cui al D.lgs. 159/2011 riproducono, limitatamente alle persone sottoposte a misure di prevenzione, rispettivamente, gli artt. 30 e 31 della l.646/19822. Ne consegue che alcune considerazioni svolte in dottrina e giurisprudenza sugli artt. 30 e 31 l.646/1982, per via riflessa, riguardano anche gli artt. 80 e 76, comma 7, del Codice antimafia. La precisazione si rende necessaria dal momento che gran parte della produzione giurisprudenziale e dottrinale, in tema di obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, è stata elaborata sulle due menzionate norme della l.646/1982. Un profilo che ha destato un certo dibattito giurisprudenziale, soprattutto per i suoi risvolti sul regime sanzionatorio, è stato quello della configurabilità del reato partendo proprio dalla esatta individuazione del bene giuridico tutelato. Il bene tutelato è stato identificato talvolta in un generico interesse dell’Erario alla comunicazione3 ovvero nell’ordine pubblico4. E, quindi, in estrema sintesi, se si accoglie quest’ultima interpretazione integra ipotesi di reato anche l’omessa comunicazione che abbia per oggetto una compravendita effettuata per atto pubblico; mentre se si segue “l’interpretazione che sottende l’interesse dell’Erario alla comunicazione, non viene ritenuto sufficiente il comportamento omissivo, a maggior ragione in quegli atti che prevedono una forma di pubblicità”5. L’indirizzo ermeneutico che individua nell’ordine pubblico il bene giuridico tutelato rappresenta l’orientamento maggiormente seguito dalla Corte di Cassazione. La Corte ritiene che il reato di cui all’art. 31 della l’646/1982 (e per riflesso anche all’art. 76, comma 7, D.lgs. 159/2011), non abbia carattere finanziario, dal momento che si tratta di una norma diretta a consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale più penetrante da parte della polizia tributaria nei confronti di soggetti ritenuti particolarmente pericolosi, al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano dallo svolgimento di attività illecite6. In altre parole, la tutela dell’ordine pubblico non può essere salvaguardata, ad esempio, dalla pubblicità di un atto pubblico notarile o della trascrizione sui pubblici registri (ad esempio per compravendita immobiliare). “Queste forme di pubblicità non implicano una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione, e quindi non mettono la polizia tributaria competente in condizione di conoscere tempestivamente le variazioni sospette”7. Infatti, l’astratta conoscibilità dell’atto di compravendita, dovuta dalla trascrizione nei pubblici registri, non assicura la reale conoscenza dei mutamenti dello stato patrimoniale del soggetto sottoposto a misura di prevenzione da parte dell’amministrazione finanziaria, garantita, invece, dalla segnalazione di cui all’art. 80 D.lgs. 159/2011.

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Cfr. Corte Cost., 7 aprile 2014-dep.8 aprile 2014, n.81. Cfr. Cass. pen., Sez. I, 20 gennaio 2002, n. 10024. 4 Cfr. Cass. pen., Sez. I, 22 novembre 2001, n. 45798. 5 G. Tramontano, Accertamenti fiscali e tributari in materia antimafia. Le variazioni patrimoniali e gli obblighi di comunicazione di cui all’articolo 30 della Legge 13 settembre 1982, n. 646, 26 febbraio 2006, disponibile su https:// www.filodiritto.com/articoli/2006/02/accertamenti-fiscali-e-tributari-in-materia-antimafia?page=5 6 Cfr. Cass. pen. Sez. V, 18 febbraio 2003, n. 15220. 7 Cfr. Corte Cost., 10 maggio 2017, n.99 che cita Cass. pen., Sez. VI, 15 giugno 2012, n. 33590. 3

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Misure di prevenzione: art. 80 D.lgs. 6 settembre 2011 n.159 (obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali)

Lo scopo della norma incriminatrice, secondo la Cassazione, sarebbe quello di permettere l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria “nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose onde accertare per tempo se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite”.8 Per il raggiungimento di tale obiettivo, è necessario “un monitoraggio costante sui beni delle persone pericolose gravate dal legislatore dell’obbligo in questione; monitoraggio che non può essere assicurato dalla registrazione e dalla trascrizione degli atti che determinano le variazioni patrimoniali”9. Né, ritiene la Suprema Corte, la polizia tributaria può assumere l’onere di consultare sistematicamente tutti i pubblici registri per acquisire direttamente quelle notizie che avrebbero dovuto esserle comunicate10. Inoltre, rilevante per la configurabilità del reato è l’“Autorità” che riceve la notizia, in quanto solo la comunicazione al nucleo di polizia tributaria di cui all’art. 80, comma 1, D.lgs. 159/2011 assicura la conoscenza tempestiva e reale dei mutamenti dello stato patrimoniale di tali persone, consentendo immediatamente gli opportuni accertamenti. Da ultimo, sul tema è intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza depositata il 10 maggio 2017, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Palermo, dell’art. 76, comma 7, Codice antimafia, nella parte in cui si riferisce anche alle variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici dei quali è prevista la trascrizione nei registri immobiliari e la registrazione a fini fiscali11. Secondo il giudice rimettente, l’omessa comunicazione di variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici sarebbe sostanzialmente inoffensiva e, pertanto, non meriterebbe alcuna punizione12. Secondo il Tribunale di Palermo, per quanto riguarda le “Autorità”, la trascrizione e anche la registrazione determinerebbero la conoscenza effettiva del negozio giuridico che ne forma oggetto. Ne consegue che tali “Autorità”, a seguito di detti adempimenti, acquisiscono effettivamente e concretamente notizia delle variazioni patrimoniale. Lo stesso giudice rimettente riconosce che ancorché le “Autorità” addette alla registrazione o trascrizione siano diverse da quella che deve ricevere la comunicazione prescritta dall’art. 80 D.lgs. 159/2011, l’omessa comunicazione alla polizia tributaria non potrebbe dare luogo a una “rilevante offesa”, idonea a giustificare il sacrificio della libertà personale di colui che ha omesso la segnalazione13. La Consulta, come anticipato, ha dichiarato la questione infondata ritenendo che, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Palermo, i fatti presi in considerazione dalle norme censurate come reati non sono inoffensivi. Il bene giuridico protetto dall’art. 76, comma 7, del D.lgs. n. 159/2011, sostengono i giudici delle leggi, è rappresentato dall’ordine pubblico, perché l’obbligo di comunicazione imposto tende, da un lato, “a garantire che il nucleo di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che la possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall’altro, a rendere obbligatoria per

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Cfr. Cass. pen, Sez. V, 3 dicembre 2015, n. 13077/2016. Cfr. Corte Cost., 10 maggio 2017, n.99 che cita Cass.pen., Sez. V, 3 dicembre 2015, n. 13077/2016. 10 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 ottobre 2014, n. 24874/2015. 11 Cfr. Corte Cost., 10 maggio 2017, n.99. 12 Cfr. Trib. di Palermo, ord. 15 luglio 2015, n.292 r.o. 13 Si ricorda infatti che l’omessa segnalazione è punita ai sensi dell’art.76, comma 7, D.lgs. 159/2011 oltre che con la multa da euro 10.329 a euro 20.658, anche con la reclusione da due a sei anni. 9

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l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale”14. Prosegue poi la Corte, “sempre che non si possa escludere il dolo, spetta poi al giudice comune il compito di allineare il fatto oggetto del giudizio al canone dell’offensività “in concreto”, in quanto compete a questo giudice verificare se la singola condotta, rappresentata nel caso in esame dalla omessa comunicazione, risulta assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità”15. In conclusione, una breve considerazione. L’attuale regolamentazione sull’obbligo di comunicazione delle persone sottoposte a misura di sicurezza alla polizia tributaria è fonte sia di ritardi nella conoscenza delle variazioni patrimoniali, sia di gravose responsabilità penali16 per i soggetti che, pur avvalendosi di altri strumenti di pubblicità (trascrizione e registrazione), non segnalano specificamente alla polizia tributaria. Come suggerito anche dai giudici delle leggi, sarebbe auspicabile l’introduzione da parte del legislatore di “un sistema automatico di comunicazione alla polizia tributaria degli atti, soggetti a pubblicità legale, che determinano variazioni nel patrimonio delle persone considerate pericolose […] per l’assoggettamento a misure di prevenzione”17. In questo modo, per tali atti potrebbe essere evitata la sanzione – forse eccessiva – prevista dall’art. 76, comma 7 D.lgs. 159/2011 che, come detto, comporta, oltre alla multa, la reclusione da due a sei anni.

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Cfr. Corte Cost., 10 maggio 2017, n.99 che cita Corte Cost., 7 aprile 2014-dep.8 aprile 2014, n.81. Idem; Cfr anche Cort. Cost ord. 18 luglio 2002, n.362 ; Cort. Cost. ord. 24 aprile 2002, n.143; Cort. Cost. ord. 28 dicembre 2001, n. 442. 16 Cfr. Corte Cost., 7 aprile 2014-dep.8 aprile 2014, n.81. 17 Cfr. Corte Cost. 10 maggio 2017, n.99. 15

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normativo

Nuove disposizioni antiriciclaggio e antiterrorismo D.Lgs. 25 maggio 2017 n. 90 Obblighi degli operatori in materia di antiriciclaggio Marilisa De Nigris Il D.Lgs. n. 90, entrato in vigore nel mese di luglio 2017, include numerose novità in materia di antiriciclaggio e di lotta al terrorismo ed introduce nuove disposizioni in materia di lotta contro il riciclaggio dei proventi derivanti da attività criminose e contro il finanziamento del terrorismo. L’obbligo degli Stati aderenti all’UE era specificamente di adeguamento alla Direttiva 2015/849 dell’UE entro il 27.06.2017. Detta norma è destinata a sostituire i decreti 231/07 in materia di antiriciclaggio e 109/07 in materia di contrasto al finanziamento del terrorismo. Il decreto pubblicato in gazzetta ufficiale il 19.06.2017 recante “Attuazione della direttiva UE 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio di provento di attività criminosa e di finanziamento del terrorismo e recante modifica della Direttiva 2005/60/CE ed attuazione del regolamento UE n.2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento CE n.1781/2006”, adotta le principali novità su: ridefinizione della nozione di riciclaggio; finanziamento del terrorismo; soggetti obbligati; autorità di controllo; obbligo di adeguata verifica del cliente e del titolare effettivo. Tra le su menzionate novità emerge una rielaborazione del D.Lgs. 231/2007 e in particolare dell’art. 45 riguardante i cc.dd. soggetti “operanti” in materia di antiriciclaggio e gli obblighi che essi sono tenuti a rispettare. Le nuove regole approvate dal Governo si applicano, dunque, a persone fisiche e giuridiche operanti in ambito finanziario, nonché ai professionisti obbligati a verificare la loro clientela ed a segnalare le operazioni sospette tra cui commercialisti, esperti contabili, revisori legali e consulenti del lavoro. Quanto ai soggetti nei cui confronti sono necessari maggiori controlli da parte degli enti autorizzati, la nuova norma include, tra l’altro, i sindaci di comuni superiori a 15.000 abitanti e i vertici delle società partecipate; viene inoltre modificato il carico di adempimenti per i professionisti. Nella iniziale fase di consulenza è stata approvata l’esenzione dalla segnalazione delle operazioni sospette, semplificazione per gli adempimenti per i professionisti nel caso in cui le operazioni non riguardino operazioni a rischio riciclaggio o finanziamento di operazioni terroristiche. Ai professionisti si estende l’esonero dall’obbligo di segnalazione delle operazioni entro 30 giorni, tranne il caso in cui si tratti di operazioni sospette per le quali resta l’obbligo di segnalazione nei termini previsti. Ancora, le regole poste in essere quest’anno esonerano i


Osservatorio normativo

professionisti dall’obbligo di segnalare operazioni sospette in relazione alle comunicazioni ricevute dai clienti in caso di affidamento del compito di difesa o rappresentanza o nell’esame della posizione giuridica. Da ultimo, novità emergono anche in relazione alle sanzioni applicate in modo graduale tenendo conto della gravità della violazione. In questo contesto è da notare che nel primo semestre del 2017 l’UIF ha ricevuto 49.239 segnalazioni di operazioni sospette rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si rileva, quindi, un lieve decremento, da ricondurre al minor numero di segnalazioni connesse ad operazioni di voluntary discloure. Al netto di tale componente, si è mantenuto significativo l’aumento delle restanti segnalazioni di riciclaggio, circa 45.000 e di quelle di sospetto finanziamento del terrorismo, circa 475. Come già evidenziato in precedenza, in questo contesto è d’obbligo prendere in esame e ribadire che uno dei capisaldi della normativa in materia di antiriciclaggio è essenzialmente riconducibile all’obbligo da parte delle banche o dei professionisti operanti in tale ambito di segnalare le c.d. “operazioni sospette” all’UIF. L’SOS, Segnalazione Operazioni Sospette, consiste in una comunicazione che deve essere effettuata quando se ne ha certezza, sospetto, ragionevoli motivi che siano in corso o che siano state compiute o siano state tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento da parte dei “clienti”. Da sottolineare che l’obbligo che tutt’oggi investe gli operatori impegnati nel settore rimane ancora quello di evidenziare eventuali operazioni anomale o sospette e non di mettere in luce la presenza di reati. Solo successivamente la UIF valutata e qualificata la questione con conseguente segnalazione ai competenti organi investigativi preposti, quali il nucleo speciale di polizia valutaria della GdF –Nspv e Direzione Investigativa Antimafia – DIA.

