Il diritto penale della globalizzazione 3/2018

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4 • ottobre-dicembre 2018

Rivista trimestrale 4 • ottobre-dicembre 2018

Il diritto penale

globalizzazione della

Il diritto penale della globalizzazione

Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini

In evidenza: La corruzione tra realtà e rappresentazione Giovanni Tartaglia Polcini Proscioglimento in sede penale e danni civili in una giurisprudenza sulmonese. Circolazione nell’etere di foto di minori: confronto tra genitori danneggiati per carenza educativa e genitori danneggiati per violazione reputazionale Giuseppe Cassano Caso Cappato: il non liquet della Corte costituzionale. Al Parlamento ogni opportuna riflessione ed iniziative in materia di fine vita Domenica Loredana Novia Le SS.UU. penali sul tempus commissi delicti nel reato ad evento differito: le motivazioni della Corte Giulia Cicolella

ISSN 2532-8433



Indice In Evidenza A cura di Giovanni Tartaglia Polcini, Il secondo anno della Rivista “Il Diritto penale della globalizzazione”..................................................................................................................................p. 377

Editoriale A cura di Giorgio Malfatti

di

Monte Tretto, Il Brasile di Jair Bolsonaro......................................... » 379

Saggi Giuseppe Cassano, Proscioglimento in sede penale e danni civili in una giurisprudenza sulmonese. Circolazione nell’etere di foto di minori: genitori danneggiati per carenza educativa e genitori danneggiati per violazione reputazionale.......................................................................... » 381 Ali Abukar Hayo, Se sia configurabile il delitto di corruzione ex art. 318 c.p. nell’esercizio della funzione parlamentare........................................................................................................................ » 393 Giovanni Tartaglia Polcini, La corruzione tra realtà e rappresentazione: estratto dal volume a cura di Eurispes................................................................................................................................... » 405

Giurisprudenza Nazionale Sez. Un. Pen., 19 luglio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40986, con nota di Giulia Cicolella, Le SS.UU. penali sul tempus commissi delicti nel reato ad evento differito: le motivazioni della Corte............................................................................................................................................. » 411 Corte di Cassazione, 17 maggio 2018 (dep. 25 settembre 2018), n. 22689/2018, con nota di Andrea Racca, Simulazione del rapporto di lavoro e onere della prova, anche nei rapporti caratterizzati da apicalità.................................................................................................................. » 421

Internazionale Cass., sez. IV, 20 giugno 2018, n. 29515, con nota di Miriam Ferrara, La legittima difesa in Italia e in Sud Africa, due mondi non più così distanti................................................................................. » 425 CEDU sentenza n. 57278/11 del 27.09.2018, con nota di Antonio De Lucia, Perquisizioni: per la CEDU la normativa italiana risulta arbitraria ed inefficiente. CEDU n. 57278/11. 27.09.2018 Brazzi vs Italy. Caso Brazzi c. Italia. La legislazione nazionale deve prevedere adeguate garanzie contro abuso e arbitrarietà.................................................................................................. » 429

Osservatorio Normativo Loredana Novia, Caso Cappato, il non liquet della Corte costituzionale. Al Parlamento ogni opportuna riflessione ed iniziative in materia di fine vita................................................................. » 433

Internazionale Nikita Micieli de Biase, Rapporto UNESCO sulla sicurezza dei giornalisti ed il rischio di impunità: si conferma un allarmante trend di crescita di casi di uccisioni...................................................... » 439


Indice

Europeo Marilisa De Nigris, Italia condannata per mancata sospensione (o rinnovo) del regime del 41 bis a Bernardo Provenzano. Case of Provenzano vs Italy application n. 55080/13 25 ottobre 2018.... » 441

Nazionale Alessandro Parrotta, La riforma della legittima difesa....................................................................... » 445

Focus Jean Paul Pierini, The exercise of jurisdiction absent sovereignty and the “original legitimacy” of non-State jurisdictions......................................................................................................................... » 449

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In

evidenza

Il secondo anno della Rivista “Il Diritto penale della globalizzazione” Gentili Lettori, con il numero 4 del 2018 si conclude il secondo anno della Rivista “Il Diritto penale della Globalizzazione, la cui attività editoriale ha visto il susseguirsi di contributi forniti da tutti Voi nelle materie del diritto penale con focus sulla criminalità economica, terrorismo, diritti umani, mafie, riciclaggio in un ordinamento giuridico sempre più multilivello. Sono stati approfonditi gli argomenti dibattuti nei meccanismi multilaterali globali e nelle organizzazioni internazionali, nei Fora multilaterali, come G7, G20, GRECO, UNCAC, OCSE, OSCE, Global compact, OPG, ecc. Sono state, altresì affrontate in questi due anni le principali novità normative, le discussioni della dottrina e le discussioni della giurisprudenza italiana ed internazionale, in settori chiave del diritto globalizzato. Intendiamo, per gli anni a venire, avviare una vera e propria sistematizzazione di una materia giuridica di primaria importanza, che merita attenzione scientifica e professionale nuova ed approfondita. Nel numero in uscita segnaliamo pregevoli contributi ed argomenti di grande attualità: - il Caso Cappato “non liquet della Corte Costituzionale” sul tema bioetico; - il Rapporto UNESCO sulla sicurezza dei giornalisti ed il rischio di impunità, prevenzione e repressione; - la Condanna da parte della CEDU all’Italia per la mancata sospensione del regime del 41 bis o.p. a Bernardo Provenzano; - la Riforma della legittima difesa in ambito nazionale e la normativa vigente nei sistemi internazionali; - la Pronuncia delle SS.UU penali sul tempus commissi delicti nel reato evento differito; - la Simulazione del rapporto di lavoro e onere della prova; - le Perquisizioni con il caso Brazzi vs Italy; - la Corruzione nell’esercizio dell’attività parlamentare. Procederemo ad aggiornare il portale con cadenza settimanale grazie al contributo di chi vorrà proporre nuovi argomenti di discussione in linea con la nostra visione dell’ambiente socio-economico legalmente orientato in un ordinamento giuridico che aspira sempre più ad essere multilivello. Grazie a tutti coloro i quali, a vario titolo, hanno contribuito, fin dalla nascita alla redazione della presente Rivista Giovanni Tartaglia Polcini



Editoriale

Il Brasile di Jair Bolsonaro Il prossimo 1° gennaio 2019 Jair Bolsonaro diventerà il trentottesimo Presidente della Repubblica Federale del Brasile, lo Stato più grande e popolato del continente sudamericano. La sua vittoria elettorale anche se netta, con il 54% delle preferenze al ballottaggio, ha suscitato ampie discussioni. Bolsonaro, di origine italiana, ha sessantatré anni è un ex capitano dell’esercito e parlamentare dal 1991. Egli è una figura alquanto controversa per il suo linguaggio rude e le innumerevoli dichiarazioni, che hanno suscitato sdegnose critiche per i suoi teatrali commenti razzisti e omofobi. Le sue prese di posizione su diverse questioni sociali e politiche gli hanno in seguito portato il sostegno di milioni di brasiliani, ma hanno anche generato un’immagine negativa in altri settori della popolazione. Posizioni che sono sempre state chiare in una trentennale carriera parlamentare, in cui ha cambiato partito per otto volte e si è fatto notare più per lo stile non politicamente corretto e per le dichiarazioni sopra le righe che per l’attività legislativa. Prima delle elezioni presidenziali pochi lo conoscevano e soprattutto nessuno se lo immaginava come un leader. “Sono favorevole alla dittatura”, proclamò nel 1993 dal podio del Congresso Nazionale in difesa del regime militare che aveva governato il paese dagli anni Sessanta agli Ottanta, aggiungendo che “non risolveremo mai i gravi problemi nazionali con questa democrazia irresponsabile”. A quel tempo, Bolsonaro, al primo dei suoi sette mandati parlamentari, era un sostenitore del governo di Alberto Fujimori in Perù e chiedeva la chiusura del Congresso in quanto giudicava la democrazia non in grado di affrontare la corruzione e l’iperinflazione nel paese. Quando il Congresso votò nel 2016 l’“impeachment” contro l’allora Presidente, Dilma Rousseff, Bolsonaro dedicò il suo voto al colonnello Alberto Brilhante Ustra, un militare che nel corso della dittatura comandava un violento centro di detenzione dove la stessa Roussef venne torturata. Nel 2017, ha fatto un altro annuncio polemico e, in qualche modo, gratuito dichiarando che se fosse stato eletto alla presidenza avrebbe istituito delle riserve per i “quilombolas” perché ostacolano l’economia. Questi sono nuclei di cittadini rurali di origini africana che vivono, in piena armonia con la natura, in piccoli villaggi di capanne di fango (quilombo) in condizioni ben peggiori da quelle delle favelas. Una componente etnica minore e conosciuta fuori dal Brasile solo agli appassionati di National Geographic. Ciò ha provocato una denuncia contro di lui dinanzi alla Procura della Repubblica e una successiva condanna giudiziaria per danni morali a quelle comunità e alla popolazione nera in generale. In tema di diritti umani, Bolsonaro è favorevole all’applicazione della pena di morte e non contrario alla tortura. Proprio all’inizio della campagna elettorale ha avuto luogo una delle più grandi mobilitazione di donne nella storia del paese per dimostrare contro il machismo di Bolsonaro, con lo slogan “Ele Não” (Lui No). Poco dopo egli è stato pugnalato durante un evento nello Stato di Minas Gerais nel sud-est del paese, il suo attentatore dichiarandosi colpevole ha detto di aver agito “per ordine di Dio”. L’incidente gli ha impedito di terminare la campagna elettorale, ma gli ha creato una forte solidarietà umana e lo ha preservato dal rischioso confronto con gli avversari. Bolsonaro è risultato vincitore, oltre ogni aspettativa, sconfiggendo nelle urne il suo rivale Fernando Haddad, candidato dell’ultima ora del Partito dei Lavoratori (PT). Bolsonaro è sposato con una donna di origine africana, malgrado le sue invettive razziste; ha avuto tre matrimoni con mogli sempre molto più giovani di lui e ha sei figli. Di questi, due hanno seguito la carriera politica.


Editoriale

Per spiegare la vittoria di Bolsonaro alle elezioni occorre partire dal clima di indignazione popolare verso una classe politica giudicata corrotta, che ha pesantemente influenzato la scelta dei brasiliani. L’inchiesta “Lava Jato” (autolavaggio), nota anche come lo scandalo delle tangenti distribuite dalla compagnia statale Petrobrás e da quella privata di costruzioni Odebrecht, condotta dal Procuratore di Curitiba Sergio Moro, ha portato all’incriminazione per palese corruzione di una intera classe dirigente. Analogamente a quanto accaduto in Italia dopo Mani Pulite, i tradizionali partiti politici hanno di colpo perso ogni credibilità aprendo la strada della politica del paese ad esponenti anti establishment. A ciò vanno aggiunti ulteriori elementi. L’incapacità dei precedenti governi nell’affrontare una crisi economica causata dal crollo del prezzo delle materie prime, che ha impedito il completamento delle politiche assistenzialiste a favore delle classi più povere della popolazione. Il Brasile era riuscito con le sue politiche sociali a ridurre considerevolmente le diseguaglianze, la crisi ha fatto rientrare nella povertà chi ne era uscito e ha duramente colpito il potere di acquisto della classe media. L’aumento della violenza nel paese è stato esponenziale, i governi non hanno trovato il modo di arginare la crescita delle organizzazioni criminali, dello spaccio e del consumo della droga. Il Brasile è ormai il secondo maggiore consumatore di stupefacenti dopo gli Stati Uniti. Bolsonaro ha saputo, con parole rozze ma efficaci, guadagnarsi il consenso dei cittadini sui temi della sicurezza e della lotta alla corruzione godendo altresì del sostegno di milioni di cristiani evangelici, per la sua posizione radicale contro l’aborto e l’omosessualità e per l’intransigente difesa dei valori della famiglia, nonostante i suoi divorzi. Nel corso della campagna elettorale ha conquistato anche i voti degli imprenditori grazie alla proposta di sostenere il libero mercato e le imprese private. Egli è riuscito, pur tra le sue tante contraddizioni, a dare l’immagine dell’uomo forte, una figura sempre ritenuta indispensabile nei periodi di difficoltà di un paese. Bosonaro ha in definitiva promesso “Ordem e Progresso” (ordine e progresso), come è scritto sulla bandiera brasiliana. Va comunque sottolineato che non aveva avversari di rilevo, le inchieste giudiziarie gli avevano tolto il solo competitor che poteva sconfiggerlo, l’ex presidente Lula da Silva incarcerato ed inibito dall’esercizio della vita pubblica. La stampa internazionale ha iniziato a chiamarlo “il brasiliano Trump”, stabilendo alcuni paragoni con il Presidente degli Stati Uniti, o il “nuovo sovranista” latino americano. In realtà, Bolsonaro è certamente un esponente della destra radicale e in quanto al sovranismo la regione è storicamente la terra dei “caudillos”, ma la sua vittoria si inserisce nel contesto generale della crisi di tutti i partiti progressisti del continente. Le politiche basate sull’assistenzialismo a pioggia per ridurre le diseguaglianze se non sono supportate da una costante crescita economica hanno sempre finito nel continente con provocare una spesa pubblica non sostenibile, che ha causato la perdita di valore delle monete nazionali e l’aumento del costo della vita; il peronismo è l’esempio più lampante. Le elezioni svoltesi nel 2018 in vari paesi hanno visto la sconfitta, a parte in Messico, di tutti i governi di sinistra. Quelli rimasti al potere, come in particolare in Venezuela e Nicaragua, stanno affrontando gravi crisi economiche e di legittimità democratica. Si dice che un’affermazione di governi marcatamente conservatori rappresenti un rischio per le democrazie, ma ormai in America Latina la democrazia è un principio consolidato ed accettato, l’alternanza al potere è entrata nella vita dei paesi. Certo le derive autoritarie costituiscono sempre una minaccia ma non riguardano solo le destre del continente bensì anche le sinistre, come dimostrano i casi di Maduro e Noriega. Le derive autoritarie, come insegna la storia, non hanno mai avuto un unico colore. Giorgio Malfatti di Monte Tretto

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Giuseppe Cassano

Proscioglimento in sede penale e danni civili in una giurisprudenza sulmonese. Circolazione nell’etere di foto di minori: genitori danneggianti per carenza educativa e genitori danneggiati per violazione reputazionale Abstract The prejudice suffered due to the photo published on the social network following the transfer of the photo to a third party by telephone falls on both the child and the parents of her. According to a guideline of the court of Sulmona April 9, 2018, n. 103 the damage suffered by the child are attributable to the category of noneconomic damage under Art. 2059 cc as they affect a variety of interests related to the sphere of the person and therefore protected by art. 2 Cost. The damages suffered by the parents of the victim also and above all damage the reputation in relation to the social resonance in the environment of life and work of the parents, to which is added also a further financial damage and correlated to the non-economic damage. Il pregiudizio subito a causa della pubblicazione della foto osè sul sociale network a seguito della cessione della foto a terzi mediante dispositivo telefonico ricade sia sulla minore che sui genitori di lei. Secondo un orientamente del tribunale di Sulmona 9 aprile 2018, n. 103 i danni subiti dalla minore sono ascrivibili alla categoria dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. in quanto ledono una pluralità di interessi attinenti alla sfera della persona e dunque protetti dall’art. 2 Cost. (dal diritto alla riservatezza all’onore, all’immagine e persino all’inviolabilità della corrispondenza). I danni subiti dai genitori della vittima ledono anche e soprattutto la reputazione in relazione alla risonanza sociale nell’ambiente di vita e di lavoro dei genitori, cui si aggiunge anche un danno patrimoniale ulteriore e correlato a quello non patrimoniale.

Sommario: 1. La legge sul cyberbullismo. – 2. Il fatto. – 3. Danni in sede civile, senza interferenze penali. – 4. Il doppio volto della responsabilità civile: danno patrimoniale e non patrimoniale.


Giuseppe Cassano

1. La legge sul cyberbullisimo La L. n. 71 del 20171 ha creato vasti dibattiti sulla sua utilità2, al punto che secondo alcuni non dovrebbe nemmeno parlarsi di un’autentica legge, mancando il principio sanzionatorio che accompagna ogni norma imperativa. Di certo, qualsiasi fossero i propositi dei redattori, la legge ha inteso porre un punto fermo sulla configurazione dell’illecito al comma 2 dell’art 1 fornendone una definizione, che non si vede tuttavia come possa ritenersi vincolante a fronte della sua “difficile tipizzazione”, tanto da far ricorso nella norma a figure estranee al lessico giuridico3. In questo modulo operativo emerge in tutta la sua evidenza l’intento formatore di una disciplina cui è estranea la punizione come effetto della sua inosservanza, inerendovi come obbiettivo precipuo, se non assoluto, l’indicazione dei comportamenti da evitare. Siamo, insomma, al cospetto di una legge sui generis, alla luce delle aspettative che gravitavano attorno ad essa e delle soluzioni che potevano ottenersi nel complesso universo delle relazioni on line. Ed ecco come il cyberbullismo si sostanzi, ai sensi dell’indicato comma 2 dell’art. 1, in pressioni, aggressioni, molestie, ricatti, ingiurie, denigrazioni, diffamazioni, manipolazioni ed alterazioni di dati personali per via telematica, nonché nella diffusione di contenuti con oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore allo scopo di isolare lui o un gruppo di minori “ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”. Il limite della disciplina, come si è anticipato, è forse quello di aver circoscritto le sue elencate condotte negli esclusivi rapporti minorili, ultra-quattordicenni, e ciò nell’espresso intento di indirizzare gli appartenenti a quella delicata fascia adolescenziale verso un uso consapevole delle nuove tecnologie. Si tratta, del resto, di un intento e di un progetto già presenti nella L. 13 luglio 2015, n. 107; una normativa, quest’ultima, che aveva tra i propri obiettivi primari lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti. Il legislatore mostra quindi un particolare interesse acché i giovani siano addestrati ad un corretto utilizzo delle comunicazioni di massa che, proprio per la diffusività ed immediatezza delle notizie che recano, rischiano altrimenti di pregiudicare in maniera irreparabile la sfera personale di soggetti ignari del vortice divulgativo

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Per una prima lettura della normativa G. Cassano (a cura di), Stalking, atti persecutori, cyberbullismo e tutela dell’oblio. Prove – Tecniche investigative – Reati e processo – Danni – Strategie e modulistica extraprocessuale, Milano, 2017. 2 Si interroga al riguardo P. Russo, Contrasto al cyberbullismo: una legge utile?, in Quotidiano Giuridico, 6 marzo 2017, il quale della disciplina considera positivamente la natura “mite”, il suo carattere collaborativo tra più realtà istituzionali in vista di un’efficace prevenzione e contrasto del fenomeno, apprezzando infine la natura non repressiva, ma rieducativa della legge “che rafforza le procedure attivate dai servizi di giustizia minorile”. Decisamente contraria è invece la linea di pensiero di E. Bassoli, Contrasto al cyberbullismo, cit., ibidem, ove l’Autrice mette in risalto le lacune della legge, non destinata a colpire il fenomeno in tutte le sue espressioni, restando esclusi gli infra-quattordicenni, nonché escluse condotte materiali che si consumano giornalmente davanti e dentro le aule scolastiche (il riferimento, riteniamo, sia al bullismo in senso stretto). Sull’accentuazione della pericolosità indotta dalla mancata compresenza fisica di vittima e persecutore e sull’illusoria impunità di un anonimato che trarrebbe appunto origine dalla presunta non tracciabilità delle azioni vessatorie, si sofferma C. Grandi, “Il reato che non c’è”: le finalità preventive della legge l. 71 del 2017 e la rilevanza penale del cyberbullismo, in Studium iuris, n. 12/2017. 3 E. Bassoli, Contrasto al cyberbullismo, cit., la quale pone in risalto come il legislatore abbia messo assieme “reati vigenti, con condotte depenalizzate, con comportamenti metagiuridici, non codificati, come l’isolamento, od utilizzando terminologia inappropriata come il ‘ricatto’, forse meglio esprimibile con il lemma ‘estorsione’”.

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Proscioglimento in sede penale e danni civili in una giurisprudenza sulmonese

all’interno del quale gli stessi dovessero involontariamente venirsi a trovare (è il caso delle c.d. fake news). La lettura della L. n 71/2017, come delle norme, anche pregresse, che le fanno da corredo, “vedono” nella scuola l’istituzione principe dell’obbiettivo di cui si parla, nonché nel rapporto scuola-famiglia l’ulteriore tassello indispensabile al raggiungimento dello scopo. Il dettato normativo attribuisce, quindi, ad una pluralità di soggetti, compiti e responsabilità ben precisi. In tale quadro vi è dunque la scuola che è chiamata a realizzare azioni di controllo e di gestione del fenomeno, sotto l’egida del MIUR, in modo da contribuire alla formazione di personale specializzato, la inclusione di un referente per ogni autonomia scolastica, la promozione di un ruolo attivo degli studenti, oltre a misure di sostegno e di rieducazione4. Come si è anticipato, la legge Ferrara non estende la propria operatività né al bullismo, né ai maggiorenni. Quanto al primo profilo, potrebbe parlarsi di occasione perduta, nel senso che si tratta pur sempre di illeciti dai contenuti analoghi, sicché una loro congiunta sistemazione avrebbe consentito maggiore coerenza sul piano teorico e applicativo. Siamo qui al cospetto di situazioni, non di rado incontrollabili, indotte dal modernismo e dalla caduta delle barriere geografiche. In un’unica cornice avrebbero pertanto potuto confluire tutti gli illeciti resi possibili dall’odierno tecnicismo, dai vezzi che vi sono connessi e che fanno “tendenza”: tra i più inesperti un uso distorto del cellullare o del computer, specie da parte del capogruppo, diviene moda, ovvero genera influence e nessun dubbio v’è che gli influencers, cattivi maestri, oggi abbondino. Non a caso, era stata prevista la modifica dell’art. 612 bis c.p. sugli atti persecutori (c.d. stalking) per l’ipotesi che gli atti medesimi fossero stati compiuti a mezzo strumenti telematici, ovvero sostituendo la propria all’altrui persona ed, in definitiva, adottando contegni analoghi a quelli oggi previsti dal cit. comma 2 dell’art. 1 della L. n. 71/2017. Con la caduta di tale proposta, non ne ha guadagnato la chiarezza distintiva nel contesto dei vari modelli vessatori e tramite il ricorso al c. d. diritto mite, di natura meramente preventiva e didattica, non si è posto un argine alle derive pericolose nell’impiego delle comunicazioni di massa. Si è osservato come il cyberbullismo non possa prevedere fattispecie delittuose che sono già inserite nel nostro codice penale. L’obiezione non regge, anche alla luce dell’ampiezza del fenomeno e della sua pericolosità. Invero, una specifica prescrizione punitiva sarebbe forse pervenuta ai destinatari con quell’immediatezza che scoraggia quanti, dietro a un video o profittando di una presunta irriconoscibilità, intervengono “a gamba tesa” nell’altrui quotidiano. Alla gravità di un comportamento deve rispondere la severa attenzione dello Stato con misure sanzionatorie che siano ad essa consentanee. Ancora una volta, quindi, emerge l’insufficienza di una legge che, a parte gli aspetti amministrativi dell’ammonimento, nulla aggiunge a quelli che già dovrebbero essere i compiti e le interrelazioni nell’esclusivo interesse minorile che sempre spettano alla scuola e alla famiglia. Ma ciò non è tutto – e siamo qui al secondo dei considerati due aspetti –, visto che in quell’accentuata propulsione educativa rivolta agli studenti, ci si è dimenticati che il bullismo in ogni suo aspetto e quindi anche on-line ha come soggetti attivi pure gli adulti: i fatti di cronaca lo attestano.

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In tal senso si esprime il comma 2 dell’art. 4 della L. n. 71/2017.

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Giuseppe Cassano

Le conseguenze del bullismo sono comunque in grado di incidere pesantemente nella vita del diretto o della diretta interessata e così anche dei familiari. Questo è il caso affrontato dalla sentenza di Sulmona5.

2. Il fatto Nella primavera del 2012, Y invia a Z un’immagine in intimo. Z, differentemente da Y, è maggiorenne. Alla fine dell’estate dello stesso anno, Y invia a Z un’altra immagine che la ritrae mentre indossa soltanto un reggiseno, lasciando le parti intime scoperte. Quest’ultima immagine sembra essere stata scattata dietro insistente richiesta dello stesso Z, che rassicura la ragazza circa il fatto che nessun altro ne avrebbe preso visione. In seguito però, sembra che Z abbia inviato l’immagine tramite chat di Whatsapp a un suo amico, il quale l’avrebbe successivamente inviata a terzi. Non può tuttavia trascurarsi che, in quello stesso arco temporale, è la stessa Y ad inviare spontaneamente ad altri amici e conoscenti simili immagini, sia di nudo sia in intimo, in ogni caso di evidente natura erotica. Tali fotografie sono state poi trasmesse a loro volta ad altre persone. Anche in questo caso la cessione avviene tramite chat di Whatsapp e i destinatari sono per lo più ragazzi di Sulmona e di paesini limitrofi. In particolare, vengono individuati 11 ragazzi (allora minorenni) quali autori materiali della diffusione delle immagini. Questo meccanismo di condivisione a catena culmina nella decisione, a opera di una minorenne, di creare nel gennaio 2013 un apposito profilo Facebook a nome di Y, ma a insaputa di quest’ultima, con lo scopo di mettere in rete la suddetta immagine. Il finto profilo a nome della ragazza scompare dopo poche ore, ma Y nel frattempo ne viene a conoscenza. La notizia della pubblicazione della foto a nudo ha notevole risonanza anche sulla stampa. Y subisce un danno non patrimoniale rilevante. In seguito all’accaduto infatti, Y si chiude in casa, perde le proprie amicizie, ha delle ricadute sul rendimento scolastico, diventa destinataria di offese a scuola e per strada, nonché sul suo profilo Facebook. Y riporta inoltre una evidente sintomatologia depressiva: perde il sonno, ha continue crisi di pianto e per tale motivo viene infine sottoposta ad un aiuto piscologico. I genitori di Y procedono per via legale sia per conto proprio sia per conto della figlia Y. Chiedono il risarcimento del danno morale, psichico ed esistenziale patito dalla figlia nonché del danno patito da loro stessi, chiedendone la condanna in solido a carico: – dei genitori dei minorenni coinvolti ex art. 2048 cc; – di Z ex art. 2043 cc., oltre che di altro tizio maggiorenne coinvolto, sempre ex art. 2043 cc. I convenuti contestano in fatto e in diritto la fondatezza della domanda, sostenendo, in sintesi, che era stata Y a diffondere sconsideratamente te sue foto a nudo, oltre a contestare la quantificazione dell’ammontare del danno patito dalla ragazza e dai suoi genitori. Per ciò che concerne il merito, il giudice ritiene che il fatto che la stessa Y si sia adoperata a condividere con diversi coetanei molteplici immagini intime e dunque a diffondere le stesse,

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Tribunale di Sulmona, sez. civile, sentenza 9 aprile 2018, n. 103, in Quotidiano Giuridico, 18 aprile 2018 http:// www.quotidianogiuridico.it/documents/2018/04/12/cyberbullismo-i-genitori-dei-cyberbulli-risarciscono-il-dannoda-carenza-educativa.

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Proscioglimento in sede penale e danni civili in una giurisprudenza sulmonese

risulta decisivo al fine di apprezzare la concreta portata offensiva delle singole cessioni poste in essere dagli allora minorenni, nonché al fine di escludere la prova di un concreto coinvolgimento di Z nella vicenda diffusiva della immagine della giovane ragazza senza veli. Sotto quest’ultimo profilo, sulla posizione di Z, occorre sin da subito notare come alcuno dei verbali di sommarie informazioni acquisiti nel corso del procedimento penale e, parimenti, alcuna delle testimonianze rese nel processo civile abbia confermato la divulgazione o la cessione dell’immagine posseduta dal Z in favore di terzi, né può dirsi suffragato l’assunto che il Z abbia carpito la foto con modalità costrittive nei confronti della ragazza: tanto è vero che la medesima ragazza aveva, come detto, pure inviato spontaneamente foto a nudo ad altri coetanei, oltre che alcune immagini in intimo trasmesse a svariati amici o amiche, con la conseguenza che l’ipotesi che anche se Z avesse ottenuto la foto per volontà libera della ragazza, risulta assunto più che plausibile, nemmeno avversato da un qualsivoglia riscontro testimoniale versato in atti. Inoltre, che la diffusione possa essere avvenuta per mano di altro soggetto costituisce alternativa parimenti plausibile in ragione della disponibilità, per volontà della stessa ragazza, delle foto a nudo in capo ad altri coetanei, facendo dunque svilire la tesi di una responsabilità e di un coinvolgimento del B. nella fase divulgativa dell’immagine. Assumono invece rilevanza illecita in sede civile le condotte dei minorenni autori della diffusione, sebbene in modo limitato. Infatti, la diffusione dell’immagine a opera dei minorenni si colloca nel periodo delle festività natalizie, fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. Ma in quel periodo, risulta che la foto fosse già ampiamente diffusa tra i ragazzi dell’area (proprio per l’invio della foto a opera della stessa Y): risulta, infatti, che già nel mese di ottobre 2012 la giovane Y era stata vista piangere durante un’assemblea di classe proprio in ragione della diffusione che stava prendendo l’immagine a nudo inviata. Nel mese di novembre risulta che i genitori della ragazza, proprio per la diffusione che la foto aveva assunto, venutine a conoscenza, si stavano adoperando per impedirne la sua ulteriore diffusione e trasmissione. Dunque, la conoscenza tra i coetanei della immagine nuda di Y era già ampiamente condivisa alla fine del mese di dicembre 2012, motivo per cui le cessioni poste in essere dai minorenni vengono ad inserirsi in un contesto in cui la ragazza aveva già percepito un sensibile danno alla sua reputazione, all’onore, oltre che alla sua riservatezza. Difetta dunque il nesso causale tra quel danno, già verificatosi alla persona della giovanissima ragazza, e le singole cessioni della immagine compiute in prossimità degli ultimi giorni del mese di dicembre 2012. Ciò nondimeno, però, la loro condotta non può qualificarsi del tutto lecita e priva di portata offensiva, in quanto, nonostante quanto sinora argomentato, si è concretizzata in un’attività di cessione e trasmissione della foto, arrecando in tal modo un pregiudizio aggiuntivo alla personalità della ragazza, certo marginale rispetto a quella lesione già patita sino a quel momento, ma purtuttavia esistente e apprezzabile. Infatti, che la ragazza abbia mandato lei stessa la foto in favore di alcuni ragazzi per richiesta degli stessi, per sua spontanea iniziativa, per vanità o per altra ragione, non abilita i destinatari di quella foto (oppure ugualmente coloro che ne sono venuti indirettamente in possesso) a cederla in favore di altri soggetti che l’autore della foto non ha abilitato alla consultazione e alla detenzione dell’immagine. Di conseguenza, il giudice – in relazione al danno subito da Y – decide dunque di: – condannare i genitori dei minorenni che hanno diffuso la foto a persone che non la possedevano al pagamento di un risarcimento pari a 2000 euro per ogni singola cessione; – condannare i genitori dei minorenni che hanno diffuso la foto a persone che già la possedevano al pagamento di un risarcimento pari a 1000 euro per ogni singola cessione;

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Giuseppe Cassano

– condannare i genitori della minorenne che ha condiviso la foto su Facebook al pagamento della somma di 35000 euro, considerando che la condotta ha generato un’ulteriore sensibile lesione ai diritti della personalità della ragazza, soprattutto vista la potenzialità offensiva del mezzo di diffusione. Quanto ai genitori della giovane – considerata l’effettiva minore offensività degli illeciti integrati delle singole cessioni –, nulla può essere riconosciuto ai genitori per le singole condotte poste in essere dagli allora minorenni, in difetto di un’efficienza causale rispetto allo screditamento della figlia già verificatosi al mese di dicembre 2012. Diversamente per quanto sostenuto per le cessioni singole della foto mediante il dispositivo Whatsapp, la condotta della pubblicazione sul social network si deve ritenere in concreto offensiva anche della reputazione dei genitori della minore Y. Ed infatti, la sconsiderata scelta di postare l’immagine della figlia su un social network di larghissima utilizzazione ha determinato un tale risalto sulla stampa locale e nell’ambiente di vita e di lavoro della coppia per cui la divulgazione della foto della figlia si è ripercossa anche sulla reputazione e sull’onore dei genitori.

3. Danni in sede civile, senza interferenze penali L’azione risarcitoria non sarebbe fondata, secondo la difesa dei convenuti, su una causa petendi chiaramente evincibile dal tenore della citazione e delle successive difese. Parte attrice avrebbe infatti confuso la colpa dei predetti genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c., con quella della prole ex art. 2043 c.c., sì che gli stessi, per un verso, sarebbero stati chiamati in causa nella mera posizione processuale di legali rappresentanti dei loro figli quali autori degli illeciti, contro cui le domande dovevano dunque intendersi proposte e, per l’altro, in via sostanziale, a dar conto della loro asserita culpa in vigilando et in educando. Una duplicità non componibile, vista la discrasia che si sarebbe così stabilita sul piano dell’individuazione dei soggetti evocati a contraddire e quindi del riconoscimento delle reali parti in causa. Alla fine: quali sub specie i soggetti destinatari delle istanze risarcitorie, i cyberbulli o i loro genitori? Ed ancor prima, quale il fondamento delle richieste azionate dal padre e dalla madre della giovane vittima, quello che si richiama alla omissione dell’ufficio parentale, ovvero alla condotta materiale dei minori macchiatisi dei fatti per cui è causa? L’eccezione però non coglie nel segno, nel senso che il giudice, ponendo in evidenza l’equivoco che vi è presupposto, osserva come la domanda risarcitoria attinga ab initio la propria ragion d’essere dalla responsabilità ex art. 2048 c.c. dei convenuti, un dato non contraddetto né dal riferimento alla legale rappresentanza svolta da costoro a favore dei figli macchiatisi di condotte da cyberbulli, né dallo svolgimento di una linea difensiva tesa a dimostrarne le omissioni di controllo e di una giusta educazione da riservare alla prole. Del resto, la declaratoria di responsabilità ai sensi del cit. art. 2048, comma 1, ha come prerequisito l’accadimento di un evento dannoso addebitale a minori imputabili, che dello stesso si siano resi autori per effetto della mancata vigilanza da parte dei soggetti ivi elencati. Pertanto, mentre nulla è esigibile nei riguardi di questi ultimi qualora non emergano responsabilità a carico dei minori, è altrettanto chiaro come qualsiasi attribuzione colposa ex art. 2048 c.c. abbia come antecedente logico e giuridico un illecito commesso dai minori de quibus sfuggiti al loro controllo. Risulta, in conclusione, ovvio che ai convenuti, chiamati a dar conto della loro mancata vigilanza sui figli infra-diciottenni, venga conferita la qualifica “di esercenti la

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potestà genitoriale quale presupposto fattuale della loro citazione e della loro responsabilità ex art. 2048 c.c., ancorata, appunto, alla titolarità della potestà genitoriale”6. Alla fine, parti in causa sono non i cyberbulli, ma unicamente i loro genitori, i quali sono stati convenuti non a semplice titolo di loro rappresentanti legali, ma per rispondere, nei termini che si sono visti, dei danni arrecati agli attori. Da tanto deriva che, in ipotesi di domanda fin dalla citazione formulata ex art. 2048 c.c. e così ripresa nelle difese finali dei danneggiati, il contraddittorio non debba ritenersi esteso nei confronti della prole, autrice materiale dell’illecito7, sicché il compimento della maggiore età ad opera dei ragazzi coinvolti nella vicenda non comporta l’interruzione del giudizio, non avendo appunto un tale evento riguardato gli stessi ragazzi come parti in causa8. Altro profilo affrontato in sentenza ha riguardato l’interferenza, vincolante secondo la difesa dei convenuti, tra il proscioglimento ottenuto dai cyberbulli davanti al competente tribunale per i minorenni ed il successivo giudizio per danni. A bloccare il vincolo soccorre innanzitutto la corretta lettura degli artt. 651 bis e 652 c.p.p., invocati dalla predetta difesa ma che attengono ad assoluzioni dibattimentali, laddove il non luogo a procedere è invece qui intervenuto a conclusione dell’udienza preliminare. Tale inconfutabile circostanza si lega a quanto fissato dal comma 2 dell’art. 10 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, per il quale la sentenza resa nel procedimento penale avviato a carico di minorenni non acquista mai efficacia di giudicato in vista della lite risarcitoria/restitutoria che l’offeso intenda radicare. Il che ostacola, anche sotto questo profilo, qualsiasi nodo con cui stringere l’iniziativa civilistica che si volesse in seguito intraprendere contro l’imputato, pur prosciolto, visto che è appunto quell’efficacia a valere quale presupposto applicativo degli artt. 651 bis e 652 c.p.p. Ma vi è di più. Il tribunale osserva, infatti, come l’assoluzione che in sede civilistica si pretendesse di opporre a mente della prima delle citate disposizioni (l’art. 651 bis) vale solo in ipotesi di particolare tenuità del fatto, una tenuità che non ricorre allorché il soggetto passivo del reato sia un minore o una minore come nel caso de quo. Nelle altre situazioni - ove cioè non sia coinvolto un minore - la “particolare tenuità” va accertata tramite un pur sintetico giudizio, che cada sulla fattispecie nella sua concretezza, e tenga conto dell’esiguità del danno o del pericolo, dell’occasionalità della condotta, del minore grado di colpevolezza e dell’eventuale pregiudizio sociale che all’imputato deriverebbe dalla condanna9. Ad inibire il vincolo interviene poi di nuovo il chiaro tenore dell’art. 10 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, questa volta del suo comma 1 che va letto unitamente alla parte finale del comma 1 dell’art. 652 c.p.p. Orbene, dalla lettura combinata delle due norme si ricava che l’accertamento assolutorio cui si riferisce la seconda disposizione – circa la non sussistenza

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Cfr. punto 5 della sentenza. Come potrebbe invece essere se, quanti onerati della responsabilità ex art. 2048, fossero nel contempo ed in maniera espressa citati, oltre che in proprio, in nome e per conto dei soggetti sotto il loro controllo. 8 Cfr. punto 6 della sentenza. 9 Cass. Pen., Sez. V, 26 gennaio 2018, n. 3784, ud. 28 novembre 2017, secondo la quale se la dichiarazione di particolare tenuità “intervenga in assenza di qualsivoglia attività istruttoria, al mancato accertamento del fatto consegue la preclusione di efficacia della pronuncia ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen. e, quindi, l’interesse della parte civile all’impugnazione del provvedimento”. 7

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del fatto, o che questo non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o l’ha commesso nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima – fa stato allorché il danneggiato, per quanto ora rileva, abbia potuto costituirsi parte civile; cosa che sub specie è tecnicamente da escludere, visto che, proprio ai sensi del cit. comma 1 dell’art. 10, d.P.R. n. 448/1988, “nel procedimento penale davanti al tribunale per i minorenni non è ammesso l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato”. Stante l’assenza di qualsiasi vincolo, è consentito al giudice civile di valutare gli stessi fatti già esaminati in sede penale al fine di trarne elementi indicatori circa la responsabilità civile degli imputati dedotta da parte attrice, ossia dai genitori della vittima anche a nome di quest’ultima. Trovandoci, in definitiva, al di fuori dell’operatività degli artt. 651 bis e 652 c.p.p., oltre che dell’art. 654 c.p.p., entra in auge il principio di autonomia e separatezza del procedimento civile rispetto a quello penale, ove l’un termine (autonomia) attiene al profilo sostanziale della diversità di giudizio assumibile nel primo dei citati ambiti processuali, mentre l’altro (separatezza) riguarda l’iter all’interno del quale il giudizio medesimo è in grado di formarsi. Ad una simile conclusione si perviene considerando che il vigente codice di rito penale, del 1988, non ha riprodotto il pregresso art. 3. Si tratta di una riforma con la quale si è, appunto, optato per una tendenziale indipendenza dei due procedimenti10. Come ha inteso sottolineare la S.C., è stata dunque apportata una profonda innovazione rispetto al vecchio sistema, fondato sul primato del processo penale in confronto a quello civile11. La regola esclude l’obbligo per il giudice civile di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale, pur esulandovi la possibilità di una totale omessa considerazione delle argomentazioni difensive che, relativamente all’unica e medesima vicenda, si richiamino agli accertamenti acquisiti in sede penale o alle motivazioni della relativa sentenza12. Orbene, la piana lettura delle citate disposizioni (651 bis e 652 c.p.p.) suggerisce come la irrevocabile ricostruzione in sede penale del “fatto” condizioni (o continui a condizionare) il giudice civile sul punto della sua sussistenza, della sua illiceità penale e della partecipazione ad esso dell’imputato, nonché, ai sensi e per gli effetti dell’art. 652 c.p., quanto al tema dell’adempimento di un dovere o dell’esercizio di una facoltà legittima invocabili dall’imputato che se ne fosse reso autore. Il principio base è, dunque, che l’indicata autonomia non opera sul piano storico-circostanziale definitivamente comprovato a carico o a favore del soggetto chiamato a darne conto e ciò secondo le linee fissate dai ricordati due articoli: all’infuori di esse, il procedimento civile non patisce alcun tipo di dipendenza e deve, pertanto, estendersi all’intera pretesa risarcitoria e/o restitutoria azionata, in ordine sia al fondamento della stessa sia all’eventuale determinazione dell’ammontare del quantum13. Egualmente, non opera alcun vincolo quando l’assoluzione dal reato contestato sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione

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Cass. 4 aprile 2017, n. 8653, ord. Cass., Sez. I, 22 giugno 2017, n. 15470, ord., in CED, rv. 644464-01. 12 Cass., Sez. III, 29 gennaio 2016, n. 1665, in CED, rv. 638323-0. La S.C. pone in risalto penale attinente alla stessa vicenda oggetto di cognizione nel processo civile. 13 Cass. Pen., Sez. I, 30 gennaio 2013, n. 11994, in CED, rv. 255447. 11

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del fatto o la sua addebitabilità all’imputato, ossia allorché l’assoluzione sia stata pronunziata a mente del comma 2 dell’art. 530 c.p.p.14 Si avrà così che il buon esito del ricorso contro una sentenza di proscioglimento proposto da una sola delle parti civili non determinerà in sede di rinvio l’estensione del corrispondente giudizio alle domande dei non ricorrenti, producendosi con la mancata impugnazione di costoro l’acquiescenza circa il citato proscioglimento15. Ulteriore corollario è la non ipotizzabilità, in capo alla parte civile, dell’interesse a ricorrere nei riguardi di una sentenza che abbia assolto l’imputato perché “il fatto non costituisce reato”; una formula che, comportando nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno un accertamento sfornito ex art. 652 c.p.p. di efficacia di giudicato, non provoca alcuno sbarramento decisionale16. Per gravare un provvedimento bisogna del resto avervi un interesse, non solo attuale, ma anche concreto, sia che si tratti della parte civile17, sia del pubblico ministero18. Per conseguenza, identico difetto si riscontra in caso di assoluzione dell’imputato ex art. 651 bis c.p.p., implicando detta assoluzione l’accertamento irrevocabile della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato medesimo. Da qui (repetita iuvant), l’inammissibilità, per carenza di interesse, di un’autonoma impugnazione della parte civile, non scorgendosi quali effetti più vantaggiosi potrebbe quest’ultima conseguire rispetto a quelli già ottenuti con un simile verdetto19. La casistica ci offre la vicenda di un’imputata di omicidio colposo da sinistro stradale e prosciolta ai sensi del comma 2 dell’art. 530 c.p.p. per insufficienza di prove sull’elemento soggettivo della colpa: la S.C. ha rilevato che, mentre in sede penale il dubbio non consente di vincere la presunzione di innocenza, nel civile lo stesso dubbio rafforza la presunzione di responsabilità ai sensi dell’art. 2054 c.c.20 Inoltre, a proposito di due medici, ritenuti esenti da ogni debenza risarcitoria sul presupposto della loro irrevocabile assoluzione dal reato di lesioni personali, la S.C. ha cassato il decisum del giudice civile, ritenendo che questi col suo decisum non avesse valutato il contegno dei professionisti, né quanto alla lesione, lamenta-

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Cass., Sez. III, 11 marzo 2016, n. 4764, in CED, rv. 639372-01, che – resa in conformità al precedente Cass. 30 ottobre 2007, n. 22883 – sul punto così conclude: “l’accertamento contenuto in una sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata perché il fatto non costituisce reato non ha efficacia di giudicato, ai sensi dell’articolo 652 c.p.p., nel giudizio civile di danno, nel quale, in tal caso, compete al giudice il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate dall’esito del processo penale”. 15 Cass. Pen., Sez. I, 28 maggio 2016, n. 50426, in CED, rv. 269183: a significazione dell’autonoma valenza ed incidenza che posseggono le iniziative e gli accertamenti a tutela degli interessi di natura risarcitoria e restitutoria. 16 Così Cass. Pen., Sez. III, 15 marzo 2017, n. 24589, in CED, rv. 270053. 17 Cass. Pen., Sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10309, in CED, rv. 259506. 18 Cass. Pen., Sez. II, 14 luglio 2015, n. 32655, in CED, rv. 264526: “Nel procedimento incidentale cautelare, deve ritenersi concreto ed attuale l’interesse del p.m. a ricorrere per cassazione avverse l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame, pur confermando il provvedimento applicativo della custodia cautelare in carcere, abbia escluso una circostanza aggravante ad effetto speciale (nella specie, l’impiego del c.d. metodo mafioso, ex art. 7 L. 203 del 1991), quando dal riconoscimento della predetta circostanza possa conseguire l’applicazione di termini di durata della misura maggiori”. 19 Cass. Pen., Sez. V, 28 giugno 2017, n. 38762, in CED, rv. 270925. 20 Cass. Pen., Sez. III, 30 marzo 2016, n. 41462, in CED, rv. 267976.

