2020 1 Familia
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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
gennaio - febbraio 2020
D IRETTA DA SALVATORE PATTI Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA LA LETTURA DELLA CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE, SULLA NATURA ED I CRITERI FISSATI DA S.U. 18287/2018 RIGUARDO ALL’ASSEGNO DI DIVORZIO (NOTA A CASS. CIV., SEZ. I, 9 AGOSTO 2019, N. 21234) Tommaso Auletta
LA FAMIGLIA NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO: STRUMENTI DI TUTELA E LINEE EVOLUTIVE
Daniela Cardamone
QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA DISCIPLINA IN MATERIA DI DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO CONTENUTA NELL’ART. 4 DELLA LEGGE N. 219/2017 Gianluca Montanari Vergallo
Pacini
Indice Parte I Dottrina Daniela Cardamone, La famiglia nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: strumenti di tutela e linee evolutive............................................................................................................................ p.
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Gianluca Montanari Vergallo, Questioni di legittimità costituzionale della disciplina in materia di disposizioni anticipate di trattamento contenuta nell’art. 4 della legge n. 219/2017.............................» 23 Parte II Giurisprudenza Tommaso Auletta, La lettura della Cassazione, Prima Sezione, sulla natura ed i criteri fissati da S.U. 18287/2018 riguardo all’assegno di divorzio (nota a Cass. civ., sez. I, 9 agosto 2019, n. 21234).........» 45 Gianluca De Donno, Assegno divorzile e convivenza more uxorio (nota a nota a Trib. Torre Annunziata, sez. I, 8 maggio 2019)...............................................................................................................» 85 Marco Ramuschi, Su talune questioni ermeneutiche attorno allo status filiationis: segnatamente, sul riconoscimento testamentario di figlio nato fuori del matrimonio e sulla caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza postuma di figli (nota a Cass. civ., sez. II, 9 aprile 2019, n. 9905)..........................................................................................................................................................» 109 Marta Cenini, Divisione transattiva, transazione divisoria e accordi paradivisori (nota a Cass. civ., ord., sez. II, 22 marzo 2019, n. 8240).......................................................................................................» 151
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Daniela Cardamone
La famiglia nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: strumenti di tutela e linee evolutive* ** Sommario:
1. Applicazione degli strumenti interpretativi della Corte EDU al diritto di famiglia: la Convenzione come strumento vivente e il margine di apprezzamento; nozioni autonome e principio di proporzionalità. – 2. La tutela della famiglia nella giurisprudenza della Corte EDU. – 3. La nozione autonoma di famiglia nella giurisprudenza della Corte EDU. – 4. L’approccio della giurisprudenza della Corte EDU ai diritti “eticamente sensibili”. – 5. La tutela del preminente interesse del minore come strumento di interpretazione evolutiva della Convenzione. – 6. I diritti dei singoli a seguito della separazione e del divorzio. – 7. Conclusioni.
In the case-law of the European Court of Human Rights (ECtHR) the notion of family is an autonomous concept; whether or not “family life” exists is essentially a question of fact depending upon the real existence in practice of close personal ties. Paying attention to factual relationships, the ECtHR is open to family relationships other than those resulting from marriage. However, attention to the peculiarities of national constitutional traditions constrains this attitude of openness towards new models of family-relations. The margin of appreciation gives the flexibility needed to enable the ECtHR to balance the sovereignty of Member States with their obligations under the Convention. However, in family law, the ECtHR avoids any automatism between the existence of a consensus among the Member
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Il presente contributo costituisce la relazione, ampliata e corredata di note, presentata al Corso di Diritto Europeo svoltosi presso l’Università Federico II di Napoli in data 15 novembre 2019.
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States and a lesser extent of the margin of appreciation and it limits itself to providing protection to “additional rights” independently introduced by States
1. Applicazione degli strumenti interpretativi della Corte
EDU al diritto di famiglia: la Convenzione come strumento vivente e il margine di apprezzamento; nozioni autonome e principio di proporzionalità.
Il concetto di famiglia non si presta ad una definizione univoca in quanto la sua struttura e la sua fisionomia cambiano nel corso del tempo in funzione dei bisogni e degli interessi dei soggetti che la compongono; in quanto cellula primaria della società, essa vive in un ambito sociale e muta con il mutare della stessa, in un continuo evolversi degli schemi sociologici e giuridici. Anche dal punto di vista giuridico, quindi, oltre che sociale, la famiglia si pone quale entità variabile, di cui vanno di volta in volta indicate le caratteristiche1. Il dato normativo non offre una definizione univoca della nozione di famiglia, concetto che viene utilizzato dal legislatore talvolta in un’accezione più ristretta, per indicare i coniugi e i figli, talvolta più ampia, che ricomprende anche i parenti o affini, e, infine, in altri casi, in un significato ancora più ampio, che comprende anche i conviventi more uxorio e i loro figli nonché coloro che convivono nell’ambito di un medesimo nucleo familiare2. Anche la Costituzione, pur esprimendo una preferenza per la famiglia nucleare coniugale, fondata sul matrimonio e formata dai coniugi e dai figli legittimi, cui viene riservata una tutela più intensa rispetto ad ogni altra forma di convivenza3, contiene norme che tutelano anche la famiglia non fondata sul matrimonio4, distinguendo nettamente il piano dei rapporti tra i coniugi (art. 29 Cost.) da quello dei rapporti tra genitori, anche non sposati, e figli (art. 30 Cost.)5. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (di qui in poi “Convezione”) non contempla una nozione di “famiglia” ma, nel suo art. 8, indica il concetto del tutto polisemico di “vita familiare”. All’art. 12, la Convenzione tutela il diritto al matrimonio, definito quale diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, secondo le leggi nazionali che ne regolano
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Cfr. ex plurimis, S. Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1983, 77 ss.; L. Campagna, Famiglia legittima e famiglia adottiva, Milano 1966, 51 ss. Si pensi alla nozione di “famiglia anagrafica” data da “un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.” e che può essere costituita anche da una sola persona (art. 4 d.P.R. 30 maggio 1989 n. 223 “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”). P. Zatti, Trattato di diritto di famiglia, I, Milano, 2011, 1087; V. Scalisi, Studi sul diritto di famiglia, Milano, 2014, 10-21. M. Manetti, Famiglia e Costituzione: le nuove sfide del pluralismo delle morali, in AA.VV., Scritti in onore di Alessandro Pace, II, Napoli, 1590 ss. G. Piepoli, Realtà sociale e modello normativo nella tutela della famiglia di fatto, in Riv. Trim. dir. Proc. civ., 1972, 1446.
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l’esercizio; all’art. 5 del Protocollo 7, infine, sancisce il principio di parità tra i coniugi, i quali godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile. Nell’intento di rispondere alle esigenze di tutela che scaturiscono da una realtà sociale in continua evoluzione e di creare uno standard europeo di tutela della famiglia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (in seguito “Corte EDU”) opera un’interpretazione autonoma ed evolutiva del concetto di “vita familiare” contenuto nella Convenzione. La giurisprudenza della Corte EDU è in costante evoluzione in quanto la Convenzione è uno “strumento vivente”, cioè finalizzato ad adattarsi all’evolvere della società; l’analisi della sua giurisprudenza in tema di diritto di famiglia costituisce, pertanto, un interessante banco di prova delle principali tecniche di tutela e degli strumenti interpretativi del giudice europeo. Per comprendere con degli esempi concreti in che senso la Convenzione è uno strumento vivente che si adatta ai tempi, come dalla stessa Corte EDU venne definita per la prima volta nella sentenza Tyrer c. Regno Unito del 19786, si pensi che, anche se le parole in essa contenute rimangono invariate, è il loro significato che cambia ed evolve costantemente; la Convenzione è redatta sulla base di clausole generali che, in quanto tali, possono assumere, attraverso l’interpretazione, un significato al passo con i tempi e con l’evolvere dei costumi sociali. Il caso concreto della sentenza Tyrer è, in tal senso, emblematico perché dà conto di come, ad esempio, il significato di ciò che è “disumano” è profondamente mutato nel corso degli anni. I giudici affrontarono, infatti, il tema delle punizioni corporali per i minori, le quali erano considerate un elemento necessario dell’educazione negli anni ’50, mentre, attualmente, sono considerate un “trattamento disumano” contrario alla Convenzione. Si pensi anche, ad esempio, al concetto di eguaglianza tra i coniugi, che negli anni ’50 non era attuato nella pratica, in quanto diverse norme in quasi tutti gli Stati membri trattavano differentemente la donna senza essere messe in discussione, e che oggi assume un significato in gran parte diverso. Oggi, infatti, la Corte EDU è giunta ad affermare che il singolo, una volta instaurato il legame di coppia, gode del diritto all’uguaglianza con il partner. In tal senso, significativa è la giurisprudenza in materia di scelta del cognome familiare, la quale ha ritenuto contrarie agli artt. 8 e 14 della Convenzione le normative nazionali che impediscono alla coppia di scegliere il cognome della moglie come cognome familiare, precludendo al marito7 o ai figli8 l’acquisizione del cognome della madre, oppure che vietano alla donna di mantenere il cognome di nubile dopo il matrimonio, pur in presenza della concorde volontà dei coniugi9. In particolare, la Corte EDU ha affer-
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Tyrer c. Regno Unito, 25.4.1978, ric. n. 5856/1972: “The Court must also recall that the Convention is a living instrument, which, as the Commission rightly stressed, must be interpreted in the light of present-day conditions”. Burghartz c. Svizzera, 22.2.1994, ric. n. 16213/90. Cusan e Fazzo c. Italia, 7.1.2014, ric. n. 77/07 Unal Tekeli c. Turchia, 16.11.2004, ric. n. 29865/96; Leventoğlu Abdulkadiroğlu c. Turchia, 28.3.2013, ric. n. 7971/07.
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mato che l’obiettivo di tutelare l’unità familiare non deve essere tutelato necessariamente mediante l’imposizione del cognome maritale10 ma può essere adeguatamente garantito anche tutelando il diritto dei coniugi di scegliere il cognome11. La Corte EDU, alla quale è assegnato in via esclusiva il compito di interpretare la Convenzione (art. 32 della Convenzione), svolge il suo ruolo in modo da assicurare non solo la salvaguardia dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione ma anche il loro sviluppo ed il loro adeguarsi ad un contesto sociale in costante evoluzione. La Convenzione quale strumento vivente risponde ad un principio fondamentale in tema di diritti umani, che è quello della massimizzazione delle tutele. Questo significa che la tutela offerta dalla Convenzione non esclude che, a livello nazionale, possa essere garantita una protezione più intensa di un medesimo diritto, come sancito espressamente dall’art. 53 della Convenzione. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, con la formale integrazione della Convenzione nel diritto dell’Unione Europea e con la equiparazione, quanto a forza giuridica, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ai Trattati, il procedimento di reciproca influenza tra livello nazionale ed internazionale si è arricchito, nell’ambito di quello che costituisce ormai un “sistema multilivello” di protezione dei diritti fondamentali; infatti, anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea contiene nel proprio art. 53 una diposizione equivalente all’art. 53 della Convenzione, in un contesto che, quindi, è proteso alla sempre più estesa protezione dei diritti fondamentali. Nell’ambito di tale contesto, in cui gli ordinamenti interni e quelli internazionali sono tra di loro complementari, viene in rilievo un’altra importante teoria, quella del margine di apprezzamento che consiste in una discrezionalità accordata agli Stati nell’applicare gli standard convenzionali, per tenere conto delle peculiarità di ciascun contesto nazionale12. Tale metodo interpretativo rappresenta il self restraint della Corte EDU, ovvero un limite che la Corte pone a sé stessa, nel non volersi sostituire alle autorità nazionali, le quali, in base al principio di sussidiarietà, essendo più vicine alla realtà giuridica, sociale ed economica dei singoli Stati, sono nella migliore posizione per compiere le scelte necessarie e per individuare gli strumenti più adatti per garantire i diritti fondamentali; la Corte EDU si riserva un controllo “esterno” nel valutare se le misure poste in essere dagli Stati per garantire, disciplinare, limitare i diritti fondamentali siano “proporzionate”. Il principio di proporzionalità rappresenta un importante correttivo della dottrina del margine di apprezzamento in quanto impone agli Stati di perseguire i propri obiettivi di interesse generale
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Cusan e Fazzo c. Italia, ric. n. 77/07, cit. Bijleveld c. Paesi Bassi (dec.), 27.4.2000, ric. n. 42973/98; G.M.B. e K.M. c. Svizzera (dec.), 27.9.2001, ric. n. 36797/97: casi in cui la Corte EDU ha stabilito che è contrario all’art. 8 della Convenzione il rifiuto di registrare i figli con il cognome della madre qualora sia oggetto di una scelta della coppia. 12 Il primo caso nel quale è stata teorizzata tale dottrina è Handyside c. Regno Unito, 7.2.1976, ric. n. 5493/1972, parr. 48-50. Per approfondimenti: C.C. Morrisson, Margin of appreciation in European human rights law?, in Revue des droits de l’homme, v. 6, 263286, Paris, 1973; T. O’Donnell, The margin of appreciation doctrine: standards in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Human rights quarterly, vol. 4, n. 4 (1982), 474-496, 1982; J. Kratochvil, The inflation of the margin of appreciation by the European Court of Human Rights, in Netherlands quarterly of human rights, vol. 29, no. 3, 2011, 324-357. 11
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in maniera adeguata al fine e, il più possibile, rispettosa delle prerogative dei singoli. Tale principio viene in rilevo nella interpretazione ed applicazione di quelle disposizioni della Convenzione e dei Protocolli (ad es. gli articoli da 8 ad 11) le quali, nei loro “secondi paragrafi”, prevedono la possibilità per gli Stati di limitare i diritti protetti in funzione della tutela di esigenze indicate dalla stessa Convenzione, purché ciò sia “necessario in una società democratica”. Per stabilire se una determinata misura, che, in quanto limita il godimento di un diritto, costituisce appunto una “ingerenza”, sia o meno “necessaria” in una società democratica, la Corte EDU fa riferimento al margine di apprezzamento, cioè a quel margine di discrezionalità accordato agli Stati a livello normativo, giudiziario, amministrativo. Il principio di proporzionalità dell’ingerenza è, dunque, un concetto cardine nell’ambito della giurisprudenza della Corte EDU. Tale concetto è stato utilizzato per la prima volta a proposito del diritto alla libertà di espressione di cui all’art. 10 della Convenzione, il cui secondo paragrafo subordina, appunto, la legittimità convenzionale delle misure adottate dagli Stati per limitare e disciplinare tale libertà al rispetto del requisito della “necessità”, in una società democratica, di perseguire le finalità di volta in volta indicate da tali disposizioni limitative del diritto. Un’altra tecnica interpretativa, mediante la quale la Corte EDU ritaglia il suo spazio di manovra nell’esercitare il sindacato di conformità alla Convenzione, è quella delle “nozioni autonome” delle espressioni tecnico-giuridiche utilizzate dai sistemi giuridici nazionali, allo scopo di estendere gli standards di tutela convenzionali anche a situazioni giuridiche soggettive le quali resterebbero escluse da tale tutela solo in base alla qualificazione formale datane a livello nazionale (sono note, ad esempio, le nozioni autonome di “pena”, di “privazione della libertà”, di “tribunale” di “legge”). Le nozioni autonome rispondono anche all’esigenza di assicurare un’interpretazione uniforme degli obblighi assunti dagli Stati con la ratifica della Convenzione, la quale verrebbe necessariamente meno se la Corte EDU interpretasse le nozioni giuridiche con riferimento al diritto interno dei singoli Stati. A tale tendenza unificatrice – la quale ha come scopo quello di assicurare, o almeno di tendere ad assicurare, una protezione minima dei diritti sanciti dalla Convenzione in tutti gli Stati membri – fa da contraltare il margine di apprezzamento che, invece, tende a preservare le differenze tra i sistemi giuridici interni. Il margine di apprezzamento, come chiarito dalla stessa Corte EDU13, varia a seconda delle circostanze, del contesto e della materia di cui si tratta, il che ne fa un concetto alquanto vago e dai contorni imprecisi; tale incertezza è accentuata dal fatto che esistono nella stessa giurisprudenza della Corte EDU molte divergenze in merito agli elementi che fondano il margine di apprezzamento delle autorità nazionali14.
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Rasmussen c. Danimarca, 28.11.1984, ric. n. 8777/79, par. 40. G. Van Der Meersch, Le caractère autonome des termes et la marge d’appréciation des gouvernements dans l’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme, Mélanges en l’honneur de G.J. Wiarda, Cologne, 1988, 208.
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L’ampiezza del margine di apprezzamento è condizionata anche dal consensus che, anche se non è stato mai definito dalla Corte EDU, può essere inteso quale approccio comune europeo alla risoluzione di determinate questioni giuridiche e pratiche e quale strumento posto al servizio della interpretazione evolutiva della Convenzione. Tanto più ampio sarà il consensus raggiunto a livello europeo, tanto minore sarà, tendenzialmente, il margine di apprezzamento di ciascuno Stato. Si tratta, come già detto, di un concetto mutevole tanto è vero che, anche qualora, a seguito di una analisi comparata dei sistemi giuridici degli Stati membri, emerga che un determinato diritto è quasi unanimemente riconosciuto, ciò non implica necessariamente che un altro Stato sia obbligato a riconoscerlo a sua volta; tale aspetto, come si vedrà, è particolarmente ricorrente nell’ambito del diritto di famiglia dove la Corte EDU accorda agli Stati un margine di apprezzamento abbastanza ampio. A tal proposito, appare utile fare subito alcuni esempi concreti per comprendere il particolare modo di calibrarsi del margine di apprezzamento e del consensus nella materia del diritto di famiglia. Nel celebre caso Marckx15 la Corte di Strasburgo ha ritenuto che, sotto l’aspetto giuridico, l’assimilazione della filiazione naturale a quella legittima corrispondeva a una tendenza del diritto interno “della grande maggioranza degli Stati del Consiglio d’Europa” ed ha, quindi, sancito il principio della piena equiparazione dei figli legittimi a quelli naturali. In un altro caso16, nel quale veniva in rilievo il regime danese delle azioni di disconoscimento di paternità, la Corte ha osservato che “la presenza o l’assenza di un denominatore comune al sistema giuridico degli Stati contraenti può costituire un fattore pertinente” per misurare l’estensione del margine di apprezzamento del quale beneficiano, secondo le circostanze, il settore e il contesto, determinati Stati. La Corte EDU, in questo campo, si muove con cautela, come rivela l’uso del verbo “può”. Invero, nel diritto di famiglia, in generale, il giudice europeo rifugge qualsiasi automatismo tra l’esistenza di una tendenza maggioritaria nell’ambito dei diritti nazionali e la minore ampiezza del margine di apprezzamento perché un tale automatismo produrrebbe l’effetto di annullare il pluralismo giuridico che, in definitiva, fa parte del patrimonio culturale europeo. In più occasioni la Corte EDU, ad esempio, in tema di matrimonio, ha affermato: “Tuttavia, il fatto che un Paese occupi, in seguito ad una graduale evoluzione, una situazione isolata relativamente ad un aspetto della sua legislazione, non implica necessariamente che tale aspetto sia contrario alla Convenzione, soprattutto in un campo – il matrimonio – così strettamente legato alle tradizioni storiche e culturali di ogni società e alle concezioni profonde di quest’ultima sulla cellula familiare”17.
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Marckx c. Belgio, 13.6.1975, ric. n. 6833/1974. Rasmussen c. Danimarca, 28.11.1984, ric. n. 8777/79, par. 40 17 F. c. Svizzera, 18.12.1987, ric. 11329/85, par. 33; A.B.C. c. Irlanda, 16.12.2010, n. 25579, par. 237. 16
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Analogamente, in tema di interruzione volontaria di gravidanza, la Corte EDU, nel caso A. B. e C. c. Irlanda del 201018, ha affermato che l’esistenza nella maggioranza di Stati membri del Consiglio d’Europa di un consensus in favore dell’autorizzazione all’aborto per motivi più ampi rispetto a quelli previsti dal diritto irlandese non implica che il margine di apprezzamento dello Stato nella materia sia decisamente ridotto (“il consensus constatato non riduce in maniera decisiva l’ampio margine di apprezzamento spettante allo Stato”). Da questi esempi si può desumere che, in tema di diritto di famiglia, l’inclusione in via giurisprudenziale di ulteriori diritti nel testo convenzionale non scaturisce necessariamente dall’esistenza di un consensus europeo, desunto dall’analisi comparata degli ordinamenti degli Stati contraenti. Se è vero che il margine di apprezzamento accordato a ciascuno Stato non sempre può essere limitato, neanche a seguito del raggiungimento di un consensus a livello europeo, appare allora legittimo domandarsi come può la Corte EDU svolgere il suo compito di assicurare non solo la salvaguardia dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione ma anche il loro sviluppo ed il loro adeguarsi ad un contesto sociale in costante evoluzione e di garantire copertura convenzionale a istanze di tutela di diritti non sanciti dalla Convenzione stessa. L’analisi della giurisprudenza della Corte EDU disvela, come di qui a poco si vedrà, che uno degli strumenti interpretativi adottati a tal fine è quello della tutela dei “diritti addizionali” che sta a significare che, laddove la stessa non ritenga di poter fornire di copertura convenzionale un determinato diritto (es. di divorziare , di abortire, di adottare ecc.), nemmeno mediante una interpretazione estensiva della Convenzione, essa impone agli Stati – che autonomamente scelgano di riconoscere un diritto – di garantirne il godimento senza restrizioni irragionevoli o discriminatorie. In tal modo, la Corte EDU fornisce di “copertura convenzionale” tali ulteriori diritti, pur senza invadere il campo del margine di apprezzamento degli Stati in materie considerate eticamente sensibili. La Corte EDU ha raggiunto questo risultato mediante l’applicazione dell’art. 14 della Convenzione, che sancisce il divieto di discriminazione, ed ha affermato che, una volta che uno Stato decida autonomamente di garantire un diritto non previsto originariamente dalla Convenzione, ha l’obbligo di farlo in maniera non discriminatoria. In particolare, ha costantemente affermato che l’art. 14 della Convenzione non ha valore autonomo ma integra le altre disposizioni sostanziali della Convenzione e dei suoi Protocolli ed ha effetto esclusivamente in relazione al “godimento dei diritti e delle libertà” tutelate da tali disposizioni19. L’applicazione dell’articolo 14 non presuppone, però, necessariamente la violazione di uno dei diritti sostanziali protetti dalla Convenzione ma richiede, quale condizione necessaria e sufficiente, che la fattispecie concreta rientri “nell’ambito” di uno o più degli
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A.B.C. c. Irlanda, 16.12.2010, ric. n. 25579. Sahin c. Germania [GC], 8.7.2003, ric. n. 30943/96, par. 85.
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articoli della Convenzione20. Quindi, per la Corte EDU, il divieto di discriminazione sancito dall’articolo 14 si estende oltre il godimento dei diritti e delle libertà previsti dalla Convenzione e dai suoi protocolli fino a ricomprendere altri “diritti aggiuntivi”, che rientrano nell’ambito generale di qualsiasi articolo della Convenzione, che lo Stato membro abbia volontariamente deciso di tutelare21.
2. La tutela della famiglia nella giurisprudenza della Corte EDU.
Per quanto riguarda il tema specifico della famiglia nella Convenzione, vengono in rilievo prevalentemente gli artt. 8 e 12, che sanciscono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. I diritti sanciti dagli articoli 8 e 12 della Convenzione non sono assoluti ma possono essere limitati in base alla legge quando ciò sia “necessario in una società democratica” per perseguire le finalità d’interesse generale enumerate dall’art. 8, par. 2 della Convenzione; gli Stati, inoltre, sono competenti a disciplinare il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (art. 12 Cedu)22. Nel disciplinare tali diritti e le relative limitazioni, gli Stati godono, come si è detto, di un margine di apprezzamento, necessario per tenere conto delle peculiarità di ciascun contesto nazionale, purché sia rispettato il principio di proporzionalità che rappresenta un correttivo di tale dottrina e che impone loro di perseguire i propri obiettivi di interesse generale in maniera adeguata ai fini legittimi previsti dalla Convenzione. Inoltre, la Corte EDU, oltre a sindacare la conformità delle misure statali di “ingerenza” al principio di proporzionalità, ha elaborato anche degli specifici «obblighi positivi» a carico degli Stati, tenuti ad adottare misure di promozione della vita privata e familiare e a proteggere tale sfera da aggressioni da parte di altri soggetti. Un altro aspetto che viene in rilevo dall’analisi degli articoli 8 e 12 della Convenzione è la peculiarità della idea di famiglia quale incentrata essenzialmente sulla sfera di autonomia ed autodeterminazione della singola persona e, quindi, sulla protezione dei suoi singoli componenti, più che della cellula familiare in quanto tale; si tratta di una conce-
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Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28.5.1985, ric. n. 9214/80 e altri, par. 71; Karlheinz Schmidt c. Germania, 18.7.1994, ric. n. 13580/88, par. 22; Petrovic c. Austria, 27.3.1998, ric. n. 20458/92, par. 22. 21 Si veda E.B. c. Francia (GC), 22.1.2008, ric. n. 43546/02, par. 47, in tema di adozione di minori da parte di coppie dello stesso sesso: “The application of Article 14 does not necessarily presuppose the violation of one of the substantive rights protected by the Convention. It is necessary but it is also sufficient for the facts of the case to fall ‘within the ambit’ of one or more of the Articles of the Convention”. Si veda anche: Caso “relativo a determinati aspetti delle leggi sull’uso delle lingue nell’istruzione in Belgio” contro Belgio (merito), 23.7.1968, ric. 1474/62 e altri, par. 9; Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, 28.5.1985, ric. n. 9214/80 e altri, par. 78; e Stec e altri c. Regno Unito (dec.) [GC], 12.4.2006, ric. nn. 65731/01 e 65900/01, par. 40. 22 Rees c. Regno Unito, 17 ottobre 1986, ric. n. 9532/81.
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zione di vita familiare del tutto in linea con l’idea di fondo del sistema convenzionale di protezione dei diritti fondamentali che mette al suo centro l’individuo, con i suoi interessi, le sue aspirazioni e le sue esigenze di tutela.
3. La nozione autonoma di famiglia nella giurisprudenza della Corte EDU.
Nelle pronunzie della Corte EDU è di particolare interesse l’individuazione della nozione di «famiglia» meritevole di tutela; l’analisi delle sentenze mette in luce il fondamento fattuale di tale nozione intesa come esistenza di “stretti legami personali” e di condotte che sono ritenute tipiche della famiglia23. Il concetto di famiglia di cui all’articolo 8 della Convenzione riguarda le relazioni basate sul matrimonio ed anche altri legami familiari de facto, in cui le parti convivono al di fuori del matrimonio o in cui altri fattori dimostrano che la relazione è sufficientemente stabile24. Sono stati, quindi, ritenuti caratterizzanti taluni elementi fattuali quali la durata della relazione, la coabitazione, la solidarietà materiale25 e l’accudimento continuato dell’adulto nei confronti di un minore26. La Corte EDU ha interpretato evolutivamente la nozione di «vita familiare» di cui all’art. 8 della Convenzione, valorizzando il legame di fatto tra i suoi componenti, allo scopo di fornire tutela a nuove situazioni giuridiche soggettive; nel concetto di «vita familiare» è stato quindi ricompreso, oltre al rapporto di coniugio27, anche il legame di fatto tra persone di sesso diverso28 e, più recentemente, anche la relazione tra persone dello stesso sesso, sia di fatto29 sia sotto forma di unione civile30. Ciò non significa, però, che nella giurisprudenza della Corte EDU sia stata sancita una totale equiparazione tra status e diritti dei conviventi o partner di unioni civili rispetto ai coniugi uniti in matrimonio. La Corte EDU ha, infatti, anche costantemente affermato che l’art. 12 della Convenzione, pur garantendo la libertà negativa di non sposarsi, non assicu-
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Marckx c. Belgio, 13 giugno 1979, par. 31, serie A n. 31; J. Long, Il diritto italiano della famiglia e minorile alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Europa e Diritto Privato, fasc. 4, 2016, 1059. 24 Kroon e altri c. Paesi Bassi, 27.10.1994, par. 30; Johnston e altri c. Irlanda, 18.12.1986, par. 55; Keegan c. Irlanda, 26.5.1994, par. 44; e X, Y e Z c. Regno Unito, 22.4.1997, par. 36. 25 Vallianatos e altri c. Grecia, 7.11.2013, ric. n. 29381/09 e n. 32684/09, par. 73. 26 Moretti e Benedetti c. Italia, 27.4.2010, ric. n. 16318/07, par. 50-52. 27 Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito n. 9214/80 ed altri 28.5.1985; Beldjoudi c. Francia, 26.3.1992, ric. n. 12083/86. 28 Marckx c. Belgio, cit.; Kroon e altri c. Paesi Bassi, 27.10.1994, ric. n. 18535/91; Keegan c. Irlanda, 26.5.1994, ric. n. 16969/90. 29 Schalk e Kopf c. Austria, 24 giugno 2010, ric. n. 30141/04; Vallianatos c. Grecia [GC], ricc. nn. 29381/09 e altri, 7 novembre 2013. 30 Orlandi e altri c. Italia, 14 dicembre 2017, ricc. nn. 26431/12 e altri; V. Scalisi, Studi sul diritto di famiglia, cit., 36 e ss.
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ra alle coppie che compiano tale scelta il diritto di godere degli stessi diritti delle coppie sposate31. Conseguentemente, è stato riconosciuto agli Stati contraenti la facoltà di accordare una piena tutela delle situazioni giuridiche soggettive alle sole coppie unite in matrimonio, affermando che l’art. 8 della Convenzione non impone agli Stati di attribuire alle coppie di fatto uno status giuridico pari a quello delle coppie coniugate. Sono state, pertanto, giudicate pienamente conformi alla Convenzione le differenze di trattamento relative al godimento di determinati diritti patrimoniali e/o previdenziali, riservati alle coppie sposate (es. in materia di benefici previdenziali32, di diritto alla pensione per i superstiti33, di diritto di abitazione della casa familiare34). Di segno diverso è stata, invece, l’evoluzione in tema di unioni tra persone dello stesso sesso per le quali, a differenza delle coppie eterosessuali, spesso, la decisione di non contrarre matrimonio è una conseguenza non di una libera scelta ma della inesistenza di un quadro giuridico che consenta il matrimonio o le unioni civili a tali coppie. In particolare, la Corte EDU, in virtù dell’ampio margine di apprezzamento che, come si è visto, è riconosciuto nella disciplina dell’istituto del matrimonio agli Stati contraenti, non ha riscontrato alcuna contrarietà agli artt. 8 e 12 della Convenzione nell’impossibilità, per le persone omosessuali, di accedere al matrimonio35 o all’unione civile36. Successivamente, la Corte EDU, pur ribadendo che la Convenzione non impone agli Stati di consentire alle coppie dello stesso sesso di contrarre matrimonio né di riconoscere il matrimonio contratto dalle coppie omosessuali all’estero, ha ritenuto contraria all’art. 8 della Convenzione la totale assenza di riconoscimento giuridico dell’unione tra persone dello stesso sesso37. L’Italia è stata condannata, nel 2015 e nel 2017, per non avere predisposto (prima dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 20 maggio 2016) alcun quadro normativo di tutela delle coppie di persone dello stesso sesso, inibendo, di conseguenza, anche il rico-
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Marckx c. Belgio, cit., par. 67; Commissione europea dei diritti dell’uomo, 15 marzo 1984, B, R e J c. Repubblica Federale Tedesca, ric. n. 9639/82. 32 Commissione europea dei diritti dell’uomo, 30 agosto 1993, G.A.B. c. Spagna, ric. n. 21173/93; 4 marzo 1998, Quintana Zapata c. Spagna, ric. n. 34615/97. 33 Şerife Yiğit c. Turchia, 2.11.2010, ric. n. 3976/05. 34 Saucedo Gómez c. Spagna (dec.), 26.1.1999, ric. n. 37784/97. 35 Shalk e Kopf c. Austria, cit., par. 58-63; Gas e Dubois c. Francia, 15 marzo 2012, ric. n. 25951/07, par. 66; Hämäläinen c. Finlandia [GC], 16 luglio 2014, ric. n. 37359/09, par. 96; Oliari e altri c. Italia, 21 luglio 2015, ricc. nn. 18766/11 e altri, par. 192-194; Chapin et Charpentier c. Francia, 9 giugno 2016, ric. n. 40183/07, par. 36-40 e 48-52. 36 Shalk e Kopf c. Austria, cit. in tema di unioni civili registrate. 37 Sul tema: C. Ragni, L’influenza della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sullo sviluppo del diritto dell’UE in materia di trattamento delle coppie omosessuali, in AA.VV., La protezione dei diritti fondamentali. Carta dei diritti UE e standards internazionali, a cura di L.S. Rossi, Napoli, 2011, 233 ss.; E. Crivelli, La tutela dell’orientamento sessuale nella giurisprudenza interna ed europea, Napoli, 2011; L. Poli, Adozione co-parentale da parte di coppie omosessuali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: un progresso nella tutela delle famiglie omo-genitoriali, con uno sguardo miope rispetto all’interesse superiore del minore, in Giur. it., 8-9/2013, 1764 ss.
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noscimento delle relazioni costituite all’estero (sentenze Oliari e altri c. Italia e Olivieri e altri c. Italia38). In particolare, nella sentenza Oliari e altri la Corte EDU ha condannato l’Italia per la violazione del diritto di alcune coppie omosessuali al rispetto della vita familiare in ragione della mancanza di un riconoscimento giuridico e dell’inadeguata tutela delle relazioni di coppia tra partner dello stesso sesso in Italia. Secondo i giudici di Strasburgo, i ricorrenti non avevano, infatti, alcuna possibilità di «accesso a uno specifico quadro giuridico (...) in grado di permettere il riconoscimento del loro status e garantire loro alcuni diritti relativi a una coppia che ha una relazione stabile» e ciò in considerazione, da un lato, della loro esclusione dal matrimonio e dell’inesistenza in Italia di forme di unione civile o registrata e, dall’altro, dalla carenza e incertezza della tutela garantita dalla legge e dalla giurisprudenza alle convivenze di fatto. La Corte EDU ha, quindi, stigmatizzato il sistema giuridico italiano, sia sotto il profilo della esclusione delle coppie omosessuali da qualunque riconoscimento giuridico dello status di coppia, mediante matrimonio o unione civile o registrata, sia sotto il profilo della insufficiente tutela offerta dal diritto vivente alle unioni omosessuali39. Secondo la più recente giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 8 della Convenzione, pertanto, fermo restando il margine di apprezzamento degli Stati nella materia del matrimonio e, quindi, la non imposizione agli Stati del matrimonio tra persone dello stesso sesso, i componenti della coppia omosessuale godono di un diritto al riconoscimento giuridico della propria unione. Nell’ambito della valorizzazione dei legami stabili e duraturi, anche diversi da quelli che derivano dai rapporti di coniugio e/o di filiazione tradizionali, la Corte EDU ha incluso nella nozione di famiglia e di “vita familiare” anche rapporti ulteriori rispetto a quelli costitutivi della famiglia nucleare, quali, ad esempio, la parentela tra nonni e nipoti40. I giudici europei, infatti, dopo aver affermato l’applicazione dell’art. 8 della CEDU sulla tutela della vita familiare anche ai rapporti con i nonni41, sono giunti successivamente, in via interpretativa, ad affermare una quasi totale parificazione fra il diritto del genitore e quello degli ascendenti, che rientra a pieno titolo nello spettro del diritto al rispetto della vita privata e familiare e impone agli Stati di adottare le azioni positive che consentano di attuare tempestivamente i provvedimenti giudiziari adottati a tal fine42.
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Oliari e altri c. Italia, 21.7.2015, ric. n. 18766/11 e n. 36030/11; Orlandi e altri c. Italia, 14.12.2017, ric. nn. 26431/12; 26742/12; 44057/12 e 60088/12. 39 La recente legge n. 76 del 2016 ha sanato il vulnus individuato dalla sentenza Oliari consistente nella mancanza nell’ordinamento italiano di un riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso, cui il matrimonio continua a essere precluso. La nuova legge istituisce infatti l’«unione civile tra persone dello stesso sesso» (art. 1 co. 1), disciplinando poi in modo organico lo status conseguente alla celebrazione di tale unione (art. 1 co. 10-33). 40 Bronda c. Italia, 9.6.1998, n. 22430/93; Pla e Puncernau c. Andorra, 13.7.2004, ric. n. 69498/01. 41 Nella citata sent. Bronda c. Italia. 42 Con la sentenza del 20 gennaio 2015 nel caso Manuello e Nevi c. Italia, 20.1.2015, ric. n. 107/10 l’Italia è stata condannata per la mancata protratta concessione del diritto di visita ai nonni e ciò senza utilizzare come parametro il superiore interesse del minore
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4. L’approccio della giurisprudenza della Corte EDU ai diritti “eticamente sensibili”.
Tale approccio estensivo non si registra, invece, con riferimento ad alcuni temi quali l’adozione, la procreazione medicalmente assistita, la surrogazione di maternità, che vengono in rilievo quando i soggetti, a causa della infertilità o per altri motivi, desiderano realizzare la genitorialità in altro modo. La Corte EDU fa rientrare i diritti riproduttivi del singolo non nell’ambito della tutela della “vita familiare” bensì in quello di “vita privata” che, appunto, ricomprende il diritto allo sviluppo della persona e il diritto di avere o non avere figli43. Per quanto riguarda l’adozione, il diritto di adottare non è garantito dalla Convenzione e, quindi, in linea di principio, non sono sindacabili le condizioni per l’adozione previste dal diritto interno, quali ad esempio, il garantire il diritto di adottare solo alle coppie e non anche ai celibi44. Il rispetto per il margine di apprezzamento degli Stati, dunque, in queste materie è molto accentuato; la Corte EDU non si spinge fino al punto di imporre agli Stati di garantire il diritto di adottare ma, secondo la tecnica dei “diritti addizionali”, qualora uno Stato membro abbia legittimato l’adozione, il quadro normativo di riferimento non deve essere discriminatorio perché, altrimenti, sarebbe contrario all’art. 14 della Convenzione. Quindi, ad esempio, l’esame della domanda di adozione deve essere equo e non discriminatorio e deve garantire l’effettivo godimento di questo diritto a tutte le persone legittimate senza discriminazioni45. Analogamente, non rientra nella tutela convenzionale l’adozione co-parentale (stepchild adoption) da parte delle coppie di fatto46 ma, qualora uno Stato si determini autonomamente a garantire tale adozione, l’accesso all’istituto deve essere non discriminatorio e garantito alle coppie di fatto sia eterosessuali, sia omosessuali, pena la realizzazione di una discriminazione in base all’orientamento sessuale, vietata dagli artt. 8 e 14 della Convenzione47.
bensì sulla base della valutazione autonoma del diritto dei nonni. Secondo la Corte di Strasburgo, il diritto al rispetto della vita privata e familiare comprende anche la necessità di assicurare ai nonni la possibilità di avere una relazione stabile con i nipoti e ciò mediante azioni positive che consentano di attuare tempestivamente i provvedimenti giudiziari adottati a tal fine. 43 Evans c. Regno Unito [GC], 10.4.2007, ric. n. 6339/05, par. 71. 44 Commissione europea dei diritti dell’Uomo, 10.7.1997, Di Lazzaro c. Italia, ric. n. 31924/96, sul diniego di adozione legittimante da parte del single; A.H. e altri c. Russia, 17.1.2017, ric. nn. 6033/13 e altri, par. 379. 45 A.H. e altri c. Russia, 17.1.2017, ric. nn. 6033/13 e altri, par. 412 ss.; E.B. c. Francia, 22.1.2008 [GC], ric. n. 43546/02, sul diniego di autorizzazione all’adozione opposto a una donna – convivente con una partner dello stesso sesso – a causa dell’assenza di una figura paterna nel nucleo familiare; Schwizgebel c. Svizzera, 10.6.2010, ric. n. 25762/07, dove è stato ritenuto non discriminatorio il diniego di adozione nei confronti di una persona single in ragione della sua età. 46 X. ed altri c. Austria [GC], 19.2.2013, ric. n. 19101/07, par. 136; Gas and Dubois c. Francia, 15.3.2012, ric. n. 25951/07, par. 66-69; Emonet e altri c. Svizzera, 13.12.2007, ric. n. 39051/03, par. 79-88. 47 X. ed altri c. Austria [GC], 19.2.2013, ric. n. 19101/07, cit.
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Per quanto riguarda le tecniche di procreazione medicalmente assistita, in linea di principio, rientra nella nozione di “vita privata e familiare” il diritto di diventare genitori in senso genetico48 e il diritto di una coppia di concepire un figlio e di fare uso della procreazione medicalmente assistita a tale scopo49. La Corte EDU, ad esempio, ha affermato la violazione dell’art. 8 Cedu a causa del divieto, di cui alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, di effettuare la diagnosi pre-impianto sugli embrioni, al fine di verificare la sussistenza di gravi patologie, ritenendo detta proibizione incoerente rispetto alla possibilità offerta dalla legislazione italiana di interrompere la gravidanza, a fronte del riscontro delle medesime patologie nell’embrione50. In tema di fecondazione eterologa, la Corte EDU ha ritenuto che, in assenza di consensus tra gli Stati contraenti e stante la conseguente ampiezza del margine di apprezzamento delle autorità nazionali, costituisce un’ingerenza non sproporzionata nel diritto al rispetto della vita privata e familiare la scelta di uno Stato di permettere la fecondazione omologa in vitro e la fecondazione eterologa (con sperma di un donatore) in vivo, ma di vietare sia la fecondazione eterologa in vitro, sia la donazione di ovuli51. In tema di surrogazione di maternità, la cautela della Corte EDU nel non invadere lo spazio riservato agli Stati dall’ampio margine di apprezzamento nella materia si è tradotta nel rifiuto di riconoscere un diritto del singolo o della coppia di realizzare il progetto genitoriale tramite tale pratica. Quindi, ad esempio, la Corte EDU ha escluso che sussista una «vita familiare» tra i genitori intenzionali e un minore nato all’estero mediante surrogazione di maternità, poi allontanato dalla coppia dalle autorità nazionali italiane. I giudici europei hanno ritenuto, in particolare, che l’assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori, la breve durata della relazione con il minore e l’incertezza dei legami dal punto di vista giuridico giustificassero l’inquadramento della vicenda nell’ambito di una forma di ingerenza nella “vita privata” – e non familiare – dei genitori intenzionali; inoltre, è stato ritenuto che tale ingerenza fosse proporzionata sulla base dei motivi addotti dalle autorità nazionali per disporre l’allontanamento del bambino dalla coppia, quali la situazione del minore e l’illegalità della condotta dei genitori intenzionali, che erano ricorsi a una pratica – la surrogazione di maternità – vietata e penalmente sanzionata nell’ordinamento interno52. Inoltre, la Corte EDU ha ritenuto legittimo il rifiuto delle autorità statali di trascrivere nei registri di stato civile gli atti di nascita di minori nati negli Stati Uniti tramite gestazione per altri; secondo i giudici europei tale diniego non ha comportato un’ingerenza sproporzionata nella vita familiare dei genitori intenzionali in quanto, l’assenza di consensus tra gli
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Dickson c. Regno Unito [GC], 4.12.2007, ric. n. 44362/04, con riferimento allo specifico tema dei diritti riproduttivi dei detenuti. S.H. ed altri c. Austria [GC], 3.11.2011, ric. n. 57813/00. 50 Costa e Pavan c. Italia, 28.8.2012, ric. n. 54270/10 del 28.8.2012. 51 S.H. ed altri c. Austria [GC], 3.11.2011, ric. n. 57813/00, cit. 52 Paradiso e Campanelli c. Italia [GC], 24.1.2017, ric. n. 25358/12. 49
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Stati contraenti quanto alla legalità della surrogazione di maternità comporta la sussistenza di un ampio margine di apprezzamento degli Stati stessi sia quanto all’autorizzazione di detta pratica, sia quanto al riconoscimento dei rapporti di filiazione costituiti all’estero mediante la stessa53. È importante sottolineare che, in questo caso, la Corte EDU, pur non accordando tutela al diritto dei genitori ad accedere alla surrogazione di maternità, ha ravvisato una violazione del diritto al rispetto della vita privata dei minori per quanto riguarda il diritto del bambino nato all’estero mediante tale tecnica procreativa a vedere riconosciuto il legame di filiazione con entrambi i genitori intenzionali nello Stato di cittadinanza di questi ultimi, pur se esso vieti detta procedura54. La posizione assunta dalla Corte EDU sul tema è stata esplicitata con chiarezza nel primo parere consultivo reso ai sensi del Protocollo addizionale n. 16 in data 10.4.2019 con il quale la Corte è stata chiamata a esprimersi in via preventiva sulla compatibilità con la Convenzione del recente orientamento della Corte di Cassazione francese (assunto a seguito della sentenza Mennesson c. Francia), secondo cui, all’esito della surrogazione di maternità praticata all’estero, è possibile la trascrizione del certificato di nascita straniero nella parte in cui designa come padre il padre intenzionale, a condizione che quest’ultimo sia anche il padre biologico del minore, mentre non è possibile la trascrizione del legame di filiazione con la madre intenzionale, che però può adottare il minore con adozione co-parentale. La Corte ha affermato che il diritto del bambino al rispetto della vita privata ai sensi dell’art. 8 della Convenzione impone il riconoscimento del legame di filiazione, legalmente costituito all’estero, con la madre intenzionale, a prescindere dal fatto che quest’ultima sia anche madre in senso biologico, per avere utilizzato i propri gameti nella procreazione. Quindi la legislazione nazionale deve prevedere la possibilità di riconoscere tale relazione con la madre designata, indicata nel certificato di nascita emesso all’estero come “madre legale”. La Corte EDU ha anche specificato che il diritto al rispetto della vita privata del bambino non richiede che tale riconoscimento avvenga nelle forme della trascrizione del certificato estero nei registri di stato civile, ben potendo essere assicurato mediante l’adozione del bambino da parte della madre intenzionale, a condizione che la procedura di adozione risulti tempestiva ed efficace, sempre a tutela dell’interesse superiore del minore. Per la Corte EDU, quindi, il diritto del bambino ad avere entrambi i genitori supera il divieto di maternità surrogata, restando rimesse alla discrezionalità dello Stato unicamente le modalità concrete, tra quelle indicate, per il soddisfacimento di tale diritto (trascrizione nei registri dello stato civile o adozione).
53 54
Mennesson c. Francia, 26.6.2014, ric. n. 65192/1; Labassee c. Francia, 26.6.2014, ric. n. 65941/11. Sentenza Mennesson c. Francia, cit., par. 96-101; Foulon e Bouvet c. Francia, 21 luglio 2016, ricc. nn. 9063/14 e altri, par. 55-58.
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5. La tutela del preminente interesse del minore come
strumento di interpretazione evolutiva della Convenzione.
Il caso della maternità surrogata e il primo parere consultivo reso ai sensi del Protocollo n. 16 offrono lo spunto per evidenziare un altro caposaldo del diritto convenzionale della famiglia in quanto chiariscono che, se con riferimento ai diritti degli adulti nell’ambito della famiglia, la Corte EDU si è mossa sempre con molta cautela, valorizzando al massimo il margine di apprezzamento e le scelte dei singoli Stati, quando si è trattato di tutelare i diritti dei minori, la Corte si è spinta molto più in avanti, in ossequio al principio della tutela del preminente interesse del minore. Tale superiore interesse del minore non è espressamente menzionato dall’art. 8 della Convenzione ma è ricondotto nel suo ambito attraverso il richiamo in via interpretativa alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo55. Quindi, come già accennato, la Corte EDU ha ritenuto che, sotto l’aspetto giuridico, l’assimilazione della filiazione naturale alla filiazione legittima corrisponde a una tendenza del diritto interno “della grande maggioranza degli Stati del Consiglio d’Europa” ed ha quindi sancito il principio della piena equiparazione dei figli legittimi a quelli naturali56, includendo nella nozione di “vita familiare” tanto il rapporto tra genitori e figli concepiti nell’ambito di un’unione coniugale non fittizia57, quanto la relazione tra il figlio e ciascun genitore naturale, anche in assenza di convivenza tra i genitori58. La tutela del preminente interesse del minore ha trovato espressione anche nell’orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento dello status filiationis acquisito all’estero, con modalità non conformi al diritto dello Stato di cittadinanza dei genitori, orientamento che si è affermato non solo con riferimento alla maternità surrogata ma anche in tema di adozione da parte del genitore celibe. Quindi, in un caso di adozione pronunciata in uno Stato terzo, alla quale era seguita una convivenza tra genitore adottivo e adottato, la Corte EDU ha ritenuto che il rifiuto da parte delle autorità nazionali di riconoscere l’adozione pronunciata in base al diritto di uno Stato terzo, per il solo motivo che il giudice straniero aveva applicato una legge diversa da quella richiamata dalle norme dello Stato contraente, fosse contrario all’art. 8 della Convenzione59.
55
Rieme c. Svezia, 22 aprile 1992, ric. n. 12366/86; Hokkanen c. Finlandia, 23 settembre 1994, ric. n. 19823/92; Johansen c. Norvegia, 7 agosto 1996, ric. n. 17383/90. 56 Marckx c. Belgio, 13 giugno 1975, A n° 31. 57 A prescindere dalla circostanza che, al momento della nascita o successivamente, i coniugi abbiano cessato di convivere: Berrehab c. Paesi Bassi, 21 giugno 1988, ric. n. 10730/84. 58 Keegan c. Irlanda, 26.5.1994, ric. 16969/90. 59 Wagner e J.M.W.L. c. Lussemburgo, 28.6.2007, ric. n. 76240/01, in cui la Corte ha ritenuto un’ingerenza sproporzionata nel diritto al rispetto della vita privata e familiare dell’adottato e dell’adottante il rifiuto di riconoscere ed eseguire la decisione di adozione pronunciata dalle autorità peruviane a beneficio di una cittadina lussemburghese non sposata, per non avere il giudice peruviano applicato il diritto lussemburghese, che vieta l’adozione legittimante ai celibi.
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6. I diritti dei singoli a seguito della separazione e del
divorzio.
In linea con l’idea di fondo presente nella giurisprudenza della Corte EDU sin da tempi risalenti, secondo la quale il matrimonio è “strettamente legato alle tradizioni storiche e culturali di ogni società e alle concezioni profonde di quest’ultima sulla cellula familiare”60, è stato da sempre affermato che la Convenzione non garantisce il diritto di divorziare61, ritenendo di non poterlo desumere neanche in via interpretativa dall’art. 12 della Convenzione che garantisce, invece, il diritto di sposarsi. La legislazione nazionale deve, invece, consentire la separazione coniugale, quantomeno in situazioni di violenza familiare62; qualora, poi, un sistema giuridico preveda il divorzio, la Corte EDU ha tratto in via interpretativa dall’art. 12 della Convenzione il diritto di risposarsi senza subire restrizioni irragionevoli, derivanti, ad esempio, dall’eccessiva durata della procedura di divorzio63 o dalla previsione di un divieto temporaneo di contrarre nuove nozze64. Se, in tema di diritto al divorzio, la Corte EDU non si spinge fino al punto di ritenere che esso sia garantito dalla Convenzione, molto attento è invece il vaglio di conformità alla Convenzione per quanto riguarda le procedure adottate dalle autorità nazionali. La Corte EDU valuta con rigore l’effettività delle garanzie dell’equo processo, specie sotto il profilo della durata ragionevole dei procedimenti in materia di separazione e divorzio65 e del rispetto del contraddittorio nei procedimenti di annullamento del matrimonio innanzi alla giurisdizione ecclesiastica, quale condizione del riconoscimento della decisione66. La Corte EDU dedica, inoltre, particolare attenzione al fattore “tempo” nell’ambito delle decisioni delle autorità nazionali che riguardano la famiglia. Tale fattore assume una rilevanza del tutto peculiare nella materia del diritto di famiglia tenuto conto del fatto che il minore è una persona in età evolutiva e che, quindi, ogni prognosi sul suo adeguato sviluppo psico-fisico deve essere effettuata in una prospettiva di maturazione a lungo termine, ben potendo un valutazione effettuata nel breve periodo essere contraria al suo interesse67. Inoltre, l’eccessiva durata delle procedure e l’inadeguatezza delle misure adottate, senza che il minore possa ricongiungersi con i genitori, è, di
60
Rasmussen c. Danimarca, 28.11.1984, A n. 87, cit. Nella sentenza Johnston e altri c. Irlanda, 18 dicembre 1986, ric. n. 9697/82, relativa all’impossibilità di divorziare in Irlanda, la Corte ha sostenuto che costituisce limitazione, ma non svuotamento del diritto di sposarsi la mancata previsione del divorzio in una società che aderisca al principio della monogamia. 62 Airey c. Irlanda, 9.10.1979, ric. n. 6289/73 (violazione dell’art. 8 Cedu) in un caso di violenza coniugale. 63 Aresti Charalambous c. Cipro, 19.7.2007, ric. n. 43151/04. 64 F. c. Svizzera, 18.12.1987, ric. n. 11329/85. 65 Laino c. Italia [GC], 18.2.1999, ric. n. 33158/96. 66 Pellegrini c. Italia, 20.7.2001, ric. n.30882/96. 67 Görgülü c. Germania, 26.2.2004, ric. n. 74969/01. 61
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per sé, contrario al suo superiore interesse e dannoso per il suo sviluppo psicofisico; invero, provvedimenti astrattamente corretti, se non attuati nei tempi necessari in relazione alla rapida evoluzione del minore, possono integrare una violazione dell’art. 8 della Convenzione68. Per quanto riguarda la disciplina dei rapporti tra i singoli, genitori e figli, a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale o a seguito della separazione dei genitori, la giurisprudenza della Corte EDU è molto vasta ed è ispirata a al principio generale della tutela dell’interesse superiore del minore. L’attenzione dei giudici europei si è concentrata, in modo particolare, sul diritto di visita da parte del genitore non affidatario dei figli, al quale è riconosciuto il diritto a mantenere i contatti con il minore, da contemperarsi con il preminente interesse del minore stesso e, quindi, tenendo conto del suo benessere psico-fisico. Nell’ambito della copiosa produzione giurisprudenziale sul tema, è possibile individuare alcune linee direttrici costanti; la Corte EDU, in linea di principio, non entra nel merito delle decisioni delle autorità nazionali sull’affidamento ritenendo che queste siano meglio attrezzate nel gestire e valutare le situazioni di conflitto familiare ed accorda loro un ampio margine di apprezzamento69; la Corte EDU concentra, invece, il suo sindacato sugli aspetti procedurali, pretendendo che le decisioni prese dalle autorità interne siano celeri e pienamente rispettose del principio del contraddittorio e della parità delle armi tra i contendenti70. Un altro aspetto rilevante sul quale la Corte EDU svolge il suo controllo di compatibilità con la Convenzione è quello dell’adeguatezza delle misure poste in essere al fine di garantire efficacemente i contatti tra il genitore non affidatario e i figli71. La Corte EDU, infatti, nella propria giurisprudenza delinea con chiarezza gli obblighi positivi che gravano sui singoli Stati a tutela dei diritti della persona rispetto ai legami affettivi e familiari, specificando che si tratta di obblighi di carattere non solo negativo e di non ingerenza, ma anche, e soprattutto, di natura positiva, di rimozione degli ostacoli alla effettiva realizzazione dei medesimi diritti. In tale ottica è stato costantemente affermato l’obbligo da parte delle autorità nazionali di adottare misure per facilitare il diritto di visita del genitore non affidatario, sempre però contemperando tali misure con il diritto del minore di vivere in un ambiente sereno72.
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Maire c. Portogallo, 26.6.2003, ric. n. 48206/99. Sahin c. Germania, 8.7.2003, ric. n. 30943/96, par. 64. 70 C. c. Finlandia, 9.5.2006, ric. n. 18249/02, par. 52; Z.J. c. Lituania, 29.4.2014, ric. n. 60092/12, par. 96; Petrov e X c. Russia, 23.4.2018, ric. n. 23608/16. 71 Glaser c. Regno Unito, 19.9.2000, ric. n. 32346/96; Bondavalli c. Italia, 17.11.2015, ric. n. 35532/12; Cincimino c. Italia, 28.4.2016, ric. n. 68884/13; Strumia c. Italia, 23.6.2016, ric. n. 53377/13; Giorgioni c. Italia, 15.9.2016, ric. n. 43299/12. 72 Konos c. Italia n. 68183/01 del 30.12.2008; Buscemi c. Italia, 16.9.1999, ric. n. 29569/95. 69
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Daniela Cardamone
Il principio del preminente interesse del minore è stato costantemente affermato non solo nei procedimenti di divisione della coppia genitoriale ma anche nelle pronunzie che riguardano l’adozione di misure destinate ad incidere in modo incisivo sul legame genitore-figlio quali la decadenza dalla potestà genitoriale73 e la dichiarazione di adottabilità74. In questi casi, la Corte EDU ha affermato anche il principio che le decisioni che comportano la rottura temporanea o definitiva dei legami tra minore e famiglia d’origine, quali l’allontanamento e l’adozione, devono essere considerate in linea di principio delle misure temporanee, giustificate dalla eccezionalità della situazione e dalla esigenza di tutelare l’interesse del minore75. Quindi la Corte EDU ha affermato che i provvedimenti di allontanamento del minore dal nucleo familiare, di sospensione della potestà genitoriale e di affidamento extrafamiliare sono, in linea di principio, delle misure temporanee, essendo il fine ultimo quello del ricongiungimento del minore con i genitori, salvo che la salvaguardia del benessere psicofisico del primo esiga l’interruzione del contatto con i secondi, come ad esempio nei casi di abusi76.
7. Conclusioni. La Corte EDU ci consegna in tema di famiglia una copiosa giurisprudenza, fondata sulla interpretazione estensiva degli articoli 8, 12 e 14 della Convenzione, orientata in senso evolutivo e aperta alle nuove istanze di tutela scaturenti dall’emergere di nuovi modelli di legami familiari ma pur sempre attenta a preservare le tradizioni costituzionali nazionali. Nell’ambito di questo perimetro, la Corte EDU elabora una nozione autonoma di “vita familiare”, fondata su legami de facto e sui diritti dei singoli componenti, al centro del sistema convenzionale di tutela dei diritti fondamentali. Privilegiando i legami fattuali, la Corte EDU dimostra apertura rispetto a legami e forme di convivenza diversi da quelli scaturenti dal formale rapporto di coniugio; tuttavia, l’attenzione alle peculiarità dei contesti nazionali comporta che tale atteggiamento di apertura verso nuovi modelli di relazioni familiari è condizionato dal consensus raggiunto tra gli Stati membri rispetto alle nuove esigenze di tutela scaturite dalla evolu-
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Gnahorè c. Francia, 17.1.2001, ric. n. 4003/98. Covezzi – Morselli c. Italia, 24.9.2003, ric. n. 52763/99. 75 Si pensi ai casi di abusi sui minori: Covezzi-Morselli, cit.; L. c. Finlandia, 27.7.2000, ric. n. 25651/94. 76 Scozzari e Giunta c. Italia [GC], 13.7.2000, ricc. nn. 39221/98 e 41963/98; Covezzi e Morselli c. Italia, 9.5.2003, ric. n. 52763/99; Roda e Bonfatti c. Italia, 21.11.2003, ric. n. 10427/02; Clemeno e altri c. Italia, 21.10.2008, ric. n. 19537/03; Errico c. Italia, 24.2.2009, ric. n. 29768/05. 74
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zione del concetto di famiglia. Tanto più ampio è il consensus raggiunto a livello europeo, tanto minore è, tendenzialmente, il margine di apprezzamento di ciascuno Stato. Pur prestando attenzione al consensus, il giudice europeo nel diritto di famiglia rifugge, però, qualsiasi automatismo tra l’esistenza di una tendenza maggioritaria nell’ambito dei diritti nazionali e la minore ampiezza del margine di apprezzamento, serbando un atteggiamento cauto nel preservare il pluralismo giuridico a livello europeo. Volendo individuare una matrice comune nella giurisprudenza in tema di famiglia, si può ritenere che la Corte EDU, quando viene in rilievo il preminente interesse del minore, è più propensa a riconoscere in via interpretativa ulteriori diritti ma, in pratica, essa non si spinge ad affermare il riconoscimento di modelli di coppia diversi da quello fondato sul matrimonio eterosessuale né afferma che rientrino nell’ambito della tutela della Convenzione l’adozione da parte di coppie omosessuali, la procreazione medicalmente assistita o la maternità surrogata, temi sensibili sui quali non emerge un consensus europeo. In tali casi, la Corte EDU si limita a fornire tutela alle situazioni giuridiche soggettive nei casi in cui gli Stati hanno introdotto tali diritti in via autonoma (es. diritto di divorziare, di interrompere una gravidanza, di adottare, di diventare genitori tramite procreazione assistita), affermando che essi devono essere garantiti senza restrizioni irragionevoli o discriminatorie. In questo modo, la Corte EDU svolge la sua funzione di progressivo adeguamento della Convenzione, strumento vivente, alla mutata realtà sociale e giuridica, pur nella costante attenzione alle tradizioni costituzionali degli Stati membri.
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Gianluca Montanari Vergallo
Questioni di legittimità costituzionale della disciplina in materia di disposizioni anticipate di trattamento contenuta nell’art. 4 della legge n. 219/2017* Sommario:
1. Introduzione. – 2. La differente disciplina del rifiuto anticipato rispetto a quella del rifiuto attuale. – 3. Le disposizioni che determinano un favor per l’interruzione dei trattamenti salvavita. – 4. La mancata previsione di strumenti idonei ad accertare la consapevolezza del paziente. – 5. Il diritto del malato alla vita e alla dignità. – 6. La libertà di coscienza dei sanitari. – 7. Conclusioni.
The article casts doubt on the constitutional legitimacy of art. 4 of Italian law n. 219/2017, which obliges health care professionals to comply with advance health care directives unless: a) the latter are clearly unsuitable or b) they refer to treatments other than those to be performed or c) unpredictable and effective treatments have subsequently been discovered. This rule does not contain any tools to ascertain that the advance directive is informed and that the choice made by the trustee matches that which the patient would have made if he or she had been capable. Consequently, this rule appears to be unconstitutional for the following reasons: a) it unreasonably differentiates the advance refusal compared to the current one; b) it violates the rights to life and self-determination; c) it does not protect the freedom of conscience of health professionals. The article sets forth an interpretation aimed at making this norm compatible with the Constitution.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima
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Gianluca Montanari Vergallo
1. Introduzione. Le scelte di fine vita rappresentano un crocevia in cui confluiscono le riflessioni di giuristi, medici e filosofi per la varietà dei punti di vista da cui possono essere trattate. Sono particolarmente sentite per molti motivi. Innanzitutto, presuppongono situazioni, vere e proprie disgrazie, che possono verificarsi a chiunque dall’oggi al domani, sconvolgendone per sempre l’esistenza. Inoltre, possono essere fortemente influenzate dalle convinzioni di ciascuno in materia di religione. In terzo luogo, attengono a diritti fondamentali della persona, come quello alla vita e alla libertà di autodeterminazione. Per giunta, tali diritti, proprio nel campo delle scelte di fine vita, si atteggiano come reciprocamente conflittuali, rendendo quindi necessaria la ricerca di un punto di equilibrio. Quest’ultima si rivela particolarmente problematica in ragione della natura complessa del diritto alla salute, non solo diritto individuale, ma anche interesse della collettività, per riprendere testualmente le parole dell’art. 32, comma 1°, Cost. Dunque, il tema in esame si inscrive nella più generale problematica della possibilità di condizionare la libertà individuale per tutelare valori che è interesse collettivo preservare. In quest’ottica, non sorprende che le questioni di fine vita presentino rilevanza non soltanto civilistica, penalistica e amministrativistica, ma anche costituzionale. Non a caso, la legge 22 dicembre 2017, n. 219, recependo il pensiero della costante giurisprudenza, anche costituzionale, si apre con l’affermazione che la necessità del consenso informato trova fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost. A prescindere dalla controvertibile correttezza del richiamo all’art. 13 Cost., tale riforma si propone di rappresentare un virtuoso bilanciamento tra diritto alla vita, alla salute e libertà di autodeterminazione. Appare, quindi, necessario vagliare se il legislatore abbia raggiunto tale obiettivo o non sia, invece, incorso in disposizioni che sotto più profili si pongono in contrasto con il dettato dei Costituenti, talora peraltro senza neppure possibilità di perseguire un’interpretazione costituzionalmente orientata.
2. La differente disciplina del rifiuto anticipato rispetto a quella del rifiuto attuale.
La riforma introduce una disciplina differente a seconda che il rifiuto sia attuale o anticipato. Nella prima ipotesi, il comma 3 dell’art. 1 riconosce alla persona il diritto di essere informato «in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari in-
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dicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi»1. Ancor maggiore ponderazione è richiesta dal comma 5 dello stesso art. 1 per i casi in cui il paziente rinuncia all’attivazione o chiede l’interruzione di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza. Infatti, il medico deve prospettargli non solo «le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative», ma anche «promuove[re] ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica»2. Tale obbligo aggrava la procedura decisionale, ma si rende necessario nella prospettiva di tutelare la dignità del paziente, che è una delle finalità riportate all’art. 1, comma 1°, della legge3. Così facendo, il legislatore recepisce la sintesi del parere del Comitato nazionale per la bioetica, secondo cui «il rifiuto consapevole del paziente non può essere acriticamente registrato dal medico, ma è indispensabile una attenta analisi della competenza e attendibilità della espressione di volontà; la valutazione da parte del medico della effettiva sussistenza dell’accanimento clinico nel caso concreto è considerata indispensabile, ma qualsiasi forma di abbandono terapeutico è ritenuta deontologicamente inaccettabile»4. Ben più generica e lacunosa, sul piano dell’obbligo informativo, è la disciplina riservata al rifiuto anticipato. È sufficiente, infatti, che la disposizione anticipata di trattamento (cosiddetta d.a.t.) sia espressa dal paziente «dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte» (art. 4, comma 1). Dunque, la decisione “anticipata” deve avvenire sulla base di elementi aggiornati e di natura medico-scientifica. Tuttavia, la legge non specifica se sia il medico di medicina generale a poter fornire tali informazioni, oppure occorra consultare uno specialista in relazione alle patologie e ai trattamenti sui quali si vuole esprimere la volontà anticipata. La genericità della formulazione potrebbe persino indurre a sostenere che il disponente possa basarsi su informazioni autonomamente trovate, ad esempio in rete. Ma l’interpretazione sistematica porta a ritenere infondata tale ipotesi ermeneutica, in quanto incompati-
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Tali contenuti dell’obbligo di informazione sono meno estesi di quelli elaborati dal diritto vivente a partire dagli anni Novanta. Infatti, la Suprema Corte ha da tempo chiarito che il paziente deve essere reso edotto non solo dei rischi, ma anche delle conseguenze in senso lato del trattamento, come la durata della convalescenza. Inoltre, deve essergli comunicata anche la momentanea situazione di carenza tecnica o strumentale, così da consentirgli di rivolgersi ad altre strutture. Ma, trattandosi di regole che costituiscono attuazione dell’art. 32, comma 2, Cost., peraltro richiamato dalla stessa legge n. 219/2017, non v’è motivo di ripensare gli approdi raggiunti dal formante giurisprudenziale. Ancor più pregnanti sono state le parole di Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, in Foro it, 2007, I, 3025, che, pur ammettendo la possibilità per il tutore del paziente in stato vegetativo permanente di ottenere l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione artificiali, ha imposto al medico l’obbligo di attivare, a beneficio del paziente capace che rifiuta il trattamento, una «strategia della persuasione», così da verificare le effettive consapevolezza e convinzione della sua scelta nonché meglio comprenderne le ragioni. A conferma del fatto che la vita del paziente può essere salvata anche attraverso quel sostegno umano che lo porta ad accettare un intervento che, ad esempio per paura o per rassegnazione, intendeva rifiutare, il comma 8 dell’art. 1 sancisce che «[i]l tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». Non a caso, tale comma riprende testualmente le parole del codice di deontologia medica, che di certo deve rappresentare il massimo livello di protezione della dignità del malato. Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico (24 ottobre 2008), in www.bioetica.governo.it.
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bile con la promozione della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, sancita dall’art. 1, comma 2. Invece, nella disciplina del rifiuto attuale, il requisito di completezza dell’informazione previsto dal comma 3 dell’art. 1 impone che tale obbligo sia adempiuto dallo specialista. Anzi, la giurisprudenza ha sempre ribadito che l’informazione deve essere fornita al paziente dallo stesso medico che eseguirà il trattamento5. Altra lacuna consiste nel limitare l’obbligo di informazione alle sole conseguenze del rifiuto anticipato, così contraddicendo il pacifico insegnamento dottrinale e giurisprudenziale secondo cui la tutela della libertà di autodeterminazione presuppone di mettere la persona in condizione di esprime una scelta consapevole, il che comporta l’obbligo di informarla sul rapporto tra costi e benefici del trattamento proposto, delle eventuali alternative e della scelta di non accettare alcuna prestazione sanitaria6. Limitare l’informazione soltanto agli uni o agli altri comporta necessariamente una scelta inconsapevole. Ulteriore limite del comma in esame emerge dalla mancanza dell’obbligo di riportare nella d.a.t. l’informazione ricevuta. Anche sotto questo profilo emerge la differenza rispetto alla disciplina del rifiuto attuale, che invece prevede la forma scritta del consenso informato e l’obbligo di inserirlo in cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico (art. 1, comma 4). Tali differenze regolatorie presentano la comune caratteristica di rendere più semplice, sbrigativo e meno ponderato il rifiuto anticipato rispetto a quello attuale. Per valutarne la ragionevolezza, occorre considerare che con la d.a.t. il disponente rifiuta trattamenti sanitari che curano malattie da cui non è ancora affetto e probabilmente non lo sarà mai. Infatti, l’art. 4, comma 1°, si riferisce non al malato, ma a «[o]gni persona maggiorenne a capace», e usa l’espressione «in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi». Diversamente, nella pianificazione condivisa delle cure ex art. 5, il paziente esprime una volontà anticipata «rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta», ossia sa che quei trattamenti sanitari non sono un’eventualità lontana e improbabile, ma una prospettiva pressoché certa nel prossimo futuro e servono per curare una malattia i cui effetti già comincia a sentire sul proprio corpo. Di conseguenza, le differenze di disciplina tra d.a.t. e rifiuto attuale appaiono irragionevoli. In primo luogo, infatti, proprio il fatto che la d.a.t. è formulata da persona sana, che probabilmente non avrà mai bisogno del trattamento rifiutato, comporta minor consapevolezza e ponderazione della scelta rispetto a quella fatta nell’ambito della pianificazione condivisa delle cure. Non appare ragionevole che proprio il soggetto più esposto a prendere una decisione non informata o frettolosa sia lasciato in questa condizione, anziché
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Cass. civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364; Cass. civ., Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5444, in Resp. civ. prev., 2006, 566. Cass. civ., Sez. III, 27 marzo 2018, n. 7516, in De jure.
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essere aiutato ad evitare il rischio che la sua vita non sia salvata per assecondare una sua decisione inconsapevole e non ponderata. Si potrebbe credere che le indicate differenze regolatorie siano imposte dal fatto che la d.a.t. è predisposta da un soggetto sano. Quindi, trattandosi di una disparità necessaria, ne verrebbero meno l’irragionevolezza e, conseguentemente, l’incostituzionalità. Al riguardo, è vero che l’obbligo di informazione è più semplice nel rapporto col paziente, perché deve essergli comunicato il rapporto costi-benefici solo della cura di una patologia (quella da cui è affetto), di eventuali alternative e delle conseguenze del rifiuto. Mentre, nella d.a.t., il soggetto rifiuta trattamenti che possono rendersi necessari per diverse malattie e presentare differenti rapporti costi-benefici a seconda delle malattie oltre che in base all’età che avrà il soggetto quando si renderanno necessari e alla presenza di eventuali comorbilità. Tuttavia, questa maggior complessità non rende impossibile estendere al rifiuto anticipato i contenuti dell’informazione propri di quello attuale. Infatti, se la d.a.t. è uno strumento per ricostruire quale sarebbe stata la volontà del paziente, tale obiettivo può essere raggiunto interpretandone il contenuto secondo comuni criteri logici e di buon senso. Dunque, se la d.a.t. contiene il rifiuto di prestazioni che comportano un rapporto costibenefici favorevole e, in un futuro caso concreto, quello stesso trattamento presenterà un rapporto sicuramente più sbilanciato a favore dei costi, sarà logico dedurre che il paziente avrebbe rifiutato anche quest’ultimo, qualora a suo tempo gli fosse stato prospettato. Quindi, non appare operativamente impraticabile una regola che obblighi ad informare il disponente dei rapporti costi-benefici del trattamento sanitario in relazione alle patologie in cui solitamente si rende necessario, salvo poi lasciare all’interpretazione della d.a.t. la verifica della sua idoneità ad essere applicata alle peculiari caratteristiche del caso concreto. Di conseguenza, appare confermata l’irragionevolezza della disciplina che semplifica il rifiuto anticipato rispetto a quello attuale. Tuttavia, appare possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4, comma 1°, così da ripristinare la necessaria simmetria tra rifiuto anticipato ed attuale. Infatti, in primo luogo, l’adeguatezza dell’informazione può essere intesa come comportante l’istaurazione di un rapporto tra il disponente e gli specialisti delle patologie cui si riferiscono i trattamenti rifiutati. Inoltre, la locuzione «conseguenze delle sue scelte» può essere riferita alle scelte alternative, ossia di adesione al trattamento proposto dal medico, di accettazione di quelli sostitutivi o di desistenza terapeutica. Quindi, il termine «conseguenze» verrebbe a rappresentare i costi ed i benefici delle indicate opzioni7.