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“Economia lecita” e protezione del bilancio dell’Unione Europea tramite il diritto penale Spunti in occasione dell’adozione della direttiva relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Organizzazione di Nicoletta Parisi e Dino Rinoldi*

Sommario: 1. Il fenomeno delle frodi agli interessi finanziari dell’Unione: numeri e prassi. – 2. L’obiettivo della protezione del bilancio comunitario: dall’armonizzazione amministrativa al presidio penale, passando per il principio di assimilazione e il supporto delle “agenzie” europee, giungendo alla giurisprudenza Taricco. – 3. La controversa questione della base giuridica della direttiva cd. PIF. – 3.1. La scelta di Parlamento e Consiglio fondata sull’art. 83.2 TFUE. – 3.1. La scelta della Commissione: la base normativa costituita dall’art. 325 TFUE. – 3.3. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione. – 4. Gli elementi qualificanti della direttiva. – 4.1. La nozione di «interessi finanziari dell’Unione». – 4.2. L’ambito oggettivo di applicazione della direttiva: le condotte suscettibili di essere pregiudizievoli per gli interessi finanziari dell’Unione. – 4.3. Il suo ambito soggettivo. – 4.4. Il regime della prescrizione. – 4.5. L’armonizzazione delle sanzioni penali. – 4.6. I connessi aspetti procedurali. – 5. Luci e ombre della futura disciplina, anche alla luce delle prospettive aperte dal regolamento sulla Procura europea. – 5.1. Sulla capacità armonizzatrice della direttiva. – 5.2. Sugli scenari che si aprono con la costituzione di una Procura europea.

1. Il fenomeno delle frodi agli interessi finanziari dell’Unione: numeri e prassi. La cronaca di questi ultimi mesi ci consegna informazioni assai contrastanti in tema di protezione del bilancio dell’Unione europea da frodi commesse ai suoi danni. L’annuale rapporto della Commissione dedicato alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea e alla lotta contro la frode riferisce di 19.080 irregolarità in relazione a entrate e uscite europee, pari a 2.97 bilioni di euro: di queste irregolarità 410 sono segnalate come frodi, coinvolgendo 391 milioni di euro1.

* Nicoletta Parisi, già professore ordinario di diritto internazionale, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli studi di Catania; Componente del Consiglio A.N.AC.; Dino Rinoldi, professore ordinario di Diritto dell’Unione


Focus

Da parte propria il Governo italiano, nel riferire nel corso degli ultimi quarantadue mesi in tema di applicazione in Italia del diritto comunitario2, mette l’accento sulla progressione positiva che ha caratterizzato il contrasto alle irregolarità e alle frodi connesse all’utilizzo di fondi europei, segnalando come in quest’arco temporale il Paese abbia ridotto da sessantasette a venti i casi d’inadempimento in materia aperti di fronte alle istituzioni dell’Unione. Non ci si può tuttavia nascondere la gravità e pervasività di fatti che emergono nel nostro contesto nazionale: in ordine di tempo l’ultimo riguarda una serie di truffe (per un ammontare pari a trecentoventiquattro milioni di euro) messe in atto ai danni di fondi comunitari da parte di quindici società del settore agricolo-oleario, turistico-alberghiero e immobiliare che percorre l’intera ossatura della penisola, coinvolgendo Toscana, Abruzzo e Calabria3. Sul piano del diritto europeo, infine, è giunto a un traguardo (che si auspica essere intermedio) il processo di trasformazione in un atto normativo unilaterale degli strumenti convenzionali multilaterali a contenuto penale stabiliti nell’Unione negli anni Novanta del secolo scorso in materia di tutela dei propri interessi finanziari4: a dieci anni dalla firma dell’Accordo di

europea, Facoltà di Economia e Giurisprudenza, Università Cattolica S.C. Si devono a N.P. i paragrafi 1 e 4; a D. R. i paragrafi 2 e 3; introduzione e conclusione sono condivise. 1 Report della Commissione su Protection of the European Union’s Financial Interests. Fight against Fraud. 2016 Annual Report, COM(2017) 383 fin., 20 luglio 2017, 7. 2 Conferenza stampa del 31 luglio 2017 (i grafici e i dati sono consultabili in www.politicheeuropee.it/comunicazione/20365/conferenza-stampa-su-infrazioni-frodi-aiuti-di-stato-ue-2014-2017-tre-anni-e-mezzo-di-risultati-erisparmi-record). Sui contenuti della conferenza stampa v. sinteticamente G. Latour, Multe UE, frodi, aiuti: risparmiati 2 miliardi. Infrazioni UE a -46%, in Il Sole24Ore, 1 agosto 2017, 7. 3 Ci si riferisce al decreto di confisca emesso il 10 agosto 2017 dalla Corte d’appello di Reggio Calabria (a conferma del provvedimento proposto della DIA della stessa città) per comportamenti che vedono il coinvolgimento, oltre che di operatori privati, anche di dirigenti e funzionari pubblici italiani: v. www.direzioneinvestigativaantimafia. interno.gov.it/news/content/429851.pdf. 4 La Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee è stata adottata il 26 luglio 1995; è completata da tre Protocolli: il primo (27 settembre 1996) è relativo alla corruzione dei funzionari comunitari; il secondo (19 giugno 1997) dispone in tema di responsabilità delle persone giuridiche e relative sanzioni, di riciclaggio e confisca, di cooperazione tra i servizi della Commissione europea e gli Stati nonché di protezione dei dati; il terzo (29 novembre 1996) affida alla Corte di giustizia la competenza a interpretare la Convenzione tramite rinvio pregiudiziale. L’Italia si è adeguata alla Convenzione, al primo e al terzo Protocollo a seguito dell’autorizzazione alla ratifica e dell’ordine di esecuzione intervenuti con L. 31 ottobre 2000, n. 300 (la quale contiene anche una delega al Governo per la sua più compiuta attuazione: v. d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Il secondo Protocollo è stato autorizzato alla ratifica ed eseguito con L. 4 agosto 2008, n. 135. Sulla Convenzione, sui suoi Protocolli e sull’impatto di essi negli ordinamenti degli Stati membri fra i tanti contributi v.: S. Manacorda, La corruzione internazionale del pubblico agente. Linee dell’indagine penalistica, Napoli, 1999; L. Salazar, Genèse d’un droit pénal européen: la protection des intêrets financiers communautaire, in Rev. int. dr. pén., 2006, 39 ss.; A. Venegoni, La Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari della Unione europea, in L. De Matteis, C. Ferrara, F. Licata, N. Piacente, A. Venegoni (a cura di), Diritto penale sostanziale e processuale dell’Unione europea, www.exeoedizioni.it, 2011, vol. I, 40-69; e vol. II, 10-56. Sulle difficoltà incontrate dal sistema convenzionale in termini di efficacia armonizzatrice v. infra, par. 4.1.

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Lisbona, che fonda una competenza penale diretta dell’Unione5, la direttiva cd. PIF6 è stata, infatti, adottata – al termine di un accidentato processo di codecisione iniziato con una ben diversa, quanto a contenuti, proposta della Commissione7 – dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Essa è guardata con molto interesse da parte degli operatori del diritto e caricata di aspettative politiche non indifferenti, tanto se considerata individualmente, quanto se letta all’interno di un assetto normativo in divenire. Molti sono i fattori che rendono complesso il tema della tutela degli interessi finanziari dell’Unione, che peraltro è sintomaticamente esemplificativo dell’alterno procedere del processo d’integrazione europea: si tratta di considerare la qualità e la varietà degli strumenti normativi che vi hanno nel tempo concorso; il loro risalire assai indietro nel tempo fino alle prime tappe del processo di armonizzazione nel campo del diritto amministrativo e, poi, di istituzionalizzazione della cooperazione nel settore del diritto penale tanto sostanziale che processuale; i talvolta equivoci disposti normativi che hanno volta a volta fondato l’esercizio dei poteri d’azione dell’Unione; le implicazioni che essi sono suscettibili di avere su di un piano meno specifico8. A una sintetica spiegazione di queste singole problematiche e delle soluzioni conseguite si prestano particolarmente i contenuti della direttiva PIF, utilizzabili come falsariga di un discorso che ci si propone abbia una portata più generale.

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Non è questa la sede adatta per approfondire il tema del progressivo ampliamento dell’ambito delle competenze dell’Unione europea anche al settore del diritto penale, prima (con il Trattato di Maastricht del 1992) mediante la creazione di un “pilastro” di cooperazione intergovernativa indirizzato a porre le basi per l’istituzione di un’area di “giustizia (anche penale) e affari interni” (GAI), perfezionato con il Trattato di Amsterdam del 1997; poi con l’enucleazione di una finalità nuova dell’Unione (il conseguimento di uno “spazio di libertà sicurezza e giustizia”) che comporta anche la comunitarizzazione delle procedure applicabili all’adozione degli atti normativi dell’Unione e, dunque, il conferimento di una competenza penale diretta all’Organizzazione. Ci si limita a rinviare ai contributi di dottrina che hanno approfondito le implicazioni giuridiche di questo processo con particolare attenzione all’ambito penalistico, a partire da N. Parisi, D. Rinoldi (a cura di), Giustizia e affari interni nell’Unione europea, Torino, 1996 (con appendice di aggiornamento 1998); R. Sicurella, Diritto penale e competenze dell’Unione europea, Milano, 2005; B. Schünemann (ed.), Ein Gesamtkompetenz für die Europäische Strafrechtspflege – A Programme for European Criminal Justice, Köln-Berlin-München, 2006; Ch. Bassiouni, V. Militello, H. Satzger (eds.), European Cooperation in Penal Matters: Issues and Perspectives, Padova, 2008; E. Pistoia, Cooperazione penale nei rapporti fra diritto dell’Unione europea e diritto statale, Napoli, 2008; D. Rinoldi, Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel diritto dell’integrazione europea, Napoli, 2012; A. Venegoni, La direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea attraverso il diritto penale (direttiva PIF): un ulteriore passo nel processo di sviluppo del diritto penale europeo o un’occasione persa), in http://ilpenalista.it, 24.7.2017. 6 L’acronimo (che sintetizza la locuzione «protezione interessi finanziari») risale alla Convenzione del 1995 e ai suoi tre protocolli (citt. supra, nota 4) che per primi posero le basi del contrasto alle frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea tramite l’utilizzo del diritto penale. La direttiva (UE) 2017/1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale è stata adottata il 5 luglio 2017, è entrata in vigore (ex art. 19) il ventesimo giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell’UE (GUUE L 198, 28 luglio 2017, p. 29 ss.) e deve essere recepita da ciascuno Stato membro entro due anni dalla data di sua adozione (art. 17): dal momento del suo recepimento la disciplina della direttiva sostituirà quella disposta dalla Convenzione PIF e dai suoi tre Protocolli. In modo sintetico su di essa v. A. Juszczak, E. Sason, The Directive on the Fight against Fraud to the Union’s Financial Interests by Means of Criminal Law (PFI Directive), in Eucrim, 2017, 80 ss.; oltre saranno richiamati altri contributi in argomento, specificamente in ordine a singoli aspetti della disciplina. 7 COM(2012) 363 fin. 8 Sottolinea tutte queste implicazioni D. Rinoldi, Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, cit., 222.

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2. L’obiettivo della protezione del bilancio comunitario: dall’armonizzazione amministrativa al presidio penale, passando per il principio di assimilazione e il supporto delle “agenzie” europee, giungendo alla giurisprudenza Taricco. Fin dal titolo si comprende che la direttiva si pone a presidio del bene comune europeo per eccellenza – il bilancio dell’Unione -, strategico per l’esercizio dell’azione, tanto interna quanto esterna, dell’Unione9. Questa finalità viene conseguita mediante l’adozione di «norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni» in relazione all’esigenza di contrastare «attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione»10. Essa, esplicitamente, s’inserisce in un contesto giuridico assai articolato che, a partire dall’adozione del Trattato istitutivo dell’Unione europea (Maastricht, 1992), si è posto lo scopo di proteggere da irregolarità amministrative e da comportamenti penalmente rilevanti il bilancio comunitario, tanto “in entrata”, sul fronte dell’acquisizione delle cosiddette risorse proprie11, quanto “in uscita”, all’atto della loro erogazione. Il conseguimento di quest’obiettivo ha visto il dispiegarsi di strategie diverse, anche in relazione dello stadio di evoluzione delle competenze dell’Organizzazione soprannazionale. In una prima fase di applicazione del Trattato di Unione l’esigenza di proteggere il bilancio delle Comunità europee si è concretata nell’azione di contrasto delle irregolarità di tipo amministrativo. Atti normativi comunitari dotati di efficacia diretta hanno predisposto un apparato di controllo affidato agli Stati membri, articolato su un sistema di vigilanza e di indagini: sistema che, da una parte, implicava (e tuttora implica) l’impiego di strumenti di condivisione delle informazioni fra le amministrazioni nazionali e quella europea, di raccolta e di trasferimento del materiale utile a formare elementi di prova in procedimenti giudiziari di tipo amministrativo o anche penale; da un’altra parte contemplava (e contempla) il ricorso a sanzioni amministrative che lo Stato membro impone in virtù di atti delle Comunità europee di portata vuoi generale, come nel caso del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio adottato sulla base dell’art. 280 TCE12, vuoi settoriale a tutela di singoli ambiti merceologici13. Peraltro, già la Corte di giustizia, a partire dal 1989, aveva provveduto a presidiare l’integrità del bilancio dell’Organizzazione con una giurisprudenza che origina dalla sentenza cd. “Mais greco”14, ponendo a carico degli Stati membri la responsabilità di osservare due principi tuttora non contraddetti: l’obbligo di tutelare il bilancio comune sulla base del principio di assimilazione, ai sensi del quale ciascuno Stato membro è tenuto a «vegliare a che le violazioni

9 Sulla portata strategica del bilancio dell’Unione ai fini del consolidamento del processo di integrazione v., fra gli altri, Final Report and Recommendations of the High Level Group on Own Resources, December, 2016; M. Bordignon, Un bilancio per la nuova Europa, in Europa sfida per l’Italia, Roma (LUISS University Press), 2017, 92 ss. 10 Art. 1 dir. PIF. 11 Sull’origine e gli sviluppi del sistema finanziario comunitario nel passaggio dall’obbligo di contribuzione statale alle “risorse proprie” dell’Organizzazione ci si permette di rinviare alla sola Parisi, Il finanziamento delle organizzazioni internazionali, Milano, 1986. 12 Oltre al citato regolamento n. 2988/95 integrano siffatta disciplina principalmente i regolamenti n. 2185/96, n. 904/2010, n. 883/2013. 13 Regolamento n. 515/97 e sue successive modifiche. 14 Sentenza CGCE 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione c. Repubblica ellenica, punto 24; adde ordinanza 6 dicembre 1990, causa C-2/88 Imm., Zwartveld e a., punto 10.