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ta dal paziente, del diritto ad esprimere il consenso informato al trattamento praticatogli, né quanto alla mancata disinfezione della camera operatoria individuata come causa del danno alla salute dedotto in causa21.

4. Il doppio volto della responsabilità civile: danno patrimoniale e non patrimoniale Sul piano materiale dei fatti concretamente accertati, il Tribunale elabora un percorso motivazionale che distingue tra spontanea trasmissione, da parte della giovane, della propria immagine a nudo (circostanza su cui la difesa dei convenuti puntava per evidenziarne il carattere “disinibito”), e messa in circolazione dell’immagine medesima senza l’autorizzazione dell’interessata. Un requisito necessario, l’assenso, la cui mancanza riduce senz’altro in offensiva la condotta di quanti, pur con modalità ed intensità differenti, si sono resi autori della divulgazione. Un conto è, infatti, l’avventato accordo o iniziativa di inviare a conoscenti una o più foto, via via più “spinte”, altro è che poi le stesse vengano fatte girare, rendendole, all’insaputa dell’adolescente, di pubblico dominio. La lesività riguarda dunque innanzitutto chi ha esposto la giovane ad apprezzamenti e curiosità sulla sua intimità, inducendole senso di vergogna con profonda prostrazione e, quindi, un grave nocumento alla sfera psicologica, accompagnato da crisi di pianto anche tra i compagni di classe. La situazione è per lei precipitata una volta che, appunto, è venuta a conoscenza che la sua immagine senza veli era visibile sui cellullari all’interno di una cerchia sempre più ampia, fino a terminare su Facebook potendo così essere additata per strada ed a scuola dalla morbosa curiosità delle persone. Gli aspetti colposi hanno dunque riguardato l’esposizione a nudo della fanciulla in un ambito ristretto e provinciale come quello scolastico e cittadino, senza che a lei fosse in proposito offerto alcun diritto di controllo. Ed ecco prendere corpo e sostanza la lesione di interessi “costituzionalmente rilevanti e protetti dall’art. 2 della Costituzione”, con il conseguente obbligo risarcitorio del danno non patrimoniale a carico degli autori delle menzionate divulgazioni, tenuto conto del principio di effettività e dunque della reale partecipazione (o porzione partecipativa) dei convenuti al prodotto nocumento, nel senso che ai predetti “non può ascriversi il maggior pregiudizio già verificatosi indipendentemente da una loro attivazione” (v. punto 8 della sentenza). Da qui, la graduazione degli addebiti e delle imposizioni economiche che va dalla costruzione del falso profilo social come condotta di maggior spessore sanzionatorio, alla trasmissione, quale ipotesi meno responsabilizzante, della fotografia sul cellulare di chi ne era già in possesso, passando, come fattispecie mediana, alla vera e propria divulgazione, ossia alla propagazione dell’immagine a nuovi soggetti. La caratura giuridica della vicenda ha messo in campo la già considerata responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 2048 c.c., per mancata vigilanza ed educazione dei minorenni, autori

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Cass., Sez. III, 21 aprile 2016, n. 8035, in CED, rv. 639501-01, secondo la cui massima ufficiale “In materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato secondo la formula “perché il fatto non sussiste” non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all’affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità di materiale”.

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dei vari illeciti appurati e ciò nel solco del suindicato principio proporzionale. Il giudice segue al riguardo la giurisprudenza consolidatasi: la parentale è un’omissione per fatto proprio22, mentre la prova liberatoria fissata dal comma 3 del medesimo art. 2048 non può essere raggiunta, secondo il tenore letterale della norma, dimostrando “di non aver potuto impedire il fatto”, bensì d’essersi impegnati, oltre che nel controllo della condotta minorile, nell’osservanza dei doveri a loro incarico fissati dall’art. 147 c.c.23 Si è così ritenuto che i genitori vadano onerati della prova positiva di aver impartito alla prole le giuste nozioni del corretto vivere le relazioni sociali24.

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Un breve cenno al tipo di responsabilità parentale ex art. 2048 c.c. porta a considerarla di natura diretta, peraltro presunta, e ciò secondo l’orientamento maggioritario, ormai impostosi in giurisprudenza dopo una parziale difformità (Cass. 13 marzo 1967, n. 734, in Resp. civ. prev, 1967, 562, nonché Cass. 15 ottobre 1973, n. 2595, in Mass. Giur. it., 1973, 900, sono l’espressione di quell’iniziale indirizzo, non uniforme, affermativo di una responsabilità indiretta). Attualmente, la giurisprudenza appare interamente schierata a favore della responsabilità diretta, per fatto proprio, dei genitori, la quale, quindi, ben può concorrere con quella del minore, autore materiale del fatto, nel caso in cui da parte dei genitori non si riesca a fornire la prova liberatoria di cui al comma 3 dell’art. 2048 c.c.: Trib. Bolzano 18 gennaio 2001, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 732. In quest’ultimo caso, deriverebbe l’azionabilità ad opera del genitore della domanda di regresso ex art. 2055 c.c. nei confronti del figlio, che ha prodotto il danno: Trib. Roma 28 maggio 1987, in Riv. giur. circol. trasp. 1988, 635. A nostro giudizio, una tale conclusione, oltre che contraddittoria, pare non allinearsi con la teoria della responsabilità diretta: se il genitore è stato condannato per un fatto proprio (la mancata vigilanza sul piano educativo e comportamentale del figlio), come può questi (il figlio), nel rapporto interno col genitore medesimo, essere a sua volta condannato a rimborsargli anche in quota l’importo pagato al danneggiato? La colpa parentale a noi pare assorbente e non sussumibile in termini concorsuali, vigendo in via di logica una sorta di alternatività. In sede di legittimità, ravvisano la responsabilità diretta: Cass., Sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322, in Arch. ex art. giur. circol. e sinistri, 2006, 5, 511; Cass., Sez. III, 28 marzo 2001, n. 4481, in questa Rivista, 2001, 498; Cass., Sez. III, 9 ottobre 1997, n. 9815, in Mass. Foro it., 1997. In quest’ultima si sottolinea come, per configurare un’ipotesi di responsabilità parentale, non sia sufficiente la semplice commissione dell’illecito da parte del figlio, bensì che debba ricorrere una condotta, commissiva o, di regola, soltanto omissiva, direttamente ascrivibile ai genitori medesimi; una condotta che si concreti nella violazione dei precetti di cui all’art. 147 c.c. Per la responsabilità diretta dei genitori in materia di sanzioni amministrative, v. Cass., Sez. I, 22 gennaio 1999, n. 572, sul cui argomento cfr., altresì, G. Cassano, La responsabilità civile, Milano, 2012, 295. L’orientamento circa la diretta responsabilità ex art. 2048 c.c. è avvalorato, pur se non uniformemente, dalla dottrina che non ritiene l’esistenza nel nostro ordinamento di ipotesi di responsabilità indiretta o per fatto altrui (sostiene l’insussistenza di un tal tipo di responsabilità: S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 156 ss.; G. Alpa, Trattato di diritto civile, IV, Milano, 667 ss. e ciò a differenza di quanto a suo tempo sostenuto da A. Torrente - P. Schlesinger, Manuale di Diritto Privato, Milano, 1975, 647 s. che tra fattispecie di responsabilità del genere, vale a dire indiretta, elenca: quella del datore di lavoro ex art. 2049; del proprietario del veicolo ex art. 2054, comma 3; ed, appunto, dei genitori o del tutore “per i danni arrecati dai figli minorenni con essi conviventi”; di responsabilità per fatto altrui, parla altresì A. Jannarelli, La responsabilità civile, in M. Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, Torino, 1994, 913 s.; analogamente, su quest’ultimo fronte, si pone P. Zatti, Corso di diritto civile, 2008, Padova, 541 s.). Sul tema della natura della responsabilità parentale, con relativi effetti e disciplina anche dal punto di vista dell’evoluzione storica, cfr. C. Marvasi, artt. 2044-2049, in G. Alpa - V. Mariconda (a cura di), Codice civile, Milano, 2013, 2825 ss. 23 Cfr. Cass., Sez. III, 18 novembre 2014, n. 24475, in D&G, 2014, 19 novembre, a mente del cui dictum la prova liberatoria che incombe sui genitori non va individuata in quella stabilita dal comma 3 dell’art. 2048 c.c., trattandosi di prova negativa, ma di aver trasmesso “al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata; il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore”. 24 Costituisce massima indiscussa che il contenuto precettivo si sostanzi nel potere-dovere parentale di esercitare sui figli la vigilanza e di impartire loro quell’adeguata attività formativa volta in particolare al rispetto delle regole

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Giuseppe Cassano

Sempre secondo l’affermato indirizzo magistratuale, le modalità medesime del contestato e comprovato illecito avvalorano la dedotta responsabilità ai sensi dell’art. 2048 c.c.25 Come si è anticipato, il giudice seziona le responsabilità, distribuendole fra chi ha indebitamente trasmesso a nuovi soggetti l’immagine della ragazza e chi la divulgazione l’ha operata a persone che già l’avevano. Il rilievo colposo grava in maniera maggiore sui primi, mentre il livello massimo di responsabilità è riconosciuto nei riguardi della minorenne che aveva creato il falso profilo social. Il tutto si svolge lungo un profilo motivazionale della sentenza che nel modulare le colpe e, di conseguenza, gli addebiti di natura risarcitoria, non ravvisa dati, circostanze od altre situazioni, tali da agire in via liberatoria ai sensi del comma 3 dell’art. 2048 c.c.

della comune convivenza (Cass., Sez. III, 19 febbraio 2014, n. 3964, in Guida dir., 2014, 15, 77). Lo stesso giudice di legittimità si esprime altrove in termini di doveri normativi “inderogabili” che onera i genitori di una “costante opera educativa”, diretta a “realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito” (Cass., Sez. III, 22 aprile 2009, n. 9556, in Giust. civ., 2010, 2, I, 402). Si tratta di responsabilità che, a differenza di quanto sancito dall’art. 2047 c.c., postula la capacità d’intendere e di volere in capo al minorenne, autore dell’illecito, in relazione al cui contegno soltanto sono configurabili la culpa in educando e la culpa in vigilando (Cass., Sez. III, 2 marzo 2012, n. 3242, in CED, rv. 621948-01): l’una coincide con la mancata trasmissione, sul piano educativo, dei precetti indispensabili ad evitare la condotta tenuta, e l’altra con l’omesso controllo dei comportamenti del minore. Cfr., nel solco su indicato: Cass., Sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20322; Cass., Sez. III, 28 marzo 2001, n. 4481, in questa Rivista, 2001, 498, la quale evidenzia la necessità, sul piano probatorio che incombe sui genitori, della positiva dimostrazione, da parte dei medesimi, dei precetti posti dall’art. 147 c.c., osservando altresì come la relativa valutazione sia rimessa al giudice di merito, la quale deve considerarsi insindacabile se sorretta da adeguata e corretta motivazione. 25 Cfr. Trib Arezzo 23 gennaio 2017, n. 67, in DeJure, 2017, per la quale “inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso, può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito”.

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Ali Abukar Hayo

Se sia configurabile il delitto di corruzione ex art. 318 c.p. nell’esercizio della funzione parlamentare Sommario : 1. Premessa. – 2. L’impossibile interesse del privato agli atti del parlamentare e l’impossibile imparzialità degli stessi. – 3. Il requisito della riferibilità astratta ai “doveri d’ufficio” permane anche nella nuova fattispecie di mercimonio della funzione. – 4. Conclusioni sul principio della divisione dei poteri.

Abstract The Italian Supreme Court has declared it possible to establish the crime of corruption for the exercise of parliamentary functions, ex Art. 318 Italian Criminal Code whereas it in any case excludes that the more serious crime of corruption (for an act contrary to official duties) envisaged by the old version of Article 319 Italian Criminal Code could be applied. The Author observes that this exclusion is equivalent to disavowal at the root of the existence of “official duties” and to the correlated recognition of the sovereignty and discretion of political-parliamentary activities. He highlights that the interests involved in parliamentary acts are always and in any case common knowledge, never private. The political point of view is always and in any case biased. The immunity pursuant to Article 68 of the Constitution involves the non-liability rule applicable to acts of members of Parliament in order not to undermine the constitutional construction of the division of powers. La Cassazione dichiara la configurabilità del reato di corruzione per esercizio della funzione parlamentare, ex art. 318 c.p.; mentre esclude in ogni caso che possa ricorrere la più grave figura di corruzione (per atto contrario ai doveri d’ufficio) prevista dall’art. 319 c.p.. L’Autore osserva che tale esclusione equivale al disconoscimento in radice della sussistenza dei “doveri d’ufficio” ed al correlativo riconoscimento della sovranità e discrezionalità dell’attività politico-parlamentare. Evidenzia che gli interessi coinvolti negli atti parlamentari sono sempre e comunque diffusi, mai privati; il punto di vista della politica è sempre e comunque di parte; l’immunità di cui all’art. 68 Cost. comporta l’insindacabilità piena dei voti dati e delle opinioni espresse dal parlamentare, al fine di non incrinare il costrutto costituzionale della divisione dei poteri.

1. Premessa. La sentenza in commento si pronuncia su numerose questioni, la più rilevante delle quali ci sembra riguardare la configurabilità del delitto di corruzione ex art. 318 c.p. in caso di “mercimonio della funzione parlamentare”. La vicenda giudiziaria ha avuto inizio con la contestazione formulata a carico dell’ex Presidente del Consiglio S. B., nella quale si prospettava un’ipotesi di corruzione per atti contrai ai doveri d’ufficio. Il fatto, secondo l’ipotesi d’accusa, accolta poi dai Giudici di merito, consisteva nel conferimento di utilità al sen. D.G. (direttamente o per il tramite del movimento politico a lui facente capo) al fine di indurlo, nell’esercizio della sua attività parlamentare a determinate manifestazioni di voto. Il Tribunale di Napoli, con sentenza del luglio 2015, ravvisava gli estre-


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mi del reato contestato1; la Corte d’appello confermava (con riforma parziale) la condanna per il delitto di corruzione propria, per atti contrari ai doveri d’ufficio2. La Corte di Cassazione, investita della questione, ha ricondotto il fatto sotto il paradigma della corruzione impropria, per atto conforme ai doveri d’ufficio, secondo la formulazione vigente al momento del fatto, oggi prevista come corruzione per asservimento della funzione, secondo la formulazione dell’art. 318 c.p. novellata dalla legge n. 190/2012. Il combinato disposto degli articoli 64, 67 e 68 della Costituzione, precludono, secondo la Suprema Corte, la possibilità di ravvisare atti del parlamentare contrari ai “doveri d’ufficio”, sicché giammai è configurabile il reato di corruzione propria; al contempo il “mercimonio” della funzione parlamentare costituisce reato, in quanto assoggetta l’esercizio della funzione pubblica al mandato imperativo del privato. Fin da subito, osserviamo che la pronuncia in commento, asserendo l’impossibilità logicogiuridica della corruzione propria ex art. 319 c.p., sembra asserire implicitamente l’assenza di qualsivoglia parametro di regolarità sostanziale, relativo agli atti funzionali del parlamentare. Se questi, infatti, fossero valutabili in base a quel parametro, non se ne potrebbero escludere a priori di “irregolari” (nella sostanza); e dunque l’esclusione ab imo sottende il pieno riconoscimento della sovranità giuridica e discrezionalità politica dell’attività parlamentare. Sorge spontanea, perciò, la prima domanda: se sia configurabile il reato di corruzione per “asservimento” di una funzione, il cui esercizio dà luogo ad atti sovrani e politicamente discrezionali, giammai doverosi. Al contempo si osserva che la Suprema Corte sembra contraddirsi, giacché, mentre asserisce, per via implicita, l’assenza del parametro di regolarità, ossia di conformità ai “doveri d’ufficio”, per via esplicita, ne asserisce la sussistenza, sussumendo il fatto de quo, commesso nel 2008, sotto il paradigma dell’art. 318 c.p. previgente, che contemplava la corruzione per atto conforme ai “doveri d’ufficio”, oggi assorbito dalla nuova fattispecie di corruzione impropria per “mercimonio” della funzione. Da ciò nasce una seconda domanda: se la funzione parlamentare, del cui esercizio si assume il mercimonio, debba intendersi in senso statico e in potenza, ovvero in senso dinamico e in atto. Se si sceglie quest’ultimo punto di vista, l’assenza di specifici “doveri d’ufficio” a carico del parlamentare acquista molto peso, dal momento che la funzione “in esercizio” non può che essere regolare, dovendo sfociare sempre e comunque in atti sostanzialmente regolari. Invero, la pronuncia in commento ribadisce l’orientamento giurisprudenziale che ravvisa il reato di corruzione ex art. 318 c.p. nel solo fatto dell’accordo di mercimonio della funzione parlamentare, a prescindere dagli atti destinati a conseguirne3. Sul punto, tuttavia, bisogna intendersi: una cosa è prescindere dagli atti concreti, un’altra cosa è prescindere dalla natu-

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Trib. Napoli, sez. I, 8 luglio 2015, n. 11917, in Dir. pen. cont., 19 maggio 2016, con nota di Ubiali, In tema di corruzione del parlamentare: la sentenza del Tribunale di Napoli sul leading-case Berlusconi-De Gregorio. 2 Corte d’Appello di Napoli del 20/4/2017 3 Orientamento già emerso con la sentenza della Suprema Corte, sez. V, 6 giugno 2017 (dep. 24 luglio 2017), n. 36769, Pres. Rotundo, rel. Corbo, commentata da A. Chibelli, Al vaglio della Cassazione (per la prima volta) la figura della corruzione del parlamentare, in Dir. pen. cont., 10/2017; sul punto anche F. Cingari, Sulla responsabilità penale del parlamentare: tra corruzione e influenze illecite, in Cass. pen., 2017, 176 ss. All’imputato – all’epoca dei fatti membro della Camera dei Deputati – era stato elevato l’addebito di aver ricevuto delle somme di denaro da esponenti politici dell’Azerbajan, “asservendo” la sua funzione di “rappresentante del Parlamento italiano” in seno all’Assemblea del Consiglio d’Europa agli interessi del governo azero.

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ra giuridica degli atti. Non è il caso di anticipare le conclusioni che saranno tirate tra breve; comunque si può osservare sin d’ora che la stessa formulazione letterale della norma incriminatrice, facendo riferimento all’esercizio della funzione, pare alludere alla dimensione dinamica delle attribuzioni parlamentari, ossia a una funzione che si traduce in atti. Se dunque si prescinde dagli atti in concreto dedotti nell’accordo di mercimonio, rimane pur sempre aperto l’interrogativo se gli atti del parlamentare, compiuti nell’esercizio della funzione, ex se “regolari” in quanto sovrani, possano formare oggetto di accordo corruttivo. È superfluo precisare che non ci preme la questione di fatto, se una pattuizione tra il privato e il pubblico ufficiale abbia realmente avuto luogo nella vicenda de qua4, bensì quella di diritto se - supposto il fatto della pattuizione - ricorrano comunque gli estremi del delitto di cui all’art. 318 c.p., per “asservimento” della funzione parlamentare. Questione diversa, ovviamente, dall’ulteriore, riguardante lo stigma morale del fatto supposto. Il diritto penale non mira a sanzionare tutti i fatti deplorevoli5, ma solo quelli più gravi, offensivi di un bene giuridico, la cui tutela non entri in contraddizione con la tutela di un bene giuridico di rango superiore. La nostra questione si atteggia, dunque, in due guise: sotto il profilo della configurabilità astratta del reato di corruzione, riguardante il compimento di atti sovrani e politicamente discrezionali, non commisurabili in termini di regolarità e imparzialità (ossia di conformità ai “doveri d’ufficio”); b) in una seconda guisa, sotto il profilo delle implicazioni, derivanti dal sindacato giurisdizionale sugli atti del parlamentare, in ordine al principio della divisione dei poteri. Ciò premesso, sia consentito, fin da subito, esprimere parecchi dubbi sull’opzione interpretativa della Suprema Corte, la quale ravvisa il delitto di corruzione, nella forma meno grave contemplata dall’art. 318, nel fatto del parlamentare che in ragione di un vantaggio economico (o equivalente) acconsenta ad “asservire” le sue funzioni agli interessi del privato, dal quale (secondo l’ipotesi) riceve un mandato imperativo. Ci pare che la natura della funzione parlamentare sia incompatibile con la logica dell’“asservimento” agli interessi del privato (a); il criterio d’imparzialità sia radicalmente estraneo all’esercizio delle funzioni, che non contempla “doveri d’ufficio” (b); la funzione parlamentare, appartenendo all’area della sovranità, non possa costituire oggetto di controllo giurisdizionale (c); e per questa via non sia configurabile in astratto il delitto di corruzione del parlamentare.

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Il fatto dedotto nell’imputazione “faceva leva su un’unitaria pattuizione, in forza della quale il B. si era impegnato a corrispondere all’ex-Senatore D.G la somma complessiva di euro 3.000.000,00, in parte ‘in nero’ e in parte attraverso la forma simulata del contributo al movimento politico”; “a fronte dell’unitaria pattuizione, si erano susseguite plurime dazioni, fino all’ultima eseguita il 31/32008 a mezzo bonifico su conto corrente riferibile a D.G. presso un istituto bancario napoletano” (sentenza 21). 5 Il grande maestro T. Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen., 3/2018, evidenzia quanto sia perniciosa l’illusione di eliminare ogni forma di corruzione, della quale è vittima, non solo l’interprete giuridico, ma anche il legislatore, intento a seguire “la legge del moto perpetuo, che nelle nostre plaghe accompagna il ritmo incessante di una persistente emergenza”.

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2. L’impossibile interesse del privato agli atti del parlamentare e l’impossibile imparzialità degli stessi. In primo luogo, bisogna evidenziare due caratteri intrinseci dell’attività politico-parlamentare: la “superindividualità”o “diffusività” degli interessi coinvolti; la connaturale “parzialità” – o, se si vuole, l’impossibile “imparzialità” – dell’attività politica. È fin troppo ovvio che la differenza fondamentale tra l’attività legislativa e quella amministrativa risiede nella sfera dei destinatari: l’atto legislativo ha efficacia erga omnes; l’atto amministrativo non riguarda la pluralità indeterminata dei cives, ma produce effetti in capo al destinatario unico, ovvero a una cerchia ristretta e predeterminata di destinatari. Nessun privato può ricevere un vantaggio esclusivamente personale da un atto legislativo; può semmai condividere un interesse di gruppo o di categoria all’emanazione dell’atto legislativo, che produrrà effetti in favore di una pluralità indeterminata di cives e dunque oltre la sfera direttamente controllata dal privato. In ragione di ciò, un pactum sceleris di indole privatistica6 è difficilmente ipotizzabile in fatto, a prescindere dall’astratta configurabilità in diritto. È impensabile – o difficilmente pensabile – che un soggetto voglia farsi carico personalmente del corrispettivo di un “mercimonio” che tornerebbe comunque a vantaggio di tanti altri. Ma in ogni caso ciò che caratterizza l’ipotizzato mercimonio dell’attività parlamentare è la destinazione superindividuale del vantaggio pattuito. Sempre e comunque il parlamentare, in questa ipotesi, fa mercimonio della sua funzione, asservendola a interessi di gruppo. Il titolare dell’interesse giammai sarebbe il privato, bensì una lobby o un partito politico. Sicché l’unico mercimonio possibile legherebbe il parlamentare agli interessi di parte - di un gruppo di pressione o di una fazione politica - non già agli interessi di un privato; costui avrebbe “comprato” l’asservimento dell’attività del parlamentare per conto di una pluralità di persone, costituente un gruppo d’interesse; ne deriva che il pubblico ufficiale, nella veste di componente del Parlamento, sarebbe comunque asservito a una parte, non già all’esclusivo arbitrio del singolo. Ciò vale non solo per l’attività strettamente legislativa, ma anche per tutta l’attività parlamentare. Il telos, proprio e intrinseco dell’atto legislativo, si estende inevitabilmente a tutti gli atti parlamentari, giammai riconducibili a una sfera d’interesse privatistica. Anche gli atti - posti in essere all’interno delle Camere - non direttamente finalizzati alla legislazione, sono comunque funzionali all’indirizzo politico dell’attività legislativa e di governo, e perciò caratterizzati dall’indeterminatezza dei destinatari-beneficiari e dalla diffusività degli interessi coinvolti, al pari degli atti legislativi. Tra questi atti, funzionalmente extralegislativi, il voto di fiducia del parlamentare è l’espressione più rilevante e significativa della funzione di controllo dell’attività di governo, nella quale è ovviamente impressa la teleologia superindividuale; ma anche tutti gli altri atti del parlamentare sono comunque cateterizzati dalla teleologia politica, essendo orientati al sostegno della maggioranza parlamentare o alla linea programmatica di minoranza.

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Non per caso, le uniche due vicende giudiziarie, riguardanti il reato di corruzione del parlamentare, ruotano intorno a interessi non privatistici, bensì di gruppo. Il corruttore, nella prima vicenda, avrebbe promosso l’accordo nell’interesse dello Stato dell’Azerbajan (cfr. nota 3); nella vicenda de qua, nell’interesse di una minoranza parlamentare, la quale aspirava a diventare maggioranza.

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E l’intera attività del parlamentare, mentre obbedisce inevitabilmente a interessi diffusi, e giammai all’interesse del privato, è caratterizzata al contempo da un’irriducibile “parzialità”, essendo orientata dalla visione politica di uno degli schieramenti in competizione con gli altri7. Il componente di una delle Camere legislative è certamente un pubblico ufficiale, ai sensi dell’ art. 357 c.p.8, ma lo è in una veste sui generis, non essendo chiamato all’imparzialità, bensì a esprimere gli orientamenti politici di una parte. Il parlamentare contribuisce alla formazione della volontà sovrana del Parlamento, per il suo essere “parte”; il supremo interesse della res publica risiede nella libera competizione democratica, al cui conseguimento il parlamentare conferisce il proprio apporto, per il suo non-essere super partes, sicché la sua attività non risponde al criterio dell’imparzialità9, come quella degli altri pubblici ufficiali. Il requisito dell’imparzialità non si addice all’attività del parlamentare, politica o legislativa che sia, perché sempre e comunque non entra in gioco l’applicazione della legge. Le Camere hanno di mira il bene comune nella prospettiva de lege ferenda, non già in quella de lege lata; anche nel momento in cui esercitano i poteri di controllo dell’attività di governo e di indirizzo politico della legislatura, guardano ai nuovi strumenti e alle nuove regole da istituire, mentre non curano l’applicazione della normativa vigente. Invece, l’esecuzione e l’applicazione della legge devono essere imparziali, rispettose della lettera e dello spirito, e devono assicurare la par condicio civium. Il parametro di imparzialità è dato dalla fedeltà alla voluntas legis10 e

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La Suprema Corte qualifica l’attività politica (del parlamentare) come costante “attività di compromesso e di composizione di interessi di parte”; Cass. Sez. V, 6 giugno 2017 (dep. 24 luglio 2017), n. 36769, cit. in nota 3. In quest’ambito, tuttavia, secondo la giurisprudenza della Corte, non può farsi rientrare la ricezione di utilità a titolo meramente personale, giacché questo integrerebbe “uno sfruttamento a fini privati dell’altissimo ufficio pubblico ricoperto”. Nell’argomentazione ci sembrano confluire criteri di moralità. Il malcostume dell’interesse privatistico è certamente censurabile; ma se il perseguimento di tale interesse da parte del parlamentare costituisca reato è un’altra questione. Ci chiediamo: se l’atto dedotto nell’accordo non deve rispondere al criterio d’imparzialità, quale violazione del dovere sta alla base dell’incriminazione? Non si rischia di incriminare il mero perseguimento dell’interesse personale? E non si rischia con ciò di sovrapporre la morale al diritto? 8 Il riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale è pressoché scontato, in considerazione dell’ampia formulazione di cui all’art. 357 c.p., che prende in considerazione tutte le attività (legislativa, amministrativa e giudiziaria) nelle quali si esplica la sovranità pubblica. Le due sentenze della Cassazione, che si pronunciano sulla corruzione del parlamentare (quella in commento e la precedente, sopra menzionata, del 6 giugno 2017) inquadrano l’attività svolta dal parlamentare nell’ambito dell’esercizio delle pubbliche funzioni o quanto meno, del pubblico servizio. Cfr. A. Chibelli, Al vaglio della Cassazione, cit.; F. Compagna, La corruzione del parlamentare: un archetipo costituzionalmente improprio, in Dir. pen. cont., giugno 2016. 9 Dello stesso avviso F. Compagna, La corruzione del parlamentare, cit. L’Autore osserva che “l’esistenza di ‘doveri di fedeltà e di imparzialità’” (in capo al parlamentare) si mostra inconciliabile “con la concezione liberale della rappresentanza politico-parlamentare, nella quale la scelta democratica costituisce per l’appunto il risultato di una somma di interessi di parte e si pone per sua natura agli antipodi di qualsiasi modello deontico”. Ne fa conseguire che “il tema attinente alla ‘corruzione dei parlamentari andrebbe circoscritto dei iure condito al mero esercizio della funzione legislativa, con conseguente sottrazione della restante attività politico-parlamentare dalla più stringente tutela penalistica concernente l’attività amministrativa”. A nostro avviso, nemmeno l’attività legislativa può essere oggetto di corruzione, perché l’imparzialità della legge è in re ipsa nei casi ordinari, mentre è sottoposta al giudizio della Corte costituzionale nei casi straordinari; sicché gli atti del parlamentare legati alla potestà legislativa non paiono lesivi del principio di imparzialità in ogni caso. 10 Infatti il principio di imparzialità da sempre viene riferito all’attività amministrativa, che deve osservare e applicare la legge; non per nulla l’art. 97 della Costituzione fa esplicito riferimento alla sola attività della pubblica

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dunque manca, com’è ovvio, se la legge è ancora in itinere; come manca nell’attività politica, fedele non già alla legge o al criterio della par condicio civium11, ma solamente agli ideali ispiratori sottoposti al vaglio dell’elettorato, non certo dei giudici. L’attività del parlamentare, sotto tutti profili, è caratterizzata da assenza dei doveri di fedeltà. Il parlamentare è moralmente legato solo agli ideali politici di riferimento e non esegue il comando di alcuno, nemmeno il comando impersonale della legge, posto che non è chiamato ad eseguirla e applicarla. In sintesi, la sua attività è caratterizzata dalla piena discrezionalità politica e non è giudizialmente censurabile, perché in essa si esprime il primato della sovranità della legge. A ben considerare, il dovere dell’organo amministrativo di dare esecuzione imparziale alla voluntas legis e il dovere del giudice di “obbedire” alla legge, i quali danno sostanza al primato del potere legislativo nell’ambito della divisione dei poteri dello Stato, suppongono necessariamente la piena discrezionalità dell’attività politica e legislativa delle Camere. Se questa discrezionalità non fosse assoluta, si correrebbe il rischio di aprire la via al sindacato sugli atti del parlamentare, per la via traversa del controllo giurisdizionale sul loro processo di formazione; e ciò incrinerebbe l’architettura costituzionale fondata sulla divisione dei poteri, non meno del disconoscimento formale dell’insindacabilità.

3. Il requisito della riferibilità astratta ai “doveri d’ufficio” permane anche nel mercimonio della funzione. Sulla base di queste premesse nessun mercimonio dell’attività parlamentare può ledere il bene della par condicio civium, non potendo realizzare alcuna indebita preferenza di Tizio a danno di Caio. Tuttavia, l’ipotizzato mercimonio, pur non recando offesa all’imparzialità del pubblico ufficio, per mancanza del parametro di imparzialità in seno all’attività parlamentare, indubbiamente pregiudica il prestigio delle istituzioni dello Stato. Da qui la domanda se tale pregiudizio sia sufficiente da solo a integrare il fatto di reato di cui all’art. 318. La domanda è tanto più pertinente oggi, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 190/2012, la quale ha sostituito la previgente corruzione impropria, per atto conforme ai doveri d’ufficio, con la corruzione per “compravendita” della funzione. Nel codice Rocco del 1930, l’incriminazione dei fatti di corruzione era incentrata sull’atto dell’ufficio, che costituiva l’oggetto della compravendita tra privato ed intraneus, intorno a cui ruotavano tre coppie di fattispecie, corruzione propria e impropria, antecedente e susseguente, attiva e passiva. Per effetto della legge 190/2012, l’art. 318 c.p., nella nuova formulazione, incrimina la “corruzione per esercizio della funzione”, punendo il privato ed il pubblico agente che fanno “mercato” dell’esercizio della funzione o dei poteri pubblici12. È venuto meno

amministrazione. 11 La violazione del principio d’Imparzialità sembra il “comune denominatore” di ogni tipo di corruzione, in base al significato storico, consolidato del termine (cfr. nota 17); mentre l’attività politico-parlamentare non deve rispettare alcun criterio d’imparzialità. 12 Invero, ancor prima della novella del 2012, la giurisprudenza era giunta a ritenere sufficiente il mero asservimento della funzione, indipendentemente dall’individuazione dell’atto; ex multis Cass. Sez. fer., 25 agosto 2009, in Mass. Uff., n.245182. Tale orientamento giurisprudenziale aveva già determinato nel diritto vivente il “definitivo

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il riferimento all’atto dell’ufficio ed è scomparsa la distinzione tra corruzione antecedente e susseguente, giacché la preposizione “per”, che introduce l’oggetto del pactum sceleris, può essere alternativamente intesa in senso causale o finalistico13. A nostro avviso, la nuova fattispecie, nell’incriminare la “compravendita” della funzione e non dell’atto, mentre dispensa il giudice dall’individuazione di uno o più atti, oggetto dell’accordo corruttivo, non per questo smarrisce il requisito della riferibilità, sia pure astratta, ai “doveri d’ufficio”14. Con la nuova formulazione si configura un reato di pericolo, il cui nucleo offensivo è costituito dalla possibilità che il pubblico ufficiale, avendo fatto “compravendita” di tutta la sua funzione, venga meno ai suoi doveri15. Pare invero che un pericolo, non avente un possibile sbocco nel corrispondente danno, non abbia senso; e, nel caso di specie, il danno possibile risiede appunto nell’atto irregolare. D’altronde, se tutta la funzione è oggetto di compravendita, si deve supporre che gli atti di esercizio della funzione debbano assecondare l’interesse del corruttore, indipendentemente dalla loro regolarità; quindi debba essere previsto nell’accordo corruttivo la possibilità che almeno un atto del pubblico ufficiale non sia conforme ai doveri d’ufficio16. La piena conformità di tutti gli atti di esercizio della funzione

superamento del modello dell’atto”; S. Cecchini, L’asservimento della funzione al confine tra i reati di corruzione funzionale e di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, in Archivio penale, 1/2014, nota alla sentenza Cass. Pen., sez. VI, 28 febbraio 2014, Terenghi, 4. Una parte della dottrina, nella vigenza della fattispecie codicistica, riteneva invece insuperabile il requisito dell’individuazione dell’atto oggetto del pactum sceleris; per tutti G. Balbi, I delitti di corruzione. Un’indagine strutturale e sistematica, Napoli, 2003, 102 ss. 13 Cfr. G. Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. cont., 2012, 8; F. Cingari, La corruzione per l’esercizio della funzione, In La legge anticorruzione, a cura di Mattarella e Pellissero, Torino, 2013, 413; M. Gambardella, Profili di diritto intertemporale della nuova corruzione per l’esercizio della funzione, in Cass. pen., 2013, 11; D. Pulitanò, Legge anticorruzione, in Cass. pen., 2012, 8 14 D’altronde la “continuità” tra il vecchio e il nuovo è sottolineata da chi evidenzia che la giurisprudenza, nel vigore della norma previgente, aveva “anticipato” il nuovo modello d’incriminazione per esercizio della funzione; il che ovviamente dimostra la sussistenza di un “comune denominatore”. Sul punto F. Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, in Dir. pen. cont., 2012, 228; D. Pulitanò, Legge anticorruzione, 7, E. Dolcini, La legge 190/2012: contenuto, linee di intervento, spunti critici, in Dir. pen. cont., 2013, 12. 15 La giurisprudenza, prima dell’entrata in vigore della legge 190/2012, non nutriva alcun dubbio in ordine alla riconducibilità dell’asservimento della funzione alla più grave figura della corruzione propria, argomentando che il mercimonio della funzione comporta ex se la violazione dei doveri di fedeltà e imparzialità; ex multis Cass. Sez. VI, 26 febbraio 2007, in Mass. Uff., n. 236624; Cass. Sez. VI, 15 maggio 2008, ivi, n. 241081. Ci pare che tale giurisprudenza in fondo confermi, implicitamente, che la corruzione implica comunque il riferimento ai doveri di fedeltà (alla voluntas legis) e imparzialità (nell’applicazione); ma tali doveri ci sembrano del tutto estranei alla funzione parlamentare. Cfr. S. Cecchini, L’asservimento della funzione, cit. 16 Il requisito della contrarietà ai doveri può essere inteso in senso stretto, in riferimento a quelli che disciplinano la specifica attività di competenza dell’intraneus, o in senso lato, in riferimento a quelli generici che regolano l’intera attività amministrativa, in base all’art. 97 Cost. F. Cingari, Repressione e prevenzione della corruzione pubblica, Verso un modello di contrasto “integrato”, Torino, 2012 113, criticando la giurisprudenza dominante, osserva che “nella valutazione della conformità o contrarietà ai doveri d’ufficio, occorre aver riguardo esclusivamente ai doveri specifici dell’ufficio al quale appartiene il funzionario e non anche a quelli generici di comportamento che caratterizzano l’attività dei pubblici agenti”. In ogni caso, appare chiaro che la corruzione riguarda un’attività regolata da “doveri d’ufficio”; pertanto non sembra riguardare l’attività del parlamentare, nella quale non è possibile ravvisare doveri d’ufficio, nemmeno quelli generici previsti dall’art. 97 Cost. relativi all’attività amministrativa.

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darebbe luogo a una compravendita sine titulo e priverebbe il fatto del suo contenuto offensivo, giacché si avrebbe un pericolo senza corrispondente danno. Ebbene, se la corruzione ex art. 318 c.p., nella nuova formulazione, non suppone l’atto irregolare, ma ne suppone comunque la possibilità, il fatto della corruzione del parlamentare non può sussistere, perché il suo atto non deve essere conforme ad alcuna regolarità prefigurata. La discrezionalità dell’atto politico e la sovranità dell’atto legislativo escludono qualunque sindacato di regolarità, qualunque riferimento a una regola prefigurata, pertanto viene meno in radice la configurabilità di un mercimonio avente ad oggetto una serie indeterminata di atti, indifferentemente regolari o irregolari. Nessun parametro di regolarità sostanziale (e non meramente formale) ha ragion d’essere per gli atti del parlamentare, di qualsivoglia specie, in ragione, come detto, della sovranità delle Camere. Al contrario, la ratio essendi della corruzione, come storicamente pervenuta fino a noi, postula sempre e comunque che un parametro di regolarità degli atti sussista; e questo non può che identificarsi con la par condicio civium. Se non si vuole dare alla parola “corruzione” un significato amplissimo, che, nel caso di specie, comprenderebbe anche la mera lesione del prestigio del munus parlamentare, ma si vuole rimanere fedeli alla sua radice storica e alla sua accezione - potremmo dire - “universale”, non si può fare a meno di includervi il “danno sociale”, consistente nel vulnus recato all’imparzialità17. A questa stregua, l’irregolarità sostanziale, che investe l’esercizio della funzione dedotta nell’accordo corruttivo, non può che offendere - in termini di lesione o in termini di pericolo - il bene della par condicio civium. Ne consegue che, laddove non si possono distinguere atti regolari e irregolari, ivi in nessun caso è in gioco un’irregolarità che reca danno alla res publica; quando il gioco è regolare per definizione, perché ogni parte, proprio difendendo la sua linea “di parte”, si pone a servizio degli interessi pubblici, non vi può essere diversità tra ciò che si fa e ciò che si deve fare. In assenza di un fare diverso dal dovere, manca l’illecito. Se il discrimine, o meglio la possibilità astratta del discrimine, tra atti regolari e irregolari non fosse un requisito implicito della corruzione, non avrebbe avuto senso, in passato, e non avrebbe senso, nel presente, la previsione di due tipologie di corruzione di differente gravità. In passato si distingueva espressamente tra corruzione propria e impropria, secondo che gli atti del pubblico ufficiale fossero contrari o conformi ai doveri d’ufficio; oggi si distingue, secondo che il patto corruttivo abbia ad oggetto atti contrari ai doveri d’ufficio oppure l’intero esercizio della funzione. La necessità di distinguere permane tuttora, com’è evidente; e poiché la contrarietà ai doveri d’ufficio rimane pur sempre uno dei corni del dilemma, ci pare evidente che il “dovere” d’ufficio rimanga in ogni caso il termine di paragone, necessario per distinguere, e perciò il riferimento necessario di ogni corruzione, anche della meno grave18. Infatti,

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B. Heinrich, Punibilità per corruzione ed èlite politica. Vi è un confine tra corruzione punibile e favoritismo penalmente irrilevante?, in Dir. pen. cont., 3/2018, ravvisa i caratteri essenziali, di ogni tipologia di corruzione nell’“abuso di potere, assenza di trasparenza e un agire finalizzato al conseguimento di vantaggi personali in assenza di obiettività delle decisioni”. L’Autore precisa ulteriormente che “la maggior parte di ciò che noi oggi consideriamo corruzione d’èlité si esplica sul terreno del favoritismo nell’attribuzione di funzioni”. La nozione di “obiettività” e il suo contrario, “favoritismo”, lasciano chiaramente intendere che, secondo l’Autore, alla base della corruzione, intesa in senso generale e “universale”, non c’è altro che la violazione della par condicio civium. 18 A ben considerare, nel caso de quo, la sentenza annotata dichiara sussistere la corruzione del parlamentare, proprio in relazione ai suoi atti funzionali. Il tempus commissi delicti coincide con l’ultima dazione a favore del

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l’incriminazione relativa a una delle due figure delittuose postula pur sempre il raffronto con l’altra; ma laddove manca il “dovere”, il raffronto non si può fare. La dottrina è abbastanza concorde nel ritenere che il rapporto tra la fattispecie di cui all’art. 318 e quella di cui all’art 319 sia di genere a specie, tale per cui i caratteri della prima siano presenti anche nella seconda (con l’aggiunta di un elemento specializzante)19. L’elemento specializzante è costituito dalla contrarietà degli atti del pubblico ufficiale ai doveri d’ufficio; dal che si ricava che nella fattispecie generale la funzione dedotta nel patto corruttivo deve essere idonea a dar luogo ad atti contrari ai doveri d’ufficio, sussistendo i quali si realizza la corruzione più grave, in mancanza dei quali si realizza la corruzione meno grave. Ma le due fattispecie ovviamente devono avere in comune una funzione pubblica, il cui esercizio sia disciplinato dai “doveri d’ufficio”, altrimenti non può sussistere il rapporto di genere a specie. In sintesi, a nostro avviso, il riferimento ideale al “dovere” è comunque necessario anche nel mercimonio della funzione, che costituisce la forma meno grave di corruzione, ai sensi dell’art. 318; e nell’attività del parlamentare manca il riferimento ideale al “dovere d’ufficio”. E tuttavia, come si diceva, l’ipotizzato mercimonio della funzione parlamentare indubbiamente reca un vulnus al prestigio delle istituzioni pubbliche; si potrebbe pensare, pertanto, che tale vulnus costituisca reato, al pari del vulnus recato dal corrispondente mercimonio della funzione amministrativa. A nostro avviso, l’equiparazione non ha ragion d’essere per due motivi.

4. Conclusioni sul principio della divisione dei poteri. Il primo motivo è già implicito nelle superiori argomentazioni relative ai “doveri d’ufficio”, che incombono sul titolare della potestà amministrativa e non sul titolare della potestà legislativa (nonché delle facoltà di iniziativa e indirizzo politico). La mancanza dei “doveri d’ufficio” non è altro che la sostanza del principio di “insindacabilità” degli atti del parlamentare,

D.G., risalente al 31/3/2008; é dunque antecedente all’entrata in vigore della novella del 2012; sicché il fatto costituisce reato, ai sensi della previgente fattispecie di cui all’art. 318 c.p. In sintesi, la Cassazione ha ritenuto che il fatto costituisca il delitto di corruzione impropria, per atto conforme ai doveri d’ufficio, oggi assorbito nella nuova formulazione che contempla il mercimonio della funzione e non più dell’atto. Ne discende che il parametro di “regolarità” risulta essenziale nella sentenza de qua, la quale prende in considerazione un fatto commesso antea; ma risulta essenziale anche oggi, dopo l’entrata in vigore della novella, perché, in mancanza di un parametro – sia pure astratto – di regolarità degli atti funzionali, si avrebbe il mercimonio di una funzione assolutamente vuota. Ebbene, a nostro avviso, gli atti funzionali del parlamentare non possono essere considerati né regolari, né irregolari, giacché sono atti finalisticamente orientati – direttamente (mediante la potestà legislativa) o indirettamente (con i poteri di indirizzo politico) – a dettare le nuove regole, non già ad applicare le vigenti. 19 T. Padovani, La messa a libro paga del pubblico ufficiale ricade nel nuovo reato di corruzione impropria, … 10 osserva che “la nuova fattispecie dell’art. 318 del c.p. costituisce … l’ipotesi generale di ogni tipo di corruzione: propria e impropria, antecedente e susseguente”, mentre “la corruzione propria prevista dall’articolo 319 assume allora il carattere di norma speciale”. Dello stesso avviso, G. Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. cont., 2012, 8; E. Dolcini, Appunti su corruzione e legge anti-corruzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 544; E. Dolcini, F. Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont., 2012,1, 235; S. Cecchini, L’asservimento della funzione, cit.