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La questione se allegare o meno alla d.a.t. le informazioni ricevute non sembra necessitare di interpretazioni costituzionalmente orientate, perché il legislatore è rimasto silente in merito. Di conseguenza, l’obbligo di riportare le informazioni all’interno della d.a.t. emerge dall’applicazione analogica della disciplina relativa al consenso attuale. Peraltro, è espressamente previsto dall’art. 38 cod. deont.med.
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3. Le disposizioni che determinano un favor per l’interruzione dei trattamenti salvavita.
Dall’esame dell’articolato della legge n. 219/2017 emergono alcune disposizioni che rivelano un favor del legislatore per l’interruzione dei trattamenti, anche se necessari per la sopravvivenza del malato. In primo luogo, l’art. 4, comma 7, ammette la revoca orale della d.a.t. purché sia «raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni», e sussistano ragioni di urgenza che impediscono di procedere alla revoca scritta8. Dunque, l’aver revocato una d.a.t. in presenza di un solo testimone non consentirebbe al medico di intervenire: un consenso attuale non prevarrebbe rispetto ad un rifiuto anticipato. Si sovverte, quindi, il buon senso, secondo cui la scelta terapeutica successiva all’insorgere della malattia è più consapevole di quella espressa in passato. Inoltre, il comma 5 della medesima disposizione prevede come regola generale l’obbligo del medico di rispettare le d.a.t. (a meno che contengano richieste in contrasto con la legge, con la deontologia o con le buone pratiche clinico-assistenziali) e come eccezione la possibilità (comunque non il dovere) di disattenderle, purché «in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Dunque, se l’incongruità non è palese oppure se le nuove terapie erano prevedibili, il trattamento di sostegno vitale deve essere evitato o disattivato nonostante che, in tali ipotesi, di fatto non può esservi certezza sull’effettiva volontà dell’incapace9. Infine, nessuna disposizione introduce un limite temporale di validità delle d.a.t. Dunque, pur di dare attuazione ad una disposizione anticipata, il legislatore corre il rischio (e lo fa correre ai medici, vincolandoli all’osservanza anche delle d.a.t. risalenti) che, essendo stata redatta anni addietro e mai più confermata, non corrisponda più alla sua attuale volontà. Per non considerare l’ipotesi, senz’altro verosimile, che il disponente dimentichi negli anni di aver addirittura predisposto una d.a.t. Tale impostazione di evidente favor per l’interruzione o l’inattivazione dei trattamenti sanitari si espone a critiche sotto il profilo della ragionevolezza.
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Secondo D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 3, 293, «ogni ripensamento dell’interessato circa un rifiuto di cure precedentemente espresso si impone – comunque manifestato – al pieno rispetto di tutti gli operatori sanitari che ne abbiano avuto conoscenza». Come rileva I.A. Caggiano, Dichiarazione di illegittimità costituzionale art. 3, co. 4 e 5, L. 219/2017 nel giudizio sollevato dal Giudice tutelare – Tribunale di Pavia 24/03/2018, in www.centrostudilivatino.it; Trib. Pavia, 24 marzo 2018, in www.ilfamiliarista.it, con nota di R. Masoni, Potere dell’ADS di rifiutare le cure senza l’intervento del GT: il Tribunale di Pavia solleva questione di legittimità, in un obiter dictum, «attesa l’eccezionalità della/e disposizione/i che rende/ono lecito il rifiuto alle cure necessarie al mantenimento in vita, sostiene che ove non sia possibile rinvenire manifestazioni di volontà o un quadro sufficientemente espressivo di volontà orientate al rifiuto, si debba (e il giudice debba) decidere nel senso della “prevalenza del complementare diritto alla vita”».
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La qualità di una normativa in materia di testamento biologico si misura in termini di capacità di far sì che la volontà presunta corrisponda alla scelta che il paziente avrebbe fatto se fosse stato capace. Il fallimento della legge si verifica in due casi: quando si esegue una prestazione che egli avrebbe rifiutato e quando si desiste da un trattamento che il soggetto avrebbe accettato. Il rischio di incorrere in due errori opposti non caratterizza solo la regolazione del testamento biologico, bensì l’area della responsabilità penale e civile in genere. È nota l’alternativa tra condannare un innocente ed assolvere un colpevole. Come criterio generale e di buon senso, legislatore e giurisprudenza tendono a, rispettivamente, creare ed interpretare le leggi in modo tale da minimizzare il rischio di incorrere nell’errore più grave. Ciò risulta evidente in materia di ripartizione dell’onere della prova e di standard probatorio. Infatti, la legge pretende la prova oltre il ragionevole dubbio, e con onere a carico dell’accusa, solo in materia di responsabilità penale (art. 533 c.p.p.); mentre, in quella civile, l’onere probatorio è ripartito secondo il criterio di vicinanza10 e sono sufficienti a fondare la decisione le presunzioni gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.). Anzi, in materia di accertamento del nesso causale, la costante giurisprudenza civile accoglie la domanda risarcitoria in presenza di una prova che si limiti a superare la soglia della probabilità logica prevalente11. La logica di quest’impostazione risiede proprio nella convinzione che, nella responsabilità penale, l’errore da evitare sia quello di condannare un innocente; quindi, si prevede la necessità della prova certa di colpevolezza. Mentre, nel diritto civile, occorre impedire che resti a carico del danneggiato un pregiudizio che il convenuto doveva evitare, come nella responsabilità ex contractu o nelle numerose ipotesi di responsabilità extracontrattuale aggravata o oggettiva12. Peraltro, anche nella responsabilità generale ex art. 2043 c.c., l’applicazione del criterio di vicinanza alla prova può alleggerire l’onere probatorio gravante sull’attore, fino ad arrivare alla presunzione di responsabilità, come avvenuto nella giurisprudenza in materia di lacunosa redazione della cartella clinica13. Del resto, il criterio di minimizzazione del rischio dell’errore più grave trova applicazione anche in materia di formazione del contratto. Gli artt. 1329, comma 2, e 1330 c.c. prevedono che, se il proponente o l’accettante muoiono o perdono la capacità d’agire nel lasso di tempo tra la dichiarazione contrattuale e il momento di conclusione del contratto, solo in casi particolari la dichiarazione rimane efficace. Di conseguenza, il legislatore afferma che la regola generale, seppur implicita, consiste nella perdita di efficacia della dichiarazione in seguito alla morte o alla perdita della capacità d’agire del soggetto che la pone in
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Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 30998, in Resp. civ. prev., 2019, 2, 663. Ne deriva l’onere del convenuto debitore di dimostrare l’adempimento dell’obbligazione, come sancito da Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Contratti, 2002, 113, e ribadito dalla successiva giurisprudenza. 11 Cass. civ., Sez. III, 20 giugno 2019, n. 16581, in Guida dir., 2019, 35-36. 37. 12 In merito, si rinvia a C.M. Bianca, La responsabilità2, Giuffrè, Milano, 687 ss. 13 Cass. civ., Sez. III, 8 novembre 2016, n. 22639, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2017, 1, 389.
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essere, con conseguente impossibilità di concludere il contratto. La ratio di tale previsione consiste nella tutela sia dell’avente causa del dichiarante deceduto o divenuto incapace, affinché conservi il proprio potere decisionale, sia della sua controparte, che in tal modo evita di subire uno sgradito cambiamento di partner contrattuale14. Tale disciplina si spiega proprio con l’esigenza di «scegliere il male meno irreparabile: infatti alla conclusione del contratto sgradito non ci sarebbe rimedio; mentre alla mancata conclusione del contratto gradito può rimediarsi riprendendo e perfezionando la formazione del contratto nella nuova situazione»15. Volendo calare questo quadro generale nel tema delle d.a.t., tra il rischio di eseguire una prestazione che il paziente avrebbe rifiutato e quello di desistere da un trattamento che sarebbe stato da lui accettato, quest’ultimo errore è ben più grave rispetto al primo, perché comporta conseguenze irreversibili, anche letali. Invece, all’erronea attivazione del trattamento si può rimediare attraverso la sua successiva interruzione oppure, ove ciò non sia possibile come nei casi di trasfusioni arbitrarie, mediante le regole di responsabilità, eventualmente penale o comunque civile da fatto illecito o, al più, lecito ex art. 2045 c.c. Ciò nonostante, il legislatore mostra di preferire il rischio di incorrere nell’errore più grave perché, in mancanza di fiduciario16, stando alla formulazione del citato comma 5, non consente al medico di disattendere le d.a.t. nei casi in cui: a) i loro contenuti sono incongrui, ma non palesemente; b) sono sopraggiunte terapie concretamente efficaci, ma prevedibili al momento di deposito della d.a.t.; c) la revoca in emergenza è orale e raccolta dal medico addirittura alla presenza di un testimone (anziché due). Si tratta di situazioni nelle quali, prima della legge n. 219/2017, la scelta anticipata veniva considerata irrilevante, perché priva di autonomo contenuto direttivo o comunque del necessario requisito di attualità logica richiesto dal Comitato nazionale per la bioetica17. Invero, l’aggettivo «incongrue» si riferisce ad incongruità, non ad incongruenza, sia perché l’aggettivo più propriamente pertinente ad incongruenza è “incongruente” sia perché, altrimenti, sarebbero incongrue anche d.a.t. «non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente». Quindi, si priverebbero di un autonomo ambito applicativo le due ipotesi contemplate dal comma 5, mentre per pacifica regola ermeneutica occorre interpretare le parti di un testo, normativo o contrattuale, in modo tale da riconoscere a ciascuna un proprio significato. Allora, se «incongrue» si riferisce ad incongruità, sono incongrue le d.a.t. inidonee alla propria funzione, ossia a far capire la volontà del soggetto. Quindi, senza neanche biso-
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In tal senso, V. Roppo, Il contratto2, Milano, 2011, 140. Ivi, 141. 16 Manca il fiduciario quando non è stato nominato nelle d.a.t. né in un successivo atto, oppure vi ha rinunciato, è deceduto o è divenuto incapace (art. 4, co. 4). 17 Comitato nazionale per la bioetica, Dichiarazioni anticipate di trattamento, 18 dicembre 2003, in www.bioetica.governo.it. 15
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gno di scomodare il requisito di attualità logica, non appare possibile considerarle come direttive per qualcun altro, in particolare per il medico18. Invece, se quest’incongruità non è palese, stando al testo del comma 5, il medico dovrebbe non solo prenderle in considerazione, ma addirittura attenervisi. Analogamente, se vengono successivamente scoperte cure concretamente efficaci, la d.a.t., pur contenendo una chiara indicazione di comportamento, non è più attuale anche sul piano logico, non solo su quello cronologico, perché è sopraggiunta un’informazione certamente idonea ad incidere sul processo decisionale. Tant’è vero che sarebbe comunicata al paziente, se potesse esprimere la sua volontà attuale. Peraltro, la mancanza di attualità logica è indipendente sia dalla prevedibilità o meno della futura cura, perché prevedibilità non significa affatto previsione, sia dal fatto che il disponente abbia effettivamente previsto la nuova terapia. Solo alla fine delle varie e lunghe fasi di sperimentazione di un nuovo trattamento se ne può capire l’effettivo rapporto rischi-benefici. Finché quest’ultimo non è chiaro, non si può capire se la scelta anticipata è ancora attuale, sul piano logico, nel momento in cui si rende necessario intervenire. Ne dovrebbe derivare l’obbligo di non applicare la d.a.t. in queste ipotesi. Invece, il comma 5 dell’art. 4 la considera addirittura vincolante. Ancor più rimarchevole è l’impossibilità di revocare oralmente in emergenza la d.a.t. in presenza di un solo testimone. A volerlo intendere letteralmente, questo comma obbligherebbe il medico ad attenersi ad una d.a.t. nonostante sia certamente contraria alla volontà attuale del paziente. Dunque, il comma 5 dell’art. 4, optando per il rischio dell’errore più grave, introduce nei confronti del soggetto disponente una disparità di trattamento rispetto al generale criterio regolatorio di tutti gli altri rapporti giuridici. Tale differenza di trattamento appare irragionevole perché ingiustificata. Per quale ragione è necessaria la certezza prima di condannare penalmente ad una multa, mentre per astenersi dal salvare la vita al malato è sufficiente una d.a.t. che, nelle ipotesi indicate dal comma 5, probabilmente non corrisponde alla scelta che il paziente avrebbe fatto se fosse stato capace? Pretendere la prova oltre il ragionevole dubbio prima di applicare una sanzione penale è un principio di civiltà giuridica. Non lo è anche richiedere la prova certa prima di decidere per l’interruzione o l’inattivazione di trattamenti salvavita? Si potrebbe obiettare che l’obbligatorietà della d.a.t. negli indicati casi dubbi è imposta dalla necessità di tutelare la libertà di autodeterminazione.
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Nel caso deciso da Trib. Modena, 18 gennaio 2018, in www.personaedanno.it, un paziente, affetto da una forma di distrofia muscolare che determina un progressivo indebolimento della muscolatura, nel passato «aveva espresso in più di un’occasione la volontà di “continuare a vivere senza la tracheotomia”». Verificatasi la necessità di eseguire proprio quest’intervento, il giudice ha ravvisato che tale affermazione era contraddittoria, quindi inidonea ad esprimere la volontà del malato. L’unica parte chiara era quella in cui il soggetto dichiarava di voler vivere. Di conseguenza, è stata ritenuta legittima l’esecuzione della tracheotomia.
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Tuttavia, in primo luogo, quest’obiezione sembra dare per dimostrato ciò che dovrebbe dimostrare, ossia che una d.a.t. incongrua e basata su informazioni parziali o non superate dalle innovazioni rappresenta una realizzazione della libertà di autodeterminazione. Ma appare difficile argomentare tale conclusione, se sol si pensa che il consenso acquisito a seguito di informazioni (anche minimamente) lacunose, pur essendo una manifestazione di volontà, non rappresenta un esercizio della libertà di autodeterminazione, perché la violazione dell’obbligo informativo ha impedito la formazione di una scelta consapevole, non conseguente obbligo di risarcire l’eventuale danno non patrimoniale dovuto a lesione proprio della libertà di autodeterminazione. Inoltre, come ribadito persino da quella giurisprudenza costituzionale che richiede al legislatore di abrogare il delitto di aiuto al suicidio, la vita è un diritto fondamentale costituzionalmente garantito dall’art. 2 Cost.19. Di conseguenza, tutte le norme che rendono lecito concorrere a cagionare la morte di una persona rappresentano eccezioni. Si può discutere se debbano essere necessariamente interpretate in modo restrittivo o sia ammissibile l’applicazione analogica delle cause di giustificazione, ma sicuramente occorre provare l’esistenza della condizione che esclude l’antigiuridicità della condotta produttiva o non impeditiva della morte20. Tale condizione consiste nella consapevolezza del rifiuto, che quindi deve essere provata mediante presunzioni gravi, precise e concordanti21. Di conseguenza, rendere lecita una condotta che contribuisce a cagionare il decesso del paziente nonostante non vi sia certezza del suo rifiuto consapevole lede il diritto alla vita ex art. 2 Cost. e il principio di ragionevolezza. La disparità emerge anche sotto un altro profilo. Il comma 5 dell’art. 4, introducendo un favor per l’inattivazione o interruzione dei trattamenti salvavita, comporta l’irresponsabilità ex art. 1, co. 6, per il medico che cagiona la morte del disponente. Ciò determina una disparità di trattamento giuridico rispetto a tutte le restanti situazioni in cui la condotta colposa attiva od omissiva del sanitario cagiona o non impedisce la morte del malato. Infatti, ogni imprudenza, negligenza o imperizia da cui derivano la morte o le lesioni sono fonte di responsabilità quantomeno civile. Astenersi dall’eseguire un trattamento salvavita senza avere certezza del consapevole rifiuto del
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Corte cost. (ord.), 16 novembre 2018, n. 207, in www.giurcost.org, che infatti subordina la liceità dell’aiuto al suicidio ad una serie di stringenti condizioni: a) la malattia che induce al suicidio deve essere «irreversibile» e «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che [il malato] trova assolutamente intollerabili»; b) la persona deve trovarsi in tale stato da essere «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Condizioni ribadite dalla Corte all’esito dell’udienza del 25 settembre 2019, in cui è stato deciso definitivamente il medesimo caso (cfr. Ufficio Stampa della Corte costituzionale, Comunicato del 25 settembre 2019, in www.giurisprudenzapenale.it). 20 Fermo restando che, nonostante l’esclusione dell’antigiuridicità, l’art. 2045 c.c. prevede l’indennizzo, a conferma del fatto che il danno ingiusto non può rimanere senza conseguenze civilistiche. 21 Come indicato da Trib. Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049, in Dir. fam. pers., 2008, 2, 675, la volontaria disattivazione della ventilazione artificiale da parte del medico integra sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo del delitto di omicidio del consenziente. Tuttavia, a fronte del rifiuto attuale e consapevole del malato, tale condotta risulta doverosa e, quindi, scriminata dall’art. 51 c.p. sub specie di adempimento del dovere.
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paziente costituisce una condotta negligente22. Solo per le d.a.t., il legislatore ha escluso ogni responsabilità nonostante la condotta del medico si connoti come negligente, perché si astiene dall’intervenire senza avere certezza che la d.a.t. corrisponda alla scelta che il malato avrebbe fatto se avesse potuto esprimersi23. Tale differente regime appare irragionevole, perché l’irreversibilità delle conseguenze dell’omissione di cure dovrebbe consentire l’interruzione o l’inattivazione del trattamento solo a fronte della certezza che tale decisione corrisponde a quella che sarebbe stata la volontà del paziente qualora fosse stato capace di esprimerla. Riguardo al comma 7 dell’art. 4, la formulazione appare talmente rigida da non consentire interpretazioni idonee a riportarlo nell’alveo della legittimità costituzionale. Con riferimento al comma 5, invece, appare percorribile la via dell’interpretazione costituzionalmente orientata del concetto di palese incongruità, secondo cui può essere considerata congrua solo la d.a.t. che dia certezza del fatto che il paziente avrebbe rifiutato il trattamento qualora fosse stato capace. Quanto esposto vale nelle ipotesi in cui non è stato nominato un fiduciario o quest’ultimo ha rinunciato o è divenuto incapace. Infatti, lo stesso comma 5 precisa che, anche se la d.a.t. è palesemente incongrua, si riferisce a trattamento diverso da quello resosi necessario oppure sono sopraggiunti trattamenti efficaci ed imprevedibili, il medico può astenersi dall’intervenire se tale scelta è condivisa dal fiduciario. Tuttavia, anche questo ruolo attribuito dalla legge al fiduciario appare meritevole di una riflessione sul piano costituzionale, che è opportuno svolgere dopo aver completato l’esame del rifiuto contenuto nella d.a.t.
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Anche volendo accedere alla più lata nozione di imperizia, che circoscrive la negligenza e l’imprudenza alla violazione di regole cautelari di comune esperienza (su cui sia consentito rinviare a G. Montanari Vergallo, La nuova responsabilità medica dopo la riforma Gelli-Bianco, Roma, 2017, 31 s.), la necessità di accertarsi della consapevolezza della scelta del paziente prima di eseguire od omettere un trattamento sembra talmente basilare da rientrare nei comportamenti che qualunque persona diligente e scrupolosa porrebbe in essere, a prescindere dall’esistenza e dalla conoscenza di regole legislative e deontologiche riservate a coloro che svolgono una professione sanitaria. Di conseguenza, non trattandosi di imperizia, non può trovare applicazione la limitazione di responsabilità sancita dall’art. 6 legge n. 24/2017, come chiarito da Cass. Pen., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770, in Cass. pen., 2018, 5, 1452. 23 Non varrebbe obiettare che la responsabilità è pacificamente esclusa anche quando il medico si astiene dall’intervenire a seguito del rifiuto attuale. Quest’ultimo, infatti, offre certezza dell’effettiva volontà del malato grazie alla doverosa opera di controllo sulla libertà e sulla consapevolezza della scelta, da realizzare, come detto, anche mediante l’attivazione dell’assistenza psicologica. Di conseguenza, non sembra sussistere un ragionevole rischio che sia omesso un trattamento che il paziente avrebbe accettato. Quindi, risulta confermato che solo per le d.a.t. si esclude la responsabilità a fronte di una condotta che, seppur prevista dal citato comma 5, si palesa come negligente.
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4. La mancata previsione di strumenti idonei ad accertare la consapevolezza del paziente.
Dal complessivo articolato della legge n. 219/2017, in particolare dal citato art. 4, risulta la mancanza di strumenti necessari per accertare la consapevolezza del disponente. In particolare, non si prevede l’obbligo che: a) l’informazione sia fornita da medico specialista della materia ed esperto della patologia cui si riferisce il trattamento rifiutato; b) la d.a.t. sia sottoscritta dinanzi a tale medico, che verifica la capacità d’intendere e di volere del paziente; invece la legge, prevedendo la possibilità di consegna all’ufficio dello stato civile o presso le strutture sanitarie autorizzate di una d.a.t. già predisposta dal paziente stesso, consente la verifica della capacità naturale solo al momento della consegna e non anche in quello della redazione24; c) l’informazione ricevuta dal paziente sia allegata alla d.a.t.; d) l’informazione non riguardi solo le conseguenze del rifiuto, ma abbia ad oggetto gli stessi contenuti necessari per rendere valido il consenso o il rifiuto attuali; e) la libertà della d.a.t. sia verificata, così da scongiurare il rischio che quest’ultima sia stata caldeggiata da qualcuno25. Tanto meno è previsto un termine di durata delle d.a.t., che quindi dovrebbero essere vincolanti (non meramente orientative) per i medici anche a distanza di molti anni dalla loro redazione. Tali lacune rendono l’art. 4 contraddittorio rispetto alla finalità della legge, sancita nell’art. 1, di tutelare la libertà di autodeterminazione e il diritto alla vita del malato. Infatti, la valorizzazione di tali diritti costituzionalmente garantiti presuppone l’introduzione di norme che favoriscano il formarsi di una decisione consapevole e ammettano l’inattivazione di cura salvavita nei soli casi in cui il rifiuto contenuto nella d.a.t. è certamente consapevole, perché ponderato e pienamente informato. Invece, l’art. 4, nella sua lacunosità, agevola il soggetto a manifestare una volontà, ma gli impedisce di autodeterminarsi. Infatti, l’autodeterminazione presuppone la libertà e la consapevolezza della scelta e, quindi, la piena e preliminare informazione, che manca quasi completamente nella disciplina delle d.a.t.
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Come rileva D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, cit., 293, prevedere che la d.a.t. fosse consegnata ad un medico sarebbe stato necessario per consentirgli di verificare che le scelte del paziente «non si basino su false rappresentazioni degli effetti di una patologia o di una terapia, né tradiscano, per scarsa padronanza del linguaggio tecnico, le sue effettive intenzioni. Fare della ricezione da parte di un medico la modalità tipica di dichiarazione delle disposizioni anticipate sarebbe valso a collocare generalmente prima, al momento della dichiarazione, quella messa a confronto dell’interessato con le obiettive risultanze e con i codici espressivi del sapere medico cui la legge lascia spazio dopo, nella fase dell’esecuzione. I vantaggi che avrebbe avuto tale scelta mi paiono evidenti: quello ex ante sarebbe un confronto costruttivo, che potrebbe dar luogo a un avanzamento del grado di informazione del dichiarante, a una migliore consapevolezza delle sue deliberazioni o a una più precisa formulazione dei suoi desideri; mentre il confronto ex post può per forza di cose metter capo solo a un fin de non recevoir per le espressioni giudicate insignificanti, troppo generiche o comunque sospette». 25 Corte cost. (ord.), 16 novembre 2018, n. 207, cit., ha chiarito che l’istigazione al suicidio deve continuare ad essere prevista come reato in quanto rappresenta un fondamentale presidio a tutela del diritto alla vita.
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In senso contrario, non appare possibile far leva sul disposto dell’art. 1, comma 3, secondo cui il paziente «[p]uò rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece». Tale norma non appare idonea a legittimare una diminuzione di informazioni da ricevere prima della redazione delle d.a.t. Infatti, il comma in esame menziona solo il consenso e non anche il rifiuto, mentre la funzione delle d.a.t. sta proprio nel rifiutare uno o più trattamenti sanitari. Inoltre, la necessità che il rifiuto sia consapevole, quindi pienamente informato anche se anticipato, deriva dell’indisponibilità del diritto alla vita e di quello alla salute (limitatamente alle menomazioni permanenti), sancita dagli artt. 5 c.c. e 50 c.p. Infatti, un rifiuto disinformato di trattamenti sanitari è una scelta immotivata. L’indisponibilità del diritto alla vita è una regola generale; tollera una deroga in caso di rifiuto di trattamenti sanitari in virtù dell’art. 32, comma 2, Cost. Ma, come ogni deroga, non può essere interpretata in modo talmente ampio da far venire meno la regola generale. Invece, se si ammettesse (come fa l’art. 4 della legge in esame) la validità del rifiuto disinfomato, si legittimerebbe una piena disponibilità dei diritti alla vita e alla salute, dando luogo ad un esito interpretativo incostituzionale26. Pertanto, l’unica via per evitare l’incostituzionalità per violazione degli artt. 2, 32, commi 1 e 2, Cost. e del principio di ragionevolezza sotto il profilo della contraddittorietà rispetto alle finalità della legge sembra individuabile in un’interpretazione costituzionalmente orientata del concetto di palese incongruità, che porti a ritenere congrua solo la disposizione anticipata che dia certezza della consapevolezza del paziente. Tale soluzione si scontra nuovamente con il limite rappresentato dal fatto di poter essere applicata solo nelle ipotesi in cui il medico non può rivolgersi ad un fiduciario. Occorre, dunque, prendere ora in esame tale figura, in particolare il suo potere di rifiutare il trattamento sanitario senza necessità di un controllo preventivo da parte del giudice tutelare sulla volontà presunta del malato.
5. Il diritto del malato alla vita e alla dignità. Nei casi di d.a.t. non redatte o comunque inapplicabili, ad esempio perché inconferenti rispetto ai trattamenti resisi necessari, il fiduciario deve essere coinvolto nel processo decisionale e, qualora il medico ne condivida la scelta di non iniziare o di sospendere de-
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Tale interpretazione non equivale a privare l’art. 1, comma 3, di un proprio, peraltro innovativo, contenuto. Infatti, permettere al paziente di rinunciare all’informazione gli consente di evitare lo stress di dover comprendere quanto gli viene detto, di leggere il modulo e di prendere una decisione. Nell’ottica di valorizzare il rapporto fiduciario, appare coerente ammettere che il paziente possa affidarsi al medico nell’esecuzione del trattamento. Nessun contrapposto principio impedisce tale conclusione, il cui valore etico pare confermato dal fatto che la medesima disposizione è riportata all’art. 33, co. 3, cod.deont.med. Al contrario, come detto, la possibilità di rifiutare le cure senza la necessaria informazione si scontra con l’indisponibilità dei diritti alla vita e alla salute.
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terminati trattamenti (compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiali), non è necessaria alcuna autorizzazione giudiziale. Dunque, in ordine cronologico, il fiduciario è la terza figura di soggetto legalmente incaricato di prendere decisioni che producono effetti nella sfera giuridica del malato, dopo il tutore e l’amministratore di sostegno27. Poiché, al pari di questi ultimi, anche il fiduciario esprime una volontà che incide sui diritti personalissimi dell’incapace, gli si dovrebbe estendere l’applicazione del costante orientamento secondo cui il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che al tutore, investito di una funzione di diritto privato, non viene attribuito un potere incondizionato di disporre della salute della persona. Il tutore «deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». Dunque, il rifiuto delle cure non può derivare da considerazioni personali del tutore, ma deve basarsi sulla volontà dell’interessato e sui suoi orientamenti esistenziali: la scelta fatta dal rappresentante deve corrispondere a quella che sarebbe stata la volontà dell’incapace, se solo avesse potuto esprimerla28. Su questa base appare possibile cogliere la lacunosità del citato art. 4 nel non aver previsto l’intervento autorizzatorio del giudice tutelare. Solo l’istruttoria di un procedimento di fronte ad un organo terzo può ricostruire la volontà presunta dell’incapace29. Peraltro, appare doveroso notare che, nei casi di d.a.t. incongrua o non correlata al caso concreto o irrilevante per la sopravvenienza di terapie efficaci, non si dispone di una manifesta-
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Invero, il fiduciario sarebbe il quarto strumento di tutela della libertà di autodeterminazione del malato, perché l’art. 1, co. 40, l. n. 76/2016 aveva previsto che «[c]iascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute». Tuttavia, come rileva G. Buffone, Legge sul biotestamento e legge Cirinnà. Spunti critici per l’interpretazione, in www.altalex.com, il criterio cronologico induce a sostenere che tale previsione sia stata tacitamente abrogata dalla disciplina in materia di d.a.t. contenuta nella legge n. 219/2017. In senso contrario, si potrebbe rilevare che lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (in tal senso, R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Torino, 2007, 301). Tuttavia, poiché l’art. 4 della legge n. 219/2017 non è solo lex generalis, ma regola la complessiva disciplina del rifiuto anticipato e dell’affidamento da parte del paziente ad un terzo del potere di esprimere la propria volontà, l’art. 1, co. 40, della legge Cirinnà appare implicitamente abrogato in virtù dell’art. 14 delle preleggi. 28 Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., secondo cui capire quale sarebbe stata la «volontà della persona incapace – ricostruita alla stregua di chiari, univoci, e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza – assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante». Tale logica soluzione ermeneutica è stata ribadita anche relativamente ai poteri dell’amministratore di sostegno da Trib. Pavia, 24 marzo 2018, cit., il quale rileva che «la cognizione del diritto a rifiutare le cure come personalissimo altro non è che la logica simmetria dalla indisponibilità altrui e dell’intrasferibilità del diritto alla vita». 29 Secondo Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, cit., «[l]’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace; ... e si estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore». Negli stessi termini, ma con riferimento all’amministrazione di sostegno, Trib. Pavia, 24 marzo 2018, cit.
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zione di volontà del paziente, perché la d.at. è assente o comunque inidonea ad offrire indicazioni al medico. In queste situazioni, lasciare al medico e al fiduciario la scelta da cui deriva la morte dell’incapace, senza un’adeguata istruttoria svolta da un’Autorità terza appare una soluzione lesiva del livello di garanzia che deve essere riconosciuto al diritto alla vita, che è presupposto di ogni altro diritto30. Anche nell’ottica della protezione riconosciuta a tale diritto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, fermo l’ampio margine di apprezzamento riservato da quest’ultima agli Stati relativamente al bilanciamento tra contrapposti diritti fondamentali, «lo strumento di controllo sulla decisione del legislatore nazionale va rintracciato, secondo il diritto interposto, nel carattere di procedimentalità della decisione (in questo caso sul fine-vita), in quanto idoneo a rappresentare tutti i soggetti coinvolti nella vicenda»31. Proprio di procedimentalità difetta la legge n. 219/2017 sia perché esclude la partecipazione del giudice tutelare sia in quanto non disciplina i passaggi attraverso cui fiduciario e medico arrivano ad una decisione che corrisponda con ragionevole certezza a quella che avrebbe preso il malato. Anche a prescindere da tale rilievo, consentendo a medico e fiduciario di decidere della sorte del malato senza alcun vaglio del giudice tutelare, la legge contraddice la finalità che si è data all’art. 1, ossia contemperare il diritto alla vita con la libertà e la dignità della persona. Infatti, realizzano un effettivo bilanciamento tra due interessi contrapposti solo quelle soluzioni normative che consentono la tutela dell’uno senza comportare l’annientamento dell’altro. Alla luce di questo criterio di giudizio, si può notare che richiedere l’intervento del giudice tutelare eleva la protezione del diritto alla vita senza pregiudicare la libertà di autodeterminazione, che troverà la propria realizzazione all’esito del procedimento giudiziale di conferma della correttezza della scelta fatta dal fiduciario e dal medico32. Invece, escludere il contributo ricostruttivo di una figura terza offre una tutela della
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Difettando nell’art. 3 della legge n. 219/2017 l’obbligo di rivolgersi al giudice tutelare in caso di rifiuto deciso dall’amministratore di sostegno e condiviso dal medico, Trib. Pavia, 24 marzo 2018, cit., ha sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. Con sentenza del 13 giugno 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate tali eccezioni rilevando che la legge n. 219/2017 non fa venir meno la necessità che, per effetto della legge n. 4/2004, il potere di esprime il rifiuto di cure sia attribuito all’amministratore di sostegno dal giudice tutelare. Secondo la Corte, «[l]’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, tenuto conto dei principi che conformano l’amministrazione di sostegno, porta allora conclusivamente a negare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda» (corsivi aggiunti). Dunque, la Corte sembra confermare che, anche quando all’amministratore sia già stato attribuito il potere di esprime il consenso o il rifiuto ai trattamenti sanitari, l’evolversi del quadro clinico che comporti l’esecuzione di trattamenti salvavita rende necessario rivolgersi nuovamente al giudice tutelare affinché decida se autorizzare il loro rifiuto da parte dell’amministratore di sostegno. Per un commento alla decisione della Corte, si rinvia a T. Di Palma, I poteri dell’amministratore di sostegno in tema di rifiuto di “cure” in mancanza di D.A.T., in www.rivistafamilia.it; M.R. Ielasi, Amministratore di sostegno: tra compiti istituzionali e necessità di vita e di tutela, in www.rivistafamilia.it. 31 I.A. Caggiano, Dichiarazione di illegittimità costituzionale art. 3, co. 4 e 5, L. 219/2017, cit. 32 Anzi, poiché il ricorso al giudice tutelare serve proprio ad accertare quale sarebbe stata la volontà dell’incapace, tale strumento sembra attuare contemporaneamente sia il diritto alla vita sia la libertà di autodeterminazione, più che non realizzare un bilanciamento tra loro.
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libertà di autodeterminazione che, oltre ad essere apparente (perché potrebbe non corrispondere alla scelta che il malato avrebbe fatto), pregiudica irrimediabilmente il diritto alla vita perché porta all’interruzione o alla mancata attivazione del trattamento salvavita. La contraddittorietà di una disposizione rispetto alle finalità della legge in cui è inserita comporta l’incostituzionalità della prima per violazione del principio di ragionevolezza. La storia della legge sulla procreazione medicalmente assistita ne ha offerto vari esempi. Altro profilo di incostituzionalità riguarda più strettamente il comma 2 dell’art. 32 Cost. Infatti, privando il giudice del dovere di valutare se autorizzare decisioni così drammatiche, la tanto tutelata (a parole) libertà di autodeterminazione rischia di essere pregiudicata nei fatti, perché si attribuisce ad un incapace una volontà (peraltro irreversibilmente autosoppressiva) senza mettere in campo gli sforzi istruttori possibili, necessari e comunemente usati per determinarne il contenuto anche in contesti strettamente patrimoniali e, quindi, meno drammatici di quelli del fine vita. Ne deriva un’irragionevole disparità di trattamento per l’incapace rispetto al paziente capace. In favore di quest’ultimo, infatti, la legge n. 219/2017 prevede regole di forma scritta, procedurali e sostanziali (come l’attivazione dei servizi di assistenza psicologica) dirette a verificare la consapevolezza della sua scelta, mentre per l’incapace non è stato introdotto alcun meccanismo di controllo sulla scelta operata dal fiduciario33. Del resto, la necessità dell’intervento del giudice tutelare si manifesta anche nei casi in cui la d.a.t. è applicabile, perché i medesimi parametri costituzionali sopra invocati comportano di verificare la congruenza delle disposizioni anticipate rispetto alle circostanze del caso concreto. Secondo parte della dottrina, la mancata previsione dell’intervento del giudice tutelare non si espone a censura di incostituzionalità, «non confliggendo con l’intento di tutelare, per quanto possibile, la volontà anche dei soggetti incapaci, e rispondendo, per contro, alla logica, che impronta la legge, di mantenere, in via di regola, le decisioni all’interno della relazione di cura»34. Analogamente, è stato rilevato che il ricorso all’autorità giudiziaria, compromettendo «la “relazione di cura e fiducia” tra paziente e medico, […] sembra contrastare con l’obiettivo dichiarato dal legislatore di “valorizzare e promuovere” tale relazione, considerata l’ambito in cui si realizzano, “fisiologicamente” gli interessi (ed i diritti) del paziente»35. Tali rilievi non appaiono persuasivi. Invero, se si rendesse obbligatorio il coinvolgimento del giudice tutelare, non si pregiudicherebbe l’intento di salvaguardare la volontà dei soggetti incapaci. Anzi, l’intervento dell’Autorità giudiziaria avrebbe proprio la funzione di ricostruirla con più cura ed attendibilità.
33
Trib. Pavia, 24 marzo 2018, cit. P. Borsellino, “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Fam. Dir., 2018, 8-9, 789. 35 M. Piccinni, Decidere per il paziente: rappresentanza e cura della persona dopo la L. n. 219/2017, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 7-8, 1118. 34
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Questioni di legittimità costituzionale della disciplina in materia di disposizioni anticipate di trattamento
Quanto all’esigenza di mantenere le decisioni all’interno del rapporto medico-fiduciario e di valorizzare la relazione di cura e di fiducia, occorre evitare di confondere i piani assiologici. I valori costituzionali di riferimento sono la vita e l’autodeterminazione in materia sanitaria, non l’accordo tra medico e fiduciario. Tant’è vero che, persino quando la relazione di cura è più intensa, perché si instaura tra medico e paziente capace, il loro accordo volto ad eseguire un omicidio del consenziente o un accanimento terapeutico o prestazioni imperite non rende lecite tali pratiche. Anche la legge n. 219/2017 ribadisce che l’obbligo di osservare la legge, la deontologia e le buone pratiche assistenziali persiste in capo al medico nonostante l’esplicita richiesta del paziente di pratiche con esse contrastanti. Del resto, non potrebbe essere altrimenti: l’alternativa sarebbe che un trattamento vietato dalla legge dovrebbe essere considerato lecito per il sol fatto di essere richiesto dal paziente, il che significherebbe mettere la volontà del paziente al di sopra di quella del legislatore. Peraltro, quando l’interesse patrimoniale dell’incapace viene gestito dal tutore avvalendosi della consulenza di avvocati e commercialisti, nessuno considera che la necessaria autorizzazione del giudice tutelare per gli atti previsti dalla legge sia un’intrusione eccessiva nella relazione professionale instaurata dal tutore con tali esperti. Il che conferma che mantenere le decisioni all’interno dei rapporti professionali, anche terapeutici, non è il fine né il mezzo, ma soltanto uno dei mezzi per raggiungere l’obiettivo della miglior protezione degli interessi dell’incapace, primo tra tutti quello alla vita. Inoltre, la valorizzazione del rapporto fiduciario tra medico e paziente è già garantita dal complessivo impianto della legge n. 219/2017. Dunque, prevedere l’autorizzazione del giudice tutelare non appare pregiudizievole quanto piuttosto necessario per evitare che l’irreversibile decisione di interrompere o di non attivare trattamenti salvavita sia assunta senza adeguata ponderazione e controllo. Altra dottrina rileva che la scelta di rimettere la decisione al giudice tutelare solo nei casi di contrasto tra medico e “rappresentante” (fiduciario, tutore o amministratore di sostegno) è coerente sia con la disciplina della tutela e dell’amministrazione di sostegno, che non richiedono l’autorizzazione del giudice per gli atti di cura personae, sia con l’art. 6 D.Lgs. n. 211/2003 in materia di sperimentazione (ora sostituito dal Reg. UE n. 536/2014), che rimette al legale rappresentante la ricostruzione della volontà presunta del paziente senza prevedere alcun coinvolgimento del giudice36. Tuttavia, tale disposizione appare scarsamente pertinente. Infatti, la scelta di sottoporre o meno un incapace ad una sperimentazione non è di per sé foriera di immediati e diretti effetti lesivi, come invece quella di non intraprendere o di interrompere trattamenti di sostegno vitale. Peraltro, nella disciplina della sperimentazione, a protezione del parte-
36
R. Masoni, Potere dell’ADS di rifiutare le cure senza l’intervento del GT: il Tribunale di Pavia solleva questione di legittimità, in www. ilfamiliarista.it, 9 maggio 2018, il quale ricorda che proprio sull’applicazione analogica di questa disposizione, oltre che sull’art. 32, comma 2, Cost., la citata Cass., Sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748, ha fondato l’annullamento con rinvio del decreto che aveva rigettato la domanda di interruzione della nutrizione artificiale nel notissimo caso Englaro.
39
Gianluca Montanari Vergallo
cipante, specie se incapace, è previsto l’intervento necessario del comitato etico in fase preventiva di autorizzazione come pure durante lo svolgimento della ricerca. Quanto al confronto con le regole in materia di tutela e di amministrazione di sostegno, difficilmente giustificabile, sul piano della ragionevolezza, appare la previsione dell’autorizzazione giudiziale per gli atti di straordinaria amministrazione e non per quelli da cui deriva la morte dell’incapace37. Di conseguenza, appare più logico e corretto che sia questa irragionevolezza a determinare l’incostituzionalità anche delle norme in materia di tutela e di amministrazione di sostegno: l’alternativa di usare tali disposizioni per desumere la ragionevolezza di un potere (del medico e del fiduciario) privo di controllo giudiziale non appare percorribile perché omette di prendere in considerazione il fatto che il nostro ordinamento estende tale controllo anche ad atti che, rivestendo natura meramente patrimoniale, sono sicuramente meno “invasivi” di quelli da cui deriva la morte. Inoltre, proprio per evitare l’incostituzionalità delle regole in materia di tutela e di amministrazione di sostegno, si può ben intendere la non obbligatorietà dell’autorizzazione giudiziale per gli atti di cura personae come indicativa dell’intenzione del legislatore di attribuire al tutore e all’amministratore di sostegno il compito di salvaguardare la vita dell’incapace, non di optare per l’inattivazione di trattamenti sicuramente idonei ad evitarne la morte. Risulta, dunque, confermato che la legittimità di tali irreversibili decisioni da parte del “rappresentante” presuppone l’autorizzazione del giudice. In senso contrario è stato avanzato l’argumentum ab absurdo. Se la concorde volontà del fiduciario e del medico non fosse sufficiente «nelle scelte che riguardano la vita, lo stesso problema dovrebbe estendersi anche a quelle relative alla salute» oltre che in tutti i casi di pazienti naturalisticamente incapaci e privi di un rappresentante. Di conseguenza, «vi sarebbe necessità di un intervento giudiziario per tutte le scelte sulla salute che riguardino una persona in stato di incapacità»38. Tuttavia, l’esigenza di controllo giudiziale si pone solo nei casi di accordo del medico e del “rappresentante” per interrompere o non attivare trattamenti necessari per la vita o per la salute dell’incapace. Dunque, si tratta di una minima parte rispetto alla generalità dei casi, che invece vedono il consenso del medico e del “rappresentante” all’esecuzione del trattamento. A ribadire la necessità del coinvolgimento del giudice tutelare, peraltro, soccorre la decisione della Suprema Corte nel caso Englaro. Infatti, pur ammettendo l’interruzione della nutrizione artificiale, si chiarisce espressamente che essa presuppone l’accertamento giudiziale della condizione di stato vegetativo permanente e della volontà presunta dell’incapace39.
37
Trib. Pavia, 24 marzo 2018, cit. M. Piccinni, Decidere per il paziente, cit., la quale, conseguentemente, così conclude: «È evidente che una simile impostazione del problema è fuorviante». 39 Non sorprende, quindi, che la soluzione adottata dal legislatore sia stata disattesa da Francia, Spagna, Germania e Regno Unito, pur nell’ambito di legislazioni favorevoli a riconoscere rilevanza giuridica al testamento biologico. Per una panoramica di queste legislazioni, si rinvia a I.A. Caggiano, Dichiarazione di illegittimità costituzionale art. 3, co. 4 e 5, L. 219/2017, cit., nota 6. 38
40
Questioni di legittimità costituzionale della disciplina in materia di disposizioni anticipate di trattamento
Anche questo profilo di incostituzionalità del comma 5 sembra rimediabile in via interpretativa. Infatti, la norma in esame prevede l’intervento del giudice tutelare solo nell’ipotesi di disaccordo tra medico e fiduciario, ma non disciplina espressamente il caso dell’accordo tra medico e fiduciario in favore dell’interruzione. Dunque, di regola dovrebbe applicarsi il criterio ermeneutico dell’ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, ma non nel caso del comma 5, perché, come detto, porterebbe ad un esito incostituzionale. Di conseguenza, dato che tale norma non contiene un’esplicita previsione che disciplina il caso in cui medico e fiduciario siano favorevoli all’interruzione, appare percorribile e preferibile l’interpretazione favorevole alla necessità di coinvolgere il giudice tutelare. Tale soluzione, infatti, è l’unica che tutela il diritto alla vita senza ledere, se non eventualmente in modo temporaneo, l’autodeterminazione. Al contrario, ammettere l’interruzione delle cure senza alcun controllo giudiziale sulla corrispondenza tra scelta del fiduciario e volontà presunta dell’incapace comporta il rischio di ledere sia il diritto alla vita che la libertà di autodeterminazione. Il che è tanto più irragionevole se si nota che tali esiti, pur essendo penalmente rilevanti, non possono dar luogo ad alcuna responsabilità, stante l’inequivoco tenore dell’art. 1, co. 6.
6. La libertà di coscienza dei sanitari. L’art. 4 della legge n. 219/2017 dispone che, «[f]ermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’art. 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT». Dunque, la regola generale è rappresentata dalla vincolatività delle d.a.t., che viene derogata nei soli casi in cui il paziente chieda «trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia o alle buone pratiche clinico-assistenziali». Poiché l’osservanza delle d.a.t. produce un effetto pregiudizievole per la vita o quantomeno per la salute del disponente, si pone il problema se il sanitario possa esercitare l’obiezione di coscienza nonostante la mancanza nella legge n. 219/2017 di una disposizione che espressamente gli riconosca tale facoltà. Nella sentenza n. 422/93, la Corte costituzionale ha affermato che «[i] motivi di coscienza […] non coincidono con qualsiasi imperativo morale, ma riguardano […] i comandi del foro interno riconducibili a concezioni generali, ai quali, in ragione del pluralismo dei valori di coscienza susseguente alla garanzia costituzionale delle libertà fondamentali della persona, può esser attribuita dal legislatore una determinata e limitata capacità di deroga a specifici doveri costituzionali di solidarietà civile o politica»40. Il riferimento al legislatore contenuto in tale pronuncia lascia intendere che l’obiezione di coscienza sia ammissibile solo in presenza di specifiche previsioni legislative. In mancanza, la generale regola della
40
Corte cost., 18 novembre 1993, n. 422, in Foro it., 1994, I, 341.
41
Gianluca Montanari Vergallo
vincolatività della legge e l’esigenza di non pregiudicare la fruizione di servizi d’interesse generale impedirebbero a tutti di astenersi dall’osservanza delle fonti normative41. Di conseguenza, non sarebbe possibile riconoscere ai sanitari l’obiezione di coscienza a fronte delle d.a.t. Tuttavia, tale sentenza espressamente richiama e ribadisce una precedente pronuncia del medesimo Giudice delle leggi, secondo cui, «quando sia ragionevolmente necessaria rispetto al fine della garanzia del nucleo essenziale di uno o più diritti inviolabili dell’uomo, quale, ad esempio, la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 della Costituzione) o della propria fede religiosa (art. 19 della Costituzione) – la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana. Sotto tale profilo, se pure a seguito di una delicata opera del legislatore diretta a bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecar pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale, la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)»42. Se l’obiezione di coscienza presenta fondamento costituzionale, dovrebbero ritenersi incostituzionali le disposizioni che obbligano ad attività eticamente controverse senza riconoscere la possibilità di astenersene. Diversamente, l’inerzia del legislatore si tradurrebbe nella lesione di un diritto costituzionalmente garantito, con palese inversione del principio di gerarchia delle fonti, che invece obbliga ad interpretare la legge in modo da renderla conforma alla Legge fondamentale. Di conseguenza, l’obiezione di coscienza dovrebbe essere riconosciuta anche in mancanza di un’espressa disposizione legislativa. A conferma di tale conclusione depone la tutela che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo riserva alla coscienza agli artt. 9 e 10. Ove si escludesse che la legge in esame riconosce l’obiezione di coscienza come effetto dell’applicazione diretta delle citate disposizioni costituzionali e convenzionali, si dovrebbe concludere per l’incostituzionalità del suo art. 4 nella parte in cui non garantisce
41
B. Liberali, La delimitazione dell’obiezione di coscienza alla luce di alcune recenti vicende giudiziarie e amministrative, in Quad. cost., 2015, II, 416 ss. 42 Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 467, in Cons. Stato, 1991, II, 1999; a favore della rilevanza costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza, M. Casini, M.L. Di Pietro, C. Casini, Testamento biologico e obiezione di coscienza, in Med. Mor., 2007, 3, 473-490.
42
Questioni di legittimità costituzionale della disciplina in materia di disposizioni anticipate di trattamento
ai sanitari il diritto di astenersi da atti contrari alla loro coscienza e il cui effetto diretto è pregiudizievole per la vita o quantomeno per la salute del malato. Tale esito appare evitabile attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4. Infatti, il richiamo ivi contenuto al comma 1 dell’art. 6 della legge in esame consente di sostenere un riconoscimento implicito dell’obiezione di coscienza anche nei casi di d.a.t. In particolare, il riferimento alla deontologia medica, contenuto nell’indicato comma 1 dell’art. 6, include l’obiezione di coscienza, perché quest’ultima è espressamente tutelata dal codice deontologico all’art. 22. Quindi, il paziente non potrebbe pretendere dal medico prestazioni che pregiudicano il proprio diritto alla vita o alla salute.
7. Conclusioni. Dall’analisi condotta emerge che, sebbene il testamento biologico sia stato elaborato dalla dottrina al fine di dare attuazione alla libertà di autodeterminazione dell’incapace, la disciplina che ne ha predisposto il legislatore al citato art. 4 si rivela, paradossalmente, lesiva di tale diritto, riconosciuto a tutti i pazienti dall’art. 32, comma 2, Cost., e discriminatoria proprio per le persone prive di capacità decisionale, oltre che penalizzante per la libertà di coscienza dei sanitari. La lacunosità dell’art. 4 semplifica la redazione e l’attuazione delle d.a.t. fino a banalizzarle, dando luogo ad una sostanziale negazione dell’istinto di sopravvivenza, che è alla base dell’intuitivo principio in dubio pro vita. Ma che senso ha abrogare per legge una regola di natura? Sarebbe stata preferibile una disposizione che avesse considerato il testamento biologico come «un documento non vincolante ma orientativo, il quale consente di conoscere quali fossero i sentimenti e i desideri del paziente prima della perdita di conoscenza»43, così da «guidare l’operato del personale medico in maggiore consonanza alle aspirazioni del paziente»44. Fermo restando che, nei casi in cui il medico dovrebbe avere un ragionevole dubbio sull’attualità della dichiarazione anticipata, dovrebbe disattenderla. Infatti, il miglior interesse del malato è che sia rispettata la sua volontà, a patto che vi sia certezza che il paziente, qualora fosse capace di farlo, darebbe le stesse disposizioni.
43
Così S. Patti, L’autonomia decisionale della persona alla fine della vita, in Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Milano, 2008, 4. 44 M. Sesta, Riflessioni sul testamento biologico, in AA.VV., Studi in onore di Nicolò Lipari, Milano, 2010, 2839.
43
Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 9 agosto 2019, n. 21234; Giancola Presidente – Lamorgese Relatore Divorzio – Assegno all’ex coniuge – Funzione assistenziale e compensativa dell’assegno divorzile – Conseguenze – Valutazione dell’inadeguatezza dei mezzi e dell’impossibilità di procurarseli – Squilibrio economico tra le parti e alto livello reddituale dell’ex coniuge – Irrilevanza in sé – Fondamento Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno divorzile si deve tenere conto della funzione assistenziale e, a determinate condizioni, anche compensativo-perequativa cui tale assegno assolve. Da ciò consegue che, nel valutare l’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge che ne faccia richiesta, o l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, si deve tener conto, utilizzando i criteri di cui all’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, sia della impossibilità di vivere autonomamente e dignitosamente da parte di quest’ultimo e sia della necessità di compensarlo per il particolare contributo, che dimostri di avere dato, alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge durante la vita matrimoniale, senza che abbiano rilievo, da soli, lo squilibrio economico tra le parti e l’alto livello reddituale dell’altro ex coniuge, tenuto conto che la differenza reddituale è coessenziale alla ricostruzione del tenore di vita matrimoniale, ma è oramai irrilevante ai fini della determinazione dell’assegno, e l’entità del reddito dell’altro ex coniuge non giustifica, di per sé, la corresponsione di un assegno in proporzione delle sue sostanze.
(Omissis)
economica delle parti e della durata del matri-
Fatti
monio (oltre venti anni), l’attribuzione dell’asse-
di causa
La Corte d’appello di Genova, con sentenza
gno nell’importo indicato era giustificato, essen-
del 5 aprile 2018, ha rigettato il gravame di B.L.
do idoneo a consentire alla Ba. di condurre una
avverso l’impugnata sentenza che aveva posto
“esistenza dignitosa” e importando per il B. un
a suo carico il pagamento di un assegno divor-
sacrificio “non particolarmente gravoso”.
zile di Euro 20.000,00 mensili (lordi), in favore
Avverso questa sentenza B.L. ha proposto ri-
dell’ex moglie Ba.Pa., sulla base delle seguenti
corso per cassazione, affidato a quattro motivi,
circostanze: la Ba. aveva 54 anni circa, aveva abbandonato l’attività di igienista dentale da oltre 18 anni dopo la nascita del figlio (per il quale il B. corrispondeva un contributo di Euro 5.000,00 al mese), non svolgeva attività lavorativa e le possibilità di trovare un nuovo lavoro erano molto scarse; era invalida e le sue condizioni di salute erano precarie; il marito le aveva donato una villa
cui si oppone la Ba. Le parti hanno presentato memorie. Ragioni
della decisione
1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per avere attribuito l’assegno divorzile, senza che la Ba. avesse assol-
a (OMISSIS), del valore di Euro 750.000,00, ma
to all’onere di fornire prova dell’impossibilità di
era una casa di vacanze inidonea a permetterle
trovare una occupazione lavorativa, non avendo
di vivere autonomamente; l’appellante non aveva
nemmeno allegato di avere cercato di reinserirsi
fornito prova di altre fonti di reddito della Ba.; in-
nel mondo del lavoro come igienista dentale, nè
vece i redditi di B.L., amministratore delegato di
di essere inidonea all’attività lavorativa per motivi
…, erano molto elevati, pari complessivamente a
di salute e per avere ritenuto che l’appellante non
Euro 4.493.185,00 all’anno. Pertanto, in conside-
avesse provato ulteriori fonti di reddito della Ba.,
razione della rilevante disparità della situazione
con l’effetto di invertire il criterio legale dell’one-
45
Giurisprudenza
re della prova, essendo a carico del richiedente l’onere di provare di avere diritto all’assegno.
2.1. I motivi in esame, da valutare congiuntamente, sono fondati nei termini che si diranno.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa
2.2. La L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6,
applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e
contiene un parametro – la disponibilità di “mez-
art. 111 Cost., comma 6, per avere ritenuto apo-
zi adeguati” o “comunque (l’impossibilità di) pro-
ditticamente che la Ba. non potesse riprendere la
curarseli per ragioni oggettive” – e alcuni criteri
sua precedente attività lavorativa, che consisteva
da utilizzare per l’attribuzione e la determinazio-
in una professione che implicava un’attività (di
ne dell’assegno divorzile a favore del coniuge ri-
igienista dentale) non soggetta a rapida obsole-
chiedente: le condizioni e i redditi dei coniugi,
scenza; per avere fatto surrettizia applicazione
le ragioni della decisione, il contributo personale
del criterio del tenore di vita matrimoniale, co-
ed economico dato da ciascuno alla conduzio-
me si desumeva dal fatto che la Corte d’appello
ne familiare ed alla formazione del patrimonio
aveva confermato la sentenza del Tribunale che
di ciascuno e di quello comune, tutti da valutare
esplicitamente aveva fatto applicazione di quel
anche in rapporto alla durata del matrimonio.
criterio per l’attribuzione e la quantificazione
2.3. La nozione di adeguatezza dei mezzi è
dell’assegno; per avere omesso di valutare il pro-
stata intesa dalla giurisprudenza tradizionale co-
filo dell’indipendenza economica della Ba., con-
me finalizzata alla conservazione (tendenziale)
centrando l’attenzione soltanto sui redditi del B.
del tenore di vita matrimoniale, come desumibile
(tra l’altro sovrastimati) e omettendo di valutare
dalle condizioni economiche del coniuge desti-
se la richiedente versasse in una situazione di
natario della domanda, all’esito, in sostanza, del
impossibilità di condurre con i propri mezzi un’e-
cosiddetto confronto reddituale tra i coniugi al
sistenza economicamente autonoma e dignitosa.
momento della decisione (a partire da Cass. SU
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa
n. 11490 e 11492 del 1990).
applicazione dell’art. 5, comma 6, cit., per avere
Sono note le numerose e fondate critiche al
determinato l’assegno in misura comunque ben
suddetto parametro che hanno indotto la giu-
superiore a quella necessaria a mantenere inal-
risprudenza a sostituirlo con quello, intrinseca-
terato il pregresso tenore di vita matrimoniale e
mente inerente alla nozione di adeguatezza dei
a garantire un livello di indipendenza economica
mezzi, di indipendenza economica, intesa come
adeguato a uno standard di vita medio, per ave-
possibilità di vita dignitosa (Cass. n. 11504 del
re avuto riguardo alla posizione del coniuge ob-
2017): la Corte ha precisato che “per determinare
bligato anziché a quella del coniuge richiedente
la soglia dell’indipendenza economica occorrerà
l’assegno, per avere trascurato la rilevanza dell’at-
avere riguardo alle indicazioni provenienti, nel
tribuzione alla ex moglie di una casa di notevole
momento storico determinato, dalla coscienza
valore economico e di ulteriori elargizioni econo-
collettiva e, dunque, né bloccata alla soglia della
miche, per avere utilizzato un parametro sfornito
pura sopravvivenza né eccedente il livello della
di supporto normativo (quello della percentuale,
normalità” (Cass. n. 3015 del 2018).
ritenuta modesta, di incidenza dell’assegno sul
2.4. Il Collegio ritiene che questo esito inter-
complessivo ammontare dei redditi dell’obbli-
pretativo non sia stato sovvertito dalle Sezioni
gato) e per avere omesso di valutare lo scarso
Unite n. 18287 del 2018, ma solo in parte corret-
contributo personale e patrimoniale dato dalla
to, e che quindi si debba ribadire, con le precisa-
consorte al rapporto matrimoniale.
zioni che si faranno di seguito.
46
Tommaso Auletta
2.5. Le Sezioni Unite hanno confermato che: a) il parametro (della conservazione) del tenore di vita non ha più cittadinanza nel nostro sistema; b) l’onere di provare l’esistenza delle condizioni legittimanti l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno grava sul coniuge richiedente l’assegno, mentre in passato si poneva l’onere di provare l’insussistenza delle relative condizioni a carico del coniuge potenzialmente obbligato; c) l’assegno svolge una finalità (anche o principalmente) assistenziale. Per altro verso, le Sezioni Unite hanno: a) evidenziato l’ulteriore e concorrente finalità compensativa o perequativa dell’assegno, nei casi in cui vi sia la prova – di cui è onerato il coniuge richiedente l’assegno, trattandosi di fatto costitutivo del diritto azionato – che la sperequazione reddituale in essere all’epoca del divorzio sia direttamente causata dalle scelte concordate di vita degli ex coniugi, per effetto delle quali un coniuge abbia sacrificato le proprie aspettative professionali e reddituali per dedicarsi interamente alla famiglia, in tal modo contribuendo decisivamente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune (da ultimo, Cass. n. 10781 e 10782 del 2019, n. 6386 del 2019); b) le Sezioni Unite non hanno condiviso la rigida distinzione tra criteri di attribuzione (an debeatur) e di quantificazione (quantum debeatur) dell’assegno, in tal modo innovando rispetto al precedente orientamento consolidato, con l’effetto che per l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, devono applicarsi i criteri equiordinati di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, al fine di decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. 2.6. Ad avviso del Collegio, risulta confermata la imprescindibile finalità assistenziale dell’assegno, con la quale può concorrere, in determinati casi, quella compensativa.
È sufficiente constatare che in tutti i casi in cui l’assegno non sia riconosciuto, non ricorrendo in concreto le condizioni per valorizzare la ricordata funzione compensativa, è perché il coniuge richiedente, evidentemente, si trova in condizioni di “autosufficienza economica” (cfr. Cass. n. 6386 del 2019). L’esistenza di un obbligo di pagamento dell’assegno implica un perdurante legame di dipendenza (economica) tra gli ex coniugi che non c’è quando detto obbligo non sussista, cioè quando (e proprio perché) entrambi sono “indipendenti economicamente”. È opportuno precisare che l’assegno non è comunque dovuto qualora entrambi i coniugi non abbiano mezzi propri adeguati per vivere dignitosamente, pure in presenza di un relativo squilibrio delle rispettive condizioni reddituali e patrimoniali. 2.7. La funzione assistenziale dell’assegno, come si è detto, può anche concorrere con (o essere assorbita dalla) funzione compensativaperequativa, a determinate condizioni, entrambe costituenti espressione della solidarietà post-coniugale valorizzata dalle Sezioni Unite. Il parametro della (in)adeguatezza dei mezzi o della (im)possibilità di procurarseli per ragioni oggettive va quindi riferito sia alla possibilità di vivere autonomamente e dignitosamente (e, quindi, all’esigenza di garantire detta possibilità al coniuge richiedente), sia all’esigenza compensativa del coniuge più debole per le aspettative professionali sacrificate, per avere dato, in base ad accordo con l’altro coniuge, un dimostrato e decisivo contributo alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge. La suddetta valutazione, da operare con riferimento ai criteri indicati dalla norma (art. 5, comma 6), tra i quali la durata del matrimonio, deve tenere conto delle predette esigenze che integrano il parametro dell’adeguatezza, con effetti sul piano anche della quantificazione dell’assegno in concreto.
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Giurisprudenza
2.8. Nell’ambito di questo accertamento, lo squilibrio economico tra le parti e l’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non costituiscono, da soli, elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno. Il mero dato della differenza reddituale tra i coniugi è coessenziale alla ricostituzione del tenore di vita matrimoniale, che è però estranea alle finalità dell’assegno nel mutato contesto. L’attribuzione e la quantificazione dello stesso non sono variabili dipendenti soltanto dall’alto (o dal più alto) livello reddituale di uno degli ex coniugi, non trovando alcuna giustificazione l’idea che quest’ultimo sia comunque tenuto a corrispondere all’altro tutto quanto sia per lui “sostenibile” o “sopportabile”, quasi ad evocare un prelievo forzoso in misura proporzionale ai suoi redditi. Un esito interpretativo di questo genere si risolverebbe in una imposizione patrimoniale priva di causa, che sarebbe arduo giustificare in nome della solidarietà post-coniugale. 2.9. Non varrebbe evocare in senso contrario l’esigenza (che si assume inerente all’assegno divorzile) “riequilibratrice” delle condizioni reddituali degli ex coniugi, la quale non trova una specifica conferma come funzione autonoma dell’istituto nel testo della norma (art. 5, comma 6, cit.). La suddetta esigenza era coerente, piuttosto, nella diversa prospettiva della conservazione del tenore di vita matrimoniale, rispetto alla quale il riequilibrio dei redditi costituiva l’esito finale di quel confronto reddituale che costituiva il fulcro di ogni valutazione in ordine alla attribuzione e quantificazione dell’assegno. E tuttavia, una volta superata la suddetta prospettiva, il (parziale) riequilibrio dei redditi altro non è che l’effetto pratico dell’imposizione patrimoniale realizzata con l’attribuzione dell’assegno alle condizioni date (non indipendenza economica e/o necessità di compensazione del particolare contributo dato da un coniuge durante la vita matrimoniale).
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3. Nella specie, la ratio decidendi posta a fondamento della decisione, con la quale la Corte genovese ha riconosciuto alla Ba. un assegno mensile di Euro 20.000,00 (lordi), ritenuto adeguato a consentirle di “condurre una esistenza dignitosa”, si articola nei seguenti passaggi argomentativi: a) vi è una “rilevante disparità della situazione economica delle parti”, essendo il B. un top-manager e titolare di redditi estremamente elevati, sui quali l’incidenza di detto assegno sarebbe percentualmente irrisoria (intorno al cinque per cento), sicché il relativo onere economico sarebbe per lui sopportabile; b) la Ba. aveva abbandonato il lavoro di igienista dentale per dedicarsi alla famiglia e non potrebbe agevolmente riprenderlo né trovare una utile collocazione nel mondo del lavoro, in considerazione della sua età (oggi di 55 anni) e delle sue non buone condizioni di salute; c) il marito aveva acquistato per la Ba. una villa del valore di Euro 750.000,00 che però costituiva casa per le vacanze; d) il B. non aveva dimostrato ulteriori fonti di reddito della Ba.; e) il matrimonio era durato venti anni. 3.1. La suddetta ratio, in parte, contrasta con i principi che regolano la materia, come forgiati nella richiamata giurisprudenza di legittimità, ed è anche affetta da motivazione apparente, quindi al di sotto del minimo costituzionale e censurabile, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5. La Corte di merito ha affermato di voler fare applicazione del parametro della adeguatezza dei mezzi con riferimento al canone della “esistenza dignitosa”, richiamando la sentenza n. 11504 del 2017, ma in realtà ha fatto surrettizia applicazione del parametro, ormai superato anche dopo l’intervento delle SU del 2018, della conservazione del tenore di vita matrimoniale, avendo confermato il medesimo importo che il giudice di primo grado aveva disposto con riferimento esplicito al tenore di vita. La Corte, inoltre, rilevando che il B. non ha dimostrato le fonti di reddito della controparte,
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è incorsa in violazione dei principi in tema di riparto dell’onere della prova, essendo a carico del richiedente l’assegno l’onere di dimostrare la mancanza di mezzi adeguati “o comunque (l’impossibilità di) procurarseli per ragioni oggettive” (art. 5, comma 6). Se è vero che l’assegno può essere attribuito anche solo per finalità di tipo compensativo, avendo la Ba. rinunciato alla sua attività professionale per dedicarsi alla famiglia, è tuttavia da escludere che la quantificazione dell’assegno possa consistere in una percentuale dei redditi del coniuge più abbiente – come invece accaduto nella specie –, dovendo parametrarsi al contributo personale dato alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge e alle esigenze di vita dignitosa del coniuge richiedente. La sentenza impugnata ha apoditticamente escluso ogni rilevanza all’attribuzione in favore della Ba. di un immobile del valore di Euro 750.000,00 e, pur riferendo di una erogazione di Euro 600.000,00 effettuata dal B., non ha chiarito se detta somma sia servita per acquistare la suddetta villa o le sia stata data in aggiunta, omissio-
ne questa che rende la motivazione apparente su un punto potenzialmente decisivo, ai fini della ricostruzione delle disponibilità e, quindi, dell’adeguatezza dei mezzi della Ba. 4. Il quarto motivo è inammissibile per difetto di interesse: il ricorrente ha imputato alla Corte genovese di avere esaminato nel merito l’appello incidentale della Ba., il quale tuttavia è stato rigettato. 5. In conclusione, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Genova per un nuovo esame, alla luce dei principi indicati, e per provvedere sulle spese della presente fase. P.Q.M. La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso e dichiara inammissibile il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche per le spese. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi. Così deciso in Roma, il 4 luglio 2019. Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019.
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La lettura della cassazione, prima sezione, sulla natura ed i criteri fissati da S.U. 18287/2018 riguardo all’assegno di divorzio Sommario: 1. Il caso e le motivazioni della decisione. – 2. L’evoluzione dei criteri previsti per la liquidazione dell’assegno di divorzio. – 3. La decisione della Cassazione 10 maggio 2017, n. 11504. – 4. La sentenza Cassazione Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287. – 5. Puntualizzazione su alcuni criteri fissati dalle Sezioni Unite e loro incidenza sulla decisione in commento. – 6. Cenni sulle prospettive di riforma.
The sentence in question is part of the broad strand of decisions of legitimacy and merit which have implemented the ruling of the sentence of the United Sections no. 18287/2018 regarding divorce allowance with reference to its nature and the criteria aimed at determining its amount. In confirming the direction already accepted with regard to the burden of proof, the sentence underlines how the allowance fulfils a pre-eminently assistance function and, eventually, an equalizing-compensatory function, and underlines that the economic autonomy of the claimant must be assessed on the basis of his possibility to lead a decent life. Retracing the long and complex path that led to the current interpretation, in this comment the author highlights the difficulties faced by the judge in reconstructing the criteria laid down by the new jurisprudential case law and in establishing its impact in order to determine the amount of the allowance.
1. Il caso e le motivazioni della decisione1. Alla moglie BaP, non esercente attività extrafamiliare, viene liquidato dal Tribunale di Genova un assegno divorzile di 20.000 euro mensili, posto a carico del marito BL, importante dirigente d’azienda. La sentenza viene pronunciata in epoca in cui era vigente il consolidato criterio giurisprudenziale secondo il quale l’ex coniuge ha, in linea di principio, diritto a conservare il tenore di vita matrimoniale, fatta salva una riduzione dell’importo
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Per un commento alla sentenza v. anche E. Al Mureden, Le nuove funzioni dell’assegno divorzile nello specchio dei big money cases, in Fam. e dir., 2019, 1087 ss.
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sulla base dei criteri previsti dall’art. 5, comma 6 l. div. L’assegno viene riconosciuto e quantificato tenendo conto che la moglie non svolge alcun lavoro extradomestico avendo abbandonato da oltre diciotto anni la precedente attività professionale di igienista dentale per dedicarsi esclusivamente alla famiglia ed in particolare alla crescita del figlio della coppia. Il matrimonio era durato venti anni, la donna ne aveva 55 e verosimilmente, non senza difficoltà, avrebbe potuto reinserirsi nel modo del lavoro. La decisione di primo grado viene confermata dalla Corte d’Appello in data 5 aprile 2018, aspetto di non secondaria importanza perché la decisione si colloca fra le due importanti sentenze che hanno introdotto sostanziali mutamenti interpretativi riguardo al dettato della norma che disciplina la materia: Cass., 10 maggio 2017, n. 11504 e Cass. SU., 11 luglio 2018, n. 18287. La Corte d’Appello, affermando di uniformarsi ai criteri previsti nella prima sentenza (l’unica fino ad allora intervenuta), conferma tuttavia la decisione di primo grado e dunque l’importo dell’assegno al fine di garantire indipendenza economica alla moglie ed assicurarle una vita dignitosa. Si ritiene infatti che tale importo sia sostenibile dal debitore in virtù della sua elevata posizione economica. BaP era sì proprietaria di un importante immobile del valore di 750.000 euro ma si trattava di una casa che poteva sfruttarsi solo per trascorrervi le vacanze. Peraltro il marito non aveva fornito alcuna prova circa l’esistenza di ulteriori risorse di cui la moglie poteva disporre. BL, nel proporre ricorso per cassazione, rileva che la Corte d’Appello ha fatto erronea applicazione del principio, già enunciato da Cass. 11504/2017, in tema di onere della prova, avendo liquidato l’assegno in mancanza di dimostrazione da parte della moglie dell’impossibilità di riprendere l’attività lavorativa; per avere omesso di valutare la rilevanza del contributo fornito alla vita familiare (più precisamente si afferma che il contributo è stato modesto); per avere surrettiziamente applicato il criterio del tenore di vita matrimoniale (testimoniato dalla conferma dell’importo liquidato in primo grado quando ancora la giurisprudenza vi faceva riferimento), determinando un importo dell’assegno ben superiore a quanto necessario per assicurare un tenore di vita medio; per non avere preso in considerazione quanto già ricevuto dalla moglie mediante importanti elargizioni da parte del marito; nonché per essersi concentrata essenzialmente sulla posizione economica di quest’ultimo senza verificare se la donna fosse in grado di condurre autonomamente un’esistenza dignitosa. Non risulta peraltro in atti il regime patrimoniale vigente fra i coniugi e neppure se il figlio fosse ancora bisognoso di cure. La Cassazione, nella pronunzia in esame, cassa con rinvio la decisione della Corte d’Appello, facendo applicazione dei criteri indicati dalle Sezioni Unite, i quali verranno più diffusamente esaminati del corso del commento. In particolare viene posto in luce – probabilmente non a caso, essendo l’estensore il medesimo della decisione del 2017 – che le Sezioni Unite non hanno sovvertito ma completato il criterio enunciato da Cass. 11504/2017 secondo il quale l’assegno ha principalmente natura assistenziale ed anche compensativa e perequativa. In base al primo criterio l’assegno deve assicurare comunque l’indipendenza economica, intesa non come condizione di mera sopravvivenza ma secondo un criterio di normalità, volto cioè a salvaguardare la dignità della persona ed eventualmente un importo maggiore, ove sussistano i
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presupposti insiti nel criterio perequativo compensativo, escludendo che l’obbligato debba corrispondere un importo maggiore, ove sostenibile, perché altrimenti si reintrodurrebbe il criterio del tenore di vita matrimoniale. Si richiama dunque, forse però in maniera meno chiara, il concetto secondo il quale detta autonomia sussiste quando l’ex coniuge è in grado di condurre, attingendo alle proprie risorse patrimoniali e lavorative, un’esistenza economicamente autonoma, libera e dignitosa. Riguardo alla natura dell’assegno la sentenza in commento ha il merito di sottolineare con chiarezza che l’assegno svolge principalmente (ma non solo) una funzione assistenziale, affermazione in un certo senso più decisa ed appropriata di quanto affermato nella pronuncia delle Sezioni Unite in cui si riscontrano riferimenti piuttosto ondivaghi per una discrasia fra dispositivo e parte motiva2, in quanto per un verso si tiene ferma la natura assistenziale dell’assegno ma anche perequativa e compensativa, per altro verso si afferma che quest’ultima funzione è quella prevalente, in aperto contrasto con altre due affermazioni: non ha diritto a compenso l’ex coniuge che ha maggiormente contribuito – diciamo per brevità – alla “vita familiare” in assenza di squilibrio della posizione economica dei coniugi; in mancanza di detto contributo assume rilevanza il criterio assistenziale. Per tali ragioni appare evidente che il criterio prevalente, è quello assistenziale, come giustamente rilevato dalla sentenza in commento, mentre quello perequativo compensativo assume certamente notevole rilevanza ma non al pari del primo3. Ciò premesso la Cassazione, nell’accogliere i rilievi dell’appellante, precisa che, nonostante quanto affermato, la Corte d’Appello, nel confermare l’importo dell’assegno, ha fatto surrettiziamente riferimento ancora al criterio del tenore di vita matrimoniale; ed inoltre non si è attenuta alle regole relative all’onere della prova; non ha neppure ricostruito con precisione il valore del patrimonio della moglie non avendo accertato con chiarezza se oltre alla villa del valore di 750.000 euro la donna avesse anche ricevuto dal marito ulteriori elargizioni ed in particolare una somma di 600.000 euro, aspetto questo che dovrà essere verificato dal giudice del rinvio. Questi dovrà anche determinare l’esistenza e l’entità dell’apporto della moglie in chiave perequativo-compensativa, al fine di verificare se le risorse ricevute dal marito non solo la ponessero in condizione di autosufficienza economica, cioè in grado di condurre una vita dignitosa, ma l’avessero anche adeguatamente compensata in relazione agli apporti prestati a favore della famiglia.