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del diritto comunitario [nella materia della tutela degli interessi finanziari dell’Unione] siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni di diritto interno simili per natura e importanza»15; e il parallelo obbligo di presidiare tale tutela con «sanzioni effettive proporzionate e dissuasive». Ambedue tali modalità di tutela degli interessi finanziari dell’Unione sono, tuttavia, nate fragili. L’armonizzazione sul piano amministrativo soffre, infatti, di una scarsa efficacia, non disponendo del necessario livello di deterrenza, proprio invece dello strumento penale. Il principio di assimilazione prescinde dall’armonizzazione in quanto si fonda sul presupposto della tutela di uno stesso bene secondo modalità diversificate ed efficacia difforme da un ordinamento nazionale all’altro. È per questo che, parallelamente alle vie indicate, gli Stati membri dell’Unione utilizzarono la base giuridica offerta dal Trattato di Maastricht16, adottando (come Consiglio dell’Unione) un complesso di atti di natura convenzionale17 destinati a incidere, una volta ratificati, nel sistema penalistico di ciascuno di essi al fine di contrastare le condotte di natura dolosa pregiudizievoli per gli interessi finanziari comunitari sul fronte delle entrate e su quello delle spese: si sono definiti i principali elementi costitutivi della condotta di frode18 e, tramite ciò, si è proceduto all’individuazione del bene giuridico protetto (il bilancio dell’Organizzazione); si è determinato l’obbligo a carico degli Stati membri di ampliare le fattispecie penalistiche interne a fini di protezione del bene protetto19; si sono apprestati strumenti processuali specifici identificando i criteri di giurisdizione20, disciplinando talune modalità della cooperazione giudiziaria internazionale21 e l’applicazione del principio ne bis in idem22. Al tempo della loro approvazione siffatti strumenti convenzionali hanno segnalato un progresso di non poco conto nell’azione di contrasto alle frodi perpetrate ai danni del bilancio dell’Organizzazione. È quindi subentrata rapidamente una terza fase, contraddistinta dall’affiancamento alle autorità nazionali, incaricate dell’applicazione della legge in materia di contrasto alle frodi che pregiudicano gli interessi finanziari comunitari, anche di un forte ufficio europeo specificamente indirizzato allo stesso fine: la Commissione decise, infatti, di trasformare l’Unità di

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Tale principio è oggi espresso dall’art. 325 TFUE (che fa propri alcuni contenuti del pregresso art. 209 TCE: infra, par. 3). 16 Art. K.3, divenuto con il Trattato di Amsterdam art. 29.5 TUE. 17 Supra, nota 4. 18 Utilizzazione o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti, incompleti; omessa comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico; distrazione (in relazione alle entrate) di un beneficio illegittimamente ottenuto e (in relazione alle uscite) di fondi per fini diversi da quelli per i quali sono stati ottenuti: art. 1. 19 Ciò appare evidente da disposizioni quali l’art. 1.2 e 3 (dove la frode è qualificata illecito penale) e l’art. 2 (dove si obbligano gli Stati ad adottare sanzioni penali «effettive, proporzionate e dissuasive», secondo la formula espressa dalla Corte di giustizia per la prima volta con la sentenza del 21 settembre 1989, cit., disponendo specificamente che tali sanzioni debbano consistere nella pena detentiva per il caso di frodi gravi, ovvero in sanzioni amministrative per frodi di lieve entità sia per importo che per pericolosità). 20 Art. 4. 21 Per l’estradizione v. art. 5 (con la correlata regola aut dedere aut iudicare); per altre modalità di cooperazione v. art. 6. 22 Art. 7.

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coordinamento della lotta antifrode (UCLAF)23 in un proprio ufficio, dotato di poteri investigativi indipendenti da quelli esercitati dalle autorità nazionali24, poteri che nel tempo si sono rafforzati anche tramite, da una parte, una migliore organizzazione dei rapporti con le autorità nazionali, dall’altra, un più compiuto assetto dei diritti delle persone implicate nella sua attività25. Certo è che con quest’organo l’attività di contrasto alle frodi agli interessi finanziari dell’Unione ha ricevuto un impulso notevole: si consideri che OLAF può esercitare i propri poteri investigativi in tutto il territorio dell’Unione (quello risultante dalla somma dei territori soggetti alla giurisdizione degli Stati membri) nei confronti di ogni operatore economico e di ogni istituzione nazionale, nonché al di fuori di tale territorio sulla base di accordi bilaterali tra Unione e Paesi terzi26. Il vigente assetto è determinato dalla riforma del Trattato di Maastricht attuata con l’Accordo di Lisbona (2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009). L’art. 325 TFUE individua una specifica base per il contrasto alle frodi e alle altre attività illecite suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell’Unione: essa obbliga Stati e Unione a lottare contro queste condotte con strumenti dissuasivi ed efficaci. La disposizione ha radici lontane: nasce come art. 209A, introdotto nel Trattato della Comunità europea dall’Accordo di Maastricht; è stato poi modificato dal Trattato di Amsterdam (e rinominato art. 280 CE) con l’aggiunta di quelli che ancor oggi sono i paragrafi 1, 4 e 5 dell’art. 32527. A fianco di questa disposizione specifica sul contrasto alle frodi il Trattato di Lisbona costruisce un forte presidio penalistico. Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione si dispone in tema di: cooperazione giudiziaria penale fra Stati membri, organizzata sulla base di una competenza normativa dell’Unione a indirizzare tanto l’applicazione del principio del ricono-

23 Nato nel 1988 in seno al Segretariato generale della Commissione per fornire il coordinamento dei servizi antifrode nazionali e l’assistenza necessaria anche a livello internazionale. 24 Decisione della Commissione 1999/352, completata dal regolamento (CE) n. 1073/1999. 25 Da ultimo regolamento (UE, Euratom) n. 883/2013. 26 Per la sottolineatura della dimensione transnazionale dell’attività di OLAF si rinvia al solo G. Venegoni, in https://events.unibo.it/fight-agaisnt-tax-frauds-olaf-hercule3/workshop/venegoni.docx/@@downloads /file/VENEGONI.pdf. 27 La disposizione è stata oggetto di tanti approfondimenti scientifici, fra i quali in particolare si segnalano (anche per paragoni con l’art. 280 CE e con l’art. III-415 del Trattato “costituzionale” del 2004): R. Sicurella, Lo spazio penale europeo dopo Lisbona: le nuove competenze dell’Unione europea alla prova dei principi fondamentali dello Stato di diritto, in N. Parisi, V. Petralia (a cura di), L’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2011, 122 ss.; G. Grasso, La «competenza penale» dell’Unione europea nel quadro del Trattato di Lisbona, in G. Grasso, L. Picotti, R. Sicurella (a cura di), L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, Milano, 2011, par. 8; R. Sicurella, La “tutela mediata” degli interessi della costruzione europea: l’armonizzazione dei sistemi penali nazionali tra diritto comunitario e diritto dell’Unione europea, in R. Grasso, G. Sicurella (a cura di), Lezioni di diritto penale europeo, Milano, 2008, specific. 389-390; G. Grasso, Introduzione: diritto penale, in op. ult. cit., 76 ss.; R. Sicurella, Diritto penale e competenze dell’Unione europea: linee guida di un sistema integrato di tutela dei beni giuridici soprannazionali e dei beni giuridici di interesse comune, Milano, 2005, 292 ss.; L. Picotti, Il Corpus Juris 2000. Profili di diritto penale sostanziale e prospettive d’attuazione alla luce del Progetto di Costituzione per l’Europa, in Id., Il “Corpus Juris 2000”. Nuova formulazione e prospettive di attuazione, Padova, 2004, 3 ss.; Id., Possibilità e limiti di un diritto penale dell’UE, Milano, 1999; nonché D. Rinoldi, Art. 280 (Commento), in F. Pocar, Commentario breve ai Trattati della Comunità europea e dell’Unione europea, Padova, 2001, 933 ss.

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scimento reciproco delle decisioni giudiziarie nazionali quanto il ravvicinamento delle loro disposizioni legislative e regolamentari (art. 82); cooperazione giudiziaria fra Stati e Unione entro EUROJUST (art. 85) fino a giungere alla costituzione di una Procura europea (art. 86); esercizio di una competenza penale diretta da parte dell’Unione in funzione di ravvicinamento delle disposizioni nazionali di diritto penale sostanziale (art. 83) ovvero per sostenere e incentivare l’azione degli Stati nell’azione di prevenzione della criminalità (art. 84); cooperazione fra le autorità nazionali incaricate dell’applicazione della legge reciprocamente (art. 87) ed entro EUROPOL (art. 88); determinazione di condizioni e limiti nell’osservanza dei quali le autorità nazionali implicate nella cooperazione (artt. 82 e 87) possono operare nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di appartenenza (art. 89). Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la nuova architettura istituzionale – non più organizzata in “pilastri” – mette in maggiore risalto la connessione fra materie implicate nel «mercato interno» e nello «spazio di libertà sicurezza e giustizia» anche nella sua dimensione penalistica: in questa prospettiva deve essere letta l’adozione del «pacchetto sulla protezione dell’economia lecita», con l’obiettivo di proteggere da infiltrazioni criminose il tessuto economico europeo, tramite l’impiego di strumenti di vario contenuto, anche penalistico. Il «pacchetto» constava, al momento della sua predisposizione, delle seguenti iniziative: misure di rafforzamento del quadro istituzionale, tramite una miglior cooperazione tra le principali agenzie dell’Unione coinvolte (OLAF, EUROJUST, EUROPOL)28; incentivi agli Stati membri nel contrasto alla corruzione29; proposta di direttiva in materia di congelamento e confisca dei proventi di reato30; proposta di direttiva PIF31. Negli anni la gran parte di queste proposte è stata definita. Così è, oggi, per la direttiva occasione di questo approfondimento, nonché per quella in materia di congelamento e confisca dei proventi di reato32. Quanto al rafforzamento del tessuto di cooperazione istituzionale fra le diverse agenzie di law enforcement coinvolte nel contrasto all’economia illegale, già si è detto del rafforzamento di OLAF33; EUROPOL ha subito una riforma che principalmente vede migliorata la sua capacità investigativa tramite l’utilizzo dell’informatica34; mentre la riforma di EUROJUST sta segnando il passo in quanto collegata all’istituzione di una procura europea35. Il terreno del contrasto alla corruzione ha registrato l’adozione (il 6 giugno 201136) di un programma articolato in una Comunicazione programmatica37, di un meccanismo di periodica valutazione degli Stati membri in materia38, di un Rapporto sullo stato dell’adempimento della

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COM(2011) 293 def. COM(2011) 308 def. 30 COM(2012) 85 def. 31 Supra, nota 6. 32 Direttiva 2014/42/UE del 3 aprile 2014. 33 Supra nel testo all’altezza dell’esponente di nota 25. 34 Regolamento (UE) 2016/794 dell’11 maggio 2016. 35 Al proposito v. infra, par. 5.2. 36 IP/11/678. 37 COM(2011) 308 def. 38 Decisione C(2011) 3673 def. La periodica valutazione si è interrotta per decisione della stessa Commissione: si veda la lettera del 25 gennaio 2017 indirizzata da Timmermans (primo Vice Presidente della Commissione europea) al Presidente della Commissione per le libertà civili del Parlamento europeo in http://transparency.eu/wp-content/ uploads/2017/02/2017130-Letter-FVP-LIBE-Chair.pdf. 29

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decisione quadro 2003/568/GAI in materia di corruzione nel settore privato39 e di un ulteriore Rapporto sulla partecipazione dell’Unione ai lavori del GRECO40. Il Trattato di Lisbona ha dunque aperto la via all’utilizzo di strumenti giuridici per un più efficace contrasto alle condotte lesive degli interessi finanziari dell’Unione. La direttiva oggetto principale di indagine e il regolamento relativo all’istituzione di una Procura europea di cui si dirà in sede di conclusione ne sono le prime concretizzazioni. Di questo più efficace contrasto sembra farsi carico anche la Corte di giustizia dell’Unione, con una giurisprudenza coraggiosa che, al pari della già ricordata sentenza Mais greco, richiama gli Stati membri e le istituzioni europee al rispetto dei principi stabiliti dai Trattati incidenti sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione: il riferimento alla sentenza Taricco41 è d’obbligo.

3. La controversa questione della base giuridica della direttiva PIF. La base giuridica della direttiva PIF deve essere individuata in una delle sopra menzionate disposizioni che presidiano il contrasto alle frodi al bilancio dell’Unione. Vengono in rilievo l’art. 325 TFUE, nonché l’art. 83, non tanto nel suo par. 1 che – proponendosi di contrastare i reati che ricadono in «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni» (co.1) – non inserisce poi nell’elencazione delle condotte da perseguire in comune quelle di frode (co. 2); ma piuttosto nel suo par. 2, che considera oggetto di ravvicinamento delle disposizioni nazionali ogni ambito che si riveli «indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione»: indubbiamente il settore del bilancio dell’Organizzazione e della sua tutela da condotte di frode è settore che è stato oggetto di tal genere di misure.

3.1. La scelta di Parlamento e Consiglio fondata sull’art. 83.2 TFUE. Nel preambolo la direttiva individua la propria base giuridica nell’art. 83.2 TFUE, dunque in una disposizione che conferisce a Parlamento europeo e Consiglio la competenza ad adottare «norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni (…) tramite direttive» quando il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si riveli indispensabile, come appena sopra riferito. La scelta di campo è assai precisa: utilizzando questa base giuridica si è deciso di sottoporre il regime dell’attività normativa dell’Unione a tutti i presupposti, i requisiti e, in definitiva, i limiti sulla base dei quali funziona l’attività di armonizzazione normativa in campo penale entro l’Unione ai sensi dell’ultima disposizione richiamata. Si tratta di vincoli che invece sarebbero assenti se l’attività normativa fosse intrapresa sulla base dell’art. 325 TFUE: l’atto dell’Unione adottato su quest’ultima base potrebbe non prendere la forma di una direttiva, ma magari anche di un regolamento; potrebbe non limitarsi a dettare «norme minime», ma essere significativamente più penetrante; potrebbe coniu-

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COM(2011) 309 def. COM(2011) 307 def. 41 Sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco e a.: sui suoi contenuti v. oltre, parr. 3.3 e 4.1. 40

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gare effetti di diritto sostanziale e con quelli di diritto processuale, poiché la disposizione del Trattato non vincola all’uno o all’altro settore l’intervento in materia; sarebbe sempre sottratto al rispetto alla procedura del “freno di emergenza”, che invece è suscettibile di utilizzo nell’occasione dell’adozione delle norme di contrasto alle forme di criminalità contemplate dall’art. 83 TFUE.