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Ali Abukar Hayo

riconosciuto dall’art. 68 della Costituzione20. Non avrebbe senso infatti riconoscere che gli atti funzionali del parlamentare sono insindacabili e poi valutarne la conformità/difformità rispetto ai “doveri”. La sovranità del Parlamento, solennemente riconosciuta dalla Costituzione, passa necessariamente attraverso l’insindacabilità degli atti dei suoi componenti, la quale comporta come conseguenza logica la mancanza dei “doveri” di riferimento, dunque, a nostro giudizio, l’impossibilità di configurare in astratto la violazione dei doveri, mentre la configurabilità (pur sempre astratta) costituisce requisito essenziale di ogni forma di corruzione. Il secondo motivo si può ravvisare nell’impossibilità di discernere il c.d. “asservimento” della funzione, rispetto ai leciti condizionamenti derivanti da vincoli di partito o da pressioni lobbistiche. Si è detto e si ribadisce che giammai l’asservimento ipotizzato potrebbe riguardare gli interessi del privato, per la natura stessa degli atti parlamentari, riguardanti sempre e comunque interessi diffusi, appartenenti a una cerchia indeterminata di persone. S’intende che tali interessi diffusi possono dar luogo a una pressione lobbistica o trovare rappresentanza nel programma di un partito o di un gruppo parlamentare; e s’intende anche che la singola persona del parlamentare possa trarre qualche beneficio dalla difesa e rappresentanza di tali interessi diffusi. È certamente difficile discernere il “grano dal loglio”: il supposto asservimento, dalla disinteressata professione di ideali politici o dalla meno disinteressata ricerca di benefici personali, magari “signorilmente” discreta e compatibile con il prestigio della carica21. La linea di confine sarebbe comunque liquida e nebulosa, perché l’iniziativa lobbistica è ritenuta lecita, al punto che viene regolamentata in molti Stati occidentali; e tanto più è lecita la libera iniziativa dei gruppi d’opinione e dei partiti politici; mentre non può essere demonizzata la ricerca del beneficio personale da parte del parlamentare, che accetta di rappresentare gli interessi comunque di parte, di lobbies, gruppi o partiti. Ma supponiamo pure che il discernimento sia agevole. A quale prezzo avverrebbe tale discernimento? A nostro avviso, al prezzo elevatissimo di mettere in crisi la divisione dei poteri su cui si fonda la Repubblica. È evidente che l’asservimento della funzione deve essere provato innanzi al Giudice come fatto e non come mera intenzione. Ne deriva che un “segno” tangibile di tale ipotizzato asservimento deve pur sussistere e non può che essere cercato tra gli atti del parlamentare22. Sicché la ricerca della prova della “corruzione” passerebbe necessariamente attraverso il vaglio

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Il tema dell’insindacabilità degli atti del parlamentare è stato affrontato dalla Corte costituzionale. Con sentenza n. 379 del 1996 è stato tracciato il discrimen tra gli atti coperti dall’immunità di cui all’art. 68 Cost., ravvisati in quelli “strettamente funzionali all’esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo” e gli atti ricadenti sotto l’imperio del diritto comune, “estranei alla ratio giustificativa dell’autonomia costituzionale”. In sintesi la linea di discrimine passa tra gli atti funzionali e gli atti extrafunzionali. Ebbene, ai fini della configurabilità della corruzione, si prendono in considerazione solo atti funzionali del parlamentare, giacché l’art. 318 c.p. ha riguardo appunto all’esercizio della funzione; nel caso di specie, l’ipotizzato pactum sceleris avrebbe avuto come oggetto proprio gli atti del sen. D.G., sottoposti ai regolamenti parlamentari; ossia le sue manifestazioni di voto all’interno delle Commissioni e dell’Aula. 21 Infatti B. Heinrich, Punibilità per corruzione, cit., sottolinea che è difficile tracciare la linea di confine tra la corruzione e il favoritismo penalmente irrilevante, soprattutto quando il profitto non consiste in un valore materiale o in una somma di denaro, essendo di tipo immateriale. 22 Non per nulla l’asservimento della funzione parlamentare nella vicenda de qua si sarebbe realizzato con i voti espressi dal sen. D.G. contro la compagine governativa dell’epoca e la maggioranza parlamentare che la sosteneva.

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giudiziario dell’attività del parlamentare e ciò recherebbe un vulnus mortale alla prerogativa dell’insindacabilità dei suoi atti funzionali23. La difesa del prestigio dell’istituzione parlamentare passerebbe attraverso il ridimensionamento delle prerogative dei suoi componenti. In questo paradosso si riassumono tutte le ragioni che ci fanno ritenere non configurabile la corruzione del parlamentare. A nostro avviso, sarebbe più congruo difendere il prestigio del Parlamento con un intervento legislativo diretto a disciplinare l’attività di lobbying, con previsione di limiti, requisiti e regole d’esercizio, la cui violazione potrebbe essere penalmente sanzionata a titolo diverso dalla corruzione o dal traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p.24, con il criterio di giusta proporzionalità, sia per il portatore dell’interesse lobbistico, sia per il parlamentare che asservisse la sua funzione a tale interesse. In mancanza di un’apposita disciplina, la cui violazione desse luogo a un’irregolarità penalmente rilevante, non ci pare configurabile il reato di corruzione del parlamentare, anche in presenza di un comportamento gravemente riprovevole, in omaggio al principio di frammentarietà del diritto penale, per la necessità di rispettare il munus parlamentare a fondamento della divisione dei poteri.

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In questo senso, F. Compagna, La corruzione del parlamentare, cit. Anche la linea di confine tra le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. e quella di traffico d’influenza può risultare nebulosa; sul punto F. Cingari, Sulla responsabilità penale del parlamentare, cit. 24

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La corruzione tra realtà e rappresentazione: estratto dal volume a cura di Eurispes* Abstract A publication by Eurispes was presented on 10th genuary in Rome in front of a large, prestigious audience at “Palazzo Altieri” in the representative office of the “Banca Popolare di Milano (BPM)”. The research entitled “Corruption between Reality and Representation: How the Reputation of a Country Can Be Altered” has been conducted by the magistrate Giovanni Tartaglia Polcini with the help of a team of qualified scholars and practicians. The scientific findings have converged into an agile volume with an introductory note by the President of EURISPES, Gian Maria Fara, and a fitting foreword by the President of the National Anti-corruption Authority (ANAC), Raffaele Cantone. After an holistic description of the methodology used for the research, the book’s chapters are dedicated to the following points: 1) defining aspects of corruption in the activities of regional and global multilateral forums; 2) the corruption’s definition more useful for its correct measurement; 3) Italian activity to foster a more scientifically based corruption’s measurement during the G7 presidency of 2017; 4) the phenomenon of corruption and its current analysis in various Countries. The research states that describing a country as more corrupt than it really is can cause negative effects on the economy and on trust in institutions and markets. The Eurispes survey verifies in depth the validity or fakeness of the negative assessments about taly expresssed by the most common indicators of perceptive nature that circulate at a global level. Una pubblicazione dell’Eurispes è stata presentata il 10 gennaio 2019 a Roma davanti ad un folto e prestigioso pubblico a Palazzo Altieri nell’ufficio di rappresentanza del Banco Popolare di Milano (BPM). La ricerca dal titolo “Corruzione tra realtà e rappresentazione: Ovvero come si può alterare la reputazione di un Paese” è stata condotta dal magistrato Giovanni Tartaglia Polcini con l’aiuto di un team di studiosi e professionisti qualificati. I risultati scientifici sono confluiti in un agile volume con una nota introduttiva del Presidente dell’EURISPES, Gian Maria Fara, e una doverosa prefazione del Presidente dell’ANAC, Raffaele Cantone. Dopo una descrizione olistica della metodologia utilizzata per la ricerca, i capitoli del libro sono dedicati ai seguenti punti: 1) definire gli aspetti della corruzione nelle attività dei forum multilaterali regionali e globali; 2) la definizione della corruzione più utile per una corretta misurazione; 3) l’attività italiana per favorire una misurazione della corruzione su base più scientifica durante la presidenza del G7 del 2017; 4) il fenomeno della corruzione e la sua attuale analisi in vari Paesi. La ricerca afferma che definire un Paese più corrotto di quanto non lo sia realmente può avere effetti negativi sull’economia e sulla fiducia nelle istituzioni e nei mercati. L’indagine Eurispes verifica in profondità la validità o la falsità delle valutazioni negative sull’Italia espresse dai più comuni indicatori di natura percettiva che circolano a livello globale.

La corruzione è un fenomeno criminale e sociale di notevoli dimensioni, che affligge in misura diversa i paesi in ogni parte del globo. È unanimemente riconosciuta come fattore negativo da prevenire e contrastare, sia sul piano legislativo e giudiziario, sia su quello culturale. La corruzione costituisce una delle tematiche principali al centro del dibattito internazionale, dei negoziati multilaterali e delle convenzioni, oltre che dell’attività di molti organismi espressione della società civile1.

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Estratto dal volume “La corruzione tra realtà e rappresentazione Ovvero: come si può alterare la reputazione di


Giovanni Tartaglia Polcini

La corruzione, già terreno di intervento per strumenti prettamente giuridici, sostanziali, processuali, di cooperazione internazionale e di armonizzazione normativa, è stata oggetto di approcci di natura sociologica e politica, volti a misurarne la portata e l’impatto. Particolarmente significativo, per comprendere la relazione tra corruzione e crescita economica è, ad esempio, un documento del G20 anticorruzione2 del 2014, negoziato anche sotto la direzione della co-presidenza italiana, dedicato al tema, denominato High Level Principles on Corruption and Growth. Il documento si è reso necessario alla luce del fatto che, a livello internazionale, a volte si riscontrava una derivazione depressiva sull’economia di alcune politiche anticorruzione con la conseguente spinta a calmierare le iniziative di prevenzione e contrasto; si tratta di integrare una visione teleologica dell’effettiva portata di strategie e rimedi soprattutto in quadri corruttivi molto complessi. L’importante arresto della policy multilaterale sul punto, fa da elemento spartiacque nell’evoluzione dell’econometria della corruzione su scala globale3.

un Paese” ricerca diretta da Giovanni Tartaglia Polcini , Prefazione di Raffaele Cantone – collana EURISPES, Minerva editore, novembre 2018. 1 Utile è il richiamo all’Obiettivo 16 (pace, giustizia ed istituzioni solide) dell’Agenda 2030, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile, ed al traguardo 16.5, nel quale si rinviene un riferimento specifico al risultato atteso di «ridurre sensibilmente la corruzione e gli abusi di potere in tutte le loro forme». Alla base dell’elaborazione dell’obiettivo segnalato e del target che fa esplicita menzione della corruzione, vi è, tra l’altro, la considerazione che «lo stato di diritto e lo sviluppo sono caratterizzati da una significativa interrelazione e si rafforzano a vicenda rendendo tale comprensenza necessaria per lo sviluppo sostenibile a livello nazionale ed internazionale»Cfr. www.unric.org. L’obiettivo mira dichiaratamente a rafforzare le istituzioni attraverso una significativa promozione della loro reputazione, soprattutto nei rapporti esterni. Difatti, l’obiettivo si persegue anche lavorando sul contrasto ai fenomeni che minano sensibilmente la credibilità, la stabilità e l’immagine delle istituzioni medesime e dunque edificando un misuratore affidabile dell’integrità nel settore pubblico. Va rimarcato che l’Obiettivo 16 dell’Agenda 2030 è, in realtà, il più trasversale, che colora di sè tutta la serie di finalità di sviluppo sostenibile perseguite. 2 I Leader del G20 hanno istituito Il Gruppo di lavoro Anticorruzione (ACWG) in occasione del Summit di Toronto del 2010, per analizzare l’impatto fortemente negativo della corruzione sulla crescita economica, sul commercio e sullo sviluppo. Dal 2010 i lavori del Gruppo sono stati dedicati al monitoraggio degli impegni presi da parte dei paesi G20 in merito alla ratifica e alla implementazione della Convenzione ONU contro la corruzione, la criminalizzazione ed investigazione della corruzione in àmbito internazionale (foreign bribery) e alla cooperazione internazionale per tracciare i proventi della corruzione. A questo fine, l’ACWG continuerà a lavorare con l’OCSE e la Banca Mondiale per fornire indirizzi di policy ai paesi G20 nella definizione ed attuazione delle misure contro la corruzione. Tra queste, particolare rilievo assume proprio il documento di policy in esame adottato dai Leader nel novembre 2014. 3 Si riporta il testo integrale del documento di policy richiamato (G20 High Level Principles on Corruption and Growth) nella presente nota, in lingua originale, ed in lingua italiana nel testo, nella parte in cui descrive le linee di influenza ed impatto della corruzione sulla crescita economica. G20 Leaders established the Anti-Corruption Working Group at the Toronto Summit in 2010 in recognition of the significant negative impact of corruption on economic growth, trade and development. In 2014, under the Australian Presidency, G20 countries have collectively agreed that G20 efforts must focus on those issues that directly support the growth and resilience agenda. G20 countries have committed to implementing ambitious but realistic policies with the aim to lift collective GDP by more than 2 per cent above the trajectory implied by current policies over the coming 5 years. Under Australian’s G20 Presidency in 2014, the Group welcomed an analytical study prepared by the OECD, in

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La corruzione tra realtà e rappresentazione

Gli effetti della corruzione sull’economia possono enumerarsi nel modo seguente: - sviamento di risorse: risorse che dovrebbero essere dirette verso la produzione di beni e servizi, sono spesso destinate alla corruzione; la corruzione produce anche lo sviamento di risorse utili per la fornitura di servizi pubblici; queste risorse, anziché contribuire al budget, finiscono nelle tasche di funzionari corrotti; - adozione di normative errate o comunque non efficaci: nei sistemi corrotti, i legislatori danno spesso vita a politiche e regolamentazioni che non sono volte a migliorare l’ambiente economico-politico; esse tendono piuttosto a favorire coloro che sono vicini ai vertici e coloro che corrompono gli ufficiali governativi; - abbassamento del livello degli investimenti: la corruzione ha effetti negativi sul livello quantitativo e qualitativo degli investimenti domestici e/o stranieri; gli investitori evitano ambienti nei quali il fenomeno corruttivo è radicato poiché ciò comporta un sicuro aumento dei costi; a ciò si aggiunga che la corruzione è inoltre spesso associata ad un alto livello di incertezza, che induce ad un allontanamento dei capitali; - riduzione dei livelli di efficienza e competizione: gli ufficiali governativi che richiedono denaro in cambio di concessioni di permessi o licenze, limitano il numero di aziende in grado di accedere al mercato; un simile fattore porta alla produzione di beni e servizi di qualità scadente o inefficienti, che a loro volta riducono l’efficacia, la produttività e la competitività delle imprese; la mancanza di competizione danneggia infine, oltre agli imprenditori, gli stessi consumatori, che ricevono prodotti meno avanzati e di bassa qualità e pagano in corrispettivo prezzi più alti;

collaboration with the World Bank Group, on Consequences of corruption at the sector level and implications for economic growth and development. The study demonstrates the ongoing value of anti corruption efforts to achieving the G20’s growth targets. These Principles outline the specific ways in which corruption is a severe impediment to economic growth and will frame our practical steps to fight corruption under the 2015-16 Anti-Corruption Action Plan. The G20 has both the capacity and responsibility to create a global culture of intolerance to corruption, and to forcefully tackle its drivers and manifestations. To support these efforts the G20 ACWG in collaboration with the OECD and World Bank, will develop policy guidance to assist the G20 in the design and implementation of future anti-corruption measures. G20 countries endorse these principles and reaffirm the importance of acting collectively to combat corruption as a vital part of the broader G20 growth agenda. 1.Corruption damages citizens’ confidence in governance institutions and their supporting integrity systems, and weakens the rule of law. 2.Corruption impacts the costs of goods and services provided by government, decreasing their quality and directly increasing the cost for business, reducing access to services by the poor, ultimately increasing social inequality. 3.Corruption discourages foreign investment by creating an unpredictable and high risk (financial and reputational) business environment. 4.Corruption reduces healthy competition through deterring the entry of additional market players, thereby lowering incentives for innovation. 5.Corruption distorts decision making at the highest level and can cause severe economic damage through the ineffective allocation of public resources, particularly when diverted to benefit private and not public interests. The laundering of corruption proceeds can impact the national economy and the integrity of the international financial system. 6.Corruption may reduce the impact of development assistance and hinder our collective ability to reach global development goals. 7.Corruption facilitates, and is fueled by, other forms of criminal activity including transnational organized crime, money laundering and tax crime which may represent significant threats to global and national security and to national budgets.

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Giovanni Tartaglia Polcini

- abbassamento del gettito fiscale per beni e servizi: l’evasione, una delle più grandi minacce al gettito fiscale, è diffusa in paesi corrotti; nei casi di corruzione endemica della pubblica amministrazione e nei sistemi in cui sono diffuse le occasioni per evadere le norme tributarie, i soggetti che operano nel mercato economico saranno più propensi a pagare le tangenti anziché le tasse; - innalzamento della spesa pubblica: i funzionari governativi corrotti, tramite progetti di investimento pubblico, hanno spesso l’opportunità di ottenere somme di denaro a fini illeciti; di fronte alla possibilità di beneficiare direttamente dell’assegnazione di contratti a persone legate al potere, i funzionari governativi promuoveranno il maggior numero possibile di progetti pubblici di investimento; scandali di questo tipo non esplodono solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche nelle nazioni più evolute nelle quali la corruzione è notoriamente meno dilagante; a ciò si aggiunga che, in molti paesi, a volte, accade che i progetti assegnati illecitamente producano opere la cui esecuzione sfora di molto i tempi prestabiliti; la corruzione, perciò, è anche causa di una cattiva gestione dei progetti di investimento pubblico e, quindi, contribuisce a maggiori deficit fiscali, mettendo a repentaglio l’intera sana politica fiscale nazionale; - riduzione della fedeltà fiscale: in un paese in cui la qualità dei servizi e dei beni, oltre che la tenuta etica dell’azione amministrativa sono fortemente messi in discussione da una corruzione endemica, la fedeltà fiscale è praticamente decimata; - riduzione della produttività e scoraggiamento dell’innovazione: nei sistemi corrotti, gli individui e le imprese dedicano tempo e risorse alla corruzione (pagando tangenti, coltivando relazioni con agenti corrotti, ecc.) anziché in attività di promozione della crescita sostenibile; la corruzione, inoltre, tende a scoraggiare l’innovazione perché i sistemi corrotti non dispongono di istituzioni governative che tutelano, in maniera efficace, i diritti di proprietà; - aumento dei costi delle attività: il tempo e il denaro spesi per corrompere funzionari governativi e per gestire regolamenti complessi fanno lievitare i costi delle attività; detti costi vengono naturalmente trasferiti in capo ai consumatori attraverso una maggiorazione dei prezzi o un abbassamento della qualità dei prodotti e possono, addirittura, rappresentare un ostacolo all’ingresso di nuove imprese nel mercato; - abbassamento dei livelli di crescita: la corruzione fa male alle piccole imprese perché i suoi alti costi, sia in termini di tempo che in termini di denaro, sono più difficili da sostenere per le imprese di piccole dimensioni; in generale, le piccole imprese hanno meno capacità di evitare la corruzione e tendono ad operare in ambienti altamente competitivi; esse, di conseguenza non possono trasferire i costi della corruzione sui propri clienti; negli ambienti corrotti, è più difficile per le piccole imprese sopravvivere, con ciò creandosi una depressione del tasso di crescita economica dal momento che, nella maggior parte delle economie mondiali, le pmi costituiscono il motore dello sviluppo; - abbassamento dei livelli di occupazione del settore privato: creando barriere all’ingresso di nuove imprese nel mercato e aumentando i costi delle attività commerciali, la corruzione riduce la probabilità di crescita ed espansione dell’occupazione del settore privato; - riduzione del numero di posti di lavoro di qualità nel settore pubblico: i governi corrotti offrono spesso molti lavori poco remunerativi; la polverizzazione delle competenze amministrative si deve alla volontà di proteggere i posti chiave del sistema corruttivo; - aumento di povertà e disuguaglianza: il fenomeno si verifica su un doppio fronte; da un lato, la corruzione contrae il potenziale di reddito dei meno abbienti perché riduce le opportunità di lavoro nel settore privato; dall’altro, la corruzione, limitando la spesa per i servizi pubblici, riduce l’accesso a risorse essenziali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, aumentando le disuguaglianze; - attentato allo Stato di diritto: la corruzione crea una cultura clientelare che quasi mai conduce all’accertamento della responsabilità degli autori degli illeciti;

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- ostacolo a riforme democratiche ed orientate al libero mercato: per avere successo nella costruzione di economie di mercato e di società democratiche, i paesi devono sviluppare istituzioni efficaci che garantiscano la corretta applicazione delle leggi e assicurino un processo decisionale equo e trasparente; nei sistemi corrotti, lo sviluppo di istituzioni solide e ben progettate costituisce un compito arduo anche per i politici più virtuosi; i funzionari governativi corrotti, responsabili delle riforme, sono, di norma, poco inclini ad adottare misure volte a limitare, direttamente o indirettamente, la loro capacità di beneficiare personalmente di tangenti o favori; - aumento dell’instabilità politica: la corruzione mina la legittimità della funzione pubblica, danneggia il processo democratico scoraggiando le persone dalla partecipazione al voto e, perciò, contribuisce all’instabilità politica. Questi, così enumerati, sono gli effetti negativi della corruzione sulla crescita economica a livello di sistema paese. Da ultimo, il Presidente dell’ANAC, Raffaele Cantone, ha voluto sottolineare un’ulteriore e non secondaria conseguenza della corruzione sui sistemi economici, con specifico riferimento alla fuga dei cervelli4. Dipingere un paese come corrotto o anche più corrotto di quanto realmente non sia, può avere come effetti indiretti molte delle sopra riportate conseguenze. È dal 2014, e dall’adozione di quel documento di policy del G20 ACWG, che si è deciso di approfondire la questione e compreso che, non sempre gli esercizi di misurazione, a parere di chi scrive, hanno contribuito ad un avanzamento della effettiva conoscenza degli scenari della corruzione medesima. Ed ancor più in linea con un’analisi funzionale del diritto5, è corretto sostenere che la costruzione di indicatori validi ed efficaci a rappresentare i molteplici aspetti relativi al fenomeno “corruzione” integra il primo ed essenziale passo verso il controllo, la prevenzione e il contrasto alla stessa. Senza misure accurate e affidabili non solo diventa difficile cogliere l’estensione e l’ordine di grandezza del fenomeno, ma anche indirizzare strategie d’intervento istituzionale e politico di contrasto e repressione. In questo contesto si radica il convincimento secondo cui non può misurarsi un fenomeno sociale e criminologico, senza tenere nella dovuta considerazione i mezzi e gli strumenti di prevenzione e contrasto approntati dal sistema ordinamentale. Sarebbe come dire che non può “misurarsi” una malattia senza tener conto del dato scientifico secondo cui gli anticorpi ed i farmaci la slatentizzano portandola alla luce. Laddove invece altrove, in diversi organismi, la malattia resta nascosta e diviene quasi tollerata, senza emergere in tutta la sua virulenza. Nel nostro ordinamento l’indipendenza assoluta dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, che si è aggiunta, sul piano preventivo a quella costituzionale della Magistratura (sia inquirente/ requirente, sia giudicante) sul piano repressivo, assicura una risposta significativa al fenomeno; dette forti connotazioni devono, di conseguenza, essere considerate parametri decisivi per la misurazione della corruzione. In buona sostanza, la serietà dell’azione italiana di contrasto alla corruzione ha anche l’effetto di disvelare, più che altrove, il fenomeno.

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Si allude alla cosiddetta drain brain; cfr. 2016, 23.09. Corriere della Sera. A. Giasanti - V. Pocar, La teoria funzionale del diritto, Milano, 1981.

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Quello che è, indubbiamente un asset del nostro sistema Paese, non può, a fortiori, divenire ragione di stigma per l’Italia. Ecco il motivo principale del presente lavoro. L’Italia è un paese caratterizzato da un significativo tasso di corruzione: si deve nondimeno sostenere con vigore che il giudizio espresso nei confronti del nostro ambiente legalmente orientato – a livello internazionale – è spesso ingeneroso, se non a tratti errato con notevoli conseguenze anche sul piano macroeconomico. A ben leggere, vi sono ampi margini di miglioramento per le tecniche di misurazione della corruzione, seriamente in grado di riscrivere le graduatorie più diffuse sul piano globale, con effetti dirompenti sulle stesse economie. L’ingegneria reputazionale sottesa a determinate misurazioni è, in altri termini, destinata a segnare il passo. È doveroso contribuire all’evoluzione del relativo dibattito scientifico, per favorire una fotografia comparativa della realtà globalizzata più rispondente a dati storici ed effettivi. L’esigenza è stata avvertita e condivisa anche dalla “diplomazia giuridica”: essa si affianca al modello già sperimentato della diplomazia economica e tende a promuovere e tutelare l’immagine e la reputazione del Paese, largamente colpito da una percezione negativa che continua a gravare sull’affidabilità e sull’attrattività del nostro sistema. In ordine alle policy, difatti, negli ultimi anni l’Italia ha svolto un ruolo guida, propositivo e profilato, nei fori multilaterali, favorita dalla validità dei suoi istituti giuridici, delle prassi e dei modelli che si caratterizzano per forza ed efficienza originali e che assurgono a punto di riferimento sul piano globale. Proprio nel momento in cui si registra una crescente domanda di assistenza tecnica, proveniente non solo da paesi in via di sviluppo, finalizzata a conoscere i modelli anticorruzione ed antimafia adottati nel nostro sistema, è necessario, anche sul piano deontologico, fare chiarezza sulla fallacia dell’approccio percettivo della misura della corruzione. In linea con questo intendimento, l’Italia, nell’anno di Presidenza del G76 (2017), ha inteso approfondire il tema con un Seminario di confronto internazionale che ha condotto ai risultati declinati nei documenti richiamati di seguito nel testo.

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Il G7 è un forum informale che riunisce 7 paesi (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, cui si aggiunge l’Unione europea), altamente industrializzati, che perseguono princìpi e valori, quali la libertà, democrazia, rule of law e rispetto dei diritti umani. Esso nasce nella prima metà degli anni Settanta, a seguito della crisi del sistema di Bretton Woods e della crisi energetica del 1973, con una formulazione a sei Stati, come meccanismo di coordinamento in materia economica e finanziaria. Il formato attuale a sette nasce nel 1976, con l’ingresso del Canada. Il G7 ha oggi esteso la sua attività a molteplici diversi altri settori dell’attività internazionale, oltre quelli prettamente economici e finanziari, come l’energia sostenibile, la lotta al cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, la salute e l’eguaglianza di genere. La presidenza giapponese aveva lanciato, al vertice di Ise Shima nel 2016, un filone di lavoro in materia di anticorruzione che è stato ripreso dall’Italia con l’approfondimento tematico in esame.

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Giurisprudenza

nazionale

Sez. Un. Pen., 19 luglio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40986 – Pres. Carcano – Rel. Caputo, P.G. Fimiani Condotta – Evento – Illegittimità costituzionale – Omicidio stradale – Tempus commissi delicti Principio di diritto: “In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta”.

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.

Le Sezioni Unite Penali sul tempus commissi delicti nel reato ad evento differito: le motivazioni della Corte Sommario: 1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. – 2. La questione di legittimità Costituzionale. – 3. L’interpretazione Costituzionalmente orientata e le finalità della pena. – 4. Obiter dictum su reati permanenti ed abituali: brevi cenni alle questioni ancora aperte.

1. Il caso e l’ordinanza di rimessione. Il caso da cui scaturisce la pronuncia in questione, già trattato nel contributo pubblicato sullo scorso numero di questa rivista, cui si rimanda per considerazioni più approfondite1, può essere così brevemente riassunto. Il ricorso chiede la cassazione di una sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato per un omicidio stradale (art. 589 bis c.p.) e sorge da una peculiare vicenda concreta: il sinistro stradale è avvenuto il 20 gennaio del 2016; il decesso, indubbiamente causato dal sinistro stradale, è avvenuto invece successivamente, il 28 agosto dello stesso anno. Il ricorrente lamenta quindi, come unico motivo di doglianza, che il reato ascrittogli a norma dell’art. 589 bis c.p. è stato introdotto nel nostro codice penale in epoca successiva alla condotta contestata, con la Legge n. 41 del 23 marzo 20162. In particolare, ad avviso del ricorrente, è illegittima per violazione degli artt. 25

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G. Cicolella, Tempus commissi delicti e successione di leggi nel delitto di omicidio colposo stradale ad evento differito: la questione alle Sezioni Unite Penali, in Diritto Penale della Globalizzazione, 3/2018, 283. 2 Per un approfondimento sul nuovo delitto di omicidio colposo stradale si vedano: G. Losappio, Dei nuovi delitti di omicidio e lesioni “stradali”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 2016; A. Massaro, Da un diritto penale frammentario ad un diritto penale frammentato, ivi, 2016; F. Piccioni, L’omicidio stradale, Torino, 2016; Id., Molte le incongruenze che rischiano la scure della consulta, in Guida al diritto, 9 Aprile 2016, n. 16, 51-54; A. Roiati, L’introduzione dell’omicidio stradale e l’inarrestabile ascesa del diritto penale della differenziazione, in www.dirit-


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Cost., 7 Convenzione EDU e 2 c.p. l’applicazione al suo caso del nuovo 589 bis c.p., anziché il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, vigente all’epoca della condotta: con l’applicazione della norma più recente l’imputato subisce conseguenze sanzionatorie più gravose senza che queste potessero essere prevedibili al momento della condotta. La Quarta Sezione Penale, con ordinanza del 4 aprile 2018, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio da applicare nel caso di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole, il cui evento sia però intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole. La Suprema Corte, dopo aver trattato in via incidentale due diverse questioni afferenti il piano processuale3 e dopo aver sommariamente analizzato le posizioni in contrasto sul tema, si è espressa sulla questione centrale del ricorso propendendo senza riserve per le ragioni del ricorrente4. La Corte ha infatti affrontato la risoluzione del quesito prendendo le mosse dall’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2 co. 4 c.p. e giungendo alla seguente conclusione: nel caso di una condotta posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento verificatosi nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge più favorevole, vigente al momento della condotta. Tale soluzione appare “rivoluzionaria” rispetto alla lunga tradizione giurisprudenziale sul tema e sembra aprire così un varco anche per altre tipologie di reati per cui il problema del differimento dell’evento rispetto alla condotta impone alcune riflessioni nel caso in cui sopraggiunga una nuova normativa.

topenalecontemporaneo.it, 2016; E. Squillaci, Ombre e (poche) luci nell’introduzione dei reati di omicidio e lesioni personali stradali, ivi, 2016; A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, 4a Milano, 2017, 249 ss. 3 (Relative rispettivamente ai termini per proporre ricorso contro una sentenza di patteggiamento e la legalità della pena). 4 La questione sollevata dal ricorrente ed esaminata dalla Cassazione attiene al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio nei reati di danno. L’individuazione della legge applicabile al caso concreto, infatti, presuppone l’identificazione del tempo in cui il delitto di danno può dirsi compiuto: in base al momento di commissione del delitto si determina la norma applicabile; di conseguenza, a seconda di quale sia il momento di commissione del delitto, può o meno venire in evidenza un problema di successione di leggi nel tempo. I due principali criteri risolutivi del problema di individuazione del tempus commissi delicti sono noti come teoria della condotta e teoria dell’evento. Il secondo dei due orientamenti citati, definito anche teoria della consumazione prescrive che per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della consumazione del reato che, nei reati di danno a forma libera, interviene al momento del verificarsi dell’evento previsto dalla fattispecie incriminatrice. Tale percorso argomentativo implica che in caso di reati ad evento differito, qualora tra condotta ed evento sia divenuta efficace una nuova fattispecie penale, non si pone un problema di successione di leggi nel tempo: risulta comunque applicabile l’unica legge vigente al momento in cui il fatto antigiuridico è venuto ad esistenza, ossia il momento in cui si è verificato l’evento. Al contrario secondo i sostenitori della teoria della condotta, è al momento dell’esecuzione dell’attività del reo che bisognerebbe guardare per l’individuazione della disciplina applicabile in caso di successione di leggi poiché, come autorevolmente sostenuto, la condotta è l’estrinsecazione del processo di motivazione dell’agente e l’atto di ribellione con riferimento al quale, secondo la norma allora vigente, il soggetto poteva eventualmente rappresentarsi specifiche conseguenze del suo operato.

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Sino ad oggi infatti la granitica giurisprudenza di legittimità individuava il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi nel tempo per i reati di evento al momento della consumazione del delitto, che per questa tipologia di reati è indubbiamente da fissarsi al momento di verificazione dell’evento stesso5. I problemi di ordine pratico cui si andava incontro in conseguenza di tale ricostruzione, soprattutto nel caso di reati ad evento lungo-latente, erano stati per lungo tempo sottolineati dalla dottrina e da un filone giurisprudenziale minoritario che, nella pronuncia Bartesaghi, ne osservava le irragionevoli conseguenze: «seguendo la tesi della giurisprudenza consolidata si giungerebbe all’applicazione retroattiva della legge nel caso di nuove e più gravi statuizioni penali, quando la condotta si sia esaurita sotto l’imperio di una legge che non prevedeva il fatto come reato, o che lo prevedeva meno grave di quanto non sia considerato nelle nuove. In tal modo il reo verrebbe ad essere punito più gravemente per il fatto puramente casuale che nel periodo di tempo intercorrente tra la sua condotta e l’evento sia sopraggiunta la nuova legge, in tal modo determinandosi quell’incertezza sul grado di illiceità del comportamento umano che è esclusa in modo assoluto dal principio di irretroattività»6. Proprio da questo argomento prende le mosse la motivazione della sentenza in commento, non prima però di aver esaminato il problema segnalato dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta in cui si è chiesto, in via principale, che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 4 c.p.

2. La questione di legittimità costituzionale. Secondo quanto sostenuto nella requisitoria scritta del Procuratore Generale, l’art. 2 co. 4 c.p. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui fa riferimento alla commissione del “reato” e non del “fatto”, anche con riguardo ai reati di evento, qualora quest’ultimo sia differito nel tempo e, dopo la realizzazione della condotta, sopravvenga una disciplina punitiva meno favorevole. La questione di illegittimità costituzionale che il Procuratore chiede di sollevare fa perno sul rilievo che la scissione degli elementi costitutivi del reato non è consentita in via interpretativa. Sicché il riferimento al concetto di reato nell’art. 2 co. 4, onnicomprensivo di tutti i suoi elementi quali condotta, nesso causale ed evento naturalistico, impedisce l’applicazione della teoria della condotta, provocando l’effetto irragionevole e non conforme al dettato costituzionale di sottoporre alla legge sfavorevole l’attività del reo compiuta durante la vigenza della normativa più favorevole.

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Sull’evento in senso generale si veda, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche: N. Mazzacuva, Voce Evento, in Dig. disc. pen., Torino, IV, 445 ss.; F. Stella, La descrizione dell’evento. L’offesa – il nesso causale, Milano, 1970; D. Santamaria, Voce Evento (diritto penale), in Enc. Dir., Milano, 1967, XVI,118; Più in dettaglio, a proposito della teoria dell’evento nel tempus commissi delicti: F. Antolisei, Diritto penale. Parte generale, 16a Milano, 2003; in Giurisprudenza ex multis: Cass. pen., sez. IV, 11 ottobre 2016, n. 44335; Cass. pen., sez. fer., 9 settembre 2014, n. 3148; Cass. pen., sez. VI, 9 ottobre 2012, n. 4157; Cass. pen., sez. IV, 14 maggio 1988; Cass. pen., sez. V, 18 settembre 2015 (deposito: 16/2/2016), n. 6340; Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2013 (deposito: 14/1/2014), n. 1194; si veda inoltre la giurisprudenza citata in G. Forti - S. Seminara - G. Zuccalà, Commentario breve al Codice penale, Padova, 2016, 91 ss. 6 Cass. pen., SS.UU., n. 40986/2018, 15.

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Tale percorso argomentativo non viene però condiviso dalle Sezioni Unite. Il dato letterale, ad avviso della Corte rimane l’oggetto prioritario dell’attività interpretativa e ne segna il limite esterno, ma tale esame non esonera il giudice dalla ricerca di tutti i possibili significati rinvenibili nel testo della norma entro il “limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale”7. L’interprete dunque, prima di sollevare la questione di illegittimità costituzionale, è tenuto ad esplorare a fondo le potenzialità linguistiche della norma anche rispetto al sistema normativo in cui è inserita, per trarne tutti i significati autorizzati dal testo. Nel caso di specie, sempre ad avviso della Corte, il riferimento al “reato” e non al “fatto” non assume la valenza attribuitagli dal Procuratore Generale, ossia la considerazione del reato nella totalità dei suoi elementi essenziali: con il termine “fatto” i primi due commi dell’art. 2 si riferiscono invece alla fattispecie non più penalmente sanzionata mentre il termine “reato” di cui al quarto comma evoca la fattispecie ancora penalmente sanzionata e perciò assoggettata al regime della successione di leggi penali. Rimandando, per il momento, le considerazioni relative a quest’ultimo passaggio argomentativo, va sottolineato come a proposito della questione di legittimità costituzionale, nei limiti di cui si dirà, si ritiene di dover accogliere la posizione delle Sezioni Unite. La mozione di illegittimità presentata dal Procuratore Generale si regge infatti su un assunto. La sostituzione del riferimento alla commissione del reato, che è presente nell’art. 2 co. 4, con il riferimento al fatto, al fine di rendere applicabile la teoria della condotta, non è consentita in via interpretativa poiché provoca uno stravolgimento del testo di legge, in violazione dell’art. 3 Cost. Come già sottolineato nel commento all’ordinanza di remissione il riferimento al reato che fa l’art. 2 comma 4 contrasterebbe, al più, ad avviso di chi scrive, con il dettato dell’art. 25 co. 2 Cost. e non direttamente con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Come noto infatti tra i “corollari” del principio di legalità presenti nella Costituzione l’art. 25 co. 2, Cost. detta la disciplina costituzionale della successione di leggi penali nel tempo, enunciando il principio di irretroattività in materia penale8. La natura immediatamente precettiva del principio di irretroattività della norma penale sancito dall’art. 25 co. 2 la rende parametro per la legittimità della prescrizione di rango ordinario, in altri termini è rispetto all’art. 25 co. 2 e non all’art. 3 che andrebbe indagata la legittimità Costituzionale dell’art. 2 co. 4 cod. pen. Come sottolineato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite invero prima della questione di legittimità costituzionale deve tentarsi il percorso di interpretazione costituzionalmente conforme ed utilizzando come parametro il principio di irretroattività sancito a norma dell’art. 25 co. 2, si ritiene possa ricondursi ai più generali principi di favor rei anche il testo dell’art. 2 co. 4 c.p. L’art. 2 infatti, facendo riferimento al concetto di “reato”, pone la questione sul piano prettamente giuridico (cioè della qualificazione giuridica di un certo fatto), mentre l’art. 25, co. 2,

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SS. UU. Civ., n. 15144 dell’11/07/2011; SS. UU. Civ., n. 27341 del 23/12/2014. Si tratta di un’impostazione kelseniana dell’interpretazione: H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Milano, 1988. Tale teoria dell’interpretazione ha poi fornito materiale per lo sviluppo del realismo interpretativo della c.d. Scuola genovese dell’interpretazione (Tarello, Guastini, Chiassoni). 8 M. Siniscalco, Irretroattività delle leggi in materia penale, Milano, 1987, 73.

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Cost. si riferisce al “fatto” e dunque àncora la prescrizione costituzionale al piano naturalistico (cioè all’accadimento materiale di un certo fatto). Se nel testo dell’art. 25 co. 2 si sostituisse al termine “fatto” il concetto di “accadimento materiale sul piano naturalistico” prospettato da parte della dottrina9 si giungerebbe alla conclusione di poter così riformulare la norma costituzionale: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima dell’esecuzione del primo atto della condotta”10. Il risultato di tale attività meramente interpretativa appare soddisfacente: come evidenziato dalle Sezioni Unite gli strumenti dell’interpretazione costituzionalmente conforme permettono di modellare il dettato dell’art. 2 co.4 su quello dell’art. 25 co. 2 e di conseguenza di sostenere che l’art. 2 contenga già in sé la via per giustificare l’applicazione della teoria della condotta, escludendo la necessità di ricorrere ad un intervento chiarificatore della Corte Costituzionale. Per altro verso le Sezioni Unite sostengono che «nella disposizione codicistica il riferimento al “reato” e non al “fatto” non assume la valenza attribuitagli dal Procuratore generale, ossia la considerazione del “reato” nella triade dei suoi elementi costitutivi (condotta – nesso causale – evento naturalistico), invero, con il termine “fatto” il primo ed il secondo comma dell’art. 2 cod. pen. evocano la fattispecie non (o non più) penalmente sanzionata, mentre il termine reato di cui al quarto comma indica quella penalmente sanzionata (e assoggettata al regime della successione di leggi)»11. Ad una prima lettura sembrerebbe di poter rinvenire un elemento contraddittorio nel percorso logico seguito dalla Corte: Le Sezioni Unite sembrano infatti trascurare un importante effetto della distinzione che prospettano: se l’art. 2 co. 4 si riferisce al reato, ergo ad un comportamento umano, riconosciuto antigiuridico dall’ordinamento, che sia venuto ad esistenza in tutti i suoi elementi (condotta – nesso causale – evento) ed abbia prodotto come risultato un evento giuridico e/o naturalistico che il legislatore espressamente ritiene meritevole di pena12, non potrà dirsi applicabile, in conformità alla littera legis, la teoria della condotta ad un delitto ad evento differito13. A questo ordine di critiche le Sezioni Unite replicano che «il riferimento letterale alla “commissione del reato” non è di ostacolo all’individuazione della condotta dell’agente quale punto

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G. Vassalli, Il fatto negli elementi del reato, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 1984, 2, 552, che fa sul punto riferimento anche a G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova, 1930. 10 Si torna quindi all’applicazione della teoria della condotta elaborata da M. Romano, Commentario sistematico del Codice penale, artt. 1-84, Milano, 1995, 53 ss.; A. Manna, Corso di diritto penale parte generale, cit., 154; G. Fiandaca - E. Musco, Manuale di diritto penale parte generale, cit., 117. 11 SS.UU. n. 40986/2018, 17. 12 Per un approfondimento sulla definizione del concetto di reato si veda G. Marini, Voce Reato, in Enc. Giur., Torino, 2006, XXIX, 1. 13 Se infatti è necessario che l’evento del reato sia venuto ad esistenza ai fini dell’applicazione delle norme sulla successione di leggi penali sarà applicabile la sola teoria dell’evento, detta anche teoria della consumazione, secondo cui, per il trattamento sanzionatorio deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della consumazione del reato che, nei reati di danno a forma libera, interviene al momento del verificarsi dell’evento previsto dalla fattispecie incriminatrice. Tale percorso argomentativo implica che in caso di reati ad evento differito, qualora tra condotta ed evento sia divenuta efficace una nuova fattispecie penale, non si ponga un problema di successione di leggi nel tempo: risulti comunque applicabile l’unica legge vigente al momento in cui il fatto antigiuridico è venuto ad esistenza, ossia il momento in cui si è verificato l’evento.

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di riferimento cronologico alla successione di leggi: la mancanza, nel codice penale, di una nozione onnicomprensiva del tempus commissi delicti e la valenza dei richiami al fatto e al reato nell’art. 2 cod. pen. convergono nell’individuazione di un’area semantica dell’espressione “reato commesso” nella quale è riconducibile, in via interpretativa, il criterio della condotta, senza fuoriuscire dall’ambito dei significati autorizzati dal testo legislativo, ossia dal quarto comma dello stesso art. 2». La convergenza dei termini “fatto” e “reato” nel concetto di “reato commesso” paventata dal Supremo Consesso non può essere accolta de plano. Tuttavia, nel ristretto ambito delle questioni relative alla successione di leggi il concetto di “reato commesso” può essere funzionale. L’assenza di una nozione generale sul tempus commissi delicti favorisce infatti ampi scenari interpretativi e tra questi la ricostruzione effettuata dalla Suprema Corte genera risvolti coerenti alle funzioni prasseologiche e di politica criminale dell’istituto. Il favor rei in tal caso dovrà infatti prevalere sul limite imposto dal significato testuale dei termini poiché quest’ultimo deve comunque modellarsi sulla ratio generale della disciplina. In conclusione, tirando le fila del ragionamento delle Sezioni Unite, posto alla base del rigetto della questione di legittimità proposta dal Procuratore Generale, può dirsi che l’interpretazione costituzionalmente orientata si sia dimostrata un valido alleato all’applicazione diretta di principi consolidati, ed al contempo l’impossibilità di individuare una nozione di tempus commissi delicti che sia valida per tutti gli istituti permette di calare di volta in volta il dettato normativo sulla ratio di ciascuno di essi, ottenendo un insieme di per sé armonico e coerente rispetto alle garanzie costituzionali dettate per la materia della successione di leggi.