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Di mancanza di linearità dispositiva parla A. Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito, in questa Rivista, 2018, 530 ss. e v. anche i rilievi critici di C. Benanti, L’assegno divorzile non spetta al coniuge cui sia imputabile il proprio stato di bisogno, in questa Rivista, 2019, 628. Diversa è la lettura che dà della sentenza A. Mondini, op. loc. cit. il quale ritiene che l’assegno possa assolvere anche funzione meramente compensativa in assenza di uno squilibrio economico. Soluzione che sembra richiamarne però la natura composita in una versione ormai superata.
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2. L’evoluzione dei criteri previsti per la liquidazione dell’assegno di divorzio.
Come è facile intuire dai cenni pur sommari contenuti nel precedente paragrafo, volti a tratteggiare l’iter dei tre giudizi relativi al caso in esame, un rilevante aspetto della problematica emersa deriva non solo dai mutamenti intervenuti nel tempo riguardo alla formulazione del testo dell’art. 5, comma 6 l. div., ma anche nell’interpretazione delle norme; ad entrambi gli aspetti sembra opportuno, pur sommariamente accennare, partendo – per migliore comprensione – dal testo originario contenuto nella legge 898/1970 poi modificato dalla legge 74/1987, quantunque ai tre gradi del giudizio in esame fosse applicabile solo quest’ultima versione4. A detti mutamenti sono riconducibili gran parte dei problemi ancor oggi in discussione. Il testo originario della norma stabiliva infatti che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi”. Sul piano letterale il dettato normativo non appariva del tutto lineare in quanto sembrava fare riferimento, nella parte relativa alla concessione dell’assegno, solo a due criteri (condizioni economiche delle parti e ragioni della decisione) ed al terzo criterio solo ai fini della quantificazione dell’importo. Interpretazione peraltro respinta dalle Sezioni Unite della Cassazione5, le quali avevano loro riconosciuto uguale rilevanza, riscontrando una natura composita dell’assegno sulla base astratta di tre criteri: assistenziale, risarcitorio e compensativo (quest’ultimo, per la rilevanza riconosciuta al contributo fornito alla conduzione della famiglia ed alla formazione del patrimonio di entrambi). Il giudice pertanto doveva prendere inizialmente in considerazione la domanda alla luce di tutti e tre i parametri indicati, i quali rilevavano sia ai fini della concessione sia ai fini della quantificazione dell’assegno, fatta salva la possibilità che anche la rilevanza di uno solo di essi potesse determinare la sua decisione. Lettura alla quale si era uniformata la Corte nelle decisioni successive6.
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Infatti alcuni concetti elaborati dalla giurisprudenza dell’epoca ritornano in qualche modo nelle decisioni della recente Cassazione. Per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale v. anche A. Pepe, L’assegno divorzile negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e sue prospettive di riforma, in Studium iuris, 2019, 1004 ss. 26 aprile 1974, n. 1194, in Foro it., 1974, I, 1335. Ad es., Cass., 9 luglio 1974, n. 2008; Cass., 2 giugno 1981, n. 3549, in Giur. it., 1982, I, 1, 43, con nota di Trabucchi; Cass., 21 maggio 1983, n. 3520, in Foro it., 1984, I, 229; Cass., 14 luglio 1983, n. 4834; Cass., 17 novembre 1983, n. 6861; Cass., 10 luglio 1987, n. 6016.
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La suddetta natura assume particolare importanza alla luce della ricostruzione di recente operata dalle SU nella decisione 18287/2018 la quale torna a parlare di criterio composito, ma evidentemente in un senso diverso da quello precedente, in quanto il criterio assistenziale assume attualmente decisiva rilevanza, perché – come si vedrà meglio in seguito – in assenza di rilevante squilibrio economico fra le parti l’assegno non può essere concesso; ad esso si affiancano gli altri due (perequativo-compensativo e risarcitorio), il primo dei quali – secondo il dictum della Corte, – può assumere primaria rilevanza ma non al punto da fondare su di esso la concessione dell’assegno in assenza di disparità economica. Precedentemente invece la giurisprudenza riteneva che l’assegno potesse liquidarsi anche in mancanza di detta disparità o in presenza di un lieve squilibrio7: ad es., a carico di chi si era reso responsabile della fine del matrimonio8 o a favore del coniuge che aveva contribuito in maggior misura al soddisfacimento delle esigenze domestiche9 (e persino a carico del coniuge meno abbiente in quanto, ad es., responsabile del divorzio10). Soluzione probabilmente aderente al testo normativo ma molto meno alla ratio dell’assegno, quale sostegno economico al coniuge in difficoltà a causa dello scioglimento del matrimonio11, in una prospettiva di ultrattività della solidarietà anche dopo che il vincolo fosse venuto meno12 o, in alternativa, quale diritto sorto ex novo per consentire al coniuge di porsi in condizione di provvedere autonomamente ai propri bisogni. Profilo della solidarietà poi richiamato – come si dirà in seguito – anche da SU 18287/2018 come fondamento dell’assegno. La prospettiva originaria muta significativamente in seguito alla modifica del testo normativo introdotto con la legge 74/1987, tutt’ora vigente13 il quale, secondo l’opinione largamente prevalente, tende ad attribuire all’assegno, almeno in via principale, natura assistenziale, imponendone la liquidazione a favore del coniuge che non abbia mezzi adeguati. L’intervento normativo si rivela tutt’altro che chiarificatore rispetto al testo precedente anche per la strutturazione del testo, come si dirà tra breve. Il concetto di
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Cass., 2 giugno 1981, n. 3549, cit.; Cass., 21 maggio 1983, n. 3520, in Foro it., 1984, I, 229; Cass., 12 luglio 1984, n. 4107, in Arch. civ., 1985, 31; Cass., 4 luglio 1985, n. 4021; Cass., 5 agosto 1987, n. 6719. 8 Cass., 4 luglio 1984, n. 4021. 9 Cass., 7 giugno 1985, n.3390, in Nuova giur. civ. comm., 1985, I, 96, con nota di Quadri. 10 Trib. Trani, 15 luglio 1971, cit. in Cass. SU., 26 aprile 1974, n. 1194, cit. 11 Prospettiva però disattesa da Cass. SU., 26 aprile 1974, n. 1194, cit., la quale nega la natura unitaria dell’assegno volta principalmente, anche se non esclusivamente, a “riequilibrare le condizioni economiche del coniuge impoverito dallo scioglimento del matrimonio”. 12 Questa è la lettura privilegiata da Cass. SU., 26 aprile 1974, n. 1194, cit., la quale, in un passo della sentenza, precisa che l’aiuto economico rappresentato dall’assegno trova fondamento non soltanto in quel “generale principio di solidarietà cui devono improntarsi i rapporti fra i membri di una società civile” bensì “negli obblighi di assistenza materiale e di mantenimento operanti in costanza di matrimonio e che non possono venir meno senza che il rapporto cui essi presiedevano riceveva una qualche residua tutela”. Il medesimo fondamento è richiamato da Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1982, I, 184. 13 “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
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mezzi adeguati viene infatti utilizzato anche dall’art. 129 c.c., la cui mancanza giustifica la liquidazione di un assegno, con caratteristiche diverse, nel caso di annullamento del matrimonio. Ad altre formule altrettanto generiche fa ricorso il legislatore per individuare prestazioni approssimativamente similari: l’art. 156 c.c. parla infatti di un dovere del coniuge più abbiente di corrispondere all’altro in caso di separazione quanto necessario al suo mantenimento. E secondo l’art. 438, 2° comma l’alimentante deve all’alimentando quanto sia necessario per la sua vita. Formule generali il cui significato viene affidato, in maniera più o meno ampia, alla concretizzazione dell’interprete per precisa scelta del legislatore, anche al fine di offrire strumenti sufficientemente duttili da adattare al singolo caso che il giudice è chiamato ad affrontare. A proposito dell’assegno di divorzio si è ritenuto infatti per lungo tempo che l’adeguatezza dei mezzi richiedesse un parametro di riferimento da individuarsi al di fuori della norma. In questa prospettiva la giurisprudenza prevalente, poi consolidatasi nel tempo, ha individuato come parametro di riferimento tendenziale il tenore di vita condotto durante il matrimonio o comunque non lontano da esso, pur non mancando qualche voce dissenziente che ha parlato di un mantenimento dignitoso o, similmente, di una prestazione volta ad assicurare l’indipendenza o l’autosufficienza economica, concetto di recente richiamato anche da Cass. 11504/2017. Criteri profondamente diversi ed in certa misura opinabili perché decisamente influenzati da una differente concezione del matrimonio che l’interprete ritiene di privilegiare e dalla misura della sua perdurante vincolatività sul piano patrimoniale dopo lo scioglimento, nonché dalla stabilità o meno delle sue caratteristiche alla luce dei mutamenti sociali verificatisi nel tempo, nonché della diversità dei modelli attuativi dell’unione posti in essere dai coniugi. Il criterio allora consolidatosi si prestava alla facile obiezione di accostare, arditamente e con opinabile coerenza, la posizione dell’ex coniuge a quella del coniuge separato (al quale viene riconosciuto – come è noto – il diritto ad un assegno che garantisca il tenore di vita condotto durante la convivenza matrimoniale14). Né decisiva, per smentire tale assunto, era la previsione dei criteri richiamati dall’art. 5, comma 6, l. div., perché era comunque possibile arrivare alla liquidazione del medesimo importo nella due situazioni prese in considerazione. Soluzione non persuasiva ove si tenga conto che la solidarietà matrimoniale non può essere mai equiparata a quella post-matrimoniale perché altrimenti si finirebbe con lo svilire gli effetti che scaturiscono dal vincolo. Obiettare in contrario che il significato del vincolo è tanto intenso da potersi protrarre con gli stessi effetti anche dopo il suo scioglimento mi sembra francamente contraddittorio.
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Sul punto la giurisprudenza è pressoché unanime. Per un confronto tra i due assegni cfr. E. Al Mureden, L’assegno divorzile e l’assegno di mantenimento dopo la decisione delle Sezioni Unite, in Fam. e dir., 2018, 1019 ss.
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Ma occorre ribadire che alla base di tali incertezze sta l’infelice formulazione della norma15 la quale, nel richiamare i compiti del tribunale, precisa, solo alla fine della frase principale, che esso “dispone l’obbligo … di somministrare un assegno” a favore del coniuge che “non ha mezzi adeguati” (e non può procurarseli) mentre antepone un’incidentale dal lungo contenuto che inizia con “tenuto conto”, a cui segue il rinvio ad un insieme di criteri. Formulazione che a mio parere legittimamente induce l’interprete a ritenere che nella frase principale sia indicato il criterio per stabilire quando l’assegno è dovuto e nell’incidentale i criteri di quantificazione del medesimo16. Per lungo tempo, anche in questo caso, gli interpreti si sono orientati (forse per l’equivocità del testo oppure perché lo hanno inteso correttamente?) per una lettura della norma volta a differenziare i criteri volti a stabilire l’an debeatur da quelli riguardanti il quantum17. L’ultima sentenza delle sezioni unite ha cancellato entrambi i dogmi posti a fondamento della ricostruzione consolidatasi nel tempo: la diversificazione dei criteri riguardanti l’an e il quantum ed il riferimento al tendenziale riconoscimento al coniuge più debole del diritto di conservare il tenore di vita matrimoniale. Ma in verità, riguardo a quest’ultimo aspetto, le Sezioni unite si sono limitate a confermare, pur con alcune precisazioni, quanto già stabilito da Cass. 11504/2017, discostandosi però su un punto fondamentale: il sintagma “mezzi adeguati” deve essere interpretato non facendo ricorso ad elementi extra testuali ma ai criteri elencati nella prima parte del comma 6 dell’art. 5 l. div. Il criterio in base al quale l’ex coniuge economicamente sprovvisto di mezzi adeguati aveva diritto a godere tendenzialmente del tenore di vita matrimoniale o di uno analogo era stato elaborato dalla giurisprudenza18 subito dopo le modifiche introdotte dalla legge del 1987 ed accolto in senso critico dalla dottrina prevalente19. Essa muoveva dal pre-
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V. in tal senso tra gli altri, i rilievi al riguardo di L. Remiddi, Le faticose vicende dell’assegno divorzile, in giudice donna.it, 2018, 2-3, 1 ss.; F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, in Fam. e dir., 2018, 1007. 16 Di diverso avviso E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in Fam. e dir., 2018, 974, il quale ritiene che l’espressione costituisce un’efficace cerniera tra la prima e la seconda parte della norma. 17 V. per tutti, G. Bonilini, L’assegno postmatrimoniale, in Bonilini, Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio. Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano2, 2004, 560. Ma in senso contrario E. Quadri, La nuova legge sul divorzio, Napoli, 1987, 23 ss. (in part. 34); Id., La natura dell’assegno di divorzio dopo la riforma, in Foro it., 1989, I, 2520 s., secondo il quale per la concessione dell’assegno occorreva fare riferimento a tutti i criteri indicati dall’art. 5, comma 6 l. div. 18 Ad es., Cass., 17 marzo 1989, n. 1322, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 685, con nota di Quadri; Cass., 4 aprile 1990, n. 2799, in Foro it., 1990, I, 2533 e da alcuni giudici di merito. 19 Si riteneva infatti che all’ex coniuge fosse solo dovuta una prestazione volta ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa: ad es., A. Trabucchi, Un nuovo divorzio. Il contenuto e il senso della riforma, in Riv. dir. civ., 1987, II, 130 s., il quale parla di scopo meramente assistenziale dell’assegno in quanto il matrimonio è ormai finito e proprio da questo limite l’A. desume la forza del matrimonio che, in seguito allo scioglimento, non giustifica più la conservazione dei relativi effetti; L. Bruscuglia, A. Giusti, in Commentario alla riforma del divorzio, sub art. 5, Milano, 1987, 79; A. Luminoso, La riforma del divorzio: profili di diritto sostanziale (prime riflessioni sulla legge 6 marzo 1987, n. 74), in Dir. fam. e pers., 1988, 455; C. Argiroffi, Gli alimenti. I profili soggettivi del rapporto, Torino, 1993, 30 ss., il quale individua nell’assegno divorzile una prestazione alimentare, soluzione peraltro non pienamente convincente; L. Barbiera, I diritti patrimoniali dei separati e dei divorziati, Bologna, 1993, 15 (l’assegno serve ad ovviare ad uno stato di bisogno vero e proprio); M. Dogliotti, Separazione e divorzio, Torino2 1995, 220 ss.; G. Ferrando, Le conseguenze patrimoniali del divorzio tra autonomia e tutela, in Dir. fam. e pers., 1998, 729; M.F. Lobasso, Il mantenimento del tenore di vita matrimoniale, un controsenso rispetto alla cassazione
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supposto che, data la natura essenzialmente assistenziale dell’assegno, fosse giustificato assicurare all’ex coniuge, non in grado di mantenere con le proprie risorse il tenore di vita pregresso, un sostegno economico che non cagionasse un brusco ed a volte radicale cambiamento rispetto alla situazione maturata durante la convivenza matrimoniale. In altre decisioni si segnalava l’esigenza di ripristinare un certo equilibrio tra gli ex coniugi20. Da tale indirizzo, rapidamente consolidatosi, sia era però discostata – come accennato – un’isolata pronunzia della Cassazione21 la quale aveva precisato che il diritto all’assegno presuppone invece la mancanza in capo al richiedente di mezzi in grado di assicurargli “un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa”, parametro “né bloccato alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità” onde evitare che il beneficiario finisca per godere di una posizione di pura rendita, con conseguente sua deresponsabilizzazione che, ove garantita a priori, avrebbe potuto incidere negativamente sulla stabilità del rapporto22. Il conflitto di interpretazione venne risolto con un intervento delle Sezioni Unite23 le quali confermarono la bontà dell’indirizzo maggioritario in quanto l’assegno, data la prevalente natura assistenziale, può essere concesso solo in difetto di mezzi adeguati da parte del richiedente (i quali incidono dunque sulla concessione), precisando peraltro che l’importo (quantum) potrebbe risultare fissato dal giudice, in concreto, in misura inferiore a tale livello sia per il (normale) deterioramento anche della posizione economica del debitore conseguente alla crisi, sia per l’influenza degli altri parametri richiamati dalla norma (condizione dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico fornito nella formazione del patrimonio di ciascuno ed a quello comune, durata del matrimonio). Secondo la Corte dunque il parametro del medesimo tenore di vita matrimoniale era il massimo livello possibile di quantificazione dell’assegno24 sul quale avrebbero potuto
degli effetti civili del matrimonio, in Giur. it., 2000, I, 1, 465; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale nel sistema del diritto privato, I, Milano, 2002, 379 ss.; G. Bonilini, op. cit., 538 ss.; A Totaro, Gli effetti del divorzio, in Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino, Ruscello, Tratt. Zatti, I, 2, Milano, 2011, 1631; F. Alcaro, Nota in tema di assegno divorzile; il “tenore di vita in costanza di matrimonio”, un’aporia interpretativa?, in Fam. e dir., 2013, 1081 ss.; A. Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 196, ss.; M. Palazzo, Le progressive aperture della Suprema Corte al principio di autoresponsabilità nella configurazione dell’assegno post-matrimoniale, in Rass. dir. civ., 2013, 434 ss.; D. Buzzelli, Assegno di divorzio e nuova famiglia dell’obbligato, in Fam. e dir., 2015, 476 ss; V. Barba, Assegno divorzile e indipendenza economica del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, in Giustiziacivile.com, 27 novembre 2017, 6. 20 Ad es., Cass., 19 giugno 1987, n. 5372; Cass., 28 ottobre 1987, n. 7957; Cass., 22 gennaio 1989, n. 496. 21 2 marzo 1990, n. 1652, in Foro it., 1990, I, 1165, con note di Macario e Quadri e in Giust. civ., 1990, I, 927, con note di Sotgiu e Spadafora, (ivi, 2390 s.). Ma anche qualche sporadica pronunzia di merito. 22 In senso critico verso quella decisione v. le osservazioni di C.M. Bianca, G. Gabrielli, F. Padovini, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. dir. civ., 1990, II, 537 ss.; C.M. Bianca, Commento all’art. 5 l. n. 898/1970, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo, Trabucchi, Padova, 1993, Vol. VI, t. 1, 339. 23 29 novembre 1990, n. 11490, in Foro it., 1991 ,I, 868, con nota di Quadri. L’autore anche nel recente scritto I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, in Corr. giur., 2017, 885 ss. (in part. 889 ss.), esprime sostanziale apprezzamento per la soluzione adottata. 24 Osserva C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1274 ss., che tuttavia si trattava di una possibilità e di un livello meramente teorici in quanto sulla base dei dati statistici l’assegno di divorzio veniva liquidato in una limitata percentuale di casi e con importi estremamente modesti.
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incidere “al ribasso” gli altri, normativamente menzionati, fino a giustificarne persino l’azzeramento. Soluzione tuttavia non del tutto persuasiva, anche nella prospettiva secondo la quale possono sussistere numerose ragioni che non consentono al giudice di liquidare un importo volto ad assicurare il tenore di vita matrimoniale. Il difetto consisteva infatti proprio nella dinamica prospettata: livello di partenza ed eventuale diminuzione, perché essa poteva fondarsi solo su ragioni che ne giustificassero l’attenuazione onde in loro assenza l’importo da liquidare doveva fissarsi al livello più elevato. Si pensi ad es., all’incidenza che potevano avere le ragioni della decisione: in un giudizio in cui a nessuna delle parti era addebitabile la crisi il creditore avrebbe avuto diritto al pieno importo dell’assegno, che non avrebbe invece potuto pretendere ove il punto di partenza fosse stato fissato ad un livello di vita dignitoso. Ugualmente è a dirsi per un matrimonio di media durata (non brevissimo ma neppure protrattosi per lungo tempo); ad un sacrificio a favore della famiglia non radicale, o comunque legato ad una scelta di vita che il coniuge più debole non aveva dovuto accettare per “bisogno” bensì per propria gratificazione; ad un significativo apporto al patrimonio dell’altro ma non particolarmente intenso. Da non trascurare poi era che il livello di vita è a volte determinato da un insieme di fattori che il coniuge più debole non ha contribuito a creare o a consolidare (ad es., ricchezza precedente al matrimonio o carriera professionale già intrapresa e che non deve essere ulteriormente consolidata). In tali situazioni come avrebbe dovuto regolarsi il giudice? Verosimilmente non sussistevano le ragioni per giustificare una diminuzione dell’assegno rispetto all’importo di partenza che pertanto avrebbe dovuto essere riconosciuto. Ben più facilmente il giudice sarebbe stato indotto a non optare per l’importo più alto ove punto di partenza fosse stato invece costituito da un livello di vita dignitoso. Peraltro, il richiedente avrebbe potuto limitarsi, sul piano probatorio, a dimostrare la mancanza dei mezzi adeguati mentre sarebbe spettato all’obbligato dimostrare che sussistevano i presupposti per una riduzione dell’assegno. Al contrario se il tenore di vita generalmente da assicurare era quello dignitoso, sarebbe spettato al richiedente dimostrare l’esistenza di ragioni tali da giustificarne l’aumento. Per questi motivi pienamente condivisibile è l’indirizzo che ha innovato rispetto al riferimento al tenore di vita, inaugurato da Cass. 11504/2017, il quale ha trovato conferma sia da parte di S.U. 18287/2018 sia in decisioni successive, ivi compresa quella in commento. Occorre altresì ricordare che la posizione espressa da Cass. SU. 11490/1990 si è andata ancor di più radicalizzando in seguito all’intervento di decisioni successive le quali affermavano che il tenore di vita da prendere in considerazione non era quello effettivamente determinato dai coniugi nella scelta dell’indirizzo di vita bensì il livello potenzialmente consentito sulla base delle risorse disponibili25, quantunque mai attuato, onde finiva col
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Ad es., Cass., 26 novembre 1996, n. 10465, in Fam. e dir., 1997, 167; Cass., 16 maggio 2005, n. 10210, in Guida al dir., 2005, 29, 55; Cass., 6 ottobre 2005, n. 19446, in Foro it., 2006, I, 1362; Cass., 28 febbraio 2007, n. 4764; Cass., 14 gennaio 2008, n. 593, in Guida al dir., 2008, 5, 34; Cass., 30 marzo 2009, n. 7614, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 907; Cass., 3 dicembre 2008, n. 28741, in Fam. e
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vanificarsi persino la giustificazione di evitare al coniuge più debole un cambiamento di vita ed abitudini consolidatesi durante il matrimonio. Come si è detto l’applicazione del criterio relativo al tenore di vita matrimoniale si consolida nel tempo tanto da potersi considerare “diritto vivente”26, non scalfito da una decisione del Tribunale di Firenze27 il quale ne pone in dubbio la legittimità costituzionale28, che tuttavia il giudice delle leggi ritiene infondato in quanto “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile”29.
3. La decisione della Cassazione 10 maggio 2017, n. 11504. A distanza di molti anni su una situazione ormai cristallizzata in giurisprudenza ma, come si è detto, sottoposta a critiche da parte della dottrina prevalente, a smuovere le acque, in maniera non del tutto sorprendente, interviene la citata sentenza della prima sezione della Cassazione, 10 maggio 2017, n. 11504 (estensore Lamorgese)30 la quale si pone nel
dir., 2009, 467; Cass., 4 novembre 2010, n. 22501; Cass., 16 ottobre 2013, n. 23442; Cass., 3 luglio 2014, n. 15222; Cass., 10 febbraio 2014, n. 2948; Cass., 29 settembre 2016, n.19339. 26 Tra le più recenti si possono ricordare, a puro titolo esemplificativo, Cass., 28 ottobre 2013, n. 24252, in Foro it., 2014, I, 858; Cass., 3 luglio 2013, n. 16597, in Fam. e dir., 2013, 1079, con nota di Alcaro; Cass., 4 febbraio 2011, n. 2747, in Foro it., 2012, I, 1184; Cass., 4 novembre 2010, n. 22501; Cass., 4 ottobre 2010, n. 20582. 27 22 maggio 2013, in Fam. e dir., 2014, 687, con nota di Al Mureden. 28 In quanto il parametro adottato secondo il diritto vivente, a parere del Tribunale, “non costituisce un «arricchimento» della funzione assistenziale indicata dalla legge, ma una sua alterazione, che travalica il dato normativo e la stessa intenzione del legislatore”, non giustificata sulla base dei mutamenti intervenuti riguardo alla più moderna concezione del matrimonio quale intimo rapporto personale tra gli sposi ed al mutamento dei ruoli ricoperti dall’uomo e dalla donna nel contesto sociale. D’altra parte il giudice ritiene di rimettere la questione al giudizio della Corte Costituzionale in quanto “il giudice a quo, posto di fronte al diritto vivente, non è tenuto, secondo la Corte costituzionale, ad effettuare una interpretazione della norma conforme a Costituzione o adeguatrice rispetto a Costituzione (che sarebbe un’interpretazione destinata ad essere smentita dai giudici superiori che seguano il diritto vivente)”. 29 C. cost., 11 febbraio 2015, n. 11, in Fam. e dir., 2015, 537, con nota di Al Mureden. Secondo V. Barba, op. cit., 7, la Corte avrebbe dovuto dichiarare la questione inammissibile essendo possibile formulare una diversa interpretazione della norma. Inoltre dalla medesima non si potrebbe desumere la conformità alla Costituzione dell’orientamento delle sezioni unite. 30 Per la sua importanza la sentenza è stata pubblicata in numerose riviste ed è stata oggetto di svariati commenti. Essa si trova ad es., in Foro it., 2017, I, 1859, con note di Casaburi, Bona, Mondini; ivi, 2707, con note di Patti e di M. Bianca; in Fam. e dir., 2017, 636, con nota di Al Mureden; in Giur. it., 2017, 1299, con nota di Di Majo ed ivi, 1795, con nota di Rimini; in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1010, con commento di Roma; in Corr. giur., 2017, 902, con commento di Quadri. Riguardo ai commenti si segnalano altresì: C.M. Bianca, L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa?, in Giustziacivile.com, 9 giugno 2017; S. Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?, in questa Rivista, 2017, 412 ss.; M. Sesta, La solidarietà post-coniugale tra funzione assistenziale ed esigenze compensatorie, in Fam. e dir., 2018, 509 ss.; C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, cit., 1274 ss.; D. Buzzelli, L’assegno di divorzio ventisette anni dopo, in Jus Civile, 2017, 538 ss.; M. Fortino, Il divorzio, l’“autoresponsabilità” degli ex coniugi e il nuovo volto della donna e della famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1254 ss.; G. Savi, Il riconoscimento dell’assegno divorzile: dal parametro del “tenore di vita” dei con-sorti alla verifica dell’autosufficienza personale del richiedente?, in Riv. dir. priv., 2017, 599 ss.; F.G. Viterbo, L’an e il quantum dell’assegno di divorzio: una valutazione da effettuare in concreto, in Dir. succ. fam., 2017, 635 ss.; V. Barba, Assegno divorzile e indipendenza economica del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, cit., 1 ss.; G. Luccioli, La sentenza sull’assegno di divorzio. Il nuovo che sa tanto di vecchio, in giudice donna.it, 2017, 1, 1 ss.; A. Astone, Assegno post-matrimoniale ed autoresponsabilità degli ex coniugi, in Dir. fam. e pers., 2017, 1208 ss.; A. Spadafora, Il «nuovo» assegno di divorzio e la solidarietà postaffettiva, in Giustziacivile.com, 15 luglio 2017; F. Danovi, La Cassazione e l’assegno di divorzio: en attendant Godot (ovvero le sezioni unite), in Fam. e dir., 2018, 51 ss.
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solco già tracciato in precedenza da Cassazione 2 marzo 1990, n. 1652, confermando la natura eminentemente assistenziale dell’assegno31, nonché l’interpretazione consolidata volte a differenziare i criteri tendenti a stabilire i presupposti per la sua concessione da quelli per la sua quantificazione, ritenendo che a questi ultimi non occorra fare ricorso ove in base ai primi l’assegno non risulti dovuto. Vale a dire ove la posizione dei coniugi risulti sostanzialmente equivalente oppure, nel caso di significativa divergenza, qualora il richiedente abbia mezzi (redditi e patrimonio) adeguati, che gli consentano cioè indipendenza o autosufficienza economica, o comunque sia in condizione di procurarseli. La Corte tuttavia non precisa il livello economico in presenza del quale l’autonomia patrimoniale può considerarsi esistente. Essa si sofferma infatti diffusamente sugli elementi da prendere in considerazione per ricostruire la situazione patrimoniale del richiedente32 ma per nulla sulla qualificazione del livello di vita così ricostruito. Lacuna di non poco momento tenuto conto che essa si presta ad interpretazioni diverse e costituisce peraltro il punto nodale della decisione in quanto agli altri criteri non si dovrà accedere ove l’autosufficienza economica del richiedente risulti esistente33. Secondo questa ricostruzione gli elementi previsti per la quantificazione dell’assegno possono incidere al fine di fissarne l’entità, che comunque sembrerebbe non potere eccedere quanto necessario per assicurare l’indipendenza economica34. A parere della Corte infatti i tempi sono maturi per sovvertire l’interpretazione ormai consolidatasi, la quale trovava giustificazione nell’esigenza di non operare una brusca cesura rispetto al passato cioè riguardo ad una realtà in cui i coniugi avevano spesso contratto un vincolo ancora indissolubile e quindi in una prospettiva di “stabilità”, ormai non più attuale soprattutto per la coppia unitasi in matrimonio dopo il 1970. La rottura del vincolo è giusto dunque che si estenda anche al profilo patrimoniale, adeguandosi alla nuova situazione, onde gli ex coniugi devono considerarsi ormai “persone singole” non più parti del rapporto matrimoniale. Ove così non fosse si manterrebbe una sorta di inaccettabile indissolubilità sotto il profilo economico. Finalità dell’assegno non è pertanto – sempre nella visione della Corte nella decisione del 2017 – quella di operare un riequilibrio nella
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Analogamente E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, cit., 886. Così elencati: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. 33 Sottoposto a critica da U. Roma, Primissime contestazioni al criterio dell’indipendenza economica per l’assegno di divorzio e non solo, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 222, in quanto appare ben più incerto di quello relativo al tenore di vita matrimoniale. A parere di A. Di Majo, Passato e presente nell’assegno divorzile, in Giur. it., 2017, 2632, il livello da assicurare è quello dell’uomo medio in relazione al ceto sociale di appartenenza. 34 Si dice infatti nella sentenza che “L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica”. Detta interpretazione era giustamente sostenuta da C. Rimini, op. cit., 1279 s. onde evitare ingiustificate disparità di trattamento tra chi godeva già di indipendenza economica e chi, non versando in tale situazione, avrebbe potuto ottenere alla fine una prestazione di entità superiore. Paventa invece questa possibilità A. Spadafora, op. cit., § 3 ma a mio parere ingiustificatamente. 32
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situazione patrimoniale delle parti (e dunque non può rilevare il relativo squilibrio) ma di assicurare l’indipendenza economica del coniuge più debole ove non fosse in grado di raggiungerla con i propri mezzi, in conformità ai principi costituzionali di solidarietà economica, contemplati dagli artt. 2 e 23. Anche all’ex coniuge si applica dunque il principio di autoresponsabilità previsto per il figlio maggiorenne, il quale non può più pretendere il sostegno dei genitori ove sia in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento attivandosi in tal senso. Si precisa inoltre che, sotto il profilo probatorio, spetta al richiedente dimostrare l’esistenza dei presupposti richiesti per la concessione dell’assegno. Una così radicale rottura rispetto al passato35 sia negli esiti sia nelle motivazione poste per giustificarne il fondamento ha suscitato in dottrina maggiori perplessità e critiche che adesioni, pur riconoscendosi generalmente alla Corte il merito di avere contribuito a riaccendere la riflessione volta alla ricerca di una soluzione più soddisfacente rispetto a quella consolidata, non priva di criticità, nonostante la costante applicazione, per il favore spesso eccessivo riservato al richiedente36 e per la soluzione prospettata in tema di assolvimento dell’onere della prova37. Entrando nel merito delle argomentazioni proposte dalla Corte il giudizio della dottrina si differenzia profondamente38. Infatti mentre alcuni si sono espressi in maniera sostanzialmente positiva39, pur a volte non minimizzandone limiti
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M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici in tema di assegno divorzile: una storia compiuta?, in Foro it., 2018, I, 2703. Ed infatti anche gli autori che ritenevano, prima della sentenza, non fosse dovuto necessariamente il tenore di vita matrimoniale riconoscevano l’esigenza di attribuire rilevanza alla solidarietà post-coniugale e dunque una forma di ultrattività del divorzio almeno sul piano patrimoniale. Si riteneva in particolare doveroso dare rilevanza al particolare contributo prestato eventualmente da un coniuge a beneficio della famiglia senza che il divorzio possa travolgerlo facendolo considerare tamquam non esset. V. per tutti in tal senso G. Bonilini, op. cit., 558 ss. 36 M. Bianca, Il nuovo orientamento in tema di assegno divorzile. Una storia incompiuta, in Foro it., 2017, I, 2719; M. Sesta, op. cit., 516; E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, cit., 971. 37 Merito riconosciuto anche da coloro, come M. Velletti, Quali criteri per la determinazione dell’assegno divorzile dopo Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, in Foro it., 2018, I, 849 che hanno mosso numerose critiche alla sentenza. 38 Palese è ad esempio la diversità di giudizio circa l’inquadramento della lettura della norma proposta dalla Corte in ambito europeo con riferimento in particolare alle soluzioni accolte in Germania, Francia e Spagna. C.M. Bianca intitola infatti il suo scritto L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa?, mentre S. Patti, titola Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?, entrambi cit. alla nota 30. E non inganni il punto interrogativo posto alla fine di entrambi i titoli degli scritti, perché le conclusioni a cui pervengono i due autori sono diametralmente opposte. In realtà cambia l’angolo visuale privilegiato rispetto a due valori, entrambi presenti, nelle norme straniere: la solidarietà post-coniugale per un verso e il principio di autoresponsabilità per altro verso. Il primo ha il sopravvento in Francia ed in Spagna privilegiando la funzione riequilibratrice rispetto alla disuguaglianza economica verificatasi tra gli ex-coniugi in seguito al divorzio ed è quello a cui Bianca attribuisce maggior valore; il secondo prevale in Germania onde l’assegno è tendenzialmente temporaneo e può essere liquidato solo in presenza di ben precise situazioni in cui versa il richiedente. Nella medesima prospettiva si orientano i Principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi elaborati dalla Commission on European Family Law (che possono leggersi, tradotti in italiano da E. Bellisario e C. Caricato, in questa Rivista, 2005, 355 ss.) i quali al principio 2.2. stabiliscono che “dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni”; mentre il tenore di vita matrimoniale costituisce un parametro di cui il giudice deve tenere conto insieme ad altri (principio 2.4.). Secondo Patti è proprio il principio di autodeterminazione che deve avere il sopravvento. 39 F. Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle sezioni unite nell’attribuzione (e determinazione) dell’assegno di divorzio, in Foro it., 2018, I, 2605 ss.; A. Vesto, Revisione dell’assegno post-matrimoniale: dal dogma del “tenore di vita”all’“autosufficienza e autoresponsabilità economica”, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1476 ss.; D. Buzzelli, L’assegno di divorzio ventisette anni dopo, cit., 538 ss.; M. Fortino, Il divorzio, l’“autoresponsabilità” degli ex coniugi e il nuovo volto della donna e della famiglia, cit., 1254 ss.; V. Barba, op. cit., 1 ss.
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e lacune40, circa l’abbandono di un criterio decisamente squilibrato a favore del coniuge economicamente meno abbiente (ma non per questo necessariamente povero), altri non hanno risparmiato critiche anche pesanti ritenendo la soluzione proposta decisamente inadeguata per molteplici ragioni41. Un giudizio negativo viene innanzitutto formulato riguardo al metodo, cioè sull‘iniziativa, assunta dalla prima sezione, di mutare radicalmente un indirizzo consolidato senza fare rinvio alle Sezioni Unite, non ritenendo convincenti le ragioni della scelta espresse nella sentenza42. In effetti non possono negarsi le conseguenze negative derivanti dal successivo mutamento introdotto, dovute soprattutto all’applicazione, sia pur limitata ad un lasso di tempo abbastanza breve, del principio di autosufficienza economica poi in parte smentito dalle Sezioni Unite (con conseguente difformità di trattamento di casi analoghi) nonché dalla necessità subito manifestatasi di rinviare – nonostante l’imminenza di una probabile pronunzia delle Sezioni Unite – alcune controversie al giudice di merito per compiere un’istruttoria su elementi non adeguatamente considerati alla luce del mutamento di indirizzo ma non (così) rilevanti sulla base dell’interpretazione consolidata. Si è altresì messa in luce la sostanziale svalutazione dei criteri previsti nella prima parte dell’art. 5, comma 6 l. div. in quanto essi non entrano in gioco ove nella prima fase sia emersa l’autosufficienza economica del richiedente43, mentre – secondo alcuno – essi avrebbero dovuto incidere anche al fine di valutare l’adeguatezza dei mezzi del richiedente, dovendosi respingere la ricostruzione circa la distinzione dei criteri volti a determinare l’an e il quantum della prestazione44. Nonché la disapplicazione e sostanziale vanificazione del criterio secondo il quale il giudice deve valutare la situazione economica di entrambe le parti e non solo del richiedente al fine di accertarne l’autosufficienza economica, onde assumerebbe diversa luce il potere del giudice di verificare la situazione economica di entrambe le parti45. Critica a mio parere non fondata perché l’accertamento della condizione economica delle parti è il primo accertamento che il giudice deve compiere per verificare
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V. in tal senso S. Patti, Assegno di divorzio un passo verso l’Europa?, cit., 414, 419 s. il quale, pur aderendo in linea di principio alle argomentazioni della Corte e mostrando apprezzamento per il richiamo all’autosufficienza, non le ritiene sempre convincenti perché introducono un criterio rigido che non consente di prendere in considerazioni le peculiarità del caso concreto le quali possono giustificare una limitata sopravvivenza della solidarietà post-coniugale; A. Spadafora, op. cit., § 3, il quale intravvede il rischio che l’applicazione dei criteri previsti per fissare l’importo dell’assegno possa stravolgere gli obiettivi che la Corte si ripropone facendo riferimento alla nozione di autonomia economica. 41 L’indicazione degli autori così orientati può desumersi dalle citazioni contenute nelle note successive. 42 E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio fra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, cit., 885; G. Casaburi, Tenore di vita ed assegno divorzile (e di separazione): c’è qualcosa di nuovo oggi in Cassazione, anzi d’antico, in Foro it., 2017, I, 1896; F. Danovi, Assegno di divorzio irrilevanza del tenore di vita matrimoniale: il valore del precedente per i giudizi futuri e l’impatto sui divorzi già definiti, in Corr. giur., 2017, 655 ss.; A. Mondini, La determinazione dell’assegno divorzile la sezione semplice decide «in autonomia». Le ricadute della pronuncia sui giudizi di attribuzione e sui ricorsi per revisione dell’assegno, in Foro it., 2017, I, 1903. Ma in senso contrario V. Barba, op. cit., 3. 43 U. Roma, op. cit., 218; E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Fam. e dir., 2017, 653; M. Bianca, Il nuovo orientamento in tema di assegno divorzile. Una storia incompiuta, cit., 2717; G. Savi, La rilevanza del ‘‘tenore di vita’’ nel regolamento delle crisi del rapporto coniugale, in Dir. fam. e pers., 2017, 817 s.; C. Rimini, op. cit., 1281. 44 E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio fra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, cit., 898 s. 45 E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, cit., 973.
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la situazione di squilibrio: in mancanza del medesimo nulla è dovuto, analogamente ove il presunto obbligato non si trovi in condizione di prestare l’assegno pur essendo la sua situazione economica migliore di quella dell’altro. Ma le critiche certamente più incisive riguardano innanzitutto l’iniquità della soluzione adottata sul piano della giustizia sostanziale46, causata dalla svalutazione se non dalla negazione della solidarietà caratterizzante il vincolo coniugale che in certa misura si perpetua come solidarietà postconiugale, con una sorta di ultrattività desumibile da altri diritti riconosciuti al titolare dell’assegno (pensione di reversibilità, diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto, ecc.)47; ne risulterebbe altrimenti distorto il significato fondamentale del matrimonio come vincolo che dà origine ad una comunione di vita, solidarietà che non può interrompersi bruscamente con il divorzio48, rischiando di abbandonare sul piano economico il coniuge più debole (per lo più la donna49), in quanto l’assegno liquidato in base ai criteri suggeriti dalla Corte servirebbe a scongiurarne forse l’indigenza assoluta ma non una situazione pur sempre di povertà50. Ed inoltre erroneo sarebbe considerare gli ex coniugi “persone singole” perché così facendo non si terrebbe in nessuna considerazione il fatto che nel passato una comunione di vita vi è pur stata e le scelte compiute in quel contesto possono avere inciso negativamente sulla posizione di uno dei coniugi, poi risultato proprio per tale ragione in posizione di debolezza, il quale non verrebbe adeguatamente compensato per i sacrifici compiuti51. Pertanto il criterio della mera sufficienza economica potrebbe anche non condurre a risultati iniqui in alcuni casi (ad es., estrema brevità del matrimonio, eguale ripartizione degli adempimenti derivanti dai doveri familiari), ma non in altri ove il richiedente abbia compiuto importanti rinunce a prospettive di lavoro o di progressione di carriera o abbia contribuito all’arricchimento dell’altro coniuge
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M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici in tema di assegno divorzile: una storia compiuta?, cit., 2703. V. in proposito la serrata critica mossa da E. Quadri, op. ult. cit., 892 s.; nonché A. Di Majo, op. cit., 2630; M. Velletti, op. cit., 849 s. Ma in senso contrario C. Rimini, op. cit., 1281. 48 C.M. Bianca, Commento all’art. 5 l. 898/1970, cit., 337, Il quale rileva che la funzione assistenziale dell’assegno “contrasta con la tendenza volta a ravvisare nel divorzio lo strumento di liberazione totale dal matrimonio e da ogni peso che direttamente o indirettamente vi si riconnette”. 49 Osserva M. Velletti, op. cit., 853, che l’assenza di adeguate misure di sostegno alla maternità caratterizzanti ancora la nostra società ha indotto la Corte ad una “fuga in avanti” nel presupporre una parità sostanziale fra l’uomo e la donna che debbono ancora compiutamente realizzarsi. 50 V. in tal senso C.M. Bianca, L’ultima sentenza della Cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa?, cit., 1; U. Roma, Alla ricerca dell’autosufficienza economica e del principio di uguaglianza dei coniugi al momento del divorzio, in questa Rivista, 2018, 43 ss. 51 U. Roma, Primissime contestazioni, cit., 219; F. Danovi, La meritevolezza dell’assegno di divorzio va valutata nel concreto svolgimento della vita coniugale, in Fam. e dir., 2018, 378 il quale fa riferimento ai matrimoni di lunga durata. E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio fra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, cit., 894, osserva invece che la critica non riguarda tanto il considerare i divorziati persone singole quanto persone senza un passato (concetto che ben emerge dal titolo stesso del contributo), 898 s.; M. Sesta, op. cit., 513; E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, cit., 647 ss. C. Rimini, op. cit., 1281 s., ritiene che a tale incongruenza possa ovviarsi negando natura assistenziale all’assegno per riconoscergli solo funzione compensativa, soluzione questa però, a mio parere, gravemente pregiudizievole per il coniuge più debole che, se nel bisogno, ed in mancanza di contributi particolarmente apprezzabili resi alla famiglia, rimarrebbe privo di qualsiasi tutela. Solo sulla base del criterio compensativo andrebbe stabilita dunque secondo l’A. l’adeguatezza dei mezzi in capo al richiedente. Aderisce a tale soluzione A. Renda, Il matrimonio civile, cit., 198 e nota 482 ma solo in vista di una riforma normativa e non in via ermeneutica. In maniera contraria alla natura compensativa dell’assegno, V. Barba, op. cit., 13 ss. 47
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(ad es., svolgendo a suo vantaggio attività lavorativa)52 ed altre eventualmente dovrà compiere per il futuro accudimento dei figli53, onde è proprio nel momento della dissoluzione del matrimonio che si avverte maggiormente l’esigenza di assicurare un certo riequilibrio nella posizione degli ex coniugi per attuare il principio di parità54 (di qui la funzione assistenziale ma anche (o soprattutto?55) perequativo compensativa dell’assegno56). Proprio in questi casi, si conclude, per quanto rozzo ed approssimativo, il criterio del tenore di vita matrimoniale finisce col rivelarsi il più adeguato, nel presente quadro normativo, al fine di assicurare una paritaria tutela degli ex coniugi57. Incongruo si ritiene infine richiamare l’autoresponsabilità per accomunare la posizione del figlio maggiorenne a quella dell’ex coniuge58 se non altro in quanto il primo deve costruire il proprio avvenire e non può coltivare aspirazioni ad un sostegno illimitato nel tempo, non così il coniuge il quale potrebbe avere anche contributo alla creazione della ricchezza familiare e poi trovarsi – in seguito alla crisi del rapporto (evento tutt’altro che certo) – ad uno stadio ormai avanzato della propria vita in condizione di bisogno o comunque sulla sua situazione economica potrebbero pesare in negativo scelte compiute nel passato a vantaggio della famiglia. Critiche per certi aspetti condivisibili, meno per altri59 e forse comunque troppo esasperate60, pur non potendosi negare che alcuni passaggi della sentenza sono alquanto discutibili. Ad esempio, quantunque la soluzione proposta dalla Prima sezione non neghi del tutto la rilevanza della solidarietà post-coniugale, non menziona l’art. 29 cost. a fondamento della medesima per giustificare la liquidazione dell’assegno in mancanza di autosufficienza economica61. Inoltre la determinazione del livello volto ad assicurare l’au-
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A. Di Majo, op. cit., 2632, il quale precisa che allora è necessario porre il richiedente nella medesima posizione economica in cui si sarebbe trovato ove non avesse dedicato alla famiglia le sue energie. 53 M. Sesta, op. cit., 513; E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, cit., 650. 54 M. Sesta, op. cit., 514. 55 Afferma infatti E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, cit., 976 che il coniuge, col richiedere l’assegno, non cerca assistenza ma “un giusto riconoscimento, appunto, per gli sforzi, se non per i veri e propri sacrifici, profusi durante il matrimonio per assicurare il buon funzionamento della compagine familiare”. 56 E. Al Mureden, op. ult. cit., 650 s. 57 Questa è la conclusione a cui perviene sostanzialmente E. Quadri, op. ult. cit., 897 che lascia piuttosto dubbiosi, poi smentita nella recente decisione delle Sezioni Unite. In senso parzialmente critico v. E. Al Mureden, op. ult. cit., 645 ss., pur non svalutando l’esigenza che in alcuni casi vengano comunque preservati meccanismi di riequilibrio della posizione patrimoniale degli ex coniugi che consentano di pervenire anche alla liquidazione di un assegno volto ad assicurare il tenore di vita matrimoniale onde tale criterio non potrebbe negarsi in generale (654). 58 Sostanzialmente in questo senso E. Quadri, op. ult. cit., 899; M. Velletti, op. cit., 850 s.; G. Casaburi, Tenore di vita ed assegno divorzile (e di separazione): c’è qualcosa di nuovo oggi in Cassazione, anzi d’antico, cit., 1899. 59 Ad es. è corretto porre l’onere della prova della sussistenza dei presupposti per la concessione (la mancanza dell’autosufficienza) a carico del richiedente (ed in tal senso v. S. Patti, Assegno di divorzio un passo verso l’Europa?, cit., 417 ss.) e non del presunto obbligato quale fatto impeditivo e dunque come prova negativa come ritenuto da A. Di Majo, op. cit., 2631. 60 Ad es., secondo A. Morace Pinelli, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle sezioni unite, in Foro it., 2018, I, 3615, la decisione della prima sezione è fondata su una visione marcatamente ideologica, muovendo da una visione essenzialmente individualistica del matrimonio, trascurando che in realtà la Corte parla di persone singole a partire dallo scioglimento del vincolo. 61 Trattasi in effetti di persone ormai estranee ma che non lo sono state in precedenza e questo appare sufficiente a giustificare il dovere di sostegno economico ma diverso da quello fondato sulla comunione di vita. V. in proposito i rilievi critici avanzati da E. Quadri, op.
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tosufficienza economica non viene affrontato stranamente dalla Corte in maniera chiara come sarebbe stato opportuno62 al fine di superare l’obiezione secondo la quale il criterio adottato rischierebbe di costringere il coniuge più debole a vivere in situazione prossima all’indigenza ed alla soglia della povertà. Resta anche il dubbio se l’applicazione dei criteri volti a determinare il quantum della prestazione possano operare solo in positivo al fine di accrescerne l’importo anche al di sopra di quanto necessario al fine di assicurare l’autonomia economica (ove inizialmente mancante) o se debbano arrestarsi al massimo a tale livello63 e se, a causa dell’assenza dei relativi presupposti, al coniuge nel bisogno possa riconoscersi il diritto ad un assegno che non garantisca un tenore di vita dignitoso64. Pienamente condivisibile appare invece l’esigenza di operare una cesura tra condizione patrimoniale dei coniugi nel matrimonio ed alla cessazione dello stesso, senza per questo equiparare la persona mai coniugata al divorziato65 nonché la necessità di verificare in che misura la sua condizione patrimoniale dipenda da scelte compiute in attuazione dell’indirizzo di vita coniugale, col conseguente abbandono del criterio volto ad assicurare il godimento del tenore di vita matrimoniale. Innegabile è anche il progressivo indebolimento del vincolo coniugale che inizia con l’introduzione del divorzio e prosegue inesorabilmente con l’introduzione di svariate regole normative volte a facilitarne lo scioglimento (drastica riduzione dei tempi della separazione oltre all’assoluta discrezionalità della scelta, introduzione dello scioglimento stragiudiziale) onde ormai appare irragionevole che la persona, nel momento in cui si sposa, possa fare affidamento, anche solo dal punto di vista patrimoniale, sulla durata del legame sino alla morte e fondare la propria sicurezza economica sulle sostanze dell’altro66. Impeccabile appare inoltre la soluzione adottata riguardo all’onere della prova. Numerose sono le decisioni in cui la Prima sezione67 (pur in composizione diversa) ribadisce i principi enunciati nella sentenza 11504/2017 anche precisandone i contenuti. In particolare come debba intendersi la nozione di indipendenza economica mediante il
ult. cit., 892; M. Velletti, op. cit., 849 s. Del medesimo parere sono M. Fortino, op. cit., 1258; M. Velletti, op. cit., 851; G. Casaburi, Tenore di vita ed assegno divorzile (e di separazione): c’è qualcosa di nuovo oggi in Cassazione, anzi d’antico, cit., 1899. In senso critico v. anche gli AA. cit. alla nota 33. 63 V. in proposito A. Spadafora, op. cit., § 3. 64 Lo esclude, non senza ragione, C.M. Bianca, op. ult. cit., il quale osserva che «rimane da spiegare come possano applicarsi quei “fattori di moderazione” in relazione ad un assegno destinato a soddisfare solo gli essenziali bisogni di vita dell’ex coniuge indigente». Soluzione che finirebbe per contrastare con il valore della solidarietà post-coniugale. Peraltro tale principio, più volte proclamato dalla Corte, non le impedisce poi sorprendentemente di sostenere – ad es., con riferimento a matrimoni di breve durata – che il giudice possa disporre persino l’azzeramento dell’assegno: v. ad es., Cass., 29 ottobre 1996, n. 9439, in Foro it., 1997, I, 1541; Cass., 16 giugno 2000, n. 8233, ivi, 2001, I, 1316; Cass., 19 marzo 2003, n. 4040; Cass., 26 marzo 2015, n. 6164. Ma in senso contrario, Cass., 10 aprile 2019, n. 10084, in Fam. e dir., 2019, 566, con nota di Danovi. Analogamente, per la giurisprudenza di merito, App. Caltanissetta, 24 luglio 2019, in Banca dati Pluris. 65 V. al riguardo le osservazioni di F. Danovi, La meritevolezza dell’assegno di divorzio, cit., 376. 66 Questa mi sembra essere anche la convinzione di F. Danovi, op. ult. cit., 378, il quale ritiene però che tali mutamenti di prospettiva possano assumere rilevanza per le coppie più giovani ma non per quelle coniugate da lunga data. 67 Ad es., Cass., 11 maggio 2017, n. 11538; Cass., 22 giugno 2017, n. 15481, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1434, con nota di Vesto; Cass., 21 luglio 2017, n. 18111; Cass., 29 agosto 2017, n. 20525, in Fam. e dir., 2018, 573, con nota di Giorgianni; Cass., 9 ottobre 2017, n. 23602, (est. Lamorgese); Cass., 27 ottobre 2017, n. 25697. 62
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richiamo – peraltro ancora non del tutto lineare – alla possibilità di condurre un’esistenza economicamente autonoma, libera e dignitosa68, da valutarsi in concreto e non in base a parametri automatici (come ad es., l’importo della pensione sociale o suoi multipli) in vista del soddisfacimento dei bisogni essenziali di vita69. Nel periodo successivo, le Corti di merito si erano peraltro tendenzialmente uniformate al nuovo indirizzo della Cassazione70 pur con qualche eccezione71, fondata per lo più sulle argomentazioni critiche richiamate nell’esame della dottrina e per la difficoltà di scongiurare il ricorso a criteri meramente astratti onde stabilire il livello dell’autosufficienza economica72 non in grado di assicurare l’elasticità necessaria per adeguarli al concreto vissuto della coppia73.
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“Nè bloccata alla soglia della pura sopravvivenza nè eccedente il livello della normalità, quale, nei casi singoli, dalla coscienza collettiva configurata e di cui il giudice deve farsi interprete”: Cass., 7 febbraio 2018, n. 3015, e 3016 (est. Lamorgese). 69 Cass., 26 gennaio 2018, n. 2042 e 2043, in Fam. e dir., 2018, 321, con nota di Figone. Ma in senso critico si esprime F. Danovi, op. ult. cit., 377, sostenendo che il divorziato avrebbe diritto ad una prestazione maggiore non avendo l’assegno natura meramente alimentare. 70 Cfr. ad es., App. Milano, 16 novembre 2017 e Trib. Roma, 26 settembre 2017, in Giur. it., 2017, 2625, con nota di Di Majo; Trib. Milano, 22 maggio 2017 in <www.ilcaso.it.>; ed ancora, Trib. Mantova, 16 maggio 2017; Trib. Venezia, 24 maggio 2017; Trib. Bologna, 12 giugno 2017; Trib. Roma, 13 luglio 2017; App. Salerno, 17 luglio 2017, tutte in Banca Dati DeJure; Trib. Santa Maria C.V., 13 dicembre 2017, in Foro it., 2017, I, 836, con nota di Velletti. Ulteriori richiami possono riscontrarsi in Trib. Treviso, 26 gennaio 2018, in questa Rivista, 2018, 35, con nota di Roma nonché in C. Benanti, La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi, in questa Rivista, 2019, 160, nota 11. 71 In particolare Trib. Udine, 1 giugno 2017, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1001, con commento di Roma, ha ritenuto, anticipando in certa misura quanto affermato poi da Cass. SU, 18287/2018, che il concetto di mezzi adeguati vada ricostruito alla luce di tutti i criteri enunciati dall’art. 5, comma 6 l. div. non potendo il giudizio sull’an debeatur essere disgiunto da quello sul quantum. Ma detta posizione è criticata nel commento di Roma, in quanto si ritorna a quel criterio composito, in contrasto con la natura eminentemente assistenziale dell’assegno. Ed inoltre, Trib. Roma, 26 maggio 2017, in Dir. fam. e pers., 2018, 527; Trib. Treviso, 26 gennaio 2018, cit. Analogamente e con ampiezza di argomentazioni ulteriori, App. Napoli, 22 febbraio 2018, in Fam. e dir., 2018, 360, con nota di Danovi; Trib. Arezzo, 5 luglio 2017, in Corr. giur., 2018, 636, con nota di Andreola. Per una rassegna di giurisprudenza ulteriore si rinvia a M. Velletti, Quali criteri per la determinazione dell’assegno divorzile dopo Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, cit., 848 ss. 72 Il riferimento è a Trib. Milano, 22 maggio 2017, cit., Il quale afferma che il parametro per determinare l’autosufficienza economica può essere considerato l’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili). Ulteriore parametro per adattare “in concreto” il concetto di indipendenza può anche essere – sempre secondo il tribunale suddetto – il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita. V. in proposito le perplessità di E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, cit., 888, il quale paventa il profilarsi, in soluzioni di questo tipo, di «una china, al fondo della quale non è difficile intravedere, da parte di giudici più spregiudicati ed attivi, la predisposizione di “tabelle” (peraltro, in eventuale singolare contrasto con l’ostilità che tende persistentemente e diffusamente a manifestarsi per un simile strumentario in altri settori dell’ordinamento, nei quali pure sono in gioco situazioni esistenziali)». 73 Trib. Udine, 1 giugno 2017, cit.,”non essendo per nulla chiaro a cosa dovrebbe in concreto ancorarsi, vale a dire ad un indice medio delle retribuzioni degli operai e impiegati, o alla pensione sociale o ad un reddito medio rapportato alla classe economico sociale di appartenenza dei coniugi e alle possibilità dell’obbligato”.
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4. La sentenza Cassazione Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287.
L’invocato intervento delle sezioni unite74 si realizza a distanza di poco più di un anno e sovverte in buona parte l’impianto proposto dalla Prima sezione, confermandone tuttavia alcuni passaggi di certo non poco significativi per le innovazioni introdotte rispetto al passato. Viene innanzitutto abbandonata la lettura dell’art. 5, comma 6 l. div. che ricostruiva in due momenti l’intervento del giudice: quello volto a determinare la mancanza di mezzi adeguati in capo al richiedente ed, in caso positivo, l’entità dell’assegno, consolidatasi negli anni a partire dalla decisione delle Sezioni Unite del 1990. Si ritiene pertanto che l’espressione “mezzi adeguati” non richieda una etero integrazione mediante ricorso a criteri estranei alla norma, bensì da rinvenirsi nella medesima ed indicati nella prima parte. Per tale ragione si respinge sia la consolidata ricostruzione secondo la quale l’assegno deve consentire, per quanto possibile, all’avente diritto di mantenere il tenore di vita coniugale – accogliendo la critica contenuta nella sentenza 11504/2017 – in quanto esso finisce col valutare “la potenzialità e non l’effettività delle condizioni di vita matrimoniale”, ma anche la tesi elaborata da quest’ultima con riferimento alla nozione di autosufficienza economica, in presenza della quale nulla potrebbe pretendere il richiedente. Nel primo criterio, infatti, è insito il rischio di legittimare un’ingiustificata locupletazione a favore del coniuge più debole, il secondo può penalizzarlo altrettanto ingiustificatamente non riconoscendo rilevanza agli apporti patrimoniali ed alla vita familiare da lui forniti durante la vita matrimoniale. Ciò dipende dal fatto che il percorso seguito da entrambe le interpretazioni necessita, come detto, del ricorso ad una etero integrazione dei criteri da parte del giudice rispetto a quelli fissati dalla norma, operazione questa che finisce con l’attribuirgli eccessiva discrezionalità. La Corte ritiene invece che l’adeguatezza dei mezzi vada valutata in base ai criteri espressi all’interno della norma medesima: condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico fornito da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione dei rispettivi patrimoni o di quello comune, considerati alla luce della durata del matrimonio, che devono essere tutti presi in considerazione dal giudice e assumono pari rilevanza. L’assegno assume dunque natura composita, ma in realtà al di là di quanto
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Anche questa decisione è stata pubblicata in numerose riviste e commentata da molti autori. Si forniscono alcune indicazioni al riguardo senza pretese di completezza. Essa può leggersi in questa Rivista 2018, 455 e in Corr giur., 2018, 1186, con nota di Patti; in Foro it., 2018, I, 2671, con note di Casaburi e M. Bianca; ivi, 3999, con nota di Cea; in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1607, con nota di Benanti; in Giur. it., 2018, 1843, con nota di Rimini; in Dir. fam. e pers., 2018, 869, con nota di Savi. Commenti alla sentenza ad opera di M. Sesta, L. Balestra, C. Rimini, E. Al Mureden, G. Ballarani, C. Irti, F. Romeo, M. Martino sono pubblicati nel fasc. 1, 2019 di questa Rivista. Anche la rivista Fam. e dir., ha dedicato il fasc. 11 del 2018 all’esame della decisione mediante i commenti di C.M. Bianca, V. Carbone, M. Dogliotti, E. Quadri, M. Sesta, G. Servetti, F. Danovi, E. Al Mureden, C. Rimini, F. Tommaseo.
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affermato, primario rilievo riveste il profilo assistenziale75, onde l’assegno non può essere liquidato in mancanza di uno squilibrio significativo nella condizione patrimoniale dei coniugi76, quantunque sia rilevabile un importante apporto da parte di uno dei due al ménage familiare, mentre deve riconoscersi, in caso di mancata autosufficienza, anche se non sussistano i presupposti per applicare gli altri criteri. Notevole incidenza può altresì esercitare il c.d. criterio perequativo-compensativo (anche se in verità – come in precedenza rilevato – la Corte in qualche passaggio ne riconosce la preminenza nella valutazione dell’adeguatezza dei mezzi sussistenti in capo al richiedente), in virtù del quale occorre considerare il particolare contributo fornito dal richiedente al consolidamento della posizione economica dell’altro, mediante la completa dedizione alla famiglia o comunque a causa di rinunce che ne hanno limitato lo sviluppo dell’attività lavorativa e quindi le prospettive di guadagno, le quali si ripercuotano sulla sua posizione economica al momento del divorzio. Peraltro l’obbligazione non può sorgere a carico del coniuge più abbiente ove l’onere imposto lo faccia cadere, a sua volta, in situazione di bisogno. Se dunque non può negarsi a ciascun coniuge la libertà di richiedere lo scioglimento del matrimonio, tuttavia non si deve ignorare che la comunione di vita realizzata col matrimonio giustifica un riequilibrio delle rispettive posizioni ove la situazione deteriore in cui versa quello più debole sia frutto esclusivo o prevalente delle scelte concordemente compiute dalla coppia, le quali hanno comportato rinunce di quest’ultimo alle prospettive di un proprio guadagno o comunque alla luce del contributo da lui fornito in altro modo alla formazione del patrimonio personale dell’altro o del patrimonio comune, in mancanza dei quali egli avrebbe potuto consolidare la propria posizione economica. Anche sotto questo aspetto dalla libera autodeterminazione dei coniugi scaturisce la conseguente responsabilità per gli effetti che ne sono derivati. Trattasi, secondo la Corte, di soluzione del tutto coerente e doverosa, alle luce dei valori caratterizzanti il matrimonio (che sopravvivono mediante una residua solidarietà post-coniugale da non confondere però con l’ultrattività del matrimonio, valore che la decisione della prima sezione ha invece inopportunamente ridimensionato ove considera gli ex coniugi come “persone singole”, svalutandone il passato), anche al fine di tutelare la dignità della persona e realizzare la parità sostanziale tra i coniugi. Il richiedente deve dunque considerarsi privo di mezzi adeguati non solo quando non raggiunga l’autosufficienza economica ma anche ove tale particolare contributo non sia stato altrimenti debitamente compensato. Non è chiaro – ma si potrebbe ritenere plausibile – se, quando sussistono i presupposti per l’applicazione ai massimi livelli del
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Nello stesso senso v. E. Al Mureden, La nuova funzione dell’assegno divorzile nello specchio dei big money cases, cit., 1091, il quale parla di una funzione assistenziale minima e di una funzione assistenziale compensativa a seconda che sia mancato o vi sia stato un particolare contributo alla conduzione familiare. Diversamente C. Rimini, I criteri di determinazione dell’assegno divorzile, in questa Rivista, 2019, 24, il quale ritiene che sia invece prevalente la funzione compensativa; ma, se così fosse, se ne dovrebbe necessariamente dedurre che lo squilibrio economico non risulti decisivo. 76 O dovrà estinguersi se essa è venuta meno: Cass., 5 marzo 2019, n. 6386, in Foro it., 2019, I, 1181, con nota di Luccioli; App. Palermo, 26 novembre 2018, ivi, 319.
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criterio perequativo-compensativo, possa anche arrivarsi ad un totale riequilibrio delle posizioni patrimoniali dei coniugi (con conseguente ritorno al criterio del tenore di vita matrimoniale)77. Plausibile ma non condivisibile, per le ragioni in precedenza indicate secondo le quali solidarietà coniugale e solidarietà post-coniugale non possono comunque condurre al medesimo risultato sotto il profilo patrimoniale. Afferma la Corte che “Il parametro dell’adeguatezza contiene dunque in sé una funzione riequilibratrice e non solo assistenziale-alimentare” (nostro il grassetto). Essa non fa menzione del criterio riguardante le ragioni della decisione probabilmente perché già in passato criticato dalla dottrina che vi ha individuato un contrasto con l’idea del divorzio quale rimedio e non come sanzione78. In assenza dei presupposti per applicare il criterio perequativo-compensativo il giudice dovrà liquidare l’assegno solo se il richiedente sia privo di mezzi volti a garantirgli una vita dignitosa. Le Sezioni Unite confermano invece la soluzione indicata dalla Prima Sezione riguardo all’onere della prova circa l’esistenza dei presupposti a fondamento dell’assegno, fatta gravare sul richiedente. La pronunzia in esame ha suscitato commenti a volte entusiastici79 e comunque larga adesione ed apprezzamento in dottrina80, pur non mancando qualche rilievo critico81 o voci di aperto dissenso82, per un impianto che, a parere di molti, ha ristabilito il giusto equilibrio fra i contrapposti interessi degli ex coniugi in quanto la decisione della prima sezione – come si è detto al § precedente – era sembrata penalizzare eccessivamente la posizione del coniuge più debole. Equilibrio conseguito, per un verso, mediante la negazione del diritto del richiedente a godere tendenzialmente del tenore di vita matrimoniale83 il quale
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A favore di questa soluzione si pronunzia C. Rimini, Assegno divorzile e rilievo delle pregresse attribuzioni patrimoniali, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 126; Id., I criteri di determinazione dell’assegno divorzile, cit., 26. 78 V. per tutti, G. Bonilini, L’assegno postmatrimoniale, cit., 552 ss. 79 C.M. Bianca, Le Sezioni Unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 ss.; il quale afferma che la sentenza ha restituito al matrimonio la sua dignità etica; G. Savi, Riconoscimento e determinazione dell’assegno post-matrimoniale: il ritrovato equilibrio ermeneutico, in Dir. fam. e pers., 2018, 897 ss. 80 Ad es., G. Casaburi, L’assegno di divorzio secondo le sezioni unite della Cassazione: una problematica «terza via», in Foro it., 2018, I, 2699 ss. individua il maggior pregio della sentenza nella demolizione dell’impianto tracciato dalla prima sezione; M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici, cit., 2703 ss. la quale parla “di un felice equilibrio tra libertà e responsabilità e quindi autodeterminazione e solidarietà postconiugale” (2706). Equilibrio nelle soluzioni che vi individua anche F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, cit., 1009, sottolineando altresì che la sentenza “getta le basi per una rilettura dell’art. 5, comma 6, l. div., in chiave moderna e illuminata”. 81 Ad es., C.M. Bianca, op. ult. cit., 957, non condivide la ricostruzione circa la natura composita dell’assegno il quale – a suo parere – mantiene natura esclusivamente assistenziale. Mentre L. Balestra, L’assegno divorzile nella nuova prospettiva delle sezioni unite, in questa Rivista, 2019, 18 rileva giustamente che la Corte ha compiuto una sorta di indebita riscrittura della norma “seguendo una scala gerarchica differente rispetto a quella tracciata dal legislatore” superando così i confini dell’attività interpretativa. Più appropriato sarebbe stato – a parere dell’autore – il ricorso alla Corte costituzionale, strada in verità intrapresa – come ricordato nel testo – alcuni anni prima ma con scarso successo; analogamente, F. Macario, op. cit., 3608. 82 V. gli autori cit. a nota 86. 83 A. Morace Pinelli, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle sezioni unite, cit., 3619, considera invece eccessiva la demonizzazione del tenore di vita matrimoniale in quanto sarebbe stato applicato per lo più con oculatezza da parte della giurisprudenza.
