2019 2 Familia
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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
marzo - aprile 2019
D iretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA La protezione della vita familiare nella CEDU e nella carta UE Gerhard Hohloch
Sul conflitto fra l’acquirente di un immobile conferito nel fondo patrimoniale e il creditore munito di ipoteca giudiziale sul medesimo bene
Ruggero Vigo
L’obbligo di fedeltà dopo la stagione delle riforme Elsa Bivona
Pacini
Indice Parte I Dottrina Gerhard Hohloch, La protezione della vita familiare nella CEDU e nella carta UE............................ p. 115 Elsa Bivona, L’obbligo di fedeltà dopo la stagione delle riforme..............................................................» 125 Claudia Benanti, La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi.......................................................................................................................................................» 157 Francesco Felis, Il negozio di destinazione e la meritevolezza degli interessi.........................................» 169 Parte II Giurisprudenza Cass. civ., sez. III, 30 agosto 2018, n. 21385 (con nota di Ruggero Vigo, Sul conflitto fra l’acquirente di un immobile conferito nel fondo patrimoniale e il creditore munito di ipoteca giudiziale sul medesimo bene)...................................................................................................................................» 195 App. Napoli, sez. V, 12 gennaio 2018 (con nota di Aldo Corvino, La tutela dei creditori del legittimario)........................................................................................................................................................» 207
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Gerhard Hohloch
La protezione della vita familiare nella CEDU e nella Carta UE* Sommario : I. Cenni sull’argomento. – II. CEDU e Carta UE. – III. La prassi. – IV. Conclusioni.
The essay, which emerged from a speech in Catania, deals with the “protection of marriage and the family” through family law and, above all, through fundamental rights and human rights, which are practised in Europe on the basis of the European Convention on Human Rights (Art. 8) and the EU Charter (Art. 7) by the competent Courts (Court of Human Rights in Strasbourg and European Court of Justice in Luxembourg). The overwhelming importance of the case law of the Strasbourg Court also for Italy is evident.
I. Cenni sull’argomento. l. La “protezione della vita familiare” è un tema molto ampio. Per “vita familiare” si intende non soltanto la vita nel matrimonio e nella famiglia coniugale, ma anche la vita nelle relazioni non fondate sul matrimonio, considerato che la creazione della famiglia al di fuori del matrimonio si è ormai diffusa in tutti gli stati europei negli ultimi cinquant’anni. Per “protezione” si intende, invece, la tutela di tali relazioni familiari contro gli interventi statali e contro le intrusioni di terzi o più precisamente la tutela da condotte violente perpetrate all’interno della famiglia.
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Relazione svolta il 27 settembre 2018 al Convegno “Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme: rapporti di coppia e ruolo genitoriale”, in onore del Prof. Tommaso Auletta, presso l’Università di Catania, Facoltà di Giurisprudenza.
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L’espressione “protezione della vita familiare”1 può, dunque, essere intesa nel senso di tutela giuridica di un rapporto che in quanto tale non è regolamentato dalla legge, perché questa sfera della vita privata non è soggetta a regolamentazione statale ma è disciplinata “per conto proprio” dalle persone coinvolte, entro i limiti delle norme imperative, dell’ordine pubblico, del buon costume. Quindi c’è, prima di tutto, uno “spazio libero” in cui la legge statale non può penetrare2. La legge serve, da un lato, per assicurare “l’ordine della vita familiare” e, dall’altro, allo scopo di assicurare la protezione della sfera familiare; l’obiettivo in questo senso è garantire la libertà, ma allo stesso tempo proteggere i “più deboli della famiglia” da terzi e dai membri della famiglia stessa. 2. I profili sopra menzionati sono disciplinati dalla legge nazionale. Lo scopo primario del diritto di famiglia italiano o tedesco è quello di garantire alla vita familiare un ordine “civile” o meglio “civilistico”, attraverso le regole di diritto di famiglia previste dai codici e dalle leggi complementari3. La protezione della famiglia è garantita in modo diverso da stato a stato secondo le rispettive costituzioni. Essa è assicurata in Germania attraverso il riconoscimento di “diritti fondamentali” connessi alla famiglia ai sensi dell’art. 6 GG (“Legge fondamentale” / Grundgesetz [Costituzione Tedesca 1949]) e grazie alle norme sulla parità di trattamento che sanciscono l’eguaglianza tra uomo e donna davanti alla legge ex art. 3 II GG. Questi diritti fondamentali, nel mio paese, assumono un rilevante significato pratico per la giurisprudenza della Corte costituzionale federale (“Bundesverfassungsgericht”). In caso di presunta violazione dei diritti fondamentali, infatti, si può presentare “ricorso costituzionale” (“Verfassungsbeschwerde”). Negli ultimi settant’anni, la “giurisprudenza della Corte costituzionale” ha innovato significativamente il diritto di famiglia tedesco, con l’obiettivo di raggiungere l’eguaglianza e la parità di diritti tra uomo e donna e di riconoscere protezione ai figli e alla famiglia4. 3. La “protezione della vita familiare” è un tema suscettibile di duplice interpretazione. II termine ha due significati. II senso probabilmente più risalente fa riferimento alla “funzione di difesa”. La famiglia e la casa familiare sono inaccessibili ai terzi. La “famiglia” all’interno dell’ordinamento statale è uno spazio protetto dall’accesso di terzi e la sua regolamentazione è stabilita dalla famiglia stessa in conformità alla legge e all’ordine pubblico5.
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Cfr. per l’esperienza italiana, Il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’articolo 8 della CEDU, nell’interpretazione della Corte edu, in <www.privacy.it./2018/08/13/Cedu-guide-art-8/>. Cfr. Corte Costituzionale Federale Tedesca, in BVerfGE (Entscheidungen des Bunesverfassungsgerichts, Amtliche Sammlung) 31, 58, 67, “cd. “Sentenza Spanioli”). Per la protezione dello “spazio libero”, v. in particolare Corte Costituzionale Federale, in FamRZ (Zeitschrift für das gesamte Familienrecht), 2013, 521, anche BVerfGE 105, 313 [345]. Cfr. la giurisprudenza della Corte EDU: NJW (Neue Juristische Wochenschrift), 2001, 2315; FamRZ (Zeitschift für das gesamte Familienrecht), 2010, 103. V. Schmid, Die Familie, in Art. 6 GG (1989); cfr. Palandt/Brudermüller, BGB Kommentar (77. Edizione 2018) Einleitung § 1297 BGB n. 4 ss. Cfr. nota n. 3.
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La protezione della vita familiare nella CEDU e nella Carta UE
Il rispetto dell’ordine pubblico è assicurato dalla legge statale. La regolamentazione statale e la libertà familiare6 si integrano reciprocamente. Il secondo significato dell’espressione “protezione della vita familiare” è più recente. Nella legislazione nazionale, in momenti diversi con riferimento alla famiglia e ai minori, è stata avvertita l’esigenza di “proteggere i più deboli”7. Questa tutela è stata garantita attraverso riforme in materia di filiazione (non fondata sul matrimonio), successione e per la protezione del superiore interesse del minore. Da un lato, si vuole rafforzare la protezione sociale, dall’altro si vuol garantire una migliore tutela dell’individuo all’interno della famiglia in situazioni di indigenza e, più recentemente, in ipotesi di violenza, sia all’interno della famiglia che fuori di essa. La legge statale reagisce, così, per arginare gli effetti della disgregazione della cd. famiglia “stabile”; a livello nazionale, si prevede l’uso della legge penale e delle forze di polizia e, soprattutto, il riconoscimento e il rafforzamento dei diritti individuali dei membri della famiglia nei confronti di altri membri della famiglia stessa e nei confronti di terzi estranei. Questa esigenza di tutela era stata avvertita in Europa, nel periodo della guerra e del dopoguerra, e si è riproposta nuovamente negli ultimi anni, a causa dei continui flussi migratori e del progressivo “smantellamento” delle strutture familiari. Quanto detto è sintomo del fatto che la questione della protezione della vita familiare è un fenomeno che non interessa soltanto l’uno o l’altro stato europeo. Motivo per cui, le due principali organizzazioni europee transnazionali hanno affrontato la questione della “protezione della vita familiare” nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), e più tardi nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta UE). Le seguenti osservazioni dovrebbero chiarire quanto sancito da queste due convenzioni sovranazionali sulla protezione della vita familiare. Non richiamo altre convenzioni esistenti come i più risalenti regolamenti transnazionali basati su accordi ONU o organizzazioni regionali. Sebbene esistano convenzioni che prevedono norme per la tutela della vita familiare8, la loro rilevanza – per l’Italia come per gli altri stati europei – è di gran lunga inferiore rispetto alla CEDU e alla Carta UE, che considerano in concreto la protezione della vita familiare, senza aver però ancora trovato un ampio campo di applicazione.
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Cfr. il § 1356, par. 1del BGB: “Die Ehegatten regeln die Haushaltsführung in gegenseitigem Einvernehmen“ (“I coniugi regolano l’indirizzo della vita familiare di comune accordo”). Cfr. in generale Volker Epping: Grundrechte. 7. ed. Springer, Berlin 2017, ISBN 978-3-662-54105-0, Rn. 532. Altre convenzioni, di rilievo per il nostro tema, in vigore in Germania sono: 1) la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW); 2) la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984; 3) il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, stipulato a New York il 16 dicembre 1966. Le convenzioni prevedono il ricorso individuale alla commissione competente. L’importanza pratica è limitata in proporzione alla prassi generale; cfr. G. Hohloch, Violenza nelle relazioni familiari: CEDU e “Gewaltschutzgesetz”, in Familia. Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa, 2018, 4, 375 ss., spec. 378.
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II. CEDU e Carta UE. 1. Comincio brevemente con osservazioni generali. La Convenzione europea sui diritti umani (CEDU) dall’inizio degli anni ‘50 è frutto dell’operato del Consiglio d’Europa. Quest’ultimo riunisce fondamentalmente tutti gli stati che hanno una parte del loro territorio nel continente europeo. Unica eccezione è il Kazakistan che, sebbene una certa percentuale del suo territorio si estenda ad ovest degli Urali, fa parte geograficamente dell’Europa. Gli stati di Georgia, Azerbaijan e Armenia, a sud del Caucaso, invece, hanno una situazione particolare, in quanto geograficamente non appartengono più all’Europa, anche se confinanti con il Caucaso e il Mar Caspio, e si estendono per la maggior parte verso l’Unione Sovietica. In ogni caso, tali stati hanno un tradizionale legame con l’Europa. La nascita del Consiglio d’Europa risale al periodo post-bellico con l’idea di fondare uno stato e una cultura giuridica europei, il cui ruolo essenziale sarebbe stato svolto dai “diritti umani”, il riconoscimento dei quali da parte di tutti gli stati membri del Consiglio d’Europa sarebbe stato sancito con la creazione della CEDU. I diritti umani erano fin dall’inizio considerati diritto dei cittadini degli stati membri del Consiglio d’Europa e la tutela della vita privata e familiare era garantita dall’art. 8 della Convenzione9, quale diritto umano fondamentale. Qual è il significato di questo diritto umano? La risposta può essere data in breve: il primo punto è che la CEDU è direttamente considerata come legge statale in tutti gli stati del Consiglio d’Europa. Se, come in Italia e in Germania, dopo la ratifica con legge nazionale la Convenzione assurge a legge statale (legge “federale” in Germania)10 o se, come in Austria, è considerata alla stregua di un diritto costituzionale, non credo faccia molta differenza. La notevole importanza pratica della Convenzione dipende da diversi fattori che indico di seguito. (1) La Convenzione è considerata in tutti gli stati membri “diritto nazionale”; per i cittadini di ogni stato membro il diritto alla “protezione della vita familiare” è un diritto fondamentale. (2) Questo diritto ai sensi dell’art. 8 può essere azionato in giudizio nei procedimenti nazionali e deve essere tenuto in debito conto dalle autorità giudiziarie e dai legislatori nazionali.
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Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui. 10 Cfr. per l’Italia M. Candela Soriano, The Reception Process in Spain and Italy, in Helen Keller/Alec Stone Sweet (Editors), A Europe of Rights: the impact oft he ECHR on National Legal Systemy, Oxford, 2008, p. 392-530, p. 404 s.; cfr. anche Cass. pen., sez. I, 10 luglio 1993, n. 2194; più recente Cass., 24 ottobre 2007, nn. 346 e 349. V. inoltre ECHR, The ECHR in Facts and Figures (2015) e http://www. echr.coe.int./Documents/Stats annual 2016 ENG.pdf e /Stats pending 2016 BII.pdf.