3. L’interpretazione costituzionalmente orientata e le finalità della pena. Nell’individuare le ragioni poste a fondamento dell’adesione all’orientamento minoritario le Sezioni Unite sottolineano il rilevo di due distinte argomentazioni: l’interpretazione sistematica della norma alla luce dei principi costituzionali che regolano la materia e la conformità di tali principi rispetto alle funzioni della pena. Per quanto concerne i principi costituzionali posti a fondamento della materia della successione di leggi, la Corte sottolinea anzitutto la centralità della ratio sottesa al principio di irretroattività per come è formulato a norma dell’art. 25 co. 2 della Costituzione. Ad avviso delle Sezioni Unite, il principio di irretroattività tutela la persona contro i possibili arbitri del legislatore, imponendo la necessità che la legge penale e le sue conseguenze sanzionatorie siano conoscibili al momento dell’agire delittuoso. Tale principio è da valutarsi quale valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento, neanche rispetto ad altri valori costituzionali, a differenza di quanto accade per il principio di retroattività della norma penale più favorevole che, ad avviso del Supremo Consesso, rinverrebbe il suo fondamento nel principio di eguaglianza e dunque sarebbe suscettibile di limitazioni e deroghe. Ad avviso della dottrina, invece, il principio di irretroattività in sé non funge da canone assoluto per la materia della successione di leggi ma si presenta come corollario del più generale principio del favor rei14.

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A. Pagliaro, Legge penale nel tempo, in Enc. Dir., Milano, 1973, XXIII, 1064.

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È condivisibile quanto rilevano le Sezioni Unite alla luce delle univoche indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale15 quando sottolineano come il momento della condotta debba essere considerato il punto di riferimento essenziale a garantire la calcolabilità delle conseguenze penali delle proprie azioni, poiché il principio di irretroattività così applicato funge anche da tutela per la libertà di autodeterminazione dell’individuo. Già in passato la Corte Costituzionale aveva sottolineato l’importanza fondamentale della tutela delle libere scelte d’azione del cittadino, nelle sentenze n. 364 e 1085 del 1988, a proposito del principio di colpevolezza in rapporto alla conoscibilità del precetto violato si legge infatti: « Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella “non colpevole” e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto»16. Del resto la stessa Corte giunge a sottolineare come questa soluzione sia l’unica oggettivamente coerente con il principio personalista che il Costituente ha posto tra i pilastri fondamentali della nostra Carta Costituzionale17. Proseguendo nella motivazione le Sezioni Unite si soffermano sulla conformità dell’applicazione della teoria della condotta alle funzioni costituzionali della pena. L’individuazione del tempus commissi delicti al momento della condotta sembra infatti collidere anche con le finalità di general prevenzione e rieducazione proprie delle sanzioni penali18. Come sottolineato nel corpus della pronuncia, dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, e più nello specifico dall’intervento dell’onorevole Giovanni Leone, si evince come la ratio posta alla base dell’introduzione del principio di irretroattività sia da individuare nella volontà di stabilire in maniera precisa la preesistenza della norma penale non solo all’evento, ma anche all’azione, poiché è in quest’ultima che si realizza il contrasto tra la volontà imputabile del delinquente e la volontà della legge. Conseguenza naturale di tale principio è che la norma si esprima nella sua funzione di prevenzione generale al comportamento illecito dei cives, del resto solo in tal modo ognuno dei consociati è posto nelle condizioni di discostarsi consapevolmente dalla legge penale e di subirne altrettanto consapevolmente le conseguenze sanzionatorie.

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Corte Cost., sent. n. 394/2006; sent. n. 236/2011; sent. n. 230/2012. Corte Costituzionale, n. 364 del 23 marzo 1988, considerato in diritto par. 8, cit.; si veda per un commento: G. Azzali, Scritti di teoria generale del reato, Milano, 1995, 33 ss.; tale posizione della Corte è tra l’altro perfettamente compatibile con le recenti valutazioni effettuate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso Contrada c. Italia (n. 3 del 14/04/2015), dal testo della sentenza si evince infatti una interpretazione conforme dell’art. 7 CEDU ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale. 17 Per un commento alla funzione del principio personalista nella Costituzione si veda C. Mortati, Commentario della Costituzione. Principi Fondamentali, artt. 1-12, Bologna, 1975, 6. 18 Per un approfondimento sulle funzioni della pena si veda: A. Manna, Corso di diritto penale parte generale, Milano, 2017, 617 ss. 16

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La consapevolezza dell’illiceità del proprio atto è perno essenziale per l’instaurarsi di un percorso rieducativo poiché, come di recente sottolineato dalla Corte Costituzionale, muovendo dalla lettura congiunta del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost. si evince che «alla possibilità di conoscere in anticipo la norma penale va attribuito un ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti in quanto tale possibilità è il presupposto della rimproverabilità del fatto»19. Di conseguenza solo la libertà e la consapevolezza del soggetto di agire nel vigore di una norma incriminatrice permettono all’ordinamento di incardinare un percorso di rieducazione, tale meccanismo diverrebbe invece ingiusto nel caso di una repentina ed imprevista variazione del testo di legge, così come nel caso dell’inflizione di una pena più grave dovuta soltanto al differimento involontario del momento di consumazione del reato. In altri termini è della violazione del precetto vigente al momento dell’azione che l’agente risponde all’ordinamento e non del verificarsi dell’evento, la cui venuta ad esistenza in un momento diverso può essere del tutto indipendente dalla volontà del reo.

4. Obiter dictum su reati permanenti ed abituali: brevi cenni alle questioni ancora aperte. L’ultima parte della motivazione, dedicata ad un obiter dictum a proposito delle altre tipologie di reati “a tempi plurimi” sembra invece lasciare aperte diverse questioni interpretative. Per quanto riguarda il reato permanente la Corte sottolinea come il sopravvenire di una legge penale più sfavorevole nel corso dello svolgimento di una condotta protrattasi nel tempo, rende legittima l’applicazione della normativa più recente, anche se meno favorevole, perché il protrarsi dell’agire assicura la conoscibilità e calcolabilità delle nuove conseguenze penali della condotta tenuta. In questo caso il tempus commissi delicti, conformemente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, andrebbe individuato al momento della cessazione della permanenza, pur se in concreto ciò comporti l’applicazione di una legge sfavorevole, senza per questo ledere i diritti dell’agente costituzionalmente garantiti. A proposito dell’individuazione del tempus commissi delicti nei reati permanenti si registrano divergenti posizioni anche in dottrina: ad avviso di alcuni, contrariamente a quanto sostenuto dalle Sezioni Unite, il tempo andrebbe individuato all’inizio della consumazione poiché «la situazione in atto quando entra in vigore la nuova norma costituisce un tutt’uno con la condotta iniziale che l’ha determinata ed è quindi da valutare insieme ad essa. Se il momento fosse quello della cessazione della permanenza allora un eventuale inasprimento legislativo finirebbe per violare nella sostanza il principio di irretroattività della legge più sfavorevole20». Per altri invece, in conformità alla ricostruzione effettuata dalla Corte, il reato permanente si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l’ultimo atto con cui mantiene volontariamente la situazione antigiuridica e da ciò consegue che nel caso in cui si registri una modifica della fattispecie in peius il soggetto che continui a protrarre la condotta illecita,

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Corte Cost., Sent. n.149/2018. M. Romano, Commentario sistematico del Codice penale, artt. 1-84, Milano, 1995, 53 ss.; G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte Generale, VI ed., 2009, 106; A. Manna, Corso di diritto Penale parte generale, Milano, 2017, 154. 20

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Le Sezioni Unite Penali sul tempus commissi delicti nel reato ad evento differito: le motivazioni della Corte

potrebbe legittimamente essere sottoposto alla legge più severa perché vigente al momento della commissione21. Sul punto si ritiene di dover concordare con la posizione della dottrina maggioritaria e dunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nella pronuncia in commento, va rilevato come proprio la precedente adesione al criterio della condotta alla luce della sua conformità al dettato costituzionale non possa collidere con l’individuazione del tempus commissi delicti al momento del cessare della permanenza per i reati di tal specie. Si produrrebbe in tal modo una violazione in concreto della ratio posta alla base del principio di irretroattività, applicando di fatto la legge meno favorevole, a causa di un’inammissibile frammentazione del delitto nella sua tempistica pre- e post- modifica legislativa. Il reato permanente va considerato un unicum, del resto sua caratteristica è proprio il protrarsi omogeneo della condotta nel tempo, per cui utilizzare la modifica legislativa quale linea di demarcazione rispetto a due distinte “fasi” della condotta implicherebbe presupporre che nel soggetto agente vi siano state più deliberazioni a delinquere e dunque più reati, non uno solo, snaturando completamente la peculiarità dell’istituto. Rispetto al reato abituale il quadro interpretativo si complica ulteriormente. Le Sezioni Unite indicano come modello della disciplina sul reato abituale le più recenti pronunce in tema di atti persecutori sostenendo che: «il tempus commissi delicti ai fini della successione di leggi penali, coincide con la realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato. […] A proposito dell’introduzione del reato di atti persecutori e dunque, in presenza non già di uno jus superveniens portatore di un trattamento sanzionatorio più severo, bensì di una nuova incriminazione, la cui applicabilità presuppone la realizzazione, dopo l’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice, di tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612 bis cod. pen.( e non solo, ad esempio, di un ultima condotta persecutoria preceduta da altre intervenuta prima della novella legislativa che ha previsto il reato): per l’applicabilità della nuova norma non è quindi sufficiente che sia stato compiuto l’ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia stato preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice ( sez. 5, n. 54308 del 25/09/2017), mentre atti posti in essere prima dell’introduzione della nuova fattispecie non possono rientrare nella condotta prevista e punita a norma dell’art. 612 bis c.p. ma neppure possono proiettare la loro irrilevanza penale su atti successivi degradandoli a post-factum non punibile»22. Nonostante si apprezzi la coerenza logica ed argomentativa di tale posizione, va detto che da questo passaggio della pronuncia non se ne colgono con puntualità i risvolti applicativi. Il riferimento all’ ipotesi dell’introduzione di una nuova fattispecie non rende il caso dell’art. 612 bis adatto a fungere da modello generale: quid juris per il caso della modificazione della normativa in peius? È pacifico infatti che per l’ipotesi della nuova introduzione, ai fini dell’applicabilità della legge sfavorevole sopravvenuta, sia necessario che appartenga ad un momento successivo alla modifica legislativa non soltanto l’ultimo atto della condotta, ma anche altri comportamenti tipici ugualmente compiuti nella vigenza della nuova norma, poiché in caso contrario si proietterebbe l’impunità dei primi atti su quelli che attualmente costituiscono reato.

21 22

G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2015, 133-134. SS.UU. n. 40986/2018, 23.

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Al contrario per il caso della modifica in peius non può sfruttarsi tale automatismo. Gli atti compiuti prima dell’entrata in vigore della nuova normativa costituivano ugualmente reato, ed il protrarsi delle condotte oltre la modifica legislativa non può di per sé solo giustificare l’inflizione di una pena in concreto meno favorevole, anche se l’applicazione della teoria della condotta sembra proprio portare a questo risultato. Alla luce di queste ultime considerazioni può concludersi sostenendo che per quanto la neointrodotta apertura delle Sezioni Unite Penali alla teoria della condotta rappresenti un enorme passo avanti sul piano delle garanzie costituzionali per il reo, al contempo molte altre questioni interpretative rimangono aperte e si auspica in proposito un altrettanto puntuale vaglio di conformità alla ratio del principio di irretroattività. Si concorda con le Sezioni Unite quando sostengono che non è possibile stabilire una regola per l’individuazione del tempus commissi delicti che sia valida universalmente per tutti gli istituti, e dunque come conseguenza della pronuncia qui in commento sarà in futuro necessario stabilire in che termini e rispetto a quali ipotesi la teoria della condotta possa essere utilizzata per individuare un tempo del commesso conforme alla ratio delle garanzie costituzionali. Giulia Cicolella

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Corte di Cassazione, 17 maggio 2018 (dep. 25 settembre 2018), n. 22689/2018, Pres Dott. Vittorio Nobile – Rel. Dott. Pagetta Simulazione rapporto di lavoro dirigenziale – Onere della prova – Mala gestio dirigenziale Subordinazione Nei casi si sovrapposizione di una carica sociale e di un rapporto di lavoro entrambi attribuibili a un lavoratore è necessario fornire la prova specifica di entrambe le posizioni, restando alla parte che ne ha interesse l’onere della prova sia del vincolo della subordinazione del rapporto inter partes, sia la prova della simulazione del rapporto lavorativo.

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Simulazione del rapporto di lavoro e onere della prova, anche nei rapporti caratterizzati da apicalità Sommario: 1. La questione – 2. Lo svolgimento. – 3. In conclusione.

1. La questione. Con la recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro n. 22689 del 17 maggio 2018 e depositata il 25 settembre, i Giudici della legittimità sono tornati ad esaminare un argomento da sempre ampiamente dibattuto tra giurisprudenza e dottrina, ovvero la questione dell’onere della prova in ambito di rapporti di lavoro simulati. La tematica risulta, come nel caso di specie, complicata dalla sovente sovrapposizione dei criteri di simulazione a quelli della subordinazione del rapporto lavorativo. In tale ambito, l’orientamento consolidatesi in materia di giudizi di lavoro, impone a colui che intenda far accertare la natura subordinata del proprio rapporto di lavoro, al fine di poter usufruire delle relative prestazioni previdenziali ed assicurative, l’onere di provare in modo certo l’effettività dell’elemento tipico e qualificante del requisito della subordinazione (Cass. Civ. sent. 7139/2003), ovvero la soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. Civ. sent. 2728/2010). Sulla base di tale impostazione, si è recentemente espressa la Suprema Corte su un ricorso che una lavoratrice aveva predisposto avverso alla sentenza della Corte d’Appello di Torino (sent. n. 812/2013), che aveva confermato la sentenza, con la quale già era stata condannata in primo grado. La Ricorrente Sign. I.P. aveva, infatti, instaurato con la convenuta M. Eng. un rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale e successivamente licenziata a causa di assunta mala gestio dirigenziale. Nel giudizio di prime cure aveva chiesto accertarsi l’insussistenza della giusta causa di recesso e condannarsi la società al pagamento di somme a titolo di differenze retributive, indennità sostitutiva del preavviso e relativa incidenza sul TFR, indennità supplementare di cui all’art. 18 C.C.N.L. Dirigenti Industria, della parte variabile della


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retribuzione, nonché accertarsi il diritto all’opzione per la sottoscrizione di azioni della società, nonché richiesto la condanna della società al risarcimento del danno all’immagine. Il giudice d’appello, avendo premesso che non era stata impugnata la statuizione di rigetto della domanda relativa alle stock options ed al risarcimento del danno all’immagine, già aveva ritenuto che la sign. I.P., sulla quale aveva ricondotto il relativo onere della prova, non avesse allegato e dimostrato lo svolgimento di attività di lavoro subordinato espletata in aggiunta a quella svolta in veste di Amministratore delegato della società, della quale era anche Presidente del Consiglio di Gestione. Secondo la Corte territoriale le allegazioni prodotte a riguardo si riferivano, infatti, ai soli compiti, che per la loro ammessa apicalità, erano senz’altro riconducibili alla carica sociale rivestita. La delega, come ha specificatamente indicato la giurisprudenza di legittimità, consiste in una vera e propria “autorizzazione all’esercizio di determinati poteri”, che ben si distinguono da quelli del lavoratore subordinato (Cass. Civ., 17 luglio 1979, n. 4191)1. Nel caso di specie, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, oltre la carica di AD, in assenza di concreta allegazioni e prove sull’effettivo atteggiarsi del rapporto, emergeva formalmente e meramente dal contratto di lavoro stipulato tra l’Azienda e la Lavoratrice. In questa prospettiva lo stesso esercizio del potere disciplinare da parte della società assumeva natura sostanzialmente necessitata, in quanto derivante dalla formale configurazione del rapporto di cui al contratto postulato, al quale, tuttavia, non corrispondeva una situazione di fatto rapportabile con certezza allo schema della subordinazione2. L’allontanamento del lavoratore si costituiva, così, quale azione necessitata, di per sé, anche per il ruolo di amministratore delegato rivestito dalla Ricorrente. Potendo, infatti, il Consiglio revocare in ogni momento i poteri conferiti, avendo l’atto di revoca natura organizzativa insindacabile, non soggiacente al principio del risarcimento del danno, se non in presenza di una provata giusta causa (Cass. Civ., 6 agosto 1967, n. 2295, in Vita Not., 1968, 36), la specifica ipotesi di mala gestio addebitata, oltre ad ammettere la configurabilità del risarcimento, ben legittimava l’azione revocatoria. Dati questi presupposti, la lavoratrice, sostenendo errore di diritto, adiva il giudizio di legittimità, fondando le proprie doglianze su tre diversi motivi di ricorso: il primo motivo deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in tema di onere della prova della simulazione del contratto di lavoro subordinato intercorrente tra la società ed il soggetto che ne fosse anche amministratore; sostenendo che, nell’ipotesi in cui sussista un titolo giuridico da cui risulti la vigenza di un contratto di lavoro (in parallelo al mandato di amministratore), dovesse essere la controparte interessata (e quindi il Datore di lavoro) a doverlo sconfutare, per effetto di una presunta inversione dell’onere della prova3.

1

La Corte evidenzia che in tema di rapporto dirigenziale la distinzione, tra il ruolo dell’amministratore e quello del dirigente (lavoratore subordinato), non passa solo per profili gerarchici, ma anche per diversità di funzioni, in quanto l’amministratore forma e manifesta la volontà dell’impresa e la rappresenta, ma non si occupa di profili tipicamente aziendali di gestione, quali quelli riguardanti il marketing, il rapporto con la clientela, i fornitori, ecc., tipici del dirigente. Giova ricordare che il nostro codice civile non definisce in modo diretto né il contenuto del potere di gestione, tantomeno il contenuto della c.d. funzione esecutiva: esse si ricavano in via interpretativa sulla base delle norme che sanciscono i diritti ed impongono i doveri in capo agli amministratori stessi. Vd. F. Galgano, Le società per azioni, 2 ed., in Trattato di dir. Comm., diretto da F. Galgano, VII; F. Ferrara - Corsi, Gli imprenditori e le società, 7 ed., Milano, 1987; Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985. 2 Vd. Cass. Civ., Sezione lavoro, n. 22689/2018 cfr. 1. 3 Secondo la Lavoratrice l’errore di diritto della sentenza impugnata, era ravvisabile nell’avere posto a carico della stessa l’onere di dimostrare la corrispondenza della situazione di fatto al contratto di lavoro subordinato stipulato tra le parti, onere che, invece, sarebbe gravato sul datore di lavoro; tuttavia tale tesi è rigettata.

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Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduceva, poi, anche la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 cod. civ. in ambito di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro dirigenziale, in parallelo ad un rapporto di amministrazione sociale in capo allo stesso soggetto, deducendo la contraddittorietà della parte motivata della sentenza di secondo grado, nella parte in cui si valutava la prova oggettiva della natura della prestazione (ovvero il contratto), per cui ammessa tale produzione non sarebbe stato necessario argomentare ulteriormente sulla corretta distribuzione dell’onere probandi. Infine, con il terzo motivo si deduceva poi la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 2730 e 2732 cod. civ. in ordine al carattere confessorio del procedimento disciplinare esperito dal Datore di Lavoro, poiché, a parere della Ricorrente, con l’esercizio dei tipici poteri disciplinari (il licenziamento) la società avrebbe posto in essere, in sé, un riconoscimento del rapporto di lavoro di natura simulata.

2. Lo svolgimento. La Suprema Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto di valutare unitariamente predetti motivi di ricorso, ritenendoli tutti intesi a contestare, sotto vari profili, l’accertamento connesso alla natura del rapporto inter partes. Gli Ermellini hanno, infatti, presupposto come consolidato il principio della cumulabilità tra la qualità di amministratore delegato e quella di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali, purché tra i due ruoli si accerti in concreto l’attribuzione di mansioni differenti (Ex multis Cass. 6/11/2013 n. 24972; Cass. 30/09/2016 n. 19596; Cass.14/01/2000 n. 381). Su tale assunto, resta comunque a carico del soggetto interessato la prova della simulazione e del vincolo della subordinazione del rapporto inter partes, ovvero dell’effettiva prestazione di natura subordinata e dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società (Cass.6/04/1998 n. 3527; Cass. 6/11/1995 n. 11565). Su tale base, la Suprema Corte ha rilevato come nel caso de quo ben il Giudice d’Appello, pur avendo affermato in limine che l’onere probatorio relativo all’esistenza della subordinazione fosse stato a carico della Lavoratrice, la quale comunque non lo aveva assolto, essendosi limitata a produrre il solo contratto individuale, senza nulla ulteriormente allegare e provare in ordine al concreto atteggiarsi del rapporto, non si era arrestato a tale mera considerazione, ma aveva proceduto in un preciso ordine logico. La Corte territoriale in applicazione della regola dell’onere probatorio fatta già propria dal giudice di prime cure aveva, infatti, proceduto sulla base delle emergenze in atti, alla ricostruzione dell’effettivo atteggiarsi del rapporto e sulla base di tale ricostruzione, aveva ampiamente escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Risultava, così, valorizzata la circostanza che le mansioni di «ammessa apicalità», come allegate nel ricorso introduttivo, erano senz’altro riconducibili al ruolo di amministratore delegato e non di altro ruolo, tanto più che il contratto di assunzione era, sin già dal primo grado, risultato successivo alla nomina della lavoratrice ad amministratore delegato ed a presidente del Comitato di Gestione e che nulla la Ricorrente aveva allegato in tema di compiti aggiuntivi e diversi rispetto a quelli propri di tali cariche. La Corte d’Appello aveva poi rimarcato, che dall’ampia istruttoria risultava pacifico, che la Lavoratrice, quale amministratore delegato della società, avesse avuto poteri amplissimi ed in particolare avesse rivestivo, anche, il ruolo di datore di lavoro e committente ai sensi del D. Lvo 9/04/2008 n. 81 del 2008, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro; tanto per cui, dato tale ruolo, la donna, alla stipula del contratto, fonte dibattuta di prova, aveva assunto sia la qualità di datore di lavoro, sia quella di lavoratrice.

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Dedotta tale argomentazione, i Giudici di Piazza Cavour consideravano inconfutabile la circostanza, già risultante dall’organigramma dirigenziale, che il direttore generale rispondeva all’amministratore delegato e che quest’ultimo, a sua volta, rispondeva, al Consiglio di gestione, del quale la Ricorrente era presidente, che escludeva qualsiasi ipotizzabile eterodirezione, necessariamente presupposta per la sussistenza della natura subordinata del rapporto, mancando, nella concretezza, un soggetto (diverso dalla Ricorrente) al quale far risalire «le eventuali e assolutamente indimostrate direttive» impartite dalla società al direttore generale. In una tal simile prospettazione, alcuna inversione della prova diventava ammissibile, poiché il soggetto che, nel caso di specie, assumeva l’interesse della prova della subordinazione, limitava il fondamento della propria tesi ad un’unica prova scritta ampiamente sconfessata dal contesto, che già il Giudice di prime cure aveva ritenuto di tralasciare ai fini del proprio convincimento.

3. In Conclusione. La prova scritta richiamata a sostegno della natura del rapporto di lavoro, veniva quindi sconfessata dalla realtà entro la quale si era costituita, ovvero per la stessa mano di Colei che ne richiamava la valenza, poiché i criteri tipici del rapporto di lavoro subordinato mai si erano costituiti. Già, i Giudici del merito avevano ampiamente accertato l’insussistenza del vincolo di subordinazione con la società, pertanto ciò ha implicato nelle successive fasi di giudizio, il superamento di ogni considerazione attinente alla verifica della parte sulla quale gravasse l’onere di provare la simulazione del contratto di lavoro, oggetto del primo motivo di ricorso. Allo stesso modo la Cassazione, sezione lavoro, ha respinto il secondo motivo, che pur formalmente denunziando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 cod. civ., tendeva in larga parte a contestare la valenza probatoria degli elementi posti dal giudice d’appello alla base dell’esclusione della natura subordinata del rapporto, così sollecitando un diverso apprezzamento di fatto del materiale probatorio, valutazione preclusa al giudice della legittimità (Cass. 4/11/2013 n. 24679, Cass. 16/12/2011 n. 2197, Cass. 21/9/2006 n. 20455, Cass. 4/4/2006 n. 7846, Cass. 7/2/2004 n. 2357). Allo stesso modo, la Cassazione non ha riconosciuto neppure la natura confessoria dell’atto di licenziamento, poiché posto sostanzialmente nella necessità di revocare il rapporto intercorrente tra la Società e l’amministratore delegato. In definitiva la Corte di Cassazione ha rigettato completamente il ricorso promosso dalla Lavoratrice, poiché ritenuta insussistente la subordinazione e l’effettività della prestazione subordinata, poiché nella pratica non si sostanziava alcun ruolo sovraordinato alla stessa Ricorrente, al quale potessero fare capo i poteri di eterodirezione e di controllo da esercitarsi nei confronti di quest’ultima. Secondo il Supremo vaglio, tali criteri costituiscono elementi oggettivi essenziali di verifica della subordinazione, la loro assenza in un contesto di prove assunto nel giudizio di prime cure, prescinde da un esclusivo onere della prova di una parte, tanto per cui la verificata simulazione del rapporto, implica la decadenza della fondatezza della prova a sostegno dell’effettività del rapporto, indipendentemente dalla produzione e dalla provenienza della Parte, che ne avesse o meno l’interesse. Andrea Racca

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Cass. Sez. IV, 20 giugno 2018, n. 29515.

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La legittima difesa in Italia e in Sud Africa, due mondi non più così distanti La legittima difesa è una delle cause di giustificazione previste dal codice penale italiano. L’istituto è disciplinato dall’art. 52 comma 1, che “esclude la punibilità per colui il quale ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Dall’analisi della norma è possibile sintetizzare i tre caratteri fondamentali della legittima difesa. Il primo requisito è il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, ovvero non giustificata dall’esercizio di un diritto o dall’adempimento di un dovere, ad un diritto, sia esso personale, patrimoniale o morale. Come più volte sottolineato anche dalla Suprema Corte di Cassazione, a differenza del Codice Zanardelli1, la disciplina attuale non richiede che l’offesa ingiusta sia in atto ma è sufficiente un pericolo attuale, ovvero concreto, imminente o perdurante, che non sia stato volontariamente causato dal soggetto aggredito. In secondo luogo, la reazione deve essere legittima. Ciò significa che l’azione difensiva compiuta deve essere l’unica soluzione possibile per fronteggiare la situazione di pericolo, ovvero non devono essere possibili alternative lecite o comunque meno lesive. Infine deve esservi proporzione tra difesa e offesa, secondo una valutazione ex ante che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto. Nel 20062 il legislatore italiano ha poi introdotto un caso di presunzione assoluta di proporzionalità. Il rapporto di proporzione tra difesa e offesa è presunto, senza possibilità di prova contraria, nei casi in cui il soggetto aggredito in un luogo di privata dimora utilizzi un’arma legittimamente detenuta, o altro mezzo idoneo, al fine di difendere la propria o altrui incolumità o i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza ma si concretizza un pericolo d’aggressione. Nonostante la chiarezza della norma, questa è risultata poco applicata; per tale motivo il Senato ha recentemente approvato il disegno di legge n. 1784. Oltre a ribadire la presunzione assoluta di proporzionalità tra difesa e offesa nel caso di legittima difesa domiciliare, il testo al vaglio della Camera vorrebbe introdurre una causa di esclusione della punibilità basata su una condizione psicologica, ovvero il grave turbamento

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Art. 49 del Codice penale del Regno d’Italia: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta”. 2 L’art. 1 della Legge 13 febbraio 2006, n.59 ha infatti inserito i commi 2 e 3 dell’art. 52 c.p.


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derivante dalla situazione di pericolo in atto. Quale che sarà l’esito della riforma, anche la giurisprudenza di legittimità sembra aver intrapreso la strada tracciata dal Governo. Difatti, con una recentissima sentenza3 la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente la scriminante della legittima difesa domiciliare putativa incolpevole (art. 59 c.p.) proprio a causa di una situazione di grave turbamento psicologico. Si legge infatti “...la situazione di penombra ,il forte rumore lo stress emotivo, la rapida successione dei movimenti all’interno della tabaccheria dei tre complici ,che avevano divelto il registratore di cassa e tre mensole contenente la merce ,possono aver indotto ragionevolmente e in maniera scusabile in errore Tizio circa le effettive intenzioni di Caio, e la situazione erroneamente percepita come di imminente aggressione per sé o i suoi familiari, nel momento in cui, in uno stato di forte concitazione, ha fatto partire il colpo...”. Tornando alla ratio dell’istituto generale, non vi è unanimità di vedute. Per un orientamento minoritario la legittima difesa costituisce un’ipotesi di autotutela privata, storicamente ancorata ad un concetto feudale di proprietà, mentre, per la dottrina maggioritaria, la norma rispecchierebbe la prevalenza attribuita dal legislatore a colui che viene ingiustamente aggredito rispetto a colui che pone in essere la condotta offensiva ingiusta. Quale che sia la ratio, la legittima difesa come causa di giustificazione è prevista dall’art. 2 comma 2 della CEDU4 ed è presente nella maggior parte degli ordinamenti del mondo come “diritto naturale”. Nonostante una storia radicalmente diversa dalla nostra, il diritto penale della Repubblica Sudafricana presenta caratteristiche peculiari, alcune derivanti dai sistemi romanistici, altre da quelli di common law. La presenza nell’ordinamento della legittima difesa (self-defence o Noodweer) poggia le sue radici nella Costituzione della Repubblica del Sud Africa, promulgata da Nelson Mandela il 18 dicembre 1996, e si caratterizza come riflesso del diritto alla dignità umana5 e del diritto assoluto di proprietà6. In tale senso, è interessante rilevare come alcuni commentatori rinconducano al diritto alla dignità umana anche il diritto alla tranquillità della vita familiare, considerando l’abitazione un luogo in cui ci si aspetta e si ha il diritto di rilassarsi e di godere liberamente della propria vita privata. Per tale ragione, anche lo Stato del Sud Africa ammette la legittima difesa domiciliare (private defence). Nella storia del Paese in esame, tale istituto ha ricoperto un ruolo fondamentale fin dall’epoca precoloniale e coloniale. A causa dell’assenza totale di un sistema di polizia organizzato in grado di assicurare la pace delle tribù indigene, per secoli le forme di autotutela privata sono state viste come le uniche in grado di garantire la sicurezza delle singole comunità.

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Cass. Sez. IV, 20 giugno 2018, n. 29515. Art. 2 c. 2 CEDU: “La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale...”. 5 Paragrafo 10 della Costituzione della Repubblica del Sud Africa. 6 Paragrafo 25 della Costituzione della Repubblica del Sud Africa. 4

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La legittima difesa in Italia e in Sud Africa, due mondi non più così distanti

Con la creazione di una realtà statale unica e strutturata è stato poi ristretto il campo di applicazione della legittima difesa domiciliare, che è oggi attualmente ammissibile solo in presenza di alcuni presupposti. Similmente al sistema italiano, anche il diritto penale sudafricano richiede in primo luogo un’aggressione ingiusta compiuta da un soggetto, anche privo della capacità di intendere e di volere. L’atto aggressivo, poi, può anche non essere sorretto dalla volontà in quanto la difesa è scriminata anche nel caso in cui questo venga compiuto per errore7. L’aggressione deve quindi riguardare un interesse giuridicamente protetto: la legittima difesa è ammessa per difendere un diritto sia personale che patrimoniale però, in quest’ultimo caso, è necessario dimostrare la gravità del pericolo o della minaccia, ovvero il rischio di perdere o vedere gravemente danneggiato il bene a cui l’atto criminale è rivolto8. Quest’ultimo deve poi concretizzarsi in un pericolo imminente o in un’azione già intrapresa ma comunque non completata, poiché, in caso contrario, non si tratterebbe più di difesa ma di un mero atto vendicativo. L’azione difensiva poi deve essere ragionevolmente proporzionata9, diretta contro l’aggressore e mai contro altri soggetti, ma soprattutto necessaria. Ciò significa che deve essere l’unica soluzione possibile per proteggere l’interesse minacciato dall’aggressore. Come è noto, un tema strettamente connesso all’istituto della legittima difesa è quello della fuga (duty to flee). In generale, la fuga rappresenta infatti un’alternativa possibile e sicuramente meno lesiva rispetto all’azione difensiva; tuttavia, nel sistema sudafricano, il soggetto aggredito non ha il dovere di fuggire qualora ciò lo esponesse a rischi maggiori e aggiuntivi (per esempio colpi di pistola alle spalle). Se ciò è vero in linea teorica, nella giurisprudenza del Paese numerose sono le sentenze che sottolineano che, per quanto riguarda la legittima difesa domiciliare, il proprietario della casa nella quale l’aggressore si è introdotto non ha in nessun caso il dovere di abbandonare la sua proprietà al fine di difendersi. Proprio per l’importanza che l’ordinamento sudafricano dà alla vita familiare e all’abitazione come luogo di serenità dell’individuo10, oltre a non essere obbligato a lasciare la propria casa, l’aggredito può fermare l’aggressore, anche senza un mandato di arresto, in virtù del paragrafo 42 comma 3 del Criminal Procedure Act 1977: “The owner, lawful occupier or person in charge of property on or in respect of which any person is found committing any offence, and any person authorized thereto by such owner, occupier or person in charge, may without warrant arrest the person so found”. Secondo l’orientamento maggioritario quindi, una volta che l’aggressore si introduce nell’abitazione dell’aggredito accetta qualsiasi azione pericolosa o dannosa in risposta alla sua condotta illecita.

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D. Singh, Self-defence as a Ground of Justification in Cases of Battered Women who kill their Abusive Partners, 2009, 103. 8 G. Kemp, S. Walker, R. Palmer, D. Baqwa, C. Gevers, B. Leslie, A. Steynberg, Criminal Law in South Africa, 2013, 83. 9 S v Steyn 2010 1 SACR 411 (SCA) 417. Nel caso di specie la Corte d’Appello ha individuato alcuni criteri attraverso i quali misurare la proporzione tra attacco e difesa: la relazione tra le parti, il genere, la differenza di età, le differenti capacità fisiche, il luogo del reato, il tipo di armi usate, la natura e la gravità dell’aggressione, i danni che possono essere causati sia dall’aggressore che dall’aggredito. 10 C.R. Snyman, Criminal Law, 2014, 108 parla dell’abitazione in questi termini: “…his last refuge, his castle, where he may protect himself”.

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Infine, l’atto di cagionare la morte dell’aggressore risulta scriminato solo quando questi minaccia di aggredire o aggredisce la vita o l’integrità fisica della vittima e, generalmente, non anche quando l’azione lesiva è rivolta al patrimonio. In realtà, non è necessario che ciò si verifichi realmente, ma è sufficiente che la vittima del reato avverta questa situazione, come avviene ad esempio nei casi di rapina11. In conclusione, nonostante le profonde diversità storiche e culturali dei Paesi esaminati, è evidente come la legittima difesa, anche domiciliare, presenta caratteristiche comuni, fondate su principi fondamentali propri di entrambe le tradizioni giuridiche costituzionali. Miriam Ferrara

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S v Van Wyk 1968 (1) 501H, 504B, 509A.

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CEDU 27 settembre 2018 n. 57278/11, Pres. Linos – Rel. Alexandre Sicilianos CEDU – Illegittimità – Perquisizioni

L’assenza di controllo giurisdizionale preventivo o comunque l’assenza di un controllo effettivo a posteriori della misura istruttoria dimostra come le garanzie procedurali non siano misura sufficiente ad evitare il rischio di abuso di potere da parte delle autorità incaricate delle indagini penali. Questo quanto deducibile dalla sentenza emessa dalla I sezione Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Brazzi vs Italia Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista.

Perquisizioni: per la CEDU la normativa italiana, in materia, è arbitraria ed inefficiente La legislazione nazionale deve prevedere adeguate garanzie contro abuso e arbitrarietà. Caso Brazzi c. Italia. Il provvedimento n. 57278/11 del 27-09-2018 della CEDU è teso a mettere in evidenza che la legislazione Italiana non aveva fornito, nel caso in esame, garanzie sufficienti contro l’abuso o l’arbitrarietà “prima o dopo” una perquisizione. Per i giudici di Strasburgo, le garanzie procedurali previste dalla legge italiana non si sono dimostrate volte a prevenire il rischio di abuso di potere nell’ambito dell’inchiesta penale e ciò in assenza di un controllo preventivo giurisdizionale. Per questo motivo, la persona interessata non aveva beneficiato di un “controllo effettivo” come sancito dallo Stato di diritto in una società democratica. Ripercorrendo il caso in esame, in fatto, il ricorrente, nato in Italia e residente a Monaco di Baviera, iscritto al registro degli italiani che vivono all’estero, possiede una casa in Italia, dove la moglie e figli vivono durante il periodo scolastico. Nel 2010 il ricorrente sig. B. c. è stato oggetto di verifica fiscale da parte della Guardia di Finanza di Mantova in quanto sospettato di aver mantenuto il domicilio fiscale in Italia e non aver pagato l’IVA e le imposte sul reddito dal 2003. Nell’ambito di tale procedimento amministrativo, il 6 luglio 2010, la Procura della Repubblica di Mantova autorizza la Guardia di Finanza ad accedere alla abitazione italiana del richiedente al fine di ricercare e sequestrare tutti i documenti o altre prove che attestino le violazioni della legislazione fiscale. Nello stesso anno, la polizia tributaria si reca nella abitazione del richiedente, ed essendo quest’ultimo assente, chiede al fratello, casualmente presente, di consentire loro di accedere ai locali, senza giustificarne la richiesta. Supponendo di essere stato sottoposto ad un controllo fiscale, sebbene non fosse stata fornita alcuna informazione in merito, il Sig. B. dichiarava la propria disponibilità a collaborare con le autorità italiane offrendosi


Giurisprudenza internazionale

di fornire loro qualsiasi prova di tipo fiscale-amministrativo, anche tedesca riconducibile alle sue entrate. Successivamente, la Procura della Repubblica di Mantova diede vita ad un’indagine penale nei confronti del ricorrente emettendo un mandato di perquisizione della abitazione e dei veicoli data l’esistenza di gravi elementi di colpevolezza per il reato di evasione fiscale; con il citato mandato di perquisizione l’accusa ordinava la perquisizione ed il sequestro di documenti contabili nei locali e qualsiasi altro documento comprovante il reato di evasione fiscale, compresi i file elettronici. A seguito della ricerca, nessun documento viene, però, sequestrato dalle autorità. In relazione ai succitati fatti l’indagato deposita, a mezzo dei suoi legali, memoria difensiva presso la Procura della Repubblica di Mantova, contestando la necessità della perquisizione, chiarendo la sua situazione fiscale, dimostrando in particolare che la sua residenza principale si trova in Germania, e che ivi regolarmente ha pagato le tasse. Nel settembre 2010, il pubblico ministero propone al giudice per le indagini preliminari di Mantova di archiviare l’inchiesta senza ulteriori azioni. Il GIP di Mantova, dunque, archivia il caso. Nel frattempo, il sig. B. presenta ricorso per cassazione, denunciando l’illegittimità dell’ordine di perquisizione del luglio 2010 sostenendo che le attività poste in essere dalla polizia tributaria avessero costituito un attacco ingiustificato al diritto al rispetto della sua abitazione e della sua vita privata, in quanto la verifica della sua situazione fiscale avrebbe potuto seguire altri canali. A seguito di tale istanza, la Corte di Cassazione penale Sez. III, nella sentenza n. 8999 dell’08.03.2011 dichiara il ricorso del ricorrente irricevibile, sostenendo che non era praticabile alcun ricorso contro un mandato di perquisizione, affermando, inoltre, che l’azione sarebbe potuta essere soggetta a riesame ai sensi dell’articolo 257 del codice di procedura penale, solo a seguito di sequestro. Secondo la Corte di Cassazione, in caso di violazione delle norme sullo svolgimento della ricerca, erano possibili solo sanzioni disciplinari nei confronti degli agenti di polizia che conducevano le operazioni. Inoltre, per la suprema Corte, un ricorso ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione non era ammissibile in quanto una perquisizione domiciliare non aveva alcun impatto sulla libertà dell’individuo. Successivamente, il sig. B., esauriti i gradi della giustizia italiana, procedeva nel ricorso ai giudici di Strasburgo lamentando, a mezzo dei suoi legali, la violazione degli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 6 (diritto alla difesa) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Cedu. Analizzando l’iter normativo che ha dato vita alla vicenda è possibile notare che in riferimento al diritto italiano, il codice di procedura penale, all’art. 247, esplicita che laddove vi siano motivi sufficienti per sospettare che il reato o gli elementi pertinenti del reato si trovino in un determinato luogo, l’autorità giudiziaria ordina la ricerca mediante una decisione (decreto) motivato. Durante la fase delle indagini, la decisione spetta alla procura (art. 352, par. 4). Gli artt. 250 e 251 del codice di procedura penale, poi, nei loro dispositivi, prendono in considerazione le norme e le garanzie relative alle perquisizioni in abitazione, regolano le condizioni in forza delle quali può essere emesso un mandato di perquisizione asserendo tra l’altro che deve essere consegnato all’imputato o alla persona che occupa i locali, che può essere assistito da un avvocato; diversamente, viene notificato al coniuge o al portiere. Una ricerca in una abitazione può essere effettuata solo in determinati orari, tranne in caso di emergenza. L’art. 257 del c.p.p. disciplina la possibilità per il soggetto in esame di poter agire contro il decreto di sequestro: l’imputato, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre richiesta di riesame, anche nel merito, a norma dell’art. 324.

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La normativa comunitaria, cui il ricorrente si appella, invece, è caratterizzata, in particolare dall’art. 8 della Convenzione, a tenore del quale: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Nel caso in esame, la perquisizione era stata ordinata dalla Procura lo stesso giorno in cui era stata avviata l’indagine penale e la sua legittimità e necessità non erano state valutate né dal giudice delle indagini preliminari, che si era limitato ad accogliere la domanda del procuratore di chiudere il procedimento, né dal giudice del riesame in quanto non aveva permesso di raccogliere prove a carico da sottoporre a sequestro. In relazione a quanto detto, la Corte di Strasburgo ha deciso che, in assenza di un controllo giurisdizionale preventivo o di un controllo effettivo a posteriori della misura istruttoria, le garanzie procedurali non sono sufficienti ad evitare il rischio di abuso di potere da parte delle autorità incaricate dell’indagine penale. Di conseguenza, non è sufficiente che la misura istruttoria abbia base giuridica nel diritto interno, ma è necessario che il diritto nazionale offra al ricorrente sufficienti garanzie contro gli abusi o l’arbitrarietà prima o dopo la perquisizione. La Corte ha stabilito, essenzialmente, che nel caso di specie vi è stata una particolare ingerenza del diritto del ricorrente al rispetto del suo domicilio tale da non essere conforme alla legge ai sensi dell’art. 8 co. 2 della Convenzione, perché anche a uno stadio così precoce dell’indagine non aveva avuto il beneficio dell’effettiva supervisione richiesta da uno Stato di diritto in una società democratica. Per la Corte Europea Diritti dell’Uomo, sez. I, sentenza 27/09/2018 n. 57278/11 il diritto italiano non offre garanzie sufficienti ed effettive. La Corte, nel suo provvedimento, ha stabilito essenzialmente che gli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale, fossero carenti di adeguate e sufficienti garanzie contro l’abuso e l’arbitrarietà, cioè quelle che includono anche il ‘controllo effettivo’ delle misure intrusive. Rilevante è, poi, la considerazione finale: «L’esistenza di una richiesta di un mandato sottoposta a controllo giurisdizionale non deve necessariamente essere considerata come una garanzia sufficiente contro l’abuso». Del resto, nel caso di specie, la ricerca non ha portato alla raccolta delle prove e il procedimento è stato archiviato dal giudice per le indagini preliminari, che a suo tempo non aveva esaminato la legalità o necessità del mandato di perquisizione richiesto. Antonio De Lucia

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Caso Cappato: il non liquet della Corte costituzionale. Al Parlamento ogni opportuna riflessione ed iniziativa in materia di fine vita. Domenica Loredana Novia La Corte costituzionale ha rinviato all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione della questione di legittimità relativa all’art. 580 c.p. sollevata dalla Corte d’assise di Milano durante il processo a Marco Cappato. Laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, la Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale. Lo scorso 23 ottobre, innanzi alla Corte Costituzionale si è celebrata l’udienza relativa al “caso Cappato”. L’esito di detta udienza è stato un comunicato stampa1 a mezzo del quale la Corte informava della decisione assunta: rinviava la sua decisione al fine dichiarato di rimettere al Parlamento il compito di adeguare l’ordinamento alla Costituzione. Innanzi ad una questione di costituzionalità così complessa, la dottrina che si era pronunciata sul punto2 aveva prospettato molte e diverse possibili soluzioni che la Corte avrebbe potuto adottare, solo una opzione non era stata presa in considerazione: quella del non liquet.