3.2. La scelta della Commissione: la base normativa costituita dall’art 325 TFUE. La scelta di Parlamento europeo e Consiglio si discosta radicalmente da quella operata dalla Commissione che, nella propria proposta di direttiva PIF42, aveva individuato la base giuridica della direttiva stessa nell’art. 325 TFUE. Sia dal punto di vista giuridico, sia da un punto di vista relativo alla valutazione circa l’efficacia dell’azione dell’Unione, la scelta operata dalla Commissione sarebbe stata da privilegiare. Si può cominciare con l’osservare che i contenuti dell’art. 325 TFUE presentano spunti interessanti, risalenti peraltro nel tempo, guardando al dettato della norma che storicamente l’ha preceduta, introdotta con la riforma di Amsterdam: allora la materia del contrasto alle frodi suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell’Organizzazione divenne questione di interesse e competenza congiunta di Comunità europea e Stati membri (art. 209.1 TCE), spettando ad essi in modo concorrente l’adozione di misure efficaci e dissuasive. In seconda battuta, si rileva che con la riforma di Lisbona la norma si è caricata di ulteriori significati. La protezione che essa intende approntare riguarda, infatti, non più soltanto l’ambito statuale, ma anche quello dell’Unione nella sua globalità (parr. 1 e 4); e a ciò si deve provvedere mediante il ricorso al principio di assimilazione (par. 2) e tramite disposizioni dell’Unione adottate con la procedura legislativa ordinaria (par. 4), nel rispetto del principio di sussidiarietà, proprio dell’esercizio di una competenza concorrente qual è questa. L’obiettivo è, dunque, il conseguimento di una protezione efficace ed equivalente tanto nell’Unione che negli Stati membri. Inoltre, è particolarmente significativo che alla luce della riforma di Lisbona l’azione di armonizzazione a ciò preordinata non trovi più il limite (contemplato nella precedente disposizione) di non poter riguardare «l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia negli Stati membri»43. La cancellazione di questo presupposto è modifica di grande portata ed è la conseguenza dell’avvenuta eliminazione della distinzione di materie e competenze fra primo e terzo “pilastro” dell’Unione e, nel contempo, segnala che la disposizione può essere utilizzata anche come base giuridica per un atto a contenuto penale. Nell’art. 280 TCE il limite all’azione dell’Unione (ora appunto cancellato) manifestava lo spartiacque tra il versante della disciplina comunitaria in materia di contrasto alle frodi e il versante della competenza dell’Unione a intervenire nel settore del diritto penale, stabilita nell’art. 29 TUE: in quel contesto l’obiettivo del «livello elevato di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia» era perseguito, «fatte salve le competenze della Comunità europea», «prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in particolare (…) la frode». Grazie a questo spartiacque, nell’acquis comunitario erano allora ricompresi

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Adde anche la Comunicazione della Commissione su La tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea attraverso il diritto penale e le indagini amministrative. Una politica integrata per salvaguardare il denaro dei contribuenti, COM(2011) 293 def., passim. 43 Art. 325.2 TFUE.

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i poteri normativi di contrasto alle attività illegali (compresa la frode) lesive degli interessi finanziari della Comunità44, senza tuttavia che l’esercizio di tali poteri potesse spingersi tanto in là nella domestic jurisdiction statuale da intervenire direttamente in materia di applicazione del diritto penale nazionale e di amministrazione della giustizia. Insomma, al diritto comunitario direttamente efficace era preclusa una protezione così penetrante degli interessi finanziari dell’Unione come quella che offre il diritto penale. D’altra parte, sul versante del Trattato di Unione a questa spettavano allora compiti di ravvicinamento delle normative nazionali «solo per le implicazioni specifiche (…) [del terzo “pilastro”] e quindi essenzialmente per gli aspetti relativi alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale»45, sulla base dell’allora art. 31, lett. e, TUE. La riforma di Lisbona, con l’attribuzione all’Unione di una competenza in materia penale diretta, ha determinato l’eliminazione di questo spartiacque, peraltro dando corpo a sviluppi da alcuni studiosi già prefigurati prima dell’attuale assetto proprio per il settore che qui si sta considerando46. Non ci si poteva, già allora, nascondere come il principio di assimilazione non fosse in grado da solo di conseguire l’equivalenza delle misure assunte nei vari Stati membri, come auspicato invece dal Trattato; l’equivalenza contiene in sé una necessità di armonizzazione interstatuale che la tecnica dell’assimilazione non implica necessariamente; è vero che si può presumere che ogni ordinamento interno fornisca un elevato grado di tutela dei propri fondi pubblici, ma ciò non determina, appunto, necessariamente un’equivalenza di protezione. Ai fini del conseguimento di quest’ultimo obiettivo diventava, dunque, strategica l’attività di armonizzazione in campo penale. La scelta di campo operata dalla Commissione con la proposta di direttiva aveva messo in rilievo una possibile singolarità: essa aveva inteso che per il settore delle frodi il Trattato volesse diversificare radicalmente, quanto all’impiego di strumenti giuridici di contrasto, rispetto alla scelta operata in relazione ad altre condotte illecite – pur di grave allarme sociale – individuate nell’art. 83.1, co. 2, TFUE. Tale diversa scelta sembrava (e sembra a chi scrive oggi) potersi giustificare alla luce del bene (il bilancio dell’Unione) tutelato dalla norma stessa. Si dovrebbe, dunque, sostenere che, nell’interpretazione della Commissione, l’art. 325 TFUE sia norma speciale rispetto all’art. 83 dello stesso Trattato. La scelta della Commissione – decidendo di considerare reati presupposto alla frode talune condotte quali corruzione, riciclaggio e appropriazione indebita47 – aveva dunque imboccato una via indirizzata a valorizzare l’effettività di un’azione dell’Unione a protezione del proprio bilancio, utilizzando lo strumento normativo più efficace possibile, scartando i menzionati presupposti, limiti e vincoli ai quali è sottoposto invece l’utilizzo dell’art. 83.2 TFUE.

44 La disposizione non trovava riscontro nei Trattati CECA e CEEA; tuttavia la Conferenza di modifica del Trattato di Unione, ad Amsterdam, adottò la dichiarazione n. 41, secondo la quale Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, anche quando agiscono «in materia di trasparenza, di accesso ai documenti e di lotta alla frode» in base ai poteri d’azione attribuiti dai due suddetti Trattati «dovrebbero ispirarsi alle disposizioni in materia di (…) lotta contro la frode in vigore nell’ambito del Trattato che istituisce la Comunità europea». 45 Così A. Tizzano, Il Trattato di Amsterdam, Padova, 1998, 101. 46 V. al proposito le considerazioni di P. Fimiani, La tutela degli interessi finanziari della Comunità nel nuovo art. 209A, in A. Predieri, A. Tizzano (a cura di), Il Trattato di Amsterdam, Milano, 1999, 337. 47 Infra, par. 4.2.

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3.3. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione. La Corte di giustizia ha avuto occasione di offrire un’autorevole “sponda” alla scelta originaria della Commissione. L’occasione si è offerta quando, a motivo di un rinvio pregiudiziale del G.U.P. del Tribunale di Cuneo48, essa è stata chiamata a pronunciarsi sul regime italiano della prescrizione in relazione a un procedimento penale avviato nei confronti di alcune persone imputate di associazione a delinquere finalizzata a delitti in materia di IVA. La sentenza – che prende il proprio nome dal principale imputato, il signor Taricco49 – rinviene le disposizioni di diritto italiano da disapplicare nella disciplina disposta in materia di prescrizione, in quanto capace di incidere negativamente sulla capacità punitiva dello Stato membro. Le parole della Corte di giustizia, contenute nel primo punto del dispositivo, sono assai chiare al proposito: la «normativa nazionale in materia di prescrizione del reato (…) è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea»50. Nel risolvere la questione principale la Corte ha avuto l’occasione di affrontare alcune implicazioni relative a quella che allora era solo la proposta di direttiva PIF; in questa sede51 rileva la parte di sentenza che rinviene nell’art. 325 TFUE il fondamento dell’azione dell’Unione e degli Stati membri in materia di contrasto, attraverso il diritto penale, alle frodi che pregiudicano gli interessi finanziari dell’Unione. Si legge, infatti, nella sentenza che il «giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325.1-2 TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli» da siffatta disposizione del Trattato52. Questa posizione non è contraddetta dalle conclusioni dell’Avvocato generale Yves Bot53 nel procedimento pregiudiziale introdotto davanti alla Corte di giustizia dalla Corte costituzionale italiana54, conseguente alle difficoltà di applicazione della sentenza Taricco entro l’ordinamento nazionale incontrate tanto dalla Corte di Cassazione quanto dalla Corte d’appello di Milano55; e neppure è contraddetta dalla conseguente sentenza della Corte di giustizia56. Il rinvio pregiudiziale riguarda questioni diverse da quella relativa alla base giuridica della com-

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Ordinanza 17 gennaio 2014 (v. in Diritto penale contemporaneo, 7 febbraio 2014). Sentenza Taricco e a., cit. 50 Corsivo aggiunto. 51 V. anche oltre, par. 4.1. 52 Punto 58 sent. Taricco. V. in argomento ancora A. Venegoni, op. cit. 53 Conclusioni del 18 luglio 2017, causa C-42/17, M.A.S., M.B. 54 Ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24 55 Queste giurisdizioni hanno sollevato questione di costituzionalità in relazione alla legge di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione del Trattato di Lisbona nella parte in cui dà esecuzione all’art. 325 TFUE con ordinanza (III pen.) 8 luglio 2015, n. 28346/16, la Corte di Cassazione, e ordinanza 18 settembre 2015, la Corte d’appello di Milano (v. pubblicate ambedue in Diritto penale contemporaneo, 15 luglio 2016 e 21 settembre 2015). 56 Sentenza 5 dicembre 2017, causa C-42/17. 49

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petenza penale dell’Unione in materia di contrasto alle frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione57. La Corte è stata infatti chiamata a pronunciarsi: sul possibile contrasto fra la giurisprudenza Taricco di cui sopra si è detto e il principio di legalità dei reati e delle pene come accolto dall’ordinamento italiano; sulla discrezionalità dello Stato membro di poter far osservare il proprio livello di tutela dei diritti fondamentali, quando sia presuntivamente più elevato rispetto a quello garantito dal diritto dell’Unione europea (art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE); sulla portata della norma del TUE che tutela l’identità costituzionale di ciascuno Stato membro (art. 4.2 TUE). Qui non interessano tanto le soluzioni che l’Avvocato generale e le Corte sposano per ciascuna delle questioni pregiudiziali sottoposte; ciò che rileva è invece che questi non mettono in dubbio che il fondamento giuridico della tutela penalistica in relazione alle condotte di frode sia da rinvenirsi entro l’art. 325 TFUE58. In particolare, un passaggio dell’argomentazione dell’Avvocato generale Bot risulta singolare e potrebbe far pensare che sul piano normativo non tutto sia stato risolto, avendo la direttiva PIF individuato la propria base giuridica nell’art. 83 TFUE: le Conclusioni – che pur portano una data successiva a quella di approvazione della direttiva, certamente ben conosciuta dall’Avvocato generale – hanno evitato di evocarla, riferendosi sempre alla proposta di essa59. Questo atteggiamento potrebbe essere giustificato anche alla luce della volontà di non prendere posizione in materia in un’occasione in cui si trattava di interpretare esclusivamente il contenuto dell’art. 325, lasciando magari mani libere alla Corte di giustizia nel caso in cui le venisse proposto – da parte della Commissione o di altro soggetto legittimato ad agire ai sensi dell’art. 263 TFUE – un ricorso di legittimità a fini di far valere la pretesa errata base giuridica della direttiva PIF.

4. Gli elementi qualificanti della direttiva. 4.1. La nozione di «interessi finanziari dell’Unione». Come chiarito nel preambolo della direttiva PIF, la tutela degli interessi finanziari dell’Unione riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o minacci di incidere negativamente sul patrimonio dell’Organizzazione nonché su quello degli Stati membri (nella misura in cui questo sia di interesse per le politiche dell’Unione), comprese le operazioni finanziarie quali l’assunzione e l’erogazione di prestiti60. La direttiva PIF interviene a definire la locuzione, intendendo che essa si estende a «tutte le entrate, le spese e i beni (…) coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei

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Sul rinvio pregiudiziale, per considerazioni (che qui si condividono) precedenti all’adozione delle conclusioni dell’Avvocato generale Bot, si rinvia a P. Mori, La Corte costituzionale chiede alla Corte di giustizia di rivedere la sentenza Taricco: difesa dei controlimiti o rifiuto delle limitazioni di sovranità in materia penale?, in Rivista di diritto internazionale, 2017, 407 ss.; e a L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, in www.europeanpapers.eu, 7 settembre 2017. 58 V. esemplificativamente i punti 19, 83, 94 e 188 concl. ult. cit. 59 Punto 94 concl. ult. cit. 60 Considerando n. 1.