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(3) I cittadini, dopo aver esaurito tutte le vie di ricorso interne, possono rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo11, e intentare un’azione contro lo stato le cui misure o leggi essi considerano restrittive e in violazione dei diritti umani12. Se la Corte accoglie il ricorso13, lo stato convenuto sarà condannato a risarcire il ricorrente e a pagare le spese del procedimento, comprese le spese legali. (4) Inoltre, la Corte può richiedere che lo stato modifichi la norma o la legge che viola l’art. 8 CEDU14. (5) Poiché la Corte di Strasburgo fa parte dell’Organizzazione del Consiglio d’Europa e quindi ha un background amministrativo e politico, e poiché decide un gran numero di casi ogni anno, produce una enorme quantità di documenti giuridici di cui poter usufruire, disponibili in tutta Europa attraverso il sistema di documentazione della Corte15. (6) La considerevole importanza della giurisprudenza CEDU per i cittadini e i residenti dei paesi membri del Consiglio d’Europa dipende in primo luogo dal fatto che la Corte può operare in termini molto ampi; essa soltanto può decidere se l’ordine pubblico contestato dal ricorrente garantisca il “diritto umano” che si ritiene leso, sancito dall’art. 8 CEDU («Protezione della vita familiare»). La Corte non deve applicare la legge nazionale, ma la esamina e non è vincolata alla decisione del giudice di ultima istanza16. Piuttosto, può incidere su profili non considerati nel procedimento nazionale: circostanza, questa, di massima importanza. In secondo luogo, si segnala l’“interpretazione dinamica” che caratterizza l’approccio della Corte con riferimento agli articoli sui diritti umani come l’art. 8 CEDU17. La “famiglia” e la “vita familiare” sono state oggetto di un più ampio campo di applicazione negli ultimi decenni, quando il ricorso alla Corte europea è progressivamente aumentato. Ogni questione in tema di “famiglia” o “vita familiare” può essere sottoposta alla Corte se sono soddisfatti i requisiti procedurali. (e) Per i motivi sopra esposti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo offre costantemente decisioni degne di rilievo18. (7) Per concludere, vorrei spiegare perché le decisioni di Strasburgo condannano alcuni stati più spesso di altri, soprattutto con riferimento all’applicazione dell’art. 8 CEDU.
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Tale previsione è entrata in vigore dopo il 1° novembre 1998 (per effetto dell’Undicesimo protocollo additivo alla CEDU che ha riformato la Corte EDU e le sue competenze odierne). 12 “Ricorso individuale”, art. 34 ss. CEDU (in contrapposizione al “ricorso dello Stato membro”, art. 33 CEDU). 13 Art. 47 CEDU “Regole procedurali della Corte” (Rules of Court); cfr. la versione inglese in <https://web.srchive.org.web20100501142442/ http://www.echr.coe.int/NR/rdonlyres/6AC1AO2E-9°3C-4E06-94EF-E0BD377731DA/0/RulesOfCourt_June2010pdf.>. La traduzione italiana ufficiale non esiste. 14 Art. 46 CEDU. Il risarcimento della vittima è previsto e disciplinato dall’art. 41 CEDU. 15 La Corte EDU è “vittima del suo successo”; cfr., per il gran numero di procedimenti pendenti, le statistiche della Corte, “Internet Archive”, pdf maggio 2011 e i contributi di “Wikipedia” relativi alla Cedu e alla Corte EDU in lingua italiana o tedesca. 16 Cfr. art. 29 e artt. 59-63 CEDU. Per la funzione del “ricorso pilota” cfr. artt. 61 ss.. 17 Cfr. come contributo italiano M. Giorgianni, Il rapporto fra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nel dialogo fra le Corti europee e nazionali: il problema dell’interpretazione dei diritti umani, in <http://www.diritticomparati.it/autore/michaela-giorgianni/>. 18 Cfr. nota n. 2; cfr. anche (fino a dicembre 2018) Ministero di Giustizia, Sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
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Ciò accade per gli stati in cui le riforme in ambito di diritto di famiglia e protezione della famiglia hanno considerato soltanto in parte il progressivo giudizio complessivo della Corte rispetto agli stati che concepiscono il diritto di famiglia come “diritto in evoluzione” conformemente agli orientamenti moderni della Corte di Strasburgo. In secondo luogo, alcuni stati – come la Svizzera – ove il “ricorso alla Corte costituzionale” non è così diffuso e frequente, è più probabile che vengano citati in giudizio a Strasburgo e, dunque, condannati se necessario. 2. L’art. 7 della Carta UE che sancisce il rispetto della vita privata e familiare19 è modellato sull’art. 8 CEDU.
III. La prassi. 1. Ovviamente, la Carta UE, come elenco dei diritti e delle libertà fondamentali, riconosce una serie di diritti fondamentali nel campo della vita privata e familiare. L’art. 8 CEDU contiene una disposizione di protezione individuale per i singoli, che può essere applicata contro qualsiasi atto nazionale nel campo di operatività della CEDU. Per contro, l’art. 7 della Carta UE è una disposizione di diritto primario della UE riconducibile alla legge primaria del Trattato di Nizza. Riguarda esclusivamente la tutela della persona contro la violazione del diritto dell’UE (diritto primario e secondario). La tutela dei diritti umani riconosciuti dalla legislazione secondaria dell’UE è garantita, ai sensi dell’art. 7 della Carta, soltanto mediante ricorso dinanzi ad un tribunale nazionale20; questo tribunale rimette alla Corte di Giustizia europea (con sede a Lussemburgo) la decisione sui dubbi in merito alla compatibilità di un diritto dell’“acquis communautaire” dell’UE con l’art. 7 della Carta (quale espressione di “diritto primario e fondamentale” dell’UE). La “protezione della vita familiare” può essere teoricamente desumibile da molti regolamenti e direttive di Bruxelles; nella pratica, tuttavia, ad oggi nessuna giurisprudenza è paragonabile per importanza alla giurisprudenza di Strasburgo con riferimento alla legge sul diritto d’asilo e sulla immigrazione per la protezione degli stranieri e dei rifugiati contro l’espulsione e la deportazione. È ipotizzabile che i regolamenti UE in tema di partnership omosessuale non fondata sul matrimonio possano essere oggetto di controllo giudiziale. Infine, è ipotizzabile che anche la disciplina prevista dal “Regolamento Bruxelles II” sia messa in discussione. Viceversa, si deve sottolineare che il diritto di famiglia nazionale e i relativi procedimenti da esso contemplati non possono essere valutati ai sensi dell’art. 7 della Carta UE.
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Art. 7 - Rispetto della vita privata e della vita familiare. “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”. 20 Cfr. le suindicate decisioni dei tribunali tedeschi e della Corte di Lussemburgo, relative all art. 7 ChUE, in <de jure.org>.
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2. Un ulteriore profilo degno di rilievo riguarda l’applicazione dei principi CEDU nella prassi. È necessario distinguere tra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e osservanza della CEDU nella giurisprudenza nazionale degli stati membri del Consiglio d’Europa. È evidente come l’art. 8 CEDU sia in grado di influenzare l’intero ambito del “diritto di famiglia” e i campi di applicazione ad esso correlati. Permettetemi di iniziare facendo riferimento alla Corte di Strasburgo e all’ltalia. In Italia, si assiste attualmente ad un dibattito significativo sulla crisi familiare e sulla “violenza domestica”. Lo stesso vale, in merito a questo fenomeno, per altri stati firmatari della Convenzione EDU. Il caso “Talpis” del 2017 ha avuto un ruolo significativo per l’evoluzione del diritto in ltalia: si tratta di un caso di “violenza domestica” perpetrata da un marito e padre nei confronti della moglie e del figlio, risoltosi in un reato di omicidio. La causa dell’omicidio fu individuata nel presunto comportamento scorretto della polizia chiamata per prestare soccorso, che, a parere della Corte, costituiva una violazione dell’art. 8 CEDU. La conseguenza fu la condanna dell’Italia al risarcimento dei danni21. In ragione dell’effetto vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo, l’Italia è tenuta a rivedere la propria legge nazionale con riguardo a due aspetti: in primo luogo, la legge di polizia deve essere rafforzata, in modo che la polizia possa intervenire più rapidamente in ipotesi di semplice richiesta di aiuto e poi occorre che la legge rafforzi la tutela delle persone minacciate (ad esempio, mediante “divieti di residenza” oppure con la previsione di un’“esecuzione forzata più veloce e più semplice”). Situazioni simili hanno portato in Germania alla modifica delle leggi di polizia e alla approvazione della “Legge contro la violenza domestica” (“Violence Protection Act” / “Gewaltschutzgesetz”), che prevede i rimedi di diritto civile suindicati, frequentemente impiegati. La protezione della vita familiare contro la violenza domestica è argomento attuale e molto dibattuto. L’art. 8 CEDU, che sancisce il diritto al “rispetto della vita familiare”, ha acquisito un significato molto più ampio nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Il suo ambito di applicazione copre sostanzialmente tutto il diritto di famiglia. Ci sono molte fattispecie suscettibili di essere valutate applicando l’art. 8, anche se devo dire che non ogni singolo ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo viene accolto. I risultati non sono univoci. Ovviamente, i ricorsi dinanzi alla Corte sono riconducibili a domande che non sono state ancora decise nel paese di origine o sono state decise negativamente per il ricorrente. Su tali questioni appare decisivo il ricorso alla Corte di Strasburgo, dopo il mancato accoglimento della domanda nel paese di origine, come – forse ultima – possibilità per il ricorrente affinché la Corte EDU inverta l’esito del giudizio; appare come una ulteriore “chance” l’eventualità che la Corte di Strasburgo modifichi l’interpretazione della
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Talpis v. Italy, 2 marzo 2017, ricorso n. 41237/14; cfr. nota n. 9. Per altre sentenze della Corte di Strasburgo contro l’Italia cfr. sopra nota n. 19.
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situazione fattuale e giuridica del caso resa dai tribunali nazionali. Spesso, dinanzi ai giudici di Strasburgo, si lamenta la violazione dell’art. 8 CEDU (protezione della vita familiare) in combinato disposto con l’art. 3 Cost. (protezione contro la discriminazione). È il caso, ad esempio, in cui il padre biologico, che non ha mai riconosciuto il figlio biologico, lo consideri come figlio anche contro la volontà della madre. In tali procedimenti è evidente la capacità dei giudici di Strasburgo di esprimere giudizi equilibrati e soppesati. Allo stesso modo, questa capacità si riflette nelle decisioni sull’adozione nelle unioni civili o registrate. L’unione civile o registrata e i diritti dei partners nei confronti dei figli sono stati (e sono ancora) oggetto di numerosi procedimenti a Strasburgo, con decisioni che non hanno riconosciuto l’eguaglianza tra unione civile e matrimonio o addirittura ammesso l’estensione della disciplina del matrimonio “tradizionale” all’unione civile, come in Germania ove è riconosciuto il “matrimonio per tutti” (§ 1353 nF BGB dal 1.10.2017). In questo contesto, il concetto di “famiglia” più ampiamente inteso include le relazioni fondate sul matrimonio, quelle non coniugali e le cosiddette “relazioni di partenariato” (sia eterosessuali che omosessuali). Allo stesso modo, sono ad essa riconducibili la parentela e probabilmente anche le relazioni incestuose. Un criterio importante per la Corte di Strasburgo in tutti questi casi è l’esistenza di una “relazione affettiva”. Pertanto, la relazione non coniugale, quando sufficientemente “consolidata”, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 8. 3. “Vivere insieme” non è elemento costitutivo essenziale della “vita familiare” di cui all’art. 8 CEDU, così che – in ogni caso – i rapporti tra i coniugi e i loro figli sono considerati “vita familiare” e, pertanto, sempre riconducibili al suindicato art. 8. Rientra nell’ambito di tutela accordato dall’art. 8 CEDU la regolamentazione dell’affidamento dei figli dopo lo scioglimento del matrimonio, anche in relazione alla sottrazione di minori in base alla Convenzione dell’Aja. È ascrivibile all’art. 8 CEDU, la tutela dei figli nati nel matrimonio e fuori del matrimonio, anche con riferimento al principio di eguaglianza e, in ultima analisi, il mantenimento degli stessi. Anche il “diritto al nome” rientra nell’ambito di applicazione del suddetto art. 8, per quanto riguarda il cognome dei coniugi e quello dei minori, nonché i nomi di battesimo, poiché tradizionalmente il rapporto coniugale o l’esistenza di altre relazioni familiari assumono rilevanza sotto questo profilo. Una stretta connessione tra “protezione della vita familiare” e diritto alla “tutela della persona” si segnala con riferimento ai casi in cui debba valutarsi la richiesta del figlio che dubita delle proprie origini di ottenere informazioni sulla propria origine genetica dalla madre o dal padre biologico. 4. L’art. 8 CEDU svolge, altresì, un ruolo non trascurabile nelle decisioni in materia di “immigrazione” per contrastare le espulsioni e le deportazioni dei migranti e ai fini della valutazione di decisioni negative in tema di “ricongiungimento familiare”. 5. Concludo sottolineando l’ampiezza del concetto di “tutela della vita familiare”, che in linea di principio consente di sottoporre a controllo tutti i profili e gli ambiti del diritto di famiglia dinanzi alla Corte di Strasburgo. È altresì significativo che non solo il diritto di famiglia afferente al diritto privato, sia riconducibile all’art. 8 CEDU, ma anche i profili ascrivibili al diritto pubblico, con riferimento alle ipotesi di violazione della vita familiare sotto forma di “impedimento” della convivenza dei membri della famiglia in territorio nazionale.