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«Nella camera di consiglio di oggi, la Corte costituzionale ha rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti. Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale all’udienza del 24 settembre 2019. La relativa ordinanza sarà depositata a breve. Resta ovviamente sospeso il processo a quo». 2 Si vedano gli atti del Seminario preventivo dedicato a “Il caso Cappato” davanti alla Corte costituzionale, Università di Bologna, 12 ottobre 2018, a cura di Morrone; M. D’Amico, Sulla illegittimità costituzionale della norma che incrimina l’istigazione al suicidio: alcune considerazioni critiche a margine del caso Cappato, in Giurisprudenza penale web, 2017, 11; D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, in Diritto penale contemporaneo – Riv. trim., 2018, 7, 57; R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, in Diritto penale contemporaneo, 2018, 10; P. Fimiani, Le responsabilità nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in www.penalecontemporaneo.it, 22 maggio 2018; A. Massaro, Il “caso Cappato” di fronte al giudice delle leggi: illegittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio?, in www.penalecontemporaneo.it, 14 giugno


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Con il deposito del comunicato stampa, a caldo, si è valutata la decisione della Corte come poco “coraggiosa” in virtù del fatto che la stessa considerava il suo intervento come un’invasione del campo di azione riservato al legislatore soprattutto dopo la scelta effettuata con la legge n. 219/2017, oltre al fatto che un intervento sull’art. 580 c.p., avrebbe determinato una riscrittura della fattispecie ben oltre l’ambito applicativo delle pratiche di fine vita. A seguito del deposito del comunicato stampa, alla dottrina si è palesata una spaccatura all’interno dei suoi componenti. Se la Corte fosse stata, in maggioranza dei suoi componenti, risolutamente orientata nel senso del rigetto, per qualsivoglia motivo della questione, non vi sarebbe stata ragione del rinvio; se, dunque, si è deciso di farvi luogo, è perché, verosimilmente, si prefigurava un accoglimento, seppur parziale, della questione; in seno al collegio il quadro risultava ancora fluido e non ben definito e, data la rilevanza della posta in palio, si è, pertanto, preferito guadagnare tempo e attendere, dunque, la maturazione della decisione. Con il riferimento al bilanciamento tra le «situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione» con «altri beni costituzionalmente rilevanti», annunciato con il comunicato stampa, si apriva ad ogni possibile esito, nel senso dell’accoglimento come pure in quello del rigetto. Il non liquet della Corte era stato considerato un “lavarsi le mani” finalizzato ad accontentare tutti anche al proprio interno o, se si preferisce altrimenti esprimersi, con lo scontentarli in pari misura3. A seguito del deposito dell’ordinanza n. 207/2018 finalmente sono chiare le motivazioni che hanno portato la Corte a rinviare all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’assise di Milano; risulta, inoltre, palese che la posizione sul dubbio di costituzionalità sia stata già presa. Lo svolgersi dei fatti sino dalla morte di Fabiano Antoniani fino all’imputazione di Marco Cappato per il reato di cui all’art. 580 c.p. sono ormai noti. All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano pronunciava ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, ritenendo che non fosse manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo; nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione. Nell’ordinanza la Corte costituzionale precisa che «nel merito, la tesi della Corte rimettente, nella sua assolutezza, non può essere condivisa» ed osserva «che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione». La Corte arriva ad affermare tanto dopo aver ripercorso tutto il ragionamento fatto dalla rimettente. La Corte d’assise di Milano nella sua ordinanza di rimessione, dopo aver riportato la sua interpretazione dell’art. 580 c.p. nel diritto vivente, analizza il bene tutelato dall’articolo in questione e le sue origini. Nel contesto storico in cui il codice penale Rocco venne alla luce, dietro la previsione della

2018; A. Nappi, Principio personalistico e binomi indissolubili, Edizioni ESI, 2018, 149 ss. 3 A. Ruggeri, Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora… (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in Consulta on line, 2018, Fasc. III.

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Caso Cappato:il non liquet della Corte costituzionale.Al Parlamento ogni opportuna riflessione ed iniziativa in materia di fine vita

sanzione penale della reclusione da cinque a dodici anni per colui che “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione” dominava una concezione della vita umana come bene collettivo, appartenente allo Stato e non disponibile. Il valore allora dato alla vita era un valore di interesse pubblico alla forza lavoro della Patria. La sanzione penale per l’istigazione e aiuto al suicidio svolgeva, dunque, l’importante funzione di prevenire e reprimere le condotte di coloro che avessero agevolato in qualsiasi modo questa scelta, incidendo, attraverso la perdita della vita di singoli individui, sul bene collettivo appartenente allo Stato, nonché per ridurre i casi di suicidio attraverso la limitazione del fenomeno delle emulazioni. La rimettente rimarca, quindi, vigorosamente la trasmutazione da una concezione spiccatamente “clerico-fascista” imperniata su di un’immutabile dimensione di sacralità ed indisponibilità della vita umana in relazione ai preminenti obblighi di ciascun individuo, verso una dimensione costituzionalmente orientata al medesimo diritto alla vita4. Secondo la rimettente, se queste sono le radici della norma penale, non vi sono dubbi che sia possibile darne una lettura diversa che cerchi di conciliarla con l’impianto costituzionale attuale che preordina l’esistenza e l’opera delle istituzioni della Repubblica alla tutela dell’individuo, coi suoi diritti e libertà, e non alla tutela di beni collettivi appartenenti allo Stato5. Il ragionamento della Corte costituzionale si fonda da un’altra prospettiva di analisi e di contestualizzazione della norma. Secondo la Corte, la incriminazione dell’istigazione al suicidio e dell’aiuto al suicidio è «funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere»; ancora, la Corte sostiene che «Il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.)». A conti fatti la Corte costituzionale riconduce l’incostituzionalità in una dimensione più contenuta, rispetto a quella della rimettente; una dimensione che fa leva sul diritto costituzionalmente riconosciuto a rifiutare le cure (art. 32 Cost.) e plasma, pertanto, la decisione sul

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A. Manna - P. Guercia, L’autoresponsabilità quale argine costituzionale a peculiari forme di paternalismo penale: i casi Cappato e Tarantini, in Dal diritto vigente al diritto vivente, a cura di Adelmo Manna, Dike Giuridica Editrice, 2018, 58. 5 I. Pellizzone, Relazione al seminario “Questioni di fine vita e libertà: il procedimento Cappato davanti alla Corte”, in www.giurisprudenzapenale.com, 2018.

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caso del malato il quale, giunge a considerare contrario al suo senso di dignità il protrarsi delle sofferenze connesse alla cura. Sorgono tuttavia seri dubbi sull’interpretazione operata dalla Corte, dell’art. 580 c.p.; una interpretazione nei predetti termini riconoscerebbe infatti solamente ai “soggetti sani” la libertà di autodeterminazione quando invece sono proprio i malati, considerati i “soggetti deboli” dalla Corte, ad invocare in genere il “diritto a morire”, in buona sostanza a questi ultimi è leso il diritto di autodeterminazione. Dopo aver decisamente, in tal modo, affermato che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non possa essere ritenuta incompatibile con la nostra carta costituzionale, nel passaggio successivo, la Corte si “ammorbidisce” e prende ad analizzare il caso concreto, ovvero, una situazione inimmaginabile all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portata «sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». E si riferisce, in particolare, a quei soggetti affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche considerate dallo stesso intollerabili, che resta in vita solo grazie all’ausilio di trattamenti medici, ma resta capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Prende, quindi, in considerazione le ipotesi in cui l’intervento di terzi «nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.», senza velo alcuno, pur non nominandolo, si riferisce alle condizioni di Fabiano Antoniani. Attualmente, infatti, il medico, con il consenso del paziente, in forza della legge n. 209/2017 integrandola con le previsioni della legge n. 38/2010 – disposizioni relative l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continuata in associazione con la terapia del dolore per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Tale disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali; scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche, il cui esito non può che essere la morte seppure in un tempo non necessariamente rapido. La legislazione attualmente in vigore non permette quindi al medico di mettere a disposizione del paziente trattamenti diretti che ne determino la morte. I trattamenti disponibili costringono invece il paziente a subire un processo lento in ipotesi non corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e carico di sofferenze per le persone che gli sono care. In virtù di ciò, Antoniani scartava la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda, proprio perché quest’ultima non gli avrebbe garantito una morte rapida, non essendo totalmente dipendente dal respiratore artificiale; la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata quantificabile in giorni e tale modalità di morire veniva reputata non dignitosa. La L. n. 209/2017, è considerata dalla dottrina6, già all’indomani della sua entrata in vigore, settoriale in quanto afferma e disciplina il rilievo dell’autodeterminazione solo in alcune tipologie di casi.

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O. Di Giovine, Procreazione assistita, aiuto al suicidio e biodiritto in generale: dagli schemi astratti alle valutazioni in concreto, in Diritto Penale e processo, 2018, 7.

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La Corte ritorna sull’essenza dell’art. 580 c.p. relativamente alla necessità di proteggere i “soggetti vulnerabili” e se è vero che i malati irreversibili sono ascrivibili a tale categoria è anche vero che chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dal nostro ordinamento soggetto in grado di prendere determinate decisioni, ovvero di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione del trattamento, «non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discute della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione»; arriva, pertanto, a valutare, nel caso specifico, il principio garantito dalla nostra Costituzione di autodeterminazione e considera che nello specifico ambito considerato, «imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive». Si può quindi constatare che l’attuale quadro normativo italiano lascia del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto al suicidio ai pazienti nelle condizioni di Antoniani, la Corte costituzionale offre suggerimenti concreti al legislatore, ovvero, anziché operare una mera modifica della disposizione di cui all’art. 580 c.p., sarebbe evidentemente opportuno inserire nel contesto della L. n. 209/2017 una modifica «delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte». Pertanto, fermo restando la situazione normativa allo stato dei fatti, suggerisce al legislatore l’introduzione di una disciplina ad hoc, che operi anche da collegamento, allo scopo della non punibilità, con le vicende pregresse. Necessaria, inoltre, deve essere la valutazione di adottare opportune cautele affinché la scelta di somministrare il farmaco in grado di determinare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di una prematura rinuncia da parte della struttura sanitaria di offrire al paziente la possibilità concreta di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua in maniera tale da porlo in condizione di vivere in maniera dignitosa la propria esistenza. Il percorso di cure palliative dovrebbe costituire un prerequisito della scelta. La Corte, nascondendosi dietro la tutela dei soggetti deboli, lasciando la vigenza della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p. che non prevede eccezione alcuna di punibilità, attesterebbe che la vita umana, da parte del legislatore penale, continui ad essere concepita come un bene giuridico assolutamente indisponibile e, pertanto, destinatario di una tutela inderogabile a tutto tondo. Le ragioni che presiedono sono da ricondurre ad una prospettiva “paternalistica”, ovvero, l’ordinamento vigente esclude che la volontà del singolo interessato possa valere a rendere lecita la condotta del terzo che determina o agevola la morte su richiesta, muove dal presupposto che la salvaguardia della vita sia un valore meritevole di essere affermato in ogni caso, anche a dispetto di chi non vorrebbe più continuare a vivere. In questo senso l’ordinamento statale assume, dunque, una posizione paternalistica proprio perché sceglie d’autorità ciò che è bene o, comunque, preferibile per la società e per gli individui,

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prescindendo del tutto dal dare rilievo alla prospettiva della autodeterminazione personale dei singoli7, nonostante ora la vigenza della L. n. 209/2017. La Corte lascia, quindi, al Parlamento il bilanciamento delle delicate questioni, essendo suo il compito «quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolte». La Corte, in tal modo, perde la possibilità di “laicizzare” sul punto l’ordinamento statale. I principî costituzionali di laicità e pluralismo, comuni ai moderni Stati liberali, escludono infatti che il diritto possa sanzionare una condotta per il solo fatto che essa contrasti con concezioni morali o religiose altrui, per quanto dominanti. Ciascuno ha diritto di comportarsi secondo le proprie convinzioni morali, fintanto che la sua condotta non leda o ponga in pericolo i diritti e le libertà altrui, compresa la libertà di agire secondo altre convinzioni morali. In uno Stato laico, non è compito del diritto penale imporre concezioni morali a cittadini adulti, ma soltanto tutelare i consociati da condotte altrui, offensive – dannose o pericolose – di beni giuridici di una o più persone. Non si può, quindi, punire la persona che abbia leso o messo in pericolo esclusivamente beni giuridici propri, per quanto si ritenga immorale tale condotta. I principî della laicità e del pluralismo ostano, dunque, ad un paternalismo fondato soltanto sulla ritenuta “immoralità” della condotta: nel nostro ordinamento non si può punire una condotta autolesiva semplicemente perché, secondo convinzioni altrui, è immorale e, quindi, contraria al “vero bene”, in senso morale, di chi la realizza8. La scelta di lasciare al Parlamento il bilanciamento delle questioni, conferma i sospetti della dottrina sulla spaccatura al suo interno, come in premessa enunciato, assai plausibile in particolare per temi così eticamente sensibili. Con l’ordinanza n. 207/2018 la Corte costituzionale introduce dunque un nuovo strumento decisorio, definito dalla dottrina9, ad “incostituzionalità differita”; cioè una ordinanza, motivata, di rinvio. Cosa, tuttavia, accadrebbe nel caso in cui il legislatore restasse inerte, la composizione del giudice costituzionale mutasse con il ribaltarsi delle maggioranze ed il clima culturale evolversi in altra direzione? Un esito diverso dalla incostituzionalità, ora annunciata senza incertezze, infliggerebbe al prestigio della Corte un colpo notevole. Non si tratterebbe cioè solo di mettere in crisi il nuovo strumento decisorio ma verrebbe soprattutto meno la fiducia nella coerenza del sindacato di costituzionalità, esposto così ad una delegittimazione, in effetti, senza precedenti.

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G. Fiandaca, Il diritto di morire tra paternalismo e liberalismo penale. Relazione al seminario su “Il rifiuto di cure: libertà, diritto o delitto?”, organizzato dall’università di Foggia, 2008. 8 Da ultimo, cfr. A. Cavaliere, Introduzione ad uno studio sul paternalismo in diritto penale, Archivio Penale, 2017, 3 e gli Aa ivi citati, cui, pertanto, per ulteriori approfondimenti anche si rinvia, in particolare alla ben nota teoria di “danno ad altri” come limite e fondamento del diritto penale di Joel Feinberg. 9 M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www. questionegiustizia, 2018, 11.

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Rapporto UNESCO sulla sicurezza dei giornalisti ed il rischio di impunità: si conferma un allarmante trend di crescita di casi di uccisioni Nikita Micieli De Biase Rapporto dell’Unesco “Sicurezza dei giornalisti e il pericolo di impunità”1, che è stato presentato a Parigi lo scorso 17 novembre, in occasione della 30esima sessione del Consiglio intergovernativo del programma internazionale per lo sviluppo della comunicazione (Ipdc), evidenzia che sono stati assassinati nell’adempimento della propria attività 827 tra giornalisti, operatori dei media e produttori di contenuti social nel decennio 2006-2015. È allarmante la cifra di 213 morti solo nel biennio 2014-2015 che dimostra un progressivo deterioramento delle condizioni di sicurezza dei giornalisti. A queste cifre vanno poi aggiunte innumerevoli altre violenze subite dagli operatori dei media, quali rapimenti, detenzioni arbitrarie, torture, intimidazioni e vessazioni, sia offline che online, il sequestro o la distruzione di materiale. Si conferma che le zone del mondo più pericolose per chi fa informazione rimangono gli Stati arabi, teatro del 36,5% di tutti i casi (78 omicidi). Ciò è conseguente ai conflitti in corso in Siria, Iraq, Yemen e Libia. Muoiono più giornalisti uomini (195) che donne (18 negli anni 2014-2015), differenza dovuta alla minor presenza delle giornaliste nelle aree di conflitto. Anche se solo poco più della metà degli omicidi di giornalisti negli ultimi 2 anni sono avvenuti in luoghi in cui è in corso o vi è stato un conflitto armato: 126 casi (il 59% del totale). Confermando, poi, una tendenza che può essere osservata lungo tutto il decennio, la stragrande maggioranza delle vittime erano giornalisti locali: quasi il 90%. Anche se nel 2014 si è registrato un significativo aumento del numero di giornalisti stranieri uccisi (17 casi) rispetto alla media dei quattro anni precedenti. Il gruppo del settore dei media più colpito dalle violenze è quello dei giornalisti freelance, che lavorano in modo indipendente e spesso senza adeguate protezioni: 40 “freelance” o “citizen journalist” (19% di tutti i casi) che operano online sono stati uccisi nel 2014-2015. Il rapporto, pubblicato ogni 2 anni, si inserisce nell’attività dell’UNESCO avviato con la risoluzione2 adottata dalla sua 29a Sessione della Conferenza Generale (Parigi,12 novembre 1997) di condanna alla violenza contro i giornalisti che ha esortato agli Stati membri di rimuovere ogni ostacolo alla repressione di omicidi realizzati per prevenire l’esercizio delle libertà di espressione e di informazione o quando il loro fine è l’ostruzione alla giustizia. La risolu-

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http://unesdoc.unesco.org/images/0026/002658/265828e.pdf. Il testo della risoluzione è consultabile al link: https://en.unesco.org/sites/default/files/resolution29-en.pdf.


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zione sollecita i governi di adottare leggi efficaci per processare e condannare i colpevoli di omicidi commessi ai danni degli operatori dell’informazione. Il Consiglio intergovernativo del programma internazionale per lo sviluppo della comunicazione con l’approvazione della Decisione sulla sicurezza dei giornalisti e l’impunità varata nella sua 26a Sessione (Parigi, 27 marzo 2008)3, anche alla luce di una maggiore diffusione di crimini contro i giornalisti, ha richiesto al Direttore Generale dell’UNESCO di preparare un rapporto a cadenza biennale che raccolga con l’apporto volontario degli Stati membri dati statistici sui crimini contro i giornalisti e le azioni penali intraprese avverso i responsabili. L’obiettivo del rapporto, che rappresenta un valido strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema, è di consentire ai singoli Paesi di pianificare le migliori strategie per la promozione della sicurezza dei giornalisti e la lotta contro l’impunità. Il rapporto contiene l’elenco di giornalisti uccisi con la menzione dello stato del procedimento penale a carico degli eventuali imputati. È da rilevare che la percentuale degli Stati che hanno dato seguito alla richiesta del Direttore Generale dell’UNESCO di informare sulle indagini per l’accertamento dei colpevoli degli assassinii nei confronti dei giornalisti è in calo. Si passa dal 74% dei casi nel 2017 al 64% nel 2018, anche se si è verificato un lieve incremento dei casi risolti (passando dall’8% nel 2016 all’11% nel 2017). I dati raccolti costituiscono, inoltre, uno degli indicatori per l’attuazione dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 16 (Giustizia, Pace e Legalità) dell’Agenda 2030 che sarà oggetto di discussione al prossimo Foro Politico di Alto Livello delle Nazioni Unite del 2019.

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Il testo del documento è riprodotto al seguente link http://www.unesco.org/new/fileadmin/MULTIMEDIA/HQ/ CI/CI/pdf/ipdc2008_decision_safety_of_journalists.pdf.

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europeo

Italia condannata per mancata sospensione (o rinnovo) del regime del 41-bis o.p a Bernardo Provenzano. “CASE of Provenzano vs Italy”, application 55080/13 25 ottobre 2018 Marilisa De Nigris “Violazione dell’art. 3 CEDU” in relazione alle condizioni detentive di Bernardo Provenzano, capo di Cosa Nostra … è questo, in sintesi, il motivo desumibile dall’application 55080/13” con la quale i giudici di Strasburgo in data 25/10/2018 hanno condannato l’Italia per la violazione dei Diritti umani in ambito penitenziario. Analizzando la questione da un punto di vista storico e normativo-giurisprudenziale non poche sono le criticità riscontrabili nella pronuncia in esame. Storicamente, i Trattati istitutivi del 1957 non contenevano, almeno inizialmente, alcuna norma relativa ai diritti fondamentali dell’uomo, e solo in un secondo momento si è pervenuti alla decisione di dover trattare anche gli aspetti più prossimi ai diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e non solo aspetti puramente economici. Va quindi presa in considerazione la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Convenzione internazionale redatta e adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa, ratificata dai Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, tra cui gli Stati membri dell’Unione Europea. Con la CEDU, ogni Stato si è obbligato, essenzialmente, al rispetto dei diritti garantiti dalla stessa Convenzione nell’ambito del proprio ordinamento giuridico nazionale ed a favore di qualunque persona, senza distinzioni di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica o altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Tra i più importanti divieti a carico degli Stati: la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, la schiavitù, la servitù e il lavoro forzato, nessuna pena senza legge, la retroattività delle leggi penali, le discriminazioni nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione, l’espulsione da parte di uno Stato dei propri cittadini, l’espulsione collettiva di stranieri, l’imprigionamento per debiti, l’abuso del diritto, la pena di morte. Se, dunque, in ambito comunitario, nel corso degli anni si è addivenuto alla proposizione di tale organo, è altrettanto vero che in Italia non poche sono state le difficoltà che le c.d. organizzazioni criminali hanno creato per all’ordinamento statale nel suo complesso. Proprio al fine di far fronte a tale situazione fu elaborato l’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Il regime del “carcere duro” ex art. 41-bis Ordinamento penitenziario, finalizzato a prevenire situazioni di grave allarme sociale, esterne alle mura carcerarie, indotte dalla capacità delle organizzazioni criminali di gestire le attività delittuose anche dal carcere. L’istituto applicato a detenuti nasce essenzialmente con lo scopo di stroncare i possibili ed eventuali contatti con le organizzazioni che operano all’esterno ed a scongiurare il compimento di attività delittuose in grado di compromettere l’ordine e la sicurezza pubblica. Il precetto normativo,


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nella sua struttura, risulta funzionale ad impedire, pianificare e commissionare reati da parte di detenuti e degli internati anche durante il periodo di espiazione della pena e della misura di sicurezza. Il “carcere duro” si applica ex art. 41-bis comma 2 Legge n. 354/1975, a detenuti o internati per taluno dei delitti ex art 41-bis comma 1-bis medesima Legge. Il riferimento ai detenuti, e non solo ai condannati, induce a ritenere che il regime sia applicabile anche ai soggetti sottoposti a misura di custodia cautelare. Ai fini dell’applicazione dell’istituto ex art 41-bis Ordinamento penitenziario, è necessario che di fianco al requisito di natura soggettiva, si collochi anche il presupposto dei gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica; è quindi indispensabile che l’autorità dia la prova della permanenza di collegamenti tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Il regime di sospensione delle normali regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario è disposto con provvedimento del Ministro della Giustizia. In termini pratici il provvedimento è preceduto da un’attività istruttoria, dove gli organi inquirenti debbono fornire all’ufficio del Ministro le informazioni relative all’organizzazione di appartenenza e le caratteristiche di pericolosità del soggetto destinatario. Il procedimento applicativo esclude in sé qualsiasi contraddittorio preventivo: non è previsto né un obbligo di informazione preventiva, né il deposito delle informazioni e del parere. L’istituto punitivo ha una durata temporale di quattro anni, prorogabile a due anni, senza la previsione di un limite massimo complessivo; la proroga è disposta quando la capacità di mantenere contatti con l’organizzazione criminale, eversiva o terroristica, non è venuta meno. Nel corso del tempo, il Ministero della Giustizia, con la Circolare 3676/6126 del 2/10/2017, è intervenuta dettando una disciplina specifica riconducibile all’istituto del carcere duro. Il comma 2 quater dell’art 41-bis Ordinamento penitenziario prevede in ambito penitenziario l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna: perquisizione personale e contestuale visita medica generale; ritiro degli oggetti non consentiti e loro deposito oppure, se ciò non sia possibile, spedizione ai familiari o conviventi a spese del detenuto; divieto dello scambio di oggetti tra i detenuti, nonché di ogni forma di dialogo e comunicazione tra internati appartenenti a gruppi sociali diversi. Altra conseguenza derivante dall’applicazione dell’istituto del carcere duro è la restrizione dei colloqui con terzi, familiari e difensori, i colloqui sono vietati, salvi casi eccezionali, individuati dal Direttore dell’Istituto penitenziario. In caso di richiesta da parte del detenuto/internato è opportuno, prima del rilascio della relativa autorizzazione, che sia acquisito il parere della DDA competente, ferma restando l’autorizzazione, ove occorra, della competente Autorità giudiziaria. Nel rapporto con i difensori, l’art 41-bis comma 2 quater è stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta (sentenza n. 143 del 17 giugno 2013) nella parte in cui poneva limiti di frequenza agli stessi. Ad oggi i colloqui con i difensori non hanno limiti di durata e di frequenza e sono effettuati senza vetro divisorio. Sono altresì previste ulteriori restrizioni e limitazioni in riferimento all’articolo in esame. In riferimento alla libertà di corrispondenza, disposta dall’art. ex 15 comma 2 Costituzione è richiesta l’adozione del provvedimento tramite decreto motivato su richiesta del Direttore o del pm, del magistrato di sorveglianza o del giudice procedente, per gli imputati fino alla sentenza di primo grado. L’Italia, quindi, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo per la decisione di rinnovare l’applicazione del regime speciale di detenzione del 41-bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo 2016 fino alla sua morte, il 13 luglio dello stesso anno. La Corte invece non ha identificato nessuna violazione sulle condizioni di detenzione. Provenzano, relativamente all’articolo 3 della Convenzione, ha lamentato cure mediche inadeguate in prigione e il protrarsi dello speciale regime di detenzione, a scapito delle sue condizioni di salute ormai irreversibili. Il rinnovo del carcere duro per il boss Bernardo Provenzano ridotto,

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Italia condannata per mancata sospensione (o rinnovo) del regime del 41-bis o.p a Bernardo Provenzano

negli ultimi periodi della sua vita, a poco più di un vegetale, ha violato il suo diritto a non essere sottoposto ad un trattamento inumano e degradante. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che condanna l’Italia per aver costretto fino alla morte il padrino di Corleone al regime penitenziario speciale, non rivela una bocciatura dell’art. 41-bis. La Corte Ue nella sua pronuncia afferma, di fatto, che il Ministero della Giustizia italiano ha violato il diritto di Provenzano a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Nel provvedimento si afferma anche che la decisione di non sospendere la detenzione di Provenzano non ha leso, difatti, i suoi diritti. La Corte di Strasburgo sostiene di “non essere convinta che il governo italiano abbia dimostrato in modo convincente che il rinnovo del regime del 41-bis” avvenuto a marzo 2016 “fosse giustificato”. Secondo i giudici, quindi, i referti forniti dal Governo italiano dimostrano le già compromesse funzioni cognitive di Provenzano, peggiorate nel 2015 e, nel marzo del 2016 “estremamente deteriorate”, la “gravità della situazione”, osserva ancora la Corte nella sentenza, doveva essere tenuta in considerazione al momento della decisione del rinnovo del 41-bis. Ancora si evidenzia che nella decisione manca “una valutazione autonoma del Ministero della Giustizia sulle condizioni di Provenzano al momento del rinnovo del 41-bis”. La condanna dell’Italia da parte della Corte riguarda tuttavia solo il prolungamento del regime carcerario speciale. Nella sentenza gli stessi togati, dopo aver “valutato tutti gli elementi”, riconoscono che la permanenza in carcere del boss non ha “di per sé” violato il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. “La detenzione di Provenzano non può essere considerata incompatibile con il suo stato di salute e la sua età avanzata”, scrivono i giudici aggiungendo che non può neanche essere sostenuto che “la sua salute e il suo benessere non siano stati protetti, nonostante le restrizioni imposti dalla detenzione”. E per questo motivo la Corte Ue ha rifiutato le richieste di risarcimento per danni morali di 150 mila euro e di 20 mila euro per coprire le spese legali1. Dagli elementi esposti possiamo comprendere che non si è applicata una condanna al 41-bis. Come detto il problema investe il trattamento di un essere umano negli ultimi giorni della sua vita. La questione, dunque, non è legata al 41-bis in quanto norma, ma al rinnovo di quest’ultimo nei confronti del mafioso, la Corte ha individuato le violazioni all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo relativa alla tortura secondo cui “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte non contesta gli scopi del rinnovo, ossia la prevenzione e la sicurezza, punto 150 della sentenza, ma che nelle motivazioni non siano state riportate e considerate le ormai precarie condizioni di salute del detenuto. Per questo motivo la Corte ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per sostenere il rinnovo e si ritiene non persuasa dalle giustificazioni del Governo italiano. Il ricorso era stato presentato dai familiari di Bernardo Provenzano nell’anno 2013, lamentando la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia sotto il profilo delle condizioni di detenzione, che avrebbero impedito un trattamento sanitario adeguato, sia in riferimento al continuo rinnovo del regime differenziato, ex art. 41-bis o.p., nonostante il precario e ingravescente stato di salute dell’interessato. In riferimento al rinnovo del regime differenziato (in particolare, quello del 2016), la Corte ha ritenuto che, vista la

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http://www.antimafiaduemila.com/home/primo-piano/72072-41-bis-a-provenzano-la-corte-di-strasburgo-condanna-l-italia.html.

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gravitĂ della situazione, non solo la motivazione del rinnovo dovesse essere particolarmente dettagliata e approfondita, ma anche che le condizioni del Provenzano dovessero essere debitamente tenute in considerazione. Al contrario, nel decreto di rinnovo il Ministro non svolgeva alcuna valutazione esplicita ed autonoma dello stato cognitivo del detenuto, tanto da rendere impossibile per la Corte apprezzare in che modo fosse stata valutata la situazione clinica del Provenzano.

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normativo

La riforma della legittima difesa Alessandro Parrotta Sommario: 1. Premesse. – 2. Il codice penale. – 3. Le proposte di riforma. – 4. Il disegno di Legge recante “Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima”.

1. Premesse. Ormai da qualche anno si susseguono sulle pagine dei giornali dibattiti sulla questione della legittima difesa: da una parte vi sono coloro che ritengono la normativa attuale adeguata ed esaustiva e guardano con sospetto ad una nuova riforma, mettendo in evidenza il rischio di arrivare a legittimare reati gravi quali l’omicidio. Dall’altra parte, invece, vi sono coloro che vogliono rafforzare ed estendere i confini dell’istituto in questione, ritenendo ingiusto sottoporre ad annosi processi penali coloro che la cui colpa à stata quella di difendersi nella loro abitazione (il caso del c.d. eccesso di lettissima difesa). Sono inoltre stati numerosi i casi di cronaca riguardanti per l’appunto situazioni in cui oggetto della discussione è la difesa della propria incolumità. Nella presente trattazione, lasciando da parte i dibattiti scaturiti dal mondo politico, che hanno coinvolto anche organi di vertice della magistratura italiana, verranno analizzati i contorni tecnici e giuridici della materia in questione. In altre parole si esaminerà il dettato normativo attuale che si cela dietro ai numerosi dibattiti.

2. Il codice penale. Per svolgere un’analisi tecnica della materia occorre necessariamente partire dal testo normativo di riferimento: l’art. 52 del codice penale, rubricato “legittima difesa”, prescrive che “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o l’altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. Occorre innanzitutto rilevare come il succitato articolo costituisca una scriminante nel nostro sistema penale: in altre parole, in applicazione dell’art. 52 c.p., il soggetto è legittimato a compiere un’azione che nella normalità costituirebbe un reato. I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un lato dall’insorgenza del pericolo (generalmente determinato da un’offesa ingiusta) e da una reazione difensiva. L’offesa ingiusta è quella che se non neutralizzata tempestivamente, può sfociare nella lesione di un diritto proprio o altrui tutelato dalla legge.


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Più complicato è valutare la reazione difensiva; infatti, in questo senso, il soggetto, difendendosi deve rispettare il paletto della proporzionalità tra la difesa stessa e l’offesa subita. Proprio su questo punto trovano terreno fertile i numerosi dibattiti scaturiti in materia poiché effettivamente il principio della proporzionalità in casi come questi è quantomai difficile da valutare, considerando soprattutto lo stato di confusione in cui versano le persone che subiscono un’aggressione. In questi casi la valutazione della proporzionalità è rimessa alla valutazione del giudice, che potrà valutare la configurazione del delitto di eccesso colposo, disciplinato dall’art. 55 c.p. L’onore della prova in questi casi incombe sul soggetto che ha difeso il diritto proprio o altrui e che dovrà indicare i fatti e le circostanze dai quali si evince l’esistenza della scriminante della legittima difesa. Nel giudizio, il magistrato dovrà tener conto dell’esistenza di un pericolo attuale o di un’offesa ingiusta, dei mezzi di reazione a disposizione dell’aggredito e il modo in cui ne ha fatto uso e del contemperamento tra l’importanza del bene minacciato dall’aggressore e del bene leso da chi reagisce. Come detto i problemi in materia riguardano prevalentemente il confine della proporzionalità della legittima difesa: i parametri sono troppo incerti ed il rischio è quello che un soggetto che voglia difendersi possa incorrere a sua volta nella commissione di un reato, senza averne la reale percezione. In questo senso, dunque, un intervento normativo potrebbe rendere più chiara e legata a parametri oggettivi la materia. Occorre, però, rilevare che è essenziale che i confini della scriminante della legittima difesa non vengano estesi oltremodo, perché altrimenti verrebbero create delle pericolose zone grigie di impunibilità. Occorre, effettuare un bilanciamento tra le varie esigenze; vediamo, allora, quali sono le proposte di riforma presentate.

3. Le proposte di riforma. Il 18 luglio u.s. sono stati presentati in Senato 5 disegni di legge per riformare l’istituto della legittima difesa. Vediamone i punti rilevanti. – È, innanzitutto, prevista nel D.D.L. a firma del Sen. Romeo (ma seguita anche negli altri D.D.L. sulla legittima difesa) l’introduzione, seguendo il modello penale francese, della presunzione di legittima difesa per chi, in casa propria o nel proprio negozio o impresa, agisca per difendersi dall’intrusione e respingere sconosciuti violenti o armati. Questo è senza dubbio il punto fondamentale della proposta di legge perché viene eliminato l’attuale paletto della proporzionalità tra difesa e offesa. Non vi sarà più un’autonoma valutazione del giudice in merito alla difesa ma basterà – per rientrare nell’alveo della scriminante ex art. 52 c.p. – che il soggetto abbia agito per respingere l’ingresso di colui che voleva introdursi nell’abitazione con violenza, minaccia o con l’uso di un’arma. Si noti bene che questa proposta prende in considerazione anche la sola circostanza di una minaccia a violare un diritto proprio od altrui. – Il disegno di legge, inoltre, con riguardo all’offesa ingiusta precisa che essa debba essere valutata “come percepita dall’aggredito al momento dell’insorgenza del pericolo”. Anche questa è una precisazione che, se passerà l’esame di Camera e Senato, potrà avere delle enormi conseguenze poiché si tiene conto esclusivamente dello stato d’animo dell’aggredito. – È, altresì, proposta l’esclusione la punibilità di colui che abbia operato in situazione di concitazione o di paura.

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La riforma della legittima difesa

– Inoltre, il D.D.L. n. 5 modifica anche l’eccesso colposo (art. 55 c.p.) escludendolo quando la condotta sia diretta alla salvaguardia della propria o altrui incolumità o dei beni propri o altrui nei casi previsti dal secondo e dal terzo comma dell’articolo 52 del codice penale. Lo scenario attuale – ovvero l’articolo ora applicato – deve essere riformato. Occorre, quindi, bilanciare tenendo a riguardo i valenti modelli europei.

4. Il disegno di Legge recante “Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima”. A seguito delle appena citata proposte, il cammino della riforma della legittima difesa è proseguito fino all’emanazione del testo del Disegno di Legge AA.SS. 5, 199, 234, 253, 392, 412, 563 e 652-A recante “Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima” che è stato presentato martedì 23 ottobre in Senato per la prima fase del consueto passaggio al vaglio parlamentare. Ottimo lavoro da parte del Collega Avv. Ostellari, Presidente della Commissione Giustizia che oggi ha licenziato il testo che passerà alla Camera dei Deputati. Occorre preliminarmente ribadire come la riforma sia stata attuata tenendo in considerazione i principi e le esigenze che negli ultimi anni si stavano facendo sempre più insistenti in ordine, da un lato, ad esigenza di una minor discrezionalità da parte dei giudici rispetto alla valutazione della proporzionalità della difesa e, dall’altro lato, alla necessità di maggior sicurezza richiesta dai cittadini all’interno delle proprie abitazioni. Il disegno di Legge, a seguito della presentazione, è stato approvato in data 24 ottobre dal Senato con 195 voti favorevoli, 53 voti contrari ed un astenuto; ora toccherà alla Camera dei deputati il secondo esame del testo, che così come approvato prevede 9 articoli. In questa sede, dunque, si effettuerà un’analisi preliminare in ordine alle novità introdotte dal testo approvato in Senato. La modifica più rilevante rispetto ai risvolti penali della normativa in oggetto è contenuta nei primi due articoli della riforma in materia di legittima difesa domiciliare (art. 52 c.p.) e di eccesso colposo (art. 55 c.p.). L’art. 52 co. 2 c.p. è così modificato alla luce dell’art. 1 del D.D.L.: “nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o la altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. La novità che salta immediatamente all’occhio consiste nell’introduzione della locuzione “sempre”; se il disegno di legge sarà approvato, nel caso di legittima difesa domiciliare sarà, dunque, sempre ritenuto sussistente il rapporto di proporzionalità tra la difesa e l’offesa. In altre parole, durante un’irruzione in casa propria, il cittadino potrà agire liberamente, e le sue azioni rimarranno sempre all’interno di una sfera di legittimità, senza ulteriori valutazioni. Gli unici limiti alla presunzione legale del principio di proporzionalità consistono nella circostanza che l’aggressore non desista e vi sia pericolo d’aggressione. Come anticipato, dunque, è stata introdotta la presunzione di legittima difesa: chi, all’interno del domicilio e nei luoghi ad esso equiparati, respinge l’intrusione, da parte di una o più persone, posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, agirà sempre in stato di legittima difesa. Pertanto, alla luce delle suesposte modifiche non vi sarà più una valutazione discrezionale del giudice in ordine alla sussistenza del rapporto di proporzionalità. 447


Osservatorio normativo

L’articolo 2 del disegno di legge interviene sull’articolo 55 c.p., aggiungendo un ulteriore comma, con il quale viene esclusa la punibilità di chi, trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità. L’articolo 55 c.p. sull’eccesso colposo, a seguito della modifica, risulterà il seguente: “Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, n. 5, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”. La riforma interviene anche in ordine ai profili civilistici: l’art. 7 introduce due ulteriori commi all’articolo 2044 c.c. Il nuovo comma secondo dell’articolo 2044 c.c. specifica che, nei casi della legittima difesa domiciliare è esclusa in ogni caso la responsabilità di chi ha compiuto il fatto. Anche in questo caso è evidente lo spirito posto a base della riforma per una sempre minore responsabilizzazione dei cittadini che si difendono in casa propria. L’art. 8 e l’art. 9 della riforma prevedono modifiche alle disposizioni rispettivamente sul gratuito patrocinio e sul ruolo d’udienza. In particolare l’articolo 8 introduce l’art. 115-bis all’interno del T.U. delle spese di giustizia prevedendo un’estensione delle norme sul gratuito patrocinio a favore della persona nei cui confronti sia stata disposta l’archiviazione o il proscioglimento o il non luogo a procedere per fatti commessi in condizioni di legittima difesa o di eccesso colposo. L’articolo 9 prevede, invece, che nella formazione dei ruoli di udienza debba essere assicurata priorità anche ai processi relativi ai delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose verificatesi in presenza delle circostanze di cui agli articoli 52, secondo, terzo e quarto comma e 55, secondo comma del codice penale. Il Disegno di Legge recante “Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima” non si occupa solamente di modificare la normativa penale e civile in ordine al diritto di difesa ma apporta delle rilevanti novità anche rispetto al regime sanzionatorio di alcune fattispecie delittuose. In particolare, l’articolo 4 della riforma interviene sul reato di violazione di domicilio elevandone la pena da sei mesi a un anno nel minimo e da tre a quattro anni nel massimo. L’articolo 5 della riforma interviene, invece, sull’art. 624-bis c.p., che disciplina il reato di furto in abitazione (comma 1) e furto con strappo (comma 2); anche in questo caso la nuova normativa interviene sul quadro sanzionatorio elevando la pena detentiva nel minimo dagli attuali tre anni a quattro anni e nel massimo dagli attuali sei anni a sette anni. Ed ancora, l’articolo 3 del disegno di legge, modificando l’articolo 165 c.p., prevede che nei casi di condanna per furto in appartamento la sospensione condizionale della pena sia subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risarcimento del danno alla persona offesa. Infine, l’articolo 6 della riforma interviene sul reato di rapina di cui all’articolo 628 c.p. modificando – inasprendo – la cornice sanzionatoria del reato: la pena della reclusione è elevata da 4 a 5 anni nel minimo, mentre resta fermo il massimo fissato a 10 anni. Per le ipotesi aggravate e pluriaggravate di cui rispettivamente al terzo comma e al quarto comma dell’articolo 628 c.p. il disegno di legge prevede un analogo inasprimento sanzionatorio. In particolare per la rapina aggravata la pena della reclusione è elevata nel minimo da 5 a 6 anni (il massimo resta fissato a 20 anni) e la pena pecuniaria è rideterminata in da 2.000 a 4.000 euro. Ora, parola alla Camera dei Deputati.

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Focus

The exercise of jurisdiction absent sovereignty and the “original legitimacy” of non-State jurisdictions by Jean Paul Pierini*

Summary: 1. Premise. – 2. Defining the topic of non-State jurisdictions. – 3. Insurgent Courts under IHL. – a) The denial of authority to detain under AP II and insurgents’ courts. – b) A case of enforcement of a judicial decision by a non-State court. – c) Notation about the existence of non-State jurisdictions by international courts – 4. The ECtHRs incidental position on courts of non-State entities and residual obligations of the sovereign. – a) Codified rules of attribution when official State authorities are defaulting or absent. – 5. Different shades of sovereignty and non-State jurisdictions. – a) Fragile and failed States and the return to pre-Statehood. – b) De facto governments, their denial and the validity of acts and legislation preserving society. – c) The path of the De facto principle and the “implied mandate” doctrine. – d) “Remnants of defeated armies”, guerrillas and the limited ex post recognition of partisan tribunals. – e) Inherent sovereignty and tribal jurisdiction. – f) Clandestine courts, their surfacing and ex post legitimation. – 6. Conclusions.

1. Premise. Last February 2018, the Court of Justice of the European Union (CJEU) delivered its second judgment1 in a preliminary reference from the High Court of England and Wales (EWCA) in the Western Sahara case. The western Sahara Campaign UK had challenged the exact geographical scope of the 2013 Protocol between the European Union and Morocco on fisheries. Interestingly, while Morocco denied being an occupying power or and administrative power in Western Sahara, the Council and the Commission argued in favor of seeing Morocco as a “de facto administrative power” as such exercising “jurisdiction” over waters adjacent to Western Sahara2. The Court rejected the argument and defined the territorial scope of the Protocol as not extending to waters adjacent to Morocco. The CJEU case represents perhaps the

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The Author is a senior officer in active duty in the Italian Navy. This Paper reflect exclusively personal views of the Author. The Paper has been written in the private capability of the Author in order to answers interesting questions raised by his sons, actually his primary source of inspiration. The views expressed may not be attributed to the Italian Ministry of Defense or the Italian Navy. 1 CJEU), C-266/16, Western Sahara Campaign UK v. HM Revenue and Customs, Secretary of State for Environment, Food and Rural Affairs, Grand Chamber, 27 February 2018, judgment. 2 M.W. Gehring, Court of Justice further clarifies the application of the EU-Morocco Fisheries Partnership Agreement to Western Sahara, EU Law Analysis, March 1, 2018.