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può dipendere da fattori che nulla hanno a che vedere con la vita trascorsa insieme dagli sposi ma, per altro verso, per la considerazione riconosciuta al particolare contributo fornito a favore dell’altro coniuge e della famiglia tutta sulla base dei sacrifici e delle rinunce alla sua potenziale crescita patrimoniale in vista della giusta tutela della dignità della persona84, nonché per la considerazione riservata ai valori del matrimonio i quali mantengono una certa rilevanza anche dopo il suo scioglimento in chiave di solidarietà post-coniugale e di salvaguardia della parità sostanziale85. Da tale orientamento si discosta però altra corrente di pensiero, verosimilmente minoritaria, nell’ambito della quale è da annoverare chi non ha invece condiviso il sostanziale ridimensionamento del criterio di autosufficienza economica86 ma anche chi, in senso opposto, ha considerato modesta la tutela che verrebbe assicurata al coniuge più debole rispetto al criterio un tempo consolidato87. Occorre prendere atto comunque che nelle decisioni successive – ivi compresa quella in commento – la medesima Corte88 e quelle del merito89 si sono uniformate all’indirizzo
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E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, cit., 971. Ma in senso critico C. Benanti, La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 162, secondo la quale più che la lesione della dignità ne risulta compromessa la libertà di determinazione dell’indirizzo di vita familiare. 85 V. in proposito C.M. Bianca, op. ult. cit., 957 il quale, nel ribadire la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno, afferma che è la comunione di vita coniugale già vissuta a rendere moralmente doveroso il reciproco aiuto. Ed altresì G. Casaburi, L’assegno di divorzio secondo le sezioni unite della Cassazione, cit., 2700; M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici, cit., 2706 ss.; A. Morace Pinelli, L’assegno divorzile dopo l’intervento delle sezioni unite, cit., 3615. Secondo F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, cit., 1010, le Sezioni Unite hanno anche attribuito rilevanza costituzionale al valore della solidarietà post-coniugale. 86 S. Patti, Assegno di divorzio: il «passo indietro» delle sezioni unite, in questa Rivista, 2018, 473 ss e in Corr. giur., 2018, 1197 ss. (a cui si riferiscono le citazioni successive); F. Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle sezioni unite nell’attribuzione o determinazione dell’assegno di divorzio, cit., 3605 ss.; M. Dogliotti, L’assegno di divorzio tra innovazione e restaurazione, in Fam. e dir., 2018, 970 il quale ritiene che nella decisione delle Sezioni Unite vi sia sostanzialmente un surrettizio ritorno al passato tenore di vita matrimoniale. In senso critico anche F. Romeo, Assegno divorzile ed indigenza economica dell’ex coniuge, in questa Rivista, 2018, 71 ss. 87 V. in tal senso, G. Luccioli, Ancora sull’assegno di divorzio: la «terza via» non obbligata delle sezioni unite, in Foro it., 2019, I, 1186 ss. la quale, premesso che la sentenza ha molti meriti ma anche alcune criticità, nello svolgimento del discorso pone soprattutto in luce queste ultime le quali finiscono nella sostanza col prevalere, fino a concludere che la scelta operata non è stata la migliore in quanto si sarebbe dovuta tenere ferma la soluzione accolta dalle sezioni unite del 1990. 88 Cass., 29 gennaio 2019, n. 2480; Cass., 17 aprile 2019, n. 10781, in Fam. e dir., 2019, 752 con nota di Andreola; Cass., 17 aprile 2019, n. 10782, in Foro it., 2019, I, 2338, con nota di Macario; Cass., 7 maggio 2019, n. 12021, in Fam. e dir., 2019, 713; Cass., 9 agosto 2019, n. 21228; Cass., 30 agosto 2019, n. 21926, in Corr. giur., 2019, 1174, con nota di Quadri e in Fam. e dir., 2019, 1077, con nota di Al Mureden; Cass., 15 ottobre 2019, n. 26082; Cass., 18 ottobre 2019, n. 26594; Cass., 30 ottobre 2019, n. 27771; Cass., 16 gennaio 2020, n. 742, nonché le sentenze citate alle note 91 e 92. 89 Numerosissime sono ormai la decisioni di merito che si sono uniformate al nuovo indirizzo e che possono riscontrarsi, ad esempio, mediante esame della Banca dati Pluris. Per una rassegna al riguardo C. Cecchetti, Gli orientamenti della giurisprudenza di merito in materia di assegno di divorzio dopo la pronunzia della Corte di Cassazione a sezioni Unite n. 18287 del 2018, in giudice donna. it, 2018, 4, 1 ss. Riguardo alle sentenze pubblicate, v. Trib. Roma, 11 ottobre 2018 e Trib. Civitavecchia, 14 settembre 2018, in Foro it., 2018, I, 3724; App. Bologna, 15 maggio 2019, in Fam. e dir., 2019, 1083, con nota di Al Mureden, in quanto il contributo prestato alla conduzione familiare era già stato compensato con trasferimenti patrimoniali avvenuti durante la vita matrimoniale e al momento della separazione; App. Napoli, 10 gennaio 2019, in Foro it., 2019, I, 658, in Dir. fam. e pers., 2019, 622, con nota di Morace Pinelli, e in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 530, con nota di Rimini, ha negato il diritto all’assegno in considerazione dell’ottima posizione economica della richiedente e del fatto che aveva tratto vantaggio dalla vita matrimoniale piuttosto che avervi contribuito col proprio apporto; analogamente Trib. Pavia, 23 luglio 2018, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 126, con commento di Rimini. Trib. Treviso, 8 febbraio 2019, in questa Rivista, 2019, 617 ss., e in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 1011 con note di Benanti; in Fam. e dir., 2019, 753 con nota di Andreola; in Foro it., 2019, I, 2205, con nota di Casaburi, il quale afferma che tra i criteri previsti dalla norma quello perequativo-compensativo è il più rilevante; ed altresì Trib. Milano, 5 luglio 2019, in Banca dati Pluris, che ha negato l’assegno in
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indicato dalle Sezioni Unite, aderendo in particolare all’indicazione relativa all’abbandono del tenore di vita coniugale quale parametro essenziale di riferimento ed alla natura composita dell’assegno90. Svolta che ha comportato spesso la necessità di rinviare la decisione alla Corte di appello per compiere accertamenti ulteriori o valutazioni aggiuntive rispetto a quelli compiuti in precedenza in base alla diversità dei criteri introdotti dai recenti mutamenti di indirizzo91. Ma non mancano casi in cui il rinvio non si è ritenuto necessario sul presupposto che non occorressero ulteriori accertamenti rispetto a quelli rilevanti ai fini della decisione perché già compiuti dal giudice del merito92. Peraltro in presenza di giudizi ormai conclusi solo un mutamento della situazione di fatto può giustificare l’applicazione dei nuovi criteri elaborati dalle Sezioni Unite93.
5. Puntualizzazione su alcuni criteri fissati dalle Sezioni Unite e loro incidenza sulla decisione in commento.
Il primo rilievo che viene spontaneo, dopo avere ripercorso il cammino sin qui compiutosi a partire dalle modifiche introdotte dalla legge del 1987, è – come si è giustamente osservato – che la storia in certa misura si ripete94. L’intervento delle Sezioni Unite del 1990 aveva inteso riportare la soluzione sui “giusti” (?) binari seguiti fino a quel momento dalla Cassazione, di maggior tutela per il coniuge più debole in seguito all’intervento “destabilizzatore” operato dalla decisione 1652/1990 la quale faceva riferimento alla necessità di assicurare al coniuge più debole un assegno che garantisse “un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa”. Similmente Cassazione 11504/2017 aveva parlato di “indipendenza o autosufficienza economica”, soluzione puntualmente rivista in breve tempo da Sezioni Unite 18287/2018, considerando inadeguata la tutela del coniuge più debole.
quanto la moglie era economicamente autosufficiente in ragione del ricavato derivante dalla sua attività, mentre l’essersi in parte dedicata alla famiglia non le aveva impedito di accrescere negli anni progressivamente il proprio reddito. V. anche nota successiva. 90 Parla però di natura esclusivamente assistenziale dell’assegno, Trib. Taranto, 4 febbraio 2019, in Banca dati Pluris. 91 Cfr. ad es., Cass., 8 febbraio 2019, n. 3890; Cass., 5 marzo 2019, n. 6386, cit.; Cass., 26 giugno 2019, n. 17098; Cass., 28 giugno 2019, n. 17601; Cass., 13 febbraio 2020, n. 3661, cit. Particolarmente esaustiva al riguardo appare Cass., 23 aprile 2019, n. 11178, in Foro it., 2019, I, 3129; nello stesso senso Trib. Treviso, 27 maggio 2019, ivi. 92 Ad es., Cass., 23 gennaio 2019, n. 1882, in Fam. e dir., 2019, 771, con nota di Bellin; Cass., 14 febbraio 2019, n. 4523, in Dir. fam. e pers., 2019, 569; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5975; Cass., 6 marzo 2019, n. 6536. Riscontro peraltro difficilmente ipotizzabile quando non si richiedeva di verificare con una certa precisione il valore del contributo prestato. 93 C. Cecchetti, op. cit., 19; App. Genova, 21 maggio 2019, in Banca dati Pluris. F. Tommaseo, La decisione delle Sezioni Unite e la revisione ex art. 9 l. div. dell’assegno post-matrimoniale, in Fam. e dir., 2018, 1053, adombra la possibilità di avanzare richiesta di revisione dell’assegno sulla base di fatti non oggetto di accertamento nei precedenti giudizi divenuti rilevanti in base allo ius superveniens costituito dalla nuova interpretazione adottata; a favore di questa soluzione anche C. Bona, Il revirement sull’assegno divorzile e gli effetti sui rapporti pendenti, in Foro it., 2017, I, 1900 s. Contra, A. Mondini, La determinazione dell’assegno divorzile la sezione semplice decide «in autonomia». Le ricadute della pronuncia sui giudizi di attribuzione e sui ricorsi per revisione dell’assegno, cit., 1904; Cass., 20 gennaio 2020, n. 1102; Trib. Mantova, 24 aprile 2018, in Fam. e dir., 2019, 48. 94 V. in proposito le appropriate considerazioni di M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici, cit., 2706.
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Sulla base dell’impianto delineato da queste ultime il primo accertamento che il giudice è chiamato a compiere è quello relativo alla condizione patrimoniale di entrambi gli ex coniugi in quanto se, come detto, manca un significativo squilibrio nella loro condizione patrimoniale nulla può essere preteso in virtù della natura assistenziale dell’assegno95. In questa prospettiva suscita perplessità l’affermazione della sentenza in commento – peraltro non rilevante nel caso concreto essendo assodato lo squilibrio a danno del richiedente che aveva sacrificato le proprie aspettative di lavoro a favore della famiglia – secondo la quale l’assegno può essere dovuto sulla base del solo criterio perequativo compensativo96. Nel determinare la situazione economica delle parti occorre fare riferimento all’ammontare del rispettivo patrimonio (beni anche improduttivi, redditi, debiti)97 ed in particolare alla capacità del richiedente di procurarsi in futuro autonome risorse ad es., mettendo a frutto beni attualmente improduttivi di reddito, iniziando o riprendendo l’attività lavorativa interrotta98 o incrementandola ove a ciò non sia impedito dall’esistenza di figli minori a cui assicurare assistenza. Accertamento che, ad esempio, viene richiesto dal ricorrente nella decisione in commento circa la possibilità che la moglie riprendesse la precedente attività interrotta per ragioni familiari. In tale prospettiva occorre anche tenere conto dell’età99, dello stato di salute e della possibilità concreta di ingresso (o reingresso100) nel mondo del
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C.M. Bianca, op. ult. cit., 957 il quale osserva che “per quanto ampia e prevalente sia stata la collaborazione prestata da un coniuge nel corso del matrimonio, nessuna pretesa compensativa può essere avanzata nei confronti dell’altro coniuge che non abbia una superiore posizione reddituale”; Id, Commento all’art. 5 l. 898/1970, cit., 335; nello stesso senso, M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, in Fam. e dir., 2018, 987; C. Benanti, La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 163; C. Rimini, La nuova funzione compensativa dell’assegno divorzile, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1697; F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, cit., 1011; E. Al Mureden, La nuova funzione dell’assegno divorzile nello specchio dei big money cases, cit., 1092. Trib. Pavia, 23 luglio 2018, cit.; Trib. Roma, 11 ottobre 2018, cit. 96 Ma di questo parere è A. Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito, cit., 534 s., posizione peraltro – per quel che mi consta – rimasta isolata. 97 In particolare sulla posizione dell’obbligato può incidere in negativo quanto egli deve a titolo di mantenimento per i figli sopravvenuti o di contribuzione nel contesto della nuova famiglia che si è creato. Anche per questa ragione il criterio del tenore di vita matrimoniale è opportuno sia stato abbandonato in quanto avrebbe rischiato di porre in concreto un limite al coniuge più abbiente di costituirsi una nuova famiglia: cfr. al riguardo Cass., 19 marzo 2014, n.6289, in Fam. e dir., 2015, 470 ss., e le relative osservazioni di D. Buzzelli, Assegno di divorzio e nuova famiglia dell’obbligato: spunti per una rimeditazione del problema dell’attribuzione e della determinazione dell’assegno divorzile, ivi, 471 ss.; nonché E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà postconiugale, cit., 651, il quale rileva dunque l’opportunità che ai membri di entrambe le famiglie sia garantito un tenore di vita non differente; F. Romeo, op. cit., 77, il quale osserva che “non è dato revocare in dubbio che quanto si attribuisce all’ex coniuge per il tramite dell’assegno divorzile si toglie al nuovo coniuge, al nuovo convivente, all’unito civilmente. Ma vi è di più. Ciò che si attribuisce all’ex coniuge tramite l’assegno divorzile si toglie ai figli eventualmente nati dal nuovo matrimonio ovvero da un rapporto di stabile convivenza”. E per la giurisprudenza precedente, Cass., 22 marzo 2012, n. 4551, in Corr. giur., 2012, 1052, con nota di De Marzo; Cass., 12 ottobre 2006, n. 21919, in Fam. e dir., 2007, 596; Cass., 19 ottobre 1981, n. 5447, in Dir. fam. pers., 1982, 409. Peraltro si è ritenuto che una stabile relazione può rilevare ai fini dell’estinzione dell’assegno, anche se la coppia non convive: Trib. Milano, 30 gennaio 2018, in Giur. it., 2019, 1054. Tali elementi possono rilevare anche al fine di modificare l’importo dell’assegno già concesso o di stabilirne l’estinzione. V. da ultimo al riguardo, App. Palermo, 26 novembre 2018, cit.; Cass., 9 gennaio 2020, n. 174; Cass., 14 gennaio 2020, n. 506. 98 Cass., 13 febbraio 2020, n. 3661, cit., sottolinea che il richiedente è tenuto ad attivarsi in tal senso non essendo giustificabile una condotta meramente passiva. 99 E. Al Mureden, op. ult. cit., 652, rileva la necessità di adottare un approccio restrittivo al cospetto di un ex coniuge in giovane età e senza figli. 100 Giustamente osserva C. Benanti, L’assegno divorzile non spetta al coniuge cui sia imputabile il proprio stato di bisogno, cit., 634, che
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lavoro101. Situazione certamente più facilmente realizzabile ove il richiedente sia in giovane età. Il criterio di autoresponsabilità impone un tentativo siffatto, anche se da pretendersi con una certa prudenza, ove il lavoro disponibile sia di livello inferiore a quello che gli studi condotti o la preparazione professionale conseguita consentirebbero. In questo caso spetta al giudice operare l’equilibrato contemperamento tra i due valori della solidarietà post-coniugale e della autoresponsabilità. Quando l’ingresso (o il reingresso) nel mondo del lavoro richiede prevedibilmente del tempo, il giudice potrebbe disporre un assegno temporaneo (quantunque detta possibilità non sia espressamente prevista dalle legge, ma lo è in altri ordinamenti)102, in seguito prorogabile in assenza del verificarsi dell’evento atteso (l’inizio dell’attività lavorativa) o che potrebbe estinguersi anche prima ove esso si verifichi in anticipo sui tempi previsti. Aspetto essenziale da chiarire – come rilevato – è quello relativo al criterio di valutazione dell’ autosufficienza economica, il quale, secondo la sentenza in commento, non è stato sconfessato dalle Sezioni unite (ma neppure peraltro del tutto chiarito103) ma solo precisato, introducendo anche il criterio perequativo-compensativo104. Criterio dell’autosufficienza economica che è il solo a rilevare ove non sussistano i presupposti per l’operare del criterio perequativo-compensativo in quanto è mancato durate la vita matrimoniale un significativo apporto del coniuge più debole al ménage familiare o esso è stato già adeguatamente compensato105 oppure a concorrere con quest’ultimo ove esso non riesca ad assicurare l’autosufficienza economica al coniuge più debole. Come si è rilevato in precedenza la prima sessione della Cassazione individua l’autosufficienza in capo al richiedente se egli è in grado, con i propri mezzi, di assicurarsi un’esistenza economicamente autonoma, libera e dignitosa, criterio sostanzialmente ribadito nella sentenza in commento106. Si
non possono rilevare le ragioni che hanno indotto in precedenza il coniuge ad abbandonare l’attività lavorativa in quanto, alla luce della disciplina sugli alimenti, non risulta decisiva la colpa del richiedente venutosi a trovare in situazione di bisogno per negargli quanto necessario al fine di condurre una vita dignitosa. 101 Precisa C.M. Bianca, Commento all’art. 5 l. 898/1970, cit., 329 che la capacità lavorativa deve valutarsi secondo il criterio della colpa. In questa prospettiva Trib. Santa Maria C.V., 13 dicembre 2017, cit., puntualizza che occorre anche tenere conto dei mezzi a disposizione del richiedente (nella specie uno studio professionale già utilizzato per lo svolgimento dell’attività) e il lungo periodo intercorso tra la separazione e il divorzio, in assenza di prova da parte del richiedente di ragioni specifiche che ne impedissero la produttività. 102 Come ad es., quello tedesco. In senso conforme Trib. Treviso, 8 gennaio 2019, cit.; A. Spadafora, op. cit., § 4. 103 Cfr. A. Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito, cit., 537. 104 Ma di parere diverso è S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle sezioni unite, cit., 1198, secondo il quale l’integrazione del criterio di autosufficienza economica mediante quello perequativo-compensativo ha provocato uno stravolgimento della sentenza della prima sezione. 105 Nello stesso senso App. Bologna, 15 maggio 2019, cit. La negazione della funzione assistenziale dell’assegno, come sostenuto da C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, cit., 1277 s., porterebbe allora alla negazione di qualsiasi sostegno economico. 106 In senso contrario, Trib. Torino, 9 novembre 2018, cit. da C. Cecchetti, op. cit., 11, la quale ha disposto la liquidazione di un assegno mensile di 1200 euro a favore della moglie, titolare di un patrimonio mobiliare e immobiliare pari ad 1.000.000 di euro in quanto priva di redditi ed attività lavorativa, mentre il patrimonio del marito ammontava a 8.000.000 di euro. Infatti, a dispetto della natura alimentare dell’assegno, declamata dal giudice, appare evidente che la liquidazione è avvenuta in realtà solo a causa dello squilibrio economico fra i due coniugi.
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pone il dubbio se il riferimento debba essere ragguagliato al tenore di vita alimentare. Su questo punto mi sembra che non sempre le idee siano del tutto chiare. Vi è chi sostiene il contrario107 considerando, a mio parere erroneamente, che l’assegno alimentare sia dovuto in misura tale da assicurare la mera sopravvivenza e pertanto che il tenore di vita dignitoso da riconoscersi all’ex coniuge sia costituito da una misura superiore ed intermedia rispetto all’assegno di mantenimento spettante al coniuge separato. A tale dubbio induce anche la decisione in commento che fa riferimento ad un imprecisato criterio di “normalità”, il quale si colloca al di sopra del livello di sopravvivenza108. In realtà, come ebbi a rilevare in passato109, anche l’assegno alimentare non deve limitarsi a garantire la mera sopravvivenza bensì assicurare un tenore di vita dignitoso onde sotto questo profilo non sussiste differenza110 e dunque l’assegno non occupa uno spazio intermedio tra alimenti e mantenimento. Occorre precisare peraltro che tale indicazione non si pone in contrasto con una ricorrente affermazione secondo la quale l’assegno postmatrimoniale non può identificarsi con quello alimentare, per molteplici ragioni111 (ad es., l’ex coniuge non è contemplato nell’elenco degli obbligati agli alimenti e la prestazione non gode delle medesime tutele previste per l’assegno alimentare). Non essendo questo il contesto per affrontare le suddette questioni il riferimento agli alimenti può essere utile solo per stabilire l’importo della liquidazione112 mentre tale natura è meramente eventuale (perché può entrare in gioco il criterio perequativo-compensativo salvo che quest’ultimo sia insufficiente ad assicurare l’indipendenza economica) – come peraltro affermato dalle sezioni unite – e si configura in ragione della funzione assistenziale del medesimo, parametrata al più basso livello. L’ex coniuge non può dunque annoverarsi tout cour tra gli obbligati agli alimenti perché l’assegno di divorzio solo eventualmente può assolvere detta funzione ove gli altri criteri non entrino in gioco nella configurazione dei “mezzi adeguati” a cui il creditore ha diritto essendone carente. C’è da aggiungere peraltro che il riferimento anche alla posizione sociale dell’alimentato (art. 438, 2° comma) consente di ricostruire in maniera più flessibile i bisogni da soddisfare113 tenendo conto che, alla luce delle abitudini
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M. Dogliotti, L’assegno di divorzio tra innovazione e restaurazione, cit., 968. Già richiamato in precedenza da Cass., 7 febbraio 2018, n. 3015, e 3016 (anche in questi casi est. Lamorgese). 109 T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984, 55 ss. 110 In maniera conforme, Trib. Treviso, 8 gennaio 2019, cit. 111 F. Danovi, op. ult. cit., 377. Ma nel passato, pur in presenza del medesimo testo dell’art. 5 l. div. attualmente vigente, in senso diverso si esprimeva C. Argiroffi, Gli alimenti, cit., 30 ss., il quale riteneva che all’assegno divorzile occorresse comunque riconoscere natura e livello alimentare. 112 Ma di diverso parere sono F. Danovi, La meritevolezza dell’assegno di divorzio, cit., 377, il quale ritiene che comunque l’ex coniuge abbia diritto ad un assegno di importo superiore; C. Benanti, L’assegno divorzile non spetta al coniuge cui sia imputabile il proprio stato di bisogno, cit., 632, che parla di un “dignitoso mantenimento”, superiore al tenore di vita alimentare. 113 In proposito si riscontra un breve passaggio nella decisione delle Sezioni Unite nel quale si dice che il profilo assistenziale «deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente». Non mi sembra fondata la preoccupazione espressa da M. Velletti, op. cit., 851, che si rischi allora il ritorno al tenore di vita matrimoniale, in quanto l’essenzialità dei bisogni deve essere valutata sulla base di criteri oggettivi e non della percezione che ne ha il richiedente. Pur in un periodo precedente ai recenti mutamenti introdotti dalla Cassazione osservava F. Alcaro, Nota in tema di assegno divorzile; il “tenore di vita in costanza di matrimonio”, un’aporia interpretativa?, cit., 1083 che “Un conto è … l’esigenza del sostegno e del mantenimento secondo parametri di livello sociale108
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acquisite nel corso della vita pregressa, una certa esigenza può rilevare in quanto avvertita dal creditore (ed in certo qual modo tenendo conto delle abitudini acquisite durante la vita pregressa) purché possa farsi rientrare nel tenore di vita essenziale da riconoscergli anche quando non sussistono i presupposti per applicare gli altri criteri previsti dall’art. 5, comma 6, l. div. Oltre tale limite non mi sembra possa andarsi senza introdurre elementi di eccessiva discrezionalità del giudice. Tale livello va accresciuto eventualmente in virtù del criterio perequativo-compensativo richiamato dalle sezioni unite in base al quale occorre tenere conto del particolare contributo già fornito dal richiedente alla conduzione della famiglia (e nel futuro in vista dell’accudimento dei figli minori) ed alla formazione del patrimonio dell’obbligato114 e, di converso, del sostanziale contributo da parte di quest’ultimo il quale abbia comportato un significativo accrescimento del patrimonio del richiedente (ad es., mediante donazioni115 anche indirette) o di quello comune. Se detta componente deve essere necessariamente riconosciuta onde salvaguardare la dignità e l’uguaglianza del coniuge più debole assai dubbia appare l’ammissibilità di una rinuncia anche solo parziale all’assegno, limitata alla medesima116. Importante è la precisazione della Corte secondo la quale l’assetto configurato deve scaturire da un disegno comune elaborato dai coniugi (nel contesto dell’indirizzo di vita)117. Per tale ragione esso non potrà prendersi in considerazione ove sia frutto di una scelta unilaterale del coniuge richiedente per pigrizia, per non avere messo a frutto le proprie potenzialità lavorative o abbandonato il lavoro, senza giustificate ragioni118, o per propria vocazione, viepiù – come a volte accade nelle famiglie particolarmente benestanti – se ha preferito dedicare la sua vita a coltivare i propri interessi magari usufruendo in larga misura di collaborazione per il lavoro domestico (ad es., colf, baby sitter). È altresì necessario, per invocare tale contributo perequativo-compensativo che l’attività prestata ecceda la misura rientrante nel contesto del dovere di contribuzione al quale entrambi i coniugi119 sono tenuti e che può realizzarsi sia mediante lavoro domestico sia extra-familiare onde
economico pertinenti tendenzialmente allo status del soggetto di riferimento; un altro conto è ritagliare e prescegliere lo standard del tenore di vita matrimoniale, il cui contenuto si alimenta di tutte le componenti che fisiologicamente lo costituiscono, anche al di là delle necessità”. 114 Discutibile è l’individuazione di detto contributo nel fatto che la moglie accompagnasse frequentemente il marito nei viaggi di lavoro, come affermato da Trib. Roma, 11 ottobre 2018, cit. 115 Cass., 30 agosto 2019, n. 21926, cit. 116 V. al riguardo E. Al Mureden, Solidarietà post-coniugale e compensazione del contributo endofamiliare nel nuovo assegno divorzile, in questa Rivista, 2019, 40. Ritiene diversamente, C. Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir., 2018, 1042. 117 Ma v. al riguardo le critiche – a mio parere affatto condivisibili – di G. Luccioli, Ancora sull’assegno di divorzio, cit., 1189 secondo la quale ciò che conta non è “quel che si è liberamente concordato ma la concretezza del ménage familiare nel suo effettivo dispiegarsi in termini di rinunce coatte o indotte … di compromessi richiesti o imposti dall’armonia familiare e dalle esigenze dei figli” un quadro a dire il vero poco edificante della figura della donna a cui l’A. si riferisce. 118 Trattasi dei casi esaminati da Cass., 18 ottobre 2019, n. 26594, cit. ed anche da Trib. Treviso, 8 gennaio 2019, cit., in una situazione in cui era dubbio se la decisione della donna di abbandonare il lavoro fosse stata frutto di accordo comune o di decisione unilaterale. 119 C. Benanti, La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 163.
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non è detto che la maggiore dedizione di un coniuge alla famiglia rispetto all’altro debba computarsi a suo vantaggio se non superi la normalità. È stato posto il problema circa il criterio che occorre seguire nel determinare il valore da riconoscere alla prestazione del coniuge che si è dedicato prevalentemente alla famiglia consentendo all’altro coniuge, sgravato dei relativi pesi, di accrescere il proprio patrimonio, sostenendo che il livello del compenso vada determinato non sulla base del valore in sé, bensì “in rapporto al reddito e alla condizione economico-patrimoniale di chi lo versa e non secondo astratti criteri di valutazione di stampo lavorista”, in virtù del principio solidaristico e in prospettiva riequilibratrice della posizione degli coniugi120. La soluzione proposta mi sembra condivisibile per certi versi un po’ meno per altri. Infatti sicuramente accettabile è l’idea che la valutazione dell’attività prestata non debba ancorarsi a rigidi parametri retributivi se non altro perché assolta secondo peculiarità che possono riscontrarsi solo nel legame affettivo che unisce i familiari (in special modo quando si fa riferimento alla cura dei figli); in altre parole non è possibile procedere – se mi si passa l’espressione – facendo i conti della serva, ma non mi sembra conforme allo spirito insito nel nuovo indirizzo delle sezioni unite far dipendere il valore del contributo prestato dalla condizione economica dell’altro coniuge; egli infatti ha tratto verosimilmente vantaggio soprattutto dalla propria capacità di produrre reddito (altro discorso deve farsi naturalmente riguardo alle rinunce alla propria attività lavorativa e di guadagno patite dal coniuge dedicatosi alla famiglia). Dunque riequilibrio sì in funzione dell’attività prestata ma non del beneficio che ne ha tratto l’altro coniuge, altrimenti è forte il rischio del ritorno al tenore di vita matrimoniale121 ed anche il sovvertimento del senso della solidarietà matrimoniale che non giustificata una rigida valutazione in prospettiva premiale per l’opera prestata a favore della famiglia. D’altro canto il coniuge dedicatosi maggiormente alla famiglia ha tratto a propria volta vantaggio dall’assetto concordato godendo per lo più di un tenore di vita superiore a quello di cui avrebbe potuto beneficiare se il coniuge in grado di produrre maggior reddito avesse limitato la sua attività per assicurare paritaria dedizione ai compiti “domestici”. Nel caso ricorrente nella sentenza in esame appare comunque non del tutto chiaro se questa particolare dedizione alla famiglia vi fosse effettivamente stata. Lo contesta il ricorrente e ciò dovrà essere frutto di accertamento da parte del giudice del rinvio, quantunque risulti che la moglie avesse interrotto la propria attività lavorativa anche in vista dell’accudimento del figlio. Non si evince peraltro se per propria scelta o per effettiva necessità, onde anche tali elementi dovranno essere presi in considerazione dal giudice del rinvio.
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M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, cit., 988, il quale, esemplificando, precisa che “la casalinga che ha sposato una persona benestante conseguirà ben di più di quella che, coniugata con una persona non abbiente, abbia, allo stesso modo, contribuito ai bisogni familiari”. Aderisce a questa tesi E. Al Mureden, Solidarietà post-coniugale e compensazione del contributo endofamiliare nel nuovo assegno divorzile, cit., 39. 121 Come lo stesso M. Sesta, op. ult. cit., 990, si rende ben conto possa avvenire.
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Altra contestazione risiede nel fatto se, ricorrendo i presupposti indicati, la moglie non fosse stata adeguatamente compensata dalle elargizioni in denaro compiute a suo vantaggio dal marito durante la vita matrimoniale. Più in generale occorre sottolineare che, nel determinare il diritto ad usufruire del contributo perequativo-compensativo, bisogna anche tenere conto di quanto ricevuto dal richiedente in virtù della comunione legale – come appunto previsto dall’art. 5 comma 6 l. div. – ove il patrimonio sia stato costituito in larga prevalenza da apporti forniti dal coniuge più abbiente, che potrebbero persino eccedere il valore del contributo stesso122. Apporto che potrebbe invece risultare modesto o del tutto assente ove i coniugi abbiano optato per la separazione dei beni. A questo proposito mi sia consentito manifestare qualche perplessità nei confronti del criterio richiamato dalle Sezioni unite e condiviso dalla dottrina largamente prevalente123 ove esso riguardi una coppia che abbia optato per la separazione dei beni. A mio parere infatti il regime legale è proprio la soluzione privilegiata dal legislatore per compensare gli eventuali sacrifici che il coniuge ha già inizialmente intenzione o comunque avverte la necessità di compiere, anche nel corso della vita matrimoniale, per dedicarsi maggiormente o totalmente alla famiglia (si pensi in particolare alle scelte conseguenti alla nascita della prole) a discapito delle proprie chances lavorative. Finalità peraltro meramente eventuale in quanto la comunione legale comporta in un certo senso la completa attuazione della comunione di vita estendendola anche all’aspetto patrimoniale. Appare allora particolarmente avventata la scelta del coniuge che intenda dedicarsi in futuro alla famiglia di aderire alla separazione dei beni, rinunciando a tale misura di protezione per poi pentirsene al momento del divorzio e reclamare, contraddittoriamente124, quanto avrebbe potuto ricevere, almeno in larga parte, dalla comunione dei beni. Potrebbe obbiettarsi che questa decisione viene fatta spesso poco consapevolmente e per lo più agli inizi della vita matrimoniale e pur tuttavia mi lascia perplesso l’idea di favorire il ripensamento di una scelta liberamente compiuta (a meno che non si voglia tornare ad accettare il teorema della donna quale soggetto debole da proteggere in quanto facilmente influenzabile o addirittura non pienamente consapevole) la quale dovrebbe compiersi più prudentemente, in maniera tale da pretendere la conservazione della comunione legale o, in caso contrario, non votarsi al lavoro familiare in misura tale da mettere in pericolo il futuro soddisfacimento delle proprie esigenze. Altrimenti appare coerente
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V. in tal senso i condivisibili rilievi di L. Balestra, op. loc. cit., nonché l’incidenza del regime legale a tutela del coniuge più debole nel caso affrontato da Trib. Pavia, 23 luglio 2018, cit. 123 Ma in senso critico si esprime E. Andreola, Assegno di divorzio: onere e oggetto della prova, in Fam. e dir., 2019, 764, la quale sottolinea che è dovuto al fallimento della comunione legale l’utilizzo “anomalo” dell’assegno di divorzio in funzione riequilibratrice. Ed anche E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio fra conservazione del “tenore di vita” e “auto responsabilità”, cit., 895 non nega che tutto sommato il “riequilibrio” realizzato mediante l’assegno di divorzio funziona male, pur contribuendo a stemperare le “disuguaglianze” verificatesi a causa del concreto atteggiarsi della vita matrimoniale. 124 Rileva detta contraddizione anche F. Macario, op. cit., 3611.
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che chi ne ha compiuto in piena consapevolezza la scelta ne sopporti anche le eventuali conseguenze negative senza tardivi ripensamenti per avanzare rivendicazioni patrimoniali in chiave compensativa. Ma al di là di tali considerazioni occorre sottolineare che il criterio perequativo-compensativo ha maggiori probabilità di trovare piena applicazione riguardo a matrimoni di lunga durata, fondati sui vecchi schemi di drastica divisione dei ruoli nei quali un coniuge (per lo più la moglie) si è dedicata interamente o prevalentemente alla famiglia in regime di separazione dei beni125. Modello verosimilmente residuale presso molte coppie126, spesso le più giovani, i cui componenti sono entrambi dediti al lavoro (fatta salva l’involontaria disoccupazione) ed alla cura dei figli (a questo riguardo occorre trarre il dovuto insegnamento dal modello dell’affidamento condiviso privilegiato dal legislatore), secondo modalità differenti in ragione delle diverse attitudini e possibilità. Non si deve dimenticare infatti che il lavoro a vantaggio della famiglia può svolgersi in maniera multiforme (si pensi ad es., non solo ai modi tradizionali di cura della casa e del vestiario ma anche ai lavori di piccola manutenzione dell’immobile, dell’auto o di altri beni utilizzati per soddisfare i bisogni familiari nonché al disbrigo delle pratiche necessarie alla vita della famiglia) ed analogamente quello di cura dei figli. Contributo non squilibrato che può ricorrere ancor più nelle coppie unitesi in matrimonio in età più avanzata, le quali non hanno figli minori da accudire e la cui posizione lavorativa è ormai definita, onde in misura largamente più limitata sono necessari sacrifici particolari o rinunce lavorative nello strutturare la vita familiare127. Appare chiaro peraltro, anche dalla ricostruzione delle Sezioni unite e della sentenza in commento, che il criterio perequativo-compensativo non tende a perseguire la parità economica tra i coniugi (e ciò dovrebbe scongiurare il rischio da alcuni paventato128 di un ritorno, anche surrettizio, al criterio del tenore di vita matrimoniale129) la quale potrebbe mancare per diverse ragioni: ad es., perché lo squilibrio patrimoniale risale già al periodo che precede il matrimonio o è dovuto alle maggiori capacità di guadagno dell’uno rispetto all’altro derivante dall’attività lavorativa intrapresa, come nel caso in esame in cui i guadagni di un importante manager sarebbero stati comunque ampiamente più elevati rispetto a quelli a cui avrebbe verosimilmente potuto aspirare la moglie ove avesse proseguito nella sua attività di igienista dentale. In casi similari solo la comunione legale è in grado di assicurare un parziale riequilibrio delle posizioni economiche che peraltro non potrebbe
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Tale considerazione ricorre negli scritti di numerosi autori. V. ad es., E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, cit., 647 ss. Ed in giurisprudenza, Trib. Roma, 11 ottobre 2018, cit. 126 Rileva F. Macario, op. cit., 3611, che “sono ormai lontanissimi i tempi in cui il matrimonio comportava, in via quasi automatica e per effetto di convenzioni sociali comunemente avvertite (ma altresì rispettate incondizionatamente) il «sacrificio» per un solo coniuge delle sue aspirazioni personali”. 127 V. in proposito, Trib. Milano, 5 luglio 2019, cit. 128 V. al riguardo ad es., G. Casaburi, L’assegno divorzile secondo le sezioni unite della Cassazione, cit., 2702; M. Sesta, op. ult. cit., 990. 129 Soluzione esclusa, in particolare, da Cass., 10 settembre 2019, n. 22555; Cass., 7 ottobre 2019, n. 24932; Cass., 13 febbraio 2020 n. 3659, cit.; Trib. Milano, 5 luglio 2019, in Banca dati Pluris.
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riguardare la situazione precedente al matrimonio (fatta salva una diversa pattuizione mediante adozione della comunione convenzionale). Funzione che non può essere affidata all’assegno divorzile senza distorcerne la finalità130. Le Sezioni unite non fanno riferimento nella pronunzia – come accennato – al criterio riguardante le ragioni della decisione ma esso non può essere espunto, in via interpretativa, dalla norma131 quantunque condivisibili appaiono le osservazioni riguardanti la preminente funzione del divorzio che si atteggia quale rimedio alla crisi familiare. Peraltro, a ben vedere, non credo possa negarsi che se il coniuge, pur autosufficiente, perde i vantaggi che gli derivano dal matrimonio occorre considerare anche se ciò derivi dall’ingiustificato comportamento tenuto dall’altro in violazione dei doveri coniugali compensandolo in certa misura nel fissare l’importo dell’assegno. A questo proposito non mi sembra condivisibile l’affermazione secondo la quale al giudice del divorzio sia precluso compiere un accertamento autonomo circa la suddetta responsabilità ed al coniuge più debole avanzare richiesta ove la separazione non sia stata pronunziata con addebito132, dato che le vicende riguardanti l’assegno divorzile sono del tutto autonome rispetto a quello di separazione ed agli accertamenti compiuti in quella sede (peraltro la giurisprudenza si è espressa a più riprese – come è noto – nel senso dell’indipendenza dell’assegno divorzile da quello di mantenimento a favore del coniuge separato). Infine, l’art. 5, comma 6, l. div. stabilisce che nella della valutazione del giudice assume rilevanza anche la durata del matrimonio133. Per questa ragione poco convincente a mia avviso, con riferimento all’impianto argomentativo proposto dalle Sezioni Unite, è la tesi secondo la quale al coniuge non autosufficiente possa essere negato l’assegno nel caso di una breve durata del matrimonio134 (salvo il caso di matrimonio meramente apparente come nel caso in cui sia durato pochi giorni). Emerge infatti una contraddizione rispetto alla natura (anche) assistenziale dell’assegno e al richiamo ai valori della dignità e della solidarietà post-coniugale. Essi verrebbero negati se non si riconoscesse che una pur breve comunione di vita matrimoniale, anche senza generare figli, giustifichi il dovere di sostegno economico del coniuge privo del necessario per condurre una vita dignitosa. Più difficile (ma non da escludere) è invece – per comprensibili ragioni – che possano configurarsi in questo caso i presupposti per l’operatività della componente perequativo-compensativa135.
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S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle sezioni unite, cit., 1202. Nello stesso senso E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, cit., 980. 132 Cfr. ad es., Cass., 27 dicembre 2011, n. 28892; Cass., 17 dicembre 2012, n. 23202, in Foro it., 2013, I, 1465; App. Napoli, 10 gennaio 2019, cit., nonché altre decisioni di merito cit. da C. Cecchetti, Gli orientamenti della giurisprudenza di merito in materia di assegno di divorzio, cit., 13 ss. 133 Secondo F. Danovi, Assegno divorzile: l’inadeguatezza dei mezzi, cit., 571, detta durata non dovrebbe intendersi in senso formale ma sostanziale “come periodo nel quale sia effettivamente esistito il consortium vitae e i coniugi si siano a vicenda prestati assistenza e collaborazione”. Riguardo all’assegno da liquidare per lo scioglimento dell’unione civile, Trib. Pordenone, 13 marzo 2019, in Fam. e dir., 2019, 586, ha ritenuto doversi conteggiare anche il periodo di convivenza pregresso alla stipula dell’atto costitutivo. 134 Per la giurisprudenza v. le citaz. a nota 64. 135 Circa la probabilità che in tale ipotesi sussistano i presupposti per liquidare l’assegno solo al fine di garantire l’autosufficienza economica, App. Caltanissetta, 24 luglio 2019, in Banca dati Pluris. 131
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L’ultima parte del discorso va riservata ai profili relativi agli oneri probatori. Come si è detto le Sezioni Unite non hanno mutato l’indirizzo, indicato nella decisione 11504/2017, secondo il quale essi gravano sul richiedente, a partire dalla mancanza di mezzi adeguati136, principio ribadito dalla decisione in commento137, peraltro in certa misura mitigato dai poteri officiosi riconosciuti al giudice al fine di determinare la consistenza dei patrimoni degli sposi e della possibilità di ciascuno di contestare la veridicità di quanto risulta dalla dichiarazione dei redditi eventualmente presentata dall’altro138. Spetta pertanto al richiedente dimostrare non solo i sacrifici e le rinunzie compiute rispetto alle prevedibili aspettative professionali139 ma anche il nesso di causalità con l’arricchimento conseguito dall’altro coniuge nonché che essi derivano non da una decisione unilaterale del coniuge più debole ma comunemente condivisa140. Difficoltà della prova che potrebbe essere superata mediante la formalizzazione di un accordo sull’indirizzo di vita nel quale si definiscono con chiarezza i compiti che i coniugi assumono rispettivamente, tenuto conto che, secondo le Sezioni Unite, la prova circa i presupposti in questione deve essere rigorosa, senza tuttavia escludere il ricorso a presunzioni141. Ma è necessario in proposito grande equilibrio per evitare un’automatica deduzione in virtù della quale un determinato assetto di vita, specie se di lunga durata, è da presumere sia per ciò stesso frutto di decisione comune142. Analogamente spetta al richiedente dimostrare che le ragioni della crisi sono ascrivibili ai comportamenti tenuti dall’altro sposo nel corso della vita matrimoniale nonché che egli non sia in grado di inserirsi (o reinserirsi) nel mondo del lavoro pur avendo compiuto gli sforzi dovuti (e dunque le iniziative intraprese senza successo)143. Anche in questo caso il ricorso a presunzioni richiede grande equilibrio e prudenza (ad es., l’età non più giovanissima non deve costituire un fattore sempre determinante per escludere detta possibilità). Non vi è dubbio pertanto che la delicatezza e le
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Esprime un giudizio favorevole al riguardo M. Bianca, Il nuovo orientamento in tema di assegno divorzile. Una storia incompiuta, cit., 2719. 137 V. sull’argomento S. Patti, op. ult. cit., 1200; E. Andreola, Assegno di divorzio: onere e oggetto della prova, cit., 764 ss. 138 Cass., 15 ottobre 2019, n. 26082, cit., ha desunto dall’accensione di un mutuo che la condizione patrimoniale della richiedente non era quella disagiata emergente dalla documentazione presentata in giudizio. 139 Sull’argomento v. in particolare F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, cit., 1012 ss. Non nasconde le difficoltà di adempimento al riguardo dell’onere probatorio, M. Bianca, Le sezioni unite e i corsi e ricorsi giuridici, cit., 2710, col probabile ricorso alla prova testimoniale od anche a presunzioni. Esso non mi sembra felicemente considerato da Trib. Civitavecchia, 14 settembre 2018, cit., il quale desume detto sacrifico per il fatto che la moglie, laureata in architettura, non si era avviata alla libera professione in quanto in possesso di un titolo che glielo consentisse, optando per l’insegnamento scolastico, per dedicarsi alla famiglia. 140 Cfr. in proposito Cass., 17 aprile 2019, nn. 10781 e 10782, cit. che ha respinto la pretesa del richiedente per non avere assolto al riguardo all’onere probatorio. 141 Ma queste non possono desumersi solo dalla lunga durata del matrimonio ed ancor meno da ragioni di carattere sociologico che renderebbe probabile una scelta condivisa per il fatto che il lavoro femminile è generalmente retribuito in misura inferiore a quella dell’uomo “inducendo i coniugi, nella maggior parte dei casi a preferire che sia la moglie a dedicarsi in via esclusiva o comunque in prevalenza ai compiti di cura e accadimento”, come afferma Trib. Roma, 11 ottobre 2018, cit. 142 Rileva peraltro C. Benanti, op. ult. cit., 165, la difficoltà di fornire una prova rigorosa al riguardo in quanto spesso di tali accordi manca un riscontro formale. 143 Vedi in proposito S. Patti, Assegno di divorzio un passo verso l’Europa?, cit., 418.
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difficoltà degli oneri probatori richiesti è destinata ad allungare il tempo del giudizio e ad accrescerne la complessità144. Particolarmente gravoso risulta poi il compito del giudice nel valutare l’incidenza economica del contributo prestato dal richiedente a favore della famiglia145, nonché di sacrifici e rinunce per determinare l’importo dell’assegno da liquidare, in special modo quando il richiedente ha rinunciato all’ingresso nel mondo del lavoro della cui riuscita manca spesso la certezza, ma anche riguardo a progressioni di carriera non automatiche (si pensi ad es., ad un insegnante di scuola che ha rinunciato a sostenere il concorso per divenire preside per non sottrarre troppo tempo alla famiglia). Egli dovrà quantificare inoltre le possibilità di guadagno a cui il coniuge ha rinunciato in ragione dell’attività lavorativa che avrebbe potuto esercitare. Problematica particolarmente complessa che meriterebbe di certo maggior approfondimento non reso possibile in questa sede146 ma che consente facilmente di comprendere come la discrezionalità del giudice si sia enormemente accresciuta in questo campo, in evidente contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite secondo le quali l’impianto delineato avrebbe invece il merito di limitare la discrezionalità del giudice rispetto al passato147.
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Come osserva giustamente A. Morace Pinelli, op. cit., 3619. Una preventiva quantificazione da parte dei coniugi sarebbe ammissibile solo in un quadro in cui vengano salvaguardati i principi in virtù dei quali può riconoscersi efficacia ai patti in vista di un futuro divorzio (fondati sulla regola rebus sic stantibus). Circa le possibili aperture della sentenza a patti di tale tenore v. E. Al Mureden, Solidarietà post-coniugale e compensazione del contributo endofamiliare nel nuovo assegno divorzile, cit., 41; M. Martino, Funzione assistenziale e compensativa dell’assegno di divorzio: la possibilità di una rinnovata valorizzazione delle scelte di autonomia in vista dello scioglimento del matrimonio, in questa Rivista, 2019, 85 ss.; C. Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti dei patti in vista del divorzio, cit., 1047 ss. 146 Trib. Pavia, 23 luglio 2018, cit., precisa ad esempio che per determinare l’incidenza delle rinunce occorre “cercare di comprendere, nelle singole fattispecie, quale avrebbe potuto essere il percorso di vita del coniuge richiedente l’assegno qualora non si fosse sposato e raffrontare la situazione che si sarebbe potuta creare in tal caso con quella determinata dal divorzio”. Nel caso di specie il giudice ha ritenuto infondata la richiesta di assegno in quanto la posizione patrimoniale acquisita in virtù della comunione legale era largamente sufficiente per compensare i sacrifici compiuti. Nel commentare la sentenza C. Rimini, Assegno divorzile e rilievo delle pregresse attribuzioni patrimoniali, cit., 124, osserva che “la struttura logica del ragionamento non è differente da quella su cui si basa la valutazione della perdita di chance nella determinazione del danno risarcibile nei giudizi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale”. Nello stesso senso, App. Napoli, 10 gennaio 2019, cit. 147 Sul punto convengono la maggior parte dei commentatori della sentenza delle sezioni unite e della precedente: v., tra gli altri, S. Patti, Assegno di divorzio: il “ passo indietro” delle sezioni unite, cit., 1202; E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, cit., 899 ss.; M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, cit., 989; G. Luccioli, Ancora sull’assegno di divorzio, cit., 1192. In particolare tutt’altro che infondato appare il grido di allarme che proviene da L. Balestra, op. cit., 19, secondo il quale “il nuovo orientamento provocherà, accanto ad un incremento della discrezionalità … un aumento del contenzioso in materia, giacché le variabili di cui il giudice sarà chiamato a tener conto, l’elasticità dei criteri da utilizzare, unitamente alle difficoltà insite nell’accertamento in concreto delle modalità di svolgimento del rapporto, nonché delle scelte che ne hanno presidiato l’evoluzione, renderanno difficilmente prevedibile ex ante quello che potrebbe essere l’esito del giudizio”. Dello stesso tenore sono le critiche di F. Macario, op. cit., 3608. Ma non ritiene eccessiva la discrezionalità riservata al giudice C. Rimini, I criteri di determinazione dell’assegno divorzile, cit., 24. 145
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6. Cenni sulle prospettive di riforma. Le problematiche emerse (ma anche altre che in questa sede non si sono potute affrontare), l’incertezza e l’insoddisfazione per gli esiti conseguiti in sede di interpretazione hanno indotto gran parte della dottrina a caldeggiare un intervento del legislatore che, mediante la riscrittura della norma, ne migliori la qualità e precisi meglio i contenuti148. Tentativo compiuto senza successo nella precedente legislatura e riproposto in quella attuale presso la Camera dei Deputati col ddl. 12 aprile 2018 n. 506 firmataria l’on. Morani che è stato approvato il 14 maggio 2019 con alcune modifiche e di cui mi limito a riprodurre il testo (non essendo ovviamente possibile commentarlo nel contesto del presente contributo senza dilatarne ulteriormente i contenuti149), limitandomi a rilevare che, ove fosse approvato senza ulteriori modifiche, l’assegno verrebbe ad assumere una spiccata funzione riequilibratrice della disparità economica sussistente fra gli ex coniugi al momento del divorzio, in parziale discontinuità con gli approdi conseguiti dai recenti mutamenti giurisprudenziali. ART. 1. 1. Il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, è sostituito dal seguente: «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale può disporre l’attribuzione di un assegno a favore di un coniuge, destinato a equilibrare, per quanto possibile, la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita rispettive dei coniugi». 2. Dopo il sesto comma dell’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come da ultimo sostituito dal comma 1 del presente articolo, sono inseriti i seguenti: «Al fine di cui al sesto comma, il tribunale valuta, in rapporto alla durata del matrimonio: le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il patrimonio e il reddito di entrambi; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali, nel corso della vita matrimoniale; l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti; il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale.
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S. Patti, op. ult. cit., 1202 s. Si rinvia in proposito alle considerazioni espresse nell’editoriale di E. Quadri, Assegno di divorzio: alle porte la riforma legislativa, in Giustiziacivile.com, 2019.
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Tenuto conto di tutte le circostanze indicate nel settimo comma, il tribunale può predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili. L’assegno non è dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di una stabile convivenza del richiedente l’assegno. L’obbligo di corresponsione dell’assegno non sorge nuovamente a seguito di separazione o di scioglimento dell’unione civile o di cessazione dei rapporti di convivenza». Tommaso Auletta
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Giurisprudenza Trib. Torre Annunziata, sez. I, 8 maggio 2019; Lopiano Presidente – Coppola Relatore Divorzio – Assegno all’ex coniuge – Funzione assistenziale e compensativo-perequativa – Convivenza – Perdita del diritto all’assegno divorzile La volontaria ed autonoma scelta di formazione di un nuovo nucleo familiare determina la fine di ogni collegamento con il pregresso tenore e modello di vita coniugale e tale sopravvenienza fa venir meno il diritto all’assegno di mantenimento di cui all’art. 156 c.c. e di quello previsto dall’art. 5, comma 6, L. 898/1970. Pertanto, poiché all’assegno divorzile deve essere riconosciuta una funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa, ritenere che dopo la formazione di una stabile famiglia di fatto, da parte del coniuge separato, poi cessata, il coniuge successivamente divorziato conservi il diritto all’assegno divorzile, comporterebbe una riviviscenza del collegamento dei coniugi divorziati con il tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale nonostante questo sia stato definitivamente rescisso con la convivenza precedente.
(Omissis) Motivi
della decisione
1. Con ricorso depositato il 27-4-2016, I. L.
Inoltre chiedeva il riconoscimento di un assegno divorzile di euro 400,00 mensile in suo favore.
chiedeva a questo tribunale che fosse pronuncia-
All’udienza di comparizione, del 16-9-2016, il
ta la cessazione degli effetti civili del matrimonio
presidente riconosceva la somma di euro 540,00
concordatario da lui contratto il 30-10-1983 con
per i due figli minori e per il figlio A., revocando
E. M., dalla cui unione erano nati, in Napoli, i figli
il contributo dovuto dal padre per gli altri due figli
S. (in …il 18-11-1984), A. (in … il 16-9-1986) ed
maggiorenni, divenuti autosufficienti, conferman-
A. (nato in … il 26-3-1992), maggiorenni, nonché
do per il resto le condizioni della separazione.
N. (nata in… il 3-9-2003) e M. (nato in… il 27-122004), minorenni.
All’udienza di trattazione del 20-2-2017, in ragione della raggiunta indipendenza economi-
A sostegno della domanda deduceva che: con
ca da parte del figlio maggiorenne A., il giudi-
decreto del 21-2-2006 era stata omologata la sepa-
ce istruttore riduceva l’importo mensile dovuto
razione consensuale alle condizioni indicate nel
dal ricorrente in favore della resistente ad euro
verbale di separazione del 19-1-2006; i coniugi
360,00, per il contributo al mantenimento dei soli
non avevano più ripreso la convivenza coniugale.
due figli minori.
Inoltre chiedeva che fosse posto a suo carico
2. La domanda è fondata e va accolta.
mensilmente, a titolo di contributo per il man-
Invero si è realizzata la ipotesi di cui all’art.
tenimento, la somma di euro 300,00 per i figli
3 n. 2 lettera b) L. 898/1970, così come modifi-
minorenni e di euro 100,00 per il figlio A., e che
cata dall’art. 1 della legge 6 maggio 2015 n. 55,
venisse disciplinato il diritto di visita dei figli mi-
essendo decorsi oltre sei mesi dalla data di com-
nori da parte del padre.
parizione dei coniugi innanzi al Presidente del
E. M. non si opponeva alla richiesta di cessa-
Tribunale di Torre Annunziata nel procedimento
zione degli effetti civili del matrimonio ma chie-
di separazione consensuale ove erano stati de-
deva che fosse posto a carico del padre la somma
terminati anche i relativi patti, e da quella data
di euro 700,00 per il mantenimento dei figli mi-
è perdurato lo stato di separazione che, in man-
nori e di euro 200,00 per il figlio A.
canza di eccezione, deve presumersi ininterrotta.
85
Giurisprudenza
Pertanto, attese le risultanze degli atti di cau-
dei mezzi del coniuge richiedente (comprensivi
sa, si deve ritenere che la comunione spirituale e
di redditi, cespiti matrimoniali ed altre utilità di
materiale fra i coniugi sia definitivamente venuta
cui possa disporre) a conservare un tenore di vita
meno e non possa dunque ricostituirsi.
analogo a quello goduto in costanza di matrimo-
3.1. Per quanto concerne i provvedimenti ac-
nio, in base al criterio, secondo cui, mentre non
cessori riguardanti i figli minori N. e M., il tribu-
è necessario uno stato di bisogno dell’avente di-
nale, valutata ogni circostanza, confermando la
ritto (il quale può essere anche economicamente
misura disposta in sede di separazione, nonché
autosufficiente), rileva invece l’apprezzabile de-
in via provvisoria dal presidente, ritiene di di-
terioramento, in dipendenza del divorzio, delle
sporre l’affido ad entrambi i genitori, con collo-
precedenti condizioni economiche (cfr. Cass. civ.
cazione prevalente presso la madre.
n. 4021 del 23.02.2006).
Il principio di bigenitorialità, che informa il
I “mezzi adeguati” di cui alla l. n. 898 del
diritto di famiglia, impone che, in via prioritaria,
1970, art. 5, comma 6, secondo il precedente
ai sensi dell’art. 337 quater c.c., il giudice affidi
orientamento della giurisprudenza di legittimità,
i figli minori ad entrambi i genitori; conseguen-
coincidevano con il tenore di vita goduto in co-
temente, l’affido esclusivo costituisce una deroga
stanza di matrimonio (cfr. Cass. civ. n. 11021 del
eccezionale a tale principio ed è giustificato solo
15.07.2003).
ove risulti, nei confronti di uno dei genitori, una
La verifica della inadeguatezza dei mezzi del
sua condizione di manifesta carenza o inidoneità
coniuge richiedente si effettuava, cioè, raffron-
educativa o comunque tale appunto da rendere
tandoli ad un tenore di vita analogo a quello
quell’affidamento in concreto pregiudizievole per
avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe
il minore (come, nel caso, ad esempio, di una sua
presumibilmente proseguito in caso di continua-
anomala condizione di vita, di insanabile contra-
zione dello stesso o quale poteva legittimamen-
sto con il figlio, di obiettiva lontananza, etc. (cfr.
te e ragionevolmente configurarsi sulla base di
Cass. civ., nn. 16953/2008, 24841/2010), che nel-
aspettative maturate nel corso del rapporto. A tal
la specie non ricorre, vista anche la richiesta di
fine, il tenore di vita precedente doveva desu-
entrambi i genitori di affido condiviso del figlio.
mersi dalle potenzialità economiche dei coniugi,
Quanto al diritto di visita del padre, questo va
ossia dall’ammontare complessivo dei loro reddi-
disciplinato come previsto in dispositivo, tenuto
ti e dalle loro disponibilità patrimoniali (cfr. Cass.
conto dell’età dei minori e delle richieste delle
civ. n. 11686/2013).
parti.
Quello che rilevava non era l’esistenza di uno
3.2 Relativamente alla richiesta di riconosci-
stato di bisogno, ma la verifica della sussistenza,
mento di assegno divorzile formulata dalla resi-
in conseguenza della cessazione del vincolo e
stente, è opportuno riepilogare preliminarmente
della convivenza matrimoniale, di un apprezza-
i principi giurisprudenziali relativi all’assegno di
bile deterioramento delle condizioni economi-
divorzio che di recente hanno, peraltro, subito
che, le quali dovevano essere tendenzialmente
una significativa inversione di rotta.
ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio tra i
Difatti, secondo consolidata giurisprudenza, tra l’altro, fatta propria dal Collegio in molteplici
coniugi (cfr. Cass. civ. n. 4764/2007; Cass. civ. n. 10210/2005; Cass. civ. n. 4021/2006).
decisioni, l’accertamento del diritto all’assegno
Il Tribunale non può, tuttavia, ignorare la si-
divorzile (di carattere esclusivamente assistenzia-
gnificativa inversione di tendenza operata dalla
le) andava effettuato verificando l’inadeguatezza
giurisprudenza della Suprema Corte sul pun-
86
Gianluca De Donno
to, dapprima con la pronuncia n. 11504 del
– non è il riequilibrio delle condizioni economi-
10.05.2017 e successivamente con la sentenza a
che degli ex coniugi, ma il raggiungimento della
Sezioni Unite n. 18287/2018.
indipendenza economica, in tal senso dovendo
Alla luce della prima delle indicate pronunce, se il diritto all’assegno di divorzio deve essere
intendersi la funzione – esclusivamente – assistenziale dell’assegno divorzile.
riconosciuto alla “persona” dell’ex coniuge nella
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cas-
fase dell’an debeatur, l’entità del predetto asse-
sazione, con la sentenza n. 18287/2018, mitigan-
gno va poi “determinato” esclusivamente nella
do la rigida interpretazione fornita dalla inno-
successiva fase del quantum debeatur, non già
vativa pronuncia del 2017 – secondo la quale il
“in ragione” del rapporto matrimoniale, ormai
fondamento dell’attribuzione dell’assegno divor-
definitivamente estinto, bensì “in considerazione”
zile è la mancanza di autosufficienza economica
del periodo più o meno lungo della vita in co-
dell’avente diritto – hanno precisato che all’as-
mune (la c.d. «comunione spirituale e materiale»
segno di divorzio deve attribuirsi una funzione
degli ex coniugi).
non solo assistenziale, ma anche compensativa e
Tali essendo i presupposti per il riconosci-
perequativa.
mento dell’assegno divorzile enunziati dalla indi-
La sentenza afferma che il contributo fornito
cata giurisprudenza di legittimità, appare eviden-
alla conduzione della vita familiare costituisce il
te come in presenza di «mezzi adeguati» dell’ex
frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi,
coniuge richiedente o delle effettive possibilità
libere e responsabili, che possono incidere anche
«di procurarseli» – vale a dire della “indipenden-
profondamente sul profilo economico patrimo-
za o autosufficienza economica” dello stesso – e,
niale di ciascuno di essi dopo la fine dell’unione
dunque, in assenza di ragioni di «solidarietà eco-
matrimoniale.
nomica», l’eventuale riconoscimento del diritto
La valutazione svolta nella sentenza n. 11504
si risolverebbe in una locupletazione illegittima,
del 2017 è stata ritenuta dalle Sezioni Unite rile-
in quanto fondata esclusivamente sul fatto della
vante ma incompleta, in quanto non radicata sui
“mera preesistenza” di un rapporto matrimoniale
fattori oggettivi e interrelazionali che determina-
ormai estinto, peraltro di durata tendenzialmente
no la condizione complessiva degli ex coniugi
sine die: il discrimine tra «solidarietà economica»
dopo lo scioglimento del vincolo: nella sentenza
ed illegittima locupletazione sta, perciò, proprio
del 2017 lo scioglimento del vincolo coniugale,
nel giudizio sull’esistenza, o no, delle condizioni
comporta una netta soluzione di continuità tra la
del diritto all’assegno, nella fase dell’an debeatur.
fase di vita successiva e quella anteriore, con la
Tanto premesso, la Suprema Corte nella de-
conseguenza che l’autodeterminazione e l’auto-
cisione del 2017 chiarisce che l’utilizzo del pa-
responsabilità costituiscono la giustificazione di
rametro del «tenore di vita» inducendo inevitabil-
questa radicale cesura e vengono assunti come
mente – ma inammissibilmente – ad una indebita
principi informatori dei residui e limitati effetti
commistione tra la fase dell’accertamento dell’an
della cessata relazione coniugale. In altre parole,
debeatur e quella, solo successiva ed eventuale,
la previsione legislativa relativa all’assegno di di-
del quantum debeatur, non può essere utilizzato
vorzio, alle condizioni previste dalla legge, viene
non essendo un interesse giuridicamente rilevan-
ritenuta prescrizione di carattere eccezionale e
te o protetto dell’ex coniuge a conservare il te-
derogatorio, in relazione al riacquisto dello stato
nore di vita matrimoniale: l’interesse tutelato con
libero realizzato con il divorzio; all’assegno vie-
l’attribuzione dell’assegno divorzile – come detto
ne, di conseguenza, riconosciuta una natura giu-
87
Giurisprudenza
ridica strettamente ed esclusivamente assistenziale, rigidamente ancorata ad una condizione di mancanza di autonomia economica, da valutare in considerazione della condizione soggettiva del richiedente, del tutto svincolata dalla relazione matrimoniale ed unicamente orientata, per il presente e per il futuro, dalle scelte e responsabilità individuali. Le Sezioni Unite hanno, quindi, sottolineato che questa impostazione, pur condivisibile nella parte in cui coglie la potenzialità deresponsabilizzante del parametro del tenore di vita, omette, tuttavia, di considerare che i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità hanno orientato non solo la scelta degli ex coniugi di unirsi in matrimonio ma hanno, altresì, determinato il modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge all’attuazione della rete di diritti e doveri fissati dall’art. 143 cod. civ. La conduzione della vita familiare è il frutto di decisioni libere e condivise alle quali si collegano doveri ed obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo. Con la cessazione dell’unione matrimoniale si realizza, nella prevalenza delle situazioni concrete, un depauperamento di entrambi gli ex coniugi e si crea uno squilibrio economico-patrimoniale conseguente a tale determinazione: i ruoli all’interno della relazione matrimoniale costituiscono un fattore, molto di frequente, decisivo nella definizione dei singoli profili economicopatrimoniali post matrimoniali e sono frutto di scelte comuni fondate sull’autodeterminazione e sull’autoresponsabilità di entrambi i coniugi, all’inizio e nella continuazione della relazione matrimoniale. Concludono le Sezioni Unite che, ai fini del riconoscimento o meno dell’assegno divorzile, è dunque necessario l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi, o comunque dell’impossibilità di
88
procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione degli altri indicatori contenuti nella prima parte dell’art. 5, comma 6, L. 898/1970 (così come modificata dalla L. 74/1987) al fine di accertare se l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi all’atto dello scioglimento del vincolo sia dipendente dalle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata del rapporto di coniugio: durata che è un fattore di cruciale importanza nella valutazione del contributo di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all’età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro. Orbene, tali essendo i principi cui il Collegio ritiene di ispirarsi, la domanda di assegno divorzile formulata da parte resistente non può essere accolta. Deve, invero, ritenersi ostativa al riconoscimento dell’assegno divorzile, la circostanza, delle avvenute, e poi cessate, convivenze more uxorio, che la resistente ha avuto durante la separazione. In particolare, il ricorrente ha dedotto che la moglie aveva avuto due convivenze more uxorio: la prima iniziata poco dopo il provvedimento di omologa della separazione, con tale M. R., in …, alla Via…, durata circa 3-4 anni, e la seconda poco dopo la fine della prima, avvenuta presso l’attuale residenza della convenuta, in …, alla Via… con L. M., venuta meno per l’intervenuto decesso del convivente. La resistente, nulla ha osservato sulla prima convivenza ma ha contestato che la seconda avesse i caratteri di stabilità e continuità escludenti il diritto alla percezione dell’assegno divorzile.
Gianluca De Donno
Orbene, sia per la genericità di tale contestazione, sia per la completa mancata contestazione della prima convivenza descritta precisamente dalla controparte, deve ritenersi acquisito che la resistente, dopo la separazione, ha convissuto more uxorio formando due nuovi nuclei familiari. Tanto premesso, deve osservarsi che pacificamente si afferma che, a seguito della formazione di una famiglia di fatto, riconosciuta dalla Costituzione nell’art. 2, il coniuge divorziato perde il diritto all’assegno divorzile, avendo la giurisprudenza interpretato estensivamente la causa di estinzione dell’assegno divorzile stabilita dall’art. 5, comma 10, L. 898/1970, prevista nel caso in cui il coniuge divorziato celebri un nuovo matrimonio. Si ritiene, invero, che l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (Cass. civ., nn. 6855/2015, 2466/2016). In seguito, la S.C., è giunta ad affermare che anche nel caso di separazione, la formazione di un nuovo nucleo familiare, determina la cessazione dell’assegno di mantenimento previsto dall’art. 156 c.c.
Con sentenza n. 16982/2018, invero, è stato affermato che in tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare; resta salva, peraltro, la facoltà del coniuge richiedente l’assegno di provare che la convivenza di fatto non influisce “in melius” sulle proprie condizioni economiche e che i propri redditi rimangono inadeguati. La S.C., ha poi condivisibilmente confermato tale tesi e aggiunto che la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica (Cass. civ., n. 32871/2018). La S.C., in particolare, ha sottolineato che, come nel caso di divorzio, la formazione di una nuova famiglia da parte del coniuge divorziato, comporti la rescissione di ogni connessione con il modello e il tenore di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale poiché con la nuova comunità familiare ha fatto venir meno definitivamente ogni presupposto per il riconoscimento dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, anche nel caso di separazione dei coniugi, e di formazione di un nuovo nucleo familiare da parte del coniuge beneficiario dell’assegno, indipendentemente dalla cessazione del vincolo coniugale, si opera una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale avente rilievo costi-
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Giurisprudenza
tuzionale, in quanto voluto e cercato dal coniuge beneficiario della solidarietà coniugale. Conseguentemente, deve ritenersi – secondo il collegio – che la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge separato, beneficiario o meno di un assegno di mantenimento, escluda la possibilità di riconoscimento di un assegno divorzile. La volontaria ed autonoma scelta di formazione di un nuovo nucleo familiare, invero, determina la fine di ogni collegamento con il pregresso tenore e modello di vita coniugale e tale sopravvenienza fa venir meno il diritto all’assegno di mantenimento di cui all’art. 156 c.c. e di quello previsto dall’art. 5, comma 6, L. 898/1970. Poiché, come prima evidenziato, all’assegno divorzile deve essere riconosciuta una funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa, ritenere che dopo la formazione di una stabile famiglia di fatto, da parte del coniuge separato, poi cessata, il coniuge successivamente divorziato conserva il diritto all’assegno divorzile, comporterebbe una riviviscenza del collegamento dei coniugi divorziati con il tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale nonostante questo sia stato definitivamente rescisso con la convivenza precedente. Per tali ragioni, deve rigettarsi la domanda di assegno divorzile formulata dalla resistente. 3.3. In ordine all’importo dell’assegno dovuto dal genitore a titolo di contributo per il mantenimento dei figli, precisato che l’obbligo di mantenere il figlio minore, e quelli maggiorenni conviventi non economicamente indipendenti, continua a ricadere su entrambi i coniugi anche dopo la separazione, va rammentato, in diritto, che l’art. 337 ter c.c., al comma IV, prevede che salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine
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di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Nella specie, il ricorrente svolge l’attività di pizzaiolo, vive con i genitori, versando a questi la somma mensile di euro 150,00 per contributo alle spese, e percepisce un reddito netto mensile di circa euro 1.300,00 (cfr. buste paga 2015 e Cud 2013/14/15 in atti); la resistente, invece, non ha un lavoro stabile, avendo saltuariamente svolto collaborazioni domestiche o assistenza ad anziani e non regolarizzate, e in passato gestito per un breve periodo una salumeria; inoltre, percepisce un assegno mensile per il nucleo familiare di euro 258,33 erogato dall’INPS. Sulla scorta di tali emergenze, tenuto conto della situazione reddituale delle parti e, al contempo, della loro capacità economica, valutate anche le aumentate esigenze dei figli minorenni e la circostanza che il padre aveva continuato a corrispondere la somma di euro 850,00 mensile, stabilito nella separazione consensuale, sino alla comparizione delle parti innanzi al presidente in questa sede, sebbene i primi due figli maggiorenni fossero già divenuti economicamente autosufficienti, il collegio ritiene di porre a carico del ricorrente un assegno mensile, da corrispondere in favore della resistente entro il giorno 5, di euro 600,00, quale contributo al mantenimento dei figli minori (euro 300,00 in favore di ciascuno), con adeguamento annuale secondo l’indice Istat di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai a decorrere dal 1° giugno 2020. A carico di ciascun genitore va, invece, posta la metà delle spese straordinarie per i figli, purché previamente concordate, mentre le sole spese straordinarie obbligatorie (ad es. le spese per
Gianluca De Donno
tasse scolastiche ed universitarie, per libri di testo, le spese mediche e di degenza per interventi indifferibili presso strutture pubbliche o private convenzionate) sostenute da un genitore devono essere rimborsate per la metà all’altro genitore, indipendentemente dal previo accordo. 5. Avuto riguardo alla natura della lite ed all’esito complessivo della stessa, ricorrono i presupposti di cui all’art. 92, comma 2, c.p.c., per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da I. L. nei confronti di E. M., sentito il P.M., ogni altra istanza, eccezione, deduzione disattesa, così provvede: A) accoglie la domanda e, per l’effetto, pronuncia la cessazione degli effetti civili del matrimonio del 30-10-1983, contratto in … da I. L., nato in … in data… e da E. M., nata in … il … (atto n. …); B) ordina che la presente sentenza sia trasmessa, a cura della cancelleria in copia autentica all’Ufficiale dello stato Civile del Comune predetto per la trascrizione, l’annotazione e le ulteriori incombenze di cui agli artt. 10 L. 1° dicembre 1970 n. 898, 134 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238 e 49 lett. g), 69 lett. d) d.p.r. 3 novembre 2010 n. 396 (Ordinamento Stato Civile); C) affida i figli minori I. N. e I. M. congiuntamente ad entrambi i genitori, con domicilio privilegiato presso la madre; D) dispone che la il padre possa vedere e tenere con sé il figlio minore, compatibilmente con gli impegni lavorativi del padre: – a settimane alterne, dalle ore 15.00 del sabato alle ore 20.00 della domenica;
*
– il lunedì e il giovedì alle 16.00 alle 20.00; – per quindici giorni consecutivi nel periodo estivo da concordare tra i genitori entro il 1° giugno di ciascun anno; – alternativamente con il padre o la madre i giorni 24, 25 e 26 dicembre e 31 dicembre, 1 e 2 gennaio di ciascun anno, nonché ad anni alterni i giorni di sabato santo, Pasqua e lunedì in albis; E) rigetta la richiesta di assegno divorzile formulata da E. M.; F) pone a carico di I. L. l’obbligo di corrispondere a E. M. l’assegno mensile di euro 600,00, a titolo di contributo per il mantenimento dei figli minori (euro 300,00 in favore di ciascuno), da corrispondere entro il giorno 5, con adeguamento annuale secondo l’indice Istat di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai dal 1° giugno 2020; G) pone a carico di ciascun genitore la metà delle spese straordinarie per i figli, purché previamente concordate, mentre per le sole spese straordinarie obbligatorie (ad es. le spese per tasse scolastiche ed universitarie, per libri di testo, le spese mediche e di degenza per interventi indifferibili presso strutture pubbliche o private convenzionate) sostenute da un genitore devono essere rimborsate per la metà all’altro genitore indipendentemente dal previo accordo; H) compensa per intero le spese processuali tra le parti. Torre Annunziata, 8 maggio 2019.
Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Giurisprudenza
Assegno divorzile e convivenza more uxorio* Sommario : 1. Il caso – 2. Nuovi criteri per l’assegnazione dell’assegno divorzile alla luce delle SS.UU. – 2.1 Il percorso cronologico – 2.2 Vita in comune e ruolo degli individui – 2.3 Autoresponsabilità – 2.4 Natura non esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile – 3. Assegno divorzile e convivenza more uxorio – 4. Osservazioni conclusive.
The essay aims at highlighting the potential implications of the recent leading case law relating to the nature of divorce spouse support. By commenting the case at stake – after recalling the case law evolution on the issue – the author tries to point-out the rationale underlying the Supreme Court’s decision no. 18287 of 2018 and to provide arguments in support of the compensatory nature of divorce spouse support, as affirmed by such decision. Lastly, the essay addresses the issue of the relationship between divorce spouse support and more uxorio cohabitation. In this respect, the decision of the Court is criticised since it appears not to have taken in due account the effects of a combined reading of both the Supreme Court’s mentioned case law and the law 20 May 2016, no 76 (which has regulated, inter alia, more uxorio cohabitations), to provide a different view on the issue.