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6. Tornando alla Corte di Giustizia UE (con sede a Lussemburgo) e prendendo in considerazione la procedura prevista dall’art. 7 della Carta UE, la minore importanza dei precedenti giurisprudenziali è evidente. Essa dipende dalla limitata applicabilità dell’art. 7 della Carta UE in caso di violazione della vita familiare. Come già detto, il numero di sentenze della Corte di Giustizia UE, è significativamente inferiore rispetto a quelle pronunciate dalla Corte di Strasburgo. A ben vedere, il “controllo del diritto di famiglia” è più limitato con riferimento all’art. 7 della Carta UE22. Sebbene i termini ricorrenti nella legislazione UE in materia di diritto di famiglia siano stati in più occasioni modificati dalla Corte di Giustizia, la revisione più importante è quella relativa al termine “coniuge” impiegato in applicazione dell’art. 7 della Carta UE. Diversamente, i procedimenti non propriamente di diritto di famiglia, ma quelli riguardanti diritto di asilo e immigrazione, nonché espulsione e deportazione sono prevalenti. Qui, l’art. 7 svolge il suo ruolo di controllo e di disposizione interpretativa quando si tratta di applicare misure compatibili con il “vivere insieme come una famiglia” sul piano amministrativo. Infine, è bene sottolineare che l’art. 7 della Carta UE ha una sfera sostanziale di protezione non meno ampia di quella dell’art. 8 CEDU, su cui è stata modellata. L’art. 7 può quindi avere rilevanza per i diritti familiari laddove gli strumenti giuridici comunitari secondari tutelino la posizione giuridica di una persona23, come i regolamenti “Roma III”, “Roma IV” e “Roma V”. Un esempio è dato dai concetti di “coniuge”, “figlio”, “genitore”, “responsabilità genitoriale”, che diventano controversi quando si applica uno di questi regolamenti. Si può quindi adottare l’interpretazione giurisprudenziale fornita dalla Corte di Strasburgo con riferimento all’8 CEDU, in quanto l’art. 7 della Carta UE, come è noto, è stato modellato sull’art. 8.
IV. Conclusioni. Alla luce delle considerazioni svolte, concludo affermando che, a mio avviso, l’art. 8 CEDU ha attualmente maggiore importanza rispetto all’art. 7 della Carta UE. L’art. 8 CEDU è applicabile per garantire la “protezione della vita familiare”, la revisione delle decisioni nazionali e, se necessario, la successiva modifica della legislazione nazionale. Ciò ha un indubbio interesse pratico per gli avvocati familiaristi in quanto consente di prevedere se per il legislatore italiano, ad esempio, il petitum del cliente, indipendentemente dalla decisione del tribunale, sia compatibile o meno con la “protezione della vita familiare” nel senso più ampiamente inteso di cui all’art. 8 CEDU.
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V. sopra nota 21. Cfr. il caso “Ahmedbekova”, 28 giugno 2018, ricorso C-652/16.
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Gerhard Hohloch
Va sottolineato ancora una volta che l’interpretazione dell’art. 8 sulla “protezione della vita familiare” è piu ampia di quella riconosciuta dai diritti fondamentali sanciti dalle costituzioni nazionali in tema di famiglia e matrimonio. Ma ci sono altri due aspetti da considerare: i ricorsi alla Corte di Strasburgo sono molto numerosi, quindi la durata dei procedimenti raramente è più breve che in Italia; inoltre, il legislatore italiano ha reagito alle condanne della Corte spesso mostrandosi cauto nell’attuazione di modifiche legislative. La situazione è diversa con riferimento all’art. 7 della Carta UE, finora scarsamente applicato.
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Elsa Bivona
L’obbligo di fedeltà dopo la stagione delle riforme* Sommario : 1. L’obbligo di fedeltà come paradigma dell’evoluzione del diritto di famiglia. – 2. (segue) e come fattispecie emblematica di illecito endofamiliare. – 3. Obbligo di fedeltà e “interferenze” tra matrimonio ed unioni civili: gli orientamenti dottrinali sulla mancata previsione dell’obbligo nella l. n.76/2016. – 4. Le unioni civili come “luogo” di realizzazione della coppia. – 5. l riflessi della “dimensione di coppia” nella l. n. 76/2016. – 6. Obbligo di fedeltà e autonomia privata: sulla sua derogabilità nei rapporti tra coniugi. – 7. (segue) e sull’ammissibilità di una sua integrazione pattizia nelle unioni civili.
The issue regarding fidelity obligation can be viewed from more than one standpoint, reopening a path to the central questions concerning family law. A tangible sign of progress so far is the principle of equality between husband and wife, fidelity obligation is also an important landmark in the rapid evolution that as been reached with the introduction of civil responsibility even within the family circle. The lack of provision in the recent law on civil unions is today the focus of a lively doctrinal debate. This omission, seen in different lights by scholars, seems to reflect a legal idea of the of civil union as the chosen “place” for homosexual couples, by nature alien both to the idea of procreation and to that of a “community” dimension that connotes a traditional family. This latter aspect seems to find confirmation in the lack of provision for collaboration and in the minimal procedures required to dissolve the relationship as well as in the preclusion of binding relations with family members of the other party. Another interesting aspect concerns the relationship between the fidelity obligation and private autonomy, with particular reference, on the one hand, to the decline in such a duty between husband and wife and, on the other, the possibility that the parts of a civil union create fidelity obligation to each other through pacts.
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Contributo relaizzato con fondi per la ricerca di Ateneo - Piano per la Ricerca 2016-2018 – Università di Catania, dipartimento di Giurisprudenza.
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1. L’obbligo di fedeltà come paradigma dell’evoluzione del diritto di famiglia.
Il tema dell’obbligo di fedeltà offre più di un angolo di osservazione per ridiscutere itinerari centrali del dibattito che negli ultimi cinquanta anni ha riguardato il diritto di famiglia. Esso è anzitutto segno tangibile della profonda trasformazione che ha investito dall’interno la struttura stessa della famiglia, direttamente riflettendosi sulla conformazione dell’obbligo in parola che oggi appare dunque radicalmente mutato sia sul piano del contenuto, sia sul piano delle conseguenze per una sua eventuale violazione. Quanto al contenuto, la concezione tradizionale dell’obbligo di fedeltà trovava radice in un modello familiare imperniato sulla diseguaglianza tra coniugi e sul legame assai stretto tra matrimonio e filiazione. In particolare, nell’originario impianto codicistico l’obbligo di fedeltà, insieme a quello di coabitazione, apparivano strettamente funzionali al principio di presunzione della paternità: il rischio della c.d. turbatio sanguinis derivante da adulterio della moglie, assunto come grave minaccia per l’unità della famiglia, giustificava una distinta e più rigida disciplina rispetto a quella prevista per l’adulterio del marito, così contribuendo a rinsaldare il nesso tra obbligo di fedeltà e certezza dell’ascendenza biologica, anche al fine della conservazione della ricchezza del gruppo familiare1. L’affermazione del principio egualitario -sancito dall’art. 29, II c., Cost., e poi pienamente attuato con la Riforma del 19752- insieme alla cesura tra matrimonio e filiazione alla luce dello status unico di figlio ed alla scissione tra atto sessuale e concepimento, consacrata dall’avvento delle tecniche di fecondazione, hanno nel tempo contribuito alla radicale trasformazione dell’ob-
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Sul punto, F. Carnelutti, Fedeltà coniugale e unità della famiglia, in Riv. dir. civ., 1962, I, 3. Ed invero, mentre «pel puro e semplice fatto dell’adulterio della moglie» era dato accogliere la domanda di separazione proposta dal marito, quella della moglie andava ricusata salvo il caso di infedeltà perpetrata dal coniuge con modalità tali da arrecare grave ingiuria (art. 151, II c., c.c.): in proposito, cfr. R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, II, Milano - Messina, 1932, VI ed., 109. Sul piano penalistico, poi, mentre l’infedeltà della moglie in ogni caso veniva configurata come reato, ex art. 559 c.p., quella del marito riceveva tale qualifica solo ove la relazione extraconiugale assumesse i connotati della convivenza more uxorio (art. 560, c.p.). È graduale il riconoscimento della pari dannosità dell’adulterio della moglie e di quello del marito per l’unità familiare: un percorso segnato, prima, dagli interventi della giurisprudenza costituzionale e poi dalla riforma del diritto di famiglia. Il primo orientamento della Corte Cost. era nel senso della legittimità delle vedute disposizioni (v. supra, nt.1) che, tanto sul piano civilistico che su quello penalistico, regolavano diversamente l’adulterio della moglie e quello del marito: infatti, Corte Cost. 28 novembre 1961, n. 64, in Giur. it., 1962, I, 1, c. 357, dichiarò che l’art. 559 c.p., che qualificava reato solo l’adulterio femminile, in nessun modo violasse il principio di uguaglianza poiché per tale via «non è stata creata a carico della moglie alcuna posizione di inferiorità, ma soltanto è stato preso atto di una situazione diversa, adattandovi una diversa disciplina giuridica. Che poi tale disciplina soddisfi ogni esigenza e sia mezzo idoneo e sufficiente per le finalità prese in considerazione, è questione di politica legislativa, non di legittimità costituzionale». Successivamente, Corte Cost., 19 dicembre 1968, n. 126, in Giur. it., 1969, I, 416, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 c.p., ha affermato che «per l’unità familiare costituisce indubbiamente un pericolo sia l’adulterio del marito sia quello della moglie; ma quando la legge faccia un differente trattamento, questo pericolo assume proporzioni più gravi, sia per i riflessi sul comportamento di entrambi i coniugi, sia per le conseguenze psicologiche sui soggetti». Se questo fu il primo passo verso l’affievolirsi del dovere di fedeltà come garanzia di certezza della paternità, altri ancora ne vennero compiuti là dove la medesima Corte sancì prima l’illegittimità dell’art. 151 c.c. (Corte Cost. 19 settembre 1968, n. 127, in Foro it., 1969, I, c. 4 ss.) e poi quella dell’art. 156, I comma, c.c., per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui quest’ultimo non limita l’obbligo di fedeltà imposto ai coniugi consensualmente separati «al dovere di astenersi da quei comportamenti che, per il concorso di determinate circostanze, siano idonei a costituire ingiuria grave all’altro coniuge» (Corte Cost. 1974, n. 99, in Foro it., 1974, I, 1574).