Focus

last sighting of the de facto principle in a court case and perhaps also a misguided and nonconvincing invocation of the doctrine because referred to a relationship between a State and a non-self-governing territory3. The circumstance provides nonetheless an opportunity to investigate a specific aspect of the de facto principle, represented by its application, together with other arguments, to justify the “judicial dimension” of the administration by so called “usurpers”, “insurgents”, “rebels” and more generally non-State jurisdictions and acts adopted thereof. Non-State jurisdiction is a provoking and intrinsically complex and multifaceted topic encompassing certain exercise of “Informal justice”, “Popular justice”, “Public Opinion tribunals”, “Tribal courts”, “Partisan tribunals”, “Supreme Court in exile”4, “Revolutionary tribunals of Liberation Movements”5, “Frontier” or “Pioneers justice”6 and “Rebel” or “Insurgents’ Courts”. A court is usually described as a body established by law for the administration of justice by judges or magistrates and a judge is defined as a “state official” with power to adjudicate on disputes and other matters brought before the courts for decision7. The purpose of this paper mandates not to stick on established definitions, as such definitions are indissolubly linked with the derivation of powers from a State. Its aim is to investigate the power of non-State actors to set up jurisdictional bodies, the “source” of jurisdictional powers of non-State courts and tribunals and their legitimacy “of origin”8. Accordingly, although

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As pointed out by the Advocate General, §§ 223-224, in his conclusions in the case C-266/16, the concept of “de facto administering power” does not exist in international law and was used for the first time by the Commission in the answer given on its behalf by the High Representative of the European Union for Foreign Affairs and Security Policy, Vice-President of the Commission, Baroness Catherine Ashton, to … parliamentary questions. The conclusions also read that “in fact, the Council and the Commission have been unable to give a single other example in which that expression has been used to describe the relationship between a State and a non-self-governing territory”. 4 Reference is to the Venezuelan Supreme Court of Justice in exile (TSJ) create by deposed Attorney General Luisa Ortega and judges appointed by the National Assembly, sitting in Colombia. At this purpose, See European Parliamentary Research Service Briefing, The Political Crisis in Venezuela, December 2017. 5 The Palestinian Liberation Organization (PLO), when statehood was essentially an item on the agenda, in its sixth council session in 1969 set up a “revolutionary court”. References in M. Shemesh, The Palestinian Entity 1959 – 1974: Arab Politics and the PLO, Routledge, 2012, p. 177. Later in 1974, the PLO allegedly tried the hijackers of British Airways flight BA870 and was held to run a prison facility in Syria. The above expressions of the Liberation organization’s “judicial dimension”, was “in exiled” and exercised within the territorial sovereignty of other States with their acceptance or tolerance. At this purpose, See A.F. Kassim, The Palestine Liberation Organization’s Claim to Status: A Juridical Analysis Under International Law, 9 Denver Journal of International Law and Policy International Law and Policy, 1980, n. 1, 29ff., note 15 None of the said attitudes of the territorial sovereign was, in our view, sufficient to trace the legal base of the exercise of jurisdictional powers back under domestic law. 6 At this purpose we would refer to the bibliographical research of Carleton W. Kenyon, Legal Lore of the Wild West: A Bibliographical Essay, 56 Cal. L. Rev. 681 (1968), 686. Recently on the topic, Darlene A. Cypser, Myth of the Wild West: Law and Justice prior to the Organization of the Territory of Colorado, Thesis submitted to the Faculty of the Graduate School of the University of Colorado in partial fulfillment of the requirements for the degree of Master of Arts History Program, 2017. 7 Oxford Dictionary of Law, Martin & Law 2006, 136. 8 On the dichotomy between the legitimacy pertaining to the source of power and the legitimacy related to the exercise of power, See J. D’Aspremont - E. De Brabandere, The Complementary Faces of Legitimacy In International Law: The Legitimacy of Origin and the Legitimacy of Exercise, Fordham International Law Journal, Vol. 34, n. 2 (2011), 190-233.

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above the definition of the court implies the act that such court is “established by law” and the requirements call into play the “rule of law” and human right law, the focus will remain on the “source of jurisdictional power” and justification for the establishment of the courts, rather than on the “legitimacy of its exercise” as a matter of compliance with human rights obligations. The “levels of organization” reached by non-State actors and unrecognized entities which have established jurisdiction will not be specifically investicated. “Sufficient levels of organization” of armed groups for the purpose of their subjection to international humanitarian law (IHL), international human rights law (IHRL) and international criminal law (ICL) a currently hot topic, frequently developed with respect of patterns reflecting the degree of military organization9 which are not necessarily qualifying for the actual purpose of the paper. In the second paragraph the definition of non-State courts for the present paper will be narrowed. The “insurgent courts” debate under IHL will be briefly resumed in paragraph three together with recent judgment specifically dealing with IHL as applicable in non-International armed conflicts and authority to detain or enforce sentences of non-State courts. In the fourth paragraph the string of authorities of the European Human Rights Court (ECtHR) acknowledging court systems set up by non-recognized entities in the context of the definition of residual positive obligations by the State having a title of jurisdiction over contested territories will be outlined. In the fifth paragraph, the different kinds of arrangements departing from the established definitions of sovereignty and statehood will be considered in respect different forms of judicial systems set up by in pre-statehood, during world war two and as an expression of inherent sovereignty. In the sixth paragraph we will try to reach a conclusion.

2. Defining the topic of non-State jurisdictions. The subject matter of non-State jurisdiction is characterized by a terminological or more correctly a “labeling”, chaos and the impossibility to categorize the different jurisdictions based upon their denomination. The attributives “revolutionary”, “popular” or “peoples” are, from time to time, found to be used for very different kinds of courts ranging from “full sized State courts”, whereas the emphasis is on the rupture with the past, to extraordinary bodies established in times of consolidation of a new political regime, to insurgent’s court set up in territories under the control of an insurgent group, to end with lynching justice and the pantomimes of justice set up within terrorist strategies in western European States in the 1970s. Whilst the naming of courts by those setting them up is often without any legal or even logical criteria, righting terminology seems a rather desperate and distracting exercise10. The reference to non-State jurisdiction is, for this paper, non-inclusive of situations of cessions of sovereignty by States to international jurisdiction and of those situations in which

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The topic is comprehensively investigated by R. Rodenhäuser, Organized Rebellion. Non-State Armed Groups under International Humanitarian Law, Human Rights Law, and International Law, Oxford University Press, 2018, 4ff. 10 According to S. Pegg, Twenty Years of de facto State Studies: Progress, Problems, and Prospects, Published online July 2017, available at: http://politics.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190228637.001.0001/acrefore9780190228637-e-516, the subfield of de facto state studies is also characterized by recurrent problems and there has been an extensive proliferation of different terms used to describe these entities, and much fighting has erupted over precise definitions, resulting in limited scholarly progress.

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implicit or inherent jurisdiction is invoked by such jurisdictions. Non-State jurisdiction is rather inclusive of jurisdictional authority exercised by “quasi States”, legal entities (as religious entities) not formally empowered by the laws of a State with jurisdictional powers, tribunals established by tribes and indigenous people and as a judicial activity within of non-State governance of territories. The latter reference as juxtaposed to “government”, is to regulatory mechanisms functioning effectively even though are not endowed with formal authority. The wider extent of non-State jurisdictions includes historical examples of rebel justice as expression of a “shadow State” whereas courts meet clandestinely. In order to further define and approximate the topic of this examination it is necessary to drive a line between bodies effectively exercising “jurisdiction” and those bodies which do not. Reference is to certain “self-styled tribunals” whose activity is confined in a merely moral dimension by issuing moral condemnations as in the case of citizens or peoples’ tribunals, as the notable 1967 International War Crimes Tribunal (Russel Tribunal) convened by philosophers Bertrand Russel and Jean Paul Sartre to establish “beyond doubt” the criminal nature of U.S. actions in Vietnam11. Similarly, ideological attempts to invoke or establish a “Popular Justice” and mimicry the judicial system by radical leftists in Europe in the 1970s12 may not be classified among the exercise of a proper jurisdiction. Parodies of justice unsuitable of being distinguished from merely criminal activity were also used in the 1970s by the Red Brigades operating in Italy and in other European States in order to raise the level of tension and trial (and assassinate) kidnapped politicians. In a different fashion and without to subvert the established order, “Public Opinion Courts13 carried out rituals of public shaming as a matter of folklore with what was defined “rough music”, though sometimes with some tolerance by the judiciary. To further delimit the topics considered in the paper, courts set up entirely or in part by political parties or “organs” of political parties or composed by judges designated by political parties are not specifically considered as non-State courts. This on the consideration that in the said situations, political parties either act within a transitional government or “independence fronts” as in post-world war two experiences14 or as State organs15. Finally, for this paper non-State courts don’t include “private” arbitrations although eventually fulfilling the requirements of international arbitration and capable of interfering with criminal jurisdiction of States16.

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B. Russel, Introduction in, Against the Crime of Silence: Proceedings of the Russel International War Crimes Tribunal, Copenhagen, Russel Peace Foundation, New York, 1968, 3. Recently on the Tribunal See D. Otto, Impunity in a Different Register: People’s Tribunals and Questions of Judgment, Law and Responsibility, in K. Engle - Z. Miller - D.M. Davies (Edited by), Anti-Impunity and the Human Rights Agenda, Cambridge University Press, 2016, 291ff. 12 At this purpose, See V. Codaccioni, Justice populaire et mimétisme judiciaire. Les maoïstes dans et hors la Cour de sûreté de l’État, Droit et société 2015/1 (n° 89), 17. 13 S. Banks, Informal Justice in England and Wales 1760-1914: The Courts of Public Opinion, Boydell Press, 2014, 19ff. 14 An example may be found in the Hungarian People’s Courts described by L. Karsai, The People’s Courts and Revolutionary Justice in Hungary, in I. Deàk - J. Gross - T Judt (edited by), The Politics of Retribution in Europe: World War II and Its Aftermath, 1939-1948, Princeton University Press, 2000, 433ff. 15 In respect of political party discipline, See Guo Yong The Evolvement of the Chinese Communist Party Discipline Inspection Commission in the Reform Era, China Review, Vol. 12, n. 1 (2012), 1ff. 16 On the tipic, eventually J.P. Pierini, The Momentum of Domestic Criminal Proceedings Supervision Through In-

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3. Insurgent Courts under IHL. The debate about “insurgent courts” has been fostered recently by the 2016 ICRC Commentary on the first 1949 Geneva Convention (GC I), recalling the provisions of the Second Additional Protocol to the 1949 Geneva Convention (AP II), to involve non-State actors and movements in a wider and more comprehensive effort to ensure compliance with international humanitarian law (IHL)17. In this perspective, insurgent courts could eventually participate in the enforcement of IHL and the repression of grove breaches. The assessment of the eventual role of insurgent court in complying with certain provisions of IHL setting the requirement for judicial authorities and judicial supervision mechanisms to be in place, remain more difficult. Although, such requirements are essentially applicable to International Armed Conflicts (IAC’s) in the subject matter of the treatment of prisoners of war and internment of civilians. The debate was also fueled by a recent book stressing the importance of “delivering justice” for insurrectionary and rebel agendas18. Situations in which insurgents have established courts and triggered the interest of scholarship includes the practices of the Nepal-Maoist in Nepal (CPN-M), the Naxal-Maoist insurgents in India19, the Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional in El Salvador (FMLN) and the Liberation Tigers of Tamil Eelam in Sri Lanka (LTTE)20, arguably insurgent movement with the most developed insurgent judicial system. The court systems established, though effective, are “self-contained” with no relevant interlink with the concerned State counterpart and no practice of judicial cooperation with third States. The authority of non-State armed groups to set up courts in Non-international armed conflicts (NIACs) is not explicitly established under IHL. Nevertheless, under Common art. 3(1)(d) of the 1949 Geneva Conventions (CA3) setting the basic rules applicable to NIACs, “the passing of sentences and the carrying out of executions without previous judgment pronounced by a regularly constituted court” is prohibited. The rules applicable to NIACs were subsequently set in the Second Additional Protocol to the 1949 Geneva Conventions adopted in 1977 (AP II). AP II applies (art. 1) to armed conflicts which take part on the territory of one High Contracting Parties between “its armed forces and

vestment Treaty Arbitration, I Quaderni Europei, n. 79/2017, available at: http://www.cde.unict.it/content/momentum-domestic-criminal-proceedings-supervision-through-investment-treaty-arbitration. 17 At this purpose, See M. Sassòlì, Possible Legal Mechanisms to Improve Compliance by Armed Groups with International Humanitarian and International Human Rights Law, Armed Group Conference, Vancouver, 13-15 November 2003, available at www.armedgroups.org/images/stories/pdfs/sassoli_paper.pdf. Recently See, also M. Hakimi, Fair Trial Guarantees in Armed Conflict, Lawfare blog, September 23, 2016, available at https://www.lawfareblog. com/joint-series-international-law-and-armed-conflict-haki. The A. also raises the issue of the “security detention” in NIAC. 18 F. Ledwidge, Rebel Law – Insurgents, Courts and Justice in Modern Conflict, Hurst, 2017. On the topic See also R. Schwab, Insurgent courts in civil wars: the three pathways of (trans)formation in today’s Syria (2012–2017), Small Wars & Insurgencies, Vol. 29, n. 4, 801-826. 19 The Naxal Maoist insuregency is deal by Satya P. Singh, Fire in the Forest. Tackling Maoist Menace, The Indian Police Journal, 2013, January-March. 20 P.S. Gejji, Insurgent Courts Within International Humanitarian Law, Texas Law Review, Vol. 91 (2013), 1525.

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dissident armed forces or other organized armed groups which, under responsible command, exercise such control over a part of its territory as to enable them to carry out sustained and concerted military operations” and to implement the Protocol. The rules established for International Armed Conflicts (IACs) in the First Additional Protocol to the 1949 Geneva Conventions adopted in 1977 (AP I), apply also art. 1(4) to armed conflicts in which “peoples” are fighting against colonial domination, alien occupation, and against racist regimes in the exercise of their right of self-determination21. Art 96(3) of AP I establishes a mechanism whereby national liberation movement involved in an armed conflict against a High contracting party to AP I may agree to an be bound by the protocol by a unilateral declaration addressed to the depositary22 but without becoming a party23. The threshold for the application of AP II outlines a context in which, the control over a part of the territory may rise to a level including (and we would argue also “imposing”) the exercise of administrative and judicial responsibilities and functions. The said functions may encompass the enactments of regulations which could also fulfill the requirements of a law under IHRL. This is consistent with the view expressed in the Geneva Commentary according to which dissident groups in NIACs are bound to IHL because they exercise “effective sovereignty” over territory24. View recalling the de facto doctrine which will be narrowed in the fifth paragraph. As to the specific provisions of AP II related with the issue of courts established by insurgents, art. 6(2) requires that no sentence “shall be passed and no penalty shall be executed on a person found guilty of an offence except pursuant to a conviction pronounced by a court offering the essential guarantees of independence and impartiality”. The circumstance that art. 6(2) of AP II was aimed at addressing courts established by insurgents is argued by comparing the wording of the said provision with the different wording contained in the contemporary art. 75(4) of AP I, requiring courts to be “regularly constituted”. In fact, it had been argued that it was unlikely that a court could be “regularly constituted” under national law by an insurgent party and therefore during the negotiation of the AP II, the ICRC proposed an equivalent formula taken from Article 84 of the Third Convention, which was accepted without opposition25.

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The negotiating history of the provision is highlighted by B. Zimmermann, Art. 1, in Y. Sandoz - C. Swinarski - B. Zimmermann (edited by), Commentary on the Additional Protocols of 8 June 1977 to the Geneva Conventions of 12 August 1949, Martinus Nijhoff Publishers, Geneva, 1987, 50ff. 22 N. Higgins, International Law and Wars of National Liberation, Oxford Bibliographies in International Relations, 2014. At this purpose, See also R.C. Pangalangan - E.H. Aguiling, The Privileged Status of National Liberation Movements under International Law, 58 Phil. L.J. 44 (1983), 44. 23 For further references See K. Mastorodimos, National Liberation Movements: Still a Valid Concept (with Special Reference to International Humanitarian Law)?, Oregon Review of International Law, Vol. 17 (2015), 71ff. 24 International Committee of the Red Cross, Commentary IV, Geneva Convention Relative to the Protection of Civilian Persons in Times of War, ICRC, Geneva, 1958, 37, note 5. 25 S.S. Junod, Art. 6, in Y. Sandoz - C. Swinarski - B. Zimmermann (edited by), Commentary on the Additional Protocols of 8 June 1977 to the Geneva Conventions of 12 August 1949, cit., 1398.

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As observed by Sivakumaran26, the reference to national law was omitted in the final wording of art. 6(2) of AP II, “precisely because of the uncertainty over whether the term was wide enough to cover the ‘law’ of the armed group”. The requirement for a “regularly constituted court affording all judicial guarantees which are generally recognized as indispensable” is also contained in art. 8 paragraph 2(c)(iv) of the Rome Statute. Under the (non-binding) “Elements of Crime”, the element represented by the lack of a regularly constituted courts is explained referring to the circumstance that such court “… did not afford the essential guarantees of independence and impartiality, or the court that rendered judgement did not afford all other judicial guarantees generally recognized as indispensable under international law”. Apparently, the drafters of the “Elements of Crimes” tried to reconcile the wording of the Statute (clearly reflecting CA3) with the provision of art. 6(2) of AP II which was neglected at the time of the adoption of the Rome Statute. The interpretation of a “regularly constituted court” includes the requirement for a court to be established by a law already in force. The requirement for a law already in force has also been asserted to be in line with the principle of sovereignty27. The “retention of laws” and the functioning of courts established under the authority of the occupant of a territory are well established under regime of military occupation applicable to IACs28. Based upon the non-explicit wording of CA3 and AP II, it has been asserted that while IHL does not provide an explicit legal base for the establishment of insurgent courts, it regulates their operations if established29. The underlying understanding of AP II as a purely regulatory framework, imposing exclusively constraints on the Parties either State or not without providing authorizations as such, seems convincing30. Art. 6(2) of AP II is shaped as to express a

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S. Sivakumaran, Courts of Armed Opposition Groups. Fair Trials or Summary Justice? Journal of International Criminal Justice, Vol. 7 (2009), 489-513. 27 Stockholms Tingsrätt, B 3787-16, judgment dated February 16, 2017 in Swedish is available at http://www.ejiltalk.org/wpcontent/uploads/2017/03/Stockholms-TR-B-3787-16-Dom-2017-02-16.pdf. 28 Convention (IV) relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War. Geneva, 12 August 1949, art. 64 which reads as follows: “The penal laws of the occupied territory shall remain in force, with the exception that they may be repealed or suspended by the Occupying Power in cases where they constitute a threat to its security or an obstacle to the application of the present Convention. Subject to the latter consideration and to the necessity for ensuring the effective administration of justice, the tribunals of the occupied territory shall continue to function in respect of all offences covered by the said laws”. 29 To use the words of D. Murray, Non-State Armed Groups in NIAC: Does IHL Provide Legal Authority for the Establishment of Courts? EJIL Talk!, June 4, 2014, available at https://www.ejiltalk.org/non-state-armed-groups-in-niacdoes-ihl-provide-legal-authority-for-the-establishment-of-courts/. 30 According to L. Cawthorne - D. Akande, Locating the Legal Basis for Detention in Non-International Armed Conflicts: A Rejoinder to Aurel Sari, EJIL Talk!, June 2, 2014, available at https://www.ejiltalk.org/locating-the-legalbasis-for-detention-in-non-international-armed-conflicts-a-rejoinder-to-aurel-sari/, the intra-state nature of NIACs means that there is a pre-existing legal system fully applicable to the situation on which we can fall back, i.e. domestic law … unlike the position in IACs, IHL does not need to provide any authorizations with respect to detention in NIACs. The paper has triggered the further reply by A. Sari, Sorry Sir, We’re All Non-State Actors Now: A Reply to Hill – Cawthorne and Akande on the Authority to Kill and Detain in NIAC, in EJIL Talk!, May 9, 2014, https:// www.ejiltalk.org /sorry-sir-were-all-non-state-actors-now-a-reply-to-hill-cawthorne-and-akande-on-the-authority-tokilland-detain-in-niac/ arguing essentially an additional enabling function of IHL.

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prohibition (the prohibition to execute penalties on a person found guilty of an offence except pursuant to a conviction pronounced by a court offering the essential guarantees of independence and impartiality) and beyond the purely regulatory essence of AP II, it wouldn’t be for the Protocol to authorize or ban insurgent courts, as it is not for IHL to address issues of sovereignty and inherent sovereignty to establish courts. Within the interpretation of IHL applicable to NIAC, the “equality of belligerents” – a principle which may not be found in the Conventions and whose abjuration at the diplomatic conference was key in the adoption of AP II – apparently represent an issue on itself and an argument for and against the authorization of insurgents to establish courts. The “equality of belligerents”, arguably the most disagreeable aspect for states when it comes to adopting a law of non-international armed conflict31 allows for two conclusions to be drawn from art. 3(1) (d) of CA3: the first is that it was adopted by States in a spirit of “inequality” consistent with traditional state monopoly on the administration of justice under domestic law; the second conclusion is that armed opposition groups would have the legal capacity to establish courts (and States would be required to accept a parallel non-state legislative and judicial system outside of their authority)32. Taking the equality argument to its extreme, it has been further observed that if State authorities alone, due to their traditional monopoly on legislative and judicial organs, can prosecute rebel soldiers for mere participation in hostilities – and not vice versa – then a question of equality would arise33. The implications of insurgents legitimately prosecuting soldiers of a State taking part to a NIAC for their mere participation in the hostilities – whatever the view about the principle of equality are – require taking into consideration the nulla poena sine lege principle. The prosecution of soldiers of a State taking part to a NIAC for their mere participation should be assessed in the light of the “foreseeability” requirements of the relevant criminal provisions, their scope, content, the field they are designed to cover and the number and status of those to whom they are addressed. Regime changes, succession of States and democratization are to be considered by those siding governmental forces whose conduct could later imply liable for violations of criminal provisions still in force. It would be no novelty that following an insurrection former heads of State have been convicted of those same offences dissidents were previously charged. According to the 2016 Commentary to First Geneva Convention (GC I), non-state armed groups may conduct criminal trials if they: (1) use a state’s existing courts, or (2) constitute their own courts in accordance with their “laws”34. According to the UK Manual of the Law of Armed Conflict “the use of the bare word “law” must be taken to include both national and

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J. Somer, Jungle justice: passing sentence on the equality of belligerents in non-international armed conflict, International Review of the Red Cross, Volume 89 Number 867 September 2007, 656. 32 J. Somer, Jungle justice: passing sentence on the equality of belligerents in non-international armed conflict, cit., 657. 33 J. Somer, Jungle justice: passing sentence on the equality of belligerents in non-international armed conflict, cit., 658, quoting M. Sassòlì, Possible Legal Mechanisms to Improve Compliance by Armed Groups with International Humanitarian and International Human Rights Law, cit. 34 M. Hakimi, Fair Trial Guarantees in Armed Conflict, Lawfare Friday, September 23, 2016.

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international law” and that it could also be wide enough to cover “laws” passed by an insurgent authority’35. Even the “inequality” approach in its extreme version may not be agreed with. Accordingly, there is no substance in the conclusion that any armed group that establishes courts would violate IHL and that members of the armed group associated with such courts would be guilty of war crimes36; at least unless such courts don’t pass judgements which violate IHL and International criminal Law (ICL). To reconcile inequalities with the equality principle, a balance was suggested to be best realized by interpreting IHL penal provisions as to allow armed opposition groups to meet the requirements of the law of non-international armed conflict with the capacity to establish courts and legislate relevant penal sanctions37. The question of insurgent courts may also be considered from the perspective of the individuals under the control of armed groups and subject to possible violations of obligations under IHL or IHRL. Such individuals are, at least in theory, afforded with less guarantees than those in the control of a State if the armed group doesn’t establish own judicial guarantees. Nevertheless, the same argument could be made mutatis mutandis in situations in which an individual is illegally detained or killed by organized crime and the need for judicial guarantees isn’t itself useful to justify from a legal viewpoint the establishment of insurgent courts. In practice, insurgent trials are often flawed having regard to established human rights law38, undermining their “legitimacy of exercise”. The absence of constitutional rules and traditions and a corresponding legal culture, preserving the independence of judges from the insurgent leadership and perhaps granting their survival – would judicial activity not satisfy the leadership – makes expectations for independence illusory. Similarly, the rights to a defense counsel, whose independence is exposed to the same if not more threats than that of judges, may be shaped to the lower limit of a judicial farce. Insurgent justice may also be afflicted by insufficiencies of the applicable substantive law in the description of prohibited conduct, as well as by the over-ideological character of “revolutionary penal codes”. Such situations may nevertheless resemble those of several States with the subtle qualifying and reassuring difference represented by the possibility for the concerned State to rely on established sovereignty, the Westphalian order and on the possibility to claim that terrorists are plotting to subversion of the legitimate government. The way trials are conducted may nonetheless not be conflated with the different aspect represented by the legitimacy of the establishment of a court. The establishment of insurgent courts by armed groups surfaced recently in a set of domestic decisions and in front of international jurisdictions although to a more limited extent.

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Quoted by D. Murray, Non-State Armed Groups in NIAC: Does IHL Provide Legal Authority for the Establishment of Courts? cit. 36 P.S. Gejji, Insurgent Courts Within International Humanitarian Law, cit., 1526. 37 J. Somer, Jungle justice: passing sentence on the equality of belligerents in non-international armed conflict, cit., 659. In the contexts of a “shorter equality” the A. asserts that the ICTY Čelebići decision, Prosecutor v. Zejnil Delalić, Zdravko Mucić, Hazim Delić, Esad Landžo, ICTY, IT-96-21-T, 16 November 1998, par. 473, “reinterpreted the ‘‘traditional’’ definition of torture in order to extend the concept of ‘‘official capacity’’ to armed opposition groups during armed conflict”. 38 See OHCHR, Human rights abuses by the CPN-M, Summary of concerns, September 2006.

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The denial of authority to detain under AP II and insurgents’ courts

The decision inflaming the insurgent courts debate is represented by the judgment in the United Kingdom High Court in Serdar Mohammed v. Ministry of Defence case39. In its decision the court affirmed the principle that detention authority in NIACs may not be based on AP II. Accordingly, authority to detain in NIAC need to be sought in the applicable domestic law. In the Afghan and Iraqi theatre there such basis wasn’t established, neither the host State’s law nor in the ones of the sending State40. The relevance of the said decision in the subject matter of insurgent courts is only “indirect” and based upon an obiter dictum to the effect that – according to the decision – affirming that authority to detain exist in NIACs … would imply that rebels and insurgent groups would be authorized to detain. The legitimation of insurgents to detain was therefore considered as argument ad absurdum, to exclude the detaining power of the intervenor in a NIAC41. Perhaps, in the perspective of the argument embraced in the decision, if AP II doesn’t provide authority to detain prisoners, intern individuals … establishing a judicial procedure wouldn’t resolve the issue of an original lack of authority. But such conclusion may not be found in the decision and, as observed in the previous paragraph, IHL applicable to NIACs couldn’t provide the source power to establish insurgent courts. The decision nevertheless provided an opportunity to discuss the issue of the legal authority extended to non-State armed groups in a NIAC42 and, in our opinion, also to support the view of AP II as regulatory framework setting constraints without providing specific authority. The decision in the case of Serdar Mohammed v. Ministry of Defence was appealed and upheld on the specific point of authority to detain43. The Supreme court subsequently acknowledged the lack of authority to detain under AP II44 and entertained other legal aspects of the case, not relevant for the insurgent courts issue.

39

Serdar Mohammed v. Ministry of Defence [2014] EWHC 1369 (QB). On the decision, See M. Milanovic, High Court Rules that the UK Lacks IHL Detention Authority in Afghanistan, 3 May 2014, https://www.ejiltalk.org/high-courtrules-that-the-uk-lacks-ihl-detention-authority-in-afghanistan/. 40 M. Milanovic, High Court Rules that the UK Lacks IHL Detention Authority in Afghanistan, cit. 41 In the decision, § 245, justice Leggatt observes “given that CA3 applies to ‘each Party to the conflict’ and AP2 applies to organized armed groups who are able to implement it, providing a power to detain would have meant authorizing detention by dissident and rebel armed groups … [t]hat would be anathema to most states which face a non-international armed conflict on their territory and do not wish to confer any legitimacy on rebels and insurgents or accept that such groups have any right to exercise a function which is a core aspect of state sovereignty”. 42 To use the words of D. Murray, Non-State Armed Groups in NIAC: Does IHL Provide Legal Authority for the Establishment of Courts?, EJIL Talk, June 4, 2014, available at https://www.ejiltalk.org/non-state-armed-groups-inniac-does-ihl-provide-legal-authority-for-the-establishment-of-courts/. 43 [2015] EWCA Civ 843, §§ 246ff and 251ff. The decision is available at the following link: http://www.bailii.org/ ew/cases/EWCA/Civ/2015/843.html. 44 [2017] UKSC 1, § 35. The decision is available at the following link: https://www.supremecourt.uk/cases/uksc-2015-0218.html.

458


Focus

b)

Criminal liability for the enforcement of a purported judicial decision of a non-State court

The authority on non-State armed groups to establish courts has been more directly dealt by the Swedish district court in the trial of a defendant accused of executing as a member of the “Suleiman Fighting Company”, suspected members of the Syrian regime armed forces after a “judicial council” allegedly found them guilty of rape and the killing of civilians45. After noting that the definition “regularly constituted court” in CA3 may support the impression that only State can establish courts, the district court found that reference to the Additional Protocols and their commentaries indicates that the focus has shifted from “how” a court is established to “whether it upholds fundamental procedural guarantees of impartiality and independence”46. In its decision, the district court, shared the viewpoint of Professor Mark Klamberg47, heard as an expert witness in the proceeding, and ruled that since IHL requires armed groups to refrain from inhumane acts such as murder and torture, it also makes demands on them to maintain discipline in their own ranks” which requires the ability to establish courts48 which is accordingly to be considered implicit. According to the district court, the scope of such authority is limited to need to uphold discipline within the armed group and uphold law and order on a given territory49. The “implicit” character of the power to establish courts is consequently derived from the obligation to abide to IHL and the presumption that there must be a possibility to abide. The Swedish District (SD) court didn’t consider the “inherent” power to establish courts because of de facto sovereignty. When courts are established by non-State actors with the aim of upholding law and order in a territory they need – according to the SD court – to be staffed by personnel appointed as judges or officials in the judiciary prior to the outbreak of conflict applying the law in force prior to the conflict, or laws not harsher than those existing prior to the conflict50. In the analysis of the legal framework for insurgent courts, the role of art. 6(2) of AP II, mentioning an “independent court”, is defined as requiring a separation of power and the judicial body should be structurally independent from other state actors to prevent unjustified interferences in the judicial process51. Additional descriptive requirements include competenc-

45

The conviction in Sweden has been reported by the New York Times, at https://mobile.nytimes.com/2017/02/16/ world/europe/syrian-rebel-haisam-omar-sakhanh-sentenced.html?referer The judgment of the Stockholms Tingsrätt, B 3787-16, dated February 16, 2017 in Swedish is available at http://www.ejiltalk.org/wpcontent/uploads/2017/03/ Stockholms-TR-B-3787-16-Dom-2017-02-16.pdf. On the case, See also Sweden/Syria, Can Armed Groups Issue Judgments?, case explanation prepared by E. Heim, available at https://casebook.icrc.org/case-study/swedensyria-canarmed-groups-issue-judgments. On insurgent courts in Syria, See R. Schwab, Insurgent courts in civil wars: the three pathways of (trans)formation in today’s Syria (2012–2017), cit. 46 So J. Somer, Opening the Floodgates, Controlling the Flow: Swedish Court Rules on the Legal Capacity of Armed Groups to Establish Courts, Ejil Talk!, March 10, 2017, available at https://www.ejiltalk.org/opening-the-floodgatescontrolling-the-flow-swedish-court-rules-on-the-legal-capacity-of-armed-groups-to-establish-courts/. 47 Prof. M. Klamberg is the author of the Paper Possibility of a Non-State Actor to Establish Courts, Issue Sentence and Avoid Criminal Responsibility for Acts that Otherwise Would Constitute War Crimes, Stockholm Faculty of Law Research Paper Series n. 2, available at https://ssrn.com/abstract=2914188. 48 Ibidem. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 E. Heim (case explanation prepared by), Can Armed Groups Issue Judgments?, § 33.

459


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es clearly specified in law and exclusive jurisdiction over questions within its competence and the judges’ terms of employment must be such as to protect individual judges against threats or any other external influence. The guarantees the courts should afford to the defendant are those outlined in art. 75 of AP I. Whilst the upholding of the discipline seems to less problematic – perhaps because judicial powers are exercised upon individuals deemed to be “expendable” – some of the further limitations outlined by the district court deserve some consideration. Requiring insurgent courts to be manned by personnel in charge of judicial functions prior to the outbreak of the NIAC, may be regarded as a mean to ensure the independence of the judiciary from the insurgent leadership and mirrors to some extent principles found under the laws of occupation. Nevertheless, the requirement could prize the adaptive survival capabilities of the former legal manpower of repressive regimes. There is obviously the need for guidance in dealing with situations in which the enforcement of an insurgent court decision or even the concurring in such a decision could determine the criminal liability of the enforcer of the judge and the district court seems to have adopted a “formal” approach, inspired by rules applicable to occupation in IACs. Having regard to the practice of the review of foreign judgments in criminal proceedings52, the decision of the “judicial council” seems to have been noted as a “fact”, eventually entailing legal consequences (as the exemption from punishment of the enforcers), rather than as a judicial decision.

c)

Notation about the existence of non-State jurisdictions by International courts and tribunals

Decisions of international jurisdictions have incidentally taken into consideration non-State judicial system swhen there was the need to determine liability of individuals under the patterns for the so called “command responsibility”. The International Criminal Courts (ICC) confirmation decision in the Prosecutor v. Bemba Gombo case 53, while dealing with the interpretation of article 28 of the Statute on “Command responsibility”, touched several times upon the duties to “prevent or repress” and the issue of the failure to submit the matter to competent authority for investigation54.

52

References may be found in J.P. Pierini, Foreign Judicial Activity Under the Loupe in Criminal Proceedings: The Most Acute Manifestation of Conflicts of Jurisdiction between Legal Anomaly and Judicial Self-Restraint, European Rights, 25 November 2013, available at the following link: http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Commento_Pierini.pdf. 53 International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Case n. ICC-01/05-01/08-424, Pre-Trial Chamber II, Decision Pursuant to Article 61(7)(a) and (b) of the Rome Statute on the Charges of the Prosecutor Against Jean-Pierre Bemba Gombo, 15 June 2009, § 439. 54 Article 28(1)(c) establishes the Command responsibility of a military commander or person effectively acting as a military commander for crimes within the jurisdiction of the Court committed by forces under his or her effective command and control, or effective authority and control and that military commander or person either knew or, owing to the circumstances at the time, should have known that the forces were committing or about to commit such crimes and “that military commander or person failed to take all necessary and reasonable measures within his or her power to prevent or repress their commission or to submit the matter to the competent authorities for investigation and prosecution”.

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Focus

The Pre-Trial Chamber qualified the MLC (Mouvement de Libération du Congo), opposing the governments of the Laurent Kabila and then Joseph Kabila, as a “non-governmental force” and a hierarchically organized group and found that as its president Mr. Jean-Pierre Bemba Gombo had effective authority and control55. The Armée de Libération du Congo (ALC) was structured like a conventional army56. The Pre-Trial Chamber observed that Mr. Jean-Pierre Bemba Gombo “had the power to appoint, promote, demote and dismiss MLC commanders, but also the ability to unilaterally arrest as well as to detain and release those who were arrested” and referred to the existence, within the MLC structure, of a military judicial system to which the accused was able to submit matters for investigation and prosecution57. The “judicial bodies” referred to were not subject to a critical appraisal, but merely acknowledged to verify the availability of means for the accused to submit violations for investigation and the failure to act accordingly. In the subsequent judgment the Trial Chamber observed that “the purpose of the requirement that commanders repress crimes is to ensure that military commanders fulfil their obligation to search for the perpetrators and either bring them before the courts or hand them over to another state for trial”58. The Chamber further observed that the referral to a nonfunctioning authority or an authority likely to conduct an inadequate investigation or prosecution may not be sufficient to fulfil the commander’s obligations59. In its appeal Mr. Jean-Pierre Bemba Gombo maintained that its submissions on the “obstacles faced by investigations at the time, arising from territorial (i.e. state sovereignty) and jurisdictional limitations, and the difficulties in conducting investigations in a foreign warzone, [had been] unreasonably dismissed or ignored by the Trial Chamber” He further submitted that the Trial Chamber «relied on the fact that [he] could and did create commissions and missions in relation to allegations of crimes»60. In respect of the former circumstance, the Appeals Chamber held that the Trial Chamber “ought to have given weight in its assessment of the measures that Mr. Bemba took”61. The trial Chamber and the Appeals Chamber judgments seem to have followed a “factual” approach to assess the availability for a military commander of means to investigate and prosecute violations. As known, a Commander is to take those measures which are “within

55

International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Decision Pursuant to Article 61(7)(a) and (b) of the Rome Statute on the Charges of the Prosecutor Against Jean-Pierre Bemba Gombo, cit., § 448. 56 Ibid, § 456. 57 Ibid, §§ 460-61, 493, 501. 58 International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Case n. ICC-01/05-01/08-3343, Trial Chamber III, Judgment pursuant to Article 74 of the Statute, 21 March 2016. 59 Ibid, § 208, quoting from ICTY, Prosecutor v. Ljube Boskoski, Joran Tarculovski, Case n. IT-04-82-A, Appeals Chamber, Judgment, 19 May 2010, § 234. 60 International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Case n. ICC-01/05-01/08, Appeals Chamber, Public Redacted Version of Appellant’s document in support of the appeal, Defence for Mr. Jean-Pierre Bemba Gombo, 28 September 2016, § 345. In its “factual” challenge to the feasibility of the investigation the defendant added that “the idea that the MLC had an unlimited and unilateral ability to take preventative and punitive measures on Central African territory strains the boundaries of credulity for a Trial Chamber assessing the available evidence”. 61 International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Case n. ICC-01/05-01/08, Appeals Chamber, Judgment on the appeal of Mr. Jean-Pierre Bemba Gombo against Trial Chamber III’s “Judgment pursuant to Article 74 of the Statute”, 8 June 2018, § 173.

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his material possibility”, to prevent the commission of violations by its subordinates and to repress violations committed. In the negative, by not assessing the legitimacy of the use of available judicial structures, the said jurisprudence may be considered as supportive of a de facto approach to establishment of the relevant non-State jurisdiction. The Prosecutor in his response to the appeal brief maintains that Bemba Gombo had “concrete powers to discipline his forces” and the wording is also reminiscent of the de facto argumen62. Nevertheless, an express consideration would have been enviable. As observed in legal literature dealing with insurgent courts63, in two decisions, the Special Court for Sierra Leone (SCSL) found that accountability mechanisms established by non-state armed groups aimed primarily to maintain internal discipline, and had very little or nothing to do with a wish to sanction international criminal law or to act on the basis of moral, ethical or religious opposition to behavior that amounts to violations of the laws of war.

4. The ECtHRs incidental position on courts of non-State entities and residual obligations of the sovereign. The ECtHR has over the last decade dealt with the issue of court systems set up in territories which are outside the control of the State to which they belong either due to the occupation by a foreign State or because under the control of separatist movements64. The ECtHRs approach shows – according to a recent comment – that the unlawful character of a de facto regime that came into existence as a result of a breach of international law does not per se render the judicial system operating under the regime unlawful and that in order to avoid a legal vacuum in human rights protection the Court is willing to give effect to the legal and court systems of unrecognized de facto regimes where such systems are based on principles compatible with the Convention65. It has also been asserted that the ECtHR’s jurisprudence represents a departure from established principles about the non-recognition of de facto regimes established upon a breach of peremptory norms66. The said jurisprudence is mainly examined (perhaps with some excessive expectation about getting the Court involved in sovereignty issues and … confronting Russia) in respect of State’s

62

International Criminal Court, Prosecutor v. Jean Pierre Bemba Gombo, Case n. ICC-01/05-01/08, Appeals Chamber, Public Redacted Version of “Corrected Version of ‘Prosecution’s Response to Appellant’s Document in Support of Appeal’”, Office of the Prosecutor, 19 January 2017, § 204. 63 R. Provost, Accountability for International Crimes within Insurgent Groups, December 10, 2015, referring to Special Court for Sierra Leone, RUF Trial, Case No SCSL-04-51-T, Judgment, 2 March 2009, § 712, and to AFRC Trial, Case No SCSL-04-16-T, Judgment, 20 June 2007, § 1739 Available at SSRN: http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2701951. 64 At this purpose, See recently G. Nuridzhanian, (Non-)Recognition of De Facto Regimes in the Case Law of the European Court of Human Rights: Implications for Cases Involving Crimea and Eastern Ukraine, Ejil talk!, October 9, 2017, available at https://www.ejiltalk.org/non-recognition-of-de-facto-regimes-in-case-law-of-the-european-courtof-human-rights-implications-for-cases-involving-crimea-and-eastern-ukraine/. 65 G. Nuridzhanian, (Non-)Recognition of De Facto Regimes in the Case Law of the European Court of Human Rights: Implications for Cases Involving Crimea and Eastern Ukraine, cit. 66 G. Nuridzhanian, (Non-)Recognition of De Facto Regimes in the Case Law of the European Court of Human Rights: Implications for Cases Involving Crimea and Eastern Ukraine, cit.

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jurisdiction under art. 1 of the Convention and under the perspective of general principles of international law on the attribution of conduct to a State. The aim of this paper is, as anticipated, to investigate the power of non-State actors to set up jurisdictional bodies, the “source” of jurisdictional powers of non-State courts and tribunals and their legitimacy “of origin”. The jurisprudence of the ECtHR is therefore referred to with the purpose of highlighting the attitude of the Court when taking note of judicial bodies established in “contested territories”67 and without the necessity to address the issue of the relationship between IHL, touched upon in the previous paragraph, and human rights law as such. The relevant case law includes, involving to some extent acts of courts established in the said territories include, the Moldovan Republic of Transdniestria (MRT)68, the Turkish Republic of Northern Cyprus (TRNC)69 and to a lesser extent the Luhansk People’s Republic (LPR)70. In a chronological order, the ECtHR examined the situation in the TRNC in the Case of Cyprus v. Turkey, and found that “for the purposes of adjudicating on “civil rights and obligations” the local courts can be considered to be “established by law” with reference to the “constitutional and legal basis” on which they operate and that “any other conclusion would be to the detriment of the Greek-Cypriot community and would result in a denial of opportunity to individuals from that community to have an adjudication on a cause of action against a private or public body”71. In its decision the ECtHR quoted the International Court of Justice (ICJ) Advisory Opinion concerning the “Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (South West Africa), notwithstanding Security Council Resolution 276 (1970)” and the finding that, while official acts performed by the Government of South Africa on behalf of or concerning Namibia after the termination of the Mandate are illegal and invalid, this invalidity cannot be extended to those acts, such as, for instance, the registration of births, deaths and marriages, the effects of which can be ignored only to the detriment of the inhabitants of the Territory72. At the relevant time, when the decision was adopted, the ECtHR’s jurisprudence about jurisdiction had not yet evolved in the current ad hoc and fact depending modus and was still adherent to its binary approach based upon a rebuttable presumption of jurisdiction when a State was unable to exercise effective control over part of its territory73.

67

On the topic, recently, M. Milanović - T. Papić, The application of the ECHR in contested territories, International and Comparative Law Quarterly, 2018, ISSN 1471-6895, available at http://eprints.nottingham.ac.uk/52908/; M. Milanović, The Applicability of the ECHR in Contested Territories; Two Other ECHR Cases Against Russia, Ejil talk!, July 9, 2018, available at https://www.ejiltalk.org/the-applicability-of-the-echr-in-contested-territories-two-otherechr-cases-against-russia/. 68 ECtHR, Ilaşcu et al. v. Moldova and Russia (Application n. 4877/99), Grand Chamber, Judgment, 8 July 2004; ECtHR, Mozer v. Moldova and Russia (Application n. 11138/10), Grand Chamber, Judgment, 23 February 2016; ECtHR, Sandu and Others v. the Republic of Moldova and Russia (Application n. 21034/05), Judgment, 17 July 2018. 69 ECtHR, Case of Cyprus v. Turkey (application n. 25781/94), Grand Chamber, Judgment, 10 May 2001. 70 ECtHR, Case of Khlebik v. Ukraine, (application n. 2945/16), Fourth Section, Judgment, 25 July 2017. 71 ECtHR, Case of Cyprus v. Turkey, cit. § 237. 72 ICJ Advisory Opinion concerning the “Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (South West Africa), notwithstanding Security Council Resolution 276 (1970)”, International Court of Justice Reports 16, 56, § 125. 73 M. Milanović – T. Papić, The application of the ECHR in contested territories, 19.

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Starting from the Ilaşcu et al. v. Moldova and Russia the ECtHR derived from the sovereign title of a respondent State prevented in its exercise of effective control over a territory the concept of residual positive rights. The first of such obligations is … to reestablish control over the territory and the second is to secure the individual rights of those in the territory by taking diplomatic, economic, judicial or other measures that are in the State’s powers and in accordance with international law74. In the said case of Ilaşcu et al. v. Moldova and Russia case the ECtHR dealt with trials in front of the Moldavian Republic of Transdniestria (MRT) Supreme Court. The ECtHR observed – recalling the above wording of the that Case of Cyprus v. Turkey – that «in certain circumstances a court belonging to the judicial system of an entity not recognized under international law may be regarded as a tribunal “established by law” provided that it forms part of a judicial system operating on a “constitutional and legal basis” reflecting a judicial tradition compatible to the Convention, in order to enable individuals to enjoy the Convention guarantees». This was not the case of the MRT Supreme Court and the ECtHR held that Moldova had violated the applicant’s rights because it had not discussed their case in its negotiations with the MRT. The ECtHR further asserted the responsibility of Russia due to its “decisive influence” on the MRT while it remains still unclear if such responsibility was due to the imputation of the violations or as a matter of (non-residual) positive obligation. Based upon the factual description of the case, the judgment of the MRT Supreme Court was subsequently “quashed” by the Supreme Court of Moldova. The ECtHR had again the opportunity to deal with the issue of the MRT courts some years later in the case of Mozer v. Moldova and Russia in 2016. The ECtHR confirmed its previous jurisprudence about residual positive obligations based on the sovereign title and also its previous assessment about the MRT courts75. The decision of the said courts could according to the ECtHR not be “automatically regard as unlawful, for the limited purposes of the Convention, the decisions taken by the courts of an unrecognized entity purely because of the latter’s unlawful nature and the fact that it is not internationally recognized”76. In line with this rationale the Court found it “already established in its case-law that the decisions taken by the courts of unrecognized entities, including decisions taken by their criminal courts, may be considered “lawful” for the purposes of the Convention provided that they fulfil certain conditions”77. In the case the Moldovan Government submitted several examples in which the Supreme Court of Justice had quashed rulings handed down by the “MRT courts”78 and when the applicant asked the Moldovan Supreme Court of Justice to quash his conviction, he obtained such a decision and the prosecutor’s office did eventually take whatever steps it could to investigate the applicant’s allegations relating to his unlawful detention79. Consequently, the ECtHR held that Moldova fulfilled its positive obligations in respect of the applicant. The ECtHR jurisprudence dealing with jurisdiction over contested territories is, as observed in recent comments, not sufficiently precise in distinguishing point of jurisdiction and attri-

74 75 76 77 78 79

ECtHR, ECtHR, ECtHR, ECtHR, ECtHR, ECtHR,

Ilaşcu et al. v. Moldova and Russia, cit. § 333. Mozer v. Moldova and Russia, cit. §§ 109, 110. Mozer v. Moldova and Russia, cit. § 143. Mozer v. Moldova and Russia, cit. § 142. Mozer v. Moldova and Russia, cit. § 118. Mozer v. Moldova and Russia, cit. § 153.