1. Il caso. La sentenza 1190 del 5 maggio 2019 del Tribunale di Torre Annunziata offre l’occasione per tornare a considerare l’evoluzione giurisprudenziale in materia di criteri per la determinazione dell’assegno divorzile e a riflettere sulle implicazioni che la riconfigurazione concettuale occorsa può determinare. Con ricorso depositato in data 27 aprile 2016, il ricorrente chiedeva la cessazione degli effetti del matrimonio concordatario contratto con la resistente il 30 ottobre 1983, deducendo – a sostegno della domanda – l’omologazione della separazione consensuale avvenuta il 21 febbraio 2006 e precisando che tra i coniugi non vi era stata ripresa della vita coniugale. In aggiunta, egli presentava richiesta di porre mensilmente a proprio carico (i) una somma pari a Euro 300,00 per i due figli minorenni e (ii) una somma pari a
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Euro 100,00 per uno dei figli maggiorenni non ancora autosufficiente. La resistente non opponeva eccezioni all’istanza di cessazione degli effetti civili, tuttavia domandava che l’importo per il mantenimento fosse riqualificato in Euro 700,00 per i figli minori di età e in Euro 200,00 per il maggiorenne non autosufficiente e, in aggiunta, pretendeva la corresponsione mensile di un assegno divorzile di Euro 400,00. All’udienza di comparizione il Presidente del Tribunale accordava la somma complessiva di Euro 540,00 per i minori e per il figlio maggiorenne, confermando le condizioni della separazione, mentre all’udienza di trattazione – accertata la raggiunta indipendenza economica di quest’ultimo – il giudice istruttore riformulava l’assegno di mantenimento in Euro 360,00 per i soli figli minori. La prima sezione civile del Tribunale di Torre Annunziata, quindi, accoglieva la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, avendo verificato il decorso dei sei mesi dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale (come previsto dall’articolo all’art. 3 n. 2 lettera b) L. 898/1970, così come modificata dall’art. 1 della legge 6 maggio 2015 n. 55) senza che fosse interrotto (non essendo peraltro stato eccepito) lo stato di separazione tra i coniugi e concludendo pertanto che la comunione spirituale e materiale fra i coniugi fosse definitivamente venuta meno e non potesse ricostituirsi. Inoltre, disponeva l’affido condiviso dei minori con collocamento prevalente presso la madre in ossequio al principio di bigenitorialità, prescritto, in via prioritaria, dall’art. 337 quater c.c. e infine si pronunciava sulla spettanza dell’assegno divorzile alla parte resistente. A tal riguardo, il Tribunale procedeva alla ricostruzione delle recenti evoluzioni giurisprudenziali in tema di assegno divorzile, passando in rassegna le pronunce susseguitesi e il diverso atteggiarsi della nozione di “mezzi adeguati” come presupposto per l’accertamento della spettanza dell’assegno. Ricostruito il quadro giurisprudenziale, non senza un certo salto logico nell’argomentazione, il collegio finiva con il negare il diritto all’assegno non sull’assunto della sussistenza o meno – alla luce dei nuovi parametri – dei “mezzi adeguati” del coniuge richiedente bensì sul rilievo dell’esistenza di convivenze more uxorio esperite da quest’ultima a seguito della separazione che – secondo giurisprudenza costante – sarebbero state idonee a rescindere “ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale” facendo venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge.
2. Nuovi criteri per l’assegnazione dell’assegno divorzile alla luce delle SS.UU.
2.1. Il percorso cronologico.
Tra il maggio 2017 e il luglio 2018, la giurisprudenza sui presupposti e sulla determinazione dell’assegno divorzile ha conosciuto due repentini cambi di rotta che hanno rimesso
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in discussione una quasi trentennale costante e immutata interpretazione dell’art. 5, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898 (come modificata dalla L. 6 marzo 1987, n. 74)1. A partire, infatti, dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 114902 – con cui si componeva il contrasto insorto a seguito della novella del 1987 – all’assegno di divorzio veniva attribuita una funzione di natura esclusivamente assistenziale tesa a consentire al coniuge debole la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e ai cui fini rilevava l’apprezzabile deterioramento, in conseguenza del divorzio, delle condizioni economiche dello stesso. Su un panorama così delineato, la pronuncia della Suprema Corte del 10 maggio 2017, n. 11504 proponeva, con impostazione ermeneutica decisamente innovativa, una diversa lettura dell’art. 5 l. div. ridefinendo concettualmente l’assunto dell’“adeguatezza dei mezzi” come elemento non più da valutarsi in rapporto al tenore di vita precedentemente goduto ma da leggersi restrittivamente in rapporto alla possibilità di assicurare la sola indipendenza e autosufficienza economica del coniuge più debole. Una precedente ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale promossa dal Tribunale di Firenze, peraltro, aveva già censurato la conformità al principio di ragionevolezza della regola della conservazione del tenore di vita analogo, evidenziando “gli esiti palesemente irrazionali”, “incompatibili con la stessa ratio legis” e con la funzione assistenziale che dovrebbe essere propria dell’assegno divorzile3. Vi era, pertanto, una certa insofferenza nei confronti dell’orientamento consolidato che, in definitiva, veniva colta dalla sentenza n. 115044. Il conflitto tra la nuova direttrice tracciata dalla Cassazione a sezioni semplici e l’impianto tradizionale derivato dalle sezioni unite del 1990 ha promosso un nuovo intervento con la sentenza delle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 182875.
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Per una bibliografia sul tema si richiamano, C.M. Bianca, Diritto civile. 2.1 La famiglia, (VI ed.), Milano, 2017; L. Rossi Carleo, C. Caricato, Il diritto di famiglia, a cura di T. Auletta, in Trattato dir. priv. diretto da M. Bessone, Vol. IV, Torino, 2013; A. Anceschi, voce Divorzio, in Banca Dati Digesto it. (civile), 2012; G. Giacobbe, P. Virgadamo, Il matrimonio, II, Separazione personale e divorzio, in Trattato dir. civ., diretto da R. Sacco, 3, Le persone e la famiglia, Torino, 2011; A. Totaro, Gli effetti del divorzio, in Trattato dir. famiglia, diretto da P. Zatti, I, Famiglia e Matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello, 2, Separazione – Divorzio, (II ed.), Milano, 2011, 1606-1702; G. Bonilini, F. Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio. Art. 149 e L. 1° dicembre 1970, n. 898, (II ed.), in Il Codice Civile. Commentario, fondato P. Schlesinger, diretto da F. Busnelli, Milano, 2010, 512-643; A. Marini, Il divorzio, in Diritto Civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, II, 2, Milano, 2009, 326-342; A. Arceri, M. Pittalis, Lo scioglimento del matrimonio, in Codice della famiglia, (III ed.), a cura di M. Sesta, Milano, 2009, 2675-2854. Si vedano a tal proposito, ex multis, Sezioni Unite 9 novembre 1990 n. 11490; in Foro it., 1991, I, 67, con nota di E. Quadri, Assegno di divorzio: la mediazione delle sezioni unite e V. Carbone, Urteildammerung: una decisione crepuscolare (sull’assegno di divorzio), in Foro it.; G. Gabrielli, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. Dir. Civ., 1990, II, 543-547; A. Spadafora, L’orientamento delle Sezioni Unite in materia di assegno divorzile: considerazioni critiche, in Giust. civ., 1991, fasc. 5, pt. 1, 1223-1227; C.M. Bianca, Natura e presupposto dell’assegno di divorzio: le sezioni unite della cassazione hanno deciso, in Riv. dir. civ., 1991, 221-234. Si veda E. Al Mureden, Il parametro del tenore di vita coniugale nel “diritto vivente” in materia di assegno divorzile tra persistente validità, dubbi di legittimità costituzionale ed esigenze di revisione, in Famiglia e Diritto, 2014, 7, 690-703. L’ordinanza di remissione sottoponeva con forza a critica la disciplina delle conseguenze economiche del divorzio che “che di fatto proietta oltre l’orizzonte matrimoniale il tenore di vita in costanza di matrimonio quale elemento attributivo e quantificativo dell’assegno” avendo per effetto quello di estendere “all’infinito i vincoli economici derivanti da un fatto (il matrimonio) che non esiste più proprio a seguito del divorzio… senza che vi sia necessariamente una giustificazione adeguata sotto il profilo della tutela di interessi e diritti costituzionali o garantiti dalla Costituzione”. Si veda il commento di S. Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?, in Foro It., 9, 2017, 2707-2714. Critico sulla necessità di una pronuncia delle sezioni unite F. Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle sezioni unite nell’attribuzione (e determinazione) dell’assegno di divorzio, in Foro It., 11, 2018, 3606-3621, per il quale “dopo la presa di posizione
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2.2. Vita in comune e ruolo degli individui.
La decisione delle sezioni unite si snoda attraverso alcuni passaggi concettuali con cui si segna, parimenti, il distacco dall’indirizzo tralatizio e dai tentativi di rivolgimento ad opera della sentenza del maggio 20176. In sintesi, la Suprema Corte: (i) abbandona la distinzione tra criteri attributivi e criteri determinativi dell’assegno divorzile7 valorizzando, al contrario, gli indicatori contenuti nell’articolo 5, comma 6, l. div., quali unici parametri per determinarne l’esistenza e il contenuto, coerentemente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.; (ii) precisa che i principi di autodeterminazione e autoresponsabilità (che nell’ottica della pronuncia n.110504/2017 fondavano l’accettazione delle conseguenze economiche (negative) del divorzio in quanto comunque frutto di scelte che ineriscono alla libertà della persona e quindi si ponevano a giustificazione dell’esclusione o della limitazione del diritto all’assegno divorzile) sono invece da tenere in considerazione anche nella capacità di influire sul “modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge all’attuazione della rete di diritti e doveri fissati dall’art. 143 cod. civ.” e quindi sugli squilibri che da tale relazione si originano; (iii) chiarisce che è propria dell’assegno divorzile una natura composita, cui compartecipano una funzione assistenziale e una funzione perequativocompensativa che deve assicurare al coniuge debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare. Al di là della forza degli argomenti logico-giuridici sottesi ai due opposti arresti, ciò che appare di particolare interesse è l’affiorare – tra le maglie del ragionamento tecnico – di una diversità di concezione politico-sociale del ruolo degli individui nel consorzio familiare che fa da sfondo alle opposte visioni sulla funzione dell’assegno divorzile. Nella prospettiva assiologica in cui si muovono le sezioni semplici, il mutamento evolutivo avvenuto sul piano sociale nei rapporti tra i coniugi è declinato nelle forme della libertà e dell’autoresponsabilità8. Coerentemente, il divorzio quale atto di cessazione della for-
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innovativa, sul piano ermeneutico, da parte della Cassazione non si sono registrati contrasti con successive decisioni, mentre al contrario il solco tracciato da Cass. 11504/17 era seguìto da altre sentenze … tutte confermative della prima, dimostrando che l’evoluzione avvenuta era condivisa e che si sarebbe potuto presto consolidare il nuovo orientamento”. M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, in Famiglia e Diritto, 11, 2018, 983-990, 983. Le Sezioni Unite rivisitano, e superano, la tesi della prima sezione del 2017, secondo cui il giudizio sulla spettanza dell’assegno divorzile richiede un procedimento di accertamento operante in due distinte fasi. Nello specifico, nell’interpretazione delle sezioni semplici, la valutazione dell’an debeatur deve fondarsi sull’elemento oggettivo dell’“adeguatezza dei mezzi”, in cui non possono perciò venire in rilievo i parametri contenuti nell’articolo 5, comma 6, l. div. Solo ove positivamente riscontrata l’inadeguatezza dei mezzi, alla misura del quantum soccorrono gli indicatori dell’articolo 5, comma 6, l. div.”. Le Sezioni Unite, al contrario, osservano che “la rigida bipartizione tra criteri attributivi e determinativi ... e la ricerca del parametro dell’adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi al di fuori degli indicatori contenuti nell’art. 5, comma 6, novellato… non costituisce una conseguenza necessaria della nuova formulazione della norma” e che, dunque, sono proprio i criteri dell’articolo 5, comma 6, l. div. a dover guidare l’interprete nella comprensione della sussistenza del diritto all’assegno. Per una approfondita disamina sul tema si rinvia a E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in Famiglia e diritto, 11, 2018, 971-982. F. Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle sezioni unite nell’attribuzione (e determinazione) dell’assegno di divorzio, cit., 3607.
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mazione sociale viene intesa come espressione della libertà della persona che richiede di farsi carico delle conseguenze. Se è l’incontro di due libere volontà a creare il vincolo e ad originare uno spatium vivendi comune, le stesse volontà, volendo lo scioglimento9, pongono nel nulla quel rapporto e ne neutralizzano gli effetti. Non residua alcuno spazio, dunque, per una inesistente ultrattività dell’unione matrimoniale, che – ove venuta meno – non può non implicare una “modifica irreversibile degli status personali degli ex coniugi”. Ricollegare, allora, l’assegno divorzile al tenore di vita è frutto di una rischiosa inversione metodologica che trasforma il matrimonio “in una vera e propria scommessa”, capace di assicurare al coniuge economicamente autosufficiente, ma titolare di redditi o capitali inferiori, un deresponsabilizzante diritto di credito sine titulo e soprattutto privo di alcun riferimento ad un rapporto idoneo ad originarlo10. Nella lettura che ne danno le sezioni unite, al contrario, l’esperienza della vita in comune non può dirsi conchiusa nell’intervallo di un rapporto che una volta esaurito per volontà di una o di entrambe le parti rimane afasico e incapace di far residuare effetti. Il legislatore, se indubbiamente valorizza il momento solutorio del vincolo, non intende azzerare il fatto della relazione coniugale e “conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e la vita familiare”, al fine di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale cui occorre porre rimedio “sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari”. Il vizio nella decisione del maggio 2017 consisterebbe, dunque, non semplicemente nell’aver inteso gli ex coniugi come persone singole ma nel considerarli “senza un passato di vita in comune” privando di valore il “profilo realizzativo e di condivisione di quanto realizzato in comune”11. A mitigare la vis expansiva dell’autoresponsabilità come principio da adoperare con effetti preclusivi del diritto all’assegno divorzile soccorre, in questa prospettiva, il principio di solidarietà postconiugale, quale estrinsecazione dell’art. 29 della Costituzione e del riconoscimento della pari dignità dei ruoli dei coniugi12.
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Sia solo consentito notare che, se è pur vero che “gli approdi della modernità” – attraverso l’istituto della negoziazione assistita disciplinato dal d.l. n. 132 del 2014 (convertito in l. n. 162 del 2014) – permettono alla regola di fonte pattizia di modulare il momento disgregativo del legame personale (A. Spadafora, Il “nuovo” assegno di divorzio e la misura della solidarietà postaffettiva, approfondimento del 25 luglio 2017, in giustiziacivile.com, 4), è pur sempre possibile che la cessazione degli effetti civili del matrimonio segua alla volontà di una sola parte e appare perciò insoddisfacente trarre da una mera potenzialità conclusioni di carattere generale. 10 Così V. Barba, Assegno divorzile e indipendenza economica del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, approfondimento del 27 novembre 2017, in giustiziacivile.com, 10. Da un certo punto di vista, tale indirizzo ermeneutico sembra riprendere le critiche all’approccio “cripto-indissolubilità” teso a percepire l’obbligo contributivo in favore dell’ex coniuge come riflesso della perdurante operatività degli obblighi patrimoniali anche successivamente alla cessione del vincolo che veniva riscontrato nella giurisprudenza precedente alla novella del 1987. Sul punto, cfr. A. Spadafora, Il “nuovo” assegno di divorzio e la misura della solidarietà postaffettiva, cit., 7. 11 E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”, in Corriere Giur., 7, 2017, 885901, 894. 12 E. Al Mureden, Parità tra coniugi e funzione perequativa dell’assegno divorzile dopo la decisione delle sezioni unite, editoriale del 24 luglio 2018, in giustiziacivile.com, 6.
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2.3. Autoresponsabilità.
La valorizzazione del principio di autoresponsabilità nell’arresto del 2017 e il particolare apprezzamento che l’impiego ermeneutico del termine – in un contesto a lungo ad esso estraneo13 – ha riscontrato tra gli interpreti14 impone di affrontare breviter quelli che appaiono i possibili limiti del suo utilizzo in chiave prescrittiva nella materia in esame. Occorre a tal fine premettere che l’autoresponsabilità di cui si discorre è quella declinata nella forma precipua dell’“autoresponsabilità economica” che risente dell’influenza degli European Principles of Family Law e di cui non è difficile ritrovarne l’eco nelle pagine della sentenza n. 11504/201715. In particolare, i Principles 2:3 (“Maintenance after divorce should be dependent upon the creditor spouse having insufficient resources to meet his or her needs and the debtor spouse’s ability to satisfy those needs”) e 2:8 (“The competent authority should grant maintenance for a limited period, but exceptionally might do so without time limit”) sono esemplificativi nell’enucleare il valore fondante della self-sufficiency quale cartina di tornasole dei rapporti post-coniugali e nel tradire l’insoddisfazione – che pare condivisa dalla sentenza n. 11504 – per forme assistenziali non limitate nel tempo e per ogni impedimento alla recisione di posizioni di interdipendenza tra gli ex coniugi16. Parrebbe esserci, tuttavia, un certo grado di adlinguisticità17 nella progressiva assunzione del principio di autoresponsabilità quale direttiva di fondo dell’assetto economico post-coniugale. Come noto, infatti, il termine autoresponsabilità è già presente nella dottrina civilistica risalente che gli riconosce autonomia concettuale e ne delimita i confini rispetto al distinto concetto di responsabilità verso terzi, tratteggiandolo come “conseguenza di un comportamento che non incid[e] nella tutela di un interesse alieno o di un interesse generale”18. Più precisamente, l’autoresponsabilità è intesa come necessità giuridica di subire nel proprio patrimonio gli effetti dell’atto posto in essere o dell’omissione a condizione che (i) si possa riscontrare una deviazione da una norma
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Come tiene a precisare il Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, dott.ssa Francesca Ceroni, citata in S. Bartolomucci (a cura di), Questioni di diritto civile all’esame delle Sezioni Unite. Gli effetti economici della crisi coniugale, in Famila, 4, 2018, 433-454, 451, che ne osserva l’appartenenza al campo semantico del diritto dei contratti. 14 Cfr., ex multis, M. Palazzo, Le progressive aperture della Suprema Corte al principio di autoresponsabilità nella configurazione dell’assegno post-matrimoniale, in Rass. Dir. Civ., 2, 2013, 423-462; S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle Sezioni Unite, in Familia, 4, 2018, 455-483. 15 Sugli European Principles of Family Law, K. Boele-Woelki, The principles of European Family Law: its aim and prospects, in Utrecht Law Review, 1, 2, 2005, 160-168; K. Boele-Woleki (a cura di), Common Core and Better Law in European Family Law, Antwerp, 2005; S. Patti, M.G. Cubeddu (a cura di), Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008. 16 Per un approfondimento sul principio di “autoresponsabilità economica” nel diritto di famiglia si veda A Cordiano, Il principio di autoresponsabilità nei rapporti familiari, Torino, 2018. 17 Con riguardo alla nozione di adlinguisticità, E Resta, Il diritto vivente, Bari, 2008, 103. 18 Il riferimento è a S. Pugliatti, Autoresponsabilità, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 453-468, 454. Esula dallo scopo della presente nota una disamina approfondita del principio di autoresponsabilità, di cui si intendono lumeggiare solo alcuni aspetti in funzione di critica alla capacità performativa dell’“autoresponsabilità economica”. In tema di autoresponsabilità ci si limita a citare E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni (Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione), I, Milano, 1953, 150; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 1947, 64; G. Alpa, I principi generali (II ed.), in Tratto di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 1993, 395; G. Messina, La simulazione assoluta, in Scritti giuridici, V, Milano, 1948, 82-83; V. Caredda, Autoresponsabilità e autonomia privata, Torino, 2004.
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giuridica e, per effetto della violazione della norma, (ii) si possa prospettare un determinato tipo di conseguenza19. Sebbene differenziata l’autoresponsabilità condivide, quindi, con la responsabilità giuridica, il vincolo a subire le conseguenze che sono ricongiunte dal diritto all’atto compiuto20, come è paradigmatico in tutte quelle situazioni nelle quali il soggetto incorre nella perdita di un diritto o in una decadenza a cagione della propria condotta21. Il principio si ricava anche da un’ipotesi di autoresponsabilità normativamente individuata, e precisamente dalla disciplina del concorso del fatto colposo del creditore di cui all’articolo 1227 cod. civ. La compartecipazione del danneggiato nella produzione del fatto, se ha sicuramente la funzione di limitare o escludere il risarcimento del danno, non lo fa per effetto di un generale dovere di assunzione del “rischio delle proprie azioni” bensì quale conseguenza precisamente indicata dalla disposizione codicistica. In questo senso, anche la norma cui viene ricondotto, nel diritto di famiglia, il riconoscimento del principio di autoresponsabilità22 (articolo 81 cod. civ), disciplina già a livello normativo gli effetti negativi ricollegati alla condotta dell’agente nella misura in cui obbliga il promittente che senza giusto motivo ricusi di dar seguito alla promessa di matrimonio “a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa”. Si intende dire, con la precisazione che il discorso è accennato in relazione al solo rapporto tra autoresponsabilità e sua applicazione nell’àmbito dei rapporti post-coniugali, che sussumere il principio in norme di condotta (in particolare nel senso della responsabilizzazione economica dei protagonisti della fallita esperienza familiare) e dedurne una diretta efficacia limitativa del diritto all’assegno divorzile in assenza di una espressa previsione di legge23, sembra attribuire rilevanza giuridica a un dovere etico in quanto tale e non a “mettere in rilievo ciò che il diritto considera rilevante nelle ipotesi nelle quali si parla di autoresponsabilità (giuridica)”24. L’uso normativamente non controllato di un principio la cui portata applicativa ha limitata predicabilità ex ante, dunque, espone ad una certa confusione con un piano puramente morale. Ciò è quanto sembrerebbe trasparire tra le linee della pronuncia 11504/2017, di cui, forse non per caso, si è sottolineata proprio l’idoneità a porre termine a “numerose situazioni distorsive e abusive di cui la cronaca dell’ultimo lustro ha dato ampia eco”25 e a condotte emulative di ex coniugi dediti a mantenere, parassitariamente, il tenore di vita goduto in matrimonio26.
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S. Pugliatti, Autoresponsabilità, cit., 463 S. Pugliatti, ibidem, 453. 21 G. Messina, La simulazione assoluta, cit., 82, menzionando gli art. 1287, 1952, 1957 cod. civ., 22 A. Cordiano, Il principio di autoresponsabilità nei rapporti familiari, cit., 206. 23 Si noti che l’articolo 5, comma 10, l. div. dispone la cessazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno solo ove il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze. 24 È quanto avverte S. Pugliatti, Autoresponsabilità, cit., 458, in nota. 25 V. Barba, Assegno divorzile e indipendenza economica del coniuge. Dal diritto vivente al diritto vigente, cit., 7. 26 Critico, al contrario, sull’esistenza di rendite di posizione causate dalla trentennale giurisprudenza in tema di assegno divorzile, l’intervento della Dottoressa Gabriella Luccioli, già Presidente di sezione della Corte, al convegno “Gli effetti economici della crisi coniugale” organizzato dalla Struttura decentrata della Corte Suprema di Cassazione il 28 febbraio 2018, il cui resoconto è disponibile all’indirizzo http://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/Report_Incontro_Effetti_economici_crisi_ 20
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2.4. Natura non esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile.
Una serie di indici sistematici consentono di affermare, quantomeno ancorandosi all’attuale dato normativo, la persistenza di un attributo ulteriore rispetto a quello meramente assistenziale in ordine all’assegno di divorzio. A tal fine, pare opportuno premettere alcune brevi osservazioni di carattere generale. Sebbene vi sia la tendenza ad esaminare in una dimensione tutto sommato statica gli aspetti patrimoniali della famiglia (vale a dire sotto il profilo del regime patrimoniale dei beni e delle conseguenze economiche dello scioglimento del ménage familiare), non vi è dubbio che la nascita dell’unione familiare, anche se in linea di principio prescinde da valutazioni economiche, comporta conseguenze patrimoniali di non poco momento. Pur essendo, dunque, indifferente l’esistenza di una ratio fondativa di natura economica nel momento genetico del vincolo matrimoniale, il matrimonio è un rapporto dinamico cui non è estranea (anche) la produzione (o dispersione) di ricchezza, cui perfettamente si adatta la descrizione di “partnership, with a definite resemblance to a small business”27 alla quale i coniugi contribuiscono con i rispettivi apporti. Proprio gli ordinamenti di common law prestano particolare attenzione all’“investment in the economic partnership of the marriage” e ai riflessi del matrimonio come partnership. In tali sistemi, peraltro, l’assenza di regole di appartenenza dei beni in costanza di matrimonio ha incoraggiato un’articolata disamina delle forme di contribuzione al patrimonio familiare e ha messo in luce l’esigenza che al momento del divorzio sia garantita adeguata tutela al coniuge che abbia indirettamente concorso alla formazione del patrimonio dalla famiglia in ossequio al principio dell’equitable distribution system28. L’accento posto sulla capacità generatrice di ricchezza del rapporto richiede, simmetricamente, che gli investimenti in costanza di vincolo non risultino frustrati (non moralmente bensì) economicamente dalla cessazione dello stesso. La natura economica di tali investimenti non va, d’altra parte, intesa restrittivamente. In questa prospettiva, l’investimento del coniuge debole non necessariamente comporta l’acquisizione al patrimonio familiare di beni mobili o immobili suscettibili di essere valutati e ripartiti ma si compone delle rinunce e sacrifici (acquisizione di titoli di studio, attività lavorativa extra-domestica o di perdita di prospettive di carriera) che consentono all’altro coniuge di dedicarsi con maggior profitto all’attività lavorativa e che trovano una propria giustificazione nell’essere compiute nell’ottica di un più generale interesse del nucleo familiare29. Questa vera e propria “intagible property,” di cui si giova il rapporto matri-
coniugale_28_febbraio_2018.pdf. Nello specifico, sono richiamate le relazioni ISTAT dalle quali emerge che la misura media dell’assegno divorzile nell’anno 2015 è stata pari ad euro 533,00 mensili e che, tenuti in considerazione i dati ISTAT relativi all’anno 2016, nel 20,6% dei casi di separazione è stato attribuito un assegno di mantenimento al coniuge, mentre notevolmente inferiore risulta la percentuale (pari al 15%) delle situazioni in cui è stato riconosciuto all’ex coniuge il diritto a percepire un assegno divorzile. 27 R. Posner, Economic Analysis of law, (8th edition), Chicago, 2010, 185. 28 Per un’analisi approfondita, E. Al Mureden, Assegno post-matrimoniale: è possibile valutare il “capitale invisibile” ed attuare una equa condivisione delle risorse della famiglia?, in Famiglia e diritto, 3, 2006, 301-315. 29 E. Al Mureden, Assegno post-matrimoniale: è possibile valutare il “capitale invisibile” ed attuare una equa condivisione delle risorse della
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moniale, è definitivamente dispersa al momento della dissoluzione dell’unione. Tuttavia, se da un lato ha garantito una forma di arricchimento al coniuge beneficiario, dall’altro può proiettare, nel contesto post-matrimoniale, effetti negativi su chi ha posto in essere le rinunce in termini, ad esempio, di riduzione delle possibilità di ottenere una posizione lavorativa30. Appare evidente, allora, che lo squilibrio è mitigato – fintanto che persista il legame matrimoniale – dalle dinamiche di produzione della ricchezza della famiglia, ma deve riscontrare delle modalità di perequazione quando unità familiare non vi sia più31. Da quanto precede, pare emergere la necessaria radice (anche) compensativa dell’assegno di divorzio la cui erronea riduzione ad una sola funzione assistenziale sembra tratteggiarsi dal confronto con gli istituti la cui natura assistenziale è invece pacifica. Il riferimento, in particolare, è agli obblighi di prestazione degli alimenti disciplinati dagli articoli 433 cod. civ. e 437 cod. civ. (e, in una certa misura, l’art. 2154 cod. civ32), qualificati come prestazioni di assistenza materiale imposte ex lege alla persona che si trova in stato di bisogno33. L’obbligo alimentare di cui all’art. 433 cod. civ. si manifesta (con la sola eccezione dell’obbligo donatario) come prescrizione dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e, quindi, come solidarietà “imposta” qualitativamente diversa dalla solidarietà spontanea che lega i membri della famiglia e “che nasce dal sentimento e giustifica molte scelte (altrimenti da giudicare) non razionali”34. Ragioni differenti si ravvisano, invece, per l’obbligo alimentare del donatario35. Dubbi sorgono sulla riconduzione a un generico obbligo di riconoscenza – rectius alla giuridificazione di un obbligo morale di riconoscen-
famiglia?, cit., 303. Di particolare interesse la ricostruzione in termini di “intangible property” dei sacrifici di un coniuge ove diretti a far conseguire all’altro elevate capacità professionali e di il cui prodotto (ad esempio acquisizione di un titolo di studio da cui derivano ingenti redditi) deve essere equamente condiviso. In applicazione di questo principio si è considerato bene divisibile soggetto alle regole della distribuzione equitativa la laurea in medicina conseguita grazie alla rinuncia all’attività professionale dell’altro coniuge. Cfr. E. Al Mureden, ibidem. 31 Ciò parrebbe essere pienamente recepito dalle SS.UU. nella misura in cui affermano che “il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, in relazione alla durata, fattore di cruciale importanza nella valutazione di un contributo di ciascun coniuge alla formazione di un patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che delle effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale, anche in relazione all’età del coniuge richiedente e alla conformazione del mercato del lavoro”. 32 L’art. 2154 cod. civ. prevede che “Se la quota dei prodotti spettante al mezzadro, per scarsezza del raccolto a lui non imputabile, non è sufficiente ai bisogni alimentari della famiglia colonica, e questa non è in grado di provvedervi, il concedente deve somministrare senza interesse il necessario per il mantenimento della famiglia colonica, salvo rivalsa mediante prelevamento sulla parte dei prodotti e degli utili spettanti al mezzadro”. Per parte della dottrina il carattere di anticipazione dell’assegno e la possibilità di un suo rimborso escludono la riconducibilità della figura agli alimenti legali (in questo senso G.B. Ferri, Degli alimenti, in Commentario dir. it. famiglia, a cura di Cian, Oppo, Trabucchi, IV, Padova, 1992, 572-676, 663; M. Dogliotti, Doveri familiari e obbligazione alimentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1994, 189 ss.). Per C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, cit., 528, il diritto di rivalsa dovrebbe ritenersi abrogato e tuttavia l’anticipazione dovrebbe mantenere comunque un carattere latamente retributivo. 33 Per una ricostruzione generale, T. Auletta, Diritto di famiglia (III ed.), Torino, 2016, 291 ss.; C.M. Bianca, Diritto Civile, cit., 527 ss. 34 S. Patti, Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio, Relazione svolta al Convegno su “La solidarietà tra familiari in Europa”, Grosseto, 20 aprile 2017, organizzato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia in collaborazione con EFL (European Association for Family and Succession Law), reperibile all’indirizzo http://www.rivistafamilia.it/wp-content/uploads/2017/10/1_Solidarieta-eautosufficienza-nella-crisi-del-matrimonio.pdf, 2. 35 Sotto il profilo sistematico la previsione, peraltro in posizione di preminenza rispetto agli altri obbligati, della corresponsione di alimenti a carico del donatario offre lo spunto per negare l’esclusiva appartenenza dell’istituto al diritto di famiglia. Così G. Provera, Degli alimenti, in Commentario del codice civile, a cura di A Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1972, 63. 30
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za36 – da cui non si traggono elementi utili a chiarire i criteri sottostanti a (i) la limitazione dell’obbligo al valore ancora presente nel patrimonio del donatario; (ii) l’esclusione delle donazioni obnuziali e (iii) la precedenza sugli obbligati appartenenti al nucleo familiare del destinatario37. Più correttamente, si dovrebbe allora intendere che il legislatore, ispirandosi a un chiaro principio di ragionevolezza, abbia voluto tutelare la famiglia del donante che, per effetto della donazione, già frustrata nelle aspettative ereditarie rispetto al bene donato, si vedrebbe per giunta tenuta a provvedere al sostentamento del donante38. Gli elementi costitutivi della fattispecie sono precisati dall’art. 438 cod. civ. Nello specifico, la norma richiede (i) lo stato di bisogno dell’alendo e (ii) la proporzionalità della prestazione rispetto alle condizioni economiche dell’obbligato. Presupposto fattuale è, dunque, l’incapacità del soggetto di provvedere al proprio sostentamento in quanto privo di mezzi sufficienti al soddisfacimento di necessità primarie39. La riconduzione ad una dimensione specifica di bisogno oggettivamente determinato emerge poi chiaramente dalla lettera dell’art.440 cod. civ., per cui al miglioramento delle condizioni economiche segue la possibilità di ridurre o far cessare la corresponsione degli alimenti. Ulteriore conferma della prospettiva oggettiva nella valutazione dello stato di bisogno è, inoltre, nell’assenza di qualsiasi previsione normativa che escluda il diritto agli alimenti per il fatto che la causa dell’insufficienza dei mezzi sia da rinvenirsi in condotte colpose o dolose dell’alimentando che abbia dilapidato il proprio patrimonio40. La colpa del creditore della prestazione invera – al contrario – un’ipotesi di riduzione dell’assegno alimentare ove, in un momento successivo al riconoscimento del diritto, egli tenga una condotta “disordinata o riprovevole” con ciò volendosi sanzionare gli atteggiamenti volontari (si potrebbe ritenere in una dimensione, anche in questo caso, normativamente individuata di autoresponsabilità) che abbiano l’effetto di far persistere lo stato di bisogno (parassitismo, rifiuto del lavoro)41 ovvero che si pongano come gravemente lesivi degli interessi dell’obbligato ex art. 463 cod. civ.42. Il raffronto tra la lettera delle disposizioni in materia di assegno divorzile e di assegno alimentare parrebbe confortare la tesi della non assimilabilità delle direttrici funzionali proprie dei due istituti. L’art. 438 cod. civ., infatti, circoscrive il diritto agli alimenti alla sussistenza dello stato di bisogno, da cui origina l’obbligo di somministrare gli alimenti da parte dell’obbligato tramite assegno alimentare o accogliendo chi vi ha diritto nella propria casa (art. 443 cod. civ.). Diversamente, l’art. 5, comma 6, l. div., non menziona lo stato di bisogno bensì la diversa espressione di “adeguatezza dei
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B. Biondi, Le donazioni, in Tratt. Dir. Civ. it., diretto da F. Vassalli, XII, 4, Torino, 1961, 540. M. Sala, L’obbligo alimentare del donatario, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni: Le donazioni, a cura di G. Bonilini, Milano, 2009, 1007-1046, 1009. 38 Diversamente G. Guzzardi, sub art. 437, Commentario del diritto civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2018, 1751-1757, 1752, che discorre di “ragioni di equità”. 39 C. Rolando, Alimenti e mantenimento nel diritto di famiglia. Tutela civile, penale, internazionale, Milano, 2006, 40-41. 40 A. Figone, Gli alimenti, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello, 1, Relazioni Familiari – Matrimonio – Famiglia di fatto, (II ed.), Milano, 2011, 237-280, 240. 41 G.B. Ferri, Degli alimenti, cit., 645. 42 T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984, 190. 37
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mezzi” e parimenti introduce una composita varietà di fattori (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi) – assenti dalla disciplina degli artt. 433 e ss. – che devono essere valutate anche in rapporto alla durata del matrimonio e di cui il giudicante deve tener conto al fine di disporre l’obbligo di somministrazione dell’assegno. Appare allora evidente una maggiore ampiezza e flessibilità dello strumento post-divorzile, che non è ancorato ad un elemento sostanzialmente oggettivo (lo stato di bisogno) ma assume la ponderazione di pluralità di elementi i quali consentono di atteggiarne il contenuto alla singolarità del caso specifico. Da tale osservazione discende la considerazione dei limiti di ricostruzione sistematica dell’assegno divorzile esclusivamente quale rimedio alla non autosufficienza economica dell’ex coniuge, stante la difficoltà di distinguere quest’ultima dalla sussistenza di uno “stato di bisogno”43. Se, infatti, il prius logico di tale assegno dovesse essere il solo accertamento della carente autosufficienza economica, si procederebbe per via interpretativa all’abrogazione della prima parte del comma 6 non avendo i criteri da esso elencati nessuna funzione ordinante. A margine ci si limita a constatare che l’applicazione rigorosa degli stessi, come interpretati da SS.UU. n. 18287 del 2018, dovrebbe ridurre il rischio di creazione di “posizioni di rendita” o di riconoscimento di assegni divorzili di entità spropositata44. La valorizzazione di elementi quali la disparità economico patrimoniale, la durata del matrimonio, l’età, i compiti effettivamente svolti da ciascuno dei coniugi, concorrerà nel determinare l’entità dell’assegno al pari del contributo dato dal coniuge più forte alla formazione del patrimonio, dell’esito della divisione dei beni in ipotesi di sussistenza di una comunione legale e, in generale, delle attribuzioni compensative che siano state eventualmente effettuate prima della crisi matrimoniale45.
3. Assegno divorzile e convivenza more uxorio. Dopo aver ricostruito il percorso concettuale delle SS.UU., il Collegio nega, nel caso in esame, il riconoscimento dell’assegno divorzile ritenendo a tal fine ostativa l’evidenza delle convivenze more uxorio instaurate dalla ricorrente. Da ciò il Tribunale osserva che “la volontaria ed autonoma scelta di formazione di un nuovo nucleo familiare, invero, determina la fine di ogni collegamento con il pregresso tenore e modello di vita coniugale
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Come sembra osservare C.M. Bianca, L’ultima sentenza della cassazione in tema di assegno divorzile: ciao Europa?, editoriale del 09 giugno 2017, in giustiziacivile.com. 44 Si può tuttavia concordare con M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, cit., 990, sull’ampio margine di discrezionalità che sembra consegnato al giudice nella valutazione, caso per caso, della spettanza dell’assegno e sull’auspicabilità di un intervento legislativo che traduca normativamente i parametri enucleati dalla Suprema Corte. 45 C. Rimini, Il nuovo assegno di divorzio: funzione compensativa e perequativa, consultabile all’indirizzo http://www.quotidianogiuridico. it/documents/2018/10/25/il-nuovo-assegno-di-divorzio-la-funzione-compensativa-e-perequativa.
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e tale sopravvenienza fa venir meno il diritto all’assegno di mantenimento di cui all’art. 156 c.c. e di quello previsto dall’art. 5 comma 6 l. 898/1970”. L’assunto è diretta trasposizione dell’orientamento giurisprudenziale prevalente che, piuttosto di recente, ha escluso – mutando così l’indirizzo adottato in precedenza – che dalla convivenza more uxorio derivi solo uno stato di quiescenza dell’assegno (destinato perciò a rivivere una volta che quest’ultima sia venuta meno) ed ha al contrario affermato che la convivenza determina la perdita irreversibile. Già con la sentenza n. 6855 del 3 aprile 201546, la Suprema Corte ha, in effetti, precisato che l’esistenza di una famiglia di fatto fa venir meno la connessione con la precedente vita matrimoniale e quindi recide nettamente ogni possibilità di riferimento al parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. La formazione di una famiglia di fatto è espressione di una libera scelta da parte dell’ex coniuge che deve anche comportare la corrispondente assunzione di un pieno rischio rispetto all’evoluzione del nuovo rapporto, rischio che non può ricadere sul coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno divorzile. La riflessione della Suprema Corte, seppur non esente da alcune censure47, è ripresa da successive pronunce48 e richiede tuttavia di essere riletta alla luce dei nuovi criteri interpretativi in tema di assegno divorzile e della legge 76 del 20 maggio 2016 che ha disciplinato la convivenza di persone unite stabilmente da legami affettivi49. Quanto al primo punto, merita sottolineare come il nesso tra tenore di vita goduto nel matrimonio ed entità dell’assegno di divorzio – per quanto sopra ricordato – sia ormai da considerarsi privo di effetti e quindi inidoneo a fornire argomenti rigorosi a supporto della tesi della caducazione dal diritto all’assegno. Si è detto che l’inframmezzo costituito da una nuova esperienza di vita in coppia comporta la costituzione di un nuovo nucleo economi-
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Con nota di E. Al Mureden, Formulazione di una nuova famiglia non matrimoniale ed estinzione definitiva dell’assegno divorzile, in Nuova giur. civ. comm., 2015,7-8, 681-697. 47 E. Al Mureden, Formulazione di una nuova famiglia non matrimoniale ed estinzione definitiva dell’assegno divorzile, cit., 690, sembra precisare che l’esclusione del diritto all’assegno divorzile debba essere limitata alla sola ipotesi in cui la seconda famiglia formata dell’ex coniuge divorziato si sostanzi in una stabile convivenza con il nuovo partner nella quale siano presenti figli comuni. 48 Cass. Civ. 2466/2016, Cass. Civ. 4649/2017, Cass. Civ. 2732/2018, Cass. Civ., 5974/2019, consultabili presso www.dejure.it. 49 Per un’analisi delle convivenze non formalizzate a seguito della novella legislativa si vedano, senza pretesa di completezza, M. Paradiso, Le «convivenze di fatto». Nozione, instaurazione, cessazione, in C.M. Bianca (org.) Commentario alla legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2017, 474-503; G. Alpa, La legge sulle unioni civili e sulle convivenze. Qualche interrogativo di ordine esegetico, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1718-1723; G. Amadio, La crisi della convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1765-1775; E. Al Mureden, Le famiglie ricomposte. Tra matrimonio, unione civile e convivenze, in Fam. e dir., 2016, 966-979; T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia (l. 20 maggio 2016, n. 76), in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2016, 367-411; L. Balestra, La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione; in Famiglia e diritto, 10, 2016, 919-930; G. Ballarani, La legge sulle unioni civili e sulla disciplina delle convivenze di fatto. Una prima lettura critica, in Diritto delle successioni e della famiglia, 2016, 3, 623-652; R. Mazzariol, Dal concubinato alle nuove convivenze di fatto: analisi di una parabola sociale e normativa, in Atti e memorie dell’Ateneo di Treviso, Nuova Serie, 34, 2016/17, Treviso, 475-504; G. Oberto, La convivenza di fatto. I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, in Famiglia e Diritto, 10, 2016, 943-957; S. Patti, La convivenza «di fatto» tra normativa di tutela e regime opzionale, in Foro it., 2017, I, 301-308; L. Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in Famiglia e Diritto, 10, 2016, 931-942; L. Nonne, La risoluzione del contratto tipico di convivenza: una lettura sistematica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1, 2018, 39-78; C. Bona, La disciplina delle convivenze nella l. 20 maggio 2016 n. 76, in Foro it., I, 2016, 2093-2104; M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Famiglia e diritto, 10, 2016, 868-880.
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co, nella sua dinamicità, determina una cesura rispetto alla situazione di interdipendenza economica creata dal precedente matrimonio. Si poteva quindi, in linea di massima, concordare sulla difficoltà ad ammettere un diritto “quesito” alla conservazione del risalente tenore di vita matrimoniale. Il venir meno di siffatto parametro implica che la persistenza o meno di un diritto all’assegno divorzile vada valutata esclusivamente attenendosi ad una ermeneutica fondata sulla composita natura assistenziale e compensativa che è attribuita a tale assegno. Con riferimento alla novella sulle convivenze, invece, il tenore del comma 36 sulla definizione di conviventi di fatto – chiarendo che tali debbano intendersi la “coppia di persone maggiorenni stabilmente unite da legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale, che siano di stato libero e non vincolate reciprocamente da rapporti di parentela, affinità o adozione”50 – ha l’effetto di superare i criteri di elaborazione giurisprudenziale adottati per la delimitazione delle situazioni di convivenza di fatto. Esso, d’altra parte, esclude che possa assumere rilievo ai sensi della l. 20 maggio 2016, n. 76 (e quindi dei diritti e delle tutele ivi riconosciute) il legame creato tra soggetti rispetto ai quali non sia intervenuta sentenza di divorzio in relazione ai precedenti vincoli matrimoniali e dunque impone all’interprete di distinguere, quanto a conseguenza, tra convivenza instaurata dal coniuge separato e convivenza instaurata dal coniuge divorziato51. Infine, il comma 65 della novella legislativa ha finalmente introdotto nel nostro ordinamento il diritto per il convivente di fatto che, a seguito della cessazione della convivenza di fatto, si trovi nelle condizioni di bisogno di cui all’art. 438, il diritto alla prestazione alimentare per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. La norma, come appuntato da accorta dottrina, ha opportunamente trovato un punto di convergenza tra i maggiori margini di autodeterminazione connaturati alla convivenza di fatto (e quindi una minor rigidità dei doveri di contribuzione economica) e un dovere di solidarietà che non può negarsi ove si sia condivisa un’esperienza di vita in comune52. Alla luce di quanto precede si possono meglio precisare gli esiti cui è pervenuta la giurisprudenza sul tema oggetto di trattazione. In prima analisi, il riconoscimento in via legislativa della convivenza di fatto ne valorizza il ruolo di formazione sociale nel quale assurge a indice di riconoscibilità del fenomeno la presenza di legami di assistenza materiale e morale (che tuttavia non possono essere configurati quali fonti di alcun obbligo giuridico53) cui segue specularmente la possibilità di ricevere un assegno alimentare per l’ex convivente che versi in stato di bisogno. La
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La norma individua dunque dei requisiti di fattispecie (assenza di vincoli) e indici di riconoscibilità del fenomeno (stabile unione, reciproca assistenza), questi ultimi caratterizzati da maggior flessibilità nel contenuto e nel relativo accertamento. Così M. Paradiso, Le «convivenze di fatto». Nozione, instaurazione, cessazione, cit., 478. 51 E. Al Mureden, Le famiglie ricomposte. Tra matrimonio, unione civile e convivenze, cit., 974. 52 L. Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, cit., 941. 53 M. Paradiso, Le «convivenze di fatto». Nozione, instaurazione, cessazione, cit., 487; L. Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, cit., 934.
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convivenza di fatto, dunque, si manifesta come ménage in cui tra i conviventi sussiste un sostegno reciproco, anche economico, che proietta i suoi effetti nella fase successiva alla caducazione del rapporto. Ciò potrebbe portare ad escludere che l’ex coniuge che abbia intrapreso una convivenza di fatto (dovendosi ora intendere come tale solo quella che risponda ai criteri del comma 36, articolo 1 l. 20 maggio 2016, n. 76) possa rivendicare il diritto all’assegno divorzile nella sua funzione assistenziale e, allo stesso tempo, ad affermare che tale diritto debba considerarsi definitivamente venuto meno. Ciò non tanto in ossequio ad un principio di autoresponsabilità economica quanto perché – limitatamente alle finalità di natura assistenziale – viene meno, sia in costanza di rapporto sia per effetto del comma 65 che fissa per legge un obbligo assistenziale in capo all’ex convivente, il presupposto della solidarietà post-matrimoniale. Lo stesso non può però essere predicato per tutte quelle ipotesi che non ricadono nell’àmbito della disciplina del comma 36 e ss., di cui quindi non può essere riconosciuta la natura di convivenze di fatto e che sono perciò escluse dalle tutele approntate da detta normativa. Il cenno, in primo luogo, è alle convivenze more uxorio di cui sia parte il coniuge separato. Qui occorre rimarcare che, a differenza di quanto accade con la pronuncia di divorzio, la separazione mantiene comunque in vita un significativo legame tra coniugi, per cui si può a ragione sostenere che l’obbligo di mantenimento ex articolo 156 cod. civ. possa (i) essere soggetto a riduzione (probabilmente sino al limite dell’esclusione) fintanto perduri la convivenza del coniuge avente diritto (ii) “riespandersi” ove via sia riconciliazione tra i coniugi o cessazione della convivenza54, soluzione questa a fortiori da preferire sol che si osservi come, nella descritta situazione, l’ex convivente non avrebbe alcun diritto alle prestazioni alimentari previste dal comma 65. Sia solo consentito notare, a tal proposito, che il mancato riconoscimento della possibilità di instaurare una convivenza di fatto normativamente tutelata per il coniuge separato origini dei difetti di coordinamento di non trascurabile entità. Difatti, il coniuge separato che conviva si troverebbe, una volta venuta meno quest’ultima, in una situazione deteriore rispetto al coniuge divorziato che abbia intrapreso una convivenza poi conclusa, al quale comunque spetterebbero gli alimenti in applicazione del citato comma 65. Vieppiù, laddove successivamente alla rottura della convivenza dovesse anche seguire lo scioglimento del matrimonio, il coniuge rischierebbe (come nel caso in esame), in ossequio alla giurisprudenza sopra ricordata e alle conseguenze applicative del (malinteso?) principio di autoresponsabilità, di trovarsi privo di qualsiasi forma di tutela (a differenza, si ripete, di quanto accadrebbe al coniuge divorziato), con esiti che appaiono forse eccessivamente punitivi. A quanto sopra occorre aggiungere che se, come ricostruito in precedenza e come delineato dalla sentenza n. 18287/2018, va ammessa la natura composita assistenzialecompensativa dell’assegno divorzile, le conclusioni sulla perdita definitiva dell’assegno
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E. Al Mureden, Le famiglie ricomposte. Tra matrimonio, unione civile e convivenze, cit., 977.
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divorzile dovute all’instaurazione di una convivenza di fatto da parte del coniuge avente diritto devono necessariamente limitarsi alla sola porzione afferente alla sfera “assistenziale”. A rigor di logica, la finalità compensativa si esaurisce esclusivamente solo nel momento in cui il beneficio compensativo è, nella sua integralità, pervenuto nella sfera patrimoniale dell’avente diritto. Prima di quel momento, dunque, negare la corresponsione dell’assegno divorzile sul presupposto che il beneficiario ha stabilito una convivenza more uxorio equivarrebbe a ridurre a mera petizione di principio l’esistenza di una attitudine compensativa propria dello stesso e sarebbe peraltro soluzione priva di fondati criteri logico-sistematici. In effetti, la giustificazione causale, per così dire, dell’attribuzione patrimoniale in favore del coniuge ha il suo fondamento specifico nella dinamica del rapporto matrimoniale così come concretamente svolto, rispetto a cui il fatto sopravvenuto della convivenza non ha alcuna incidenza. Pare evidente, infatti, che il vantaggio economico derivato dalla convivenza è indifferente all’esigenza di compensare l’eventuale squilibrio causato da un differente rapporto e che solo in quello ha la sua ragion d’essere. Tutto ciò induce a concludere che, nell’esaminare la sorte dell’assegno divorzile in ipotesi di convivenza more uxorio dell’ex coniuge, occorre evitare il ricorso a formule di principio nette (costruite sull’alternanza quiescenza/perdita irreversibile) e tenere invece distinti (e valorizzare) i due profili, assistenziale e compensativo, riconducibili all’assegno. In particolare, si può sostenere la riduzione dell’assegno alla sola porzione riconducibile alla funzione compensativa nelle ipotesi in cui l’avente diritto sia convivente di fatto o, avendo convissuto, usufruisce delle prestazioni indicate al comma 65, articolo 1 l. 20 maggio 2016, n. 76 e la funzione compensativa dell’assegno non sia ancora integralmente esaurita, ed invece escludere in pieno la corresponsione quando quest’ultima non vi sia mai stata o sia stata integralmente soddisfatta. Si potrebbe allora anche sostenere, in una prospettiva forse de jure condendo, che il dispositivo della sentenza che pronuncia il divorzio possa distinguere tra il quantum dovuto a titolo assistenziale e la quota da riferire all’aspetto compensativo, con conseguente possibile agevolazione sul piano probatorio e al momento dell’eventuale revisione dell’ammontare dell’assegno in ipotesi di nuova convivenza. A ciò si potrebbe aggiungere, per soccorre il giudicante nel procedimento di determinazione dell’assegno, l’introduzione di un sistema tabellare sulla scorta di quanto già sperimentato con le tabelle di liquidazione del danno elaborate a livello territoriale, quantomeno rispetto all’individuazione dell’ammontare del contributo compensativo55. Maggior dubbi persistono per i rapporti di convivenza non ricadenti nell’alveo della l. 20 maggio 2016, n. 76. Qui, come nel caso ad esempio del convivente separato, la mancanza delle tutele prevista dalla novella e la conseguente disparità di trattamento rispetto alle ipotesi ivi
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M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, cit., 990, che invita a trovare soluzioni che possano “supplire al soggettivismo dell’intuizione giudiziaria”. Per un interessante commento sull’applicazione del metodo di analisi econometrica alla determinazione delle conseguenze patrimoniali della separazione si veda E. Al Mureden, Tenore di vita e assegni di mantenimento tra diritto ed econometria, in Famiglia e Diritto, 1, 2008, 39-52.
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regolate, ferme restando le conclusioni appena svolte sull’adempimento della funzione compensativa, dovrebbero forse invitare all’applicazione analogica del comma 65 e, pertanto, a prevedere l’obbligo alimentare e contestualmente ridurre l’assegno divorzile della porzione riferibile allo scopo esclusivamente assistenziale.
4. Osservazioni conclusive. La pronuncia in esame sembrerebbe mostrare una perfetta conformazione agli orientamenti giurisprudenziali prevalenti in tema di natura dell’assegno divorzile e di sorte dello stesso in conseguenza della convivenza di fatto instaurata dall’ex coniuge beneficiario. In particolare, il Tribunale (i) aderisce al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287, riconoscendo la natura composita assistenziale e perequativocompensativa dell’assegno divorzile e (ii) conferma l’indirizzo prevalente per cui “la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge separato, beneficiario o meno di un assegno di mantenimento, esclud[e] la possibilità di riconoscimento di un assegno divorzile…”, poichè “la volontaria ed autonoma scelta di formazione di un nuovo nucleo familiare… determina la fine di ogni collegamento con il pregresso tenore e modello di vita coniugale e tale sopravvenienza fa venir meno il diritto all’assegno… previsto dall’art. 5 comma 6l. 898/1970”. Come si è cercato di dimostrare nella presente nota, tuttavia, non sembra che il collegio abbia fatto corretta applicazione dell’elaborazione concettuale delle Sezioni Unite né tantomeno abbia saputo trarre le potenziali implicazioni che da una lettura congiunta dei principi in tema di assegno di divorziale e della l. 20 maggio 2016, n. 76 avrebbero potuto essere derivati e di cui si sarebbe potuto dare applicazione nel caso di specie. Nel commento alla sentenza, si è tentato quindi di mettere in luce come la lettura proposta dal Supremo Collegio assicuri una migliore comprensione della funzione dell’assegno divorzile. In particolare, si è messa in evidenza la natura dinamica, da un punto di vista economico, del rapporto matrimoniale e la necessità che agli squilibri patrimoniali che hanno origine nel contesto familiare, e che si manifestano al momento della rottura, venga posto rimedio in un’ottica sostanzialmente compensativa. La necessità che all’assegno compartecipi una finalità ulteriore rispetto a quella meramente assistenziale è stata, inoltre, dedotta dal confronto con gli strumenti che, nel nostro ordinamento, hanno uno scopo puramente assistenziale. Si è, infine, sottoposto a vaglio critico l’utilizzo del principio di autoresponsabilità nella misura in cui allo stesso viene riconosciuta la capacità di concorrere a determinare l’esistenza o meno di un diritto all’assegno. In questa prospettiva, sostenere che la formazione di un nuovo nucleo familiare tra conviventi recide ogni collegamento con il pregresso tenore di vita ed esclude perciò la corresponsione dell’assegno (i) ignora il superamento del parametro del tenore di vita operato dalle Sezioni Unite; (ii) omette di valorizzarne la portata innovativa, evitando di interrogarsi sul ruolo che il riconoscimento della funzione compensativa dell’assegno avrebbe potuto implicare; (iii) fa uso, surrettiziamente, del principio di autoresponsabilità (qui inteso farsi carico della scel-
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Giurisprudenza
ta di intraprendere una nuova vita in comune) per affermare sic et simpliciter la decadenza del diritto all’assegno, confondendo effetti assistenziali della convivenza more uxorio e natura più ampia di quest’ultimo. Il Tribunale, in aggiunta, rifugge l’occasione di ricavare utili elementi sistematici di riflessione dalla disciplina normativa delle convivenze di fatto, che avrebbe consentito, forse, di rilevare la disparità di trattamento tra conviventi separati e conviventi divorziati in tema di tutela nella fase successiva alla rottura della convivenza e che emerge, a fortiori, alla luce della rivisitata interpretazione dell’assegno divorzile. Per concludere, si può senz’altro affermare che, nonostante l’apprezzabile intervento delle Sezioni Unite, la l’assegno di divorzio continuerà a presentare complessi problemi applicativi, specie ove si sovrapponga alla creazione di nuovi nuclei familiari da parte degli ex coniugi. Si è tentato di abbozzare, a tal fine, la proposta di un trattamento separato delle due anime dell’assegno già in fase di accertamento del diritto e dell’introduzione di un sistema tabellare che possa facilitare i difficili aspetti probatori e garantire una maggiore flessibilità in sede di eventuale revisione dello stesso. Gianluca De Donno
108
Giurisprudenza Cass. civ., sez. II, 9 aprile 2019, n. 9905; D’Ascola Presidente – Tedesco Relatore Dichiarazione giudiziale di paternità (esperimento dell’azione per la) – Status filiationis (accertamento dello) – Azione di status (esperimento della; rinunzia alla) – Legittimario (qualifica di) – Contratto di transazione – Diritti indisponibili (transazione vertente su) – Azione di riduzione (rinunzia alla; esperimento della) I diritti di legittima, diversamente da quelli inerenti allo status di una persona, dopo l’apertura della successione sono pienamente disponibili. Più precisamente, mentre i diritti ereditari di legittimario, e di erede legittimo in genere, non possono essere disgiunti dalla rivendicazione – che non necessariamente dev’essere già sfociata in lite – dello status di congiunto del defunto, la rinuncia ai diritti ereditari può concepirsi senza pregiudizio rispetto all’accertamento della fonte dai quali essi derivano (nel caso di specie, il rapporto di filiazione). I diritti di legittima, diversamente dai diritti inerenti allo status della persona, dopo l’apertura della successione sono pienamente disponibili. Sono sottratte, invece, al potere di disposizione delle parti, le controversie inerenti agli status familiari.
(Omissis)
fra la dazione della somma da parte degli eredi e
Fatto
la rinuncia all’azione di status.
S.G., già M.G.M., è stato riconosciuto giudi-
Ha disatteso così la tesi, sostenuta da alcuni
zialmente figlio naturale del defunto S.P.F., dece-
degli eredi, per i quali la transazione si riferiva
duto il 21 agosto 2005, e ciò in esito a giudizio
più che al giudizio di riconoscimento della pa-
promosso contro gli eredi del genitore.
ternità naturale, alla definizione della vicenda
Quindi ha intrapreso un ulteriore giudizio
ereditaria.
contro gli eredi e i legatari istituiti dal defunto
Nondimeno ha ugualmente rigettato la do-
con testamento pubblico del 23 marzo 2004, fa-
manda dell’attore in base al rilievo che egli aveva
cendo valere contro di essi i propri diritti di legit-
dichiarato nella transazione che l’importo rice-
timario, preterito dal testamento, che disponeva
vuto eguagliava quanto gli spettava come legit-
in favore del figlio un irrisorio legato in sostitu-
timario.
zione di legittima cui l’attore aveva prontamente rinunciato. I convenuti hanno eccepito l’esistenza di una transazione, intervenuta nel corso del giudizio di riconoscimento di paternità, in forza della quale
Secondo il tribunale tali dichiarazioni, costituenti confessione, non erano travolte dalla nullità della transazione. La sentenza è stata confermata in grado d’appello.
l’attore aveva ricevuto a tacitazione dei propri di-
La corte ha rigettato l’appello principale di
ritti di legittimario la somma € 516.000,00, ricono-
S.G. e l’appello incidentale di G.CL., G.CA. e G.L.
sciuta congrua rispetto al valore dell’asse.
Contro la sentenza S.G. ha proposto ricorso
Il tribunale, analogamente a quanto già avve-
per cassazione affidato a tre motivi, cui G.CL.,
nuto nel giudizio di riconoscimento della paterni-
G.CA. e G.L. hanno resistito con controricorso,
tà, ha ritenuto nulla la transazione, in quanto ver-
contenente ricorso incidentale, affidato a due
tente su diritti indisponibili, ravvisando un nesso
motivi.
109
Giurisprudenza
Ha resistito con controricorso anche S.T.G.
la propria interpretazione proprio su un elemento
I controricorrenti e ricorrenti incidentali han-
testuale. In particolare i ricorrenti alludono al fatto
no depositato memoria.
che il tribunale richiama le previsioni n. 1 e n.
Diritto
2 della transazione, là dove si precisa che «il pa-
1. Il primo motivo del ricorso principale de-
gamento dell’importo di € 516.000,00 è effettuato
nuncia violazione degli artt. 1965 e 2735 c.c.
dagli eredi S. pro bono pacis, senza pregiudizio
Le dichiarazioni del M. sulla congruità dell’im-
e/o riconoscimento della fondatezza dell’azione
porto non costituiscono concordi premesse di
promossa per il riconoscimento in via giudiziale
fatto di natura ricognitiva, ma inevitabilmente
della paternità [...] ovvero della sussistenza di tale
si inseriscono nel contenuto delle reciproche
paternità, ma esclusivamente a titolo di tacitazione
concessioni, strumentali al raggiungimento della
di qualsiasi pretesa del sig. M., di natura ereditaria,
composizione della lite. In quanto tali esse erano
sia personale, che patrimoniale, nessuna esclusa,
travolte dalla nullità della transazione.
nei confronti del sig. S., quanto degli eredi S.
Il
secondo
motivo
denuncia
violazione
dell’art. 2732 c.c.
Quindi si rimprovera ai giudici di merito di avere fondato il loro convincimento sul dato let-
La sentenza è oggetto di censura nella parte
terale “pretese di natura personale”, pur consi-
in cui ha negato che le supposte dichiarazioni
derandola equivoca, a causa della difficoltà di
confessorie fossero state revocate per errore di
identificare una pretesa di “natura ereditaria” con
fatto sul reale valore dell’asse.
carattere personale.
Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 1318, 2033, 2730 c.c.
La sentenza è ulteriormente censurata perché non ha considerato che nel giudizio per il ricono-
La sentenza è censurata nella parte in cui ha
scimento di paternità il M. aveva proposto una do-
riconosciuto che la nullità della transazione non
manda di risarcimento del danno nei confronti del
pregiudicava la ricezione della somma da parte
de cuius per inadempimento dell’obbligo di man-
del ricorrente, fondandosi l’accettazione del rela-
tenimento derivante dal fatto della procreazione.
tivo importo sul riconoscimento che esso egua-
Questa costituiva domanda di natura persona-
gliava il valore della legittima, come se tale di-
le relativa a un diritto disponibile, fatta valere nei
chiarazione potesse essa stessa atteggiarsi quale
confronti dell’eredità.
causa dello spostamento patrimoniale, idoneo a supplire alla nullità del titolo negoziale. 2. Il primo motivo del ricorso incidentale è articolato in tre sub censure. a) Con la prima si denuncia violazione dell’art. 1362 c.c.
Si sottolinea che, nel proseguire il giudizio, il M. aveva rinunciato alla domanda di risarcimento del danno. Conseguentemente viene meno il fondamento in base al quale il tribunale prima e la corte d’appello poi hanno ritenuto che con l’uso del termi-
I ricorrenti censurano la sentenza nella parte
ne personale gli eredi M. mirassero a procurarsi
in cui la corte d’appello, dapprima, ha svaluta-
la rinuncia del M. alla pretesa “di natura persona-
to alcune espressioni letterali della transazione,
le” per il riconoscimento giudiziale di paternità.
che avrebbero potuto far propendere verso una
b) Con la seconda censura si denuncia viola-
diversa interpretazione della scrittura, nel senso
zione e falsa applicazione degli artt. 1362 e se-
che della prevalenza della definizione meramente
guenti c.c., con particolare riferimento agli artt.
economiche delle pretese ereditarie sulla questio-
1363, 1366 e al principio di conservazione del
ne dello status di figlio naturale, per poi fondare
contratto 1367 c.c.
110
Marco Ramuschi
La corte d’appello ha omesso di valutare il seguente punto delle premesse della transazione, con il quale, nel menzionare il giudizio promosso ai fini della dichiarazione giudiziale di paternità, si chiariva che questo fu proposto, «anche al fine di partecipare alla divisione ereditaria, per la quota di legittima, dei beni di quest’ultimo, quali risultanti dal testamento». Tale previsione avrebbe dovuto essere oggetto di specifica analisi, da parte della corte di merito, anche in base al canone dell’interpretazione secondo buona fede e al principio di conservazione del contratto. c) Con la terza censura si denuncia violazione e falsa applicazione delle medesime norme e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. La scrittura prevedeva che la somma fosse versata prima dell’udienza di prosecuzione della causa e ciò era in contraddizione con la supposta comune intenzione delle parti di volere transigere solo la causa per la dichiarazione giudiziale di paternità. Se realmente le parti avessero voluto definite solo la lite sullo status avrebbero con maggiore coerenza previsto che la somma fosse versata a giudizio estinto e non pochi giorni prima dell’udienza. Insomma se fosse stata corretta l’interpretazione dell’accordo da parte dei giudici di merito l’accordo avrebbe avuto un contenuto diverso. d) Con la quarta censura del primo motivo si denuncia la sentenza per non avere operato una considerazione complessiva della vicenda, essendo evidente che la volontà comune fosse diretta alle questioni ereditarie e non al riconoscimento della filiazione in sé e per sé. 3. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la sentenza sotto il seguente profilo. Il contenuto dell’accordo, anche a volere ammettere che non si esaurisse nella definizione transattiva degli aspetti patrimoniali di carattere ereditario derivanti dalla qualità di legittimario, certamente si riferiva anche a questi, che dopo
l’apertura della successione sono pienamente disponibili. D’altra parte, nonostante la riconosciuta nullità totale dell’accordo, la sopravvivenza degli aspetti patrimoniali è stata in ultima analisi riconosciuta dalla stessa sentenza, là dove la corte d’appello ha riconosciuto che la nullità dell’accordo non pregiudicava lo spostamento patrimoniale posto in essere dagli eredi in favore del legittimario. 4. Si impone in via prioritaria l’esame della seconda e della quarta sub censura del primo motivo del ricorso incidentale e del secondo motivo dello stesso ricorso incidentale. I motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono fondati e il loro accoglimento comporta l’assorbimento delle restanti censure del ricorso incidentale e il ricorso principale. 5. Sono sottratte al potere di disposizione delle parti le controversie inerenti agli status familiari (Cass. n. 14879/2017; n. 13408/1999). Può invece transigersi sugli effetti patrimoniali connessi ad uno status personale (Cass. n. 3938/1955). Ne discende, che, in presenza di una transazione su ambedue gli aspetti, è applicabile il principio utile per inutile non vitiatur (art. 1419 c.c.). La nullità della transazione sullo status intanto può inficiare l’accordo anche sugli aspetti patrimoniali connessi, in quanto fra la pattuizione nulle e le altre pattuizioni vi sia una tale connessione inscindibile da non potersi considerare le une senza le altre (Cass. n. 6391/1979). Nel caso in esame la transazione ha avuto ad oggetto una duplice rinuncia da parte del M. in favore degli eredi del genitore: la rinuncia a proseguire il giudizio per il riconoscimento della paternità e la rinuncia all’azione di riduzione che quello status gli avrebbe attribuito. I diritti di legittima, diversamente da quelli inerenti allo status, dopo l’apertura della successione sono pienamente disponibili (Cass. n. 1373/2009).
111
Giurisprudenza
Pur in presenza di un oggetto certamente le-
pendente sullo status, anche gli aspetti ereditari
cito, la corte di merito ha ritenuto nulla l’intera
connessi a quello status. E ciò già a partire dalla
transazione in base al rilievo che non poteva dirsi
premesse dell’accordo, dove si esplicitava la stru-
dimostrato che i contraenti «avrebbero concluso il
mentalità dell’azione di stato rispetto al reclamo
loro accordo economico per la liquidazione della
dei diritti ereditari: «il sig. M. [...] ha convenuto in
quota ereditaria pur in assenza delle clausole che
giudizio gli eredi S. ai fini della dichiarazione di
disciplinavano la rinuncia all’indisponibile diritto
paternità naturale [...] anche al fine di partecipare
al riconoscimento della paternità».
alla divisione ereditaria per la quota di legittima
Insomma la corte ha ravvisato una inscindibile
dei beni risultanti dal testamento»; [...] nelle more
correlazione fra le due rinunce. In questa prospet-
della procedura il sig. M. si è dichiarato disponi-
tiva ha considerato la rinuncia a proseguire il giu-
bile ad accettare, a tacitazione di ogni sua pretesa
dizio per la dichiarazione giudiziale di paternità
di natura ereditaria, sia personale che patrimo-
conditio sine qua non della transazione, facendone conseguire la nullità dell’intero contratto: se il S. avesse rinunciato alla sola azione di riduzione, gli eredi, convenuti in giudizio, non avrebbero corrisposto il controvalore della legittima: «la interdipendenza delle rispettive rinunce, comporta la nullità anche «delle disposizioni di natura patrimoniale da parte degli eredi S. a favore del M.». 6. Si sa che l’interpretazione del contratto è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in cassazione alla stregua delle valutazioni di fatto. Le regole legali di interpretazione sono nello stesso tempo norme giuridiche, la cui violazione da parte del giudice di merito è censurabile in cassazione (Cass. n. 27136/2017; n. 873/2019). 7. Mentre i diritti ereditari di legittimario, e di erede legittimo in genere, non possono essere disgiunti dalla rivendicazione dello status di
niale [...] l’importo di € 516.000,00». Nella parte dispositiva del contratto, in coerenza con le premesse, si prevedeva poi che il pagamento non implicava riconoscimento della fondatezza dell’azione giudiziaria «ovvero della sussistenza della paternità», ma veniva fatto «a tacitazione di qualsiasi pretesa del sig. M. di natura ereditaria, sia personale che patrimoniale, nessuna esclusa, nei confronti tanto del sig. S., quanto degli eredi S.». In una ulteriore previsione il sig. S. dichiarava di accettare l’importo «a tacitazione di ogni sua pretesa di natura ereditaria» e, in ogni caso, «a saldo e stralcio» di quanto gli sarebbe spettato quale erede legittimo. Il senso di tale previsione si comprende perché qualora non vi fosse stato il testamento, o co-
congiunto del defunto (senza che occorra che la
munque nel caso di inefficacia della successione
rivendicazione sia già sfociata in lite), la rinuncia
testamentaria, il riconoscimento della filiazione
ai diritti ereditari può concepirsi senza pregiudi-
avrebbe comportato che il figlio riconosciuto, in
zio rispetto all’accertamento della fonte dai quali
assenza di altri discendenti e del coniuge, fosse il
essi derivano (nella specie la filiazione), né tan-
solo successibile ex lege, abilitato in linea teorica
to meno può negarsi un interesse dell’erede (nei
ad impugnare il testamento per nullità o annulla-
cui confronti sia stata avanzata o proseguita la
bilità al fine di incamerare l’intera eredità.
pretesa allo status dopo la morte del genitore) di contentarsi della sola rinuncia ai diritti ereditari.
In una ulteriore previsione il sig. S. dichiarava ancora «di astenersi e/o rinunciare a qualsi-
8. Nella transazione oggetto di causa esistono
asi ulteriore pretesa e/o diversa azione relativa
una molteplicità di previsioni in cui le parti di-
o comunque connessa con il riconoscimento di
chiaravano di volere definire, insieme alla lite già
paternità [...] e/o alla sussistenza di qualsiasi di-
112
Marco Ramuschi
ritto personale e/o patrimoniale sul patrimonio ereditario del sig. S.».
Ma è facile replicare che il legittimario in quanto tale, in presenza di un testamento che
In presenza di tale pluralità di elementi lette-
ne sancisce l’esclusione dalla successione, attra-
rali, in linea di principio autonomamente riferibili
verso disposizioni dell’intera eredità in favore di
ai profili ereditari connessi allo status, l’assunto
altri, ha il diritto di agire in riduzione contro le
che la definizione transattiva sull’azione di rico-
disposizioni testamentarie, ma non è chiamato
noscimento della paternità si poneva in posizio-
alla successione, né è titolare di un diritto rea-
ne di prevalenza rispetto alla definizione degli
le attuale sui beni ereditari. È principio acquisito
aspetti ereditari, così confinati a un contenuto se-
che egli, fino a quando non abbia esperito vitto-
condario dell’accordo non suscettibile di autono-
riosamente l’azione di riduzione, non ha il diritto
ma considerazione, e quindi travolto dalla nullità
di chiedere la divisione (Cass. n. 28632/2011; n.
della rinuncia a reclamare lo stato di figlio, costi-
368/2010; n. 27556/2008; 19527/2005) e neanche
tuisce petizione di principio in rapporto al primario canone dell’interpretazione letterale (Cass. n. 5595/2014; n. 976/2010). 9. Siffatta interpretazione si pone nello stesso tempo in contrasto con la regola di interpretazione della conservazione del contratto (art. 1367 c.c.). Tale regola, applicabile anche in tema di nullità ex art. 1419 c.c. (Cass. n. 23950/2014; n. 27839/2009), impone in questo caso una indagine condotta con criterio oggettivo, con riferimento alla perdurante utilità del contratto rispetto agli interessi con esso perseguiti (Cass. n. 2411/1982; n. 2340/1995). La corte d’appello, pur sostenendo la nullità
gli competono i poteri che la legge attribuisce al chiamato in quanto tale (art. 460 c.c.), essendo privo di delazione (cfr. 25441/2017). Pertanto il pagamento di una somma da parte degli eredi o legatari, prima e indipendentemente dal vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, riflette per forza di cose un titolo negoziale (non coincidente necessariamente con uno di quegli accordi fra il legittimario e l’erede, generalmente designati come “accordi di integrazione della legittima”: cfr. Cass. n. 6235/1981), di cui la corte non poteva sancire la sopravvivenza senza per ciò stesso porre in discussione l’esito interpretativo al quale aveva ritenuto di poter pervenire, proprio in relazione alla mancata applicazione del principio di conservazione del contratto.
radicale dell’accordo, esclude il diritto degli eredi
10. La sentenza pertanto è cassata in relazio-
alla ripetizione della somma versata sulla base
ne al ricorso incidentale, con rinvio alla Corte
dell’accordo nullo; correlativamente, sancisce il
d’appello di Brescia in diversa composizione, che
diritto del legittimario di trattenere quanto rice-
provvederà a nuovo esame contratto attenendosi
vuto a tacitazione della legittima.
ai princìpi di cui sopra e liquiderà le spese del
In questo modo, però, si identifica implicita-
giudizio di legittimità.
mente la causa dello spostamento patrimoniale
P.Q.M.
nella mera qualità di legittimario del S. e nella
accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il
dichiarazione di costui, cui ha riconosciuto valo-
ricorso incidentale; dichiara assorbito il ricorso
re confessorio, che la somma versata dagli eredi
principale; cassa la sentenza in relazione al ricor-
e legatari eguagliava quanto gli sarebbe spettato
so incidentale; rinvia alla Corte d’appello di Bre-
a titolo di legittima.
scia in diversa composizione anche per le spese.