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bligo di fedeltà3: ne risulta oggi assai sfumata l’accezione materialistica, rimanendo sullo sfondo gli aspetti legati al c.d. ius in corpus, inteso ora come debitum coniugale ora quale vero e proprio diritto reale4. Nella transizione da una dimensione “pubblicistica” della fedeltà, rivolta alla tutela di interessi esterni e superiori, ad una “privatistica”, invece tesa alla promozione dell’armonia interna alla famiglia5, l’obbligo di fedeltà muta il suo contenuto e nel pensiero della dottrina più autorevole diviene sintesi di quei doveri di lealtà, dedizione, comprensione reciproca, rispetto e, in definitiva, espressione della “fedeltà alla scelta familiare”6. Anche nell’elaborazione compiuta dalla giurisprudenza tale obbligo, lungi dal rimanere appiattito alla “grossolanità di non commettere adulterio”7, giunge ad includere ogni condotta incompatibile con quegli obblighi di dedizione esclusiva e di compostezza che ciascun coniuge può esigere dall’altro, la cui violazione è idonea a minare il rapporto
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In argomento, cfr. F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013, 293. Com’è noto, il superamento della distinzione tra “figli legittimi” e “figli naturali” è stato consacrato con la l. 10 dicembre 2012, n. 219 «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali»: in argomento, cfr. C. M. Bianca, La legge italiana conosce solo figli, in Riv. dir. civ., 2013, 1 ss.; P. Rescigno, La filiazione «riformata»: l’unicità dello status, in ID, Lo status di figlio, in Giur.it., 2014, 1261 ss.; U. Salanitro, La riforma della disciplina della filiazione dopo l’esercizio della delega, in Corr. giur., 2014, 540 ss. A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Legislazione, dottrina, giurisprudenza, Milano, 1988, 268, guardano alla fedeltà come diritto alla disponibilità sul corpo dell’altro. Sulla fedeltà come ius in corpus, F. Vassalli, Del ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, Roma, 1944, 27 e p.134, ove con riguardo all’accezione di fedeltà come “rapporto di signoria dell’uno sul corpo dell’altro, del tutto corrispondente a quello della persona sulla cosa”, lo studioso osservava criticamente che “non occorre (…) menomamente far capo alla nozione del diritto reale o del diritto di credito”. F.D. Busnelli, Il dovere di fedeltà coniugale, oggi, in Giur. it., 1975, IV, c. 129, il quale osserva che “la mutua dedizione dei corpi è strumento naturale e normale di realizzazione e di consolidamento d quella comunione spirituale tra i coniugi che costituisce il fine primario del matrimonio. Ed è in diretta correlazione con tale fine (…) che va concepito il dovere di fedeltà”. Una concezione “materialistica” del dovere di fedeltà si ritrova anche in V. Pilla, Gli obblighi coniugali e la responsabilità civile, in Persona e danno, a cura di P. Cendon, III, Le persone deboli, i minori, i danni in famiglia, Milano, 2004, 2922, secondo cui “se con il matrimonio sorge il diritto-dovere di instaurare una relazione sessuale con il coniuge, l’unione coniugale impone che tale relazione sia esclusiva, nel senso che devono considerarsi in violazione degli obblighi coniugali e, pertanto, illeciti tutti i contatti sessuali con soggetti diversi dal partner”. In giurisprudenza, C. Cost., 18 aprile 1974, n.99, che individuava il dovere di fedeltà nell’astensione dei coniugi dall’instaurare rapporti sessuali con terzi. Resta allora escluso dal contenuto dell’obbligo di fedeltà, il dovere di intrattenere rapporti sessuali con il partner: in proposito, cfr. T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, in Jus, 2017, 292, secondo cui “il fermo ed immotivato rifiuto di intrattenere rapporti sessuali deve, invece, inquadrarsi nella violazione del dovere di assistenza”. In giurisprudenza, cfr. Cass. 23 marzo 2005, n. 6276, in Foro it., 2005, c. 2994. La giurisprudenza meno recente ricollegava tale rifiuto alla procreazione quale essenziale finalità del matrimonio e osservava che «il disertare senza giustificato motivo il talamo coniugale, con la conseguente astensione da ogni rapporto sessuale, importa la violazione di uno dei doveri derivanti dal matrimonio e rappresenta un’ingiuria grave per l’altro coniuge»: Cass. 19 novembre 1954, n. 4272, in Giust. civ., 1955, I, 1159; per la dottrina coeva, la quale configurava uno ius in corpus in capo a ciascun coniuge nei riguardi dell’altro, M. Duprè, Il dovere dell’atto coniugale e l’illiceità del patto di dispensa, in Foro it., 1942, II, c. 68. F.D. Busnelli, Il dovere di fedeltà coniugale oggi, cit., c. 133, che rileva come il dovere di fedeltà non possa più configurarsi come «obbligo di diritto pubblico, ma deve trasformarsi in un impegno squisitamente privatistico ed esclusivamente familiare. La sua previsione non è volta a tutelare il decoro o il prestigio dell’uno o dell’altro coniuge, ma mira a salvaguardare e consolidare la comunione di vita: ciò che preme non è l’apparenza né l’“estimazione pubblica”, bensì l’armonia interna, nella misura in cui è possibile, e più in generale la stabilità del nucleo familiare, anche nell’interesse dei figli». M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi. Art 143- 147, in Cod. comm. Schlesinger, Milano, 2012, 62 s. Sottolinea la rilevanza dell’infedeltà come condotta idonea a ledere la dignità del coniuge, C. M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014, V ed., 59. s.; Ruscello, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando-M. Fortino-F. Ruscello, II ed., Milano, 2011, 1031 ss. A. C. Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. Vassalli, III, 1, Torino, 1961, III ed., 419, secondo il quale la fedeltà ha «una portata più ampia e che solo uno dei doveri racchiusi nel concetto di fedeltà venga leso con l’adulterio».
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di fiducia che è alla base di qualsiasi convivenza8: così, ormai acquisito che una relazione extraconiugale omosessuale integri infedeltà al pari di quella consumata con un partner di sesso diverso9, è ritenuto contegno infedele quello che genera sospetto o mera parvenza di tradimento e per sé considerato idoneo a ledere la dignità dell’altro coniuge (cd. adulterio platonico o apparente10); ovvero i rapporti intrattenuti tramite social network che consente al coniuge di “allacciare una relazione di natura pseudo-sentimentale” restando irrilevante che a ciò segua oppur no l’instaurazione di una vera e propria relazione di natura sentimentale11; e, altresì, il “tentativo di adulterio” che ad esempio si consuma con un corteggiamento non andato a buon fine12; o, ancora, il radicarsi di “un sentimento affettivo e solidaristico del tutto diverso da quello che di norma contraddistingue il rapporto tra un fedele ed il proprio padre spirituale”13. Infine, con l’avvento delle pratiche di fecondazione assistita, la fedeltà è ormai pacificamente declinata come dovere di astenersi da condotte da cui possa derivare la nascita di un figlio che non sia anche del partner, come ad esempio la maternità surrogata o la donazione di gameti e, ancora oltre, da decisioni
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Un primo passo verso il nuovo modo di intendere l’obbligo di fedeltà è segnato da Cass. 24 marzo 1976, n. 1045, che sottolinea la irriducibilità del dovere di fedeltà al divieto di intrattenere relazioni sessuali con terzi, affermando come esso si sostanzi nella tutela e nella salvaguardia della dignità dell’altro coniuge. Ancora più emblematica del nuovo corso giurisprudenziale, Cass. 18 settembre 1997, n. 9287, che rileva come «il dovere di fedeltà…consiste nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che (…) non deve essere intesa soltanto come astensione da relazioni extraconiugali. La nozione di fedeltà va avvicinata a quella di lealtà, la quale impone di sacrificare gli interessi e le scelte individuali di ciascun coniuge che si rivelino in conflitto con gli impegni e le prospettive della vita comune. In questo quadro la fedeltà affettiva diventa componente di una fedeltà più ampia che si traduce nella capacità di saper sacrificare le proprie scelte personali a quelle imposte dal legame di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda». Quanto all’operatività dell’obbligo di fedeltà nelle convivenze cfr. G. Perlingieri, Interferenze tra unione civile e matrimonio. Pluralismo familiare e unitarietà dei valori normativi, in Romeo (a cura di), Diritto delle successioni e della famiglia. Quaderni, n. 19, Nuovi modelli familiari e autonomia negoziale, Napoli, 2018, 107, il quale osserva che, ove si giungesse ad estendere tale obbligo (così come quello di coabitazione, assistenza, collaborazione e contribuzione), si finirebbe col sanzionare «coloro che liberamente e consapevolmente hanno scelto di non contrarre matrimonio o un’unione civile e, quindi, di non assumere gli obblighi previsti dalle relative norme». 9 Ormai superato, infatti, è l’orientamento giurisprudenziale che nega la ricorrenza dell’adulterio nei casi di relazione omosessuale (App. Torino 12 aprile 1940, in Foro it., 1940, Separazione dei coniugi, n. 10), pur se in tal senso sembra ancora orientata parte della dottrina: cfr., F. Scardulla, La separazione personale dei coniugi e il divorzio, Milano, 2003, 244. Sull’argomento, G. Facci, Relazione omosessuale ed illecito endofamiliare, in Fam. e dir., 2007, 59 ss., commento a Trib. Brescia, 14 ottobre 2006. Per il nuovo orientamento giurisprudenziale in materia, cfr. Cass. 25 marzo 2009, n. 7207; Cass. 1 marzo 2005, n. 4290. 10 Cfr. Cass. 19 settembre 2017, n. 21657; Cass. 12 aprile 2013, in Fam. e dir., 2013, 602; Trib. Milano 25 giugno 2012; Cass. 7 settembre 1999, n. 9472, che ha ravvisato la violazione dell’obbligo di fedeltà, con conseguente addebito della separazione, nel caso in cui la relazione “in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”. U. Roma, Fedeltà coniugale: nova et vetera nella giurisprudenza della Cassazione, commento a Cass. 11giugno 2008, n. 15557, in Nuova giur. civ., 2008, 1288 s. 11 Trib. Taranto, 14 novembre 2014; Trib. Prato 28 ottobre 2016. 12 Cass. 16 aprile 2018, n. 9384, in Fam. dir., 2018, 637 ss. con nota di S.P.Perrino, La rilevanza del tentato adulterio, secondo cui l’infedeltà, anche se consistita nella ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet, è circostanza “oggettivamente idonea a compromettere la fiducia tra i coniugi e a provocare l’insorgere della crisi matrimoniale all’origine della separazione”; Cass. 7 settembre 1999, n. 9472, in Giur.it., 2000, I, 1165, con nota di O.B. Castagnaro, La Cassazione ritiene il tentato adulterio, se inserito in un comportamento complessivo causante l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, idoneo ad integrare una pronuncia di addebito. Contrario a tale orientamento giurisprudenziale, che nel sanzionare il “nulla, o al più, un desiderio” dilata oltremodo il concetto di fedeltà, M. Finocchiaro, in Guida al dir., 25 settembre 1999, n. 33-37. 13 Trib. Milano 22 giugno 2012.
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unilaterali che precludano la generazione, come quella di sottoporsi a sterilizzazione o di praticare l’aborto14. Sul piano delle conseguenze, poi, definitivamente spogliata di qualsivoglia rilevanza penalistica, l’infedeltà ha altresì perduto la sua funzione di giusta causa per la separazione e per il mutamento del relativo titolo15, né è in grado di per sé sola di dar luogo all’addebito, ben potendo inserirsi nel quadro di un’intesa già compromessa16. Non è poi superfluo osservare come a seguito dell’introduzione del c.d. divorzio breve e della conseguente riduzione del periodo di separazione necessario per la proposizione della domanda di divorzio, l’efficacia dell’addebito è destinata ad affievolirsi ulteriormente17.
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M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, in Comm. cod. civ. Schlesinger, diretto da Busnelli, II ed., Milano, 2012, 63; R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Famiglia e matrimonio, I, a cura di T. Auletta, Torino, 2010, 123. In proposito, giova rammentare come, per il caso in cui la moglie abortisca senza consultare né informare il marito, la giurisprudenza abbia negato in capo a quest’ultimo il diritto al risarcimento del danno in quanto portatore di un mero “interesse” alla paternità che si contrapporrebbe al diritto assoluto della donna alla tutela della salute: Cass. 5 novembre 1998, n. 11094, in Fam. e dir., 19999, 125, con nota di G. Ferrando, L’interruzione della gravidanza tra autonomia della donna e accordo dei coniugi. 15 In proposito, s’ è già veduto come la Corte Costituzionale abbia dichiarato l’incompatibilità del dovere di fedeltà con lo stato di separazione, in cui sopravvive il solo dovere di rispetto reciproco: così, la giurisprudenza è ormai pacifica nel senso che la domanda di addebito possa fondarsi unicamente su quelle violazioni dei doveri coniugali che abbiano determinato la intollerabilità della convivenza, perciò solo quelle precedenti al suo dissolvimento. Per la dottrina sul punto, F. Santoro- Passarelli, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, sub art. 143 c.c., in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da G. Cian - G. Oppo - A. Trabucchi, II, Padova, 1987, 509 s., che osserva come «sia venuta a cadere la menomazione dell’obbligo di fedeltà fra coniugi separati»; A. Trabucchi, Separazione dei coniugi e mutamento del titolo per addebito di fatti sopravvenuti, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 2145. In giurisprudenza, Cass. 20 settembre 2017, n. 21859; Cass. 19 settembre 1997, n. 9317, in Fam. e dir., 1998, 10 ss., con nota di A. Mora, Obbligo di fedeltà tra coniugi separati e mutamento del titolo della separazione . 16 Per tali rilievi, M. Paradiso, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, in Riv. dir. civ., 2016, 1313. In giurisprudenza, da ultimo, Cass. (ord.) 23 gennaio 2019, n. 1715; cfr. Cass. 11 giugno 2008, n. 15557, secondo cui “l’infedeltà di un coniuge, la quale pur rappresentando una violazione particolarmente grave, specie se attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, può essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, e non anche, pertanto, qualora risulti non aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza medesima, come avviene allorquando il giudice accerti la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto, perciò autonoma ed indipendente dalla successiva violazione del dovere di fedeltà”: un orientamento che, inaugurato da Cass. 23 aprile 1982, n. 2494, in Foro it., 1982, I, c.1895, con nota di A. Jannarelli, in Dir. fam., 1982, 1204, può dirsi oggi pacifico (conformi, Cass.15 maggio 2017, n. 12392; Cass. 6 marzo 2017, n. 5510; Cass. 24 agosto 2016, n. 17317; Cass.2 dicembre 2015, n. 24473; Cass. 23 maggio 2008, n. 13431). Tale impostazione si riflette altresì sulla ripartizione dell’onere probatorio: secondo l’orientamento in parola, graverebbe sul coniuge che invoca l’infedeltà ai fini dell’addebito la prova del nesso eziologico tra la condotta infedele ed il pregiudizio della comunione spirituale familiare (Cass. ord. 19 febbraio 2018, n. 3923). L’opposto indirizzo, che invece guarda all’adulterio come circostanza normalmente idonea al dissolvimento della comunità familiare, grava invece sul coniuge infedele la prova dell’assenza del nesso eziologico: cfr., in tal senso, Cass. 14 febbraio 2012, n. 2019, secondo cui incombe «sulla parte che richieda, per l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà, l’addebito della separazione all’altro coniuge l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, e quindi dell’infedeltà nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata infedeltà». Per la dottrina in argomento, cfr. A. Cordiano, Il principio di autoresponsabilità nei rapporti familiari, in Comparazione e diritto civile, diretto da G. Autorino Stanzione, Torino, 2018, spec. 51 s.; D. Morello Di Giovanni, Obbligo di fedeltà e pronuncia di addebito, in Fam. dir., 2013, 779 ss.; M. Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 107; F. Ruscello, Funzione dell’addebito e presunto nesso di causalità tra intollerabilità della convivenza e violazione dei doveri coniugali, in Vita not., 2006, 591 ss.; Id, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, cit., 1032 s. 17 In argomento, sull’uno e sull’altro profilo, cfr. F. Scia, Onere della prova del nesso causale tra violazione del dovere di fedeltà coniugale e intollerabilità della prosecuzione della convivenza, in Nuova giur.civ.comm., 2016, 1495. Com’è noto, il “divorzio breve” è stato introdotto dalla l. n. 55/2015 «Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra coniugi»: in dottrina, tra tanti, cfr. G. Ferrando, Il divorzio breve: un’importante novità nel solco della tradizione, in Corr. giur., 2015, 1041 ss.; F. Danovi, I rapporti tra il processo di separazione e il processo di divorzio alla luce della l. n. 55/2015, in
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2. (Segue) e come fattispecie emblematica di illecito endofamiliare.