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bution of conduct80 and perhaps also when describing the extent to which a court could be considered “established by law”. The above jurisprudence is in any case uneasy to fit in the context of the discussion about the legitimacy of non-State courts. On one side the ECtHR acknowledges that tribunals established by unrecognized entities may be regarded as “established by law” provided that they fulfill certain requirements. At the same time, flaws and structural deficiencies of the said tribunals trigger residual positive obligations of the State which is unable to exercise effective control over the territory. Further such obligations may be fulfilled by “quashing” decisions and investigating alleged arbitrary detentions due to orders of the tribunals. The term “quashing” seems to have been used generically (which is to say not as an “annulment” a judicial decision), although it identifies properly the result of an appellate proceeding and that appealing a decisions is evidence for the “incorporation” of the decision in a “one legal system” or in “interconnected legal systems”81; when dealing with nullities and illegal tribunals Courts, more properly adopt decisions denying any effect to such nullities. In order to appreciate the relevance of the ECtHRs jurisprudence in respect of the issue of the original legitimacy of courts set up by non-State entities, it is necessary to observe that the Court considered the issue of legal systems in areas beyond the control of a State member to the Convention “in the context of its general approach to the exercise of extraterritorial jurisdiction in unrecognized entities”82 and the respondent State’s residual obligations to ensure the rights under the Convention “extraterritorially”. Were the MRT courts a judicial system operating on a “constitutional and legal basis” reflecting a judicial tradition compatible to the Convention, then there would have been less room (and need) for Moldova to take steps fulfilling its extraterritorial positive obligations. The interim conclusion is that the ECtHRs notations in Ilaşcu and in Mozer add to the already noted conflation between “jurisdiction” and “attribution of a conduct to a State”, also elements properly pertaining to the “merits” of the case. The ECtHRs jurisprudence is nonetheless relevant in that it acknowledges the need to avoid legal vacuums following a State’s loss of effective control over a part of its territory, although the so called “vacuum argument”, outlined in the case of Cyprus v. Turkey, is narrowly referred to the application of the Convention.

a)

Codified rules of attribution when official State authorities are defaulting or absent.

The ECtHRs above jurisprudence has addressed, within its jurisdictional analysis, issues of attribution of conduct to the State. At this purpose it is worth to briefly consider a specific aspect of the principles applicable to attribution as codified in the Draft articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts83. The reference is to the attribution to a State of the conduct of a person or – more probably – a group of persons in fact (de facto) exercising, in

80

M. Milanović – T. Papić, The application of the ECHR in contested territories, cit., 13. At this purpose, See ECtHR, Assanidze v. Georgia (Application n. 71503/01), Grand Chamber, Judgment, 8 April 2004, §§ 21, 26 and 47, where the Court dealt with a case of non-execution of decisions of the Supreme Court of Georgia by the authorities of the Ajarian Autonomous Republic (AAR). 82 ECtHR, Mozer v. Moldova and Russia, cit., § 136. 83 Draft articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, with commentaries 2001. Text adopted by the International Law Commission at its fifty-third session, in 2001, and submitted to the General Assembly as a part of the Commission’s report covering the work of that session (A/56/10). 81

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circumstances calling for the exercise, elements of the governmental authority “in the absence or default of the official authorities” (art. 9 of the Draft articles)84. The applicability of the provision to armed opposition groups is questioned as a derogation to the non-attribution to States of the conduct of armed opposition groups recognized in the Draft articles (art. 8)85. Further, according to a recent research on the organization of armed groups, situations in which their conduct can be attributed to a State led to the exclusion of the group from definition of non-State86. As questions of attribution of conduct of non-State groups to a State often arise ex post, once non-State actors have ceased to exist, the said distinctions doesn’t seem to be agreeable. The ECtHR followed, once abandoned its prior binary approach, an own and different path based upon resilient positive obligations in case of contested territories. The question of the applicability to insurrectional movements of a rule substantially developed for those situations in which individuals or groups take over governmental duties or elements thereof due to the absence or default of official authorities, involved the drafting history of the rules and distinctions in respect of insurgent movement which are dealt in the next paragraph in its aspects more directly relevant for judicial activity. The specific aspect of the attribution of the exercise of elements of governmental authority by persons or groups “filling the gap” left by official authorities is relevant in this context because, although expressed in respect of wrongful acts entailing State responsibility, the mechanism seems expression of a wider acceptance of the need to avoid vacuums and the taking over of de facto authorities or social compacts. The attribution because of its ratio reflects the principles of necessity or implied mandate examined in the next paragraph or, in the words of the commentaries a principle of “agency of necessity”87. According to the commentaries to the Draft articles, situations calling for the exercise of elements of governmental function include: “cases … such as during revolution, armed conflict or foreign occupation, where the regular authorities dissolve, are disintegrating, have been suppressed or are for the time being inoperative … they may also cover cases where lawful authority is being gradually restored, e.g. after foreign occupation”88. Furter, the phrase “in the absence or default of ” is intended to cover both the situation of a total collapse of the State apparatus as well as cases where the official authorities are not exercising their functions in some specific respect, for instance, in the case of a partial collapse of the State or its loss of control over a certain locality”89.

84

On the topic, See T. Eatwell, State responsibility for the Conduct of Armed Group Governors, in A. Magen (edited by), Rule of Law and Areas of Limited Statehood, forthcoming. 85 Article 8, reads as follows: “The conduct of a person or group of persons shall be considered an act of a State under international law if the person or group of persons is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct”. On the different topic of the application of article 10 of the Draft articles on successful revolution, in the context of investor-State arbitration, See K. Greenman, The Secret History of Successful Rebellions in the Law of State Responsibility, ESIL Reflections, 25 September 2017 Volume 6, Issue 9, 1. 86 R. Rodenhäuser, Organizing Rebellion, cit., 9, fn. 33. 87 Draft articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts, cit., 49. 88 Ibidem. 89 Ibidem.

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5. Different shades of sovereignty and non-State jurisdictions. The recent interesting IHL debate about insurgent and rebel courts raises more questions than it resolves and leaves the issue of the legitimacy of origin of judicial bodies established by non-State entities unsettled as a consequence of the fact that IHL doesn’t address sovereignty. In this paragraph and its sub-paragraphs, the various declinations of sovereignty – either in the process of being consolidated, divided or kept artificially in life or becoming immanent – will be considered in respect of different forms of jurisdiction emerged in the respective context. According to a modern distinctions sovereignty may be de distinguished in different elements consisting of: a so called “international legal sovereignty”, which refers to the mutual recognition of independent statehood by other states in the international system and is eminently formal, a “domestic sovereignty”, which refers to the structure and effectiveness of state institutions and a “Westphalian sovereignty”, which refers to the absence of external influence and penetration in domestic affairs90. The frequent lack of one or another elements or their violation have determined the idea of “unpacking” sovereignty, highlighting how different levels of sovereignty can lead to different types of political authority, and ultimately to acknowledge the existence of many types of political arrangements that do not conform to conventional ideas of sovereign statehood91. Similarly, the three Montevideo criteria for statehood, territory, population, government, are often questioned when it comes to ascertaining in practice the requirements92. Possible scenarios in respect of “contested territories” mentioned in the previous paragraph in respect of the ECtHR’s jurisprudence, include State’s loss of control over a part of its territory due to its inability to suppress the activities of a non-state actor in the area, provide basic public functions and the territory becoming “not-governed” or governed by highly organized non-state actor exhibiting quasi- or parastatal qualities and being openly separatist or even formally claiming independence from the parent State93. A further variation, eventually overlapping, with the foregoing include a third State intervening in the territorial State by way of a proxy non-state actor94. In the vanishing of the distinction between the “political” and “legal” domain, opposition groups have been recognized (or rather “acknowledged” or “considered”) alternatively as the “legitimate representative of the aspirations of a people”, of the people itself or as the “sole” legitimate representative of the said people95. The said levels of recognitions – currently applied

90

O. Tansey, Does democracy need sovereignty? Review of International Studies, Vol. 37, Issue 4, October 2011, 1519, referring to S. Krasner, Sovereignty: Organised Hypocrisy, Princeton University Press, 1999, 44, also listing a so called “interdependence sovereignty”. 91 O. Tansey, Does democracy need sovereignty, 1521. 92 Montevideo Convention on Rights and Duties of States, 26 December 1933. 93 M. Milanović - T. Papić, The application of the ECHR in contested territories, cit., 6. 94 M. Milanović - T. Papić, The application of the ECHR in contested territories, cit., 7. 95 On the distinction, See S. Talmon, Recognition of Opposition Groups as the Legitimate Representative of a People, Chinese Journal of International Law, Vol. 12 (2013), 219.

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to various groups in Syria and Libya96 represent the major steps of what may be called the “career ladder of international recognition” of representatives of a people during a civil war97. “Legitimate” governments in exile may be recognized as “representative organs” of the international legal person “State” and, as such, the depositories of its sovereignty, though not a subject of international law98. It is accordingly no wonder that the emerging literature about de facto State has contributed significantly to the growing recognition that the international system is far more variegated than is commonly perceived99 and to the questioning the “binary conceptualization of geopolitical entities as either nation-states or anomalies deviating from this model”100. On the other side, legal singularities have always existed: the International Permanent Court of Justice (IPCJ) in 1928 addressed the issue of the jurisdiction of the courts of the Free City of Danzig101 and two years later the admission of the Free City to the International Labor Organization (ILO)102 and in 1937 the status of the “autonomous territories” of the Islands of Crete and Samos103. The judicial process in the Principality of Andorra and its (indirect) consequences in terms of claimed arbitrary character of the detention due to the enforcement of sentences in France, was noted by the ECtHR. The Court defined the status of the Principality under public international law of the Principality, at the relevant time, as “striking by its originality and ambiguity, so much so that it is often regarded as an entity sui generis”104. The Court didn’t – despite a quote of the French co-Price about the need to introduce the “rule of law” in the Principality – question the jurisdiction of Andorran Courts and the source upon they were established and the applicable law as such.

96

In respect of the Libyan contexts, See S. Foster Halabi, Traditions of Belligerent Recognition: The Libyan Intervention in Historical and Theoretical Context, American University International Law Review, Vol. 27, n. 2 (2012), 321ff. 97 S. Talmon, Recognition of Opposition Groups as the Legitimate Representative of a People, cit., 228. 98 At this purpose, See S.Talmon, Who is a legitimate government in exile? Towards normative criteria for governmental legitimacy in international law, in G. Goodwin-Gill - S. Talmon (edited by), The Reality of International Law. Essays in Honour of Ian Brownlie, Oxford University Press, 1999, 499ff. On the effects of acts of goverbments in exile, See S. Anatole Lourie - M. Meyer Governments in Exile and the Effects of their Expropriatory Decrees, The University of Chicago Law Review, 1943, 2. 99 S. Pegg, Twenty Years of de facto State Studies: Progress, Problems, and Prospects, cit. The Author discusses the shifts in the focus of literature since his International Society and the De Facto State, Ashgate Publishers, 1988. 100 F. McConnell, De facto, displaced, tacit: The sovereign articulations of the Tibetan government-in-exile, Political Geography, Vol. 28, n. 6 (2009), 344, quoted by S. Pegg, Twenty Years of de facto State Studies: Progress, Problems, and Prospects, cit. 101 IPCJ, Jurisdiction of the Courts of Danzig, Advisory Opinion, 1928, P.C.I.J. (ser. B), n. 15 102 IPCJ, Free City of Danzig and International Labour Organization, Advisory Opinion, 1930, P.C.I.J. (ser. B), n. 18. 103 IPCJ, Lighthouses in Crete and Samos (Fr. v. Greece), 1937, P.C.I.J. (ser. A/B), n. 62. 104 Reference is to the case of Drozd and Janousek v. France and Spain, Application no. 12747/87, Judgment of 26 June 1992, § 67. Subsequent developments are considered in the case of Iribarne Pérez v. France, Application n. 16462/90, Judgment of 24 October 1995, § 22, where it is stated that “although Andorra retains some special features – in particular the institution of the Co-Princes – there is no doubt that, whatever the position may have been hitherto, it is now a ‘State’ for the purposes of public international law”.

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In the Pellegrini v. Italy case105, the ECtHR examined the alleged violations of the fair trial guarantees established under the “civil hut” or article 6 § 1 of the Convention occurred during the marriage annulment proceeding by the ecclesiastical courts operating under the “Concordat” between Italy and the Holy See and sitting in first instance in the Italian territory. The ECtHR established a breach of the said provisions because “the Italian courts breached their duty of satisfying themselves, before authorizing enforcement of the Roman Rota’s judgment, that the applicant had had a fair trial in the proceedings under canon law”. In its decision the ECtHR conflated (Sic!) the signatories of the “Concordat”, mentioning Italy and the Vatican State rather than the Holy See as a sui generis non-State actor)106. The ECtHR further neglected the fact that the ecclesiastical courts sitting on Italian soil, as well as the Roman Rota, are not organs of the Vatican State and both may be attributed to the Holy See as a non-State entity. The legitimacy of origin and the exercise of jurisdiction by the (non-State) ecclesiastical courts wasn’t questioned in the case, but the flawed legal qualification of the facts prevents the conclusion that the ECtHR had implicitly recognized the legitimacy of the said non-State jurisdictions.

a)

Fragile and failed States and the return to pre-Statehood

The Westphalian idea of State and the “fiction of ungoverned space” as a consequence of States failing has been recently challenged arguing that “alternatively governed” spaces may be rather the rule than the exception107. At this purpose, it has been observed that the so called “state centric tendency”, especially visible within political science studies, implies a “basic Hobbesian Conjecture that is, if a State is not capable of exerting control, then chaos must ensue”108. The vacuum created by the process in which a State becomes weak and ineffective isn’t different from the one which existed before the State in its modern meaning consolidated its control over the territory. The history of the United States offers interesting examples not solely in respect of the assessment of secessionist authorities, but also in respect of the making of a State. In the socalled Pre-statehood109 phase – when the State in its modern sense is in the process of making – the expression “multiple overlapping layers of jurisdiction”110 has been used in order to describe a situation in which, despite the myth of lawlessness of the “wild west”, several jurisdictions were in operation in one territory. The strongest of such layer was sovereignty, but nonetheless there were still in operations other jurisdictions as those of natives, Mexican alcaldes surviving their term of office111, religious confraternities and penitentes, courts rival-

105

ECtHR, Pellegrini v. Italy (Application n. 30882/96), Second Section, Judgment, 20 July 2001. On the question, See C. Ryngaert, The Legal Status of the Holy See, Goettingen Journal of International Law, Vol. 3 (2011), n. 3, 829ff. 107 F. Ledwidge, Rebel Law – Insurgents, Courts and Justice in Modern Conflict, Hurst, 2017, 107ff. 108 Z. Cherian Mampilly, Rebel Rulers, Cornell University Press, 2015, 4. 109 M. Chiorazzi, Prestatehood Legal Materials: A Fifty-State Research Guide, including New-York City and the District of Columbia, Routledge, 2013, 748. 110 D.A. Cypser, Myth of the Wild West: Law and Justice prior to the Organization of the Territory of Colorado, cit., 10. 111 Under the Kearny Code of 1846, which is still in effect as the basis of the New Mexico Bill of Rights, Mexican Mayors o Alcaldes exercised, upon swearing allegiance to the United States, exercising the jurisdiction of peace. 106

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ing territorial district jurisdiction, miners’ courts112, vigilante committees. Some of the above jurisdiction were an expression of a “social compact” as a basis of local government, whereas social groups finding themselves beyond the long arm of the law, found it necessary to lay off mining districts, to organize governments, and enact laws113. Private legal systems as those of cattlers or mining districts – as opposed to State legal systems – flourish spontaneously when they were given space to grow, making the ability to opt out of any State system crucial to their development and the ability to maintain territoriality is a means of enhancing the success of customary legal institutions114. Although the above mentioned spontaneous legal systems which had developed their “judicial dimension” were abandoned in favor of formal public laws, they nonetheless continue to witness the capability of social compacts to develop regulatory systems. Such systems are not too much different from those witnessed currently when the authority of a State retracts and loses control over areas of its territory. Upon the failure of a State and the disappearance of its apparatus or even when States are “becoming fragile” or undergoing severe governability crisis, the vacuum left by the proper State structure may be filled by social structures as a matter of necessity through its own social organization and without aspiring or being capable of aspiring to exercise a proper State responsibility. Failing or fictitious States keep their entitlement to the legal right to noninterference or “negative sovereignty”, though their domestic sovereignty may experience challenges to their territorial dominium and/or losses of imperium replaced by other authorities. Forms of governance which may emerge spontaneously seems to reflect a concept of law viewed as a “direction of purposive human effort” rather than a concept of law as the “command of the sovereign”115. On the other side, legal pluralism and the existence of normative legal systems operating independently or semi-independently from the State are an empirical reality116 and the weakening of the State provide an opportunity for such systems to grow.

112

On the origins of Mining Laws, See Wm. E. Colby, Mining Law in Recent Years, 33 California Law Review 368 (1945), 370. According to the A., starting from the discovery of gold in California, gold was found with few exceptions on public domain owned by the United States, the Congress had not legislated, so that it was impossible to legally acquire title to these lands. The miners were technically trespassers, and the gold they mined belonged to the United States and to avoid bloodshed and unseemly contests over possession and working the gold-bearing lands, the miners took matters into their own hands, formed mining districts, held district meetings and adopted their own rules and regulations. 113 T. Maitland Marshall, The Miners’ Laws of Colorado, The American Historical Review, Vol. 25, n. 3 (April 1920), 426-439; L.I. Perrigo, Law and Order in Early Colorado Mining Camps, The Mississippi Valley Historical Review, Vol. 28, n. 1 ( June 1941), 41-62. 114 A.P. Morriss, Miners, Vigilantes & Cattlemen: Overcoming Free Rider Problems in the Private Provision of Law, 33 Land & Water L. Rev., 581 (1998), 582 and 588. 115 On the different understanding of law, See, Andrew P. Morriss, Miners, Vigilantes & Cattlemen: Overcoming Free Rider Problems in the Private Provision of Law, cit. 583, Fn. 4, quoting respectively L.L. Fuller, The Morality of Law, 30 (1964) and J. Austin, The Province of Jurisprudence Determined, Wilfred E. Rumble, ed. 1995. 116 The partial phrase is borrowed from the interesting essay of M. Forsyth, A Typology of Relationships between State and non-State justice systems, Journal of Legal Pluralism, 2007, n. 56, 67, dealing with the different topic of the models of coexistence, from a domestic viewpoint of adjudicative power by the non-state justice system with a State’s legal system ranging from the repression of the former to its through incorporation, through the its “non-recognition” or “recognition” (either informal or formal). In similar terms, E. Wojkowska, Doing Justice: How informal justice systems can contribute, United Nations Development Programme, Oslo Governance Centre, The Democratic

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In such a situation, the involved “social capital” in the sense of the mutual reliance, regulations and networks, may operate for social efficiency and in the field of security and justice remediating insulation and unavailability of formal structures, but may also express itself through crime117. The difference between irresponsible vigilante style and open brutality on one side and responsible self-regulation on the other may be very subtle118. It is also an empirical reality that Armed groups have shown to be able to set up systems of governance that are not entirely dissimilar from those established by States to govern their territories. In some situations of NIAC, but not in all, the rebels become, as a matter of choice or strategy119, providers of public goods and services. Such services may include dispute settlement and “justice” in its wider meaning120. The so called “rebel governance” may represent a strategic choice by rebel groups choosing to set up an administration and eventually courts within territories under their control challenging the sovereignty of a State. The development of such structures may represent a choice of the rebel leadership but may also combined with or exploit the spontaneous efforts of existing social capital121. In the subsequent paragraph the jurisprudence of the United States Supreme Court in respect of the validity – in the absence of the recognition of the authority of the Confederate States – of the legislations and the acts, including judicial ones necessary for the preservation of the bound of society will be examined. The said jurisprudence stands for the recognition of the “principle of necessity” and its limits more persuasively than the jurisprudence referred to in paragraph three. Perhaps a singularity of spontaneous governance and its judicial dimension in the absence of an effective State exercising its dominium and imperium is represented by the fact that control over a territory as a matter of de facto exercise of power may be geographically limited – to communities or social compact – as witnessed in pre-Statehood phases. In such situations

Governance Fellowship Programme, 2006, 25. 117 J. Alberdi Bidaguren - D.N. Estrella, Governability and Forms of Popular Justice in the New South Africa and Mozambique. Community Courts and Vigilantism, Journal of Legal Pluralism, 2002, n. 47, 118. 118 J. Alberdi Bidaguren - D.N. Estrella, Governability and Forms of Popular Justice in the New South Africa and Mozambique. Community Courts and Vigilantism, cit., 124-125. At this purpose, See also C. Knox - R. Maugham, Informal Justice in Divided Societies: Ireland and South Africa, Palgrave Macmillan, 2002, 11. With reference to the same context, M.P. Swanepoel - A. Duvenhage - T. Coetzee, Vigilantism: A Theoretical Perspective as Applied to People’s Courts in Post-1994 South Africa, Joernaal/Journal 36(1) June 2011, 117 provide a definition of “People’s Courts” as «a community-based informal structure that takes over the judicial function of the state within that community by acting outside the law as judge, jury and executioner with the aim of providing order in the community through meeting out violent punishment to alleged wrongdoers». 119 Z. Cherian Mampilly, Rebel Rulers, cit., 12. 120 R. Provost, FARC Justice: Rebel Rule of Law, 24 February 2017, Electronic copy available at: https://ssrn.com/ abstract=2925278. 121 At this purpose we would like to refer to the essay by A.M. Baylouny, Born violent: Armed political parties and non-state governance in Lebanon’s civil war, Small Wars & Insurgencies, 2014, Vol. 25, n. 2, 329-353, mentioning inter alia revolutionary courts set up by the Palestinian Liberation Organization (PLO) in 1972, running a prison facility in Syria. On the African National Conference governance in the post-liberation stage, See L.S. October, Liberation Movements as Governments: Understanding the ANC’s quality of government, Stellenbosch University, thesis, February 11, 2015, available at: http://scholar.sun.ac.za/bitstream/handle/10019.1/96657/october_liberation_2015. pdf?sequence=3.

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the exercise of de facto governmental powers mostly isn’t reflected in constitutional provisions about emergency situations and its justification rests on the loss or suspension of the effectiveness of the constitutional framework at least in a certain territorial ambit. The “default” of State authorities doesn’t obviously mean that the State is stripped of his external sovereignty. The recognizion of “agency of necessity” under the principles of attribution of conduct to States has been addressed previously [§ IV a)].

b)

De facto governments, their denial and the validity of acts and legislation preserving society

Of all wars in recorded history none equals – or even comes close to equaling – the American Civil war (1861-1865) in the role played by law and the remarkably large proportion of legal issues and disputes that arose and were litigated and decided in the courts122, starting from the well-known Prize cases decided in 1862123. The Prize cases decision has been recently quoted in respect of NIACs and naval blockades124. The Supreme Court quoted Emmerich von Vattel’s definition of “civil war” as “break[ing] the bands of society and government, or at least suspends their force and effect .. produc[ing] in the nation two independent parties, who consider each other as enemies and acknowledge no common judge”125. On the quote the “true test for the existence of a civil war” was developed, based on the sages common law in the following terms: “When the regular course of justice is interrupted by revolt, rebellion, or insurrection, so that the Courts of Justice cannot be kept open, civil war exists, and hostilities may be prosecuted”. The post-civil war jurisprudence of the Supreme Court is perhaps the most relevant body of decisions about legal consequences of acts of secessionist entities. Nevertheless the same body of decisions is also intrinsically complex to assess due to slight shifts in perspective from the Prize case and because behind the assertions of the same principles, the Court toke a different stand taken in respect of the Confederate government and the Southern States. The former was considered not to be even a de facto government, whilst the latter, pre-existing the Union, were held to be de facto governments, whose rights were suspended during the rebellion but whose laws were generally considered valid126; though assessments about the Confederacy and Confederate States are sometimes inextricably joined. In 1868 the Supreme Court, in Texas v. White – a case about the payment of the so called “Texan indemnity bonds” sold during the “rebellion” – asserted the general validity of acts of a “State government”, organized in hostility to the Constitution and government of the United States … “protecting marriage and the domestic relations, governing the course of descents, regulating the conveyance and transfer of property”127 as necessary for the good order among

122 123 124

S.C. Neff, Justice in Blue and Gray. A Legal History of the Civil War, Harvard University Press, 2010, 2 Prize Cases, 67 U.S. 2 Black 635 (1862). Most recently, K. Macak, Internationalized Armed Conflicts in International Law, Oxford University Press, 2018,

81. 125

The quote was taken from E. von Vattel, The Law of Nations, translated by J. Chitty, T&JW Jpohnson & Company, London, 1758, 291. 126 S.C. Neff, Justice in Blue and Gray. A Legal History of the Civil War, cit., 208, 212, 214. 127 Texas v.White, 74 US 700, at 733 (1868). The controversy underlying the case was about bonds alienated during rebellion by the insurgent government. In similar terms, Thomas v. City of Richmond, 79 U.S. 349 (1870) and Hanauer v. Woodruff, 82 U. S. 439 (1872).

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citizens. The decision has been quoted recently in respect of “insurgent courts”. Sivakumaran attributes the above wording to “Confederate legislation” and suggests “that decisions of rebel courts are neither universally invalid nor categorically legitimate” and that the question “should not be whether decisions may be recognized as law but which decisions have legal effect”128. The Court defined the position of Texas stating that “during the condition of civil war, the rights of the State as a member, and of her people as citizens of the Union, were suspended” and that the government and the citizens of the State, refusing to recognize their constitutional obligations, assumed the character of enemies, and incurred the consequences of rebellion”. Nevertheless, the above acts “which would be valid if emanating from a lawful government must be regarded in general asvalid when proceeding from an actual, though unlawful, government”. The Court drove the line between valid and void acts, asserting that “acts in furtherance or support of rebellion against the United States, or intended to defeat the just rights of citizens, and other acts of like nature, must, in general, be regarded as invalid and void”. The express limits to the recognition of validity were represented by the hostility of acts and their impairing on the rights of the citizens under the Constitution which was held to be still applicable to them. Upholding marriage and domestic relations, course of descents and – with some exceptions – the conveyance and transfer of property reflect a still valid approach under international private law (IPL) whereas the non-recognition of a government (either de facto or de jure) as a matter of policy shall not affect the individual and its rights129. As observed previously (supra § IV) in 1971 the ICJ adopted the same rationale in its Advisory Opinion concerning the “Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (South West Africa), confirming of the line of reasoning emerging from the jurisprudence by the United States Supreme Court since 1868, though the Supreme Court denied the de facto character of the Confederate government. The later jurisprudence of the United States Supreme Courts expanded the ambit of validity of confederate legislation recalling also acts of the judiciary. In Horn v. Lockhart130 decided in 1873 the Supreme Courts asserted that “acts of the several states in their individual capacities, and of their different departments of government, executive, judicial, and legislative, during the war, so far as they did not impair or tend to impair the supremacy of the national authority or the just rights of citizens under the Constitution are in general to be treated as valid and binding”. The Court further classified that “the existence of a state of insurrection and war did not loosen the bonds of society, or do away with civil government or the regular administration of the laws ... Order was to be preserved, police regulations maintained, crime prosecuted, property protected, contracts enforced, marriages celebrated, estates settled, and the

128

S. Sivakumaran, Courts of Armed Opposition Groups. Fair Trials or Summary Justice? Journal of International Criminal Justice, Vol. n. 7 (2009), 511. 129 The principle was nevertheless questioned in a line of decisions following the Privy Council decision in Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645 (dealt in the next paragraph) by South African Courts, Adams v. Adams [1970] 3 All E.R. 572, denying recognition to a divorce decree pronounced by a Rhodesian Judge appointed after the Unilateral Declaration of Independence. At this purpose, See F. M. Auburn, De Facto Officials and “Usurpers”, McGill Law Journal, vol. 18 (1971), n. 132. On the topic recently Ioan-Luca Vlad, Private Law Effects of the nonRecognition of States’ Existence and Territorial Changes, Challenges of the Knowledge Society, CKS Journal, 2017, 341. 130 Horn v. Lockhart, 84 U.S. 570 (1873).

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transfer and descent of property regulated, precisely as in time of peace”. The Supreme Court went on asserting that “no one, that we are aware of, seriously questions the validity of judicial or legislative acts in the insurrectionary States touching these and kindred subjects, where they were not hostile in their purpose or mode of enforcement to the authority of the national government and did not impair the rights of citizens under the Constitution”. The background of the case is relevant, and the plaintiffs were legatees in a will to compel an executor to account for moneys received by him from sales of property belonging to the estate of his testator and to pay to them their distributive shares. The executor had invested such funds in bonds of the Confederate government by authority of a law of the state in which he was executor and that such investment was approved by the decree of the probate court having settlement of the estate. The Court in the end found that the investment was a “direct contribution to the resources of the Confederate government” and was an illegal transaction and that both the laws and the decree of the probate court were “an absolute nullity and affords no protection to the executor in the courts of the United States”. The decision was subsequently quoted in Williams v. Bruffy in 1877131 in a case about a sale of goods. The distinction between the position of the Confederacy and that of single Confederate States is marked in the subsequent decision in the case of Sprott v. U.S.132. In its reasoning the Court asserted that “the recognition of the existence and the validity of the acts of the so called Confederate government, and that of the states which yielded a temporary support to that government, stand on very different grounds, and are governed by very different considerations”. According to the Court, States “in most if not in all instances, merely transferred the existing state organizations to the support of a new and different national head … the same constitutions, the same laws for the protection of property and personal rights remained and were administered by the same officers”. And further that “these laws, necessary in their recognition and administration to the existence of organized society, were the same, with slight exceptions, whether the authorities of the state acknowledged allegiance to the true or the false federal power” … “they were the fundamental principles for which civil society is organized into government in all countries, and must be respected in their administration under whatever temporary dominant authority they may be exercised”. Only when in the use of these powers “substantial aid and comfort was given or intended to be given to the rebellion, when the functions necessarily reposed in the state for the maintenance of civil society were perverted to the manifest and intentional aid of treason against the government of the Union, that their acts are void”. At the opposite “the government of the Confederate states can receive no aid from this course of reasoning. It had no existence except as a conspiracy to overthrow lawful authority”. In Baldy v. Hunter (1898)133 the Supreme Court confirmed its position stressing that within the same limits and constraints «judicial and legislative acts in the respective States composing the so-called Confederate states should be respected by the courts». In its decision the Court held that the mere investment by Mr. Hunter, as guardian of Ms. Baldy, of the Confederate funds or currency of his ward in bonds of the Confederate states should be deemed a transac-

131

Williams v. Bruffy 96 U.S. 176 (1877). The decision is quoted in T. Rodenhäuser, Organizing Rebellion, cit., 25, fn. 51, in respect of a different phrasing about rebellion of such a proportion to be able to put together a formidable military force in the field and thus imposing the recognition of some belligerent rights. 132 Sprott v. United States, 87 U.S. 20 Wall. 459 (1874). 133 Baldy v. Hunter, 171 U.S. 388 (1898).

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tion in the ordinary course of civil society, and not necessarily one conceived and completed with an actual intent thereby to aid in the destruction of the government of the Union. The investment was made upon an order by the Superior Court of Jefferson County, Georgia granting leave to the guardian. In a decision adopted fifty years later by the Court of Appeals of the State of New York in the Sokoloff v. National City Bank case134 observed that “acts or decrees that were just in operation and consistent with public policy, were sustained not infrequently to the same extent as if the governments were lawful”. In the Hickman v. Jones135 case, decided by the Supreme Court in 1869, the question of the (lack of) legitimacy of the “district court of the Confederate States of America for the Northern district of Alabama” was addressed. Confederate district courts were apparently established because of the discontinuation of the activity of the prior district courts after the resignation of almost all federal judges and after a prior transfer of cases to State courts136. The decision is evidence for the tendency of the Supreme Court to confine the activity of the Confederacy within a merely military dimension137. Among the civil war cases addressed by the Supreme Court, the Hickman v. Jones is the most relevant for the investigation of the legitimacy of origin of insurgent courts dealing with criminal matters and the purpose of the fresh established Confederate district court and the role of its officials was scrutinized closer than the loose court involvement in the Horn v. Lockhart and in the Baldy v. Hunter cases. The background of the case is worth being briefly mentioned. The plaintiff in error had been previously indicted for “treason against the Confederate States”. The indictment alleged that troops of the United States were in the Northern district of Alabama engaged in a hostile enterprise against the Confederate States, and that Hickman “did traitorously then and there assemble and continue with the said troops of the said United States in the prosecution of their said expedition against the Confederate States”. Upon the indictment a warrant was issued for the arrest of Hickman. He was arrested and imprisoned accordingly. He applied to the defendant Jones, “who assumed to act as judge of the court, to be allowed to give bail”. Jones rejected the application and remanded him to prison. Hickman was subsequently tried, acquitted, and discharged. Once the war was over, Hickman sued Jones (the judge), the court clerk, the prosecutor in his case, the deputy marshal, the members of the grand jury who indicted him, and a journalist. He alleged that the proceeding was without probable cause and malicious. As in the subsequent trial the issue of the Plaintiffs complicity with the rebellion surfaced, the court

134

Sokoloff v. National City Bank, Court of Appeals of the State of New York Nov. 25, 1924, 239 N.Y. 158 (N.Y. 1924). 135 Hickman v. Jones, 76 U.S. 197 (1869). 136 Alabama was included before the secession in the Fifth Circuit. Between November 7, 1860, and January 26, 1861, eight of the eleven U.S. district judges in the original secessionist states resigned their positions. See G. Edward White, Recovering the Legal History of the Confederacy, Washington & Lee Law Review, 68 (2011), 467, at. 511. Among the eight judges there was the federal judge appointed in Alabama. To fill the gaps created by resignation of judges, secessionist States transferred pending cases to State courts. After February 1861 the process of setting up Confederate district courts started. 137 At this purpose, See William M. Robinson, Jr., Legal System of the Confederate States, in The Journal of Southern History, Vol. 2, n. 4 (November 1936), 453-467.

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instructed the jury in the following terms: “[omissis] If, in the case at the bar, you believe that the acts and speeches of the plaintiff, upon which the defendants rely to prove his complicity with the rebellion, were the result of anything less than a fear that if he did not so speak and act, his life or his liberty or his property would be sacrificed to his silence or his omission, you will find a verdict for the defendants”. The Supreme Court in the end reversed the judgment and remanded the cause to the court, but its reasoning went further holding that “the act of the Confederate Congress creating the tribunal in question was void … it was as if it were not [and that] the court was a nullity and could exercise no rightful jurisdiction”. Consequently “the forms of law with which it clothed its proceedings gave no protection to those who, assuming to be its officers, were the instruments by which it acted” and “trespass would have been the appropriate remedy”. The decision in Hickman v. Jones was not distinguished nor overruled by the latter case of law of the Supreme Court. Recent references to the Hickman v. Jones decision are essentially related with the different issue of “jury instruction” and factual findings and are unrelated with recession and validity of acts by the Confederation. According to a subsequent interpretation of the decision by the Privy Council, in Madzimbamuto v. Lardner-Burke138, “the object of the Supreme Court was simply to avoid injustice” and that “treason against the Confederacy was held not to be action against law and order”. Perhaps also the apparently absurd jury instructions issued after the civil war furthered, to some extent, a view supporting de facto the rebellion. Since Thorington v. Smith (1868)139, about a contract for the payment of Confederate States Treasury notes, the Supreme Court while analyzing de facto authority of revolutionary governments – developing a line of reasoning heavily relied upon in the following century – carefully avoided to recognize the “Confederate government” as de facto governments or as a “fully scaled” de fact government. In the said decision the Court observed that “for the overthrow of the national Union, and for the establishment within its boundaries of a separate and independent confederation … governmental organization representing these states was established at Montgomery in Alabama, first under a provisional constitution and afterwards under a constitution intended to be permanent”. The Confederate government was later transferred to Richmond (Virginia) and “its power was recognized as supreme in nearly the whole of the territory of the states confederated in insurrection”. Nevertheless, according to the Supreme Court “there are several degrees of what is called de facto government” which “in its highest degree, assumes a character very closely resembling that of a lawful government” when “the usurping government expels the regular authorities from their customary seats and functions and establishes itself in their place, and so becomes the actual government of a country”. Examples were found in “the government of England under the Commonwealth, first by Parliament and afterwards by Cromwell as Protector”. An earlier reference to Cromwell getting possession of the government and expressed a willingness “to rule according to the laws of the land” … and this … “justified him in acting as a judge” can be found in an 1849 case dealing with the 1842 dismissal of the “Charter government” in Rhode Island140.

138

Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645, respectively at 707 and 709. Thorington v. Smith, 75 U.S. 1 (1868). 140 Luther v. Borden, 48 U.S. 7 How. 1 1 (1849). Upon the election of a “Convention” to form a new constitution to be submitted for adoption or rejection to the people. Under such Constitution, elections were held for Governor, 139

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Further, according to the Thorington v. Smith decision, “Confederate government was never acknowledged by the United States as a de facto government” in this sense and “from a very early period of the civil war to its close, it was regarded as simply the military representative of the insurrection against the authority of the United States”. One year later, in United States v. Keehler (1869)141 the Court defined the Confederacy as a usurpation of unlawful authority and its congress as “incapable of passing any valid laws”, whatever weight may be given under some circumstances to its acts of force on the ground of irresistible power or to the legislation of States in “domestic matters”. In the said case the Court concluded that “a depositary of the money of the United States or a public debtor cannot defend against a suit on his official bond by proving that he paid the money due the United States to one of its creditors under an order of the Confederate authorities where he shows no force or physical coercion which compelled obedience to such order”. The Supreme Court’s denial of de facto authority of Confederate government was extensively argued in Williams v. Bruffy (1877). In the said decision the Courts said that “… there is an essential difference between the government of the Confederate States and those de facto governments”. According to the Court, de facto governments were of two kind. The first existed when “it has expelled the regularly constituted authorities from the seats of power and the public offices, and established its own functionaries in their places, so as to represent in fact the sovereignty of the nation … such was the government of England under the Commonwealth established upon the execution of the king and the overthrow of the loyalists”. But the Confederate government “was not of this kind … [i]t never represented the nation, it never expelled the public authorities from the country, it never entered any treaties, nor was it ever recognized as that of an independent power … [i]t collected an immense military force, and temporarily expelled the authorities of the United States from the territory over which it exercised an usurped dominion: but in that expulsion the United States never acquiesced”. As to the other kind of de facto government “The other kind of de facto governments… is such as exists where a portion of the inhabitants of a country have separated themselves from the parent State and established an independent government … the validity of its acts, both against the parent State and its citizens or subjects, depends entirely upon its ultimate success”. Success was ultimately the key word in the Courts reasoning as upon failure of a government to establish itself permanently “all such acts perish with it”; If it succeeds, and become recognized, its acts from the commencement of its existence are upheld as those of an independent nation … Such was “the case of the State governments under the old confederation on their separation from the British crown”. The whole Supreme Court jurisprudence and the whole discourse about the “validity” of legislative and judicial acts, is actually about “legal effects” of acts adopted by authorities held to be nullities. This appears to be a matter legitimate a posteriori settlement of the effects and consequences of an unsuccessful revolution by the State having survived such revolution.

members of the Legislature, and other officers, who assembled together and proceeded to organize a new government: The “Charter government”. The latter did not acquiesce and on the contrary, passed stringent laws and passed an act declaring the State under martial law. In 1843, a new Constitution framed by the Convention convened by the “Charter government” entered into force and continued since ever. 141 United States v. Keehler, 76 U.S. 83 (1869).

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The ex post definition of the legal consequences of acts adopted by insurgent governments after an unsuccessful revolution seems to require a distinction from certain situations arisen during the Second World War. The reference is to the “Republic of Salò” or Italian Social Republic (Repubblica Sociale Italiana – RSI) which was established in the northern part of Italy, relying on the already existing public administration and public structures, during the German occupation. The RSI was a short lived (September 28, 1943 – April 29-May 2, 1945) “insurrectional” government whose legal character is still highly controversial due also to its ambiguity as an entity occupied by the German Reich and at the same time allied with it. Further the substantial German interference in its affairs142 made it, at least, a German “proxy”143 and a “puppet State”. The claims practice under article 78 of the Peace Treaty between Italy and the Allied and Associated Powers144 shows that the RSI wasn’t considered as an agency of the German Reich, and were held to have had “its own Government, a local one but one which aimed at losing this quality and which exercised legal powers with effective extrinsically, by means of appropriate agencies; these agencies carried out de facto a legislative, jurisdictional and executive activity; the laws enacted had the force of law for all citizens subjected to that system and were enforced as far as was permitted by the presence of foreign troops in the territory of the peninsula, by the war fought by these troops in the territory of the peninsula, by the civil war, by the deepening of the internal contrast in the Italian spirit which gave rise to the phenomenon of resistance”145. The said practice perhaps reflected the aim to extend the purpose of redress under the claims procedure. In October 1944, while the RSI was still in operations in northern Italy, the legitimate Italian government promulgated the decree 249/1944 defining the status of the legislation in the territories progressively freed from the occupation146. The said decree adopted a “three tiers” approach in respect of judgments and decisions of courts and tribunals operating under the RSI. In particular the decree stripped of any legal effect (art. 1) the whole legislation of the RSI [art. 1(1)], any judgments and decision adopted in the instructional phase of the criminal proceeding by the Special tribunal for the defense of the State147 and those of any judicial body established ex novo by the RSI [art. 1(3)] and any judgment or decision adopted by ordinary tribunals in application of criminal laws adopted by the RSI [art. 1(4)].

142

L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945, Bollati Boringhieri, 1993, 5. On the work of military tribunals under the RSI and their relationship with German authorities to include military tribunals, See S. Tieghi, Le Corti Marziali di Salò. Il Tribunale Militare Regionale di Guerra di Milano (19431945), Oltre Edizioni, 2016, p. 53. 144 Signed on February 10 1947 and into effect from September 15 1947. 145 Italian-United States Conciliation Commission, established under Article 83 of the Treaty of Peace between Italy and the Allied and Associated Powers, Treves Case – Decision No. 144, 24 September 1956, Reports of International Arbitral Awards, Vol. XIV, 262-272. Similar rationale led to subsequent decisions in: Wollemborg Case – Decision No. 146, 24 September 1956, VOL. XIV, 283-291 Baer Case – Decision No. 199, 12 December 1959, Vol. XIV, 402-407; the Falco Case – Decision No. 200, 12 December 1959, VOL. XIV, 408-419; Fubini Case – Decision No. 201, 12 December 1959, Vol. XIV, 420-434. 146 Decreto Luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 249, Assetto della legislazione nei territori liberati. 147 The Tribunal was established in 1926, abolished by Royal decree July 29, 1943 n. 668 and subsequently reestablished under the RSI by urgent decree of December 3, 1943, n. 794. 143

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The decree further deprived of any legal effect any judgment or decision adopted during the instructional phase by (pre-existing) ordinary tribunals for certain offenses against public order and all judgment and decisions by military tribunals (art. 5). Nevertheless if the author of the conduct wasn’t inspired by hostility towards the RSI or the German occupant, the said judgments and decision – representing the “second tier” could be provided with legal effects and become effective following a procedure in the like of an exequatur proceeding (art. 5). All other judgments and decisions in criminal matter were “validated” – the formulation of the provision suggests that legal effects were not originally attached to judgments and decisions, but rather granted by the decree 249/1944 itself as a “legislative validation” (art. 6). Judgments and decisions of this residual category and “third tier” could nonetheless be challenged by the affected person and by the appropriate prosecution office if considerations related with the political situations could have influenced the outcome of the decision (art. 6). The transitional provisions preserving selective and limited effects to acts and specifically to judicial decisions adopted within the legal framework of the RSI are of great interest and carefully drafted. Although, by underscoring the difference between ordinary tribunals and re-enacted or newly established tribunals, the transitional provisions should be read as legislative measures dealing with the end of the German foreign occupation and the righting of acts not compatible with the occupation regime, rather than an advanced piece of legislation addressing the progressive end of an “insurgent government” and the consequences of an “unsuccessful revolution”. Nevertheless, the issue remains controversial as the whole matter of “insurgencies” and “civil wars” during the Second World War.

c)

The path of the De facto principle and the “implied mandate” doctrine

The string of decisions by the U.S. Supreme Court dealing with the effects of acts adopted under the Confederation became the authoritative source relied on by several court decisions adopted after World War Two148 recognizing of the quality of de facto governments, denying such quality or repudiation of the doctrine. The decision by the U.S. Supreme Court supported also, in the context Kelsen’s view of revolutionary legality, assertions that the “efficacy of a coup d’etat is the basis of its validity”. The line of reasoning developed by such decisions was sarcastically named, evoking the “successful revolution doctrine” as “the jurisprudence of successful betrayal”149. The said decisions were adopted, with some exception, while the new rulers were in charge, by judges appointed to court by the overthrown government. In some other instances, the courts denied the legitimacy of the government or certain acts (as constitutional amendments or new constitutions) while the revolution was ongoing150 or ex post.