113
Giurisprudenza
Su talune questioni ermeneutiche attorno allo status filiationis: segnatamente, sul riconoscimento testamentario di figlio nato fuori del matrimonio e sulla caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza postuma di figli* Sommario : 1. Il caso. – 2. Status filiationis, “quasi legittimario” e rinunzia all’azione di riduzione. In aggiunta, talune brevi notazioni in tema di rinunzia all’azione di status. – 3. Il legato loco legitimae in favore di un figlio “non legittimario”: possibile riconoscimento (tacito) di figlio nato fuori del matrimonio? – 4. Il caso di specie, quale possibile ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza postuma di figli.
Through the sentence in epigraph, other than certain legal matters, we have been able to deal with certain doctrinal matters, which the interpreter could figure out reading the sentence. Particularly, the affair taken into consideration, as described by the Supreme Court, allows reflecting on some distinctive features of the testamentary acknowledgement of children born outside of marriage; furthermore, it also allows reflecting on distinctive features of the precariousness of the testamentary dispositions for the posthumous survival of children. These aforementioned distinctive features, at first glance, are not easily identifiable by the legal regulations.
1. Il caso. Mevio, all’esito dell’esperimento, nei confronti degli eredi1 del preteso padre, dell’azione
* 1
Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Invero, qualora il presunto genitore (com’è accaduto nel caso di specie) dovesse dipartire (o, ad esempio, fosse dichiarato morto presunto ai sensi dell’art. 58 c.c.), la legittimazione passiva traslerebbe – là dove esistenti – in capo ai suoi eredi, giusta l’art. 276 c.c. Sul punto, cfr.: A. Cicu, La filiazione, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. III, t. II, fasc. 1°, Torino, 1951, II ed., 189; R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, Introduzione e parte generale – Diritto delle persone – Diritti di famiglia – Diritto ereditario – Diritti reali, MilanoMessina, 1955, VIII ed., 334; M. Stella Richter, V. Sgroi, Delle persone e della famiglia. Filiazione – Tutela degli incapaci – Alimenti – Atti dello stato civile, in Comm. Cod. civ., a cura di magistrati e docenti, t. II, Torino, 1958, 214; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, Introduzione – Parte preliminare – Parte generale – Diritti della personalità – Diritto di famiglia – Diritti reali, Torino, 1965, VI ed., 656; F.
114
Marco Ramuschi
giudiziale per la dichiarazione di paternità, è stato dichiarato figlio naturale2 (rectius: fi-
2
Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, Milano, 1965, IX ed., 195; L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, Bologna, 1976, 190; A. De Cupis, sub art. 119, in AA.VV., Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di L. Carraro, G. Oppo e A. Trabucchi, Padova, 1977, 704 s. (spec. nt. 1); U. Majello, Della filiazione naturale e della legittimazione. Art. 250-290, in Comm. Cod. civ., a cura A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1982, II ed., 216; A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Commento sistematico della legge 19 maggio 1975, n. 151. Legislazione – Dottrina – Giurisprudenza, vol. II, art. 90 – 240, Milano, 1984, 1801; P. Vercellone, La filiazione legittima, naturale, adottiva e la procreazione artificiale, in Tratt. dir. civ. it., fondato da F. Vassalli, vol. III, t. II, Torino, 1987, 135; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XLIII, t. 1, Milano, 1990, IV ed., 59; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 4, Persone e famiglia, t. III, Torino, 1997, II ed., 226; Id., Diritto di famiglia, Bologna, 2015, II ed., 275; M. Sesta, voce Filiazione, in Enc. dir., IV, Agg., Milano, 2000, 588; E. Palmerini, Gli status e le azioni familiari, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 772 e 773 s.; A. Palazzo, La filiazione, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2013, II ed., 418; M. Dogliotti, A. Figone, Le azioni di stato. Diritti e procedimenti dopo la riforma della filiazione, Milano, 2015, 203; M. Dogliotti, La filiazione fuori del matrimonio. Artt. 250-290, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2015, 435-437; G.F. Basini, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3622; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2018, VIII ed., 354. In giurisprudenza, in luogo di tante, v. Cass., 12 marzo 1986, n. 1648, in Giust. civ., 1986, I, 1639. Tale fattispecie, per vero, rappresenta un caso di litisconsorzio necessario (Cass., 5 gennaio 2005, n. 204, in banca dati DeJure, nonché Cass., 3 aprile 1996, n. 3111, in Fam. dir., 1996, 320, con nota di E. Vullo, Litisconsorzio necessario tra gli eredi del presunto genitore naturale ai sensi dell’art. 276 c.c.; Cass., 30 marzo 1994, n. 3143, in Giur. it. Rep., voce Filiazione, n. 65, 1994; Cass., 23 aprile 1987, n. 3920, in Giur. it. Rep., voce Filiazione, n. 75, 1987; Cass., 17 febbraio 1987, n. 1693, in Giust. civ., 1987, I, 783. In dottrina, v.: A. Cicu, La filiazione, cit., 189; M. Stella Richter - V. Sgroi, op. cit., 214; L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, cit., 190; M. Dogliotti, La filiazione fuori del matrimonio, cit., 436). Giova sottolineare, a modo di completezza, come la Corte, a nostro parere, non sia stata propriamente precisa ove afferma che Mevio è stato «riconosciuto giudizialmente figlio naturale» (corsivo da noi aggiunto), oppure ove si discorre di “rinuncia a proseguire il giudizio per il riconoscimento della paternità» (corsivo da noi aggiunto): ebbene, in tal caso, giuridicamente a noi pare sia più corretto, stante la differenza, a livello sostanziale e procedimentale (e non già effettuale, attesi gli stessi effetti prodotti dalla dichiarazione e dal riconoscimento, giusta l’art. 277, co. 1, c.c.: v.: R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, cit., 334; M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 216; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 653; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 195 [ma v. anche 189]; L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, cit., 133; U. Majello, op. cit., 174 e 220; A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, op. cit., 1837; A. De Cupis, sub art. 119, cit., 705; Id., Il diritto di famiglia, Padova, 1988, 162 e 163; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 208; M. Sesta, voce Filiazione, cit., 587; F. Gazzoni, Una sentenza con “motivazione suicida” da inumare (figlio naturale dichiarato, cadavere esumato e testamento revocato), in Dir. fam. pers., 2008, 1858, nota a Cass., 16 aprile 2008, n. 10007; A. Palazzo, La filiazione, cit., 453 ss., spec. 461; G. Ferrando, Diritto di famiglia, cit., 274; G.F. Basini, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, cit., 3630; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 353 e 357), tra dichiarazione giudiziale e riconoscimento, discorrere di “dichiarato giudizialmente figlio naturale” oppure di “giudizio per la dichiarazione della paternità”. V. inoltre A. Cicu, La filiazione, cit., 173; Id., voce Azione di stato, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 943 e 947. Per una profusa trattazione, sulla differenza tra riconoscimento e dichiarazione giudiziale, v. G.F. Basini, Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3560 ss.; Id., La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, cit., 3614 ss. Più asciutto, ma ciò nondimeno terso, fu F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 189. Si badi: l’equiparazione, sul piano effettuale, fra il riconoscimento e la dichiarazione giudiziale, riguarda solamente quegli effetti della filiazione che sono condizionati dalla certezza formale (realizzabile sia col riconoscimento, sia con la dichiarazione); la dichiarazione giudiziale, dunque, così come il riconoscimento, rappresenta una condicio sine qua non rispetto a taluni effetti della filiazione fuori del matrimonio, quali, ad esempio, l’acquisto dei diritti successori, e così via. In altri termini, il riconoscimento segue le regole del diritto privato, essendo esso un atto unilaterale e volontario, appunto di diritto privato, mentre la dichiarazione giudiziale, derivando da una sentenza, segue le regole del giudicato: non v’è, dunque, da equiparare gli effetti accertativi del riconoscimento con quelli della sentenza di dichiarazione. Sul punto, s’espresse in modo chiaro U. Majello, op. cit., 220. V. anche, in consimili termini, A. Palazzo, La filiazione, cit., 461-464 (il riconoscimento muove sul piano stragiudiziale, mentre la dichiarazione sul piano processuale: ivi, 462. Pertanto, «[…] data la diversa struttura ed efficacia dei provvedimenti in esame deriva che, soltanto gli effetti immediati da loro [vale a dire dal riconoscimento e dalla dichiarazione giudiziale] discendenti sono omologabili in capo al minore che li ottiene per la realizzazione del suo pieno interesse»: ivi, 463). Con tale dichiarazione giudiziale, Mevio ha ottenuto lo stato di figlio, vale a dire «la titolarità […] del rapporto giuridico di filiazione»,
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nei confronti del proprio padre (che è, chiaramente, uno dei soggetti che lo ha generato). Siffatto stato «è uno stato familiare, che riassume ellitticamente il complesso di posizioni soggettive, attive e passive, che ad un soggetto competono, in quanto figlio, in un determinato contesto familiare»: così, G.F. Basini, Lo stato di figlio, cit., 3355. Della filiazione ne diede una concisa, ma senza meno esaustiva, definizione, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 633: «“Filiazione” è anzitutto “il fatto” della generazione per nascita d’una persona, detta “figlio”, da due altre persone che son dette “genitori”; poi indica anche il “rapporto giuridico” intercorrente fra “genitori” e “figlio”». Si v., inoltre, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 145: «Filiazione è il rapporto, che passa fra il nato (generato) e il genitore (o i genitori), per cui, il primo si dice figlio del secondo (o dei secondi): ossia, vanta per sè lo status di figlio e acquista i diritti (oltre che essere oggetto ai doveri), inerenti a tale status». Nonostante sia oramai noto, giova nondimeno rammentare come sia venuta meno, dopo la Legge 10 dicembre 2012, n. 219 (spec. v. art. 1, co. 11, della medesima: cfr. C.M. Bianca, La legge italiana conosce solo figli, in Riv. dir. civ., 2013, 3. V. pure, più in generale, M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. dir., 2013, 231 ss.; A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Padova, 2017, 16-19) – portata a compimento dal Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, che ha attuato la delega contenuta nell’art. 2 della stessa L. n. 219/2012 –, la differenza tra figli così detti “legittimi”, vale a dire i figli nati in seno al matrimonio, e figli così detti “naturali”, vale a dire i figli nati fuori del matrimonio: oggidì, v’è un unico stato giuridico della filiazione. Sicché, giusta l’art. 1, co. 11, testé citato, e giusta l’art. 315 c.c. («Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico»), non è più corretto discorrere di “figli legittimi” e “figli naturali” (cfr. pure, in merito all’aspetto linguistico, V. Barba, Princìpî successorî del figlio nato fuori del matrimonio e problemi di diritto transitorio, in Fam. dir., 2014, 503. Adde, per aver una visione più ampia, sul rapporto tra diritto ereditario e stato unico di filiazione, M. Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2014, 1 ss.). Tutt’al più, si può comunque continuare a discorrere meramente di “figli nati in seno al matrimonio” e “figli nati fuori del matrimonio”. Più precisamente, se è vero, com’è vero, che fra la filiazione avvenuta in seno al matrimonio e quella avvenuta al di fuori di esso v’è oggi pari dignità, è altrettanto vero, a nostro credere, come, per forza di cose, sia ancóra sussistente, nonostante l’unicità dello status filiationis, una sòrta di differenza fra le due filiazioni: invero, allorquando il figlio nato fuori del matrimonio non sia ancóra stato riconosciuto (art. 250 ss. c.c.) o non sia ancóra intervenuta l’apposita dichiarazione giudiziale (art. 269 ss. c.c.), egli è un figlio privo di status e, come tale, privo di numerosi diritti, di natura personale e patrimoniale, nei confronti dei genitori («L’accertamento dello status è requisito essenziale per la titolarità e l’esercizio di situazioni giuridiche soggettive derivanti dal rapporto filiale»: così, A. Sassi, Accertamento indiretto di stato e diritti successori nella riforma della filiazione, in Riv. dir. civ., 2015, 617, ma v. anche 618). In altre parole, se il figlio nato in seno al matrimonio, col mero evento della nascita, acquista automaticamente lo status di figlio ex artt. 231 ss. c.c. (con tutti, dunque, i diritti e doveri che ne conseguono), il figlio nato fuori del matrimonio, invece, acquisterà formalmente lo stato di figlio solamente con un atto di riconoscimento o con la dichiarazione giudiziale di paternità e/o maternità. A nostro sommesso avviso, pertanto, nonostante l’intento commendevole del legislatore di voler dare vita ad un unico stato giuridico della filiazione, oggi – seppur con intensità minore rispetto al passato – si può senz’altro affermare come persista, ed è quasi inevitabile, stante il necessario – e sempre lo sarà – riconoscimento formale della filiazione, una sòrta di “classificazione” – che, si badi bene, non vuole ovviamente discriminare, ma fungere da mero esempio, per fini squisitamente giuridici – fra figli di “serie A” (scilicet: figli nati all’interno del matrimonio) e figli di “serie B” (scilicet: figli nati fuori del matrimonio): in assenza dello status di figlio formalmente accertato (per i figli nati, appunto, fuori del matrimonio), ad esempio, non si acquista la qualifica di legittimario (v., spec., art. 536, co. 1, c.c.), e indi di tutti i diritti ereditari che ne conseguono. Basti qui richiamare l’art. 573 c.c., ove si afferma che le disposizioni relative alla successione dei figli nati fuori del matrimonio si applicano «quando la filiazione è stata riconosciuta [ex art. 250 ss. c.c.] o giudizialmente dichiarata [ex art. 269 ss. c.c.]». Tale disposizione, senz’altro fondamentale, trova ragion d’essere nel semplice e terso ragionamento giuridico per il quale qualsivoglia situazione giuridica, che connoti una determinata persona, se non viene legalmente accertata, mediante appositi strumenti previsti dal legislatore, non può rilevare per il diritto, dacché la formalità risulta essere necessaria (si vedano, a tal riguardo, gli artt. 236 ss. c.c.) per far sì che i consequenziali effetti giuridici si possano produrre. Si figuri tale breve esempio: Calpurnio, durante la propria sfrontata gioventù, ebbe, con numerose donne, varie relazioni (mai culminate in matrimonio). Dall’amore di queste relazioni vennero alla luce alcuni figli. Orbene, come si potrebbe affermare e provare, se non con gli strumenti (riconoscimento o dichiarazione giudiziale) messi a disposizione dal legislatore, che siffatti figli siano tali rispetto a Calpurnio? Di certo, non con le ciance di paese. Coglie dunque il vero, a nostro parere, G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, Napoli, 1991, 123, il quale, dopo un interessante ragionamento giuridico (seguìto da altre considerazioni: ivi, 124 e 125), mosso precipuamente dall’art. 573 c.c., afferma «che, al di là del mero rapporto di filiazione, il figlio privo di stato non è parente del genitore naturale». Anche F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 177 s., ebbe attentamente ad asserire che «Il figlio naturale non-riconosciuto (o non-dichiarato giudizialmente) è ignorato, come tale, dalla legge; cioè, non ha alcuno status familiare. Il fatto che egli sia nato da un dato genitore, anche se consti in fatto […], non produce effetti di diritto familiare (arg. 279), sino a che non segua il riconoscimento (o la dichiarazione giudiziale). Egli è figlio di ignoti, o uno dei suoi genitori è ignoto, anche se, ad effetti meramente patrimoniali […], egli possa far valere la sua qualità di figlio naturale, per ottenere gli alimenti verso il genitore naturale vivente [giusta l’art. 279 c.c., co. 1, c.c.] […], pur se non-riconosciuto, o non dichiarato giudizialmente». In definitiva, come abbiamo testé rilevato, il figlio che non è stato riconosciuto, né rispetto al quale s’è dichiarato lo stato di filiazione, anche nei confronti di uno solo dei genitori, non può vantare, salvo l’art. 279, co. 1, c.c. (ancorché la situazione di
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glio nato fuori del matrimonio) del defunto Sempronio, che è dipartito in data 21 agosto 2005; successivamente, lo stesso Mevio ha intrapreso apposito giudizio avverso gli eredi e i legatari3 di Sempronio, il quale redisse testamento pubblico in data 23 marzo 2004, al fine di far valere i propri diritti di legittimario pretermesso4. Il testé citato testamento, invero, prevedeva, in favore di Mevio, un incongruo legato in sostituzione di legittima5,
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fatto creatasi a séguito del mancato riconoscimento, o della mancata dichiarazione giudiziale, non agevoli l’esito positivo dell’applicazione di tale disposizione), alcunché: di qui, la non scritta, ma comunque esistente, palese e persistente differenza, rispetto a codesto aspetto, fra figli nati in seno al matrimonio e figli nati al di fuori di esso. V. pure: C. Grassetti, Delle successioni legittime, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 343; P. Vercellone, op. cit., 85: «Perché la filiazione [fuori del matrimonio] si costituisca sono necessari o il riconoscimento da parte del genitore o la sentenza di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità»; M. Sesta, Il riconoscimento del figlio naturale, in Il diritto di famiglia, t. III, a cura di M. Dogliotti e M. Sesta, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, vol. IV, Torino, 1999, 82, il quale, con acume, afferma: «Al di là dei profili dogmatici [circa l’efficacia costitutiva o dichiarativa del riconoscimento e – aggiungiamo, di conseguenza, ex art. 277, co. 1, c.c. – anche della dichiarazione giudiziale], quello che deve essere sottolineato è che solo in base all’accertamento – riconoscimento o dichiarazione giudiziale – il rapporto di filiazione, e quindi la relazione genitore-figlio, riceve piena ed integrale tutela […]. Dunque, nel sistema, l’accertamento insito nel riconoscimento o nella dichiarazione giudiziale appare un presupposto ineliminabile affinché il rapporto di filiazione possa fruire di una tutela completa […]»; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 337: «[…] il semplice fatto della nascita da genitori tra loro non coniugati [non attribuisce], automaticamente, lo status di figlio rispetto ai proprî genitori; invero, per l’acquisizione del medesimo, la legge richiede o un formale atto di riconoscimento […] o la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità […]: mezzi, appunto, diretti a rendere certo, giuridicamente, il rapporto di filiazione, ove essa sia avvenuta fuori del matrimonio». Adde U. Majello, op. cit., 220, il quale discorse di «valore condizionante» della dichiarazione giudiziale (ma ciò vale, ça va sans dire, anche per il caso di riconoscimento), «rispetto a taluni effetti della filiazione […]»; A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, op. cit., 2356. Eloquente, pur nella sinteticità dell’affermazione, fu Trib. Caltanissetta, 2 settembre 1950, in Foro. it., 1951, I, 378 (con nota adesiva di G. Azzariti, In tema di revocazione di testamento per sopravvenienza di figli), il quale affermò: «[…] il figlio naturale non riconosciuto è ignorato come tale dalla legge, ed egli non ha infatti alcuno status familiare. Il fatto che sia nato da un determinato genitore, anche se consti (notorietà), non produce effetti di diritto personale familiare, sino a che non segua il riconoscimento (o la dichiarazione giudiziaria)». Sul punto, cfr. pure, con i dovuti adattamenti per il caso di opere redatte prima della riforma della filiazione: L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, cit., 130 ss., spec. 132; U. Majello, op. cit., 174 ss.; P. Vercellone, op. cit., 81 ss.; A. De Cupis, Il diritto di famiglia, cit., 106 ss., spec. 146 e 148; A. Palazzo, La filiazione, cit., 252 e 253; M. Dogliotti, A. Figone, op. cit., 17 s., G. Ferrando, Diritto di famiglia, cit., 249 ss., spec. 258 e 273; G.F. Basini, Lo stato di figlio, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3358 ss.; C. Cicero, voce Filiazione (riforma della), in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., Agg. X, Torino, 2016, 287 e 288, ma anche 290, ove l’A., a ragione, afferma che «lo status giuridico di figlio nato fuori del matrimonio non è immediato effetto dell’atto generativo, essendo necessario che il rapporto di filiazione venga riconosciuto dal genitore (da uno o da entrambi), ovvero in via alternativa che venga giudizialmente accertato. La relazione generativa diviene, in altri termini, rilevante per il diritto per effetto del riconoscimento [o, appunto, della dichiarazione giudiziale]»; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 306 ss. Sul punto, v. A. Cicu, Le successioni. Parte generale – Successione legittima e dei legittimari – Testamento, Milano, 1947, 169, per il quale, il fatto che l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità possa essere esperita anche dopo la morte del preteso genitore, avverso i di lui eredi (o legatari), implica la possibilità «che venga contestato il loro diritto [degli eredi, appunto] ereditario, e presuppone quindi il diritto ereditario del figlio, […] che non potrebbe spiegarsi se non con l’effetto retroattivo della sentenza che accolga l’azione, non al giorno della domanda giudiziale, ma al giorno della nascita del figlio». G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2016, VIII ed., 191: «[…] il legittimario, che preferisca rinunziare al legato, viene a trovarsi nella medesima situazione del legittimario pretermesso dal testatore, la cui volontà, appunto, era quella di garantirgli il legato, non già la quota di eredità». Sul legato in sostituzione di legittima, previsto dall’art. 551 c.c., v. almeno, nella fitta letteratura: A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, 175 ss.; A. Cicu, Successione legittima e dei legittimari, Milano, 1941, 211 ss.; W. d’Avanzo, Delle successioni, t. II, (Parte speciale), Firenze, 1941, 435 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 299 ss.; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali – Successioni legittime, in Comm. Cod. civ., a cura di magistrati e docenti, Libro II, t. I, Torino, 1959, 299 ss.; F. Messineo, Manuale
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senza indugio rinunziato6, ex art. 649 c.c., dallo stesso legatario7. I convenuti ebbero ad eccepire l’esistenza di un accordo transattivo8, intervenuto nelle more del giudizio di dichiarazione di paternità, in forza del quale Mevio ricevette una determinata somma di danaro «a tacitazione dei propri diritti di legittimario». Il Tribunale, similmente a quanto già avvenuto nel giudizio di dichiarazione di paternità, ha ritenuto nulla9 la transazione, poiché in essa era altresì contenuta una specifica rinunzia – posta in essere da Mevio dietro dazione di una somma di danaro, corrisposta dagli eredi e dai legatari – all’azione di stato, ravvisando così un’inscindibile nesso fra la rinunzia stessa e la dazione della somma, sì da cozzare contro il divieto di deduzione, in un
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di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, Milano, 1962, IX ed., 529 ss. F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1963, IV ed., 208 ss.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, Obbligazioni e contratti. Successioni per causa di morte, Torino, 1965, VI ed., 1045 ss.; M. Cataldo, Considerazioni sul legato in sostituzione di legittima – art. 551 c.c., in Vita not., 1981, 1172 ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, Padova, 1982, 248 ss.; Id., Sul legato in sostituzione di legittima, in Giust. civ., 1983, I, 55 ss., nota a Cass., 15 novembre 1982, n. 6098; P. Rapone, In tema di legato in sostituzione di legittima, in Giur. it., 1990, I, 1, 1253 ss., nota a Cass., 26 gennaio 1990, n. 459; A. Palazzo, Le successioni, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, t. I, Milano, 2000, II ed., 547 ss.; G. Musolino, Il legato in sostituzione di legittima, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 3, 79 ss.; M. Ferrario Hercolani, Il legato in sostituzione di legittima, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, III, La successione legittima, Milano, 2009, 325 ss.; F. Pene Vidari, La successione legittima e necessaria, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, Le successioni, 4, Torino, 2009, 263 ss.; M. Sala, sub art. 551, in AA.VV., Codice delle successioni e donazioni, a cura di G. Bonilini, M. Confortini, G. Mariconda, coordinato da V. Barba, G. Bonilini, A. Chizzini, M. Confortini, P. De Cesari, F. Trombetta Panigadi, P. Veneziani, Torino, 2015, 523 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, Milano 2015, V ed., 192 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, t. I, Milano, 2015, IV ed., 486 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 190 ss. Diverso dal legato in sostituzione di legittima, è il legato in conto di legittima (rispetto al quale si rimanda alla stessa letteratura citata, a cui, per forza di cose, è necessario aggiungere il recente contribuito di V. Barba, Il legato in conto di legittima, in Riv. dir. civ., 2019, 444 ss. Adde pure G. Iudica, Il legato in conto di legittima, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, III, Successione legittima, Milano, 2009, 347 ss.). Sul legato in sostituzione di legittima, sotto l’egida del Codice Pisanelli, v. quantomeno il contributo di C. Gangi, Il legato in luogo della legittima, in Arch. giur. “Filippo Serafini”, 1924, 13 ss., cui adde F. Ferrara, Legato a tacitazione di legittima, in Riv. dir. civ., 1922, 417 ss. Sulla rinunzia al legato in sostituzione di legittima, oltre alla letteratura indicata nella nt. precedente, v. pure, màssime: M. Galli, La rinuncia al legato in sostituzione di legittima, in Foro pad., 1985, I, 422 ss., nota a Trib. Monza, 15 gennaio 1985; S. Patti, La rinunzia al legato in sostituzione di legittima, in Fam. pers. succ., 2006, 64 ss.; G. Sicchiero, Forma e termine per la rinuncia del legato in sostituzione di legittima (art. 551 c.c.), in Giur. it., 2018, 1077 ss., nota a Cass., 4 agosto 2017, n. 19646. Si badi: abbiamo ritenuto opportuno richiamare, quale riferimento normativo in tema di rinunzia al legato de quo, l’art. 649, co. 1, c.c., e non già l’art. 551, co. 1, c.c., ché è evidente, da quanto risulta dalla descrizione della fattispecie effettuata dalla Corte (ma si opinerebbe diversamente, ove si seguisse quanto abbiamo sostenuto infra, al § 3), come Mevio non ebbe, al momento della rinunzia, la qualifica di legittimario (ex art. 536 c.c.), qualifica espressamente richiesta dall’art. 551, co. 1, c.c. Sul punto, noi, onde evitare di distaccarci troppo dalle questioni giuridiche che intendiamo dissertare, abbiamo deciso di attenerci a quanto descritto dal Supremo Collegio. Sulla transazione v., ex multis: F. Carresi, La transazione, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. IX, t. III, fasc. II, Torino, 1954; Id., voce Transazione (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 481 ss.; R. Miccio, Dei singoli contratti e delle altre fonti delle obbligazioni, in Comm. Cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, t. IV, Torino, 1959, 454 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. V, Milano, 1972, IX ed., 226 ss.; F. Santoro, Passarelli, La transazione, Napoli, 1975, II ed.; E. del Prato, La transazione, Milano, 1992; M. Franzoni, La transazione, Padova, 2001; F. Arangio, La transazione, Torino, 2004; C. Cicero, La transazione, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, I singoli contratti, vol. 9, Torino, 2014. Adde: E. del Prato, voce Transazione (dir. priv.), in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 813 ss.; A. Palazzo, voce Transazione, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XIX, Torino, 1998, 386 ss. Vedasi, altresì, A. Butera, La definizione dei rapporti incerti, I, Delle transazioni, Torino, 1933. Per un’analisi storica, in specie nel diritto romano, v. M.E. Peterlongo, La transazione nel diritto romano, Milano, 1936, cui adde A. Schiavone, voce Transazione (diritto romano), in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 478 ss. Per ulteriori fonti bibliografiche, in tema di transazione, ci sia consentito rinviare al nostro Contratto di transazione e patto successorio rinunziativo, in questa Rivista, 2019, 640 ss., nota a Cass., 15 giugno 2018, n. 15919. Alcuni eredi, al riguardo, sostennero come la transazione si riferisse non già all’azione di stato, ma, piuttosto, alla «definizione della vicenda ereditaria» (v. la pronunzia in epigrafe).
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contratto di transazione, di diritti indisponibili (l’«azione di status»10, appunto)11. Ciò nondimeno, il Giudice del merito ha comunque rigettato la domanda attorea, dacché Mevio ebbe a dichiarare, nella transazione, che l’importo ricevuto «eguagliava quanto gli spettava come legittimario». Codesta affermazione, ictu oculi, potrebbe collidere avverso l’asserita nullità del contratto di transazione; tuttavia, affermò il Tribunale, essendo la dichiarazione (di aver ricevuto, dall’accordo transattivo, quanto gli spettava come legittimario) di Mevio una confessione, essa non può essere travolta dalla nullità predetta. La pronunzia del Tribunale è stata, successivamente, confermata in Corte d’Appello, avverso la cui sentenza Mevio propose ricorso in Cassazione.
2. Status filiationis, “quasi legittimario” e rinunzia
all’azione di riduzione. In aggiunta, talune brevi notazioni in tema di rinunzia all’azione di status.
Dopo aver stringatamente descritto il caso oggetto del decisum, così come risulta riportato dalla Suprema Corte, è necessario ora soffermarsi su alcune considerazioni effettuate dalla medesima. Anzitutto, da quanto emerge dalla pronunzia, giova ribadire come nel contratto di transazione posto in essere tra Mevio e gli eredi del defunto Sempronio sia stata inserita una rinunzia12 (ritenuta poi nulla sia dai giudici del merito, sia dalla Corte), da parte dello stesso Mevio, all’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità13 (dichiarazione la quale, come vedremo tosto14, non era, a nostro credere, necessaria).
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Così, la pronunzia in commento. Sul punto, v. già E. del Prato, La transazione, cit., 71: «Gli status personali, inerendo alla qualificazione giuridica della persona nella collettività, sono sottratti ad ogni potere di disposizione»; G. Piazza, Accertamento giudiziale della filiazione naturale e diritti successori: è possibile transigere su questi ultimi in pendenza del giudizio?, in Contr. Impr., 1999, 1373, ebbe brillantemente ad affermare che «Nel nostro ordinamento vige […] il principio generale secondo cui sono sottratti alla disponibilità delle parti i diritti che riflettono interessi superiori di ordine pubblico e tali sono i diritti inerenti alla persona (diritti della personalità) e gli status della persona (lo stato di coniuge, di figlio legittimo o naturale, ecc.). Gli status personali, inerendo alla qualificazione della persona nella collettività, sono sottratti ad ogni potere di disposizione dei privati». 12 Sul fatto che nel contratto di transazione, quale concessione, non possa esservi dedotta una rinunzia ad una controversia inerente uno status familiare, quale è lo status filiationis, nulla quaestio: cfr. L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, cit., 190: «In questo campo [della dichiarazione giudiziale dello stato di figlio] […], dato che si tratta di materia indisponibile […]», non è ammessa la possibilità di transigere. In giurisprudenza, cfr. quantomeno: Cass., 1 dicembre 1999, n. 13408, in banca dati DeJure (e in Giust. civ. Mass., 1999, 2421), la quale, rispetto alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ebbe ad asserire come tal àmbito riguardi «diritti indisponibili sui quali non è ipotizzabile rinuncia o transazione»; Cass., 5 giugno 1993, n. 6309, in Fam. dir., 1994, 27, con nota di E. Vullo, Azione per la dichiarazione della paternità o maternità naturale e rinuncia agli atti del giudizio. 13 Dalla sentenza traluce, infatti, che «la transazione ha avuto ad oggetto una […] rinuncia da parte del M. [Mevio] in favore degli eredi del genitore: la rinuncia a proseguire il giudizio per il riconoscimento [sic! V. supra, nt. 2] della paternità […]». 14 V. § 3. 11
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Ora, posto tale fatto, e convenendo in parte con il Giudice del merito e con la Suprema Corte, ci sia consentita, di passata, una brevissima considerazione. È chiaro che il suddetto campo riguarda diritti che, per loro natura, sono senz’altro diritti indisponibili. In particolare, ciò che ha consentito al Tribunale prima, e alla Corte poi (seppur in modo parziale), di far dichiarare nulla la transazione, è l’inserimento, in seno a quest’ultimo contratto, di un oggetto (mediato) contenente, fra le altre reciproche concessioni, la rinunzia all’azione (e quindi al diritto sostanziale che s’intende tutelare15) per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità (e, si ripete, non già il «giudizio di riconoscimento»16). Noi, sul punto, riteniamo di convenire. In tale caso, invero, v’è stato un atto di disposizione (alias: una concessione) di un diritto indisponibile, quale è quello relativo all’accertamento del proprio status di figlio, come tale senz’altro suscettibile di essere colpito da nullità (art. 1966, co. 2, c.c.): l’indisponibilità del diritto, infatti, fa sì che anche l’azione posta a sua tutela diventi, di necessità, indisponibile17, sicché essa non potrà certo costituire oggetto di un contratto di transazione. Ciò nondimeno, opiniamo che non si debba effettuare una commistione fra la rinunzia all’azione e la rinunzia agli atti18 (ex art. 306 c.p.c.19). Più precisamente: la rinunzia agli atti20, nonostante si verta, come detto, in materia di diritti indisponibili, a noi pare sia da ammettersi21. Invero, dacché il legislatore permette alla parte di agire per la tutela giurisdizionale di un proprio diritto, deve indi ammettersi anche la possibilità, per la parte medesima, di poter rinunziare alla tutela dopo averla richiesta22. V’ha di più. Con la mera rinunzia agli atti, giusta il combinato tra l’art. 306, co. 1 e l’art. 310, co. 1, c.p.c.23, e atteso il principio di autonomia del processo rispetto all’azio-
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Invero, la giurisprudenza maggioritaria (cui ha evidentemente aderito la pronunzia in commento), sovente individua, a ragione, la rinunzia all’azione come una rinunzia, altresì, al diritto sostanziale che quell’azione intende far valere. Sul punto, v.: Cass., 18 marzo 1981, n. 1583, in Giust. civ. Mass., 1981, 613; Cass., 9 agosto 1973, n. 2280, in Foro it., 1973, I, 2975. In dottrina: G.A. Micheli, Corso di diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 1960, 208; A. Massari, voce Rinunzia agli atti del giudizio, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1157; C. Asprella, Brevi cenni sulla rinunzia all’azione e sulla cessazione della materia del contendere, in Giust. civ., 1999, I, 2692, nota a Cass., 13 marzo 1999, n. 2268; C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, II, Il processo ordinario di cognizione, Torino, 2017, XXVI ed., 390 (nt. 182, e ivi bibliografia citata). 16 V. supra, nt. 2. 17 Cfr. Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, in Foro. it., 2017, I, 2680, con nota di G. Casaburi, In tema di rinuncia all’azione di disconoscimento di paternità; Cass., 1 dicembre 1999, n. 13408, cit.; Cass., 26 febbraio 1993, n. 2465, in banca dati DeJure (e in Giust. civ. Mass., 1993, 399). 18 Cfr. A. Massari, op. cit., 1157. 19 Su cui v., almeno, più di recente, L. Penasa, sub art. 306, in AA.VV., Comm. cod. proc. civ., diretto da L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, vol. III, t. II, Artt. 275-322, Torino, 2012, 712 ss. 20 Per «atti», si deve intendere «il complesso degli atti processuali che, nella successione del loro insieme, costituiscono il processo; quindi se la rinuncia avviene allorché l’unico atto processuale posto in essere è la citazione introduttiva, di rinuncia agli atti si deve parlare con riferimento al rapporto processuale che con lo stesso atto introduttivo si è instaurato»: A. Massari, op. cit., 1157 21 Contra, riguardando, la rinunzia, diritti indisponibili per loro natura, pare Cass., 11 settembre 1993, n. 9477, in banca dati DeJure. 22 A. Massari, op. cit., 1156. 23 Invero, «L’estinzione del processo non estingue l’azione». Per una disamina più approfondita dell’art. 310 c.p.c., più di recente, v. almeno S. Turatto, sub art. 310, in AA.VV., Comm. cod. proc. civ., diretto da L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, vol. III, t. II, Artt. 275-322, Torino, 2012, 864 ss., e ivi bibliografia citata.
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ne24, si addiviene solamente all’estinzione del processo in corso25, restando salva l’azione e dunque il correlativo diritto sostanziale sotteso; la rinunzia in questione, quindi, ha una efficacia squisitamente endo-processuale. L’estinzione del procedimento, quale vicenda “anormale”26, pregiudica il diritto delle parti ad ottenere una pronunzia, in punto di merito27, sul rapporto dedotto in giudizio28, non implicando affatto un giudizio d’infondatezza della domanda29, che, pertanto, potrà essere riproposta, ex novo, in un nuovo processo30. Con la rinunzia all’azione, invece, il diritto sostanziale corrispondente viene prosciugato in toto della relativa tutela giurisdizionale, sicché, per così dire, viene ridotto alla stregua di un’obbligazione naturale31. Con codesta rinunzia, in definitiva, non si estingue il procedimento giudiziale, ma si determina solamente il contenuto della sentenza che decide il merito, vale a dire una sentenza di cessata materia del contendere32; donde, posto il ne bis in idem, la medesima domanda non potrà essere ripresentata33. Nel caso in cui, nondimeno, si ritenesse34 ammissibile anche la rinunzia all’azione posta a tutela di un diritto indisponibile, allora dovrebbe affermarsi, di conseguenza, come la
In giurisprudenza, v. almeno: Cass., 10 settembre 2004, n. 18255, in banca dati Leggi d’Italia; Cass., 29 aprile 1993, n. 5063, in banca dati Leggi d’Italia. 24 R. Vaccarella, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 296; S. Turatto, op. cit., 866. 25 S. Turatto, op. cit., 867. 26 S. Turatto, op. cit., 865. 27 La mera rinunzia agli atti, può bensì affermarsi, «è soltanto manifestazione dell’intendimento della parte di non volere per adesso una pronuncia di merito sulla domanda»: A. Massari, op. cit., 1157. 28 E. T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, rist. IV ed., 208; S. Turatto, op. cit., 866. 29 La rinuncia agli atti del giudizio, in definitiva, è espressione del potere di disposizione del processo, «e costituisce, perciò, un logico corollario del principio della domanda»: L. Penasa, op. cit., 713. 30 A. Massari, op. cit., 1157; C. Mandrioli, A. Carratta, op. cit., 390 (nt. 182). 31 Così, con evidente acume, A. Massari, op. cit., 1157. 32 A. Massari, op. cit., 1157. In giurisprudenza, v. Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, cit.; Cass., 10 settembre 2004, n. 18255, cit.; Cass., 28 marzo 2001, n. 4505 in banca dati DeJure (e in Giust. civ. Mass., 2001, 610); Cass., 5 giugno 1993, n. 6309, cit.; Cass., 8 maggio 1992, n. 5506, in Giust. civ., 1992, I, 1448; Cass., 22 febbraio 1982, n. 1112, in banca dati DeJure. 33 L. Penasa, op. cit., 743. 34 V., incisivamente, Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, cit. Sul punto, più in generale, v. altresì: Cass., 1 dicembre 1999, n. 13408, cit., la quale, in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità proposta dal genitore nell’interesse del figlio minore (ma, si badi bene, la medesima considerazione vale, mutatis mutandis, per il caso di azione proposta solamente dal presunto figlio), afferma che se il genitore è libero di promuovere l’azione, o no, allo stesso tempo egli è libero, allorquando lo voglia, di rinunziare in modo espresso al procedimento instaurato, «o lasciando che la causa si cancelli o si estingua per inattività» (v. art. 307 c.p.c.). L’azione, seguentemente, «potrà essere senz’altro riproposta dallo stesso genitore o, al compimento della maggiore età, personalmente dal figlio»; Cass., 13 marzo 1999, n. 2268, in Giust. civ., 1999, I, 2689, con nota di C. Asprella, op. cit.; Cass., 17 agosto 1998, n. 8087, in Fam. dir., 1999, 72; Cass., 8 maggio 1992, n. 5506, cit.; Cass., 11 settembre 1993, n. 9477, cit., la quale, pur avvalorando, in un primo momento, l’impossibilità addirittura di rinunziare agli atti del giudizio ove essi abbiano a oggetto diritti indisponibili («quali sono i diritti di stato»), afferma poi: «Il genitore esercente la potestà sul minore che non abbia compiuto ancora l’età di sedici anni, è libero di promuovere o meno, nell’interesse del minore […], l’azione per la dichiarazione giudiziale della paternità, senza nemmeno la necessità di essere autorizzato dal giudice tutelare […]. Per la stessa ragione, lo stesso genitore deve ritenersi libero di rinunciare, sempre nell’interesse […] del minore[,] all’azione già promossa (ovvero di lasciare che la causa, a seguito dell’inattività delle parti, venga cancellata dal ruolo e, quindi, ricorrendone i presupposti, possa essere dichiarata estinta). In tal modo, il detto genitore non fa altro che esercitare una facoltà che la legge gli concede, valutando la permanenza o meno, nel corso del giudizio, dell’interesse del figlio alla dichiarazione giudiziale della paternità. Tuttavia, nel momento in cui il genitore, non solo rinunzia all’azione proposta, ma rinuncia, altresì, alla sua eventuale riproposizione […], viene ad assumere una posizione analoga a quella del genitore che rinunzi all’azione prima ancora di averla esercitata». Sicché, conclude la
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rinunzia a codesta azione – e indi al diritto sostanziale in essa racchiuso – non sia «definitiva», ma solamente limitata all’«ambito del procedimento in cui venga manifestata», cozzando tale abdicazione avverso «l’indisponibilità delle posizioni soggettive, come quelle relative allo status familiae, che sono riconducibili ai diritti della personalità»35. La parte, perciò, seguentemente avrà la facoltà di riproporre la domanda36. È certo, al riguardo, che spetterà all’interprete individuare l’effettiva volontà delle parti, ovverosia l’oggetto della rinunzia37: se questa riguardi gli atti, la rinunzia, come detto, è da ammettersi anche ove il procedimento involga diritti indisponibili; ove involga, invece, anche (o solo) l’azione (e perciò il correlativo diritto indisponibile), la rinunzia non è punto ammissibile. Dopo questa telegrafica digressione, e considerato che Mevio ha acquisito38 lo statuts filiationis (si badi: non ci consta, in base agli elementi a disposizione, la data esatta della sentenza che ha dichiarato siffatto status39), giova ora sottolineare come egli sia altresì divenuto legittimario del dipartito Sempronio. Al riguardo, la decorrenza degli effetti del dichiarato status filiationis – nonostante la mancanza di una precisa disposizione normativa che ne disciplini gli effetti – avviene, in generale40, ex tunc, fin dal momento della nascita41
Corte dopo alcuni ragionamenti giuridici, ai quali si rimanda, «deve ritenersi che il diritto alla riproposizione dell’azione in questione sia irrinunciabile […]»; Cass. 26 febbraio 1993, n. 2465, cit. In dottrina, pare propendere per la possibile rinunzia alla prosecuzione del giudizio per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 226. 35 Così, Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, cit. 36 Sul punto, v. amplius Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, cit. 37 A. Massari, op. cit., 1157. 38 Al riguardo, G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 353, osserva, brillantemente, come la sentenza, che dichiara la paternità e la maternità e «che supplisce al mancante atto di riconoscimento dei genitori», dia «forma allo status su iniziativa del figlio nato fuori del matrimonio». 39 Sul concetto di status, in generale, v.: F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1940, 250 e 251; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, Milano, 1957, IX ed., 136 s.; Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 3; A. Cicu, voce Azione di stato, cit., 937-939; Id., Il concetto di « status », in Scritti minori di Antonio Cicu, vol. I, Scritti di teoria generale del diritto. Diritto di famiglia, t. I, Milano, 1965, 181 ss.; P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, 209 ss.; G. Criscuoli, Variazioni e scelte in tema di status, in Riv. dir. civ., 1984, 157 ss.; F. Prosperi, Rilevanza della persona e nozione di status, in Rass. dir. civ., 1997, 801 ss.; L. Lenti, voce Status, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XIX, Torino, 1999, 29 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2012, IX ed., rist., 23 s.; G. Alpa, Introduzione, in G. Alpa, A. Ansaldo, Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2013, II ed., 98 ss., spec. 109-115 s. Adde V. Frosini, voce Situazione giuridica, in Noviss. Dig. it., XVII, Torino, 1970, 468-471. Sullo stato di filiazione: G. Bonilini, Lo status o gli status di filiazione?, in Fam. pers. succ., 2006, 681 ss. 40 In linea generale, poiché la retroattività, in tal caso, non opera per qualsivoglia “effetto”: in taluni casi, i limiti dovuti alla natura dell’effetto sono evidenti. Si pensi, a guisa d’esempio, all’art. 262 c.c. (il quale vale, giusta l’art. 277, co. 1, c.c., anche per il caso di dichiarazione giudiziale): qui, il cognome del genitore non potrà essere attribuito al figlio con effetti retroattivi, fin dal momento della nascita (cfr. U. Majello, op. cit., 220 s.; G.F. Basini, sub art. 277, in AA.VV., Codice di famiglia, minori, soggetti deboli, a cura di G.F. Basini, G. Bonilini, M. Confortini, coordinato da V. Barba, G.F. Basini, G. Bonilini, A. Cadoppi, P. Cendon, A. Chizzini, M. Confortini, P. Corso, A. D’Aloia, P. De Cesari, E. Gragnoli, F. Trombetta Panigadi, t. I, Torino, 2014, 955; M. Dogliotti, La filiazione fuori del matrimonio, cit., 441. Contra, M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 147). 41 W. d’Avanzo, op. cit., 450; A. Cicu, Le successioni, cit., 169; M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 216; U. Majello, op. cit., 220 (spec. nt. I); L. Mengoni, Delle successioni legittime. Art. 565-586, in Comm. Cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1985, 60; Id., Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 59; P. Vercellone, op. cit., 160 ss.; A. De Cupis, Il diritto di famiglia, cit., 162; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 258; Id., Diritto di famiglia, cit., 274; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 477; M. Bonavita, Le varie categorie di legittimari, in G. Marinaro, La successione necessaria, in Tratt. dir. civ.
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(stante l’equiparazione sul piano effettuale, ex art. 277, co. 1, c.c., al riconoscimento42); la sentenza, nel nostro caso, potrebbe apparentemente avere meri effetti dichiarativi43, di una condizione giuridica (lo stato di figlio, appunto) sì accertata, ma la quale, come fatto naturale, per forza di cose sussiste (se vogliamo, anche da un mero punto di vista fisiologico, dacché il figlio è considerabile come tale fin dal momento in cui viene ad esistenza, poco importa che i genitori vengano formalmente individuati in un secondo momento) già dal tempo della natività. Ciò nondimeno, mette conto rilevare come la procreazione fuori del matrimonio44 non sia, di per sé sola, anche produttiva dello status filiationis, giacché giuridicamente è con la sentenza con cui viene pronunziata la dichiarazione di paternità o maternità (o, chiaramente, col riconoscimento ex art. 250 c.c.) che viene in punto di diritto a costituirsi45 codesto status: il mero fatto della generazione46 “extramatrimoniale”, si noti,
del Consiglio nazionale del Notariato, VIII, 3, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2009, 109; A. Albanese, Delle successioni legittima. Artt. 565-586, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2012, 403 e 404; Id., Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari. Artt. 679-712, in Comm. cod. civ. e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2015, 138 s.; A. Tullio, La successione necessaria, in Nuova giur. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, diretta da G. Alpa, G. Bonilini, U. Breccia, O. Cagnasso, F. Carinci, M. Confortini, G. Cottino, A. Jannarelli, M. Sesta, Torino, 2012, 141; M. Dogliotti, A. Figone, op. cit., 18 e 204; A. Gorgoni, op. cit., 89; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 353. Per una veduta generale: G.F. Basini, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, cit., 3630-3632. Adde, seppur sotto l’egida del Codice civile del 1865, L. Coviello, Successione legittima e necessaria, Milano, 1937, 161. Cfr. pure: Cass., 6 novembre 2009, n. 23630, in banca dati DeJure (e in Giust. civ. Mass., 2009, 1559); Cass., 17 dicembre 2007, n. 26575, in Fam. dir., 2008, 563, con nota di R. Russo, Dichiarazione giudiziale di paternità: rimborsi e risarcimenti; Cass., 3 novembre 2006, n. 23596, in banca dati DeJure (nonché in Foro it., 2007, I, 86); Cass., 14 maggio 2003, n. 7386, in banca dati DeJure; Cass., 14 agosto 1998, n. 8042, in Fam. dir., 1999, 271, con nota di G. Amadio, Obblighi di mantenimento, accertamento della filiazione e rapporti tra genitori; Cass., 26 settembre 1987, n. 7285, in Giust. civ., 1988, I, 727; Cass., Sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, in Dir. fam. pers., 1985, 914; Cass., 26 giugno 1984, n. 3709, in Foro it., 1984, I, 2160; Cass., 18 marzo 1981, n. 1584, in Dir. fam. pers., 1981, 994, con nota di F. Arrivas, Successione ereditaria, jus superveniens e riconoscimento di figlio naturale; Cass., 20 maggio 1961, n. 1196, in Foro it., 1962, I, 756; Cass., 6 marzo 1952, n. 606, in Giur. it., 1952, I, 1, 252. 42 G. Azzariti, voce Filiazione legittima e naturale, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, 331; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 59; E. Carbone, sub art. 277, in AA.VV., Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Della famiglia. Artt. 177-342 ter, a cura di L. Balestra, Torino, 2010, 622; A. Gorgoni, op. cit., 89. Sull’efficacia retroattiva del riconoscimento, v. soprattutto L. Cosattini, Il riconoscimento del figlio naturale, Padova, 1942, 214 ss. Adde pure A. Cicu, La filiazione, cit., 157. 43 In questo senso, ex plurimis: Cass., 17 dicembre 2007, n. 26575, cit.; Cass., 2 febbraio 2006, n. 2328, in Fam. dir., 2006, 504, con nota di A. Figone, Dichiarazione giudiziale di paternità, mantenimento del figlio e rimborso delle spese anticipate dell’altro coniuge; Cass., 14 agosto 1998, n. 8042, cit.; Cass., 23 gennaio 1993, n. 791, in banca dati DeJure; Cass., 7 aprile 1990, n. 2923, in Riv. not., 1991, II, 213; Cass., 26 settembre 1987, n. 7285, cit.; Cass., 18 marzo 1981, n. 1584, in Giust. civ., 1981, I, 2037, con nota di A. Finocchiaro, Sussiste il diritto del figlio la cui filiazione sia stata giudizialmente dichiarata dopo l’entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia di partecipare alla successione del genitore naturale apertasi sotto il vigore del codice civile del 1942 non ancora riformato?; Cass., 6 marzo 1952, n. 606, cit. 44 Là dove essa fosse avvenuta, invece, durante il matrimonio, minori problemi sarebbero sórti in tema di attribuzione dello status filiationis, attesi gli artt. 231 ss. c.c. 45 Cfr. F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, Milano, 1940, 7; A. Pino, Diritto di famiglia, Padova, 1998, III ed., 202. Piuttosto particolare, ma nondimeno suggestiva, fu la teoria, alla quale si rimanda, di F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, cit., 40 ss., ma anche 112 ss., il quale cercò di dimostrare come il riconoscimento abbia ora natura costitutiva, ora natura dichiarativa. 46 Quanto testé affermato, a nostro opinare potrebbe trovare conferma, in specie, nell’art. 253 c.c. (su cui v., quantomeno, G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 345). Invero, il fatto che sia inefficace il riconoscimento il quale si ponga in contrasto «con lo stato di figlio in cui la persona si trova» (a guisa d’esempio: Seio, avente già lo stato di figlio a séguito di riconoscimento o dichiarazione – figlio nato fuori del matrimonio –, oppure a séguito di nascita o concepimento durante il matrimonio (art. 231 c.c.), non potrà essere dichiarato o riconosciuto come figlio, fintantoché, ad esempio, non interverrà, per il caso di riconoscimento, sentenza passata in giudicato che dichiari invalido il riconoscimento per difetto di veridicità, ex art. 263 c.c.), ci fa propendere per l’affermazione per cui il riconoscimento (o, stante i medesimi effetti, la dichiarazione giudiziale) costituisca lo status
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dà vita sì al fatto naturale della filiazione, ma non anche al relativo stato giuridico47, il quale, a nostro sommesso opinare, prenderà vigore solamente allorché interverrà un formale (spontaneo o giudiziale) accertamento della filiazione48. Per di più, milita49 nel senso della retroattività50, soprattutto, l’art. 276, co. 1, c.c., ove consente, come summentovato51, di esperire l’azione per la dichiarazione, nel caso in cui sia premorto il presunto genitore, nei confronti dei di lui eredi. Tale possibilità, a noi pare, è data proprio per consentire agli eredi, eventualmente, di resistere contro tale domanda, giacché essi hanno senz’altro un interesse ad escludere il presunto figlio (rectius: “erede sopravvenuto”) dalla successione52 (nella specie, peraltro, già apertasi)53: successione alla quale, nel caso in cui la domanda dovesse addivenire ad esito, parteciperà anche il dichiarato figlio, con effetti, per così dire, retroattivi54. Talché, i figli nati fuori del matrimonio, al
filiationis, il quale, pertanto, non preesiste giammai (se così fosse, si pensi, ad esempio, ad un intervenuto riconoscimento anche da chi sia consapevole che il vero status filiationis, seppur non formalmente accertato, rilevi relativamente ad un altro soggetto: in questo caso, ove si propendesse per l’esistenza, fin dalla nascita, dello stato di figlio, il soggetto si troverebbe, ipoteticamente, con due status: cosa che, chiaramente, non è ammissibile. Ancóra. Il riconoscimento, o la dichiarazione giudiziale, a noi pare che abbia come fine primario quello di accertare il fatto (naturale) della generazione, mentre la costituzione dello status è solamente una conseguenza giuridica (la principale, chiaramente, da cui si diramano di poi tutti i relativi corollari) di tale accertamento. 47 Cfr. A. Gorgoni, op. cit., 25. 48 A. De Cupis, Il diritto di famiglia, cit., 162. Cfr. anche M. Sesta, Il riconoscimento del figlio naturale, cit., 82 (ma v. anche quanto, sul punto, ha en passant rilevato l’A., che abbiamo riportato supra, in nt. 2, per una migliore coerenza di trattazione): «[…] l’accertamento e la formazione di un titolo di stato costituiscono un presupposto la cui esistenza condiziona il godimento dello status corrispondente». V. pure Cass., 3 novembre 2006, n. 23596, cit.: «In quanto attributiva di uno status e dei diritti ad esso connessi, la sentenza va pertanto qualificata […] come costitutiva, nel senso che senza di essa lo status di figlio naturale non sorge e non vi può essere rivendicazione utile dei diritti che a tale status si accompagnano, ancorché per effetto della pronuncia il godimento di tali diritti retroagisca alla data della nascita». 49 Cfr. L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 60. 50 Sul punto, è d’uopo en passant rammentare (tenendo sempre conto dei dovuti adattamenti) il pensiero di P. Vercellone, op. cit., 164166, per il quale (spec. 164) la retroattività dello stato di figlio, riconosciuto o giudizialmente dichiarato, deriva, màssime, dall’art. 30 Cost., che non legittima la limitazione, nel tempo, della protezione dei figli, e quindi quand’anche codesta protezione «risultasse limitata solo al periodo successivo al riconoscimento o alla dichiarazione giudiziale così come sarebbe se si considerasse esistente una regola generale per cui riconoscimento e dichiarazione giudiziale hanno effetto ex nunc». Soggiunse l’A. (ivi, 164): «Una volta che ogni limite normativo alla ricerca del rapporto di filiazione è stato rispettato e in tal rispetto il rapporto è stato accertato e consacrato mediante le due fattispecie tassativamente previste, riconoscimento e dichiarazione giudiziale, ogni limitazione di effetto pare davvero contrastante col principio costituzionale». Per di più, la previsione di un limite di tal fatta acuirebbe, senza dubbio, il già forte distacco “in classifica” persistente fra figli di “serie A” e “figli di serie B” (v. supra, nt. 2): colui il quale venga concepito in seno al matrimonio, possiede lo status filiationis fin dalla nascita. Talché, non si vede per quale motivo non si debba considerare come tale, cioè a dire fin dalla nascita, anche il figlio nato fuori del matrimonio, riconosciuto o giudizialmente dichiarato in un secondo momento. Tale avvenimento postumo, invero, prescinde da un comportamento positivo o negativo del figlio, sicché il ritardo non potrà farsi ricadere su di egli e, indi, sugli effetti che dall’attribuzione dello stato di figlio ne derivano (così, P. Vercellone, op. cit., 165). V. anche G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 258. 51 V. supra, nt. 1. 52 Cfr. P. Vercellone, op. cit., 162; M. Dogliotti, La filiazione fuori del matrimonio, cit., 441. 53 Cass., 3 novembre 2006, n. 23596, cit.; Cass., 18 ottobre 1991, n. 11024, in Giust. civ., 1992, I, 1293; Cass., 7 aprile 1990, n. 2923, in Giur. it., 1990, I, 1, 718; Cass., 21 marzo 1990, n. 2326, in Giust. civ., 1990, I, 1750, con nota di G. Azzariti, In tema di sentenza interpretativa della Corte costituzionale su decorrenza dei termini per l’accettazione ereditaria; Cass., Sez. un., 16 luglio 1985, n. 4173, cit.; Cass., 12 marzo 1986, n. 1648, in Giust. civ., 1986, I, 1639; Cass., 26 giugno 1984, n. 3709, in Dir. fam. pers., 1984, 904. Nella giurisprudenza di merito, v. almeno: Trib. Genova, 6 giugno 1990, in Giust. civ., 1990, I, 2416, con nota di V. Santarsiere, Effetti successori della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, con apertura della successione infra il 20 settembre 1975. 54 Rileviamo di passata che ove si propendesse per l’efficacia ex nunc, il figlio non potrebbe, a rigore e in punto di diritto, una volta dichiarato giudizialmente come tale, partecipare alla successione del proprio (nel nostro caso, padre) genitore già dipartito, poiché è evidente che se gli effetti si produrranno per l’avvenire, la successione, di necessità, è antecedente alla dichiarazione giudiziale.
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fine di far valere i propri diritti che la legge gli riserva, nella specie i propri diritti successori, debbono dimostrare di essere “figli”55, riconosciuti o giudizialmente dichiarati, per il tramite della produzione, in giudizio, del titolo dello stato (v. art. 236, co. 1, c.c.) o della sentenza dichiarativa56. V’ha di più. Attesa, come detto poco sopra, l’equiparazione effettuale fra riconoscimento e dichiarazione giudiziale (dunque, avvalorando la retroattività del riconoscimento si avvalora, di necessità, anche la retroattività della dichiarazione giudiziale), un ulteriore elemento giuridico, fra gli altri57, che ci consente di propendere per la retroattività predetta, è scolpito, seppur in materia di riconoscimento, nell’art. 255 c.c., il quale ammette il riconoscimento del figlio premorto, in favore dei suoi discendenti: tale disposizione, invero, non troverebbe giustificazione alcuna se non si ammettesse la retroattività del riconoscimento (e, indi, mercé l’art. 277, co 1., c.c., della dichiarazione giudiziale), ché, diversamente, non si vede come si possa attribuire lo status filiationis ad una persona già deceduta58. Un’ulteriore questione giuridica affiorante dalla sentenza in commento, che a noi non pare propriamente limpida, riguarda quello che, molto probabilmente, potrebbe essere individuato come il fil rouge di tutta la vicenda: l’intervenuto accordo transattivo con cui Mevio rinunziava all’azione di riduzione, che «quello status [filiationis] gli avrebbe attribuito». La Corte, sul punto, pare giustamente ammettere la possibilità di una rinunzia preventiva all’azione di riduzione, specificando sì che questa rinunzia possa effettuarsi allorquando si sia già aperta la successione, e quindi il donante sia venuto meno59, ma, ed è qui che
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Cfr., seppur en passant, M. Talamanca, Successioni testamentarie. Della revocazione delle disposizioni testamentarie – Delle sostituzioni – Degli esecutori testamentari. Art. 679-712, in Comm. Cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1978, rist. aggiornata della I ed., 216 s. 56 L. Ferri, Lezioni sulla filiazione. Corso di diritto civile, cit., 140; Id., Dei legittimari. Art. 536-564, in Comm. Cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1981, II ed., 21 e 22. 57 Su cui v., esemplarmente, L. Cosattini, op. cit., 221 ss. Adde, seppur più asciuttamente, L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 60 s. 58 In questo senso, autorevolmente, L. Cosattini, op. cit., 221 (ma v. anche 222): «Ora l’attribuzione dello stato a un morto non si può spiegare che con la retroattività del riconoscimento: si deve ritenere oggi che quando il figlio era vivo fosse titolare dello stato di figlio naturale»; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 60. 59 A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 184; W. d’Avanzo, op. cit., 498; F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, cit., 317; A. Cicu, Successione legittima e dei legittimari, cit., 277; Id., Le successioni, cit., 273; L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, I, Parte generale, t. III, Napoli, 1961, 46-48; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali - Successioni legittime, cit., 329; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 352; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 236; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1030; V.R. Casulli, voce Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 1059; L. Ferri, Successioni in generale. Art. 456-511, in Comm. cod. civ., a cura di V. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1972, rist. I ed., 87; Id., Dei legittimari, cit., 213; A. Burdese, in G. Grosso, A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. XII, t. I, Torino, 1977, 99; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 294; Id., Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi, in Giur. sist. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, Torino, 1994, III ed. aggiornata anche da A. Iannacone, 289; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XLIII, t. 2, Milano, 1984, II ed., 339 e in IV ed., 2000, 335; C. Caccavale, Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. I, Padova, 1994, 32; Id., Il divieto dei patti successori, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 57; V.E. Cantelmo, L’attuazione della tutela, in AA.VV., Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, vol. I, Padova, 1994, 539 s.; Id., L’attuazione della
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germina la nostra riserva, essa altresì soggiunge come la rinunzia ai diritti ereditari possa «concepirsi senza pregiudizio rispetto all’accertamento della fonte dai quali essi derivano (nella specie la filiazione), né tanto meno può negarsi un interesse dell’erede (nei cui confronti sia stata avanzata o proseguita la pretesa allo status dopo la morte del genitore) di contentarsi della sola rinuncia ai diritti ereditari»60. Non solo. Il dubbio ci sorge anche allorquando si afferma che «i diritti di legittimario, e di erede legittimo in genere, non possono essere disgiunti dalla rivendicazione dello status di congiunto del defunto [e anche fin qui, di per sé, nulla quaestio] (senza che occorra che la rivendicazione sia già sfociata in lite61) [è invece soprattutto a tal riguardo, come si vedrà tra poco, che sorgono i nostri dubbi]». Orbene, mentre per quanto attiene alla prima affermazione – per cui i diritti di legittima, dopo la dipartita del de cuius, sono «pienamente disponibili» (da parte dei “già legittimari”, s’intende) – nulla quaestio, rispetto alle altre due affermazioni, e segnatamente relativamente alla seconda, non possiamo non manifestare taluni evidenti dubbi. In particolare, stante codeste asserzioni, parrebbe non rilevare l’accertamento dello status filiationis rispetto alla qualifica di legittimario: ovviamente, a nostro sommesso parere, così non è. Invero, prima che venga (come nella fattispecie) dichiarato giudizialmente lo status filiationis, colui il quale sia legato al de cuius solamente da un mero vincolo di natura biologica non ha, rispetto a costui, il tipico rapporto di parentela che deriva, invece, dall’attribuzione dello stato di figlio62. Talché, la mancanza di tale status, nonché del correlativo rapporto di parentela, vieta al soggetto di poter far valere i (e indi rinunziare ai) propri diritti di legittimario63.
tutela, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 604; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 5, Successioni, t. I, Torino, 1997, II ed., 460; C. Caccavale - F. Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv. dir. priv., 1997, 87; V. Carbone, voce Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XVII, Torino, 1998, 619; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 572; C. Cecere, voce Patto successorio, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., Agg. II, t. II, Torino, 2003, 1003; M. Ieva, La successione necessaria, in AA.VV., Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, vol. II, Successioni, donazioni, beni, I, Le successioni e le donazioni, Milano, 2009, 79; L. Balestra, M. Martino, Il divieto dei patti successorî, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 133; G. Marinaro, La successione necessaria, in Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del Notariato, VIII, 3, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2009, 288 s.; A. Tullio, L’azione di riduzione. L’imputazione ex se, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, III, La successione legittima, Milano, 2009, 562; Id., La successione necessaria, cit., 328; A. Bucelli, Dei legittimari. Artt. 536-564, in Cod. Civ. Comm., fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2012, 585-588; V. Barba, I patti successorî e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, 134-140, ove interessanti considerazioni; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 212; G. Capozzi, op. cit., t. I, 43 e 556, il quale, nondimeno, rilevò come l’art. 557, co. 2, c.c., fosse superfluo, dacché «il divieto era già compreso nell’art. 458» c.c.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 195 e 204. V. pure L. Coviello, op. cit., 365. 60 A vero dire, anche altri sono i punti della sentenza in cui la Suprema Corte pare ammettere una rinunzia all’azione di riduzione (o comunque ad altri diritti ereditari), prima che venga accertato lo status filiationis. Per questioni di economia espositiva, si rimanda il lettore, specificamente, ai punti 5 (5° e 6° cpv.) e 8 (spec. 5° cpv.) della pronunzia in epigrafe. 61 Corsivo da noi aggiunto. 62 G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 118-121. 63 A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 205; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 165; C. Grassetti, Delle successioni legittime, cit., 343; A. Cicu, Successione legittima e dei legittimari, cit., 55 e 143 ss.; Id., Le successioni, cit., 169; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op.
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Si badi: il risultato a cui si perviene, in punto di diritto, non cambia ove si volga lo sguardo nella direzione della sola azione di riduzione. In tal caso, per vero, è proprio l’impossibilità di applicare tale disciplina che, conseguentemente, determina l’impossibilità di qualificare il soggetto come legittimario64: ciò lo si arguisce, a fortiori ratione, dal fatto che è proprio la qualità di legittimario che “va a braccetto” con l’attribuzione dell’azione di riduzione, azione bensì posta, com’è noto, a protezione della predetta qualità65. Prima della Legge 19 maggio 1975, n. 151, ogni dubbio era tolto sia dall’art. 539 c.c.66 (disposizione, codesta, tersamente abrogata dall’art. 175 della predetta Legge), sia dall’art. 592 c.c. (disposizione, peraltro, dichiarata incostituzionale67), che davano rilevanza ai figli naturali solo allorché la filiazione venisse riconosciuta o dichiarata68; tale lacuna post riforma del ’75, a causa di una mera mancanza di tecnica legislativa69, resta comunque colmato dalla permanenza dell’art. 573 c.c.70, il quale, a tal riguardo, ci consente di man-
cit., 269; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 317: «[…] che la legge quando parla di figli naturali [rectius: oggi, ripetiamo, di figli nati fuori del matrimonio] intende in ogni caso riferirsi a quelli la cui filiazione sia stata volontariamente riconosciuta o giudizialmente dichiarata (ché altrimenti i genitori e i figli naturali sono a considerarsi – di fronte alla legge – come persone estranee tra loro), trovasi espressamente enunciato nell’art. 573 […]»; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 476; A. Tullio, La successione necessaria, cit., 140; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 170: «I figli, la cui nascita sia avvenuta fuori del matrimonio, possono vantare diritti successorî loro riconosciuti, solo se siano stati riconosciuti o giudizialmente dichiarati (artt. 250 e 269), poiché lo status di figlio, in relazione a colui, il quale sia nato fuori del matrimonio, si rannoda al riconoscimento da parte del genitore, non unito in matrimonio con l’altro genitore, che può anche essere manifestato col testamento (art. 254 […]), o alla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, che, appunto, postula la nascita fuori del matrimonio». V. altresì, e soprattutto, L. Carraro, La vocazione legittima alla successione, Padova, 1979, 166 ss., spec. 169; G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 122 s. (ma v. pure 145 s.): «L’inesistenza dello status e del rapporto di parentela tra genitore e figlio privo di stato già escluderebbe di per sé, anche non considerando il disposto dell’art. 573 cod. civ., che il figlio privo di stato possa succedere, quale erede ex lege al suo genitore. Il figlio privo di stato non potrà essere l’erede legittimo del suo genitore, neppure quando non vi siano altri successibili ex lege, siano essi parenti (in senso civile) entro il sesto grado, siano essi figli naturali in possesso di status, o loro discendenti, sia, infine, lo Stato, erede necessario ex art. 586 cod. civ. La norma dettata dall’art. 573 cod. civ. conferma questa opinione: la funzione di essa non è quella di porre un limite (eccezionale, cioè rilevante soltanto in presenza di altri successibili ex lege) alla chiamata, che sarebbe contenuta implicitamente nell’art. 565 cod. civ., dei figli privi di stato, all’eredità del loro genitore naturale, ma è soltanto quella di riaffermare che, al di là del mero rapporto di filiazione, il figlio privo di stato non è parente del genitore naturale». Adde F. Pene Vidari, op. cit., 273. 64 G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 147. 65 L. Cariota Ferrara, La difesa della quota riservata ai legittimari, in Riv. dir. civ., 1960, 4; G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 147. 66 Articolo, codesto, per certi versi rispecchiante l’art. 743 del Codice Pisanelli, il quale, testualmente, recitava: «I figli naturali non hanno diritto alla successione dei genitori, quando la loro filiazione non sia legalmente riconosciuta o dichiarata». Si badi: l’art. 539 c.c. – oramai, come detto, abrogato – venne financo dichiarato incostituzionale (per contrasto con l’art. 30, co. 3, e con l’art. 3, Cost.), mediante la sentenza Corte cost., 30 aprile 1973, n. 50, in Foro it., 1973, I, 1684, nella parte in cui, siffatta disposizione, fissava «la riserva ereditaria a favore dei figli naturali riconosciuti o dichiarati nella misura di un terzo del patrimonio del genitore se questo lascia un solo figlio naturale o la metà se i figli sono più e non nella stessa misura prevista dall’art. 537 del codice civile a favore dei figli legittimi e cioè nella misura della metà se il genitore lascia un figlio solo e di due terzi se i figli sono più». 67 Corte cost., 28 dicembre 1970, n. 205, in Foro it., 1971, I, 11, ritenne codesta disposizione incostituzionale (per contrasto con l’art. 30, co. 3, e l’art. 3, Cost.), nella parte in cui essa limitava la capacità, dei figli naturali riconosciuti o dichiarati come tali, di ricevere per testamento, allorquando la successione «si fosse devoluta in base alla legge». 68 Cfr. A. Guarneri, La revoca del testamento e della donazione per dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, in Riv. dir. civ., 1984, 487. 69 Così, L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, IV ed., cit., 157. 70 V. anche supra, nt. 2. Cfr. pure: G. Azzariti, voce Filiazione legittima e naturale, cit., 332; L. Ferri, Dei legittimari, cit., 22; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, IV ed., cit., 157; M. Ronchi, I discendenti, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, III, La successione legittima, Milano, 2009, 822 s. Adde L. Mengoni, Delle successioni legittime,
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tenere ferma la nostra opinione71. A contrario, non si potrebbe opinare che l’art. 565 c.c. individui, fra i successibili legittimi, gli «altri parenti»72: in siffatto caso, deve comunque sussistere un rapporto di parentela, il quale, in assenza, come nella specie, di uno status filiationis dichiarato ex iudice, non rileva per l’ordinamento giuridico73. Altra disposizione, che ci consente di virare nella surriferita direzione, trovasi scolpita nell’art. 580, co. 1, c.c.74, il quale prevede che «Ai figli nati fuori del matrimonio aventi diritto al mantenimento, all’istruzione e alla educazione, a norma dell’art. 279 [alias: i figli, nati fuori del matrimonio, non riconoscibili], spetta un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta»75. Orbene, la rinunzia all’azione di riduzione, e indi ai diritti di riserva76, non può dunque essere posta in essere da colui che pecchi della qualifica di legittimario (arg. ex art. 557 c.c.)77, sicché è d’intuitiva evidenza come l’asserire che i diritti ereditari di legittimario, pur essendo strettamente connessi alla rivendicazione dello status di parente del defunto, prescindano da una rivendicazione «già sfociata in lite», possa fuorviare l’interprete78.
cit., 60; A. Tullio, La successione necessaria, cit., 140. Ad avviso di L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, IV ed., cit., 157, anche l’art. 594 c.c. consente di virare in questo senso. 72 Questa interpretazione, ad avviso di G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 125, è «assai lata», dacché l’affermare che la locuzione «altri parenti» permetta di includere, nei successibili ex lege, financo i figli privi di stato (ad onta della successione dello Stato), rappresenta «una tautologia, mancando […] la dimostrazione del rapporto di parentela, che determinerebbe la chiamata del figlio privo di stato all’eredità del genitore naturale». 73 «In realtà, il figlio privo di stato può essere considerato, rispetto al genitore naturale, successore soltanto a titolo particolare [ex art. 580 c.c.] […]»: così, G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, cit., 125. L’A., inoltre, esclude (ivi, 123 e 124), expressis verbis, che la collocazione dell’art. 580 c.c. nel Capo I, del Titolo II, del Libro II del Codice civile possa far considerare il figlio privo di status filiationis come parente del genitore naturale (de cuius). Egli, in primis, asserisce come non si possa attribuire rilevanza, in punto di diritto, alla mera collocazione dell’art. 580 c.c., collocazione che, anzi, fa emergere lo scopo del legislatore di «porre limiti alla successione del figlio privo di stato, rispetto alla successione ex lege del figlio in possesso di stato», mentre, in secundis, ritiene essere un assioma l’assunto per cui la successione legittima – ad esclusione del solo art. 586 c.c. – debba avere le proprie fondamenta nel «rapporto di parentela (o familiare) tra successibile ed ereditando». La successione intestata, per l’A. (ivi, 124), «si fonda, invero, sulle norme di legge che, nei diversi tempi e luoghi, individuano i successibili, obbedendo a mutevoli ragioni di politica legislativa». V. pure, più in generale, A. Trabucchi, A. Rasi Caldogno, voce Successioni (diritto civile): successione legittima, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 770. 74 A. Tullio, La successione necessaria, cit., 140. 75 Corsivo da noi aggiunto. 76 G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 195. 77 G. Marinaro, La successione necessaria, cit., 276. 78 Difatti, codesta affermazione non risulta essere tersa e corretta, poiché, come ad esempio per il caso (il nostro) di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, non di rado la rivendicazione presuppone l’instaurazione di un procedimento giudiziale (che, appunto, può sfociare in lite). 71
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Il legittimario è tale solo ove abbia un determinato rapporto di parentela79 col de cuius80: rapporto che manca, senz’altro, ove lo status da cui esso derivi sia manchevole (com’è a dirsi, nella fattispecie, per Mevio). In altri termini: Mevio provvide sì a rinunziare all’azione di riduzione successivamente alla morte del donante, giusta l’art. 557, co. 2, c.c., ma in un tempo in cui ancóra non era stato giudizialmente dichiarato figlio di Sempronio (il contratto di transazione, riteniamo giovevole ripeterlo, è stato concluso nelle more del giudizio di dichiarazione di paternità “naturale”), sicché è da escludersi la sua legittimazione a tale rinunzia81 (di qui, la locuzione “quasi legittimario”, dacché Mevio era sì figlio biologico di Sempronio, ma privo di quell’ ulteriore elemento giuridico – ovverosia un formale atto di riconoscimento o l’apposita dichiarazione giudiziale – che gli consentisse di divenire figlio, legalmente considerato come tale, nato fuori del matrimonio; l’ulteriore elemento giuridico, nel caso di specie, è rappresentato dalla intervenuta dichiarazione giudiziale, che ha quindi consentito di soggiungere quel quid, al “quasi legittimario”, in guisa da rendere Mevio “pieno legittimario”): il diritto all’esperimento dell’azione viene acquisito, al tempo di apertura della successione, solo da colui il quale abbia, in quel preciso momento, la qualifica di legittimario82: qualifica che pecca, si ripete, in capo al figlio privo del relativo status83. Quanto detto fino ad ora, volgendo lo sguardo all’angolo visuale del contratto di transazione contenente la rinunzia, dev’essere senz’altro allacciato all’art. 1966, co. 2, c.c. 84, il quale, tersamente, afferma che la transazione è nulla se i diritti che formano oggetto della lite sono «sottratti alla disponibilità delle parti». Orbene, posto tale ineludibile dettato normativo, Mevio non avrebbe affatto potuto transigere85 rinunziando ora all’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, ora all’azione di riduzione (e indi a tutti i diritti
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L. Coviello, op. cit., 161; V. Polacco, Delle successioni, vol. I, Successioni legittime e testamentarie, Milano-Roma, 1937, II ed. a cura di A. Ascoli e E. Polacco, 88; W. d’Avanzo, op. cit., 449: «Presupposto o condizione indispensabile perchè i figli naturali [oggi, ripetiamo, indicati come figli nati fuori del matrimonio] possano conseguire la riserva è che essi abbiano tale status […] o in conseguenza del riconoscimento operato da uno dei genitori o da entrambi o per effetto della sentenza che dichiari, accertandolo, il rapporto di paternità o maternità con gli stessi effetti del riconoscimento […]»; A. Cicu, Le successioni, cit., 169 e 253; S. Ferrari, La posizione giuridica del legittimario all’apertura della successione, in AA.VV., Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, vol. I, t. I, Diritto civile, Milano, s. d., ma 1978, 625, ad opinione del quale, il soggetto che sopravvive al de cuius, e che è «[…] ad esso legato da un determinato vincolo di parentela o da rapporto coniugale, rientra nella cerchia dei legittimari […]»; L. Ferri, Dei legittimari, cit., 22. 80 Afferma, correttamente, M. Bonavita, op. cit., 109, che «i figli [nati fuori del matrimonio] […] possono reclamare i diritti di riserva [scilicet: i diritti derivanti dalla qualità di legittimario] soltanto in presenza di una già intervenuta declaratoria [o, soggiungiamo, allorquando siano stati preventivamente riconosciuti]». 81 Cfr. anche G. Azzariti, Legittimario non erede e azione di riduzione, nota a Cass., 7 aprile 1990, n. 2923, in Giust. civ., 1991, I, 714 ss. (passim). 82 W. d’Avanzo, op. cit., 498; A. Cicu, Le successioni, cit., 273. 83 Cfr. pure M. Bonavita, op. cit., 109 e 124 (nt. 333). 84 Cfr. E. del Prato, La transazione, cit., 71; G. Piazza, op. cit., 1373. 85 Giova asciuttamente sottolineare, per amor di completezza, che una parte – maggioritaria – della dottrina asserisce come i diritti patrimoniali, dipendenti da un determinato status di una persona, possano essere dedotti in transazione. Sul punto, più ampiamente v.: F. Carresi, voce Transazione (diritto vigente), cit., 492 s.; E. Valsecchi, Il giuoco e la scommessa. La transazione, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XXXVII, t. 2, Milano, 1986, II ed., 312 ss.; A. Palazzo, La transazione, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 13, Obbligazioni e contratti, t. V, Torino, 1985, II ed., 297 ss. (spec. 312); E. del Prato, La transazione, cit., 71 ss. (spec. 72).