Mutando angolo di osservazione, l’obbligo di fedeltà rappresenta poi uno degli snodi più significativi di quella repentina rivoluzione che, da un’iniziale negazione della rilevanza aquiliana sul piano dei doveri specificamente familiari, ha infine dato ingresso alla responsabilità civile anche in quell’àmbito: dall’idea secondo cui il binomio “famiglia- illecito aquiliano” fosse esito «di qualche svista, di un errore di stampa….una contraddizione in termini, una sorta di ossimoro» 18 e dalla conseguente “immunità” del diritto di famiglia da valutazioni giuridiche compiute sul piano dell’ingiustizia del danno si trascorre allora ad una inarrestabile espansione della responsabilità a tutte le convivenze, di pari passo all’ampliarsi delle frontiere della risarcibilità del danno non patrimoniale19. La ricognizione dell’ormai vasta giurisprudenza in tema di illecito endofamiliare mostra chiaramente come una nutrita serie di ipotesi riguardi per l’appunto il danno da violazione dell’obbligo di fedeltà20: infedeltà apparente, “tentata” infedeltà, infedeltà sui social network, infedeltà omosessuale e, ancora, responsabilità del terzo per induzione all’infedeltà21. Non è ovviamente possibile soffermarsi sulla laboriosa evoluzione giurisprudenziale che ha scandito in tema del danno da infedeltà, né sulla controversa natura di tale illecito, profili sui quali mi limito a rinviare alle approfondite trattazioni dottrinali in argomento22.
Fam. dir., 2016, 1093 ss. P. Cendon, in Introduzione a Cassano, Rapporti familiari responsabilità civile e danno esistenziale, Padova, 2006. Sul più restrittivo orientamento che negava l’ingresso della responsabilità aquiliana nella famiglia, P. Rescigno, Immunità e privilegio, in Riv. dir. civ., 1961, I, 438 ss.; P. Morozzo Della Rocca, Violazione dei doveri coniugali, immunità o responsabilità, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 605 ss. Con particolare riguardo al dovere di fedeltà, B. De Filippis, L’obbligo di fedeltà coniugale in costanza di matrimonio, nella separazione e nel divorzio, Padova, 2003, 19 ss. 19 M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, in Famiglia, 14 ss.; L. Lenti, Responsabilità civile e convivenza libera, nota a Cass. 20 giugno 2013, n. 15481, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 999. Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale nell’illecito endofamiliare, G. Facci, Relazione omosessuale ed illecito endofamiliare, in Fam. e dir., 2007, 59 ss., a proposito del riconoscimento giurisprudenziale a favore del coniuge tradito del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla scoperta dell’infedeltà omosessuale del marito sia per il pregiudizio alla dignità sia per il grave turbamento che ne è conseguito. 20 Il catalogo giurisprudenziale sull’illecito endofamiliare è assai vasto: si pensi, a titolo esemplificativo, al danno da violazione del dovere di assistenza morale e spirituale (Trib. Milano 23 luglio 2017; App. Napoli, 18 luglio 2013); al danno da falsa attribuzione della paternità con conseguente pregiudizio dell’altrui posizione genitoriale (Trib. Taranto 22 gennaio 2015; Trib. Firenze, 2 febbraio 2015); al danno derivante dall’aver ostacolato la partecipazione dell’altro genitore alla crescita del figlio (Trib. Monza, 5 novembre 2004, in Resp. civ., 2005, con nota di G. Facci, L’illecito del genitore affidatario); al danno da mancato riconoscimento e conseguente violazione dei doveri genitoriali (Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, in Danno e resp., 2006, 37, con nota di F. Giazzi, Anche i matrimoni in bianco hanno un costo; Trib. Modena, 20 febbraio 2015; Trib. Milano 18 maggio 2015; Trib. Roma 9 settembre 2013); al danno da “raggiro” circa una gravidanza, per indurre il partner al matrimonio (App. Milano, 12 aprile 2006, in Fam. e dir., 2006, 459, con nota di G. Facci, L’illecito endofamiliare tra danno in re ipsa e risarcimenti ultramilionari); o, infine, al danno da mancato esercizio del diritto di visita al figlio in seguito a separazione consensuale dei genitori (Trib. Roma 9 settembre 2013). 21 Uno dei primi riconoscimenti giurisprudenziali della responsabilità endofamiliare riguardava per l’appunto un’ipotesi di violazione dell’obbligo di fedeltà: Cass. 19 giugno 1975, n. 2468, sul discredito sociale derivante da adulterio quale fonte di obbligo risarcitorio verso il coniuge; Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Contr. impr., 1990, 607 ss., con nota di P. Cendon, Non desiderare la donna d’altri. Cfr. da ultimo, Cass. 7 marzo 2019, n. 6598. 22 S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984; M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, cit., 14 ss.; P. Cendon - G. Sebastio, Lui, lei e danno, in Resp. civ. prev., 2003, p, 468; Id., L’infedeltà coniugale e l’ingiustizia del danno, in Resp. civ. 18
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Basterà qui rammentare che in tale àmbito, dopo l’espressa affermazione della sicura autonomia tra addebito della separazione e responsabilità civile23, la giurisprudenza suole sistematicamente distinguere tra adulterio semplice del quale, sulle orme del “prudente adulterio”24, si sottolinea l’irrilevanza ai fini della valutazione dell’ingiustizia del danno giacché privo di potenzialità offensive per essere consumato con modalità discrete25, e adulterio sfacciato che, necessariamente connotato da dolo o colpa grave26, oltrepassa i “limiti dell’offesa” fino a recare umiliazione per le modalità aggressive ed ingiuriose con cui viene perpetrato, con la conseguente lesione della dignità e della onorabilità del coniuge27: in una impostazione siffatta, l’unica violazione dell’alleanza matrimoniale finisce discutibilmente col risiedere non già nel mero venir meno al dovere di rimanere fedele, con la conseguente rottura della comunione familiare e la separazione, condotta quest’ultima ritenuta priva di “speciale gravità”28, ma soltanto in una manifestazione plateale della relazione adulterina lesiva della dignità, del riserbo e della rispettabilità del coniuge29. Quanto alla natura di tale responsabilità, questione complessa e ampiamente nota perché se ne compia qui una puntuale analisi, mi limiterò a rilevare come la pacifica riconduzione giurisprudenziale dell’illecito endofamiliare nell’alveo aquiliano e la sottesa conside-
prev., 2003, 468; A. Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003; G. Di Rosa, Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, in Famiglia, 2008, p.3 ss.; G. Facci, L’infedeltà coniugale e l’ingiustizia del danno, in Resp. civ. prev., 2003, 468; Id, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004; P. Morozzo Della Rocca, Violazione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità, cit., 605; A. Morace Pinelli, La responsabilità per inadempimento dei doveri matrimoniali, in Riv. dir. civ., 2014, 1221 ss.; R. Pacia, Doveri dei genitori e responsabilità, in Resp. civ., 2006, 108. Con specifico riguardo all’obbligo di fedeltà, cfr. T. Mauceri, Risarcimento del danno e violazione del dovere di fedeltà coniugale, in Oss. dir. civ. comm., 2017, 439 ss. 23 Sull’autonomia tra illecito civile- scaturente dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti- e pronuncia di addebito in sede di separazione, cfr. Cass. 15 settembre 2011, n. 18853, con commento di G. Facci, Il danno da adulterio arriva in Cassazione, in Fam. e dir., 2012, 251 ss. e in Fam. pers. succ., 2012, 92, con nota di E. Basini, Infedeltà matrimoniale e risarcimento. Il «danno endofamiliare». La Corte osserva che la violazione dei doveri tra coniugi «non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento del danno». 24 Sulla “rozza distinzione” tra adulterio semplice e adulterio ingiurioso alla base del precedente sistema, cfr. F. Santoro Passarelli, Artt. 143- 146, in Commentario ala riforma del diritto di famiglia, a cura di L. Carraro - G. Oppo - A. Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 229. 25 App. Brescia, 5 giugno 2007, in Famiglia e dir., 2008, 481, con nota di G. Facci, relativa ad una relazione omosessuale del marito. 26 In tal modo aggiungendo l’ipotesi in esame alle ulteriori figure di “illecito doloso”, quasi tutte di «elaborazione dottrinale e perciò di incerto fondamento sistematico»: così, M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiiare, cit., 18, il quale guarda all’ “insistenza sull’elemento psicologico” come ad un tentativo di irrobustire la fragilità dell’argomentazione complessiva. Per la giurisprudenza in tal senso, Cass. 7 giugno 2000, n. 7713; Trib. Venezia, 14 maggio 2009; Trib. Milano, 24 settembre 2002, in Resp. civ. prev., 2003, 465, con nota di G. Facci. Per una compiuta analisi di tale aspetto, F. Ruscello, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, cit., 1031 s. 27 In tal senso, da ultimo, Cass. (ord.) 7 marzo 2019, n. 6598; Cass. 15 settembre 2011, n. 18853, cit.; Trib. Venezia 3 luglio 2009, in Resp. civ. prev., 2009, 1885, con nota di P. Cendon, con riferimento alle modalità ingiuriose che hanno accompagnato la relazione extraconiugale da parte del marito verso la moglie, relegata al ruolo di badante della madre malata. Questi, una volta cessato il bisogno di assistenza, abbandona la moglie per stabilizzare il rapporto con l’“amante” e versa alla prima la somma di cinquanta euro “per il mantenimento di cani e gatti”; Trib. Venezia 3 luglio 2006, in Giur. merito, 2006, 2178; Trib. Milano 7 marzo 2002, in Danno e responsabilità, 2003, 644; Trib. Roma, 17 settembre 1989, in Nuova giur.civ.comm., 1989, I, 559. 28 Trib. Vicenza, 3 luglio 2006, in Giur. mer., 2006, 11 ss. con nota di A. Mascia, L’adulterio, la vita familiare compromessa e i danni non patrimoniali. 29 Così, criticamente, M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, cit., 15. In proposito, cfr. Trib. Roma n. 456/2016, con riferimento al tradimento pubblicizzato tramite social networks, nella specie considerato causa di addebito.
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razione del coniuge “colpevole” alla stregua di un qualsiasi estraneo che violi il principio del neminem laedere30, se certamente risultano incoerenti con la sistematica assoluzione del terzo che pure ha concorso all’infedeltà, di per sé comprovante la rilevanza della sola condotta proveniente da un familiare in quanto legata ad obblighi specifici di coniugi e genitori31, altresì solleva non poche perplessità là dove guarda all’infedeltà coniugale come fatto lesivo non già del dovere sancito dall’art. 143 c.c., bensì della dignità dell’altro coniuge, in quanto valore costituzionalmente protetto. In proposito, se appare certamente corretto ascrivere il dovere di rispetto della personalità morale tra quelli operanti già nella vita di relazione, occorre peraltro rilevare che esso al contempo «concorre ad integrare il contenuto del rapporto personale matrimoniale»32. Rilievi, questi ultimi ed altri non meno condivisibili che esigenze di sintesi non consentono di analizzare compiutamente, che suggeriscono l’inquadramento della responsabilità da violazione dei doveri familiari nell’alveo contrattuale, derivando gli stessi, «se non certo da un contratto, pur sempre da un accordo negoziale (familiare) sia pure con tratti di indubbia peculiarità» 33.