148

Reference is to the decisions departing from State v. Dosso, 1958 P.L.D. S. Ct. 533, 540-41 (Supreme Court of Pakistan); Uganda v. Matovu, 1966 E. Afr. L.R. 514; Madzimbamuto v. Lardner-Burke, 1966 R.L.R. 756, 777 (Rhodesia Gen. Div.); Adejumo v. Johnson, [1972] 1 All N.L.R. 159 (Nigeria). 149 Tayyab Mahmud, Jurisprudence of Successful Treason: Coup d’Etat &(and) Common Law, in Cornell International Law Journal, Vol. 27 (1994) Iss. 1, Article 2. 150 Boro v. Republic, 1967 Nigerian Monthly LR. 163 (decided Dec. 5, 1966), excluding that the Military administration was based on a new source nor created a new legal order and reconciling (…) the handover of authority with the Constitution which was still in force although suspended.

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The jurisprudence of the United States Supreme Court and its distinctions about de facto government has been accordingly discussed and distinguished with respect to situations in which there were “domestic usurpers”. A significant exception is represented by the 1969 decision of Privy Council, in Madzimbamuto v. Lardner-Burke151 mentioned in the previous paragraph in respect of the interpretation of the United States Supreme Court Hichman v. Jones case. The Privy Council distinguished generally the situation pending before it from the situation addressed by the United States Supreme Court which it held to be one of “divided sovereignty”. The Madzimbamuto v. Lardner-Burke decision followed the unilateral declaration of independence (UDI) issued in 1965 by the “rebel government” the effect that Southern Rhodesia would be an independent sovereign State and the promulgation of a new Constitution for Rhodesia (The “1965 Constitution”) superseding the “1961 Constitution” which had been granted by the United Kingdom. As a response to the declaration of independence, the United Kingdom Parliament adopted the Southern Rhodesia Act and provided for an Order in Council to make such provision as appeared necessary or expedient. The Order in Council was made to the effect that the Legislative assembly of Southern Rhodesia purported to promulgate the Constitution for the Colony, was void and that the executive power of the Colony remained vested in Her Majesty the Queen, to be exercised on her behalf by one of the Secretaries of State and finally that the rebel government was dismissed152. The defendants in the case were the Minister for Justice and Law and Order in the “rebel government”, and the governor of the prison where the appellant’s husband was detained. The appellant argued that by the above Order in Council, the resolution of the Rhodesian Legislative Assembly extending the period of emergency, upon which her husband’s detention was based, was void and that the lapse of the lawful emergency legislation in 1966 rendered her husband’s continuing detention illegal153. The lawfulness of the detention upon the expiry of the prior emergency legislation was examined previously in Rhodesia by the General Division which held that the 1965 Constitution and the Government of the Prime Minister and his colleagues were unlawful but that, it being the only effective government, necessity (“in order to avoid chaos and a vacuum in the law”) required that effect be given to the fresh emergency regulations and therefore the detention was lawful154. On appeal, the Appellate Division affirmed that decision in the main, but held that the particular regulation under which the appellant’s husband had been detained since the expiry of the lawful emergency legislation, was ultra vires and invalid, and therefore allowed the appeal but a fresh detention order was immediately made under a regulation which the Appellate Division had by implication held to be valid155. The judgment delivered by the Appellate Division of the High Court shows that out of the five judges sitting in the Division, two (while rejecting arguments based upon the doctrine

151

Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645. On the background of the case, See R. G. Forster, An Exercise in Shadow-Boxing. Madzimbamuto v. LardnerBurke and Others, Sydney Law Review, 1971, n. 6, 398ff. 153 R.G. Forster, An Exercise in Shadow-Boxing, cit., 400. 154 Madzimbamuto v. Lardner-Burke, 1966 R.L.R. 756, 777 (Rhodesia Gen. Div.). 155 Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1968] 2 S. Afr. L.R. 284, 325 (Rhodesia App. Div.). 152

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of necessity) held the regime was a “de facto government” which could lawfully do anything which its predecessor could lawfully have done under the 1961 Constitution”, two asserted that the regime had acquired “internal de jure status” and was entitled to do anything which the 1965 Constitution permitted156. The fifth judge con the regime had neither de facto nor de jure status and that an act of the regime may be upheld as “reasonably required for the ordinary orderly running of the country” and as long as it did not defeat the rights guaranteed by the 1961 Constitution, because it had not usurped the functions of the judiciary and “the High Court remained a court constituted under and deriving its authority from the 1961 Constitution”157. The right to appeal to the Privy Council was established under the 1961 Constitution158 and abolished under the 1965 Constitution. The Privy Council entertained the appeal and rejected the concepts of de facto and de jure and held that while the legitimate government was trying to regain control, it was impossible to hold that the usurper regime was for any purpose a lawful government159. In order to substantiate the conclusion, the majority distinguished, as mentioned above, the line of authorities of the United States Supreme Court which were adopted in a system of “divided sovereignty” in the United States, after the end of the civil war when the authority of the legitimate government had been re-established, and in the absence of the adoption by the Congress of laws similar to those providing for the 1965 Order in Council160. The Privy Council addressed the questions whether or not there was a “general principle depending upon necessity or upon an implied mandate from the lawful Sovereign, which recognized the need to preserve law and order within territory controlled by a usurper” holding that no such principle could override the legal right of the Parliament of the United Kingdom to make such laws as it deemed proper for territories under Her Majesty’s Sovereignty for preserving law and order161. To clarify the meaning of the implied mandate principle the decision quotes Hugo Grotius162: “The acts of sovereignty exercised by such an usurper may have an obligatory force, not by virtue of his right (for he has none), but because it is very probable that the lawful sovereign, whether it be the people themselves, or a king, or a senate, chooses rather that the usurper should be obeyed during that time, than that the exercise of the laws and justice should be interrupted, and the state thereby exposed to all the disorders of anarchy”163.

156

Tayyab Mahmud, Jurisprudence of Successful Treason: Coup d’Etat &(and) Common Law, cit., 62. Tayyab Mahmud, Jurisprudence of Successful Treason: Coup d’Etat &(and) Common Law, cit., 62. 158 Art. 71: (1) If any person alleges that any of the provisions of sections 57 to 68 has been or is being contravened in relation to him ... that person may apply to the High Court for redress ... (5) Any person aggrieved by any determination of the High Court under this section may appeal therefrom to Her Majesty in Council. 159 Tayyab Mahmud, Jurisprudence of Successful Treason: Coup d’Etat &(and) Common Law, cit., 64. 160 R. G. Forster, An Exercise in Shadow-Boxing, cit., 405. 161 Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645, 729. 162 Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645, 728. On the principle, See also S. Ratnapala, Jurisprudence, third edition, Cambridge University Press, 2017, 95. The quote can also be found in the Court of Final Appeal of the Autonomous Administration of Hong Kong, Final Appeal n. 2 of 1999, about the recognition of a bankruptcy judgment of the Taipei District Court (Taiwan). 163 The quote is from Hugo Grotius, The Rights of War and Peace, edited and with an Introduction by Richard Tuck, from the Edition by Jean Barbeyrac, 121. 157

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In the majority opinion’s distinction, the exercise by the Parliament of its right to make laws represented a significant difference between the situation examined by the United States Supreme Court and that at issue and a caveat to the application of the implied mandate principle. In its dissenting opinion Lord Pearce argued that the “principle whether one calls it necessity or implied mandate, can in my opinion be extracted from the cases in the Supreme Court of the United States when dealing with the aftermath of the unsuccessful rebellion of the Southern States”164. He further recalled at this purpose the Hague Rules on occupation arguing that while “those rules are confined to national belligerents and have no application to a domestic rebellion … nevertheless, there seems no reason why the law should not even in the case of rebellion have some regard to the preservation of the citizens from chaos and disorder. Particularly is this so when, as here, there is a full-scale rebellion in complete control over the whole area of one isolated unit of the realm”165. Finally he considered it desirable to keep the courts out of the main area of dispute, so that, whatever be the political battle, and whatever be the sanctions or other pressures employed to end the rebellion, the courts can carry on their peaceful tasks of protecting the fabric of society and maintaining law and order and that such a compromise is bound to create difficulties in its application. The parallel driven in the dissenting opinion between the “implied mandate” principle and the law of occupation as perceived from the sovereign whose territories has been occupied is puzzling. Nevertheless, perspectives matter also in the outcome of the decision166 and it should be emphasized that the High Court whose decision was appealed was perceived as continuing to owe allegiance to the Queen who appointed the judges. The continuity in the exercise of judicial functions was accordingly a fact and an assumption in the entertaining of the appeal, rather than a requirement. One issue related with the idea of an “implied mandate” is represented by the retention by the “usurper” of law of laws of the prior ruler. The practice developed upon the independence of States, shows that when laws have been retained, sometimes so called “consequential laws” have been adopted by the prior ruler to discipline the operation of retained laws167 and subsequent amendments by the State which has become independent168. The retained laws, although identical in name to enactments in force for the prior ruler, cease to be part of its legal system and subsequent amendment to retained laws by the new ruler so not extend to acts with identical name still in force for the prior ruler. Consequential laws are adopted essentially

164

Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645, 733. Privy Council, Madzimbamuto v. Lardner-Burke, [1969] 1 A.C. 645, 736. 166 According to S. Kentridge, A Judge’s Duty in a Revolution – The case of Madzimbamuto v. Lardner-Burke, Journal of the Commonwealth Magistrates’ and Judges’ Association, Vol 15, n. 2, December 2003, 37, “When a government does not appoint its own judges but submits the question of its status to the courts of the lawful sovereign how then can it be a de facto government?”. 167 See for example the India (Consequential provisions) Act, 1949 stating that “On and after the date of India’s becoming a Republic, all existing law, that is to say, all law which, whether being a rule of law or a provision of an Act of Parliament or of any other enactment or instrument whatsoever, is in force on that date or has been passed or made before that date and comes into force thereafter, shall, until provision to the contrary is made by the authority having power to alter that law … have the same operation in relation to India, and to person and things in any way belonging to or connected with India, as it would have had if India had not become a Republic”. 168 At this purpose, See Law Commission of India, Fifth Report on British Statutes Applicable to India, 1957, 7. 165

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in the interest of the prior ruler when their laws have a geographically wide application and the retention with identical name could ingenerate doubts as their operation. The adoption of such laws isn’t a requisite for the retention of law. The de facto principle was also subject to distinctions in that the doctrine was associated with the legal principle implying that “common misconception creates law”169. Under the said principle, “illegal public organs” subject to the condition of a prior “plausible appointment” may adopt valid acts. Under the said principle, known with minor differences most domestic legal systems, illegal public organs may be subject to the same obligations public organs are and be afforded with the same legal protection. The principle has been also applied in cases of merely domestic relevance to de facto courts and judges170 though sometimes acts and proceedings were held to be tamquam non esset as a matter inexistence of a legal office171 or defectus potestatis 172. The said jurisprudence is hardly relevant for the question of the legitimacy of origin of non-State jurisdiction and is, with rare exceptions, essentially of interest for constitutional law as a matter of appreciation of government legitimacy by the judiciary.

d) “Remnants of defeated armies”, guerrillas and the limited ex post recognition of partisan tribunals The term “partisan justice” evokes often bitter page in national narratives and in “transitional” post-World War Two jurisprudence surprisingly ignored by scholarship and definitively lacking a comprehensive legal analysis173. References to partisan tribunals is mostly to be found in personal memories of survivors and historical essays and “notations” of their activity in court authorities are quite rare174. The status of partisans in Greece and Yugoslavia is briefly considered in the so called Hostages Trial175, where the Tribunal pointed out that “while it is true that the partisans were able

169

Liasi v. Attorney-General, 1975 C.L.R. 558 (Cyprus). Supreme Court of North Carolina, State v. Lewis, 12 S.E. 457 (N.C. 1890), holding that acts as a de facto officer ceased to be valid and binding as to the public and third persons, when he declared in open court his purpose to abdicate because he was of opinion that the said term could not have been lawfully held except by a successor regularly appointed; Supreme Court of North Carolina, State v. Shuford, 38 S.E. 808 (N.C. 1901). In Re Aldridge (1897), 15 N.Z.L.R. 361, at p. 372 (per Richmond, J.), while upholding the decision by a de facto judge the Court concluded that the principle does not extend to willful abuse of office, still less to usurpers. On the point and the so called “Aldridge Rule”, See F.M. Auburn, De Facto Officials and “Usurpers”, cit., 131, 133. 171 Inter alia Supreme Court of Missouri, Bowers v. Smith, 20 S.W. 101 (M. 1892), finding that “the judges and clerks … were not de facto officers, for the reason that a de facto officer necessarily presupposes the existence of a legal office which might be filled by a de jure officer”. 172 Supreme Court of Canada, Drew v. The King, (1903) 33 SCR 228, holding that proceeding before a de facto magistrate “were not only voidable but were void of a nullity of non esse … as is said in the civil law, defectus potestatis, nullitas nullitatum … No plea of autrefois acquit or autrefois convict could be based on his decision. No appeal was necessary to set it aside”. 173 Nevertheless, See M. Storchi, Partigiani e fascisti: tribunali e carceri per una giustizia di transizione. Una ricerca in corso, in G. Focardi - C. Nubola (edited by), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Il Mulino, 2015, 124. 174 Some reference may be found in S. Testori, La “repressione” antipartigiana e la magistratura piemontese (19461959), 175ff., in G. Neppi Modona (edited by), Giustizia penale e guerra di liberazione, Franco Angeli, 1984. 175 Hostage Case, United States v List (Wilhelm) and ors., Trial Judgment, Case No 7, Law Reports of Trials of War 170

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to control sections of these countries at various times, it is established that the Germans could at any time they desired assume physical control of any part of the country” and further that “the control of the resistance forces was temporary only and not such as would deprive the German Armed Forces of its status of an occupant”176. Further analysis, based upon the then relevant applicable law, was devoted to the aspect of compliance with rules of war as a matter of entitlement as legitimate belligerents and on the aspect of central command and the finding was that “a few partisan bands met the requirements of lawful belligerency”. The Tribunal also observed that there were “the evidence shows that the bands were sometimes designated as units common to military organization … they, however, had no common uniform [and] … they generally wore civilian clothes although parts of German, Italian and Serbian uniforms were used to the extent they could be obtained” and that there was “some evidence that various groups of the resistance forces were commanded by a centralized command, such as the partisans of Marshal Tito, the Chetniks of Draja Mihailovitch and the Edes of General Zervas”177. The above finding is conflicting with those of courts of States – as Italy – reliant on the legacy of the role of partisan fighters and their legitimate status as combatants178. For the present paper it doesn’t seem necessary to address the divide between the “hostage case” and domestic jurisprudence. It suffices to observe that the Tribunal in the hostage case left the door open for the recognition of the quality of lawful combatants on a case by case base. The recognition of the legitimate combatant status of partisans wouldn’t by itself solve the question of the legitimate source to set up tribunals. Nevertheless, a finding about the lacking status of lawful belligerents makes the search for the source of power to establish a jurisdictional body would require a solution of the legal and philosophical contradiction between the quality of unlawful combatants and the claim of legitimacy of acts allegedly performed in the exercise of jurisdictional powers. According to the Tribunal “guerrilla warfare is said to exist where, after the capitulation of the main part of the armed forces, the surrender of the government and the occupation of its territory, the remnant of the defeated army or the inhabitants themselves continue hostilities by harassing the enemy with unorganized forces ordinarily not strong enough to meet the enemy in pitched battle”179. While driving a parallel between the position of spies and those of partisans, both not entitled to protection as prisoners of war if captures, the Tribunal added that the use of spies is lawful by the law of war and further that “guerrillas may render great service to their country and, in the event of success, become heroes even, still they remain war criminals in the eyes of the enemy and may, be treated as such”180.

Criminals, Vol. VIII, 34ff. 176 Ibidem, 55. 177 Ibidem, 57. 178 Inter alia, Tribunal of Rome (1st civilian sections), 9 June 1950; Court of Appeal of Rome (civilian section), 5 May 1954; Court of Cassation (civilian section), 9 May 1957; Court of Cassation (1st criminal section) 13 February 1999; Court of Cassation (3d civilian section, 23 May 2007. 179 Hostage Case, cit., 58. 180 Hostage Case, cit., 58.

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Partisan tribunals exercised jurisdiction during the “guerrilla phase” over offenses committed by partisans and, quite often and mainly in absentia “against” alleged collaborationists, spies and betrayers amongst civilian population181. Also, military personnel accused of not having resisted the invasion has been trialed182. Partisan tribunals delivered summary justice with varying from courts working in the like of military tribunals to street lynching – against military personnel of the occupant forces once they had been beaten and occupation came to end183. In some circumstances partisan tribunals were the expression of a short-lived insurgency and civil war phases184, following the end of the foreign occupation and continued to operate despite official orders ending their activity and the establishment of more structured courts by legitimate provisional governmental entities with the aim to discharge what would be defined (according to concepts emerged some decade later), “transitional justice”185. Further issues included the attribution to the State of decisions and factual conduct186 and although rarely, the assessment criminal liability of partisan leaders applying extensively courtmartial expedite justice and provisions referring to regular mayor. Partisan justice nowadays rarely surfaces in academic debates and in court cases. The aspects of the Hostage case more closely related to the question of the original source of power to establish jurisdictional bodies are represented notation about the fact that control of a territory by partisan units was temporary and often limited to the carrying out of a single offensive operation and by the description of guerrillas as eventual “remnants of defeated armies”. The frequent lack of control over territory excludes the possibility to root the authorization to establish tribunal in the exercise of de fact sovereignty. Nor being (eventually) “remnants of

181

Factual references can be found in F. Gori, Ausiliarie, Spie, Amanti. Donne tra guerra totale, guerra civile e giustizia di transizione in Italia. 1943-1953, Doctoral Thesis. University of Pisa. 2013, pp. 82, 87. Available at the following link: https://core.ac.uk/download/pdf/19204119.pdf . 182 At this purpose, See Vaios Kalogrias, Collaborationism and “Red Terror” in Greek Macedonia, 1943-1944, in D’Amelio - P. Karlsen (edited by), Collaborazionismi, guerre civili e resistenze, Qualestoria – QS, XLIII, n. 2, December 2015, 104. 183 Rules for the prosecution of “Nazi-fascists” were adopted by the Italian Committee for national liberation (CNL) since the 15th of January 1944. 184 At this purpose, See M. Dondi, Azioni di guerra e potere partigiano nel dopoliberazione, in Italia contemporanea, September 1992, n. 188; and P. Zangrado, Giustizia penale in provincia di Belluno all’indomani della liberazione, in F. Vendramini (edited by), Montagne e veneti nel secondo dopoguerra, Bertoni, Verona, 1988, 663-677. 185 According to the United Nations Approach to Transitional Justice, Guidance Note of the Secretary General, 2010, “transitional justice is the full range of processes and mechanisms associated with a society’s attempt to come to terms with a legacy of large-scale past abuses, in order to ensure accountability, serve justice and achieve reconciliation”. In respect of post-world war two justice in Italy, See P. Caroli, La Giustizia di Transizione in Italia. L’esperienza dopo la seconda guerra mondiale, Doctoral thesis, University of Trento, 2017, Available at the following link: eprints-phd.biblio.unitn.it/1981/1/Paolo_Caroli_-_Tesi_dottorato_.pdf. 186 Tribunal of Bergamo (Italy), 24 February 1949, judgment, in Foro Italiano, Vol. 72, Part.I, (1949), 1105-1110, asserting that the cutting of the hair of a woman suspected of being a fascist by order of a partisan commander was attributable to the State but justified as a measure aimed at preventing more violent acts against the woman by a crowd of people and therefore within the provisions bout the so called state of necessity or duress (…). The fact took place the 29th April 1945 and the untitled notation to the decision by A.M. Sandulli, discusses the possible attribution of the conduct the Italian public administration.

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defeated armies” isn’t per se qualifying nor relevant in order to assert the actual power to set up courts. The post-second world war domestic laws of Italy shows a post facto legitimation through the provision that “sabotages, requisitions and other necessary operations” carried out by patriots organized within the military units recognized by the National Liberation Committee “in the fight against Germans and fascists during the enemy occupation” could not be punished187. The subsequent Italian jurisprudence tried to ignore the practice of partisan tribunals avoiding, when possible also factual notations of such decisions. Legal effects of decisions of partisan tribunals such as the prohibition of a subsequent re-trial under the ne bis in idem principle were excluded though sometimes its diminutive version, recognizing preclusive effects to enforced convictions was asserted188. The ECtHR incidentally toke note of a “partisan tribunal”189 in the Kononov case, albeit in a context which qualifies clearly as an IAC. The Court referred to the considerations of the respondent Government about the Partisan tribunal judgment which, in any case “would have been unlawful as it would have been delivered in absentia in violation of even the basic tenets of a fair trial”190, but without further entertaining the issue of the authority to establish partisan tribunals. Interestingly, the references to the concerned judicial body changed during the ECtHR proceeding. The first instance Chamber judgment referred to a “military tribunal established in accordance with the laws of war” – as purported by Russia intervening in the proceeding – whilst the Grand Chamber referred to as a “partisan tribunal”.

e)

Inherent sovereignty and tribal jurisdiction

Tribal jurisdiction arguably an exotic topic on itself, is often considered within the topics of autonomy and self-determination of indigenous people and their rights, to include self-government191. Tribal courts have sometimes crossed the path of non-State parties and insurgent

187

Decreto Legislativo Luogotenenziale, 12 April 1945, n. 194, Non punibilità delle azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata. 188 Reference (partially quoted) by S. Testori, La “repressione” antipartigiana e la magistratura piemontese (19461959), cit., 176. 189 ECtHR, Grand Chamber, Case of Kononov v. Latvia, (Application no. 36376/04), judgment, 17th May 2010, allegations of the claimant, §§ 38, 162. 190 ECtHR Case of Kononov v. Latvia, cit., § 38, 151. 191 At this purpose, See art. 40 of the United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, G.A. Res. 61/295, Annex, U.N. GAOR, 61st Sess., Supp. n. 53 (Vol. 1) which reads: “Indigenous peoples have the right to access to and prompt decision through just and fair procedures for the resolution of conflicts and disputes …[with] … due consideration to the customs, traditions, rules and legal systems of the indigenous peoples concerned”. About the aspirational nature of the declaration, nonetheless opposed by Australia, New Zealand, Canada and the United States, we would like to refer to C.J. Fromherzt, Indigenous Peoples’ Courts: Egalitarian Juridical Pluralism, SelfDetermination, and the United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, University of Pennsylvania Law Review, Vol. 156 (2008), 1341.

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groups, as the FARC in Colombia192. Further, the roots of tribal justice in Palestine preceded the establishment of the Palestinian Authority193. Linked to “inherent sovereignty”, tribal jurisdiction is relevant not solely under the constitutional law defining the relation of sovereigns predating the formation of a State with such State194, but also under international law. Tribal courts in their legally most developed form – represented by the judicatures of the third U.S. sovereign (although constrained by the dependent character its sovereignty) – could stand as inspirational and demonstrational model for non-State courts. The treatment of tribes as sovereigns derives from the doctrine of discovery, reserving the right to acquire land from tribes through purchase or conquest to the discovering European States. The idea of inherent tribal sovereignty has expanded to include claims for aboriginal sovereignty as an attempt to assert and claim sovereign rights relying on the homonymous doctrine asserting that “despite the pretense of effective occupation, the sovereign rights of Aboriginal people lie dormant awaiting reversion”195 in the like of a belligerent occupation. The power of “first Nations” to enter into international agreements are also recognized as part of the legal framework of relations between the Government of Canada and tribes. The Canadian Government is currently considering an “Act to ensure that the laws of Canada are in harmony with the United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples”196. Further, traditional and customary justice systems and their interlink with international human rights law are the subject of international initiatives197. In the case of the tribes inhabiting the Western Sahara, the International Court of Justice (ICJ) emphasized that “sovereignty was not generally considered as effected through occupation, but through agreements concluded with local rulers198.

192

See Colombian tribal court Farc verdict: UN concerned, BBC World – Latin America, 11 November 2014, Available at: http:///www.bbc.com/news/world-latin-america-30005510. According to the article, indigenous authorities exercised jurisdiction over FARC guerrillas captured “in uniform and with rifles” which were “all indigenous” in order to trial them for the murder of the two indigenous leaders. 193 Asem Khalil, Formal and informal justice in Palestine: Dealing with the Legacy of Tribal Law, Études rurales, July-December 2009, 169-184. 194 Under the U.S. Constitution art. I, § 8, cl. 3 the Congress is authorized to regulate commerce with foreign Nations, among the states, and with the Indian tribes. 195 J. Cassidy, Sovereignty of aboriginal people, Indiana International Law & Comparative Law Review, Vol 9 (1998), 69. 196 M. Pollard, Indigenous Justice Systems: Canadian Legislation for Implementing the UN Declaration, Opinio Juris, April, 26, 2018, available at the following link: http://opiniojuris.org/2018/04/26/indigenous-justice-systems-canadian-legislation-for-implementing-the-un-declaration/. The draft legislation states under art. 34 that “Indigenous peoples have the right to promote, develop and maintain their institutional structures and their distinctive customs, spirituality, traditions, procedures, practices and in the cases where they exist, juridical systems or customs, in accordance with international human rights standards”. 197 Reference is to the International Commission of Jurists, Traditional and Customary Justice Systems: Report of the 2017 Geneva Forum of Judges and Lawyers, February 2018, https://www.icj.org/wp-content/uploads/2018/03/ Universal-Trad-Custom-Justice-Gva-Forum-Publications-Thematic-reports-2018-ENG.pdf. 198 Quote is from F. Lenzerini, Sovereignty Revisited: International Law and Parallel Sovereignty of Indigenous Peoples, Texas International Law Journal, Vol. 42 (2006), 155. The reference is to Western Sahara Advisory Opinion, 1975 I.C.J. 18, para. 80 (Oct. 17).

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U.S. municipal law conceptualizes tribal governments as one of three sovereign institutions, in addition to federal and state governments and regards Indian tribes as pre-existing entities outside the federal framework199. The treatment of tribes as sovereigns entail the so called tribal sovereign immunity in a fashion close to that of foreign sovereign immunity and even broader and not subject to the limitations progressively introduced under the Foreign State Immunity Act (FSIA). Being the character in of Indian tribes intrinsically complex, the U.S. Supreme court defined Indian tribes in 1831 as “domestic dependent nations”200. Until 1871 the U.S. federal government continued to deal with tribes through treaties considered under municipal law equivalent to international treaties and the history of such treaties and descending enactments of the Congress still define the powers of the relevant tribes201. Certain tribes are recognized solely under domestic law and unrecognized tribes are considered as collective associations. International law although apparently replaced by constitutional law, sometimes re-surface, as in the case of the self-styled Republic of Lakotah. The “Republic” impliedly a successor of the Sioux Nation in 2007 and 2010 declared its independence from the U.S. unilaterally withdrawing – neglected by the government – from the treaties of 1851 and 1868 (the Fort Laramie treaty abrogated by congressional legislation) because of alleged breaches202. Except as provided by Congress, Indian tribal courts may exercise criminal jurisdiction, after the U.S. Supreme court decision in the Oliphant v. Suquamish Indian Tribe case203, only over Indians even though belonging to different tribes204, eventually holding the citizenship of bordering States Mexico and Canada205. Furthermore, “citizenship” and “ties to the tribe”

199

Klint A. Cowan, International Responsibility for Human Rights Violations by American Indian Tribes, Yale Human Rights and Development Journal, Vol. 9, Iss. 1, Article 1, Available at: http://digitalcommons.law.yale.edu/ yhrdlj/vol9/iss1/1, 6. 200 Cherokee Nation v. Georgia, 5 Pet. 1, 17 (1831). In the said decision, the Chief Justice Marshall considered the question if the Cherokee’s reservation was a foreign State. 201 Klint A. Cowan, International Responsibility for Human Rights Violations by American Indian Tribes, cit., p. 8, fn. n. 22, quoting Cheung v. United States, 213 F.3d 82, 89-90 (2d Cir. 2000) holding that Indian treaties are equivalent in status to treaties with foreign nations. Recently on the topic M. Steele, Congressional Power and Sovereignty in Indian Affairs, Utah Law Review, 2018 : n. 2, 307ff. 202 On the Republic, See S. Sargent - G. Melling, The Exercise of External Self-Determination by Indigenous Groups: The Republic of Lakotah and the Inherent Sovereignty of American Indigenous Peoples, available at the following link: http://eprints.lincoln.ac.uk/19663/3/19663.pdf. 203 Oliphant v. Suquamish Indian Tribe, U.S. 191 (1978) asserting “that federal legislation conferring jurisdiction on the federal courts to try non-Indians for offenses committed in Indian Country had implicitly pre-empted tribal jurisdiction”. At this purpose, See also Duro v. Reina, 495 U. S. 676, 685, 688 (1990), holding that “because tribes have lost their inherent criminal jurisdiction over nonmember Indians, any subsequent exercise of such jurisdiction could only have come to the Tribe (if at all) by delegation from Congress.” For limitations of tribal jurisdiction in respect of non-Indians in civil cases, See Montana v. United States 450 U.S. 544, 565-67 (1981). 204 25 U.S.C. § 1301(1) and (4) enacted to overrule the disablement of tribal court to try Indians who were not members of the tribe following the decision of the Supreme Court in Duro v. Reina, 495 U.S. 676 (1990). This enactment was subsequently considered by the Supreme Court in United States v. Billy Jo Lara, 541 U.S. 193 (2004), when confronted with the question if the “extension” of jurisdiction was a grant of federal powers or a re-expansion of dormant inherent jurisdiction. 205 According to the Eastern Cherokee Supreme Court, Eastern Band of Cherokee Indians v. Torres (E. Cherokee

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remained undefined. Extradition from reservations are under tribal control206. The tribal contempt jurisdiction, which is not necessarily tribal but seems to have been rather borrowed by Anglo-American courts, is deemed to pertain also to tribal courts, at least in the form of coercive civil contempt (which may encompass imprisonment) and perhaps also in the form of criminal contempt, despite the lack of criminal jurisdiction over non-Indians207. The jurisdiction of tribal courts has in some recent cases in child welfare issues208 been disjoint from their territorial ambit209. The U.S. Supreme Court when confronted, in United States v. Lara210 with a double jeopardy issue holding that a upon a prior tribal prosecution, a subsequent federal prosecution was not barred because the prosecution was for distinct offenses under separate sovereigns. In this decision the Supreme court underlined the Indian sovereignty was dependent rather than independent and considered the claim to have constitutional status. Tribal criminal jurisdiction may accordingly be concurrent with federal and State jurisdiction under the Mayor crimes act (MCA)211 and General crimes act212 or Public Law 280 (PL 280)213. The implementation or non-implementation of relevant IHRL and particularly the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) in tribal governments and in tribal courts may be useful to understand human rights obligations of non-State actors. The Covenant and human rights instruments are deemed in the U.S. to be not self-executing, whilst rights recognized therein are generally afforded with sufficient protection under state and federal statutes but not under tribal governments214. The Indian Civil Rights Act aimed at affording protection against Indian tribal violation of human rights obligations binding upon the U.S., establishes that violations must be resolved within the tribal court system and affords federal habeas corpus solely in case of ongoing wrongful detention and upon the prior exhaustion of tribal

Apr. 12, 2005) Docket No. CR-03-143, 23-25, 28-32, quoted by Klint A. Cowan, International Responsibility for Human Rights Violations by American Indian Tribes, cit., 19, fn. n. 99, “In Oliphant, all the authority relied upon (treaties, opinions and statutes) sought to protect the liberty of United States citizens from Indians … The Court was not concerned with the protection of aliens in dealing with Indians …. Nor has the United States Supreme Court specifically expressed the protection of aliens as a reason to limit the sovereignty of Indian tribes”. 206 On the topic See D. Nash, Tribal Control of Extradition from Reservations, Natural Resources Journal, Summer 1970, 626. In respect of “international extradition”, under 18 U.S.C. 1162(a) the States of Alaska (with one exception), California, Minnesota (with one exception), Nebraska, Oregon (with one exception) and Wisconsin have jurisdiction over Native Americans, while in other States jurisdiction in extradition matters depend on whether a tribe has codified extradition procedures. In the latter case, the procedure must be followed. 207 M.L.M. Fletcher, A primer on Tribal Court Contempt Power, Michigan State University Research Paper Series, Research Paper n. 06-08. 208 At this purpose See the Indian Child Welfare Act 25. U.S.C. § 1911(a) (2000) establishing presumptive tribal jurisdiction in child custody proceedings even if the child doesn’t reside in a reservation. 209 D.M. Blurton, John v. Baker and the Jurisdiction of Tribal Sovereigns without Territorial Reach, Alaska Law Review, Vol. 20 (2003), 1. 210 United States v. Billy Jo Lara, 541 U.S. 193 (2004). 211 18 U.S.C. § 1153. 212 18 U.S.C. § 1152. 213 18 U.S.C. § 1162. 214 Klint A. Cowan, International Responsibility for Human Rights Violations by American Indian Tribes, cit., 16.

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remedies215. Any other review of tribal decisions is barred by the tribal sovereign immunity. As to the “fair trial” dimension of the ICCPR, it is worth observing that the said court system is entirely governed by laws and rules, to include those about the establishment and composition of the courts and the applicable criminal and procedural laws, fulfilling the requirement of a “law”216.

f)

Clandestine courts, their surfacing and ex post legitimation

The idea of a boycott of the official court system and drying it out through “rival courts” during the Anglo-Irish conflict – a key element of the Sinn Féin program – was inspired by the Hungarian struggle for independence217. The Dáil courts were a fascinating experiment and the subject of an interesting and inspiring legal literature offering valuable inspiration. Such courts were afforded also coercive jurisdiction to include jurisdiction in criminal matters. After the Anglo-Irish treaty of 1921 and the truce, the Dáil courts temporarily survived as a parallel system in the then confused Irish judicial landscape and apparently adjudicated also offenses committed by British servicemembers218. While surviving during the truce the legitimacy of the Dáil courts was under consideration and by decree dated 15 March 1922 the Dáil Assembly prohibited injunctions retraining proceedings in the ex enemy crown courts – in the like of an anti-suit injunction – except for those authorized by the full Supreme Court219. During the following Irish civil-war, the grant of a conditional habeas corpus to republican prisoners220 led to the reaction by the “Free State government” passing an order abolishing the Dáil courts and arrest in due course of the judge granting the remedy221.

215

At this purpose, See K.M. Carlson, Jurisdiction and Human Rights Accountability in Indian Country, Michigan State Law Review, 2013, 355ff. According to the author, Indian governments should be held accountable for human rights violation in Indian county. The article focusses on the omission to prevent violence against Indian women by non-Indians also in the lights of federal restrictions on tribal jurisdiction. 216 About traditional law, April L. Wilkinson, A Framework for Understanding Tribal Courts and the Application of Fundamental Law: Through the Voices of Scholars in the Field of Tribal Justice, Tribal Law Journal, Vol. 15 (2015), 65-95. About the transformation of the governmental structure of Cherokee tribe towards a bicameral legislature in 1820-30, See G. Valencia - Weber, Tribal Courts: Customs and Innovative Law, New Mexico Law Review, Vol. n. 26 (1994), 225-263, 259, quoting the Supreme Court decision in Talton v. Mayes, 163 U.S. 376 (1896) upholding a conviction of an Indian by a Cherokee Courts as the sentence was sufficiently patterned after Anglo-American models and used a written criminal code. 217 D. Foxton, Revolutionary Lawyers: Sinn Fein and Crown Courts in Ireland and Britain 1916-1923, Four Courts Pr Ltd, 2008, 23, 188, quoting A. Griffith’s, The Resurrection of Hungary, Dublin, 1907. 218 Reference to the circumstance found in J. Dorney, Policing Revolutionary Dublin 1919-1923, The Irish History, 21 June 2016, were it reads that “after the Truce, when the IRP [Irish Republican Police] could operate a little more openly, they handed over prisoners to Mountjoy Gaol [a prison in Dublin], including three Royal Air Force officers who had robbed a building site”. 219 B. Farrel, The Legislation of a “Revolutionary Assembly”: Dáil Decrees, 1919-1922, Irish Jurist, Vol. 10, n. 1 (Summer 1975), 112, at 121. 220 Reference found in M. Kotsonouris, Revolutionary Justice – the Dill Eireann Courts, History Ireland, issue 3, 1994. 221 Mary Kotsonouris, Retreat from the Revolution: The Dáil courts, 1920-24, Irish Academic Press, 1996, 81. The episode is also mentioned by D. Foxton, Revolutionary Lawyers, cit., p. 131, fn. 17. A personal account, with refer-

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The existence of the Dáil courts proved to be exemplary and includes structural difficulties: their sittings were initially broken-up and prison facilities were unavailability of (and the need to rely on “sanctions” as exile and the nowadays unacceptable practice of wiping). The courts pursued common legal values, supported by a class of learned jurists222, although the judiciary has been defined an “eclectic collection”223 and had a reputation for fairness which made them appealable among Republicans and also Unionist and not solely in the popular perception224; though their efficiency were partly overestimated225. The Dáil courts were in 1923 subject to a legislative “winding-up”226. The experience of the short lived Dáil courts went through their original activity as clandestine “rival courts” claiming fundamental authority, to their surfacing as court coexisting with crown courts, up to their abolition when remedies granted to uphold the rule of law became uncomfortable for the rulers in charge. A posthumous recognition of the courts came when wound up and in some later judgments taking note of their activity227. The said Courts changed in respect of the rationale of their legitimacy of origin, throughout their short life from the initial clandestine meetings, absent control over territory by the rebels, to the later public activity under the truce, apparently bridging posthumous recognition (eventually as a faculty of States upon a successful revolution doctrine) and de facto exercise of sovereign functions.

ence to correspondence and the text of the order mentioned in the text and dated July 25, 1922, can be found at the Bureau of Military History, Statement of witness WS-993, Justice Cahir Davitt, available at the following link: http://www.bureauofmilitaryhistory.ie/reels/bmh/BMH.WS0963.pdf#page=1. 222 Nevertheless, an analysis by T. Mohr, Irish Law Journals and the Emergence of the Irish State, 1916-22, Journal of European Periodical Studies, 3.1 (Summer 2018), 29-48, shows that the activity of the Dáil courts was largely ignored by Irish Law Journals even after the truce in 1921. 223 D. Foxton, Revolutionary Lawyers, cit., 190 and, in respect of the role of lawyers in the Irish National Movement, 21ff. 224 D. Foxton, Revolutionary Lawyers, cit., 191-2. 225 For a critical appraisal, See also, J. Westerweel, Nothing is settled ‘till it is settled right. Republican courts of law in Ireland during the Anglo-Irish War of 1919-1921, Master thesis Political Culture and National Identities, 2013, 73, holding that “… while the republican courts performed admirably and very successfully in some areas, in many others they did not … even with the most optimistic estimate the republican courts dealt with two-thirds of the caseload that was handled by British courts, thereby still being outperformed by these … In short, then, as legal institutions the republican courts cannot be considered a success” Available at the following link: https://openaccess.leidenuniv.nl/handle/1887/24912. 226 Reference is to the Dáil Eireann Courts (Winding-up) Act, 1923. The act contains provisions for the appointment of commissioners and their powers, the reference of civil issues, the stay of conflicting orders of other courts, the establishing a register of the decrees and provisions about the reopening of cases, indemnities and the exclusion of proceedings against the former judges. On the topic, See M. Kotsonouris, The Winding Up of the Dáil Courts, 1922-1925: an obvious duty, Four Courts Press, 2004. 227 Reference is to R. (Kelly) v. Maguire and O’Shiel [1923] 2 I.R. 58; and Irish Transport & General Workers Union v. Transport & General Workers Union [1936] I.R., 471. Further references in J. Casey, Republican Courts in Ireland 1919-1922, Irish Jurist, Vol 5, n. 2 (1979), 331.

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6. Conclusions. The subject matter of non-State jurisdiction is characterized by a chaotical naming of courts and tribunals and the impossibility to categorize the different jurisdictions based upon their denomination. The authority of non-State armed groups to set up courts in Non-international armed conflicts (NIACs) is not explicitly established under IHL. Recent decisions of domestic courts have sent different and opposing signals about the legitimacy of insurgent courts, whilst the International Criminal Court dealt with different situations allowing for the sighting of non-State jurisdictions – from the Central African Republic to Libya – but carefully avoiding qualifying them. On the other side, situations in which insurgents have established courts and put the delivering of judicial services and law and order on top of their agenda have inspired an interesting literature and several empirical studies. A current pragmatic approach to the issue of non-State courts requires to acknowledge their past, actual and future existence, regardless of the views of third parties228. In a similarly pragmatic fashion, the perception of insurgent justice as a mean to ensure or increase compliance with IHL exploits the aspiration of non-State parties to international recognition through their abidance to IHL229 and IHRL230; in such process attention is paid at how this role could be ameliorated through dialogue231. The ECtHR has developed its own legal pathway to assert the jurisdiction of States over contested territories under the control of non-recognized entities, developing a specific concept of attribution of the latter’s conduct to the State and residual “positive obligation” of States. In this conceptual horizon, courts established by non-State entities are, hypothetically, eligible to be considered as “established by law” under the Convention and eventually (would such court conform to the principles of the Convention) exclude or milder State’s positive obligation. The codified rules already acknowledge the attribution of (wrongful) conduct by individuals or groups carrying out official duties, to a State in situations mandating for such activity due to the default or absence of official authorities. Although, such attribution has been held to imply the denial of the “non-State quality” of the group exercising such official duties, the rule is an expression of the recognition of the “agency of necessity”; the principle applies to non-State actors in situations of State becoming weak and retracting; nor the attribution, as a mainly subsequent legal consequence, prevents the qualification of such actors as “non-State actors”. In such situations jurisdiction may be exercised within really small social compacts and communities. The footprint of non-State jurisdiction seems much wider than expected and supports the perhaps provocative conclusion that jurisdiction isn’t necessarily an expression of sovereignty,

228

In respect of insurgent courts, See S. Sivakumaran, Courts of Armed Opposition Groups. Fair Trials or Summary Justice?, cit., 512; J. Somer, Jungle justice: passing sentence on the equality of belligerents in non-international armed conflict, cit., 691. 229 For an early perspective, See N. Higgins, The Regulation of Armed Non-State Actors: Promoting the Application of the Laws of War to Conflicts Involving National Liberation Movements, Human Rights Brief 17, no. 1 (2009), 12ff. 230 At this purpose, See Hieran Jo, Compliant Rebels – Rebel Groups and International Law in World Politics, Cambridge, 2017. 231 J. Willms, Justice through Armed Groups’ Governance – An Oxymoron?, SFB-Governance Working Paper Series, No.40, Collaborative Research Center (SFB) 700, Berlin, October 2012.

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Focus

but rather an expression of governance of a territory and in essence not different from other official activities. Tribal courts in their legally most developed form – that of the “partitions” of non-Westphalian character of the third U.S. sovereign – could stand as inspirational and demonstrational model for non-State courts. The jurisprudence which followed the American civil war recognized the need to preserve society. It denied qualification of the Confederacy as a de facto government; nevertheless, distortions in the ex post and in the actual legal qualification of insurgencies are probably common features of almost all decisions by State judicatures confronting with the question. The U.S. Supreme Court developed the line of reasoning later relied upon, without quoting it, by the ICJ in its Advisory opinion on Namibia and the ECtHR since the Cyprus v. Turkey case. The said jurisprudence on the validity of acts adopted for the preservation of law and order and separate from the illegitimacy of “usurpers” and defined “in the negative” the principle of successful revolution. The said principle was applied to the effects of legislation and acts adopted thereof. According to the said jurisprudence, upon the failure of a government to establish itself permanently “all such acts perish with it” or as, happened after the civil war, it was up to the succeeding party to establish to what extent such acts were valid. On the opposite, if a government establish itself permanently and become recognized, its acts from the commencement of its existence are upheld as those of an independent nation. Nevertheless, the legal uncertainty determined by the undefined term within which a revolutionary government establish itself “permanently” and the fact that in contested territories unrecognized entities may operate for decades, determines the need to recognize from the beginning the validity of those judicial activity answering the needs of an organized society. The Privy Council decision in Madzimbamuto v. Lardner-Burke, while outlining the so called “implied mandate doctrine”, has expressed in a judicial decision the legal arguments to support le application mutatis mutandis of the regime of belligerent occupation to NIACs. Unfortunately, the said decision, as well as the U.S. Supreme Court jurisprudence, is mainly analyzed by scholarship when dealing with constitutional rather than international law. Finally, the legitimacy of non-State jurisdictions set up in successful rebellions, insurgencies and guerrillas, even in the absence of control over territory and population, has in certain cases been recognized ex post under domestic laws either implicitly, eventually as a matter of non punishment of certain conduct, or explicitly.

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