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di legittimario derivabili dallo status filiationis) che lo stato di figlio gli avrebbe di poi attribuito. Nel primo caso (id est: nel caso di rinunzia all’azione), trattasi di rinunzia ad un diritto indisponibile86, mentre, nel secondo caso, trattasi di un diritto derivante, come detto, dalla qualifica di legittimario, qualifica che nel momento di stipulazione della transazione peccava in capo a Mevio, il quale dunque non ne aveva affatto la disponibilità87: pertanto, essendo incerta la fonte da cui derivano tali diritti88 (nelle more del giudizio Mevio non poteva affatto sapere se, effettivamente, sarebbe di poi stato dichiarato figlio di Sempronio), ed essendo «il loro acquisto [in capo a Mevio] […] condizionato dalla statuizione giudiziale sulla filiazione»89, è evidente come la transazione debba essere considerata nulla (data, inoltre, la chiara connessione inscindibile fra le reciproche concessioni). In questo caso, poi, non può sottacersi il fatto che v’ha un nesso inscindibile fra lo status filiationis e i conseguenti diritti patrimoniali che ne derivano90; questi, in assenza del dichiarato status, non hanno ragione d’essere. In altri e definitivi termini: a nostro credere si può certamente transigere relativamente a diritti di natura patrimoniale (nella specie, diritti ereditari) derivanti da uno status personale (quale è, nella specie, lo stato di figlio), ma solo ed esclusivamente se, nel momento della transazione, tale fonte (id est: lo status), e dunque i correlativi diritti che ne conseguono, sia legalmente esistente91 (ciò che non è, come rilevato, nella fattispecie in commento). Non solo. La rinunzia, a proseguire l’azione mirata alla dichiarazione di un determinato status, pecca del requisito che, in virtù del combinato tra gli artt. 1174, 1322, co. 1, e 1321 c.c., deve necessariamente contenere l’oggetto di un contratto (e indi il contratto di transazione): la patrimonialità, o, meglio, l’essere suscettibile di valutazione economica. Ebbene, è evidente come lo status strettamente inteso non abbia, in sé, tale requisito92. Restando sempre sul tema, si conviene con colui93 che ebbe a menzionare – relativamente ad un caso che, seppur non propriamente collimante col nostro, è comunque facilmente rannodabile ad esso – l’art. 715, co. 1, secondo periodo, c.c., disposizione «ri-
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E. del Prato, La transazione, cit., 71; G. Piazza, op. cit., 1373. Per vero, la stessa Corte con la pronunzia in commento, e già il Giudice del merito, ha correttamente ritenuto i diritti relativi allo status come diritti indisponibili. In giurisprudenza, v. soprattutto quanto icasticamente affermato da Cass., 1 dicembre 1999, n. 13408, cit., cui adde Cass., 5 giugno 1993, n. 6309, in banca dati DeJure. 87 Proviamo, al riguardo, a fare nostra una delle massime richiamate dalla Corte nella pronunzia in epigrafe: «I diritti di legittima, diversamente da quelli inerenti allo status, dopo l’apertura della successione sono pienamente disponibili [così già Cass., 20 gennaio 2009, in Vita not., 2009, 347] [solamente se il soggetto, dei cui diritti si tratta, sia già legittimario in quel preciso momento]. 88 G. Piazza, op. cit., 1375. 89 Così, a piena ragione, G. Piazza, op. cit., 1375. 90 Cass., 24 dicembre 1955, n. 3938, in Giust. civ., 1956, I, 890 (pronunzia, codesta, anche richiamata dal decisum in commento) e, ancóra prima, App. Palermo, 24 marzo 1950, in Giur. sic., 1950, 140. 91 Cfr. G. Piazza, op. cit., 1375. 92 Sul punto, cfr. F. Carresi, voce Transazione (diritto vigente), cit., 492; E. del Prato, La transazione, cit., 71. 93 G. Piazza, op. cit., 1378, il quale, inoltre (ibidem), brillantemente soggiunse: «Né varrebbe obiettare contro la portata di questa disposizione [il secondo periodo del primo comma], che il successivo comma prevede che l’autorità giudiziaria “può tuttavia autorizzare la divisione, fissando le opportune cautele”». Invero, è terso «che altro è disporre da parte di un terzo (l’autorità giudiziaria) garanzie o accantonamenti a favore di “eredi incerti”, ben altro è che questi stessi eredi incerti dispongano in via transattiva di diritti la cui acquisizione per loro è incerta sia nell’an che nel quando».
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chiamata per il nostro caso solo come indicativa di una linea di tendenza del legislatore»94. In particolare, per corroborare l’asserita esclusione della possibilità di transigere su diritti patrimoniali imprescindibilmente collegati al correlativo status da cui deriverebbero, s’invita l’interprete a por mente alla disposizione testé citata, in tema di divisione ereditaria, la quale, a chiare lettere, dichiara come la divisione non possa «aver luogo durante la pendenza di un giudizio sulla filiazione di colui che, in caso di esito favorevole del giudizio, sarebbe chiamato a succedere […]»95: ebbene, è evidente come la ragione sottesa a tale norma coincida appieno con la medesima logica sottostante a quanto fino ad ora sostenuto. Sicché, in definitiva, Mevio avrebbe dovuto attendere l’esito del giudizio di dichiarazione di paternità (id est: l’esito del giudizio sul suo status filiationis), «e poi assumere le iniziative del caso»96. Da ultimo, ma non per rilevanza, giova specificare che quanto posto in essere da Mevio con la rinunzia predetta, oltre ad essere in punto di diritto biasimevole per i succitati motivi, potrebbe essere involto nel più ampio divieto dei patti successori, di cui all’art. 458 c.c.97. Prima di meglio argomentare quanto testé affermato, fin da ora riteniamo doveroso rilevare come ci si stia attenendo alla descrizione della fattispecie fatta dalla Corte, prescindendo dunque da quanto, nel paragrafo seguente98, proveremo a sostenere. Orbene, come già evidenziato, nell’istante in cui Mevio rinunziò all’azione di riduzione ed ai correlati diritti, mediante il contratto di transazione, ancóra non era legittimario: sicché, Mevio è come se avesse rinunziato ad uno «dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta» (art. 458, secondo periodo, c.c.), integrando99, dunque, un patto successorio rinunziativo100. In altri termini: oltre a non aver la disponibilità dei diritti oggetto di abdicazione, Mevio, in quel preciso momento (rectius: «allo stato»101) di stipulazione della transazione, era un mero legatario privo della qualifica di legittimario (stante, si ripete, l’assenza dello status filiationis), per cui è come se la successione necessaria, nei suoi confronti, non si fosse (ancóra) aperta102. Si badi: l’apertura della successione ex art. 456 c.c., a rigore, era già
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Così, G. Piazza, op. cit., 1378. Corsivo da noi aggiunto. 96 Così, G. Piazza, op. cit., 1378, il quale, in definitiva (ivi, 1379), afferma: «La transigibilità dei soli diritti patrimoniali derivanti dallo status […] non mi sembra, allo stato, possibile in quanto la situazione di incertezza relativa alla fonte di tali diritti necessariamente si comunica a questi ultimi e viene ad urtare con principi cardine del diritto successorio. Pertanto, ogni ipotetico accordo transattivo va rinviato all’esito del giudizio sullo status». 97 Prospettazione, questa, mutuata (adattandola al caso in commento) da quanto ebbe a sostenere, relativamente al parere richiestogli, da G. Piazza, op. cit., 1374. 98 § 3. 99 Cfr. G. Piazza, op. cit., 1374. 100 Cfr. D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 872 s.; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 86 s. 101 G. Piazza, op. cit., 1374. 102 Cfr. G. Piazza, op. cit., 1374. Si badi, seppur di passata: la successione si dice aperta, allorquando sia venuto a mancare, per morte, il soggetto dei cui rapporti giuridici trattisi (v. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 50). Apertura della successione, tuttavia, significa solamente che «un complesso di rapporti giuridici e di diritti è rimasto senza titolare. Che, al 95
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avvenuta, posta la dipartita di Sempronio in data anteriore rispetto alla stipulazione del contratto di transazione; ciò nondimeno, quello che intendiamo figurare è che tale apertura non ha prodotto alcun effetto rispetto a Mevio quale legittimario: egli è vocato103 in virtù di testamento104 (quale legatario105), e non già pure in forza di legge (quale legittimario106), per cui la rinunzia all’azione di riduzione, ed ai correlativi diritti ereditari, parrebbe da collocarsi entro il perimetro dell’art. 458 c.c. Nei confronti di Mevio, giova sottolineare, si è aperta anche107 la successione dei legittimari (rectius: è stato altresì vocato ex lege108, in un secondo momento109), ma solamente all’esito del procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità; pertanto, è a partire da questo preciso istante che costui potrà rinunziare ai diritti di legittimario. L’effettiva partecipazione a codesta successione, peraltro, è subordinata all’apposito esperimento dell’azione di riduzione110 (la quale, invero, pare essere stata proposta da Mevio111).
posto di quel titolare, ne debba subentrare un altro, concerne, non più il già titolare (defunto), bensì il nuovo (successore)»: così, a chiare lettere, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 51. V. pure M. d’Amelio, Dell’apertura delle successione, della delazione e dell’acquisto dell’eredità, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 22; A. Cicu, Le successioni, cit., 21; R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, cit., 381; P. Schlesinger, voce Successioni (Diritto civile): parte generale, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 749 e 753 s.; G. Capozzi, op. cit., t. I, 22 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 71. Più in generale, sul concetto di successione, v. R. Nicolò, voce Successione nei diritti, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 605 ss. 103 Su cui v. almeno, in generale, con varietà d’accenti: A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 6 ss.; M. d’Amelio, op. cit., 21 ss.; L. Barassi, op. cit., 35 s.; A. Cicu, Le successioni, cit., 21 ss.; R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, cit., 381-383; C. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali – Successioni legittime, cit., 15 ss.; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 6 ss.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 871 s., 878 e 879; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 50 ss.; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 67 ss.; A. Burdese, op. cit., 68 ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 6 ss.; A. Palazzo, Le successioni, t. I, cit., 190 e 191; G. Bonilini, Concetto, e fondamento, della successione mortis causa, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Milano, 2009, 17 ss.; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 76 e 77; G. Perlingieri, L’acquisto dell’eredità, in AA.VV., Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, I, Napoli, 2013, II ed., 185 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 61; G. Capozzi, op. cit., t. I, 27 ss. 104 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 51; A. Burdese, op. cit., 73 ss. 105 L. Barassi, op. cit., 43. 106 In generale, invero, non v’ha da escludersi la possibile coesistenza di due delazioni (ex testamento e ex lege): «per la quota devoluta ex testamento è sufficiente l’accettazione perché si attui il fenomeno successorio, mentre per l’ulteriore quota cui il chiamato avrebbe diritto come legittimario è necessario, ai fini del verificarsi del fenomeno successorio, l’esperimento utile dell’azione cosiddetta di riduzione […]»: A. Burdese, op. cit., 91; G. Bonilini, Concetto, e fondamento, della successione mortis causa, cit., 19; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 19: «Si può avere concorso necessario di successione legittima e testamentaria, allorché sopravvivano, al testatore, successibili riservatarî, o legittimarî che dir si voglia, e il de cuius non abbia disposto con testamento in loro favore, ma a favore di estranei, o li abbia sì contemplati, epperò in misura differente da quella imperativamente stabilita dalla legge, e i legittimarî agiscano in riduzione». 107 Cfr. C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1952, II ed., 11 e 12. 108 C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1952, II ed., 1. 109 Cfr. D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 878, il quale ammise, a ragione, la possibilità di una vocazione non contemporanea al momento dell’apertura della successione, ma successiva. 110 A. Burdese, op. cit., 91. 111 Sull’esperimento dell’azione di riduzione da parte di un legittimario pretermesso, non erede (cfr. art. 564, co. 1, c.c.), v. almeno G. Capozzi, op. cit., t. I, 541. In giurisprudenza, v. Cass., 3 luglio 2013, n. 16635, in Giust. civ., 2013, I, 1691.
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In definitiva: la rinunzia all’azione per far valere il proprio diritto allo status filiationis, essendo quest’ultimo di natura indisponibile, come detto, non è giammai rinunziabile (e non deducibile in un contratto di transazione112, posto l’art. 1966, co. 2, c.c.), mentre la rinunzia all’azione di riduzione, ed ai diritti ereditari derivanti dal predetto stato di figlio, sono in generale sì rinunziabili, ma solo ove trovi legalmente vita la fonte, ovverosia lo status, da cui germogliano tali diritti: diversamente, essi dovranno essere considerati come diritti indisponibili, e come tali, giusta l’art. 1966, co. 2, c.c., non potranno essere oggetto (mediato)113 del contratto di transazione.
3. Il legato loco legitimae in favore di un figlio “non
legittimario”: possibile riconoscimento (tacito) di figlio nato fuori del matrimonio?
Appurato come un soggetto, privo dello status filiationis, non possa rinunziare all’azione di riduzione, ancorché già deceduto il donante, poiché non può ancóra essere considerato “pieno legittimario”, riteniamo ora necessario focalizzare l’attenzione sul legato loco legitimae (ovverosia il legato in sostituzione, o a tacitazione, o privativo, che dir si voglia114, della legittima) – e sul relativo corollario in punto di (eventuale) riconoscimento implicito di figlio nato fuori del matrimonio – scolpito in seno alla scheda testamentaria redatta da Sempronio. Specificamente, il fatto che quest’ultimo abbia disposto, in favore di Mevio, un legato in sostituzione di legittima, quando Mevio medesimo, in punto di diritto, non era affatto stato riconosciuto, potrebbe far emergere un implicito riconoscimento115
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Cfr. Cass., 15 giugno 2017, n. 14879, cit.; Cass., 5 giugno 1993, n. 6309, cit. Sul punto, soprattutto per opportuni riferimenti bibliografici, ci sia consentito rinviare al nostro Contratto di transazione e patto successorio rinunziativo, cit., 640 ss. 114 A. Cicu, Le successioni, cit., 241; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 529; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 248. 115 Posto che il riconoscimento contenuto in seno ad un testamento, come diremo a breve (v. infra, la nt. successiva), rappresenta una di quelle disposizioni manchevoli di carattere patrimoniale, giova qui, senza dubbio alcuno, por mente alle vibranti parole di V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, Napoli, 2018, 14: «Il concetto di successione a causa di morte non soltanto conquista e attrae a sé le situazioni esistenziali [tra cui v’ha da annoverarvi, giustappunto, il riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio], ma queste ultime assumono anche maggiore importanza rispetto a quelle patrimoniali. In guisa che non sarebbe più plausibile pensare che la successione a causa di morte descriva soltanto il succedere nelle situazioni economico-patrimoniali, ancorché molti istituti del diritto successorio siano esclusivamente funzionali alla regolamentazione di questo profilo». Aggiunge, anche qui con patente brillantezza, l’A. (ivi, 15): «L’espressione “succedere a causa di morte” è, dunque, ellittica: tramite la forma verbale (succedere) s’intende descrivere il complesso delle vicende di rapporti giuridici, esistenziali e patrimoniali, e attraverso il complemento di causa (di morte) precisare che dette vicende di rapporti giuridici si compiono e realizzano in funzione della morte di un soggetto». 113
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fatto da Sempronio per il tramite del testamento116, integrando dunque una disposizione avente anche, e di riflesso, carattere non patrimoniale117.
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Per individuare il carattere, tipico o atipico, della disposizione di riconoscimento incisa nel testamento, a nostro credere è giocoforza effettuare una duplice bipartizione di angoli visuali. Più precisamente, movendo dall’angolo visuale delle disposizioni mortis causa, la disposizione di riconoscimento, non rientrando nelle tipiche figure della istituzione di erede o di legato (giova, al riguardo, richiamare l’insegnamento, di cui qualsivoglia giurista che si occupi del tema non può non esserne memore, di G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, rist. anastatica della Scuola di specializzazione in diritto civile dell’Università di Camerino, a cura di P. Perlingieri, Napoli, 2010, 3, il quale ebbe in maniera ficcante ad indicare, all’inizio della propria Opera, le dichiarazioni testamentarie atipiche come quelle «dichiarazioni testamentarie che, qualunque ne sia il contenuto e la natura, non possono riportarsi alle figure tipiche della istituzione di erede e del legato, nè costituiscono disposizioni accessorie o complementari ad esse», com’è a dirsi, giustappunto, per il riconoscimento di paternità del figlio naturale – rectius, del figlio nato fuori del matrimonio –, dichiarazione, codesta, anche dallo stesso Giampiccolo, ivi, 20 ss., spec. 30-33 s., ma v. anche 10, individuata come una dichiarazione atipica; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 99. Più di recente: V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, cit., 52), è da individuarsi senz’altro come una disposizione a-patrimoniale, atipica; dall’angolo visuale della tipizzazione legislativa, il riconoscimento, ex art. 254 c.c., è tersamente tipizzato (rilevò, a ragione, C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., 33, come il riconoscimento fosse una disposizione di carattere non patrimoniale, «che la legge consente espressamente» che sia contenuta in un testamento). Donde, stante una necessaria interpretazione sistematica (su cui v., almeno, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, Interpretazione sistematica e assiologica. Situazioni soggettive e rapporto giuridico, Napoli, 2006, III ed., 580 ss., cui adde, più in generale, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 99 e 100; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2004, 167 ss.), riteniamo di dover colorare tale dichiarazione, a seconda dell’angolazione da cui si muove, ora di un connotato atipico, ora di un connotato tipico. Di dissimile avviso è V. Barba, Contenuto del testamento e atti di ultima volontà, cit., 53 (ma v. anche 52 e, soprattutto, 106 ss.): «Risulta, dunque, di tutta evidenza, che l’idea di contenuto tipico e atipico del testamento non soltanto è slegata dal concetto di disposizione specificamente regolata dal Codice, o non avente una precisa ed espressa disciplina di legge, dacché nella tipologia delle disposizioni testamentarie c.dd. atipiche, rientrano anche molte disposizioni testamentarie aventi una disciplina particolare (a esempio, riconoscimento di figlio naturale [rectius: di figlio nato fuori del matrimonio] […]) […]». 117 Arg. ex art. 587, cpv., c.c. Sul punto, v.: E. Pacifici-Mazzoni, Il Codice civile italiano commentato. Con la legge romana, le sentenze dei dottori e la giurisprudenza, vol. VII, Trattato delle successioni, III, Torino, 1929, VI, VII e VIII ed. riveduta e corredata della nuova giurisprudenza da G. Venzi, 199; F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, cit., 93 (testo e nt. 1); L. Barassi, op. cit., 255 s.; F. Degni, Delle successioni testamentarie, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 375; L. Cosattini, op. cit., 156; A. Cicu, Le successioni, cit., 285; Id., Riconoscimento di figlio naturale in testamento, in Giur. it., 1951, I, 1, 861, nota a Cass., 3 agosto 1951, n. 2363; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., 27 e 33; C.A. Funaioli, Riconoscimento testamentario di figlio naturale, in Riv. dir. civ., 1958, 480; M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 126; C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, in Comm. Cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro II, t. II, Torino, 1961, 16; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 357; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 97; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 822; Id., Le successioni e le donazioni, cit., 376; U. Majello, op. cit., 90; M. Petrone, voce Riconoscimento del figlio naturale, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 618; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie. Art. 587-600, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1993, 82; G. Bonilini, Il testamento. Lineamenti, Padova, 1995, 22; Id., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 284; Id., Manuale di diritto di famiglia, cit., 348; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 193; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2002, II ed., 615; A. Palazzo, Le successioni, t. II, cit., 626 s.; G.F. Basini, Il riconoscimento di figlio naturale, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 1051 s.; Id., Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, cit., 3590; V. Cuffaro, Il testamento in generale: caratteri e contenuti, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 822; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 262; G. Capozzi, op. cit., t. I, 809 ss. Adde F. Giardini, Testamento e sopravvenienza, Padova, 2003, 206 ss.
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Sul punto, è necessario muovere, anzitutto, dall’art. 254 c.c., il quale, nel prevedere la possibilità che il riconoscimento possa altresì essere compiuto per il tramite di un testamento118 (qualsivoglia sia la forma119 adottata), discorre di «apposita dichiarazione»120. Orbene, tale ultima locuzione, ictu oculi, lascerebbe intendere – a prescindere dalla natura121 che s’intende attribuire all’atto di riconoscimento – che allorquando si voglia riconoscere il proprio figlio nato fuori del matrimonio, si dovrà necessariamente far ricorso ad un’apposita manifestazione che viri nel senso, già detto, del riconoscimento. In altri termini, tale «apposita dichiarazione», stante il tenore letterale122 dell’art. 254 c.c., parrebbe dover essere “espressa”123, vale a dire una specifica dichiarazione che consenta all’interprete di evincere tersamente la volontà di riconoscere da parte del testatore. Ciò, come vedremo a breve, non è, a nostro modesto credere, propriamente corretto124. Maggiormente pacifico, invece, è il fatto che la dichiarazione di riconoscimento debba essere limpida ed inequivocabile125, pur non essendo richieste precise formule sacra-
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Più in generale, su vari aspetti del riconoscimento – del figlio nato fuori del matrimonio – contenuto in un testamento, v.: F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, cit., 92 ss.; L. Cosattini, op. cit., 149 ss.; A. Cicu, Riconoscimento di figlio naturale in testamento, cit., 855 ss.; C.A. Funaioli, op. cit., 476 ss.; M. Petrone, op. cit., 618 e 619; G.F. Basini, Il riconoscimento di figlio naturale, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, cit., 1051 ss.; Id., Il riconoscimento di figlio naturale, in AA.VV., Le disposizioni testamentarie, diretto da G. Bonilini, coordinato da V. Barba, Torino, 2012, 499 ss.; Id., Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, cit., 3587 ss.; G. Capozzi, op. cit., t. I, 810-812; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 347 e 348. 119 Sulla forma dei testamenti, v. almeno: F. Degni, op. cit., 416 ss.; A. Cicu, Il testamento, Milano, 1945, 44 ss.; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, cit., 101 ss.; C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 102 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 119 ss.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1063 ss.; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 823 ss.; L. Bigliazzi Geri, Il testamento, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 6, Successioni, t. II, Torino, 1997, II ed., 162 ss.; A. Palazzo, Le successioni, t. II, cit., 860 ss.; E. Marmocchi, Il testamento in generale: caratteri e contenuti, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 845 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 284 ss.; G. Capozzi, op. cit., t. I, 829 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 331ss. 120 Sul significato di tale locuzione, peraltro, ha discusso, con fecondità di soluzioni, la dottrina, a seconda della natura (dichiarazione di scienza o dichiarazione di volontà) attribuibile all’atto di riconoscimento. Sul punto, è sufficiente qui richiamare quanto descritto da G.F. Basini, Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, cit., 3589. 121 Su cui v., con opinioni proteiformi: F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, cit., 12 ss.; L. Cosattini, op. cit., 37 ss., ma anche 130 ss.; G. Giampiccolo, op. cit., 30 ss.; C.A. Funaioli, op. cit., 476 ss.; M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 95 ss.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 326 (spec. nt. 2) s. e 648 s.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 184 e 185. V. pure, en passant, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. XV, t. II, Torino, 1955, II rist. corretta della II ed., 153 s. Per una generale ricognizione (con appositi riferimenti bibliografici), v.: M. Dogliotti, La filiazione fuori del matrimonio, cit., 207-209; G.F. Basini, Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, cit., 3607 ss. 122 Sull’interpretazione letterale, v. almeno: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, Milano, 1957, IX ed., 97; R. Guastini, op. cit., 144 ss. 123 Del resto, lo stesso cpv., oggi abrogato a séguito della riforma della filiazione, prevedeva come la dichiarazione della volontà – contenuta in un atto pubblico o in un testamento – di legittimare il proprio figlio naturale dovesse essere «espressa». 124 D’altra parte, «mai o quasi mai un enunciato normativo si presenta con un significato univoco e ben definito. Tutti o quasi gli enunciati delle fonti sono equivoci, ossia esprimono potenzialmente non uno, ma più significati alternativi. Tutti o quasi tutti, insomma, si prestano ad una pluralità di interpretazioni»: così, R. Guastini, op. cit., 64. V. altresì G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. I, t. 2, Milano, 1980, 101 ss. 125 L. Cosattini, op. cit., 148; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 348.
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mentali126. Talché è idonea, di per sé, ogni espressione utilizzata127, purché questa non si limiti già ad enunciare l’evento del mero procreamento, bensì consenta di far emergere la volontà di riconoscere128. Nulla osta, dunque, al fatto che il riconoscimento emerga come elemento sottinteso dal genitore, com’è a dirsi nel caso di specie129. Ora, tenuto conto di quanto testé asserito, e attesa la natura del legato in sostituzione di legittima, individuabile come lo strumento alternativo per mezzo del quale il testatore intende soddisfare il legittimario mediante determinati beni o determinate somme di danaro130, «e così tacitare i suoi diritti di legittima»131, non può che individuarsi, perciò, nell’attribuzione effettuata da Sempronio, un riconoscimento tacito132 (o implicito, che dir si voglia) di figlio nato fuori del matrimonio133. In altri termini, nel caso de quo è limpida ed inequivocabile la volontà134 di Sempronio, il quale, per il tramite di siffatto strumento giuridico, ha implicitamente riconosciuto Mevio: difatti, se il diritto alla legittima presuppone, ça va sans dire, la qualità di legittimario, stante il combinato tra gli artt. 551, co. 1, e 536, co. 1, c.c., allora ben può affermarsi come Sempronio abbia implicitamente presupposto la sussistenza, in capo a Mevio, di tale caratteristica (la quale deriva, appunto, dalla qualità – di Mevio medesimo – di figlio nato fuori del matrimonio, caratteristica che il testatore ha patentemente sottinteso)135.
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F. Carresi, Il riconoscimento dei figli naturali, cit., 105; L. Cosattini, op. cit., 150: «[…] occorre che la dichiarazione di paternità o di maternità risulti diretta verso un fine giuridico, non mediante l’impiego di parole tipiche, chè queste non sono necessarie, ma mediante un’indipendenza testuale, la quale dimostri come quella dichiarazione, sebbene contenuta in un documento cumulativo, sia apposita e cioè volta a quel fine»; M. Stella Richter - V. Sgroi, op. cit., 122; U. Majello, op. cit., 84; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 191; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 348. 127 Terso è, come afferma giustamente G.F. Basini, Il riconoscimento di figlio naturale, in AA.VV., Le disposizioni testamentarie, cit., 504 s., che «nella prospettiva della “disposizione testamentaria”, e della corretta formulazione di essa, molto maggiore rilevanza assume l’ipotesi della consapevole dichiarazione di volontà, specificamente indirizzata a porre in essere il riconoscimento». Al riguardo, l’A. (ivi, 505, nt. 27), per migliore intelligenza, figura tale esempio: «“Riconosco in mio figlio il Signor Manrico Trovatore, nato a Biscaglia, il 25 luglio 1984, che fu iscritto nei Registri dello Stato civile del Comune di Biscaglia, col nome e cognome di Manrico Trovatore”». 128 M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 122. 129 La disposizione in oggetto, a noi pare «cosciente e volutamente diretta a costituire quel comportamento che indica la sussistenza della volontà di riconoscere»: L. Cosattini, op. cit., 150. 130 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 529. 131 Così, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1046. V. pure: F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, cit., 300; L. Ferri, Dei legittimari, cit., 125 ss., spec. 129; G. Capozzi, op. cit., t. I, 486 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 190. 132 Lo stesso A. Pino, Diritto di famiglia, cit., 202, brillantemente, colse il vero allorquando ebbe a discorrere di possibile riconoscimento «In forma tacita», il quale «ha luogo con la formazione di atti che lo presuppongono […]». Nel nostro caso, dunque, l’attribuzione di un legato di tal fatta ha senz’altro avuto, come sfondo, la presupposizione, da parte del testatore Sempronio, della qualifica di legittimario in capo a Mevio. 133 Quanto da noi opinato sarebbe presumibilmente avversato, stante quanto traluce dalle importanti pagine del proprio Libro, da L. Cosattini, op. cit., 148 ss. 134 Per la linea dogmatica qui tenuta in tema d’interpretazione della volontà testamentaria, oltreché per la dottrina e la giurisprudenza citate in materia, ci sia consentito rinviare al nostro Legato di usufrutto su cosa parzialmente altrui, comunione indivisa e rilevanza della volontà testamentaria, in questa Rivista, 2019, 96 ss., nota a Trib. Brescia, 1 marzo 2018, cui adde quantomeno, seppur sotto l’egida del Codice Pisanelli, E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VII, 495 ss. Più in generale, in tema d’interpretazione dei negozi giuridici, leggasi, specialmente, l’interessante e icastica Opera stesa da L. Mosco, Principi sulla interpretazione dei negozi giuridici, Napoli, 1952 (quanto ai princìpi dettati in punto d’interpretazione del negozio testamentario, v. spec. 125 ss.). 135 Sul punto, giova senza meno leggere quanto asserito da G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 348: «[…] qualora un soggetto, con testamento, nomini erede una persona, indicandola, esplicitamente, come figlio, la disposizione valga anche come dichiarazione di riconoscimento di figlio, sempre che, beninteso, il chiamato non abbia già lo status di figlio in virtù di un altro atto». Tale brillante
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L’intento empirico di riconoscere, dunque, affiora tersamente dalla disposizione de qua, non rilevando il fatto che il testatore abbia, o no, la consapevolezza degli effetti giuridici derivabili dal riconoscimento medesimo. Ciò che rileva, invero, è la volontà di rendere manifesto il rapporto di filiazione con Mevio136. Il caso di specie, dunque, ci consente di affermare, senza riserva alcuna, come nell’àmbito del riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio prevalga, rispetto alla forma (alias: la formulazione dell’«apposita dichiarazione»), la sostanza della dichiarazione137. Più precisamente, e segnatamente per il caso di riconoscimento avvenuto per il tramite di un testamento138, ogniqualvolta il genitore effettui, come nel nostro caso, una disposizione che presupponga l’esistenza – in capo al figlio non ancóra riconosciuto – dello status filiationis, si deve individuare una sottesa volontà di riconoscere, intessuta quindi di valore effettuale, volontà considerabile come l’apposita dichiarazione richiesta dall’art. 254 c.c., che può dunque, financo, emergere incidentalmente139. Orbene, dopo quanto testé esposto, ricollegandoci alla corretta affermazione della Corte, per la quale è possibile transigere solamente sugli «effetti patrimoniali connessi ad uno status personale», e rannodando tale asserzione al caso de quo come da noi interpretato, non possiamo non rilevare come Mevio ben avrebbe potuto concludere un contratto di transazione relativamente ai propri diritti di legittimario, proprio – e si badi bene: solamente – in virtù di quest’ultima qualifica derivante dall’implicito riconoscimento emergente dal testamento di Sempronio, e non già dalla dichiarazione giudiziale che, come già sovente sottolineato, è intervenuta solo dopo l’intervenuto accordo di transazione: difatti,
asserzione, per certi versi, collima col caso di specie. La sfumatura, che a noi pare rilevare, e che ben può comunque essere ritenuta confacente a quanto affermato dall’A., è rappresenta dall’ipotesi in cui un soggetto preveda, in favore di un figlio non riconosciuto nato fuori del matrimonio, un legato in sostituzione di legittima, ora individuandolo espressamente, nella scheda testamentaria, con la qualifica di figlio, ora individuandolo come mero legittimario, ora, semplicemente, prevendo un legato di tal fatta in suo favore. In tutti questi casi si è in presenza, dunque, di un riconoscimento tacito di figlio nato fuori del matrimonio. 136 A. Cicu, La filiazione, cit., 134. 137 Cfr. anche M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 122. 138 Sul tema, giova richiamare quanto prospettato da M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 122 (nt. 6): «La questione della sufficienza o meno dell’enunciativa sorge in pratica per il riconoscimento testamentario; tipica espressione enunciativa si avrebbe nell’impiego della formula: “lascio l’immobile x al mio Caio”». Orbene, per gli AA., tale enunciativa non sarebbe sufficiente ad individuare una intenzione virante verso il riconoscimento. Sul punto, noi concordiamo. Nondimeno, tale esempio sottolinea l’assoluta mancanza, o comunque l’assoluta non emersione, dalla formulazione della disposizione, di una “volontà” di riconoscere «Caio» come proprio figlio. Ciò che, invece, non è avvenuto nel nostro caso, dacché il prevedere un legato in sostituzione di legittima è elemento determinante la presupposizione, da parte di Sempronio, dell’esistenza, in capo a Mevio, dello status filiationis. 139 M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 122. Rispetto a tali AA., come s’evince da quanto abbiamo appena sostenuto nel testo, ci discostiamo dall’affermazione secondo cui la manifestazione della volontà di riconoscere effettuata incidentalmente (sulla quale, come scritto, noi concordiamo pienamente), «implica l’esigenza dell’uso di una formula esclusivamente o principalmente intesa a porre in essere il riconoscimento […]» (ibidem). Come visto, anche senza una particolare formula, ma con una presupposizione dello status filiationis, il riconoscimento può, a nostro credere, emergere tersamente. Si conviene invece, con tali AA., sul negare l’esistenza di un riconoscimento emergente da «“un semplice aggettivo, che denota l’affetto, una demonstratio” […]» (ibidem); U. Majello, op. cit., 84: «Qualsiasi espressione, che secondo un criterio obiettivo possa essere interpretata come atto di accertamento della filiazione, è idonea a sostanziare un atto di riconoscimento»; G. Ferrando, La filiazione naturale e la legittimazione, cit., 191; E. Carbone, sub art. 254, in AA.VV., Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Della famiglia, a cura di L. Balestra, artt. 177-342 ter, Torino, 2010, 553. Adde L. Cosattini, op. cit., 150.
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Giurisprudenza
allorquando Mevio stipulò tale contratto – si badi, ci preme rimarcarlo, stando all’effettiva realtà del caso di specie così come figurata dalla Corte –, egli non era giammai legittimario, e indi non era legittimato a disporre di tale diritto140 patrimoniale, diritto derivante dal proprio, in quel momento però mancante, status personale (id est: status filiationis)141.
4. Il caso di specie, quale possibile ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza postuma di figli.
Prescindendo, ora, da quanto abbiamo sostenuto nel paragrafo precedente, e facendo esclusivo riferimento alla descrizione giuridica della fattispecie tratteggiata dalla Suprema Corte, riteniamo necessario, per meri fini ermeneutici, porre l’attenzione su una particolare questione giuridica potenzialmente germogliabile dal caso di specie. In particolare, ed indipendentemente da quanto sopra sostenuto142, il fatto che Mevio sia stato, successivamente alla dipartita di Sempronio, dichiarato giudizialmente143 come suo figlio
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D’altra parte, il riconoscimento, così come la dichiarazione giudiziale, consente di «munire di effetti giuridici, lo status di figlio naturale»: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 177. V. anche: R. De Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, cit., 342: «Dalla filiazione […] naturale (purché riconosciuta o dichiarata), […] trae origine tutta una complessa serie di rapporti giuridici tra genitori e figli»; M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 1: «va precisato che non ogni fatto fisiologico di procreazione dà vita ad un rapporto giuridico di filiazione, il quale postula non soltanto l’esistenza fisica dei genitori e del figlio, ma altresì che tale esistenza consti nei modi fissati dalla legge e sia, quindi, idonea alla produzione di conseguenze giuridiche»; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 163; G.F. Basini, Lo stato di figlio, cit., 3355 (v. già supra, la nt. 2). 141 All’uopo, giova richiamare quanto – seppur stringatamente, epperò d’immediato intelletto – sostenuto da P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, cit., 669, per il quale «Figlio legittimo, legittimato, naturale riconoscibile, adottivo sono situazioni distinte, concettualmente autonome dai diritti e doveri che in funzione di tale qualificazione spettano al loro titolare» (corsivo da noi aggiunto). È sì vero, come abbiamo già summentovato, che «Dal rapporto di filiazione germina lo status di figlio» (M. Stella Richter, V. Sgroi, op. cit., 2), e indi dei rispettivi diritti e doveri, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ma è altrettanto vero, si badi, come codesto rapporto debba assurgere a “rapporto rilevante per la legge” (alias: rapporto accertato mediante gli appositi strumenti giuridici previsti dalla medesima): solamente da siffatto momento, intuitivamente, tale status potrà effettivamente acquisire vigore giuridico e riflettere, dunque, i diritti e doveri del figlio. 142 Invero, ove si continuasse, con pertinacia, a tenere in considerazione l’ipotesi formulata nel § 3, non ci porremmo minimamente il problema di una eventuale caducità, giacché il riconoscimento – come detto – è avvenuto nel testamento. Cfr. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 366. 143 La sopravvenienza di figlio, giova rammentare, s’intende in senso giuridico e non già in senso naturalistico: invero, è solamente con l’acquisizione, da parte del figlio, del relativo status filiationis, che potrà, nel caso, attivarsi l’art. 687, co. 1, c.c. Il mero fatto naturale della procreazione, come abbiamo più volte avuto modo di sottolineare, non rileva quasi per niente (si veda, quale eccezione, ad esempio, l’art. 279 c.c., in combinato con l’art. 30 Cost.; peraltro, l’utilità del testé citato art. 279 si è senz’altro ridotta a séguito della modifica, mercé l’art. 1, co. 3, Legge 10 dicembre 2012, n. 219, dell’art. 251 c.c., nonché soprattutto a séguito dell’introduzione, mediante l’art. 35 del Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, del nuovo art. 278 c.c.) per l’ordinamento. In giurisprudenza, v.: Cass., 21 maggio 2019, n. 13680, in banca dati DeJure; Cass., 5 gennaio 2018, n. 169, in Notariato, 2018, 191 (e in Fam. dir., 2018, 550, con nota di E. Bilotti, Testamento, sopravvenienza di figli ulteriori, successivo accertamento giudiziale dello status; in Giur. it., 2019, 53, con nota di C. Cicero, Il fondamento della revocazione testamentaria per sopravvenienza di figli; in Fam. dir., 2019, 295, con nota di F.S. Mattucci, Revoca del testamento per sopravvenienza di figli e dichiarazione giudiziale di paternità o maternità).
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(nato fuori del matrimonio), potrebbe consentirci di affermare, senza tema di smentita144 – soprattutto mercé l’art. 277, co. 1, c.c., che, come visto, equipara gli effetti della dichiarazione giudiziale e del riconoscimento145 –, come le disposizioni testamentarie a titolo universale o particolare146, contenute in seno al testamento pubblico nel quale Sempronio ha incastonato le proprie ultime volontà, possano eventualmente essere suscettibili147, secondo il dettato
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Si badi: là dove Sempronio non avesse disposto proprio di un legato in sostituzione di legittima, e, per esempio, avesse disposto di un semplice legato, l’art. 687, co. 1, c.c., avrebbe trovato la propria realizzazione. Invero, non è, a nostro parere, causa impeditiva all’applicazione di siffatta disposizione il fatto che il testatore fosse consapevole dell’esistenza di un figlio: come già cennato, tale figlio, per l’ordinamento, fintantoché non intervenga apposito riconoscimento o apposita dichiarazione giudiziale, è “inesistente”, onde poco importa che il testatore fosse, o no, a conoscenza della sua esistenza. L’art. 687, co. 1, c.c., discorre di «non aveva», vale a dire: “non aveva alcun figlio che, per l’ordinamento, fosse considerabile come tale”. Anni or sono, un’interessante pronunzia della Corte d’Appello di Catania, del 13 dicembre 1920 (in Giur. it., I, 2, 1921, 173), ebbe attentamente a lumeggiare tale particolarità, affermando – seppur con riferimento alla legittimazione di figlio naturale, ma ciò vale senz’altro, mutatis mutandis, anche per il nostro caso – che è motivo di caducità delle disposizioni testamentarie «il posteriore [rispetto all’apertura della successione] riconoscimento [rectius: dichiarazione giudiziale] e la legittimazione di un figlio naturale la cui esistenza era nota al testatore prima del testamento» (corsivo da noi aggiunto). V. altresì Trib. Caltanissetta, 2 settembre 1950, cit.: «[…] la conoscenza, da parte del testatore, del figlio naturale non riconosciuto non ha rilevanza alcuna, perchè esso non è compreso nella dizione “figli o discendenti” dell’art. 687». Cfr. pure R. Giampetraglia, La revoca testamentaria, in AA.VV., Tratt. breve succ. e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, vol. I, Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, II ed., 1212 s. (testo e nt. 172). 145 A. Guarneri, op. cit., 486 ss.; A. Albanese, Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari, cit., 137. 146 Attesa la qualificazione, che l’art. 687 c.c. pone in essere, delle disposizioni testamentarie suscettibili di caducità, a nostro giudizio quest’ultima inefficacia non travolge punto l’intera scheda testamentaria; segnatamente, sono fatte salve, se contenute nella scheda testamentaria, le disposizioni di carattere non patrimoniale (arg. artt. 687, co. 1, e 587, co. 2, c.c.), quali, a guisa d’esempio, il riconoscimento testamentario di figlio nato fuori del matrimonio (art. 254 c.c.), la designazione del tutore in favore di un minore di età (art. 348, co. 1, c.c.), la designazione, da parte del genitore superstite, dell’amministratore di sostegno (art. 408, co. 1, c.c.), la designazione di un esecutore testamentario (artt. 700 ss. c.c.), le disposizioni aventi ad oggetto i trapianti di organi (art. 4 della Legge 1 aprile 1999), etc. (più profusamente, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 284): sicché, verranno solamente colpite le disposizioni di carattere patrimoniale (id est: le disposizioni che attribuiscono la qualità di erede e di legatario, le quali sono senza meno a carattere necessariamente patrimoniale). Nel caso in cui, nella scheda testamentaria, trovi rifugio anche solo una disposizione a-patrimoniale, si può indi discorrere di inefficacia parziale del testamento. Sul punto, giova richiamare quegli Scrittori (M. Talamanca, op. cit., 226; G. D’Amico, op. cit., 282) che ulteriormente affinano, vale a dire, che in seno alle disposizioni di carattere patrimoniale distinguono fra disposizioni attributive, passibili di caducità, e disposizioni non attributive (come la revoca espressa di un precedente testamento), non passibili di caducità. 147 C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 366; G. D’Amico, voce Revoca delle disposizioni testamentarie, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 281 (nt. 296); A. Palazzo, Le successioni, t. II, cit., 832; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 379. Nella giurisprudenza di legittimità, v.: Cass., 21 maggio 2019, n. 13680, cit.; Cass., 9 marzo 1996, n. 1935, in Giust. civ. Mass., 1996, 324. Nella giurisprudenza di merito, v. almeno Trib. Reggio Emilia, in Il merito, 2007, 40. Già A. Cicu, Il testamento, cit., 211, colse il vero, là dove ritenne applicabile l’art. 687 c.c. per il caso di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità. Per una particolare, epperò degna di nota, interpretazione, si compulsi M. Talamanca, op. cit., 216 s. A noi pare pertanto corretto estendere l’art. 687, co. 1, c.c., financo al caso di figlio sopravvenuto in quanto dichiarato giudizialmente come tale. Se così non fosse, si badi, vi sarebbe un’eccessiva diseguaglianza fra figlio riconosciuto (e dunque “voluto” dal genitore) e figlio giudizialmente dichiarato (si presume, ça va sans dire, “non voluto”). Tutto ciò, a noi pare, è avvalorabile soprattutto nell’ottica di una lettura costituzionalmente orientata, al fine di salvaguardare e realizzare appieno il principio di eguaglianza fra figli, principio tersamente emergente dall’art. 30 Cost. Tale “equiparazione, peraltro, traluce dalla ratio oggettiva rannodabile all’art. 687, co. 1, c.c., come tosto diremo. Sull’importanza della Costituzione, ora nell’interpretazione delle norme di Diritto civile, ora come atto normativo le cui norme (e i princìpi che da esse derivano) devono essere applicate direttamente, da parte dell’interprete, per risolvere il caso concreto, v. le fondamentali pagine di P. Perlingieri, La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., 2007, 2, 497 ss., ora in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, Napoli, 2012, 155 ss., il quale specifica (ivi, 158) che l’«espressione “rilettura degli istituti del diritto civile alla luce della Costituzione”, pur se con una certa dose di ambiguità, intende sottolineare non già che oggetto dell’interpretazione a fini applicativi sia la disposizione ordinaria, regolatrice del singolo istituto, adeguata o conformata alla norma costituzionale, ma che oggetto dell’interpretazione sono le disposizioni di rango ordinario unitamente alle norme costituzionali: le une in funzione delle altre e viceversa, in coordinamento le une e le altre secondo la collaudata tecnica
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normativo, di «revocazione»148 (rectius: di caducità149, dovuta al verificarsi di fatti sopravvenuti, quale la sopravvenienza di un figlio, per i quali, dunque, la legge commina l’inefficacia150
del combinato disposto. Tecnica, questa, volta ad evitare che la Costituzione sia letta e interpretata alla luce della legge ordinaria, in una sorta di bidirezionalità ermeneutica foriera di grosse ambiguità»; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, cit., 535 ss. Adde Id., Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Rass. dir. civ., 1980, 95 ss., ora in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, cit., 171 ss.; Id., Complessità e unitarietà dell’ordinamento giuridico vigente, in Rass. dir. civ., 2005, 188 ss., ora in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, cit., 23 ss., spec. 40, ove l’A. tersamente è ad affermare: «I rapporti tra princípi costituzionali e regole ordinarie statali sono quindi esprimibili non come rapporti tra sistemi normativi, ma quali componenti dell’unitario sistema ordinamentale al quale l’interprete deve sentirsi vincolato. Non si tratta di una complementarietà tra sistemi singoli ma di una coessenzialità strutturale che si risolve in una completa integrazione: sí che ogni norma è norma di uno stesso ed unico sistema». 148 Sul concetto di revoca in generale, seppur risalente, si compulsi l’esemplare Opera di Salv. Romano, La revoca degli atti giuridici privati, Padova, 1935 (cui adde Id., voce Revoca (diritto privato), in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, 808 ss.). Per l’A. (ivi, 6, ma v. anche, ad esempio, 257) la revoca non è altro che «un atto volontario, […] che si contrappone ad un altro precedente atto volontario, l’atto che così resta revocato». Adde: L. Ferri, voce Revoca in generale (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 197 ss.; M. Costanza, voce Revoca, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XVII, Torino, 1998, 443 ss. 149 V.: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 220, per il quale, il caso previsto dall’art. 687 c.c. «è una figura di caducità». Tale revocazione, invero, rilevò a ragione l’A. (ibidem), non è una «revocazione in senso stretto: cioè, volontaria. Questa, infatti, implica […] un’iniziativa del testatore, intesa a revocare la disposizione e una sua volontà espressa, o implicita, di revocare, epperò, richiede la consapevolezza di revocare». Soggiunse l’A. (ibidem): «Invece [nel caso della revocazione di cui all’art. 687 c.c.], siamo dinanzi a una figura, nella quale, si produce, ope legis – ossia, automaticamente (“di diritto”: 687 primo comma) e anche se il testatore non lo sappia – l’inefficacia successiva […] del testamento, per effetto di circostanze sopravvenute, alle quali è estranea ogni previsione e ogni influenza del testatore». Discorrono di caducità, altresì: A. Cicu, Il testamento, cit., 206 e 207; Id., Le successioni, cit., 403; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1094; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 367, il quale chiarisce: «esso [il testamento] è in sé valido, epperò non produce effetti per cause diverse dalla volontà del testatore». Adde R. de Ruggiero - F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, cit., 492, per i quali «Caducità è propriamente la inefficacia d’una disposizione testamentaria per una causa sopraggiunta; trattasi d’un ostacolo che non esisteva, cioè, al momento della confezione del testamento […]»; V. Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano, 1974, 157 e 158; F. Giardini, op. cit., 177 ss. Per un ricognizione sul termine “caducità”, v. specialmente C. Predella, voce Caducità, in Nuovo Dig. it., II, Torino, 1937, 610, ove, ibidem, l’A. ammise, con incisività, la possibilità che la caducità possa manifestarsi, altresì, in seno al recinto dell’àmbito testamentario. Sul punto, giova senz’altro richiamare quanto, con accorta ed innegabile brillantezza, venne tratteggiato da E. Betti, op. cit., 469: «È evidente l’opportunità di valutare e classificare diversamente la mancanza di effetti, secondo che dipenda da deficienza intrinseca o da circostanze estrinseche rispetto al tipo di negozio giuridico per sè considerato: […] valutabili […] le seconde [ovverosia le circostanze estrinseche], normalmente solo a negozio compiuto e perfetto ne’ suoi elementi costitutivi, e tali da dar luogo a una sua caducità». Talché, ben possiamo affermare come siffatta descrizione, in punto di circostanze estrinseche, si confaccia alla principale conseguenza (rectius: caducità) prevista dal nostro art. 687 c.c. Al riguardo, è lo stesso Betti che, qualche pagina dopo (spec. 471), afferma: «Quanto ai limiti sociali che l’autonomia privata deve rispettare nell’interesse delle parti o di terzi […], è da dire che la loro inosservanza – cioè la lesione del diritto di una delle parti o del terzo –, quantunque risalga al fatto della conclusione del negozio in quei dati termini, pure giustifica forme di inefficacia che non hanno nemmeno qui carattere originario, ma sopravvengono col concorso di date condizioni e solo dietro reazione dell’interessato. Prima di questa vi è uno stato di pendenza, non già d’invalidità, durante il quale il negozio ha piena efficacia: soltanto che tale efficacia non ha carattere definitivo, dato che – ove concorrano certe condizioni – non è certo se essa permarrà, o sarà rimossa dalla iniziativa dell’interessato nella misura in cui lo pregiudica. Tale iniziativa, diretta a far constare il fatto oggettivo della lesione e, normalmente, la sua sussistenza o sopravvenienza nel momento in cui essa è presa […], può assumere figure varie: revocazione ([…] cfr. la caducità prevista per le disposizioni testamentarie dall’art. 687 […])» (il corsivo, in questa seconda citazione, è nostro). Ritenne inutile discorrere di “caducità”, M. Talamanca, op. cit., 205 s.: «Si parla da alcuni di caducità del testamento […]. Ma […] non vedo alcun vantaggio, nè d’ordine sistematico, nè d’ordine pratico, ad indentificare questa ulteriore categoria, alla quale, del resto, non si saprebbe riportare alcun altro caso analogo a quello regolato dall’art. in esame [art. 687 c.c.]». L’A. (ivi, 205), comunque, al riguardo, seccamente rannodò la disciplina dell’art. 687 c.c. ad un ipotesi d’inefficacia, originaria o sopravvenuta, del testamento. 150 Sul concetto d’inefficacia, in generale, v. soprattutto: L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, s. l., ma Napoli, s. d., 389 ss.; E. Betti, op. cit., 468 ss.; S. Tondo, voce Invalidità e inefficacia del negozio giuridico, in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, 995 s.; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 489 e 490 s.; R. Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1969, II ed., 400 ss.; V. Scalisi, voce Inefficacia (dir. priv.), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 322 ss.; F. Galgano, op. cit., 356 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 241 s.
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delle disposizioni testamentarie indicate) di diritto151 (o legale152, od ope legis, o ipso iure153, o automatica154, o presunta155, che dir si voglia156) per sopravvenienza postuma di figlio157, ai sensi dell’art. 687, co. 1, c.c.158 (disposizione, codesta, che trova il proprio germe nella ruptio testamenti agnatione posthumi, presente nel diritto romano159). L’applicazione di quest’ultima disposizione, anche per il caso di dichiarazione giudiziale sopravvenuta, può, in punto di diritto, giustificarsi con talune argomentazioni. Anzitutto, potrebbe effettuarsi un’estensione (rectius: un’interpretazione estensiva160) della norma de qua anche all’ipotesi di sopravvenienza di figlio per dichiarazione giudiziale, per il tramite della lettura sistematica che dev’essere posta in essere per tale ipotesi normativa. In entrambi i casi, invero, sussiste l’eadem ratio di “protezione”161: sia che lo status filiationis derivi da riconoscimento, sia che derivi da dichiarazione giudiziale162. Ma v’ha di più. Noi riteniamo che la ratio oggettiva sottesa all’art. 687, co. 1, c.c., consenta all’interprete di mirare l’attenzione verso il piano meramente effettuale, e non già, per così dire, verso l’angolo visuale della sola lettera della legge. In altri termini, nonostante l’art. 687, co. 1, c.c., parli solo di riconoscimento, non può revocarsi in dubbio che la
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S. Pugliatti, Dell’istituzione di erede e dei legati, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 588; A. Cicu, Le successioni, cit., 402; C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 364; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 220; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1094; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 861. 152 E. Pacifici-Mazzoni, Il Codice civile italiano commentato. Con la legge romana, le sentenze dei dottori e la giurisprudenza, vol. VIII, Trattato delle successioni, IV, Torino, 1929, VI, VII e VIII ed. riveduta e corredata della nuova giurisprudenza da G. Venzi, 420; L. Barassi, op. cit., 300; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, Milano, 1952, II ed., 392; A.C. Jemolo, Gli occhiali del giurista, Padova, 1970, 388; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 861; Id., La revocazione delle disposizioni testamentarie, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 6, Successioni, t. II, Torino, 1997, II ed., 316. Contra M. Allara, La revocazione delle disposizioni testamentarie. Anno accademico 1950-51, Torino, s. d., ma 1951, 191, ma v. anche 22 ss. (su codesta Opera, si veda l’interessante saggio di G. Perlingieri, La revocazione delle disposizioni testamentarie e la modernità del pensiero di Mario Allara. Natura della revoca, disciplina applicabile e criterio di incompatibilità oggettiva, in Rass. dir. civ., 2013, 739 ss.). 153 A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 389. 154 A. Cicu, Il testamento, cit., 206; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 367. 155 E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 420; V. Polacco, op. cit., 546. 156 Discorse, invece, di «revoca c.d. tacita», V. Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, cit., 156. 157 Come rileva, a ragione, A. Albanese, Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari, cit., 138, «Quando la legge parla di figli, intende riferirsi a quelli che siano stati volontariamente riconosciuti dal genitore o giudizialmente dichiarati: di conseguenza, anche ai fini della caducazione del testamento, non può assumere rilievo la sopravvenienza o la scoperta dell’esistenza di una filiazione in senso meramente naturalistico e non giuridico». L’A. giunge a codesta conclusione movendo, come noi abbiamo fatto supra (in tema di diritti successori; v. spec. nt. 2 e § 2), dall’art. 573 c.c. 158 A. Palazzo, Le successioni, t. II, cit., 831, rileva come la rubrica dell’art. 687 c.c. sia impropria, giacché la sopravvenienza di figli non è altro che «un fatto dedotto in condizione legale risolutiva che determina l’inefficacia del testamento». 159 fr. 3 pr., e § 1, D., de i. n., XXVIII, 3. 160 Su cui v. R. Guastini, op. cit., 158. 161 Sul punto: Trib. Chiavari, 22 novembre 1966, in Riv. dir. matr., 1967, 333. Adde Trib. Catania, 12 febbraio 2001, in Giur. merito, 2002, 39. Escluse, recisamente, tale “eadem ratio”, M. Talamanca, op. cit., 216 s. 162 Cfr. pure A. Guarneri, op. cit., 488.
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ratio di protezione dei figli consenta all’interprete di estendere questa disposizione anche al caso di dichiarazione giudiziale dello stato di figlio, posta l’equiparazione attuata dalla legge, sempre sul piano effettuale, tra riconoscimento e dichiarazione giudiziale, mediante il dettato del succitato art. 277 c.c. Ciò che si vuole tutelare è, difatti, il figlio, il quale abbia lo status filiationis riconosciuto o dichiarato163. Volendo maggiormente corroborare quanto testé sostenuto, si potrebbe parimenti richiamare, a sostegno appunto dell’applicazione dell’art. 687, co. 1, c.c., anche all’ipotesi di sopravvenienza di figlio per dichiarazione giudiziale, la così detta interpretazione fondata sull’argomento a fortiori, il quale ci consente di affermare, movendo da un terso esempio: «la disposizione D (se F1, allora G) connette la conseguenza giuridica G alla fattispecie F1; ma la fattispecie F2 merita, a maggior ragione, la medesima conseguenza giuridica; dunque la disposizione D deve essere intesa nel senso che la conseguenza G si applichi anche alla fattispecie F2»164, che nonostante il legislatore non abbia espressamente previsto, quale ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie, la sopravvenienza di un figlio dichiarato giudizialmente come tale, siffatta conseguenza è a maggior ragione (a fortiori) applicabile a quest’ultimo caso, posta l’identità d’effetto, come già asserito (giusta l’art. 277, co. 1, c.c.), fra il riconoscimento e la dichiarazione giudiziale. Ancóra, e forse più semplicemente, in specie per coloro che intendono evitare di addentrarsi in questioni giuridiche che potrebbero fuorviare, a noi pare che la caducità delle disposizioni testamentarie, ex art. 687 c.c., possa trovare vita anche per l’ipotesi di dichiarazione giudiziale, poiché è lo stesso dettato normativo – unitamente al principio di generale eguaglianza fra i figli nati in costanza di matrimonio e i figli nati al di fuori di esso, oggidì affiorante dall’intero Libro I del Codice civile, oltreché, e soprattutto, dall’art. 30 Cost. – che ci consente di propendere per questa soluzione. Difatti, ove al primo comma della disposizione de qua si discorre di «sopravvenienza di un figlio», nulla più si specifica, consentendo, tale genericità, di ricomprendere in seno a tale locuzione qualsiasi sopravvenienza di figlio, e dunque financo il figlio dichiarato come tale a séguito di procedimento giudiziale ex art. 269 c.c. Talché, data la genericità della locuzione «sopravvenienza di un figlio», a nostro sommesso giudizio è quasi superflua la specificazione che il legislatore ha effettuato, lì ove, al primo comma dell’art. 687 c.c., si è premurato d’indicare come la sopravvenienza possa altresì essere considerata come tale ove vi sia adozione, ovvero riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio.
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A. Guarneri, op. cit., 486 ss., il quale (ivi, 491), con icastiche e succinte parole, così concluse: «Un simile atteggiamento [alias: l’atteggiamento, richiamato dall’A., del Tribunale di Mantova, il quale escluse l’applicazione dell’art. 687 c.c. per il caso di dichiarazione giudiziale, movendo dalla considerazione per cui solamente il riconoscimento ex art. 250 c.c., e dunque la volontà del genitore (nella specie, anche testatore), potesse integrare la sanatoria della precedente ignoranza del de cuius, circa l’esistenza di figli] appare […] del tutto superato, laddove si ritenga […] che ratio della regola in questione sia non già una volontà presunta del testatore, ma piuttosto la tutela delle ragioni dei figli». In giurisprudenza (ora di merito, ora di legittimità), v. almeno: Trib. Chiavari, 22 novembre 1966, cit.; Cass., 9 marzo 1996, n. 1935, cit. 164 Esempio, codesto, autorevolmente figurato da R. Guastini, op. cit., 162. Più in generale, v. pure F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 100.
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Ci preme specificare, inoltre, come l’astratta applicabilità, al caso di specie, dell’art. 687 c.c., non sia affatto preclusa dal fatto che la dichiarazione giudiziale sia intervenuta postuma, ovverosia dopo la dipartita di Sempronio, giacché lo stesso art. 687 c.c., al suo primo comma, individua, quale possibile ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie, «la sopravvenienza di un figlio […] del testatore, benché postumo». Sicché, atteso tale dato letterale ineludibile165, attesa la ratio oggettiva posta a fondamento della norma, e attesa la – in linea generale – eguaglianza fra figli nati in seno al matrimonio e figli nati al di fuori di esso, ben si può affermare che anche per il caso di dichiarazione giudiziale postuma, la caducità, come detto, può astrattamente essere integrata166. La caducità delle disposizioni testamentarie si attiverebbe167, dunque, in questo caso,
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«Imperciocché sotto tale riguardo, [aggiungiamo: il figlio sopravvenuto per dichiarazione giudiziale intervenuta dopo la morte del de cuius] deve essere pareggiato ad un postumo»: così, E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 430, circa l’equiparazione fra «legittimazione di figlio naturale, fatta dal de cuius o per susseguente matrimonio o per decreto reale dopo il testamento» e legittimazione di figlio naturale avvenuta dopo la morte del testatore (ai sensi dell’art. 199, co. 1, c.c. del 1865). Ovviamente, in tal caso prescindiamo dalla legittimazione, istituto oggi non più in vigore; semplicemente, ci preme qui sottolineare come anche l’A. abbia preso le mosse dal dettato letterale dell’allora art. 888 del c.c. del 1865, il quale, similmente al nostro art. 687, co. 1, c.c., recitava: «Le disposizioni a titolo universale o particolare fatte da chi al tempo del testamento non aveva od ignorava di avere figli o discendenti, sono rivocate di diritto per l’esistenza o la sopravvegnenza di un figlio o discendente legittimo del testatore, benchè postumo o legittimato o adottivo […]» (corsivo da noi aggiunto). Talché, a nostro sommesso giudizio, la dichiarazione giudiziale, avvenuta dopo la morte del testatore, è da annoverarsi in seno alla «sopravvenienza di un figlio», “quantunque postumo”, indicata dal primo comma dell’art. 687 c.c. 166 Cfr., più di recente, con incisività di termini, Cass., 21 maggio 2019, n. 13680, cit. 167 Attivazione, che avviene senza alcuna domanda giudiziale degli interessati: v. almeno E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 431. Si badi: la caducità per sopravvenienza di figli, ex art. 687, co. 1, c.c., a nostro opinare può bensì trovare ragione anche allorquando il testatore, al momento della stesura del proprio testamento, abbia già uno o più figli aventi il relativo status legalmente accertato, e, successivamente, ne sopravvenga un altro. Tale considerazione – cozzante avverso quel filone di pensiero (v. infra, in questa nt., “Contra”) che ritiene che tale caducità trovi la propria ratio solo ove il testatore non abbia nessun figlio al tempo della testamenti factio, mentre, ove ne abbia già, agli eventuali figli sopravvenuti la protezione verrebbe invece garantita solamente dalle norme poste a tutela dei legittimari – trova appoggio, in primis, dal dato letterale, la cui portata non osta certo ad un’affermazione di tal fatta, e, in secundis, dal fatto che se ai figli sopravvenuti fosse garantita protezione dalle norme scolpite in seno al Libro II, in tema di protezione dei legittimari, allora perderebbe proprio ragione l’intero art. 687 c.c. (proprio in virtù delle norme scolpite a tutela dei legittimari, noi, già supra nel testo, abbiamo ritenuto “pleonastica” la ratio sottesa all’art. 687 c.c. Ciò nondimeno, tale disposizione, essendo esistente, va tenuta dall’interprete in debito conto. Le disposizioni previste a tutela dei legittimari, pertanto, potrebbero trovare applicazione qualora, ad esempio, si verificasse la fattispecie di cui al co. 3 dell’art. 687 c.c.: v. P. Micheli, Caducità delle disposizioni testamentarie in qualsiasi caso di sopravvenienza di figli o discendenti preteriti, in Riv. not., 1947, I, 399) e si verrebbe a creare un’evidente differenza di protezione tra coloro che siano sopravvenuti al testatore che non avesse alcun figlio, e coloro che siano sopravvenuti al testatore che già avesse figli, legalmente tali. La ratio di protezione dei figli, dunque, in questo caso verrebbe senz’altro meno. Peraltro, a rigore, anche chi dovesse sopravvenire al testatore privo di figli al tempo della redazione del testamento, potrebbe ottenere protezione dalle norme previste in favore dei legittimari, risultando, pertanto, quasi superfluo l’art. 687, co. 1, c.c. Sull’assimilazione, dunque, tra l’ipotesi d’inesistenza di alcun figlio (o all’ignoranza in merito) e l’ipotesi d’inesistenza (o ignoranza) di «altri figli», col presupposto, però, che uno o più figli esistessero già, «Sembra che non vi sia ragione valida, che osti a tale assimilazione, se fondamento dell’istituto è la tutela dei figli in genere, pretermessi. Che non siano stati trascurati taluni, non deve impedire di considerare degni di tutela, gli altri: i pretermessi, o perchè inesistenti al tempo del testamento, o perchè ignorati a quel tempo»: così, con la sua solita e inconfondibile brillantezza intellettuale, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 221. Si figuri, ora, tale esempio: Calpurnio, senza nessun figlio, redisse testamento. Dopo la sua morte, Seio veniva giudizialmente dichiarato come figlio, nato fuori del matrimonio, di Calpurnio: in tal caso, è pacifica l’applicazione dell’art. 687 c.c. Si figuri, ora, questo ulteriore esempio: Calpurnio, nel momento di stesura del proprio testamento, aveva un figlio, Caio, nato in costanza di matrimonio. Dopo la morte del testatore, Mevietto, figlio mai riconosciuto e nato da relazione extraconiugale di Calpurnio, veniva giudizialmente dichiarato figlio di quest’ultimo. Orbene, in questo caso, a rigore, non potrebbe trovare applicazione, in favore di Mevietto, la caducità di cui all’art. 687 c.c.: posta la ratio oggettiva dell’art. 687 c.c. – di protezione dei figli – siffatta evidente differenza di trattamento, a nostro opinare, non può avere ragion d’essere; ragion per cui, come sostenuto, la caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza di figli potrà trovare applicazione anche nel caso in cui il testatore, nel momento della testamenti factio, già avesse figli, legalmente
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Giurisprudenza
per dare piena attuazione alle ragioni (nella specie, successorie) del figlio168: la ratio principale, oggettiva, sottesa alla norma, è quindi quella di tutelare i figli169 (si pensi, difatti, al
considerati come tali. V. anche: A. Cicu, Le successioni, cit., 404, il quale ebbe a dire: «Il fatto che la legge parla di figli al plurale non implica necessariamente che sia presupposto che il testatore non avesse alcun figlio. Supponiamo di fatti che il legislatore avesse voluto ricomprendere ogni caso di figlio sopravvenuto: avrebbe potuto egualmente usare il plurale dicendo “che non aveva figli che sono poi sopravvenuti”. Invece, volendo chiaramente restringere la norma al caso di chi non ha ancora avuto figlio o non ne ha, sarebbe stato facile dire: “che non aveva nessun figlio”. Nè argomento può trarsi dal fatto che poi si parla di sopravvenienza di un figlio, perchè basta uno per far cadere il testamento. Comunque, quando anche fosse certo che la lettera riguarda il caso di chi non aveva nessun figlio, non è perciò detto che la norma non possa avere applicazione estensiva. […] [sul punto, per altre considerazioni del Cicu – considerazioni mosse sia dalla succitata ratio soggettiva, sia dalla succitata ratio oggettiva –, si rimanda il lettore, per esigenze di economia espositiva, alle pagine 404 ss.]. Contro l’opinione dominante riteniamo perciò che la norma debba applicarsi ad ogni caso di sopravvenienza o esistenza di figli ignorati. Ci pare che un argomento a favore di questa tesi possa trarsi, nel nuovo Codice, dalla innovazione in esso introdotta, per cui anche il riconoscimento, posteriore al testamento, di un figlio naturale, determini caducità […]»; P. Micheli, op. cit., 398 s. (il quale, ivi 398, fra gli altri motivi, richiamò anche «l’uguaglianza dei figli nei riguardi dei genitori»); C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 380. Per una particolare lettura, v. M. Talamanca, op. cit., 210 ss. In giurisprudenza, v.: Cass., 21 maggio 2019, n. 13680, cit.; Cass., 1 marzo 2011, n. 5037, in Foro it., 2011, I, 2776; Cass., 9 marzo 1996, n. 1935, cit. Contra: E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 428; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 400 e 401, il quale, tuttavia, alla pagina 401, sostenne come l’esclusione della revoca, per il caso in cui già esistessero figli (considerabili come tali per la legge o comunque dal testatore non ignorati) al tempo della testamenti factio e ne fossero sopravvenuti altri dopo la stesura del testamento, non sia «razionalmente giustificabile». A sostegno di ciò (ivi, v. 401), l’A. richiamò, ancóra una volta, la presunta volontà del testatore; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 560; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 861; Id., Le successioni e le donazioni, cit., 600; G. D’Amico, voce Revoca delle disposizioni testamentarie, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 280 (v. pure nt. 292); A. Albanese, Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari, cit., 130 ss. In giurisprudenza, v., seppur risalente, App. Napoli, 20 agosto 1951, in Foro it., 1952, I, 541, e, più di recente, Cass., 28 luglio 2017, n. 18893, in Foro it., 2017, I, 3340 (e in Fam. dir., 2018, 547, con nota di E. Bilotti, Testamento, sopravvenienza di figli ulteriori, successivo accertamento giudiziale dello status). 168 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 220. 169 L. Barassi, op. cit., 300 s.; A. Cicu, Il testamento, cit., 207 s.; Id., Le successioni, cit., 402 ss.; P. Micheli, op. cit., 397; G. Cassisa, Appunti sulla revocazione delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza di figli. (Nozione dei figli non esistenti o ignorati dal testatore al tempo del testamento), in Giust. civ., 1961, I, 769, nota a Cass., 18 marzo 1961, n. 612; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 220 e 221; A. Guarneri, op. cit., 488; G. D’Amico, op. cit., 284 s.: «La verità è che il fondamento politico-legislativo dell’art. 687 c.c. […] va ravvisato esclusivamente nella volontà del legislatore di fornire una rafforzata tutela agli interessi successori dei figli […], a discapito non solo degli interessi successori di soggetti estranei al nucleo familiare, ma altresì di soggetti che di questo nucleo fanno parte (e, magari, in posizione di eguale “vicinanza” rispetto al de cuius: si pensi al coniuge)»; R. Giampetraglia, op. cit., 1212; G. Perlingieri, La revocazione delle disposizioni testamentarie e la modernità del pensiero di Mario Allara. Natura della revoca, disciplina applicabile e criterio di incompatibilità oggettiva, cit., 744, il quale, brillantemente, rileva «Che il fine essenziale, nella fattispecie disciplinata dall’art. 687 c.c., sia non già la volontà presunta del testatore, ma la solidarietà familiare e, in particolare, la tutela dei figli trova conferma nella circostanza che la revocazione per sopravvenienza di figli non si applica se i figli sono indegni, assenti o rinunzianti ed invece opera sia nell’ipotesi di riconoscimento giudiziale [rectius: dichiarazione giudiziale], e non volontario, del figlio nato fuori del matrimonio, ancorché il genitore in vita abbia avuto contezza dell’esistenza del figlio, sia nel caso di figlio successivamente riconosciuto anche se già esistente al momento del testamento e conosciuto dal testatore. Giova ricordare, infatti, che la libertà di testare deve essere tenuta in debita considerazione con la consapevolezza, tuttavia, che non è da considerare un valore assoluto, ma relativo, in quanto le regole poste a salvaguardia della reale, spontanea ed effettiva volontà del de cuius, devono comunque essere contemperate con gli interessi di volta in volta toccati dalla singola disposizione testamentaria, nonché, ad esempio, con il principio di solidarietà familiare sotteso alla posizione dei legittimari […]»; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 367. Ad opinione di L. Barassi, op. cit., 301, l’art. 687 c.c. è stato previsto per tutelare «direttamente i diritti della famiglia». V. altresì G. Capozzi, op. cit., t. II, 1001, il quale rannoda la ratio della disposizione de qua, ora alla presunta volontà del testatore, ora allo «scopo di tutelare gli interessi della famiglia». In giurisprudenza (ora di merito, ora di legittimità), v.: Cass., 5 gennaio 2018, n. 169, cit.; Trib. Chiavari, 22 novembre 1966, in Giust. civ., 1961, I, 767, con nota di G. Cassisa, op. cit.; Cass., 18 marzo 1961, n. 612, cit.; Cass., 6 ottobre 1954, n. 3298, in Giust. civ., 1954, I, 222; App. Napoli, 20 agosto 1951, cit. Seppur asciuttamente, ci preme qui sottolineare la diversità, riscontrata nella più autorevole giurisprudenza, delle fondamenta (e indi di ratio sottesa all’istituto) fra la norma albergata nell’art. 687 c.c. e quella, per certi versi analoga, di cui all’art. 803 c.c. Invero, come ebbe a dire Corte cost., 3 luglio 2000, n. 250, in Giust. civ., 2000, I, 2513: «La revocazione della donazione ex art. 803 c.c. trova fondamento nell’esigenza di consentire al donante una rivalutazione della perdurante opportunità della donazione stessa in seguito al fatto sopravvenuto della nascita di figli o discendenti, ovvero della conoscenza della loro esistenza. Sulla base di una valutazione legale tipica d’un particolare fatto, potenzialmente idoneo
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terzo e al quarto comma dello stesso art. 687 c.c.)170.