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bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti o controllati» (art. 2.1, lett. a). La norma, salva qualche differenza linguistica, è del tutto identica a quella proposta dalla Commissione. La nozione di interessi finanziari dell’Unione non era mai stata definita dai Trattati istitutivi ed è stata a lungo ricavata in via di prassi61. Anche la Convenzione PIF del 1995 era silente al riguardo. Dalla definizione accolta discende che tutte le risorse proprie sono ricondotte entro la nozione di interessi finanziari dell’Unione, facendo così giustizia di un dibattito interistituzionale anche piuttosto aspro che (per volontà del Consiglio) tendeva a escludere dall’ambito di applicazione della direttiva PIF la materia dell’IVA62, innovando rispetto alla soluzione predisposta dalla Commissione e alla posizione assunta dal Parlamento europeo. Si reputa che, infine, la decisione di integrare l’IVA nella disciplina dell’adottanda direttiva PIF sia dipesa dalla posizione assai radicale della Corte di giustizia: nella motivazione della già ricordata sentenza Taricco essa sostenne questa soluzione63, rilevando che, «poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione 2007/436, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste (…) un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde»64. Tuttavia, la direttiva risente di una soluzione di compromesso: il principio affermato viene, infatti, edulcorato, poiché la direttiva vuole applicarsi «ai soli casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA», intendendo che tali devono essere considerati «le azioni od omissioni di carattere intenzionale [65] (…) connesse al territorio di due o più Stati dell’Unione (…) [comportanti] un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro»66. La specificazione circa la

61 Regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95, cit., art. 1, par. 2; v. anche la Relazione della Commissione che accompagna la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, COM(2012) 363 def. dell’11 luglio 2010, p. 7, punto 3.1; nonché la sentenza CGUE 15 novembre 2011, causa C-539/09, Commissione c. Germania. 62 A. Venegoni, Il difficile cammino della proposta di direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea attraverso la legge penale (c.d. direttiva PIF): il problema della base legale, in Cass. pen., 2015, 2442 ss. 63 Punto 36 sent. cit 64 Punto 58 sent. cit. La Corte, al proposito, rinvia alla propria precedente giurisprudenza espressa nella sentenza 26 febbraio 2013, causa C617/10, Åkerberg Fransson, punto 26. 65 La definizione di intenzionalità è data nell’art. 3.2, lett. d. 66 Art. 2.2; corsivi aggiunti. La disposizione può meglio essere compresa se si tiene presente il 4° considerando del Preambolo della direttiva, secondo il quale: «La nozione di reati gravi contro il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto (“IVA”) (sistema comune dell’IVA) istituito dalla direttiva 2006/112/CE del Consiglio fa riferimento alle forme più gravi di frode dell’IVA, in particolare la frode carosello, la frode dell’IVA dell’operatore inadempiente e la frode dell’IVA commessa nell’ambito di un’organizzazione criminale, che creano serie minacce per il sistema comune dell’IVA e, di conseguenza, per il bilancio dell’Unione. I reati contro il sistema comune dell’IVA dovrebbero essere considerati gravi qualora siano connessi al territorio di due o più Stati membri, derivino da un sistema fraudolento per cui tali reati sono commessi in maniera strutturata allo scopo di ottenere indebiti vantaggi dal sistema comune dell’IVA e il danno complessivo causato dai reati sia almeno pari a 10 000 000 EURO. La nozione di danno complessivo si riferisce al danno stimato che derivi dall’intero sistema fraudolento, sia per gli interessi finanziari degli Stati membri interessati sia per l’Unione, escludendo interessi e sanzioni. La presente direttiva mira a contribuire agli sforzi per combattere tali fenomeni criminali».

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dimensione transnazionale della condotta se riferita all’IVA aiuta peraltro a comprendere come nel caso di altre condotte questo presupposto non debba ricorrere affinché la stessa ricada nell’ambito di applicazione della direttiva PIF.

4.2.

L’ambito oggettivo di applicazione della direttiva: le condotte suscettibili di essere pregiudizievoli per gli interessi finanziari dell’Unione.

L’ambito materiale coperto dalla direttiva è assai più esteso rispetto alle mere frodi intese in senso tecnico. Essa si propone di contrastare la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione (art. 3) anche tramite la repressione di taluni cd. «reati connessi», quali sono considerati il riciclaggio di denaro (art. 4.1), la corruzione attiva e passiva (art. 4.2), l’appropriazione indebita (art. 4.3). Insomma, il contrasto alle condotte di frode è inserito in un più ampio contesto di azioni dell’Unione indirizzate alla protezione del bene che l’Unione stessa definisce con l’espressione «economia lecita», di cui più sopra si è detto; protezione apprestata a partire dalla considerazione dell’impatto negativo delle condotte stesse sul funzionamento del «mercato interno» e sulla fiducia dei cittadini europei nelle istituzioni dell’Unione. Peraltro questa impostazione non è recente. Già in epoca precedente alla riforma di Lisbona l’azione dell’Unione si era dispiegata a contrastare un’ampia tipologia di infrazioni al diritto dell’Unione considerate connesse alle frodi: in questo perimetro erano compresi (come lo sono oggi dalla direttiva PIF) non solo gli illeciti che determinano direttamente conseguenze pregiudizievoli per il bilancio dell’Organizzazione (in termini di aumento o diminuzione delle entrate o di uso distorto delle uscite)67, ma anche, più globalmente, gli illeciti che incidono sulla funzione strumentale che il bilancio esplica rispetto all’attuazione delle politiche comuni68. Si consideri, ad esempio, la disciplina stabilita con il primo Protocollo aggiuntivo alla Convenzione PIF, che ha lo scopo di stabilire una disciplina uniforme in caso di frodi finanziarie quando a esse si associno condotte di corruzione commesse da e nei confronti di funzionari nazionali (degli Stati membri) e dell’Unione. Proprio tale disposto porta a concludere che l’Organizzazione affronta la questione in modo olistico, non soltanto dalla prospettiva di prevenire e reprimere le frodi, ma anche di contrastare le altre attività illegali suscettibili di ledere quegli interessi: sintomatica è già l’espressione impiegata nell’art. 325.1 TFUE – identica per quest’aspetto alla disposizione del Trattato CE che l’ha preceduta – che, certo peccando di scarsa chiarezza nella prospettiva penalistica (peraltro non l’unica nella quale la disposizione si situa) di lex certa, impegna gli Stati e l’Organizzazione a «combattere contro la frode e le altre attività illecite che ledono gli interessi finanziari» di questa69. Ciascuna delle condotte coperte dalla direttiva PIF merita qualche specificazione ai fini della sua qualificazione giuridica. 4.2.1. La condotta di frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione. La frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione è descritta all’art. 3.2, lett. a, riproducendo pedissequamente il disposto dell’art. 1 della Convenzione PIF del 1995, riferendosi a condotte attive od omissive relative a70:

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V., al proposito, A. E. Vervaele, La fraude communautaire et le droit pénal européen des affaires, Paris, 1994. Così P. Fimiani, op. cit., 339. 69 Corsivo aggiunto. 70 Art. 3.2, lett. a. 68

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i) l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, cui consegua l’appropriazione indebita o la ritenzione illecita di fondi o beni provenienti dal bilancio dell’Unione o dai bilanci gestiti da quest’ultima, o per suo conto; ii) la mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; iii) la distrazione di tali fondi o beni per fini diversi da quelli per cui erano stati inizialmente concessi. La direttiva ha sostanzialmente ripreso la definizione di frode di cui all’art. 1 della Convenzione e della proposta di direttiva PIF, in relazione tanto alle spese quanto alle entrate. Ciò che distingue l’attuale disciplina da quella convenzionale è che oggi essa contiene una distinzione – fra spese riferite agli appalti e spese non riferite a questo negozio giuridico – che ha l’effetto di ampliare l’ambito materiale della direttiva: le medesime condotte individuate all’art. 3.2, lett. a, sono infatti sanzionate anche qualora concernano spese relative ad appalti attuate al fine di arrecare all’autore o a terzi un profitto, in danno degli interessi finanziari dell’Unione. Tale riferimento deve dunque essere inteso come un’importante innovazione rispetto alla Convenzione. La direttiva comprende nella nozione di frode anche le azioni o le omissioni in materia di entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA (entro i limiti di cui sopra si è detto71) mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi o incompleti relativi all’IVA, ovvero la mancata comunicazione di informazioni obbligatorie sulla medesima, ovvero, ancora, utilizzando dichiarazioni esatte relative all’IVA per dissimulare un mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborso dell’IVA (es. falsa fatturazione)72. Infine, nella nozione di frode ai sensi della direttiva rientrano anche entrate diverse da quelle derivanti dall’IVA73, con un distinguo rispetto al regime stabilito per quest’ultima risorsa, dal momento che intende applicarsi alle ipotesi di «distrazione di benefici lecitamente ottenuti»74. 4.2.2. Il riciclaggio di proventi di reato. La condotta di riciclaggio viene definita per relationem: la direttiva PIF rinvia alla qualificazione accolta nella direttiva 2015/849/UE75. La norma rappresenta un passo in avanti rispetto alla disciplina stabilita dal sistema della Convenzione PIF, il cui secondo Protocollo registra l’intenzione degli Stati membri a prende-

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Testo all’altezza dell’esponente di nota 66. Art. 3.2, lett. d. 73 Art. 3.2, lett. c. 74 Art. 3.2, lett. c, iii. 75 Art. 1.3 (così anche il 7° considerando del Preambolo della direttiva PIF). La direttiva evocata costituisce la quarta direttiva volta a far fronte alla minaccia del riciclaggio, succeduta a: la direttiva 91/308/CEE del Consiglio (che definiva il riciclaggio dei proventi di attività illecite in relazione ai reati connessi con il traffico di stupefacenti ed imponeva obblighi soltanto al settore finanziario); la direttiva 2001/97/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (che ha esteso l’ambito d’applicazione della direttiva 91/308/CEE per quanto riguarda sia la tipologia di reati, sia le professioni, che le attività coinvolte); le direttive 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e 2006/70/CE della Commissione (che hanno tenuto conto delle raccomandazioni del Gruppo di azione finanziaria internazionale («GAFI»), le quali estendono la disciplina precedentemente prevista al finanziamento del terrorismo, disponendo altresì obblighi più dettagliati per quanto riguarda l’identificazione e la verifica dell’identità dei clienti, le situazioni in cui un rischio elevato di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo può giustificare l’applicazione di misure rafforzate e quelle in cui, invece, un rischio ridotto può legittimare l’attuazione di controlli meno rigorosi). 72

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re «i provvedimenti necessari affinché il riciclaggio di denaro costituisca illecito penale»76 e, conseguentemente, rinvia per la definizione della condotta alla direttiva allora in vigore, la n. 91/308/CEE, ben meno estesa rispetto alla disciplina ora vigente77. 4.2.3. Corruzione attiva e passiva. La condotta di corruzione, come minaccia particolarmente grave agli interessi finanziari dell’Unione, è menzionata nel Preambolo (8° considerando) della direttiva, riferendosi alla dazione di tangenti a pubblico funzionario; viene meglio tecnicamente specificata nel corpo normativo. Ivi si qualifica la corruzione passiva come l’azione del funzionario pubblico che, direttamente o tramite un intermediario, solleciti o riceva vantaggi di qualsiasi natura, per sé o per un terzo, o ne accetti la promessa per compiere o per omettere un atto proprio delle sue funzioni o nell’esercizio di queste in un modo che leda o possa ledere gli interessi finanziari dell’Unione78; e la corruzione attiva come l’azione di una persona che prometta, offra o procuri a un funzionario pubblico, direttamente o tramite un intermediario, un vantaggio di qualsiasi natura per il funzionario stesso o per un terzo, affinché questi compia o ometta un atto proprio delle sue funzioni o nell’esercizio di queste in un modo che leda o possa ledere gli interessi finanziari dell’Unione79. Le definizioni riproducono quanto acquisito dal primo Protocollo PIF, ai suoi artt. 2 e 3. 4.2.4. Appropriazione indebita. Il reato di appropriazione indebita è descritto come «l’azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione»80. La condotta parrebbe quindi assimilabile a fattispecie del codice penale italiano, quali il peculato (art. 314 c.p.), l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) o l’appropriazione indebita (art. 646 c.p.). Essa rappresenta una novità per l’ordinamento dell’Unione europea, non essendo presente nella Convenzione, né nei suoi Protocolli. 4.2.5. I reati associativi. Le organizzazioni criminali che pongono in essere condotte lesive degli interessi finanziari dell’Unione rientrano nel campo di applicazione della direttiva PIF alla luce del disposto dell’art. 8 di essa, secondo cui «gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, qualora un reato di cui agli articoli 3, 4 o 5 sia commesso nell’ambito di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI[81], ciò sia considerato una circostanza aggravante». Tale situazione deve però essere letta alla luce del considerando n. 19 della stessa direttiva, laddove – nel riprodurre il contenuto dell’art. 8 – si specifica che il giudice nazionale non è obbligatoriamente tenuto a considerare tale circostanza ai fini dell’aumento della pena

76

Art. 2. Art. 1, terzo trattino, direttiva cit. Per gli sviluppi normativi nel frattempo intervenuti si rinvia supra, nota 74. 78 Art. 4.2, lett. a. 79 Art. 4.2, lett. b. 80 Art. 4.3. 81 Decisione quadro del 24 ottobre 2008 relativa alla lotta contro la criminalità organizzata. 77

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se il suo ordinamento qualifica le condotte di cui alla decisione quadro come reati distinti e se questa previsione può anche comportare livelli sanzionatori più severi di quelli previsti dalla direttiva82. Vi è poi un riferimento alle organizzazioni criminali in relazione alle frodi commesse ai danni della risorsa finanziaria costituita dall’IVA: il 13° considerando – rilevando la frequente connessione fra reati contro gli interessi finanziari dell’Unione e reati associativi (compresi nell’elenco di cui all’art. 83.1, co. 2 TFUE) – richiama gli Stati membri all’esigenza che venga mantenuta coerenza tra la direttiva PIF e gli atti legislativi dell’Unione basati su tale disposizione. La direttiva innova dunque significativamente rispetto alla Convenzione imponendo che i reati in forma associativa siano sanzionati più gravemente o considerati circostanza aggravante, mentre nella Convenzione PIF (in particolare nel suo Preambolo) si rinviene un unico, generico, riferimento alle forme di criminalità organizzata; vero è che, indirettamente grazie alla disciplina stabilita nel secondo Protocollo, l’ambito d’applicazione della Convenzione viene esteso al riciclaggio, anche quando commesso in forma associativa, come peraltro spesso accade.