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Sistematico, infatti, è il riferimento all’illecito aquiliano e alla “lesione di diritti costituzionalmente protetti”: tra le tante, cfr. Cass. 16 aprile 2018, n. 9384; Cass. ord. n. 4470/2018; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079; Cass. 22 luglio 2014, n. 16657; Cass. 1 giugno 2012, n. 8862; Cass. 4 maggio 2011, n. 18853, cit.; Cass. 10 maggio 2005, n. 9801. 31 M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, cit., 22. È risalente l’orientamento giurisprudenziale che qualificava la condotta del terzo che istiga uno dei coniugi a commettere adulterio come illecito aquiliano per induzione all’inadempimento (idoneo all’insorgere di responsabilità previa prova del nesso causale e del pregiudizio): Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, 559, secondo cui «il terzo che istiga o induce (mediante comportamenti positivi) il coniuge a commettere adulterio, pone in essere induzione all’inadempimento». In dottrina, per la posizione analoga, F. Vassalli, Del ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, cit., 140 s., che riguardando la fattispecie sotto un profilo penalistico sottolinea come la piena giustificazione, politica e sistematica, della punibilità del correo dell’adultera risiede nella circostanza che “l’interesse tutelato nel reato di adulterio non è tanto la fedeltà coniugale –dovere che certamente non fa carico al drudo- quanto l’ordine giuridico matrimoniale” e conclude rilevando che vi è quanto basta per stabilire “quel che Carnelutti chiama l’autonomia dell’obbligo del terzo, cioè (…) un dovere che fa carico al terzo non meno che al coniuge (...)”. Orientamento, quest’ultimo, disatteso da Trib. Milano 24 settembre 2002, in Vita not., 2004, 860, che ha ravvisato in capo al terzo la titolarità del diritto alla libera espressione della propria personalità che può esprimersi anche nell’intrattenere relazioni personali, pure con soggetti coniugati; Trib. Milano, 22 novembre 2002, in Danno e resp., 2003, 1130; da Trib. Vicenza, 3 novembre 2009, in Fam. e dir., 2010, 281 ss. e da Trib. Monza 15 marzo 1997, in Fam. e dir., 1997, 462, con nota di A. Zaccaria, Adulterio e risarcimento dei danni, sulla base del comune assunto secondo cui «non sussiste… nei terzi un dovere di astensione da ogni interferenza nella vita familiare dei coniugi» (così, Trib. Monza, cit.). Una condivisibile impostazione che, però, appare inconciliabile con l’affermazione giurisprudenziale secondo cui il rispetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare costituisce diritto inviolabile e la sua lesione da parte di un membro della famiglia così come di un terzo è presupposto logico della responsabilità civile «non potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare» (Cass. 14 maggio 2005, n. 9801). Per completezza, giova poi dar conto dell’opinione di A. Zaccaria, L’infedeltà: quanto può costare? Ovvero è lecito tradire solo per amore?, in Studium iuris, 2000, 525, secondo cui una responsabilità del terzo è configurabile ove si dia prova dell’intenzione di arrecare pregiudizio al coniuge tradito. 32 C. M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, cit., 59. In tal senso, cfr. altresì M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, cit., 18, che osserva come «dire che l’infedeltà coniugale lede la dignità dell’altro coniuge, piuttosto che il dovere sancito dall’art. 143 c.c. (…) equivale a sostenere che l’inadempimento di un contratto lede il diritto costituzionale all’iniziativa economica». Emblematica dell’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità di cui si discorre nel testo, Cass. 1 giugno 2012, n. 8862, cit.: «Va precisato che la responsabilità tra coniugi o del genitore nei confronti del figlio non si fonda sulla mera violazione dei doveri, matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione, a seguito dell’avvenuta violazione di tali doveri, di beni inerenti alla persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, etc.» 33 Così, G. Di Rosa, Violazione dei doveri coniugali e risarcimento del danno, cit., 5. Riconducono la responsabilità per violazione dei doveri coniugali all’ambito contrattuale, M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, cit., 21, il quale osserva come
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3. Obbligo di fedeltà e “interferenze” tra matrimonio
ed unioni civili: gli orientamenti dottrinali sulla mancata previsione dell’obbligo nella l. n.76/2016.
Un angolo di osservazione ancora diverso dell’obbligo di fedeltà è quello proposto dalla recente disciplina sulle unioni civili, che mette in luce una delle questioni più controverse della materia in esame34: insieme all’obbligo di collaborazione, quello di fedeltà è il grande assente nell’elenco dei diritti e dei doveri riferibili alle parti dell’unione35, per il resto in tutto sovrapponibili a quelli che ai coniugi derivano dal matrimonio ex art. 143 c.c. 36 . Così, fin dall’avvento della normativa in parola, la questione relativa al significato di tale
l’ingresso di una responsabilità aquiliana all’interno della famiglia appare coerente con l’obiettivo di «perdita di specificità, e perciò di significato, delle relazioni familiari»; A. Nicolussi, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Eur. dir. priv., 2008, spec. 939 ss. Al contrario, propende per la compatibilità tra responsabilità extracontrattuale e relazione coniugale, tra gli altri, E. Camilleri, Illeciti endofamiliari e sistema della responsabilità civile nella prospettiva dell’european tort law, in Eur. dir. priv., 2010, 145 ss. 34 Si tratta, come noto, della legge 20 maggio 2016, n. 76 «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». La bibliografia in materia è assai densa, i richiami che seguono sono perciò meramente esemplificativi: T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 367 ss.; G. Alpa, La legge sulle unioni civili e sulle convivenze. Qualche interrogativo di ordine esegetico, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1718 ss.; G. Bonilini, Convivenza, matrimonio, unione civile e famiglia, in Dir. succ. fam., 2017, 765; N. Cipriani, Le unioni civili, in Pane (a cura di), Famiglia e successioni tra libertà e solidarietà, Napoli, 2017, 39 ss.; G. Ferrando, Diritto di famiglia, Addenda Unioni civili e convivenze, Bologna, 2016; G. Ballarani, La legge sulle unioni civili e sulla disciplina delle convivenze di fatto. Una prima lettura critica, in Dir. succ. fam., 2016, 623 ss.; M.C. Venuti, La regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze in Italia, in Pol. dir., 2016, 95 ss.; AA. VV., Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2017 e ai d.lgs. n. 5/2017; d. lgs. 6/2017; d. lgs. 7/2017, in C. M. Bianca (a cura di), Torino, 2017; M. Bianca, Le unioni civili ed il matrimonio: due modelli a confronto, in giudicedonna.it, 1 ss.; AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da Bonilini, V, Unione civile e convivenza di fatto, Torino, 2017; G. Dosi, La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, Milano, 2016; M. Blasi - R. Campione - A. Figone - F. Mecenate - G. Oberto (a cura di), La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze. Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016; M. A. Lupoi - C. Cecchella - V. Cianciolo - V. Mazzotta (a cura di), Unioni civili e convivenze. Guida commentata alla legge n. 76/2016, Rimini, 2016; 35 Un elenco che G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso, cit., 125, reputa “di una povertà imbarazzante”. Com’è noto, l’art. 5 del disegno di legge “Cirinnà”, poi stralciato con il maxi- emendamento al Senato in una vicenda che la dottrina non ha esitato a definire “opaca” (L. Balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, 1783.), contemplava sia l’obbligo di fedeltà, sia quello di collaborazione, sia la possibilità di ricorrere all’adozione del figlio dell’altro componente l’unione (che T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 286, giudica “dubbia”). 36 In argomento, M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, cit.; R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, cit. Da una rapida ricognizione della disciplina sulle unioni civili emergono numerose le differenze rispetto alle regole vigenti per la famiglia “matrimoniale”: la legge n. 76/2016, ad esempio, non menziona, nemmeno tramite rinvio, le disposizioni relative alla affinità (art. 78 c.c.), pur rinviando (al comma 19 dell’art. 1, L. n. 76/2016) al Titolo XIII del Libro primo, dovendosi in tale richiamo ritenere compresi anche gli artt. 433, nn. 4 e 5, e 434 c.c. in tema di obblighi alimentari, che contemplano tra gli obbligati i suoceri, il genero e la nuora. Ciò che, se ha condivisibilmente indotto taluno a ritenere privo di effetti il richiamo ai vincoli alimentari “in quanto il relativo vincolo non può sorgere tra parte dell’unione e parenti dell’altra parte, stante appunto il mancato richiamo dell’art. 78 c.c. e la generale previsione dell’art. 1, comma 20” (M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit.,, 885), non ha impedito ad altri di ritenere tali vincoli comunque sussistenti in ragione del richiamo alla disciplina sugli alimenti (cfr. G. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, 53). La legge, poi, non richiama neppure le regole sulla promessa di matrimonio, sull’ammissione del minore al matrimonio, sulle pubblicazioni, sulle opposizioni e sulle disposizioni penali di cui agli artt. 134 ss. c.c. Altresì, risulta omesso il riferimento all’intervento del giudice nella risoluzione del contrasto tra coniugi in merito alla determinazione dell’indirizzo di vita e delle altre decisioni familiari: ciò, però, può trovare agevole giustificazione nella sostanziale disapplicazione di tale meccanismo già all’interno del matrimonio. In argomento, T. Auletta, Comma 12, in C. M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze, cit., p.153; F. Macario, I rapporti personali dei coniugi, in S. Patti - M. G. Cubeddu (a cura di), Diritto
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mancata riproposizione e al conseguente ruolo dell’obbligo di fedeltà in seno alle unioni civili è al centro di un vivo dibattito della dottrina i cui esiti, occorre avvertire fin d’ora, devono dirsi per lo più influenzati dalla ricostruzione che si è inteso accogliere dell’istituto della famiglia nel quadro costituzionale, nel contrapporsi tra i due ben noti orientamenti di fondo: come si sa, l’idea di una presunta “naturalità” della famiglia contemplata dall’art. 29 Cost., a fondamento di quella posizione conservatrice che rifiuta di accostare alla famiglia legittima altri modelli di unione affettiva da considerarsi allora come unioni “parafamiliari”, è avversata da coloro i quali, con rilievi di segno opposto, propugnano un’interpretazione evolutiva dell’art. 29 Cost. che, in linea con la mutata sensibilità sociale, è tesa ad ammettere l’introduzione nel nostro ordinamento di modelli di famiglia alternativi rispetto a quella legittima37. Tra coloro che aderiscono a quest’ultima impostazione, e che guardano alla disciplina delle unioni civili come accoglimento legislativo dell’interpretazione evolutiva del dettato costituzionale che ha così definitivamente scardinato “l’antico biunivoco legame tra matrimonio e famiglia”38, si colloca quell’indirizzo secondo cui unioni civili e famiglia legittima sarebbero state poste sullo stesso piano, in un rapporto di genus e species tra gli artt. 2 e 29 della Costituzione, marginale risultando la carenza di quei requisiti di diversità di sesso ed espansività autorevolmente indicati tra quelli caratterizzanti la famiglia fondata sul matrimonio39. In un’ottica siffatta, il mancato richiamo dell’obbligo di fedeltà è allora riguar-
della famiglia, Milano, 2011, p.144; V. Roppo, Diritto privato, Torino, 2016, 878. Per tale lettura “evolutiva” e “storicistica” dell’art. 29 Cost., intesa a riferire la tutela costituzionale non ad un modello sempre uguale, ma a quello effettivamente presente in un dato contesto sociale, G. Ferrando, Il matrimonio, in Trattato di Diritto civile e commerciale, diretto da Cicu – Messineo, 2014, 1 ss.; Id., Le unioni civili: la situazione in Italia, in Giur. it., 2016, 1772 ss., che esclude ostacoli costituzionali alla costituzione del “matrimonio egualitario” (p. 1774); F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 148; M. Segni, Unioni civili: non tiriamo in ballo la Costituzione, in Nuova giur. civ. comm., 2015, p.707; T. Auletta, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, comma 12, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2017 e ai d.lgs. n. 5/2017; d. lgs. 6/2017; d. lgs. 7/2017, Torino, 2017, 162; V. Scalisi, La “famiglia” e “le famiglie”, in La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo, Atti del Convegno di Verona (14-15 giugno 1985), Padova, 1986, 270 ss.; F. Romeo, Famiglia legittima e unioni non coniugali, in Le relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, 3 ss.; P. Schlesinger, La legge sulle unioni civili e la disciplina delle convivenze, in Fam. e dir., 2017, 845 ss.; F. Parente, I modelli familiari dopo la legge sulle unioni civili, in Rass.dir.civ., 2017, 956 ss.; M. Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Fam. e dir., 2010, 653. Nel senso che il legislatore costituzionale all’art. 29 non contemplava il matrimonio omosessuale e che, perciò, un’eventuale estensione del matrimonio alle coppie omosessuali resta subordinata ad un procedimento di revisione costituzionale, e non già a mero intervento del legislatore ordinario, T. Auletta, Ammissibilità nell’ordinamento vigente del matrimonio fra persone del medesimo sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 656; F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, 509; A. Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neoistituzionale, Milano, 2013, 214; L. Balestra, L’evoluzione del diritto di famiglia e le molteplici realtà affettive, in Tratt. dir. priv. Bessone, Famiglia e matrimonio, a cura di T. Auletta, I, 2010, 22 ss. G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili), in www.articolo29.it, 2016, che osserva come il matrimonio, sia ormai un “istituto ampiamente neutro” sicché “l’eventuale estensione alle coppie omosessuali non creerebbe alcuna “crisi di rigetto”. Ad esempio, la riforma costituzionale è stato il mezzo per introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Irlanda, attraverso la modifica dell’art. 41 Cost. al quale è stato aggiunto il comma quarto: “Marriage may be contracted in accordance with law by two persons without distinction as to their sex”, 56. 38 P. Zatti, Tradizione e innovazione nel diritto di famiglia, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, II ed., I, I, Milano, 2011, 5. 39 T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 312, osserva come la diversità di sesso non incida “sulla sostanza del rapporto in quanto…l’essenza della famiglia è costituita dall’attuazione doverosa del progetto di realizzare la comunione di vita delineato dalla legge” e che, se così non fosse, ne deriverebbe la violazione del diritto delle coppie dello stesso sesso a costituire una famiglia, secondo quanto previsto dall’art. 9 della Carta di Nizza, e del rispetto alla vita familiare, ex art. 8 della CEDU. In proposito, cfr. altresì 37