– anche secondo il comune sentire – ad incidere sullo spirito di liberalità manifestatosi nell’atto di donazione posto in essere quando il donante non aveva figli o non sapeva di averli, è stato a lui concesso di riconsiderare appunto la perdurante opportunità di tale atto, alla stregua della nuova situazione familiare venutasi a creare. La revocazione consegue solo a concreto esercizio del diritto potestativo attribuito dalla norma al donante, il quale è arbitro di decidere se esercitarla, così come, una volta che l’atto sia stato revocato, è libero di disporre a piacimento dei beni rientrati nel suo patrimonio». Dopo tutto ciò, e come corollario, la Corte soggiunse che è da escludere «che l’istituto in esame sia approntato ad immediata garanzia degli interessi dei figli sopravvenuti o, più genericamente, degli interessi familiari»; ciò nondimeno, ma è un’ipotesi considerata marginale dalla Corte, «Nel contempo, non può negarsi che, potenzialmente, i conseguenti effetti patrimoniali si ripercuotono sulla posizione dei figli o dei discendenti, la cui tutela, dunque, è pur sempre da considerare immanente alle finalità della norma». Sulla stessa scia della Corte, anni dopo, v. eziandìo Cass., 4 maggio 2012, n. 6761, in Giust. civ., 2012, I, 1420 (e in Riv. not., 2012, II, 914, con nota di G. Musolino, La revoca della donazione per sopravvenienza di figli; in Vita not., 2012, 1380; in Foro it., 2013, I, 622; in Rass. dir. civ., 2015, 230, con nota di P. Virgadamo, La revocazione della donazione per sopravvenienza di un figlio adottivo maggiorenne: per un’interpretazione assiologico-sistematica dell’art. 803 c.c. alla luce della riforma della filiazione), la quale ebbe ad asserire, richiamando la pronunzia della Corte costituzionale testé citata, come l’istituto della revocazione per sopravvenienza di figli risponda «all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione già disposta a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio o della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza». Ma v’ha di più. La Corte adduce, come ulteriore motivazione – sempre considerando, dunque, il lato del donante –, che «Tale esigenza [di consentire, come detto, al donante di riconsiderare, eventualmente, la donazione] si pone in quanto con l’instaurazione di un nuovo rapporto di filiazione sorgono in capo al genitore donante nuovi doveri di mantenimento, istruzione ed educazione per il cui adempimento egli deve poter disporre di mezzi adeguati. Proprio a tal fine il legislatore consente al donante di valutare se per la sopravvenienza di figli e per l’adempimento dei menzionati doveri sia necessario recuperare le precedenti attribuzioni patrimoniali. In sostanza l’interesse tutelato dal legislatore attraverso l’istituto della revocazione della donazione per sopravvenienza di figli è quello di consentire al genitore donante di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli». Adde Cass., 1 marzo 1994, n. 2031, in Riv not., 1995, II, 250, con nota di F. Cilluffo, Nota a Cass. n. 2031 del 1994. A nostro sommesso parere, senza pretesa di completezza né di verità, forse la ratio di cui all’art. 803 c.c. è da rintracciarsi tanto nell’interesse del padre donante (come evincesi dalle pronunzie testé riportate), quanto del figlio. Ove il padre decidesse, sussistendone i requisiti di cui all’art. 803 c.c., di revocare la donazione, è fuor di dubbio che ne potrebbe altresì, e soprattutto, beneficiare anche il figlio sopravvenuto, in punto di eventuale mantenimento, istruzione, educazione, etc., oltre al fatto che lo stesso padre potrebbe, eventualmente, (ri)donare, in favore, questa volta, del sopraggiunto figlio. Già A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 551 (nt. 1), seppur in termini più generali, ebbe ad individuare questo duplice fondamento. Sulla specifica ratio di protezione dei figli, v. G. Capozzi, op. cit., t. II, 1628 s.: «L’istituto […] trova la sua giustificazione non in una presunta volontà del donante […], ma nella rilevanza dell’affetto paterno [specificazione, codesta, fuorviante, giacché la disposizione ben potrebbe trovare applicazione anche qualora il donante fosse la madre] e, soprattutto, nella tutela dell’interesse superiore della famiglia; più specificamente, dell’interesse dei figli, indipendentemente dai loro diritti successori, tutelati dagli istituti della riduzione e della collazione». Più in generale, per un’analisi dell’art. 803 c.c., che qui, per ragioni di economia espositiva e coerenza sistematica (tale disposizione, invero, attesa la ratio e il funzionamento che la connaturano, non può qui essere richiamata per avvalorare quanto detto, e quanto si dirà infra, in tema di revocazione delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza di figli), non può effettuarsi, vedansi: A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 551 e 552; F. Maroi, Delle donazioni, in AA.VV., Codice civile. Libro delle Successioni per causa di morte e delle Donazioni. Commentario, a cura di A. Azara, M. d’Amelio, W. d’Avanzo, F. Degni, P. d’Onofrio, E. Eula, C. Grassetti, A. Manca, F. Maroi, S. Pugliatti, G. Russo, F. Santoro-Passarelli, diretto da M. d’Amelio, Firenze, 1941, 788 e 789 s.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. IV, Milano, 1954, VIII ed., 39 e 40, spec. 30, ove l’A., col solito acume, colse il vero ove affermò «La revocabilità della donazione per sopravvenienza, o ignorata esistenza, di discendenti presenta un’evidente affinità con il parallelo istituto della revoca del testamento per la medesima causa […]. Ma sussistono anche differenze. La più notevole è questa: la revocabilità della donazione suppone l’iniziativa del donante (ma di lui solo); la revoca del testamento, di cui all’art. 687, ha luogo ope legis; per il che, il primo è un vero e proprio caso di revocazione, mentre il secondo è un caso di caducità […]. Diversi in parte sono, poi, i presupposti nelle due figure […]»; R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. II, Diritti di obbligazione e contratti. Tutela dei diritti, Milano-Messina, 1955, VIII ed., 428 s.; B. Biondi, voce Donazione (diritto civile), in Noviss. Dig. it., VI, Torino, 1960, 253; C. Giannattasio, Delle successioni. Divisione – Donazione, in Comm. Cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro II, t. III, Torino, 1964, 327-329; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 721; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 872-876; A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2006, II ed. agg. a cura di U. Carnevali e A. Mora, 692 ss.; T. Bonamini, sub art. 803, in AA.VV., Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Delle donazioni. Artt. 769-809, a cura di G. Bonilini, Torino, 2014, 548 ss.; G. Capozzi, op. cit., t. II, 1628 e 1629 s.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 498 e 499 s.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, XIX ed., 554. 170 Per vero, atteso il quarto comma, nel caso in cui i figli non addivengano alla successione, e non si faccia luogo a rappresentazione,
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Fra le altre171, v’è poi un’altra possibile ratio172, questa volta di natura soggettiva173, forse maggiormente aderente all’art. 888 del Codice Pisanelli174 – ma, stante la quasi identità di formula rispetto all’odierno art. 687 c.c.175, comunque ancóra rannodabile, da parte di taluni176, a quest’ultima disposizione –, vale a dire quella ragione fondata sulla presunzione
«la disposizione ha il suo effetto»: orbene, è evidente come siffatta disposizione consenta, vieppiù, di avvalorare la ratio oggettiva di protezione dei figli; senza il loro “venire alla successione”, infatti, non ha più ragion d’essere la tutela della prole, e indi la caducità di cui all’art. 687, co 1, c.c. Sul punto, cfr. L. Barassi, op. cit., 301; A. Cicu, Il testamento, cit., 211. Inoltre, ci permette di opinare per la ratio di protezione dei figli, anche, e soprattutto, il terzo comma dell’art. 687 c.c.; enunciato normativo, codesto, chiaramente indirizzato alla salvaguardia, in ottica specialmente patrimoniale, dei figli sopravvenuti. 171 Per una stringata, epperò senza dubbio esaustiva, panoramica delle altre “ragioni”, v. G. D’Amico, op. cit., 282 ss. Su particolari ragioni, poste a fondamento dell’art. 687 c.c., v.: M. Segni, Per un’estensione delle ipotesi di caducità delle disposizioni testamentarie e del mandato, in Riv. dir. civ., 1971, 88 ss., spec. 88 e 94, il quale individuò, come fondamento della disposizione de qua – sempre nell’ottica, si badi, della presunta volontà del testatore (infatti, v. ivi il prosieguo della nt. 36, a pagina 95) –, «la sopravvenuta mancanza del motivo, e cioè il mutamento della situazione che costituisce il presupposto della valutazione compiuta dal testatore all’atto della redazione del testamento» (il corsivo è nostro); F. Giardini, op. cit., 177 ss.; R. Calvo, La revocazione delle disposizioni testamentarie, in AA.VV., Diritto delle successioni e delle donazioni, a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, II, Napoli, 2015, II ed., 1297 ss. 172 Ragione, questa, secondaria e non avvalorabile. Invero, si pensi al fatto che l’art. 687, co. 1, c.c., come già visto, ammette altresì la revoca per sopravvenienza di un figlio postumo (com’è a dirsi nel nostro caso): tale evento, che secondo la ratio in questione sarebbe giustificativo della eventuale modifica del testamento da parte del testatore, si verifica allorquando una modifica, in tal senso, non sia più possibile, giacché il testatore, è sin ovvio rilevare, è già deceduto. Pertanto, a nostro sommesso giudizio, non troverebbe qui respiro alcuno la ratio soggettiva, posto che, appunto, la presunta volontà del testatore, nel caso, sarebbe priva di qualsivoglia rilievo. Sul punto, v. Cass., 9 marzo 1996, n. 1935, cit. 173 Per una disamina della tesi soggettiva, v. A. Albanese, Della revocazione delle disposizioni testamentarie. Delle sostituzioni. Degli esecutori testamentari, cit., 140 ss. 174 E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 424: «Motivo della rivocazione è, senza dubbio, la presunzione che la legge desume dal sentimento e dal dovere del testatore verso i suoi figli e discendenti: essa ritiene che questi non avrebbe disposto dei suoi averi a favore di altri, ove avesse saputo di aver figli o discendenti, o avesse preveduto che gli sarebbero sopravvenuti. E ciò ritiene, perocchè e il sentimento e il dovere inducono, anzi quasi forzano i genitori e gli altri ascendenti a lasciare i loro averi ai propri figli e discendenti. Ondechè la coscienza pubblica riprova quasi sempre quei genitori o ascendenti che nelle elargizioni dei loro beni preferiscono ai loro figli e discendenti persone estranee o congiunti meno intimi; perciocchè questo loro fatto contraddice ai più potenti e santi affetti del cuore umano, e appalesa che il testatore disconobbe i suoi morali doveri verso la famiglia, o peggio, che ebbe il proposito di non adempierli a perfezione»; V. Polacco, op. cit., 546 ss. 175 In questo senso, v. già C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 393. 176 Amplius, sul punto, v. C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 395 ss. (il quale, nondimeno, non escluse, seppur considerandola residuale, la ratio oggettiva: «Con quanto si è detto non si è voluto certamente escludere che la norma dell’art. 687 abbia anche lo scopo di tutelare l’interesse dei figli o ulteriori discendenti, ma questo scopo, secondo me, non basta a spiegare il fondamento della norma»: ivi, 398). V. pure: C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 365, per il quale, la ratio è individuabile in una «presunzione iuris et de jure», per cui il testatore, nel caso in cui «avesse saputo di avere figli o avesse preveduto che gliene sarebbero venuti (si nascituros filios cogitasset)», «avrebbe diversamente disposto»; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 560; M. Segni, op. cit., 95, prosieguo della nt. 36; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 861; Id., Le successioni e le donazioni, cit., 600 e 601; C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, cit., 379; G. Capozzi, op. cit., t. II, 999. In giurisprudenza, v. specialmente: Cass., 29 gennaio 1970, n. 187, in Giust. civ., 1970, I, 704; App. Napoli, 12 agosto 1953, in Foro it., 1954, I, 640; Trib. Caltanissetta, 2 settembre 1950, cit. Per una particolare lettura, mossa soprattutto dall’idea che il Codice, con tale disposizione normativa, parli il «linguaggio dell’amore paterno» (si badi: non si comprende appieno il perché l’A. abbia fatto solo riferimento all’«amore paterno», e non anche all’“amore materno”, dacché l’art. 269 c.c. prevede come anche la maternità possa essere giudizialmente dichiarata), v. G. Azzariti, La revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., 317 (ad ogni buon conto, l’A., come poc’anzi indicato, trae il proprio credere dall’idea che la norma tuteli, primieramente, la presunta volontà del testatore); Id., In tema di revocazione di testamento per sopravvenienza di figli, cit., 379. Particolare fu l’opinione di M. Allara, op. cit., 193, il quale individuò la ratio della norma nella «volizione iniziale del testatore (quella che sta a base della disposizione testamentaria) come volizione che si è formata sul presupposto di una determinata situazione famigliare considerata nel momento dell’apertura della successione». Per talune particolari prospettazioni, vedansi M.C. Tatarano, Il testamento, Tratt. dir. civ. del Consiglio nazionale del Notariato, VIII, 4, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2004, 531 e F. Gazzoni, Una sentenza con “motivazione suicida” da inumare (figlio naturale dichiarato, cadavere esumato e testamento revocato), cit., 1856 e 1857.
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per la quale il testatore, posto l’id quod plerumque accidit, ove avesse avuto o non avesse ignorato di avere, al tempo della testamenti factio, figli, o avesse preveduto la possibilità di averli successivamente, non avrebbe disposto così come ha disposto per il tramite del negozio testamentario. La ratio di protezione dei figli, nonostante per noi rimanga, in ogni caso, la primaria ragione sottesa all’art. 687 c.c.177, pare comunque un poco pleonastica, allorquando si pensi alle norme dettate dal codificatore in tema di tutela dei legittimari178, norme previste, ovviamente, anche in favore (rectius: per la protezione) dei figli sopravvenuti179. Tornando al nostro caso, e posto che non ci si può esimere dal porre altresì in linea di conto il contenuto della scheda testamentaria, e dunque la volontà del testatore, giova ripetere come Sempronio abbia disposto, in favore di Mevio, un legato vice legitimae. Tale disposizione – e prescindendo ora dal volervi soverchiamente attribuire, come abbiamo sostenuto sopra180, carattere di implicito riconoscimento –, rispetto alla questione ermeneutica poc’anzi prospettata, ha senz’altro valore dirimente in punto di eventuale caducità delle disposizioni testamentarie ex art. 687 c.c. Com’è noto, l’art. 687 c.c., al co. 3, prevede, apertis verbis, come la revocazione (rectius: caducità) non abbia luogo, allorché il testatore abbia «provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli»181.
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Ritiene che l’art. 687, co. 1, c.c., abbia un «fondamento oggettivo, individuabile nella modificazione della situazione familiare in relazione alla quale il testatore aveva disposto dei suoi beni», Cass., 9 marzo 1996, n. 1935, cit. Più di recente, v. eziandìo Cass., 21 maggio 2019, n. 13680, cit. 178 Sulla protezione dei legittimari, si compulsi, seppur risalente, l’interessante opera di A. Pino, La tutela del legittimario, Padova, 1954. 179 Cfr. C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 395 ss., spec. 398. Certo è, che la caducità di cui all’art. 687 c.c., travolgendo le disposizioni a titolo universale e particolare, consente l’apertura della successione legittima (alias: ab intestato. Cfr. E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 424; M. Talamanca, op. cit., 226. Più in generale, cfr. M. Segni, op. cit., 99), divergendo dunque dallo strumento cardine posto a tutela dei legittimari, vale a dire l’azione di riduzione, la quale colpisce solamente le disposizioni lesive della quota di legittima. Per di più, non potendo esimersi, l’interprete, dal tenere in debito conto le altre due notevoli differenze sussistenti tra l’istituto della caducità delle disposizioni testamentarie per sopravvenienza di figli e l’istituto per antonomasia (id est: l’azione di riduzione) previsto a tutela dei legittimari, v’ha da affermare come la caducità ex art. 687 c.c. si attivi automaticamente, mentre l’azione di riduzione presuppone un apposito esperimento da parte del legittimario leso; ancóra, la caducità, comportando l’apertura della successione ab intestato, giova, eventualmente, anche a coloro che figli non siano (ma siano, ovviamente, altri parenti espressamente contemplati dall’art. 536 c.c.), mentre l’azione di riduzione giova solamente al legittimario esperente. 180 V. § 3. 181 Si badi: di là delle varie interpretazioni sórte sulla portata da attribuire al verbo «provveduto», riteniamo, stante un’interpretazione sistematica e posto l’intero impianto del Libro II (chiaramente intessuto di un’importante tutela, di carattere patrimoniale s’intende, in favore dei legittimari, e indi anche dei figliuoli: v., al riguardo, L. Barassi, op. cit., 300, il quale affermò che con la “revocazione” per sopravvenienza di figli la legge interviene «così come fa con la quota di legittima che assicura ai figli»), che il legislatore abbia inteso riferirsi al fatto che il testatore abbia effettuato, in favore dei figliuoli appunto, un’attribuzione patrimoniale. Certo, un’interpretazione di tal fatta riduce notevolmente la portata e il rispetto del principio – a parere di chi scrive, fondamentale – della massima autonomia negoziale nell’àmbito del diritto ereditario (su cui v. G. Bonilini, Autonomia negoziale e diritto ereditario, in Riv. not., 2000, I, 789 ss.; A. Natale, Autonomia privata e diritto ereditario, Padova, 2009), ma posto l’evidente significato del tenore letterale della norma (che discorre di «provveduto» e non punto «preveduto») e – come detto – l’intero impianto del Libro II, a nostro giudizio tale interpretazione non può che essere la più acconcia alla norma in commento. Peraltro, è la stessa ratio oggettiva di protezione, più volte richiamata, che, a nostro credere, sarebbe pregiudicata ove si lasciasse al testatore anche la possibilità di “prevedere”, e non già solamente di “provvedere”. È dubbio – ma volendo salvaguardare al massimo l’autonomia negoziale, forse sarebbe il caso di considerarla come possibilità – se possa inserirsi, in seno al «provveduto», anche una disposizione di carattere negativo (in
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Giurisprudenza
Orbene, nella nostra fattispecie, Sempronio ha disposto – come cennato – in favore di Mevio, sicché a noi pare limpida la volontà del testatore di provvedere in favore di quest’ultimo182 per il tempo in cui, come verificatosi, sarebbe stato dichiarato figlio. Invero, il fatto che il de cuius abbia espressamente disposto in favore di Mevio con una disposizione di tal fatta (ovverosia un legato in sostituzione di legittima, che presuppone, pertanto, la qualifica – nel nostro caso futura – di legittimario), consente di rilevare come Sempronio abbia tenuto conto della possibilità della eventuale sopravvenienza del proprio figlio183, ed abbia indi, con la disposizione indicata, voluto provvedere a tal caso184. Talché, in siffatta situazione non trova vita la principale ratio di protezione (oltreché, chiaramente, l’altra ratio indicata185) della prole, poiché, come ben si rilevò, in questo senso186 v’ha già provveduto il testatore per il tramite del negozio testamentario187. Con tale disposizione,
quest’ultimo senso, v. anche: A. Cicu, Le successioni, cit., 405; G. Cassisa, op. cit., 774; F. Gazzoni, Una sentenza con “motivazione suicida” da inumare (figlio naturale dichiarato, cadavere esumato e testamento revocato), cit., 1856). Nel senso di un necessario atto di disposizione: V. Polacco, op. cit., 552 (testo e nt. 2), seppur con riferimento all’art. 888 del Codice Pisanelli; A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, cit., 390, che, a ragione, affermò: «“Provvedere”, infatti, giuridicamente significa dare un provvedimento, e, nel caso in esame, un’attribuzione patrimoniale. Chi si limita, invece, a precedere il fatto, cioè antivederlo, non soccorre alcun bisogno»; L. Barassi, op. cit., 301, il quale, addirittura, ritenne come risulti bastevole che «il testatore abbia in altro modo beneficato i figli preteriti: non occorre che proprio vi abbia provveduto nel testamento»; A. Cicu, Il testamento, cit., 211 s.; Id., Le successioni, cit., 405; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 222; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, cit., 1094; A.C. Jemolo, op. cit., 383, seppur con riferimento all’art. 888 del Codice del 1865. V. pure, con una sfumatura diversa, App. Napoli, 12 agosto 1953, cit.; G. Perlingieri, La revocazione delle disposizioni testamentarie e la modernità del pensiero di Mario Allara. Natura della revoca, disciplina applicabile e criterio di incompatibilità oggettiva, cit., 744, nt. 28. Contra, vale a dire nel senso di una “previsione” che non necessariamente comporti un’attribuzione patrimoniale, ma si limiti a prevedere la possibilità della sopravvenienza, leggansi: E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 434; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 402 e 403; F.S. Azzariti, G. Martinez, G. Azzariti, op. cit., 561; G. Azzariti, voce Successioni (diritto civile): successione testamentaria, cit., 861; Id., Le successioni e le donazioni, cit., 601; Id., La revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., 319; G. D’Amico, op. cit., 281; A. Palazzo, Le successioni, t. II, cit., 832; E. Calice, La sopravvenienza di figli o discendenti, in AA.VV., Tratt. dir. succ. e donazioni, diretto da G. Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 1740; R. Calvo, op. cit., 1298; G. Capozzi, op. cit., t. II, 1002. Più sfumata, ma comunque nella direzione dei mentovati autori, fu l’opinione di M. Talamanca, op. cit., 222 e 223. 182 Giova rammentare: sul punto, stiamo prescindendo, per ovvie ragioni, da quanto sostenuto nel precedente paragrafo. 183 Al riguardo, non si può punto prescindere da ciò che, brillantemente, ebbe a scrivere F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 222, il quale, come noi, escluse la caducità delle disposizioni testamentarie, allorquando «il testatore, […] prevedendo il caso che questi [i figli] sopravvengano, abbia provveduto a costoro (687 terzo comma), contemplandoli nel testamento, sia pure in via eventuale, o in altro modo, per cui risulti che egli ebbe presente la possibilità di tale esistenza, o di tale sopravvenienza (ad es., riservando, al figlio, la legittima)». Nel nostro caso, come detto, Sempronio ha lasciato a Mevio, «a titolo (dichiarato) di legittima» (Id., ivi, 529), un bene od una certa somma di danaro. Leggansi pure, con una sfumatura leggermente più mitigata, C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 403; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 603. In giurisprudenza: Cass., 29 gennaio 1970, n. 187, cit.; App. Napoli, 12 agosto 1953, cit. Di diverso avviso, rispetto alla nostra opinione, parvero: C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, cit., 368; A.C. Jemolo, op. cit., 384 ss.; M. Talamanca, op. cit., 223, il quale ebbe ad affermare: «La clausola con la quale si provvede deve poi prendere in considerazione i figli, in relazione alla qualifica che hanno o che avranno: e non basta, poi, che si provveda a favore della persona fisica del figlio naturale, che sarà poi riconosciuto o legittimato, o dell’estraneo che sarà poi adottato». 184 Cfr. Trib. Caltanissetta, 2 settembre 1950, cit. 185 Ovverosia, quella soggettiva. Cfr. pure C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 402. 186 Nel senso, cioè, della eventuale, nonché futura, sopravvenienza. Come abbiamo già notato, ma ci preme qui rimarcarlo, non sarebbe stata sufficiente qualsivoglia disposizione patrimoniale per soddisfare il terzo comma dell’art. 687 c.c. È la natura del legato in sostituzione di legittima, in uno con la voluntas testantis affiorante – o derivante, che dir si voglia – dalla scheda testamentaria, che ci consente di addivenire a quanto descritto nel testo. Sul fatto che non ogni disposizione sia bastevole, si compulsino Cass., 13 dicembre 1920, in Giur. it., 1921, I, 1, 173, e Cass., 24 maggio 1916, in Giur. it., 1916, I, 1, 933. 187 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, cit., 222. Si badi: in tal caso, affinché non
148
Marco Ramuschi
perciò, s’individua la connessione fra l’attribuzione effettuata dal testatore e la eventuale (futura) qualifica di figlio, in capo a Mevio, che Sempronio ha già prospettato nel momento della testamenti factio188. Al riguardo, giova specificare come la “previsione” del de cuius non debba essere vestita di particolari formule sacramentali189. Si badi: la nostra affermazione, ci preme sottolineare, muove soprattutto dallo sfondo giuridico posto a fulcro del legato in sostituzione di legittima, mediante il quale a noi pare emergere tersamente come il de cuius non abbia solamente disposto – col solo ed unico intento di benificare – in favore di Mevio, ma abbia specificamente disposto proprio nella previsione della possibile sopravvenienza di figlio190, assolvendo, dunque, il voto della legge (art. 687, co. 3, c.c.)191. In altri e definitivi termini, il de cuius – durante la stesura del proprio testamento, e scolpendo una disposizione di tal fatta – ha avuto la «rappresentazione»192 del futuro (eventuale) rapporto di filiazione col proprio figlio Mevio, sì da evitare, a nostro giudizio, la caducità di cui all’art. 687, co. 1, c.c. Sicché, ben si può affermare come Sempronio, nell’esperire l’azione di riduzione, si sia correttamente tutelato, impedita essendo la concreta applicazione, al caso di specie, della disposizione scolpita in seno all’art. 687, co. 1, c.c., proprio in virtù di quanto fino ad ora sostenuto. Marco Ramuschi
abbia luogo la revoca, ex art. 687, co. 3, c.c., è sufficiente che il testatore abbia provveduto, in favore dei figli, anche per il tramite di un testamento anteriore non revocato dal posteriore, ex artt. 680 o 682 c.c., oppure in un testamento sì posteriore, ma sórto prima della nascita, o adozione, o riconoscimento, o dichiarazione giudiziale dello status filiationis, del figlio. In questo senso, leggasi C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, cit., 403. 188 In questi concisi, ma vibranti, termini, v. M. Talamanca, op. cit., 223. 189 E. Pacifici-Mazzoni, op. cit., vol. VIII, 434. 190 G. Azzariti, La revocazione delle disposizioni testamentarie, cit., 319. 191 Nel nostro caso, ben si può convenire con quanto ebbe a dire G. Azzariti, In tema di revocazione di testamento per sopravvenienza di figli, cit., 380, ad avviso del quale, il fatto che «il de cuius abbia previsto la sua situazione di fatto in relazione all’esistenza di figli legittimi, legittimati, adottivi o naturali riconosciuti [o, aggiungiamo, dichiarati giudizialmente come figli nati fuori del matrimonio], e quindi la sua condizione di padre, e a quella situazione abbia anche provveduto», consente di dare piena realizzazione al terzo comma dell’art. 687 c.c. Donde, per dirla sempre con l’A. (ivi, 380), non può dirsi integrato il terzo comma considerato, «ogniqualvolta il de cuius provveda a quelle determinate persone che poi assumano la veste di figli, senza anche la rappresentazione di quel rapporto di filiazione, sì da non potersi mai dire, con sicurezza, che abbia a quel modo il testatore anche provveduto al caso in cui fossero esistiti o sopravvenuti figli o discendenti» (corsivo da noi aggiunto). 192 Così, G. Azzariti, In tema di revocazione di testamento per sopravvenienza di figli, cit., 380. V. eziandìo G. Cassisa, op. cit., 774.
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Giurisprudenza Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2019, n. 8240; Manna Presidente – Varrone Relatore Divisione ereditaria – Divisione transattiva – Transazione divisoria – Differenze – Accordi paradivisori – Definizione Ai fini dell’interpretazione di un negozio come transazione divisionale, nel quale la causa transattiva prevale su quella divisionale, non è possibile presumere la volontà di transigere con rinuncia ai propri diritti, sulla base della semplice consapevolezza della sproporzione delle quote o dei beni indicati nell’accordo divisorio, in mancanza non solo dell’aliquid datum aliquid retentum, ma anche di un mero disaccordo tra gli eredi e di qualsiasi espressa rinuncia o menzione della volontà di comporre future controversie
(Omissis) Fatto
e diritto
Il giudice di primo grado, riuniti i giudizi, riteneva la richiesta di rescissione per lesione tem-
Rilevato che:
pestiva perché nel corso di causa si era verificata
D.L.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tri-
un’ipotesi assimilabile a quella prevista dall’art.
bunale di Velletri i germani D.L.F., Fe. e A. e la
168 bis c.p.c., comma 5, e il termine di costitu-
fratelli D.L. snc di D.L.A. and & per ottenere lo
zione di D.L.M. doveva essere determinato con
scioglimento della comunione ereditaria relativa-
riferimento all’udienza del 16 dicembre 2002.
mente a tre beni immobili: un locale adibito a
Dopo l’espletamento di una consulenza tecnica
forno di panificazione, un appartamento e un lo-
d’ufficio il Tribunale dichiarava lo scioglimento
cale garage tutti siti in (Omissis) [prov. di (Omis-
della comunione ereditaria tra le parti, assegnava
sis)], chiedendo l’attribuzione in natura dei beni
in proprietà indivisa ai signori D.L.A. e Fe. l’uni-
in conformità alla scrittura privata del 15 gennaio
tà immobiliare: locale commerciale con annesso
1999, con imputazione dei conguagli dovuti pre-
forno sito in (Omissis), posto al piano terra; as-
via determinazione del valore locativo dei beni.
segnava in proprietà esclusiva a D.L.F. l’apparta-
Si costituivano D.L.A. e Fe. i quali eccepivano
mento sito in (Omissis) al primo piano; assegna-
che, in base alla scrittura privata del 15 gennaio
va in proprietà esclusiva a D.L.M. il locale garage
1999, si era già proceduto alla divisione dei beni
sito in (Omissis), con annessa area pertinenziale;
e la condizione della voltura della licenza si era
condannava De.Lu.Fe. al pagamento in favore di
realizzata, e chiedevano, in via riconvenzionale,
D.L.M. a titolo di conguaglio della somma di Eu-
l’esecuzione ex art. 2932 c.c., della scrittura priva-
ro 32.148,33, oltre interessi legali dalla sentenza
ta del 15 gennaio 1999.
fino al saldo; condannava D.L.A. al pagamento
La domanda riconvenzionale veniva dichiara-
in favore di D.L.M., a titolo di conguaglio, del-
ta inammissibile e D.L.A. e Fe. la riproponevano
la somma di Euro 32.148,33 oltre interessi legali
con citazione. Nell’ambito di tale giudizio D.L.M.
dalla sentenza fino al saldo; condannava D.L.F.
proponeva a sua volta domanda riconvenziona-
al pagamento in favore di D.L.M., a titolo di con-
le condizionata di rescissione della divisione per
guaglio, della somma di Euro 91.382,73, oltre in-
lesione oltre il quarto, in considerazione dell’evi-
teressi legali dalla sentenza al saldo; in accogli-
dente sproporzione tra le quote formate in virtù
mento della domanda riconvenzionale spiegata
della scrittura privata della quale veniva richiesta
da D.L.M. dichiarava la rescissione per lesione
l’esecuzione ex art. 2932 c.c..
della divisione effettuata tra i condividenti con
151
Giurisprudenza
scrittura privata del 15 gennaio 1999, rigettava le
ta emergeva chiaramente che i beni per la loro
restanti domande avanzate da D.L.A., De.Lu.Fe.
natura e destinazione fossero manifestamente di
e D.L.F..
diverso valore e che tale diversità era nota a tutti
Avverso la suddetta sentenza proponevano
gli eredi, tra loro fratelli, che avevano stipulato
appello D.L.A. e D.L.F., si costituiva De.Lu.Fe. che
l’atto, essendo i beni situati nello stesso Comu-
proponeva appello incidentale. La Corte d’Appel-
ne di (OMISSIS). Pertanto, poteva ragionevol-
lo, con sentenza ex art. 281 sexies c.p.c., dichiara-
mente escludersi che vi fosse un’inconsapevole
va fondati gli appelli e, in riforma dell’impugnata
sproporzione della ripartizione dei beni e, in tale
sentenza, dichiarava i fratelli D.L.A. e Fe. com-
contesto, l’esclusione della previsione di un con-
proprietari al 50% del locale commerciale, D.L.F.
guaglio in denaro era confermativa della natura
proprietario dell’appartamento, D.L.M. proprieta-
di transazione divisionale dell’atto, il cui effetto
rio del locale garage con condanna di quest’ulti-
traslativo si era realizzato in virtù della scrittura
mo al pagamento dei 2/3 delle spese di lite del
privata, tanto che espressamente si precisava che
primo e secondo grado in favore dei fratelli A. e
la sentenza aveva natura dichiarativa e non co-
Fe. e dei 2/3 delle spese del secondo grado in
stitutiva.
favore del fratello F.. Successivamente, con procedimento di correzione dell’errore materiale, la Corte d’Appello disponeva che le spese di lite non fossero a carico di D.L.A. bensì di D.L.M.. I giudici del gravame ritenevano inammissi-
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione D.L.M. D.L.F. e D.L.A. hanno resistito con controricorso. Considerato che:
bile l’azione di rescissione proposta da D.L.M.,
Il primo motivo di ricorso è così rubricato:
in quanto l’atto del 15 gennaio 1999 costituiva
violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e
una transazione divisionale e non una divisione
116 c.p.c., artt. 1362,1363 e 763 c.c., e art. 764
transattiva. La qualificazione giuridica di tale con-
c.c., comma 2, nonché omesso esame di un fatto
tratto costituiva un presupposto dell’azione e do-
decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra
veva essere effettuata anche d’ufficio. Gli odierni
le parti con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3
appellanti avevano proposto in primo grado l’a-
e 5.
zione ex art. 2932, e non erano onerati dall’ecce-
Il ricorrente ritiene violate le sopra indicate
pire espressamente l’inammissibilità dell’azione
norme interpretative e poiché tale violazione sa-
di rescissione della divisione proposta in via ri-
rebbe legata all’omessa valutazione di fatti che,
convenzionale, non essendo questa un’eccezione
se presi in considerazione, avrebbero portato ad
in senso stretto.
una loro diversa interpretazione, deduce un uni-
La decisione della Corte d’Appello richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo la quale
co motivo sull’assunto che le due violazioni sarebbero tra loro ontologicamente collegate.
la distinzione tra transazione divisionale e divi-
Esso attiene alla qualificazione giuridica data
sione transattiva si fonda sulla consapevolezza
all’atto del 15 gennaio del 1999, intesa come tran-
delle parti della differenza delle attribuzioni pa-
sazione divisionale.
trimoniali o delle quote e, dunque, quando non
Secondo il ricorrente tale interpretazione sa-
si sia proceduto al calcolo delle proporzioni cor-
rebbe errata, perché non tiene conto del com-
rispondenti, si è in presenza di una transazione
plesso delle circostanze e dei comportamenti
divisionale non soggetta a rescissione.
delle parti, che giustificherebbero la diversa qua-
Nella specie, dall’esame della scrittura priva-
152
lificazione di divisione transattiva e non di tran-
Marta Cenini
sazione divisionale da dare alla scrittura privata.
Il motivo è fondato.
Inoltre, la Corte d’Appello avrebbe omesso di
Le censure poste dal ricorrente hanno ad og-
considerare i fatti che avevano determinato il ri-
getto l’interpretazione della scrittura privata con
corrente a sottoscrivere l’atto di divisione, come
la quale i fratelli D.L. si erano accordati per lo
ammessi da D.L.F., prima del cambio del difenso-
scioglimento della comunione sui beni ricevu-
re e della relativa linea di difesa.
ti in eredità dal padre. In sintesi, ciò che è in
L’art. 1362 c.c., invece, impone di valutare l’ef-
contestazione è la natura di tale atto: secondo
fettiva volontà delle parti anche in base al loro
il ricorrente si tratta di un progetto di divisione,
comportamento successivo alla conclusione del
non ancora compiuto in tutti i suoi elementi co-
contratto, mentre l’art. 1363 c.c., precisa che le
stitutivi, destinato ad essere integrato con la pre-
clausole contrattuali devono essere interpretate
visione di conguagli, che, in ogni caso, devono
le une per mezzo delle altre.
ritenersi già implicitamente ricompresi nel testo
Ciò premesso, dall’esame della scrittura pri-
della scrittura.
vata del 15 gennaio 1999 si desume che essa era
Sì verte, pertanto, nel campo dell’ermeneutica
finalizzata, oltre che all’attribuzione dei cespiti,
negoziale, in presenza della quale il sindacato di
in particolare alla regolarizzazione della licenza
questa Corte è limitato soltanto ai profili relativi
necessaria per il lecito esercizio dell’attività di
all’inosservanza dei canoni legali di interpretazio-
panificazione nei locali adibiti a forno, alla cui
ne, salvo il diverso profilo dell’omesso esame di
risoluzione era condizionato l’intero assetto di in-
un fatto decisivo per il giudizio che sia stato og-
teressi in essa disciplinata.
getto di discussione tra le parti.
Non avendo il ricorrente ricevuto alcuna do-
Ciò premesso, nel caso di specie, i giudici del
nazione o altra forma di liberalità, né prima della
gravame hanno posto l’accento esclusivamente
morte del de cuius, nè successivamente a seguito
sulla sproporzione del valore dei beni, afferman-
della divisione, non si riscontra alcuna valida ra-
do che tale sproporzione era talmente evidente
gione da parte sua per accettare una così eviden-
da essere necessariamente nota agli eredi. Poiché
te disparità di trattamento, se non quella dettata
il discrimen tra la transazione divisionale e la di-
dal rapporto affettivo con i fratelli e dal fatto che
visione transattiva risiede appunto nella spropor-
intendeva agevolare il lecito esercizio dell’attività
zione dei beni, l’atto stipulato non poteva che
del forno, fatti salvi i dovuti conguagli.
essere qualificato alla stregua del primo dei due
In sostanza l’impegno scritto doveva garantire
termini messi a confronto.
ai fratelli A. e Fe. l’attribuzione dei locali dove
Osserva Questa Corte che il giudice del gra-
esercitavano l’attività di panificazione e all’altro
vame, nell’indagare la reale volontà delle parti,
fratello F. l’appartamento che aveva ristrutturato.
avrebbe dovuto tener conto, ai sensi dell’art.
Il ricorrente, in buona fede, aveva accettato di
1362 c.c. e ss., del tenore letterale della scrittu-
sottoscrivere l’atto, fatti salvi i relativi.
ra privata, unitamente al complesso delle circo-
Mancava pertanto, la volontà di chiudere in
stanze e dei comportamenti delle parti. Secondo
via transattiva la vicenda divisionale, circostanza
l’orientamento consolidato di questa Corte, in-
questa che la Corte d’Appello ha omesso del tut-
fatti, “nell’interpretazione del contratto, il criterio
to di valutare, limitandosi ad interpretare la scrit-
letterale e quello del comportamento delle parti,
tura privata solo sulla base della proporzionalità
anche successivo al contratto medesimo ex art.
o meno delle quote, travisandone il senso e la
1362 c.c., concorrono, in via paritaria, a definire
finalità.
la comune volontà dei contraenti. Ne consegue
153
Giurisprudenza
che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione prima facie chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti” (sent. n. 24560 del 2016). La Corte d’appello ha violato entrambi i criteri interpretativi, sia quello letterale, che quello derivante dal comportamento anche processuale delle parti. In particolare, risulta erroneo: l’aver valutato la sola alternativa secca tra divisione transattiva e transazione divisoria, senza valutare ipotesi terze quali il negozio preparatorio di divisione; l’aver optato per la soluzione della transazione divisoria senza tener conto né del tenore letterale della scrittura privata né della condotta successiva delle parti, ancorché quest’ultima risultasse accertata dalla stessa sentenza d’appello; l’avere omesso di considerare che l’unico elemento apprezzato come decisivo (la cosciente sproporzione del valore dei cespiti) è significativo solo a patto di escludere motivatamente la suddetta ipotesi terza, cioè il negozio preparatorio di divisione, il quale proprio per la sua natura non definitiva osta ad un giudizio di tal fatta, richiedendo ulteriori accordi sui conguagli. Con riferimento al criterio letterale, infatti, nella scrittura privata non si rinviene alcuna espressione volta a manifestare la volontà di risolvere in via transattiva l’insorgere di future controversie aventi ad oggetto la divisione ereditaria e, tantomeno, si rinviene alcuna rinuncia a far valere i propri diritti, pur essendo, l’atto negoziale, di data antecedente al sorgere anche di una soltanto di tali circostanze.
154
Quel che emerge è la volontà di procedere alla divisione con una preliminare assegnazione dei beni oggetto della comunione in relazione alle personali aspettative, com’è naturale tra fratelli, senza alcuna animosità o litigiosità. Peraltro, questa Corte già in passato ha affermato proprio con riferimento agli accordi divisionali che: “al fine di escludere la rescindibilità dell’atto di divisione ai sensi dell’art. 764 c.c., comma 2, non è sufficiente accertare che essa contenga una contestuale transazione, ma occorre anche accertare che quest’ultima, regolando ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle porzioni corrispondenti alle quote, abbia riguardato proprio le questioni costituenti il presupposto e l’oggetto dell’azione di rescissione (sent. n. 3396 del 1981). Inoltre, la Corte d’Appello ha omesso di valutare anche il fatto che non fosse stata effettuata alcuna stima dei beni, anche tale circostanza induce a ritenere mancante l’intento transattivo. Come si è detto, risulta violato anche l’ulteriore criterio interpretativo della ricerca della volontà negoziale desumibile dal comportamento delle parti. Infatti, nella specie, il complessivo comportamento dei fratelli D.L. depone nel senso che la loro reale volontà, al momento della stipula della scrittura privata del 15 gennaio 1999, non fosse quella di porre fine alla comunione ereditaria, risolvendo definitivamente le future controversie, quanto piuttosto quello di formalizzare un accordo preparatorio della divisione. In particolare, oltre alla mancata stima, alla mancata indicazione del valore dei beni e alla mancata manifestazione della volontà di transigere, deve evidenziarsi che nella scrittura privata si rimandava ad un atto da stipularsi davanti il notaio dopo l’avverarsi della condizione relativa alla voltura della licenza di panificazione. Infatti, gli stessi controricorrenti, in primo grado avevano agito in giudizio ex art. 2932 c.c., intendendo, quindi, l’atto da loro sottoscritto, come un ac-
Marta Cenini
cordo preliminare di divisione. Inoltre, il fratello D.L.F., nelle sue prime difese, aveva condiviso le ragioni del fratello M., salvo poi cambiare difensore e linea di difesa. Deve, infine, ribadirsi che gli accordi c.d. “paradivisori”, volti alla formazione di porzioni dei beni da assegnare a determinate condizioni, pur non producendo l’effetto distributivo dei beni stessi, tipico del contratto di divisione, hanno finalità preparatoria di quest’ultimo, ovvero – ove insorgano successivi contrasti su punti non risolti col negozio stesso – del provvedimento del giudice. Tali accordi secondo la giurisprudenza di legittimità, una volta perfezionati, possono essere revocati o risolti solo col consenso unanime delle parti contraenti e possono essere impugnati con i mezzi di annullamento previsti per i contratti in genere, ma dagli stessi non si può recedere unilateralmente. Dunque, deve ammettersi anche la loro rescindibilità ex artt. 763 e 764 c.c., per lesione oltre il quarto. D’altra parte, attribuire esclusivo ed automatico rilievo all’evidente sproporzione dei beni oggetto dell’accordo divisorio, comporta come effetto del tutto ingiustificato, quello di rendere impossibile la proposizione della azione di rescissione nella quasi totalità dei casi e, comunque, ogni qual volta la lesione della parte è di maggiore portata. La rescissione ex art. 763 c.c., infatti, si differenzia dall’azione di rescissione ordinaria, perché non richiede l’elemento soggettivo dell’approfittamento dello stato di bisogno e, come si è detto, riduce la lesione rilevante dalla misura della metà a quella di un quarto. Sulla base di tali presupposti, pertanto, se l’elemento discriminante per individuare la causa transattiva del negozio fosse esclusivamente la proporzionalità dei beni, risulterebbe sempre preclusa la rescissione per lesione oltre il quarto, che appunto presuppone una sproporzione della quale la parte difficilmente potrebbe rivendicare l’inconsapevolezza.
Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’interpretazione di un negozio come transazione divisionale, nel quale la causa transattiva prevale su quella divisionale, non è possibile presumere la volontà di transigere con rinuncia ai propri diritti, sulla base della semplice consapevolezza della sproporzione delle quote o dei beni indicati nell’accordo divisorio, in mancanza non solo dell’aliquid datum aliquid retentum, ma anche di un mero disaccordo tra gli eredi e di qualsiasi espressa rinuncia o menzione della volontà di comporre future controversie”. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 713, 1362, 1363 e 2932 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Secondo la Corte d’Appello l’effetto traslativo si era realizzato per effetto della scrittura privata. Esso, al contrario, richiedeva un successivo atto di divisione e, a prescindere dalla natura o meno della scrittura stessa non vi era dubbio che essa non costituiva titolo divisorio. Le controparti, peraltro, non avevano agito ex art. 2932 c.c.. Secondo il ricorrente, la scrittura privata doveva qualificarsi come preliminare di divisione e, come tale, poiché la domanda ex art. 2932 c.c., non era stata riproposta in appello, si era creata una sorta di acquiescenza non più recuperabile. Il ricorrente ribadisce di aver eccepito la novità delle conclusioni delle domande di cui all’appello di D.L.A., F. e Fe. e la Corte d’Appello, in risposta a tale eccezione, aveva ritenuto che la qualificazione giuridica del contratto di divisione transattiva costituisse un presupposto stesso dell’azione e, dunque, potesse essere effettuata d’ufficio dal giudice: gli appellanti avendo promosso in primo grado l’azione ex art. 2932 c.c., non erano onerati dall’eccepire l’inammissibilità dell’azione di rescissione della divisione proposta in via riconvenzionale, non trattandosi di eccezione in senso stretto.
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Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il giudice di appello aveva compensato ben 1/3 delle spese legali, invece, stante l’incertezza sull’interpretazione dell’atto del 15 gennaio del 1999 avrebbe dovuto compensare integralmente le spese. Il secondo e il terzo motivo sono assorbiti dall’accoglimento del primo motivo. In conclusione in accoglimento del primo motivo di ricorso la sentenza deve essere cassata
con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di Cassazione. P.Q.M. La Corte, accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 novembre 2018. Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2019.
Divisione transattiva, transazione divisoria e accordi paradivisori* Sommario : 1. Il caso. – 2. Divisione transattiva e transazione divisoria. – 3. Il ruolo dei criteri di ermeneutica contrattuale. – 4. Negozi preparatori di divisione ed accordi paradivisori.
In a recent ordinance, the Court of Cassation has addressed the issue of qualifying a private agreement as a transaction, a contractual division of inheritance or a preparatory agreement. This thus confirms that it is always necessary to apply the criteria of contractual hermeneutics also for the qualification of agreements within the process of partition of a succession.
1. Il caso. Quattro fratelli, M., Fr., Fe. e A., ereditano tre beni immobili consistenti in un locale adibito a forno di panificazione, un appartamento e un locale garage, tutti collocati nel
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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medesimo comune. Anche al fine di permettere la prosecuzione dell’attività commerciale del panificio e la voltura della licenza, i fratelli sottoscrivono una scrittura privata in cui vengono assegnati i beni. Questi ultimi avevano manifestamente diverso valore ma, ciò nonostante, la scrittura non prevede conguagli in denaro. M. cita in giudizio gli altri due fratelli chiedendo l’attribuzione in natura dei beni in conformità alla scrittura privata, con imputazione dei conguagli in denaro; si costituiscono A. e Fe. che eccepiscono che la scrittura era già stata eseguita e chiedono in via riconvenzionale l’esecuzione ex art. 2932 c.c. della medesima scrittura privata. Dichiarata inammissibile la riconvenzionale dal Tribunale, A. e Fe. ripropongono la stessa domanda con atto di citazione. In questo secondo giudizio, M. a sua volta propone domanda riconvenzionale condizionata di rescissione della divisione per lesione oltre il quarto, in considerazione dell’evidente sproporzione tra le quote formate in virtù della scrittura privata. In primo grado, il Tribunale dichiara sciolta la comunione, assegna i beni, condanna ai conguagli ma anche dichiara la rescissione per lesione della divisione effettuata con la scrittura privata. Impugnata la decisione da parte di A. e Fr., la Corte d’Appello accoglie il ricorso ed in particolare ritiene inammissibile l’azione di rescissione in quanto qualifica, d’ufficio, la scrittura privata come transazione divisionale e non come divisione transattiva; secondo la Corte appare dirimente il fatto che la sproporzione del valore dei beni era talmente evidente da essere necessariamente nota agli eredi. M. ricorre in Cassazione lamentando in particolare la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale e l’erronea qualificazione da parte della Corte d’Appello della scrittura privata come transazione divisionale. La Cassazione accoglie il ricorso, a sua volta qualificando la scrittura come accordo preparatorio di divisione.
2. Divisione transattiva e transazione divisoria. Il tema oggetto della decisione in commento riguarda la qualificazione e l’interpretazione di una scrittura privata stipulata nel contesto di una divisione di beni ereditari e gli eventuali rimedi demolitori della stessa1. L’articolo 764 c.c., rubricato “atti diversi dalla divisione”, prevede infatti che l’azione di rescissione per lesione ex art. 763 c.c. è ammessa contro “ogni altro atto che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari” ma non contro la
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Il tema dell’autonomia privata nell’ambito del diritto ereditario è affrontato soprattutto con riguardo al divieto di patti successori. Con maggiore attenzione al tema del presente commento, si vedano, oltre agli autori citati nella nota successiva, A. Natale, Autonomia privata e diritto ereditario, in Le monografie di Contratto e Impresa, dir. da F. Galgano, Padova, 2009; Aa.Vv., Contratto di divisione e autonomia privata. Atti del convegno (Santa Margherita di Pula, 30-31 maggio 2008), in I quaderni della Fondazione italiana per il notariato, n. 4, Il Sole24Ore, 2008; A. Mora, Il contratto di divisione, Milano, 1995; A. Mora, La divisione contrattuale, in Tratt. dir. delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, vol. IV, Comunione e divisione ereditaria, Milano, 2009; F. Venosta, La divisione, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2014, ed in part. 143 ss.
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transazione con la quale si è posto fine alle questioni insorte a causa della divisione o dell’atto fatto in luogo della medesima, ancorché non fosse al riguardo incominciata alcuna lite; è quindi necessario individuare se si sia di fronte o meno ad un “atto diverso dalla divisione”2 ed ulteriormente distinguere tra gli accordi in cui prevalga la causa divisoria3 e quelli in cui prevalga la causa transattiva4. Con riferimento alla definizione di “atti diversi dalla divisione”, dottrina e giurisprudenza, opportunamente, rilevano che è più consono parlare di atti “equiparati” alla divisione dal momento che vi deve comunque essere un elemento nella fattispecie che giustifichi l’estensione di alcune regole proprie della divisione anche a tali “atti diversi”. Pur con alcune oscillazioni, si ritiene che tali “atti”, per essere considerati equiparati alla divisione, debbano dunque essere caratterizzati dall’effetto di scioglimento della comunione ereditaria e dall’apporzionamento proporzionale dei beni ereditari5. Si sono così individuate6 come ipotesi significative la vendita e la permuta delle quote concluse tra compartecipi, in cui oggetto dello scambio siano beni estranei alla comunione; la permuta di quote indivise; la divisione di masse plurime in cui tutti i beni di una massa sono assegnati ad un comunista e tutti i beni dell’altra ad un altro; fino allo stesso patto di famiglia. Inizialmente, si riteneva che il capoverso dell’art. 764 c.c. e l’esclusione del rimedio rescissorio ivi prevista riguardasse esclusivamente le cd. transazioni postdivisorie, ossia di risoluzione di liti o contestazioni insorte in relazione all’esecuzione, interpretazione o validità della divisione stessa o dell’atto ad essa equiparato; successivamente, si è affermato che la rescissione fosse esclusa anche con riguardo alle transazioni occorse durante l’iter divisorio: le cd. transazioni divisorie. Si è così ulteriormente distinta quest’ultima dalla cd. divisione transattiva, ossia da quell’accordo, stipulato nel corso dell’iter divisorio, che, pur avendo una componente transattiva e di risoluzione di alcune questioni attinenti alle operazioni divisionali, costituisce una divisione in senso proprio, compiuta nel rispetto dell’apporzionamento caratteristico di tale istituto7. La principale differenza tra transa-
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In tema di negozi equiparati alla divisione, la letteratura è ampia: si vedano L.V. Moscarini, Gli atti equiparati alla divisione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963; A. Bertotto, I negozi equiparati alla divisione, Milano, 2013; M. Sesta, Comunione di diritti, Scioglimento. Lesione, Napoli, 1988; E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, ESI, 1990; C. Miraglia, Gli atti estintivi della comunione ex art. 764 c.c. Vendita di quota e transazione tra coeredi, Milano, 1995; G.A.M. Trimarchi, Divisione transattiva e transazione divisoria, in Contratto di divisione e autonomia privata. Atti del convegno (Santa Margherita di Pula, 30-31 maggio 2008), cit. In generale sulla divisione ereditaria: A. Mora, La divisione. Effetti, garanzie e impugnative, Artt. 757-768, in Commentario Schlesinger, Milano, 2014; F. Venosta, La divisione, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 2014, a cui si rimanda per ulteriore bibliografia. Sulla transazione, la letteratura è assai vasta. Si ricordano in questa sede, senza pretesa di completezza, F. Gabrielli, F.P. Luiso (curr.), I contratti di composizione delle liti, in Trattato Rescigno – Gabrielli, tomo I e II, Torino, 2005; M. Franzoni, La transazione, Cedam, Padova, 2001; E. Del Prato, Fuori dal processo. Studi sulle risoluzioni negoziali delle controversie, Torino, 2016. Si veda inoltre, A. Palazzo, Transazione, in Dig. Discipl. Priv., sez. civ., Torino, 1999; C. Cicero, Transazione, in Dig. Discipl. Priv., sez. civ., Agg., Torino, 2012. Si veda F. Venosta, cit., 196-197 e nota 95. Come ricorda l’Autore, in tema si sono proposte anche altre interpretazioni: una parte di dottrina, infatti, riduce la fattispecie dell’art. 764 c.c. alla mera cessazione dello stato di comunione; altri autori, al contrario, ritengono che sia sufficiente che l’atto sia diretto funzionalmente a formare porzioni di valore proporzionale alle quote, essendo irrilevante che l’atto produca o meno l’effetto di far cessare la comunione. Si veda in particolare la monografia di A. Bertotto, citata nella nota 2. Il primo autore che ha evidenziato la differenza tra transazione divisoria e divisione transattiva è W. Bigiavi, Divisione transattiva e
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zione divisoria e divisione transattiva è stata dunque vista nel fatto che nella transazione divisoria l’eventuale distribuzione dei beni prescinde dalla proporzionalità delle quote idealmente spettanti a ciascuno degli eredi; si reputa inoltre necessario che la transazione regoli ogni controversia, anche futura e potenziale e che abbia ad oggetto la lesione di cui all’art. 763 c.c.8. Nella ordinanza in commento, la Cassazione ribadisce il principio per cui il discrimen tra la transazione divisionale e la divisione transattiva risiede nella sproporzione dei beni. Tuttavia, si afferma anche che nella qualificazione dell’accordo, il giudice deve applicare tutti i criteri di ermeneutica contrattuale, tra cui in particolare quello dell’interpretazione dell’accordo alla luce del complesso delle circostanze e dei comportamenti anche successivi delle parti (artt. 1362 ss. c.c.), ed è dunque possibile anche ipotizzare altre qualificazioni che superino tale dicotomia.
3. Il ruolo dei criteri di ermeneutica contrattuale. Richiamandosi ad un orientamento considerato consolidato, la Cassazione afferma che nell’interpretare il contratto, il criterio letterale e quello del comportamento delle parti anche successivo alla sua conclusione concorrono, in via paritaria, a definire la comune volontà dei contraenti. Ne consegue che il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non è da solo decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi: un’espressione “prima facie” chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti9, compreso il comportamento processuale10. La Cassazione dunque assume che vi sia parità tra i criteri ermeneutici dell’interpretazione letterale e dell’interpretazione alla luce del contesto: tema in realtà assai dibattuto, che tocca il problema della gerarchia dei mezzi di interpretazione del contratto e della necessità della ricerca della “volontà soggettiva” anche nel caso in cui è possibile attribuire, attraverso una interpretazione puramente letterale, un significato univoco ed “oggettivo” al testo contrattuale (si ricordi l’adagio “in claris non fit interpretatio”, sovente richiamato dalla giurisprudenza
transazione divisoria, in Temi emilia, 1930, I. A. Mora, La divisione. Effetti, garanzie e impugnative, Artt. 757-768, cit., 170. Secondo una autorevole opinione (F. Santoro-Passerelli, La transazione, Napoli, Jovene, 1958) la transazione divisoria si distingue dalla divisione transattiva in quanto solo nel primo caso sussiste una controversia giuridica in senso proprio da dirimere. 9 Così testualmente la Cassazione nella ordinanza in commento; i giudici di legittimità richiamano in proposito il precedente di Cass. Sez. Lavoro, sent. n. 24560 del 2016. 10 Su cui infra nel testo. 8
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stessa). Come la dottrina ha spiegato11, la casistica è assai variegata sul punto ma sembra ragionevole ritenere che sebbene la lettera di un testo sia “chiara” ed univoca, sia comunque possibile richiamare gli altri criteri di ermeneutica contrattuale previsti dagli artt. 1362 ss. c.c. ma solo quando gli altri “indizi” che contraddicono la lettera del testo siano a loro volta così univoci da far propendere l’interprete ad abbandonare l’interpretazione letterale (ed in ogni caso è necessario adeguata motivazione da parte del giudice). Enunciato questo principio, la Cassazione afferma che ha errato la Corte d’Appello nel limitarsi ad una alternativa secca tra divisione transattiva e transazione divisoria, senza valutare ipotesi terze quali il negozio preparatorio di divisione. La Cassazione in particolare ritiene che l’unico elemento apprezzato come decisivo dalla Corte d’Appello, ossia la cosciente sproporzione del valore dei cespiti da parte degli eredi, è significativo solo se si considera solo detta alternativa secca e se si esclude a priori la possibilità che l’accordo possa essere qualificato in altro modo, ossia come negozio preparatorio di divisione. Quest’ultimo, infatti, proprio per la sua natura non definitiva, osta ad un giudizio di tal fatta in quando richiede ulteriori accordi sui conguagli. Dal punto di vista letterale, la Cassazione sottolinea che nella scrittura privata oggetto del giudizio non vi sono espressioni volte a manifestare la volontà di risolvere in via transattiva l’insorgere di future controversie aventi ad oggetto la divisione ereditaria né, tantomeno, alcuna rinuncia a far valere i propri diritti; dal punto di vista temporale, va rilevato che al momento della stipula dell’accordo non fossero ancora sorti contrasti né tantomeno una controversia giuridica in senso proprio: al contrario, emerge la volontà di procedere, senza litigiosità, alla divisione con una preliminare assegnazione dei beni oggetto della comunione; significativo anche che non fosse stata effettuata alcuna stima cosa che, secondo la Corte, esclude ulteriormente l’intento transattivo12. La Cassazione in particolare aderisce espressamente all’orientamento secondo cui perché si abbia transazione divisionale è necessario che l’accordo divisorio regoli ogni controversia, anche potenziale, in ordine alla determinazione delle porzioni corrispondenti alle quote e abbia ad oggetto le questioni costituenti il presupposto e l’oggetto dell’azione di rescissione13. Con riguardo all’analisi del comportamento delle parti al fine di ricostruirne la volontà, la Suprema Corte ritiene che alcune circostanze (quali la mancata stima e indicazione del valore dei beni e la mancata manifestazione della volontà di transigere) unitamente al fatto che nella scrittura si rimandasse ad un successivo atto notarile già deponevano nel senso che le parti volevano stipulare un negozio preparatorio della divisione; convinzione suffragata dal fatto che i fratelli A. e Fe. inizialmente avevano agito in via riconvenzionale invocando
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R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, IV edizione, Torino, 2016, 1354 ss. La stima dei beni si considera presupposto necessario per la divisione stessa, anche nella forma di divisione amichevole: si veda a riguardo F. Venosta, La divisione, cit., 144 il quale sottolinea che le parti possono anche omettere la stima come fase specificamente individuata e formalizzata ma non possono non rappresentarsi, prima della distribuzione, il valore dei beni da assegnare come proporzionalmente corrispondente al valore delle quote. 13 L’ordinanza in commento cita a questo riguardo Cass. sent. 3396 del 1981. 12
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l’art. 2932 c.c. e dunque ritenendo la scrittura privata un accordo preliminare di divisione. A questo riguardo, è dunque da sottolineare che la Cassazione reputa che tra i “comportamenti complessivi anche posteriori alla conclusione del contratto” rilevanti ai sensi dell’art. 1362 c.c. vi possano essere anche le scelte processuali delle parti o, meglio, la linea difensiva scelta dall’avvocato delle stesse; cosa che suscita qualche perplessità e non risulta suffragata da altra giurisprudenza che, al contrario, in altra occasione ha affermato che il contegno processuale delle parti è irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’accordo14.
4. Negozi preparatori di divisione e accordi paradivisori. La Cassazione dunque ritiene che la scrittura privata oggetto del contenzioso vada qualificata come accordo preparatorio della divisione e non possa essere considerata come transazione; la Corte, nel cassare la sentenza di secondo grado, afferma così il principio secondo cui non è possibile presumere la volontà di transigere con rinuncia ai propri diritti sulla base della semplice consapevolezza della sproporzione delle quote o dei beni indicati nell’accordo divisorio. Perché vi sia transazione, è necessario al contrario che vi siano le reciproche concessioni e soprattutto che vi sia disaccordo tra gli eredi ed espresse rinunce nonché la menzione della volontà di comporre future controversie15. Poco prima di giungere a questa conclusione, la Corte di legittimità dedica qualche ulteriore osservazione agli “accordi paradivisori”, che definisce come “gli accordi volti alla formazione di porzioni dei beni da assegnare a determinate condizioni ma non aventi effetto distributivo dei beni stessi”. Essi, secondo la Corte, hanno “finalità preparatoria” della divisione vera e propria e dunque rientrano nella categoria dei cd. contratti o negozi giuridici preparatori16. La Cassazione poi, aderendo ad un orientamento della giurisprudenza di legittimità (che la Corte tuttavia non cita), afferma che gli accordi paradivisori, una volta perfezionati, possono essere revocati o risolti solo col consenso unanime delle parti contraenti e possono essere impugnati con i mezzi di annullamento previsti per i contratti in genere; al contrario, non è possibile il recesso unilaterale. D’altro canto, si conclude dunque che essi possano essere rescissi ai sensi degli artt. 763 e 764 c.c. La definizione e la disciplina così tratteggiata, per la verità, lascia perplessi in quanto l’espressione “atti” o “accordi” paradivisori è da alcuni autori utilizzata come equivalente
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Cass. Civ. sez. II, 18 aprile 2002, n. 5635, in Giust. Civ. 2003, I, 1888; in Contratti, 2002, 1094 con nota di Piscitelli. Per la bibliografia in tema di transazione, si rimanda alla nota 4. 16 La categoria dei “contratti preparatori” o “negozi preparatori” o ancora del “rapporto giuridico preparatorio” è ormai nota in dottrina e recepita in giurisprudenza e si inquadra nella tematica della formazione progressiva del contratto. In tema si vedano, senza pretesa di completezza: G. Gabrielli, Il rapporto giuridico preparatorio, Milano, 1974 e, più recentemente, F. Realmonte (cur.), I rapporti giuridici preparatori, Milano, 1996; F. Venosta, La forma dei negozi preparatori e revocatori, Milano, 1997. Altra dottrina preferisce utilizzare differenti terminologie: es. Sacco parla di “preparazione del contratto” e de “i fatti e le situazioni strumentali” (R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, Torino, 2016, 1171 ss.). 15
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ad “atti equiparati alla divisione” ai sensi dell’art. 764 c.c.; questi ultimi, tuttavia, non hanno finalità preparatoria della divisione ma, come detto sopra17, pur essendo diversi dalla divisione, mirano allo scioglimento della comunione ereditaria mediante apporzionamento e producono l’effetto di assicurare la finalità distributiva dei beni. Riguardo invece agli atti preparatori della divisione, va sottolineato che in linea generale è pacifica l’ammissibilità del preliminare di divisione18 e che, secondo un orientamento consolidato, la divisione può essere un contratto a formazione successiva, ossia un contratto preceduto da altri accordi che preparano la stipula della divisione vera e propria19. Dibattuta però è l’efficacia vincolante di tali atti preparatori: si distingue tra accordi che riguardano l’iter procedimentale a cui le parti intendono sottoporsi20 ed accordi aventi ad oggetto le singole operazioni divisionali, la stima o direttamente l’assegnazione di un bene; a questo riguardo, si distingue ulteriormente tra accordi precontrattuali non vincolanti e accordi parziali, aventi, secondo alcuni, efficacia obbligatoria vincolante per i contraenti21. Secondo però altra autorevole dottrina, tutti gli atti e accordi dovrebbero comunque sempre essere ricondotti al contratto di divisione “finale”, unico negozio vincolante22: pertanto, il consenso di ciascuno dei condividenti potrebbe essere revocato sino a quando, a ragione dell’adesione di tutti i partecipanti, il contratto non si sia perfezionato. La Cassazione pertanto, nell’ordinanza in commento, pur giungendo alla condivisibile conclusione che la scrittura privata oggetto del contenzioso non sia qualificabile come transazione, confonde in realtà gli atti preparatori della divisione con gli atti ad essa equiparati ed applica il rimedio rescissorio “speciale” ex art. 764 c.c. anche ad un accordo che essa, in motivazione, considera appunto “preparatorio”. Questa conclusione giunge senza che la Corte chiarisca se la scrittura in oggetto debba essere qualificata come contratto preliminare di divisione oppure negozio parziale vincolante o ancora negozio preparatorio non vincolante; in ogni caso, sostenere l’applicabilità a questo negozio di rimedi quali la “revoca”, la risoluzione, l’annullamento e la stessa rescissione ex art. 763 e 764 c.c. non è affatto scontato e avrebbe meritato maggiore argomentazione. Marta Cenini
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Cfr. supra § 2 ed in particolare la nota 2 per i riferimenti bibliografici. F. Venosta, La divisione, cit., 148 ed ivi ulteriori riferimenti. 19 La stessa divisione è considerata elemento di una fattispecie a formazione successiva: l’art. 757 c.c., infatti, induce a ritenere che la fattispecie successoria completa muova dall’acquisto della qualità di erede all’acquisto della titolarità esclusiva dei beni ereditari, che ha effetto retroattivo al momento dell’apertura della successione. In tema, F. Venosta, cit., 32 ss. 20 Cfr. a riguardo A. Mora, Il contratto di divisione, cit., 122. 21 F. Venosta, loc. ult. cit. Questi accordi parziali, secondo l’Autore, non obbligano gli eredi a perfezionare la divisione. In questo caso, il rifiuto di concludere il contratto finale di divisione con la pretesa di ridiscutere le questioni già decise non sarebbe suscettibile di esecuzione ex art. 2932 c.c. ma darebbe luogo solo a responsabilità contrattuale. 22 Bonilini (G. Bonilini, Divisione, voce, in Dig. Disc. Priv., sez. civile, Torino, 1990, ed ivi bibliografia) sostiene che nel caso in cui il contratto di divisione sia a formazione successiva, è possibile che si raggiunga l’accordo per ogni singola operazione ma ciò non fa perdere all’operazione la sua unicità, sicché si avrà pur sempre un unico contratto. 18
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