4.3. Il suo ambito soggettivo. Il criterio di imputazione soggettiva determinato dalla direttiva è quello dell’intenzionalità, ovvero del carattere doloso delle condotte attive od omissive commesse dalla persona fisica o giuridica. 4.3.1. La nozione di funzionario pubblico nazionale ed europeo. La direttiva obbliga gli Stati a perseguire, anzitutto, le persone fisiche responsabili delle condotte di cui sopra si è detto. Essa intende applicarsi ai «funzionari pubblici», cioè a tutti coloro che, in relazione all’ordinamento dell’Unione, esercitano, di diritto o di fatto, un pubblico servizio: dipendenti dell’Organizzazione, nonché pubblici ufficiali ed esercenti una pubblica funzione a livello nazionale, tanto di uno Stato membro come di uno Paese terzo83. L’accezione del termine impiegata dalla normativa dell’Unione è assai lata: essa viene specificata puntualmente. È «funzionario dell’Unione» la persona che rivesta la qualifica di funzionario o di altro agente assunto per contratto dall’Unione ai sensi dello Statuto dei funzionari84; che sia distaccata da uno Stato membro o da qualsiasi organismo pubblico o privato presso l’Unione e che vi eserciti funzioni corrispondenti a quelle esercitate dai funzionari o dagli altri agenti dell’Unione; ovvero che sia comunque assimilato al funzionario dell’Unione: si fa riferimento ai membri di istituzioni, organi o organismi dell’Unione, istituiti a norma dei Trattati e il relativo personale al quale non si applica lo statuto dei funzionari85. È «funzionario nazionale» colui il quale è definito tale nel diritto nazionale dello Stato membro o del Paese terzo in cui svolge le proprie funzioni. È interessante notare come la norma chiarisca che è funzionario nazionale la persona che eserciti una funzione esecutiva, amministrativa o

82

Sul regime sanzionatorio v. infra, par. 4.5. Art. 4.4, lett. a - b. 84 Reg. (CEE, EURATOM, CECA) n. 259/68 del Consiglio. 85 Art. 4.4, lett. a, i. 83

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giurisdizionale a livello nazionale, regionale o locale; ed è assimilato al funzionario nazionale la persona che eserciti una funzione legislativa a livello nazionale, regionale o locale86. È funzionario nazionale o europeo qualunque altra persona alla quale siano state assegnate (o che eserciti) funzioni di pubblico servizio implicanti in uno Stato membro o in un Paese terzo la gestione degli interessi finanziari dell’Unione o decisioni che li riguardano87. La direttiva non innova, dunque, rispetto alla Convenzione PIF quanto alla definizione della qualifica di funzionario (nazionale o europeo) né quanto all’estensione della disciplina anche a funzionari di Paesi terzi88. Nulla muta pure rispetto all’applicazione del principio di assimilazione; ne risulta semplicemente modificata la sede di previsione: allora situata entro la Convenzione PIF oltre che nell’art. 209A89 e oggi disposta soltanto, ma comunque essendone arricchita a motivo di quanto sopra riferito, nell’art. 325 TFUE. Sono altresì fatte salve le pertinenti disposizioni dei Trattati che istituiscono le Comunità europee, del Protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunità europee, dello Statuto della Corte di giustizia, nonché dei testi adottati in applicazione delle stesse per quanto attiene alla soppressione delle immunità. In conclusione, ciò che muta quanto all’ambito soggettivo è che la nuova direttiva ha espunto qualsiasi precedente riferimento alla normativa in deroga per le figure appartenenti al potere esecutivo, legislativo, giudiziario, di qualsiasi livello territoriale o grado, salve le disposizioni sui privilegi e le immunità di cui ai protocolli n. 3 e n. 7 dello Statuto dei funzionari e del regime applicabile agli altri agenti dell’Unione europea. 4.3.2.La responsabilità della persona giuridica. Alla responsabilità delle persone giuridiche è dedicato l’art. 6. Ivi si dispone che «gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili come reato l’istigazione, il favoreggiamento e il concorso nella commissione di uno dei reati di cui agli articoli 3, 4 e 5», nonché «il tentativo» di essi90, dando contenuto precettivo al 14° considerando della direttiva.

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Art. 4.4, lett. a, ii. Art. 4.4, lett. b. 88 Il primo Protocollo annesso alla Convenzione definisce, all’art. 1, il funzionario come: qualsiasi funzionario sia «comunitario» che «nazionale», ivi compreso qualsiasi funzionario nazionale di un altro Stato membro. 89 L’art. 4.1 del Protocollo (sotto la rubrica «Assimilazioni») precisa che ciascuno Stato membro è tenuto ad adottare le misure necessarie affinché ai sensi del diritto penale nazionale le qualificazioni degli illeciti che corrispondono a una delle condotte di cui all›articolo 1 della Convenzione, commessi da suoi funzionari nazionali nell›esercizio delle loro funzioni , siano applicate allo stesso modo ai casi in cui gli illeciti vengono commessi da funzionari comunitari nell›esercizio delle loro funzioni. Il secondo paragrafo del medesimo articolo specifica che, per i reati di frode di cui all’art. 1 della Convenzione e quello di corruzione come definito nel primo Protocollo, commessi da Ministri del Governo, dai membri eletti del Parlamento, dai membri degli organi giudiziari supremi o dai membri della Corte dei conti nell›esercizio delle rispettive funzioni, o nei confronti di questi, ciascuno Stato membro è tenuto ad adottare le misure necessarie affinché ai sensi del diritto penale nazionale le qualificazioni di tali illeciti siano applicate allo stesso modo ai casi in cui sono sanzionati gli illeciti commessi da membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della Corte di giustizia e della Corte dei conti della Comunità europea nell’esercizio delle rispettive funzioni. Il terzo paragrafo dell’articolo fa salva, in deroga, la normativa speciale dei singoli Stati applicabile nei confronti dei rispettivi Ministri del Governo, purché «lo Stato membro assicuri che i membri della Commissione delle Comunità europee sono essi pure soggetti alla norme penali di attuazione degli articoli 2, 3 e 4, paragrafo 1». 90 Art. 5.1-2. 87

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I presupposti per il radicarsi della responsabilità sono il vantaggio che consegue per l’ente dalla commissione della condotta, quando essa è messa in atto – a titolo individuale o da una persona fisica in quanto membro di un organo della persona giuridica – da chi detenga in seno alla persona giuridica una posizione preminente basata sul potere di rappresentanza di essa, sul potere di adottare decisioni per suo conto, oppure sull’autorità comportante esercizio di un controllo in seno ad essa. Agli Stati membri si fa pure carico di adottare le misure necessarie ad accertare la responsabilità delle persone giuridiche quando la mancata sorveglianza o il mancato controllo da parte di una delle persone di cui sopra abbia reso possibile la commissione di uno dei reati perseguiti dalla direttiva, ad opera del comportamento di una persona sottoposta alla sua autorità91. La direttiva si premura di precisare che la responsabilità delle persone giuridiche non esclude la possibilità di procedimenti penali contro le persone fisiche per le stesse condotte92. La soluzione raggiunta dalla direttiva rappresenta in parte un progresso rispetto all’assetto convenzionale. È vero, infatti, che la Convenzione PIF non fa esplicito riferimento alla responsabilità delle persone giuridiche, anche se impone agli Stati membri l’assunzione delle misure necessarie per sanzionare i casi di responsabilità penale dei dirigenti delle imprese, ovvero di coloro che esercitano un potere di decisione o di controllo in seno alle stesse93. Merita di essere segnalato che, secondo la soluzione di compromesso faticosamente conseguita in sede di negoziati per la Convenzione PIF, il tipo di responsabilità da introdurre avrebbe potuto essere tanto di natura penale quanto amministrativa, sempreché le sanzioni applicabili in ciascuno Stato membro risultassero «effettive, proporzionate e dissuasive» ai sensi della ricordata giurisprudenza della Corte di giustizia. All’atto della stesura della Convenzione non era stata pertanto seguita l’originaria proposta della Commissione che mirava a disporre un regime di responsabilità di tipo unicamente penale; né era stata allora accolta la proposta di elaborare un registro centrale delle inchieste in materia di frode o di dotarsi di un dettagliato dispositivo in materia di cooperazione tra Stati e servizi della Commissione. Tuttavia, l’assetto conseguito nella Convenzione è stato poi superato dal secondo Protocollo, che, disciplinando la responsabilità degli enti, ha dettato un regime equivalente all’attuale94, con un’unica eccezione degna di nota: la direttiva PIF disciplina anche in tema di responsabilità della persona giuridica per il caso di frodi fiscali. 4.3.3. Istigazione, favoreggiamento e concorso. La direttiva dispone – come già sopra ricordato – che «gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili come reato l’istigazione, il favoreggiamento e il concorso nella commissione di uno dei reati di cui agli articoli 3 e 4», nonché «il tentativo» di frode e di appropriazione indebita95. Un primo riferimento al concorso volontario e all’istigazione alla commissione di frode è già presente nella Convenzione fra i criteri di determinazione della competenza giurisdizionale96.

91

Art. Art. 93 Art. 94 Art. 95 Art. 96 Art. 92

6.2. 6.3. 3. 3. 5.1-2. 4.

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Un ulteriore riferimento è presente nel secondo Protocollo, dove è riconosciuta la responsabilità di persone fisiche e giuridiche autrici, istigatrici o complici della frode, della corruzione attiva o del riciclaggio di denaro97. Le fattispecie tentate sono menzionate però unicamente per le persone giuridiche. Pertanto, la portata della direttiva coincide con quella della Convenzione, con l’unica eccezione in relazione alla disposta ipotesi di fattispecie tentate.

4.4. Il regime della prescrizione. La prescrizione viene finalmente98 affrontata dalla disciplina europea nell’art. 12: nella Convenzione del 1995 e nei suoi Protocolli non era presente alcuna disposizione in materia. Tuttavia l’efficacia armonizzatrice della direttiva poteva essere più significativa. Il primo paragrafo della disposizione implicata prescrive che, al fine di contrastare tali reati efficacemente, il termine prescrizionale stabilito dalla legislazione degli Stati membri a decorrere dalla commissione del reato debba essere «congruo». Il termine resta dunque abbastanza vago; tuttavia esso viene in qualche modo circostanziato dalla norma posta nel paragrafo 2 del medesimo articolo: riprendendo il disposto contenuto nel 22° considerando, si obbligano gli Stati membri a contemplare un termine prescrizionale non inferiore ai 5 anni dalla commissione dei reati «gravi» di cui agli artt. 3, 4 e 5 della direttiva. Il paragrafo 3 ammette una deroga all’ultima disposizione, stabilendo che la prescrizione non possa mai essere comunque inferiore ai tre anni, e disponendo in tema di interruzioni o sospensioni al decorso del termine in caso di determinati atti. Il paragrafo 4 impone, infine, che, a seguito di condanna definitiva a una pena superiore a un anno di reclusione o qualsiasi altra condanna definitiva a pena detentiva per uno dei reati di cui agli artt. 3-5, la stessa «possa essere eseguita per almeno 5 anni dalla data della condanna definitiva».

4.5. L’armonizzazione delle sanzioni penali. Il contributo che la direttiva dà all’armonizzazione delle sanzioni è di grande portata. Nessuna novità risiede nel fatto che vi si ribadisce il principio d’origine giurisprudenziale sulla dissuasività, proporzionalità ed effettività delle pene che gli Stati si determineranno a introdurre nell’adeguamento del proprio ordinamento all’atto dell’Unione99. A questo primo principio la direttiva ne affianca un secondo che consiste nella scelta di non vincolare gli Stati membri al livello penalistico quando si tratti di sanzioni da applicare alla persona fisica, il cui regime è stabilito dall’art. 7 della direttiva. A determinare questa scelta concorrono diverse previsioni contenute nel Preambolo della direttiva, ove si specifica che non vi è obbligo di sanzionare con pene detentive la commissione di reati che non rivestano

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Art. 3.3. Sono note le difficoltà in cui si dibatte l’ordinamento italiano in relazione all’istituto della prescrizione, considerato come istituto di diritto penale sostanziale e non processuale, così come invece stabilito dagli altri Stati membri dell’Unione europea. Si tratta di difficoltà che sono apprezzabili anche in relazione all’obbligo del rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della sua Corte. Per esigenze di rapidità ci si limita a rinviare alla giurisprudenza Taricco (cit. supra, parr. 3.3 e 4.1), all’esaustivo lavoro di P. Mori, op. cit., oltre che a N. D. Parisi, Rinoldi, The Court of Justice of the EU and Criminal Policy, in Eucrim, 2015, n. 3, 111 ss. 99 V. l’art. 7 dir. e i considerando 15 e 17. 98

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il carattere della gravità, ferma la condotta intenzionale100; e si aggiunge che non si preclude il ricorso – se efficace e adeguato – a misure disciplinari o sanzioni diverse da quelle di natura penale, le quali sono eventualmente cumulabili a sanzioni di carattere penale101. Un terzo principio posto dalla direttiva attiene al concetto di gravità e alla conseguente applicazione di sanzioni penali: non è precluso agli Stati membri di considerare, ai fini della determinazione del livello di gravità della condotta, il vantaggio potenzialmente ottenibile o il danno arrecabile in astratto102. Resta tuttavia ferma, per i reati contro il sistema comune dell’IVA, la soglia dei dieci milioni di euro103. Seguendo la prassi in materia104, la direttiva individua pure la soglia della pena detentiva, determinando anche l’aggravante dell’appartenenza a organizzazione criminale. Scendendo nel dettaglio: essa prescrive la pena (massima) della reclusione per frode, riciclaggio, appropriazione indebita, corruzione105; tale pena non deve essere inferiore ai 4 anni quando dalla condotta «derivino danni o vantaggi considerevoli»106. Allo Stato membro si lascia la facoltà di definire altre circostanze gravi, definite aggravanti107; è comunque circostanza aggravante la commissione del reato nell’ambito di un’organizzazione criminale108. Per le medesime fattispecie, quando il danno o vantaggio sia inferiore a diecimila euro, gli Stati membri possono prevedere sanzioni di natura diversa da quella penale109. Quanto alla persona giuridica, la tipologia di sanzioni (penali e non penali) esemplificativamente indicata dalla direttiva110 comprende casi di esclusione dal godimento di benefici e/o aiuti pubblici, nonché di esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica; ipotesi di interdizione temporanea o permanente dall’esercizio dell’attività commerciale; misure di sorveglianza giudiziaria, oppure di chiusura temporanea o permanente delle sedi coinvolte nella commissione del reato; provvedimenti giudiziari di scioglimento dell’ente. A tutto ciò si aggiungono, per le persone sia fisiche che giuridiche, le misure di congelamento e di confisca dei proventi e degli strumenti di reato111. Queste s’inseriscono nel contesto di un processo di armonizzazione giuridica delle sanzioni penali, attuata tramite il ricorso al principio del riconoscimento reciproco introdotto dal Trattato di Amsterdam112. Per quanto riguarda, in particolare, le misure adottate a contrasto del crimine organizzato – ambito nel