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dato come un’irragionevole distinzione rispetto all’istituto del matrimonio che, secondo alcuni, sottenderebbe l’idea inespressa di una connaturale inclinazione alla promiscuità e all’infedeltà delle coppie omosessuali, intrinsecamente incapaci di conformarsi alla regola dell’esclusività e di «creare unioni stabili e durature, nelle quali dell’altro ci si prende cura con devozione e costanza ogni giorno» 40. Il mancato richiamo dell’obbligo di fedeltà è invece talora guardato come espressione di una precisa scelta legislativa volta a segnare un netto confine tra i due modelli familiari41: non l’intento di unificare, bensì l’opposto proposito di mantenerli distinti animerebbe il legislatore delle unioni civili che, nel disciplinare queste ultime, ha operato un puntuale
G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana sulle unioni civili, cit., che osserva come il diverso riferimento costituzionale delle unioni civili e del matrimonio, rispettivamente agli articoli 2 e 29 Cost., non possa giustificare differenze di regime irragionevoli, quindi discriminatorie giacché “matrimonio e unioni civili sono… species di un genus comune, la famiglia e, ritengo, l’evoluzione degli studi e della giurisprudenza porterà a ricondurre anche le uc nel più sicuro alveo dell’art. 29 Cost. (alla stregua di una possibile e anzi necessaria interpretazione evolutiva della disposizione)”. In argomento, cfr. A. Trabucchi, Pas par cette voie s’il vous plait!, in Riv.dir.civ., 1981, 330; Id, Natura, legge famiglia, in Riv. dir. civ.. 1977, I, 1 ss. secondo cui la diversità di sesso ed espansività sono tra gli elementi fondanti dell’unione coniugale. Sul diritto “al rispetto della vita privata e familiare”, è noto che con la decisione della Corte EDU, 24 giugno 2010, Schalk and Kopf c. Austria, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 1137, con nota di M. Winkler, Le famiglie omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo, in materia di unioni tra persone dello stesso sesso, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato il mutamento del paradigma scientifico, legale, morale e sociale ed altresì esteso la nozione di vita familiare garantito dall’art. 8 Cedu alle famiglie composte dallo stesso sesso osservando che «il diritto al matrimonio include anche quello al matrimonio di persone dello stesso sesso quale “nuovo contenuto” ermeneuticamente emergente dalla Convenzione e dalla Carta, fermo restando che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati ed il Parlamento è libero di scegliere, sia nell’ an che nel quomodo tra la possibilità di garantire tale diritto o prevedere altre forme di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali». In dottrina, cfr. F.D. Busnelli - M.C. Vitucci, Frantumi europei di diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2013, 767 ss.; A. Busacca, Il diritto alla “vita familiare” delle coppie same sex e transessuali: indirizzi della Corte EDU ed incertezze della giurisprudenza nazionale, in A. Busacca (a cura di), La famiglia all’imperfetto, Napoli, 2016, 43 ss. 40 M. Saporiti, Senza obbligo di fedeltà. Quali specificità pe le unioni civili?, in Notizie di Politeia, 2016, 86. In argomento, G. Iorio, Gli obblighi dei contraenti l’unione civile, in AA. VV., Unioni civili e convivenze di fatto, a cura di M. Gorgoni, Santarcangelo di Romagna, 2016, 90, il quale osserva come tale sospetto sia avvalorato dalla contestuale (ritenuta) soppressione della stepchild adoption, quasi a sottolineare che “tra le varie ragioni che giustificherebbero il diniego di adozione da parte delle coppie omosessuali, vi sarebbe anche quella per cui a queste ultime non si addice l’obbligo di fedeltà, essendo le relazioni tra persone dello stesso sesso improntate ad una maggiore precarietà e promiscuità. Il che andrebbe contro gli interessi dei minorenni, cui va assicurato un ambiente familiare caratterizzato da una certa stabilità”: assunto, quest’ultimo, che l’a. definisce “palesemente discriminatorio”. Nella stessa prospettiva, Savi, Commento al comma 11 della legge, in AA. VV., Unioni civili e convivenze, Pisa, 2016, 82; F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, in giustizia civile.com, 2016, 12, secondo la quale la scelta di omettere il riferimento all’obbligo di fedeltà «è senz’altro inopportuna perché la disparità di trattamento tra persone etero e omosessuali sul tema della fedeltà appare (rectius: è, per quanto emerso dal dibattito parlamentare) frutto di pregiudizio sulla qualità del vincolo che lega le coppie dello stesso sesso»; T. Bonamini, Unione civile, e dovere di fedeltà, in Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, V, Unione civile e convivenza di fatto, Torino, 2017, 217. G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili), cit., ritiene che sotteso al dato giuridico vi sia l’idea delle unioni civili come realtà “deteriore rispetto al matrimonio, nel senso che le coppie che vi accedono che non possono ontologicamente presentare (e pretendere dalla l.) la stabilità, per non dire la serietà, che invece competerebbe alle sole coppie eterosessuali cui, infatti, è dato accesso al matrimonio. Sotto tale profilo la scelta legislativa è culturalmente (si fa per dire) retriva, umanamente spregevole, ed anzi calunniosa, e getta un’ombra indelebile su chi l’ha voluta e, anche, su chi l’ha accettata.”. Medesima la prospettiva di G. Collura, Le “famiglie degli affetti” e le nuove genitorialità, in Rass. dir. civ., 2018, 46, che sottolinea l’ “operazione di ripulitura di ogni accesso che possa far pensare nella sua completezza al matrimonio”, compresa la omissione del dovere di fedeltà “come se l’amore omosessuale, per natura, sia incapace della stessa profondità, continuità e unicità dell’amore eterosessuale”. 41 M. Bianca, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, cit., 8, secondo cui il mancato riferimento dell’obbligo di fedeltà nelle unioni civili né è una dimenticanza, né è ricavabile dall’assistenza morale, piuttosto costituendo “una delle tante espressioni della volontà del legislatore di rimarcare la differenza tra unione civile e matrimonio”. E. Quadri, “Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”, in Corr. giur., 2016, p., discorre di “ansia di differenziazione” affermando che essa abbia coinvolto anche il tema dei diritti e dei doveri che gravano sugli uniti civilmente.
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richiamo agli artt. 2 e 3 Cost., senza punto menzionare l’art. 2942. Movendo da tali premesse, in un’ottica intesa a valorizzare la qualificazione dell’unione civile come formazione sociale e la connessa garanzia costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo pure al suo interno 43, la libertà (anche sessuale) dell’individuo è assunta come prevalente su ogni altro valore. Se sul versante della durata, la più radicale tutela delle prerogative del singolo ha condotto all’idea secondo cui “un rapporto in cui si realizza la vita intima della persona non può essere coattivamente mantenuto contro la sua volontà”44; su quello dell’obbligo di fedeltà si sarebbe invece tradotta nella mancata previsione della sua doverosità giuridica in capo ai contraenti dell’unione, fondata sull’esigenza di “rispetto della libertà sessuale e personale dell’unito civilmente”45: il mancato richiamo del dovere di fedeltà viene così per certo fatto coincidere con la sua insussistenza, risultando rimessa alla libera scelta del singolo l’astensione da condotte infedeli, talora all’uopo richiamandosi il paradigma dell’obbligazione naturale 46.
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C.M. Bianca, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, comma primo, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2017 e ai d.lgs. n. 5/2017; d. lgs. 6/2017; d. lgs. 7/2017, Torino, 2017, p 3, afferma che «il rapporto personale stabile di persone dello stesso sesso è un rapporto familiare, tuttavia strutturalmente distinto rispetto a quello della coppia eterosessuale». Il chiaro intento di diversificare i due modelli è sottolineato da M. Bianca, Le unioni civili ed il matrimonio: due modelli a confronto, cit., 8; F. Carimini, Verso il tramonto “giuridico” dell’obbligo di fedeltà, in Rass. dir. civ. 2018, 450; Id, Le unioni civili: tra la famiglia “tradizionale” e nuovi “modelli” di comunione familiare, in, www.comparzionedirittocivile.it, 2018, 2, poiché in contrasto con i principi di libertà e democrazia che ispirano il vigente ordinamento, ha lasciato il posto ad una comunità familiare, nel cui àmbito lo svolgimento dei rapporti non può che avvenire nel rispetto delle libertà fondamentali al fine di consentire lo sviluppo della personalità di ogni singolo individuo; G. Dosi, La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, cit. , 49, osserva come la sola ragione dell’soppressione dell’obbligo di fedeltà e di quello di collaborazione non può che essere l’ “imbarazzo del legislatore nel volersi discostare a tutti i costi dal regime primario matrimoniale”. Cfr. sul punto Corte Cost. 11 giugno 2014, n. 170/2014, secondo cui nella nozione di “formazione sociale” ex art. 2 Cost. “è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendonenei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge- il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. La “netta distinzione” che l’ordinamento italiano ha inteso tracciare tra l’istituto matrimoniale e quelli relativi alle unioni civili e alle convivenze di fatto è sottolineata con decisione da C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit? Chiose sull’obbligo di fedeltà nei rapporti di convivenza familiare, in Dir. fam. e pers., 2016, 1101 s. In proposito, cfr. T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 275, secondo cui pur nella diversità del loro riferimento costituzionale, famiglia legittima e unioni civili sono caratterizzati dallo scopo comune: si osserva, in particolare, che i contraenti dell’unione civile intendono impegnarsi ad “attuare una comunione di vita stabile, giuridicamente rilevante, caratterizzata da diritti e doveri, alla stregua di quanto accade per le persone coniugate” (p. 274). 43 A. Morrone, sub art. 2 Cost., in Sesta ( a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2009, 11, che rileva come la famiglia fondata sul matrimonio rappresenti il nucleo della tutela costituzionale che concerne “non solo i diritti dei singoli componenti, ma anche l’istituzione familiare in sé e per sé; la famiglia che non trae origine dal matrimonio, invece, riceve tutela al pari di qualsiasi forma sociale (una tutela indiretta, quindi), nell’ambito della quale, però, la protezione dei singoli e dei diritti dei componenti riceve un rilievo pieno e privilegiato rispetto al consorzio”; M. Bianca, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, cit., p .3 s., la quale osserva come l’art. 29 abbia chiaramente come “specifico oggetto di tutela non l’individuo ma la struttura familiare fondata sul matrimonio”. 44 C. M. Bianca, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, comma uno, cit., p.5. 45 C. M. Bianca, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, comma uno, cit., p.4. Sulla tutela costituzionale della libertà sessuale, cfr. Corte Cost. 18 dicembre 1987, n. 561, in cui si afferma che «il diritto alla libertà sessuale, concernendo uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va compreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana garantiti ai sensi dell’art. 2 Cost.». 46 Secondo M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit., 887, il legislatore ha voluto tenere in disparte il tema della fedeltà che porta con sé quello della rilevanza della relazione sessuale nell’ambito dell’unione civile: invero, osserva, la disciplina in questione non menziona né l’errore sulle anomalie o deviazioni sessuali ( di cui all’art. 122, comma 3, n. 1, c.c.), né l’inconsumazione quale causa di scioglimento dell’unione (cfr. art. 3, n. 2, lett. f, l. div.) quasi che l’unione civile non presupponga “dal punto di vista del diritto, l’unione sessuale”. Sull’omesso richiamo alla “mancata