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Considerando 12. Considerando 17 e 31. 102 Considerando 18. 103 Art. 2.2. 104 Vedila sintetizzata in D. Rinoldi, Lo spazio, cit., cap. III, par. 5.5. 105 Art. 7.2: i reati sono quelli contemplati negli artt. 3 e 4 della direttiva. 106 Art. 7.3 (adde il 18° considerando): i danni e i vantaggi sono presunti considerevoli se superiori ai 100 mila euro (così art. 7.3, secondo al.), con l’eccezione (di cui all’art. 2.2: v. supra, par. 4.1) commessi a danno del sistema IVA. Inoltre i danni si considerano «sempre considerevoli» se riguardano il regime IVA (quando esso ricada entro l’ambito di applicazione della direttiva: ancora supra, par. 4.1) 107 Art. 7.3, quarto al. 108 Art. 8. 109 Art. 7.4. 110 Art. 9. 111 Art. 10. 112 Sulla base dell’art. 31 TUE (nella versione del Trattato di Unione appunto accolta ad Amsterdam) la Commissione aveva adottato una prima Comunicazione in materia: COM(2000) 495 def., 26 luglio 2000. 101

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quale s’inquadra anche la materia delle condotte pregiudizievoli agli interessi finanziari dell’Unione – la strategia europea individua come strumento di lotta le misure di carattere patrimoniale, le quali, insieme ai provvedimenti di sequestro, dovrebbero poter assicurare la deterrenza nella circolazione di proventi illeciti113. Tale strategia si avvale di un pacchetto coerente di strumenti, quali sono i provvedimenti di sequestro e di confisca dei beni, degli strumenti e dei proventi di reato anzitutto a fini di contrasto del riciclaggio114, ma anche per il più generale contrasto alla criminalità organizzata115; le misure di blocco dei beni e di sequestro di essi a fini probatori116; le decisioni di confisca117. La maggior efficacia del regime stabilito dalla direttiva si misura se si pone mente, anzitutto, al fatto che la Convenzione PIF si limita a stabilire l’obbligo per gli Stati membri di sanzionare le persone fisiche con sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, comprendenti pene privative della libertà almeno per i casi gravi di frode. La direttiva, in modo significativo quanto a efficacia dissuasiva, introduce la previsione di minimi edittali espliciti nei confronti degli autori dei reati connotati da «gravità», di chi con loro concorre, istiga o favoreggia. Certamente non incoraggia il fatto che il parametro quantitativo per valutare la gravità della frode sia dalla direttiva raddoppiato rispetto al disposto della Convenzione PIF (è infatti portato da cinquantamila ECU118 a centomila euro); essa precisa ulteriormente che per i casi di frode inferiore ai quattromila ECU e privi di altri elementi di gravità secondo i rispettivi diritti nazionali, la sanzione comminata può rivestire natura diversa da quella privativa della libertà personale119. Il primo Protocollo estende il regime ai casi di corruzione attiva e passiva120, nonché alle ipotesi di complicità e istigazione121. Il regime convenzionale infine consente la presa in considerazione di precedenti sanzioni disciplinari ai fini della determinazione della pena per la fattispecie penale122. In relazione alle persone giuridiche la direttiva non si discosta molto dal secondo Protocollo PIF: l’elenco dei provvedimenti adottabili contenuto in quest’atto contempla misure di esclusione dal godimento di un vantaggio o aiuto pubblico, nonché di divieto temporaneo o permanente di esercitare un›attività commerciale; di assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; di scioglimento per via giudiziaria123. La direttiva contempla invece un elenco di provvedimenti comportanti l’esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica e la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti usati per commettere il reato. Tuttavia, sia per la Convenzione che per la direttiva i due elenchi sono puramente indicativi e, come tali, non suscettibili di escludere misure diverse da quelle ivi contemplate.

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Sul punto v. A. Damato, Confisca e sequestro, in A. Damato, P. De Pasquale, N. Parisi (a cura di), Argomenti di diritto penale europeo, Torino, 20142, 275 ss. 114 Decisione quadro 2001/500/GAI, come in parte modificata dalla direttiva 2014/42/UE. 115 Decisione quadro 2005/212/GAI, come in parte modificata dalla direttiva ult. cit. 116 Decisione quadro 2003/577/GAI. 117 Decisione quadro 2006/783/GAI. 118 Art. 2.1. Il regolamento (CE) 1103/97 ha stabilito il tasso di conversione di 1 euro per un ECU. 119 Art. 2.2. 120 Artt. 2 e 3. 121 Art. 5. 122 Art. 5.2. 123 Art. 4.

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4.6. I connessi aspetti procedurali. Sebbene la base giuridica scelta non preveda il proprio impiego per l’adozione di misure di natura processuale penale, la direttiva interviene su questo terreno, disponendo anzitutto in tema di soluzione dei conflitti di giurisdizione. Il regime innova assai profondamente rispetto a quello posto dalla Convenzione PIF, la quale affianca al criterio della cittadinanza del presunto reo quelli del luogo di commissione (in tutto o in parte) della condotta e della presenza di questi sul territorio dello Stato124. La direttiva, da una parte, riduce la portata della disposizione poiché non contempla il terzo criterio125, ma, da un’altra parte, l’arricchisce poiché prevede la facoltà dello Stato membro (che nel caso deve informare la Commissione) di radicare la propria giurisdizione penale anche per reati commessi fuori dal proprio territorio quando ricorrano alcune situazioni di fatto o di diritto, quali: la residenza abituale dell’autore del reato ovvero la sua qualifica di funzionario che agisce nell’ambito delle proprie funzioni ufficiali; il vantaggio che la persona giuridica con sede nel territorio dello Stato ricava dalla condotta126. La direttiva infine vieta agli Stati membri di prevedere che l’esercizio della giurisdizione dipenda dalla condizione della querela della vittima o dalla denuncia dello Stato sul cui territorio il fatto è commesso127. Nei confronti dell’autore di reato che sia soggetto allo Statuto dei funzionari dell’Unione lo Stato membro stabilisce le regole per radicare la propria giurisdizione, anche decidendo di astenersi dall’applicarle o di applicarle solo in casi o a condizioni particolari128. Sempre sul piano processuale viene in considerazione la strumentazione ascrivibile alle forme di cooperazione giudiziaria penale. In questo caso la direttiva abbandona le soluzioni contemplate dalla Convenzione PIF, la quale detta una specifica disciplina in materia di estradizione (art. 5) e di mutua assistenza giudiziaria in campo penale (art. 6), qui invece del tutto assente. Ciò non deve stupire se si pone mente al fatto che la direttiva – a differenza della Convenzione del 1995 – interviene in un contesto normativo assai più articolato; contesto che in materia di cooperazione giudiziaria penale comprende decisioni quadro (esemplificativamente sul mandato d’arresto europeo e sull’ordine investigativo europeo) nonché norme convenzionali (quali quelle contenute nella Convenzione di mutua assistenza giudiziaria penale del 2000 e nella Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen) allora non ancora vigenti o non ancora parte del diritto dell’Unione. Quello che oggi si presenta entro l’Unione europea è un quadro che si avvantaggia altresì dell’operare di organi, organismi e agenzie dell’Unione stessa, istituiti in relazione all’esigenza di raccordare le autorità nazionali incaricate dell’applicazione della legge penale, reciprocamente e con le agenzie stesse. Conseguentemente la direttiva PIF, nell’esplicitare quanto dispone l’art. 325 TFUE, ribadisce l’obbligo di cooperazione fra Stati e Commissione, in particolare con quella articolazione di quest’ultima costituita dall’OLAF. Né è più necessaria nella direttiva una disciplina che contempli l’intervento della Corte di giustizia su rinvio pregiudiziale (ora oggetto del terzo Protocollo annesso alla Convenzione

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Art. Art. 126 Art. 127 Art. 128 Art. 125

11. 11.1, lett. a-b. 11.3, lett. a-c. 11.4. 11.2.

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PIF), dal momento che tale competenza si estende oggi integralmente a tutti i settori dello «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» grazie alla riforma attuata con il Trattato di Lisbona.

5. Luci e ombre della futura disciplina, anche alla luce delle prospettive aperte dal regolamento sulla Procura europea. La disciplina stabilita dalla direttiva PIF diventerà efficace all’atto dell’adeguamento ad essa di ciascuno degli Stati membri, che deve intervenire entro il 4 luglio 2019129. Fino a quella data resta vigente il regime determinato dalla Convenzione del 1995 e dai suoi Protocolli.

5.1. Sulla capacità armonizzatrice della direttiva. Ora, va anzitutto osservata la scarsa capacità di siffatto sistema convenzionale di produrre armonizzazione delle disposizioni nazionali e ravvicinamento degli ordinamenti degli Stati membri sul fronte della disciplina di contrasto alle condotte lesive degli interessi finanziari dell’Unione. Da ultimo, in modo autorevole si è detto che esso ha «istituito de facto un regime a più velocità, che sfocia in un mosaico di situazioni giuridiche differenti a seconda che essa abbia o meno forza di legge nello Stato membro considerato»130. La Commissione europea stessa non ha cessato a più riprese di rilevare come le priorità politiche di ciascuno Stato membro, le differenti qualificazioni nazionali delle espressioni tecnico-giuridiche ivi impiegate e la mancata armonizzazione sul fronte della prescrizione abbiano condizionato negativamente un’uniforme applicazione della Convenzione entro gli ordinamenti nazionali131. A questa situazione di frammentazione normativa occorre ascrivere l’aspettativa di cui è stata caricata l’approvazione della nuova direttiva che – pur non coraggiosa, come è reso manifesto se non altro e immediatamente dalla scelta della base giuridica132 – presenta taluni miglioramenti rispetto al vigente regime convenzionale, insieme a qualche arretramento. Sinteticamente richiamando per punti quanto sopra descritto: - un primo aspetto positivo è rappresentato dall’aver la direttiva qualificato la nozione di interessi finanziari dell’Unione (par. 4.1); - quanto all’ambito oggettivo di applicazione: si registra l’esplicito riferimento alle «spese riferite agli appalti» conseguendo così la direttiva l’obiettivo di veder sanzionate anche le condotte quando commesse nell’ambito di una procedura di appalto pubblico al fine di arrecare all’autore o a terzi un profitto, in danno degli interessi finanziari dell’Unione (par. 4.2.1); il reato di riciclaggio va qualificato alla luce dell’ultima direttiva e non più a quella del 1991, dunque con un più efficace contrasto alle condotte implicate (par. 4.2.2); la direttiva viene ad applicarsi anche alla fattispecie di appropriazione indebita (par. 4.2.4); ivi viene dettata una disciplina vincolante in tema di reati associativi (par. 4.2.5); di contro vi è un chiaro passo indietro in ordine all’ambito di applicazione della direttiva alle frodi IVA, le quali sono soggette alla Convenzione PIF indipendentemente dalla dimensione e dalla

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V. supra, nota 6. Conclusioni dell’Avvocato generale Yves Bot, cit., 24, nota 40. 131 Si rinvia, per semplicità, alla prassi puntualmente ed esaustivamente ricordata dal medesimo Avvocato generale, op. loc. cit., note 41 e 42. 132 Supra, par. 2. 130

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portata transnazionale mentre la direttiva si applica al di sopra di certe soglie di valore e solo a fattispecie contraddistinte dalla portata transnazionale (par. 4.1); - quanto all’ambito soggettivo di applicazione, la direttiva ha espunto qualsiasi precedente riferimento alla normativa in deroga per le figure appartenenti al potere esecutivo, legislativo, giudiziario, di qualsiasi livello territoriale o grado (par. 4.3.1), ed estende la qualifica di pubblico ufficiale anche a chi si veda assegnate o eserciti funzioni di pubblico servizio (par. 4.3.1); essa colpisce anche la condotta di tentata frode (par. 4.3.3); fonda la responsabilità delle persone giuridiche in termini più chiari e la estende all’ambito delle frodi fiscali (par. 4.3.2); - la direttiva dispone in tema di prescrizione, anche se con norme di non stringente armonizzazione: ciò peraltro consegue dalla base giuridica scelta che, come anticipato, consente un’armonizzazione soltanto minima (par. 4.4); - essa introduce un regime sanzionatorio a carico della persona fisica che si avvantaggia di una maggior efficacia derivante dall’aver stabilito un termine edittale minimo, nonché alcuni criteri oggettivi per distinguere fra condotta grave e condotta che tale non è, con ciò meglio indirizzando la scelta degli Stati in ordine all’individuazione delle condotte passibili di sanzioni penale o meno (par. 4.5); - il regime dei criteri di giurisdizione è assai più articolato rispetto al regime convenzionale, con ciò estendendo la capacità dello Stato di “raggiungere” più efficacemente il responsabile delle condotte di frode, ma introducendo il rischio di non pochi conflitti positivi di giurisdizione (par. 4.6), ai quali dovrebbe tuttavia poter ovviare il funzionamento della Procura europea (par. 5.2). Resta l’incognita determinata dai tempi e dalle modalità di adeguamento alla direttiva da parte di ciascuno Stato membro: l’efficacia della direttiva si gioca infatti in gran parte sulla puntualità dell’adempimento nazionale e sull’aderenza della disciplina interna all’intento di un seppur minimo ravvicinamento delle disposizioni nazionali consentito dalla base giuridica utilizzata dalla direttiva.

5.2. Sugli scenari che si aprono con la costituzione di una Procura europea. Fra le luci che l’adozione della direttiva consente di prefigurare è l’appartenere a un disegno più ampio: la sua approvazione ha, infatti, consentito di addivenire all’adozione del regolamento dell’Unione indirizzato a istituire una Procura europea, la quale deve concorrere alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione. Qualche accenno, pur brevissimo, al contesto in cui questi atti si situano appare necessario. Il Trattato di Lisbona si è fatto carico di raccogliere le sollecitazioni che da tempo sostenevano la pressante esigenza di provvedere alla creazione di un pubblico ministero europeo incaricato di ricercare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori o i complici di reati particolarmente gravi. Il dibattito dottrinale e istituzionale risale a un’iniziativa di studio avviata (ancora una volta era il 1995!) dal Direttore generale per il controllo finanziario della Commissione europea, indirizzata a valutare le modalità secondo le quali gli interessi finanziari dell’Organizzazione potessero essere meglio protetti dagli esiti di frodi e di altre attività illecite. Il conferimento all’Unione di una competenza di coordinamento degli Stati membri entro il Consiglio in materia penale, avvenuta con il Trattato di Maastricht, e la successiva presa d’atto della necessità di rivedere quest’ultimo per migliorare l’assetto dell’Unione (obiettivo conseguito con il Trattato di Amsterdam), avevano posto le premesse per un superamento delle modalità di tutela del bene giuridico «bilancio dell’Unione» tramite le sole tecniche dell’assimilazione e dell’adozione di sanzioni amministrative con atti comunitari. Lo studio, affidato a un gruppo di esperti coordinati da Mireille Delmas-Marty, fu compreso entro un Rapporto intitolato 433


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“Corpus Juris” portant dispositions pénales pour la protection des intêrets financiers de l’Union européenne133. Negli anni successivi si aprì un intenso dibattito sulle soluzioni proposte e sulle implicazioni di esse per gli ordinamenti degli allora quindici Stati membri134, con l’obiettivo di proporre un catalogo di princìpi fondamentali in materia di tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione, funzionali alla creazione di uno spazio europeo di giustizia penale, anche tramite l’istituzione di un pubblico ministero europeo, individuando la base giuridica a ciò necessaria135. Dal piano delle idee il dibattito si trasferì allora sul piano istituzionale: la Commissione – nell’ambito delle procedure di revisione dei Trattati comunitari – adottò un parere nel quale si suggerisce «di completare le disposizioni in vigore in materia di tutela degli interessi finanziari della Comunità stabilendo una base giuridica che istituisca un procuratore europeo e consenta l’adozione di norme in materia di azioni giudiziarie penali contro le frodi transnazionali»136. In questo documento, come in altri successivi137, il contrasto alle condotte suscettibili di ledere gli interessi finanziari dell’Unione coniuga strumenti giuridici europei e nazionali, tanto amministrativi che penalistici, con un punto di forza nell’istituzione di una procura europea. Dopo una serie di vicissitudini istituzionali138 la norma sulla Procura europea è stata accolta dal Trattato di Lisbona. L’art. 86 TFUE dispone che l’istituzione di essa avvenga «a partire da Eurojust»; ne prevede l’ambito delle competenze in prima battuta riconducibili al contrasto a condotte lesive degli interessi finanziari dell’Unione, ma estendibili a fatti di criminalità grave che presentino una dimensione transnazionale (parr. 1-2 e 4); devolvendo a una futura regola-

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Paris, 1997. M. Delmas Marty, J. A. E. Vervaele (eds.), La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les Etats membres, AntwerpGroningen-Oxford, 2000 e 2001, 4 voll. Lo studio fu ripubblicato aggiornato alle obiezioni, precisazioni e integrazioni emerse dal dibattito evocato nel testo: la versione italiana è in G. Grasso, R. Sicurella (eds.), Corpus Juris 2000. Un modello di tutela dei beni giuridici comunitari, Milano, 2003. 135 V. al proposito COM(2001) 715 def. 136 COM(2000) 34 del 26 gennaio 2000, punto 5b) poi completato da un Contributo complementare, tutto concentrato sull’introduzione di un procuratore europeo a difesa degli interessi finanziari europei (COM(2000) 608, del 29 settembre 2000). In adempimento del Piano d’azione 2001-2003 per la protezione degli interessi finanziari della Comunità europea (COM(2001) 358 del 28 giugno 2000) la Commissione propose una serie di misure specifiche, fra le quali il rilancio del dibattito sull’istituzione di un procuratore europeo (COM(2001) 254 def., punto 4.1); conseguentemente adottò un Libro verde sulla tutela penale degli interessi finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea (COM(2001) 715 dell’11 dicembre 2001), al quale seguì una consultazione pubblica i cui risultati sono stati raccolti nel Rapporto sulle reazioni al Libro verde relativo alla tutela penale degli interessi finanziari comunitari e alla creazione di una procura europea (COM(2003) 128 del 19 marzo 2003. 137 COM(2011) 293, punto 4. 138 Il Consiglio europeo nella sessione di Nizza (7-9 dicembre 2000), nell’avviare una nuova riforma del Trattato di Unione, trascurò la proposta, che venne invece ripresa nella sessione di Laeken (14-15 dicembre 2001) nell’occasione del conferimento del mandato alla Convention per l’elaborazione del Trattato “costituzionale”: la previsione circa l’istituzione di una Procura europea è contemplata nell’art. III-274 della versione del Trattato licenziata dalla Conferenza intergovernativa (la quale era assai più riduttiva rispetto al testo proposto dalla Convention, limitando le competenze della Procura alla sola protezione degli interessi finanziari dell’Unione). Alla battuta d’arresto conseguita agli esiti negativi degli appuntamenti referendari in Francia e nei Paesi Bassi (2005) seguì (il 23 giugno 2007) il conferimento alla Conferenza intergovernativa dei lavori di riforma dei Trattati di Unione e Comunità europee, con il mandato dettagliato e preciso di riprendere la parte essenziale delle riforme istituzionali approvate nel 2004, abbandonando ogni implicazione costituzionale anzitutto nella terminologia impiegata. 134

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mentazione le condizioni di esercizio delle sue funzioni, le regole procedurali applicabili alle sue attività, all’ammissibilità delle prove, al controllo giurisdizionale degli atti procedurali da essa adottati (par. 3). L’art. 86 TFUE rappresenta dunque solo la base giuridica per l’istituzione della Procura europea, la quale deve avvenire con regolamento dell’Unione. I compiti che il Trattato affida alla Procura s’inseriscono in una fase assai importante della vicenda processuale, quella investigativa e istruttoria, che si manifesta tramite l’individuazione, il perseguimento e il rinvio a giudizio degli autori di condotte illecite che pregiudicano gli interessi finanziari dell’Unione, nonché di chi istighi, favoreggi, concorra o soltanto tenti. A questi compiti si aggiunge quello (già ricordato) di esercitare l’azione penale in relazione a tali condotte davanti agli organi giurisdizionali nazionali139. Da tutto ciò discende la natura giudiziaria della Procura, che potrà esercitare le proprie competenze in modo indipendente tanto dalle istituzioni dell’Unione quanto dalle autorità nazionali. Le fattispecie di reato sono individuate dal Trattato in termini assai vaghi, rinviando appunto al regolamento la definizione di quali condotte siano suscettibili di connotarsi come reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione. Le questioni di qualificazioni sottese – come quelle di «interessi finanziari dell’Unione» e di condotte capaci di ledere tali interessi – sono state risolte dalla direttiva PIF, alla quale il regolamento rinvia. La proposta di regolamento era stata presentata dalla Commissione europea il 17 luglio 2013140; non avendo ottenuto l’unanimità dei venticinque Stati membri coinvolti nello spazio penale di libertà, sicurezza e giustizia141, dalle sue ceneri è scaturito un progetto di cooperazione rafforzata al quale partecipano venti Stati membri: il regolamento è stato approvato da Consiglio e Parlamento europeo il 12 ottobre 2017142. La Procura è uno degli strumenti messi a punto per conseguire l’obiettivo relativo alla costruzione dell’anzidetto spazio (art. 3.2 TUE): obiettivo che comporta l’esercizio di competenze concorrenti di Unione e Stati membri ai sensi dell’art. 4.2, lett. j, TFUE143.

139 Sull’utilità di siffatto ruolo v. COM(2011) 293, par. 4.3. Per un approccio dottrinale di ampio respiro sui diversi aspetti che attengono all’istituzione della Procura europea v., in una prospettiva de iure condendo, La protezione dei diritti fondamentali e procedurali. Dalle esperienze investigative dell’Olaf all’istituzione del procuratore europeo, Roma, Fondazione Lisli e Lelio Basso, 2014; e, in una prospettiva de iure condito, L. Salazar, Habemus EPPO! La lunga marcia della Procura europea, in AP, 2017, n. 3, 1 ss.; Id., Definitivamente approvato il regolamento istitutivo della Procura europea (EPPO), in Diritto penale contemporaneo, 13 ottobre 2017; A. Venegoni, M. Mini, I modi della nuova Procedura europea, in Giurisprudenza penale Web, 2017, 12. 140 COM(2013) 534 fin. 141 Secondo il TFUE, se la proposta della Commissione non ottiene l’unanimità dei consensi degli Stati membri in Consiglio i lavori vengono ivi sospesi e sul progetto di regolamento delibera (entro quattro mesi) il Consiglio europeo, il quale – se d’accordo – rinvia al Consiglio il progetto per la sua adozione. In caso di disaccordo almeno nove Stati membri (entro lo stesso termine, informandone Parlamento europeo, Consiglio e Commissione) possono avviare una cooperazione rafforzata: rispetto alla procedura stabilita in via generale per essa (art. 20 TUE; artt. 326334 TFUE), nel caso dell’istituzione della Procura europea (come nel caso di ipotesi in cui alcuni degli Stati membri utilizzino il cd. “freno di emergenza”: artt. 82.3, co. 2; 83.3, co. 2; 87.3, TFUE) l’articolata procedura per ottenere l’autorizzazione del Consiglio a procedere è sostituita dalla presunzione della sua concessione. 142 GUUE n. L 283 del 31 ottobre 2017. 143 In relazione a tale tipo di competenza il Protocollo n. 25 allegato ai Trattati precisa che «il campo di applicazione di questo esercizio di competenze copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione [volta a volta] in questione». Alla realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia contribuiscono anche taluni poteri d’a-

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Non si possono sottovalutare i pericoli che derivano per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione dall’istituzione di una Procura operativa per non tutti gli Stati membri: l’attuale frammentazione dello spazio europeo di repressione penale è, infatti, causa della scarsa efficacia di talune azioni europee di contrasto alla criminalità e, conseguentemente, a fondamento dell’esigenza di dotare l’Unione di un organo di tal fatta. Tuttavia lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia è già assai segmentato144. L’istituzione dunque di una Procura a seguito di cooperazione rafforzata, se è per certi versi un evento criticabile, non rappresenta la rottura di un contesto condiviso di cooperazione, e comunque dà vita a un importante strumento operativo, condiviso dalla gran parte degli Stati membri dell’Unione, funzionale al contrasto alle condotte di criminalità transnazionale che pregiudicano gli interessi finanziari dell’Unione. La creazione di un’autorità europea competente a perseguire i reati, quale è la Procura europea, potrebbe così contribuire a determinare l’applicazione di un trattamento paritario nei confronti dei responsabili delle condotte di frode agli interessi finanziari dell’Unione, applicando in modo coerente e omogeneo le norme contenute nella direttiva PIF, altresì indagando, perseguendo e consegnando alla giustizia gli autori di reati e i loro complici, risolvendo eventuali conflitti positivi di giurisdizione che la norma contenuta nella direttiva PIF tende a determinare145. La soluzione accolta dal Trattato di Lisbona fa proprie le motivazioni accolte nel Corpus juris e la ratio ad esso sottesa. Oggi tuttavia essa acquista ben altro potenziale, poiché sulla base delle riforma introdotta dallo stesso Trattato di Lisbona sono profondamente mutati il quadro istituzionale, le competenze e le modalità del loro esercizio anche quando incidenti in campo penale entro il quale la Procura è destinata a incardinarsi146.

zione ascrivibili al la tipologia delle competenze di coordinamento, di sostegno e completamento rispetto a quella degli Stati membri; questa tipologia di competenze non può essere indirizzata all’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali (art. 2.5 TFUE). Si tratta di competenze che (in relazione allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia) attengono alla cooperazione amministrativa tra i servizi competenti degli Stati membri e fra tali servizi e la Commissione (art. 6, lett. g, TUE e art. 74 TFUE) nonché al settore relativo alla prevenzione della criminalità (art. 84 TFUE). 144 Ai sensi dei Protocolli nn. da 19 a 22 e della Dichiarazione n. 56: Regno Unito, Irlanda vi partecipano secondo la formula di opting in (dichiarando, cioè, volta a volta, di voler partecipare all’adozione e all’applicazione di singole misure, ivi comprese quelle relative all’acquis di Schengen); la Danimarca ne è esclusa (opting out), conservando la facoltà di decidere se vincolarsi, nell’ambito dell’Unione su un piano intergovernativo, con gli altri Stati membri all’osservanza di singoli provvedimenti dell’acquis di Schengen. Anche l’efficacia della Carta di Nizza-Strasburgo (certamente fondamentale per la materia penale) é limitata per Regno Unito, Polonia (Protocollo n. 30 e Dichiarazioni nn. 61 e 62) e forse in futuro anche per la Repubblica Ceca (Conclusioni del Consiglio europeo del 29-30 ottobre 2009, DOC 15265/09 Concl 3). Infine il controllo della Corte di giustizia non si estende agli atti intervenuti in materia penale nel quadro dell’estinto terzo “pilastro” dell’Unione quando essi riguardino il Regno Unito anche dopo il chiudersi del periodo transitorio stabilito dal Trattato di Lisbona (30 novembre 2014). In relazione a tutti gli elementi di frammentazione che pregiudicano un efficiente spazio europeo di repressione penale v. COM(2011) 293 def., 4 ss. A tutto ciò si sovrappone il “processo Brexit”, per il quale v. N. Parisi, V. Petralia, Elementi di diritto dell’Unione europea. Un ente di governo pr Stati e individui, Mondadori Educational, 2016, “quartina” di aggiornamento (dicembre 2016). 145 Supra, par. 4.6. V. anche COM(2001) 293, punto 4.3. 146 D. Rinoldi, Il pilastro resistente. Contrasto al terrorismo e competenze dell’Unione europea in materia di “politica estera e di sicurezza comune”: “liste nere” e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in G. Grasso, L. Picotti, R. Sicurella (a cura di), L’evoluzione del diritto penale nei settori d’interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, Milano, 2011, 219 ss.

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