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A ben vedere, l’impostazione in esame lascia trasparire un disegno legislativo in cui, in una sorta di ordine gerarchico, coesistono diversi “statuti” coniugali, modellati secondo differenti livelli di assunzione di reciproche responsabilità: dalla regolamentazione “leggera” della convivenza etero o omosessuale si trascorre, in un accrescersi dei vincoli, alle convivenze registrate fino alle unioni civili per poi giungere al matrimonio47. Anche convincendosi dell’attendibilità di una simile lettura, non potrebbe in ogni caso ammettersi, attraverso quello che la dottrina ha chiamato un “upgrade nella gerarchia delle forme coniugali disponibili”48, che coppie omosessuali optino per la più “forte” scelta matrimoniale49: tale scenario, simile a quello che è dato riscontrare negli ordinamenti in cui persone dello stesso sesso hanno infine ottenuto accesso all’istituto matrimoniale 50, non soltanto mal si concilia con l’esigenza di tutelare il quadro di valori che storicamente connota il matrimonio e di riconoscere “la diversità con cui viene condotta l’unione affettiva delle due tipologie di coppia ed in particolar modo il profilo della generazione dei figli, cui il matrimonio è fisiologicamente orientato”51; ma altresì condurrebbe a revocare in dubbio l’incorporazione del paradigma eterosessuale nella nozione di matrimonio presupposta dal costituente, avallando una “scelta del tipo” sulla base del grado di impegnatività che ci si attende dal vincolo. In proposito, sembra inequivocabile il senso dell’intervento della Corte Costituzionale che senz’altro ribadisce l’anzidetto paradigma là dove rammenta che la nozione costituzionale di matrimonio è “quella stessa definita dal codice civile del 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”52. Il legislatore italiano, conformandosi a tali indicazioni, ha allora dato vita ad un
consumazione”, G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso, cit., 136, vi ravvisa l’ulteriore indice di un “ostinato, pervicace e ipocrita rifiuto del legislatore di attribuire qualsivoglia rilevanza alla dimensione affettiva, sentimentale e sessuale del rapporto intercorrente tra le parti dell’unione civile”. 47 R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1394, secondo cui la mancata previsione del dovere di fedeltà nelle unioni civili, in contrapposizione al suo mantenimento nel matrimonio, “appare determinante per la qualificazione dei due istituti e del tipo di impegno rispettivamente regolato, certamente meno intenso e stabile nelle unioni civili rispetto a quello assunto col vincolo coniugale, in ragione delle diverse finalità degli stessi”. Sull’ “ordine gerarchico” che informa il sistema di coniugalità vigente nel nostro ordinamento, in cui «al matrimonio si riserva la posizione di vertice», cfr. M. R. Marella, Il diritto di famiglia nell’epoca contemporanea, in G. Amadio- F. Macario, Diritto di famiglia, Bologna, 2016, 26 s. 48 M. R. Marella, Il diritto di famiglia nell’epoca contemporanea, cit., 28; sula previsione d’una ‘graduabilità’ dell’impegno attraverso la previsione di diversi tipi legali di matrimonio, vedi già A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il “nuovo” diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 345. 49 Cass. 9 febbraio 2015, n. 2400, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 649 ss., con nota di T. Auletta, Ammissibilità nell’ordinamento vigente del matrimonio fra persone del medesimo sesso, a proposito del rifiuto opposto alla richiesta di pubblicazione matrimoniale avanzata all’ufficiale di stato civile da parte di una coppia omosessuale che intendeva contrarre matrimonio. 50 Cfr. in argomento S. Patti, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in Foro it., 2017, I, c. 301 e nt. 2, il quale riporta l’esperienza di altri ordinamenti in cui la disciplina sulle unioni civili è stata abrogata vista la sostanziale identità di disciplina con quella matrimoniale che non giustificava la previsione di due istituti diversi. 51 T. Auletta, Ammissibilità nell’ordinamento vigente del matrimonio fra persone del medesimo sesso, cit., 657. 52 Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. e dir., 2010, 653 con nota di M. Gattuso e in Foro it., 2010, con note di F. Dal Canto e R. Romboli; Corte Cost. 11 giugno 2014, n. 170, in Foro it., 2014, I, 2685, con nota di S. Patti, che nel dichiarare illegittimo il c.d. divorzio imposto, ha ribadito che i coniugi devono essere persone di sesso diverso: nel primo dei provvedimenti richiamati si rileva, segnatamente, che se è vero che l’art. 29 Cost. non “cristallizza” un modello di famiglia con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore (perché dotati di quella “duttilità propria dei principi costituzionali” che perciò vanno interpretati “tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi) aggiunge però che è anche
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sistema “dualistico” contemplando “accanto al matrimonio, che resta ad appannaggio delle coppie eterosessuali…il nuovo istituto delle unioni civili” 53. In una prospettiva ancora diversa si colloca quell’orientamento secondo cui la mancata riproposizione dell’obbligo di fedeltà, lungi dal rappresentare una discriminazione tra famiglia matrimoniale e non, sarebbe chiara espressione di una nuova frontiera del diritto, intesa ad arrestarsi innanzi ad ambiti che vengono definitivamente riconsegnati alla sfera dei privati. In un contesto di generale svalutazione del dovere di fedeltà, riguardato come retaggio di una concezione ormai superata, il legislatore avrebbe rinunciato al controllo sulle relazioni sessuali tra i partners ed il giudizio su di esse non sarebbe così più affidato al diritto, ma alle regole dell’etica e della morale54: una riconsiderazione del rapporto tra famiglia e diritto che non farebbe distinzioni e che, cominciando dalle unioni civili, tenderebbe di pari passo ad espandersi alla famiglia matrimoniale, come dimostrerebbe l’emendamento proposto nel corso dei lavori preparatori della disciplina sulle unioni e diretto a stralciare l’obbligo di fedeltà anche dall’elenco dell’art. 143 c.c.55. Una ricostruzione che però non tiene conto della già veduta rilevanza assunta dall’obbligo di fedeltà nell’evoluzione di dottrina e giurisprudenza, quale sintesi di valori immancabili in ogni rapporto che sia fondato sull’affectio, di guisa che una sua esclusione implicherebbe uno svilimento dell’istituto matrimoniale: e ciò, anche ove la si intendesse esclusivamente riferita alla sfera sessuale, non potendosi quest’ultima reputare sganciata dalla necessaria
vero che l’art. 29 “presuppone il tipo di matrimonio disciplinato dal codice civile, quello tra un uomo e una donna, riflettendosi nella differenza di sessi tra gli sposi il contenuto minimo essenziale del matrimonio secondo il modello al quale i costituenti facevano riferimento”. 53 Per tali considerazioni, cfr. F. Romeo, Genitori e figli nel quadro del pluralismo familiare, in Diritto delle successioni e della famiglia, Quaderni, n. 22, Napoli, 2018, 63 s. Sul punto, cfr. F. Parente, I modelli familiari dopo la legge sulle unioni civili, cit., 960; T. Auletta, Ammissibilità nell’ordinamento vigente del matrimonio fra persone del medesimo sesso, cit., 656. 54 G. Ferrando, La disciplina dell’atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir., 2016, 889, la quale osserva che “il diritto (…) riconosce che c’è un limite oltre il quale i comportamenti non sono giudicati dal diritto”; analoga la posizione di F. Carimini, Le unioni civili: tra la famiglia “tradizionale” e nuovi “modelli” di comunione familiare, in, www.comparzionedirittocivile.it, 2018, p.6; Id, Verso il tramonto “giuridico” dell’obbligo di fedeltà, in Rass. dir. civ., 2018, 462, la quale osserva che l’obbligo di fedeltà, inteso come fedeltà sessuale e divieto di adulterio, “non appare un elemento imprescindibile del matrimonio, costituendone piuttosto un carattere accessorio, frequente sì ma di sicuro non indefettibile” la sua previsione con riguardo al matrimonio (sulla cui opportunità, osserva l’a., occorrerebbe ripensare, 460), “è figlia della tradizione e della storia giuridica del nostro Paese e del nostro costume sociale”; E. Falletti, Le radici del dovere di fedeltà alla luce delle recenti evoluzioni del diritto di famiglia, in www.questionegiustizia.it, 2017, 135, secondo cui la fedeltà può considerarsi “elemento accidentale del matrimonio” ed essere pertanto stralciata anche dai doveri inerenti a questo istituto in adempimento al principio di non discriminazione delle coppie coniugate eterosessuali verso quelle omosessuali legate da una unione civile”. 55 Ci si intende riferire al disegno di legge n. 2253, c.d. Cantini, arrestatosi all’esame della Commissione Giustizia del Senato della XVII legislatura, nella parte in cui proponeva la seguente modifica dell’art. 143 c. c.: «All’articolo 143, comma secondo, del codice civile, le parole: “alla fedeltà” sono soppresse»: in particolare, nella relazione di accompagnamento al d.d.l., si affermava che l’obbligo di fedeltà è “retaggio di una visione ormai superata e vetusta del matrimonio, della famiglia e dei doveri e diritti tra i coniugi”. In argomento, v. Iorio, op. cit., 90, che guarda a tale proposta di modifica come ad un modo “per giustificare la controversa scelta compiuta per le unioni civili, facendola passare per un approdo avanzato nella legislazione del diritto di famiglia, cui dovrebbe adeguarsi l’istituto del matrimonio”. R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, cit., p.1394, osserva come tale proposta sia in linea con l’idea del matrimonio come rapporto fondato sull’autodeterminazione dei coniugi e sul loro consenso: di guisa che l’infedeltà costituirebbe revoca del consenso per fatti concludenti. In argomento, B. De Filippis, L’obbligo di fedeltà coniugale in costanza di matrimonio nella separazione e nel divorzio, Padova, 2003, 25.
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solidarietà e lealtà che dovrebbero connotare ogni rapporto di coppia, risultando d’altra parte difficile configurare un “leale adulterio” 56. Altresì, l’impostazione in parola si scontra con le tendenze emergenti dagli ordinamenti stranieri a noi più vicini: se l’art. 212 del code civil francese espressamente annovera l’obbligo di fedeltà tra quelli cui sono tenute (anche) le coppie dello stesso sesso sancendo che “les époux se doivent mutuellement respect, fidélité, secours, assistance”57, nell’ordinamento tedesco l’iniziale mancata previsione di doverosità della fedeltà è stata infine recuperata in via giurisprudenziale, tramite una sua ricostruzione sistematica 58.
4. Le unioni civili come “luogo” di realizzazione della coppia.
In realtà, un’adeguata comprensione della ratio sottesa alla soppressione dell’obbligo di fedeltà nella l. n. 76/2016 non può che muovere dalla constatazione della diversità di fondo tra unioni civile ed unioni matrimoniali: manca, nelle prime, quell’ “essenza originaria del vincolo, cioè la generazione”59, che è invece connaturale alle seconde, quantunque la capacità di generare non rappresenti requisito di validità matrimoniale60; e, con essa, manca altresì la dimensione “comunitaria” propria della famiglia tradizionale. Così, il legislatore italiano, nel rispondere alle sollecitazioni provenienti sia dalla giurisprudenza costituzionale interna sia dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dando seguito all’aspirazione delle coppie omosessuali di vedersi riconosciuto il “diritto
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In proposito, cfr. Cass. 24 dicembre 2013, n. 28655, in Foro it., 2014, I, c. 480, che in merito alla proposta di conciliazione avanzata dalla moglie, però accompagnata dall’affermazione della mancanza di coabitazione e di continui (seppur tollerati) tradimenti da parte del marito, ha confermato la sentenza di rigetto emessa dal Tribunale osservando che «il modello di vita familiare ‘ripristinato’, e che l’appellante invoca a sostegno del suo assunto, circa l’intervenuta riconciliazione, non è riconoscibile, tout court, come famiglia, non è riconducibile allo schema di rapporto coniugale, nell’accezione che la legge vigente, e viene da aggiungere la società, riconoscono a tale istituto. … Addirittura l’appellante – non consapevole del carattere paradossale del suo assunto – giunge ad invocare la “continuità” (tra “il prima” e “il dopo” della separazione consensuale) degli adulteri del marito, da lei tollerati… Il ‘modello’ di vita che, secondo l’appellante, i coniugi ora seguirebbero (o avrebbero ripreso a seguire: ma si è detto che è profilo irrilevante), caratterizzato da stabili residenze separate e dalla sicura deroga al dovere di fedeltà, non è sussumibile nell’ambito del matrimonio». 57 Il matrimonio omosessuale in Francia è stato introdotto con la l. n. 2013-404 del 17 maggio 2013 ouvrant le mariage aux couples de personnes de même sexe. Fino ad allora, il riconoscimento delle unioni omosessuali era affidato unicamente ai pacs: cfr. l. n. 99- 944 “Du pacte civil de solidarieté et du concubinage”. Per un riferimento all’ordinamento francese, G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili), cit.; Iorio, Gli obblighi dei contraenti l’unione civile, in AA. VV., Unioni civili e convivenze di fatto, cit., 90, nt. 54. 58 S. Patti, Le unioni civili in Germania, in Fam. e dir., 2015, 958; Id, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, cit., c. 301 e nt. 2, a proposito delle numerose modifiche del Lebenspartenerschaftsgesetz che lo hanno nel tempo sostanzialmente assimilato alla disciplina matrimoniale. 59 M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, in Fam. e dir., 2016, 882. 60 In argomento, M. Sesta, op. ult. cit., 888, che ritiene matrimonio e unioni civili fattispecie ontologicamente diverse, proprio in ragione dell’identità di sesso che contraddistingue le parti dell’unione e che esclude la loro fecondità.
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alla vita familiare” (ex art. 8, CEDU) 61, se ha assunto a paradigma il modello matrimoniale, in cui la funzione familiare si esprime pienamente, se n’è al contempo distaccato per meglio adeguarlo alla dimensione “di coppia” che caratterizza le unioni civili. Non può allora che apparire legittima la scelta di disciplinare in modo non omogeneo rapporti coniugali con caratteristiche differenti, su di esse modellando l’assetto degli effetti personali che discendono dalla costituzione delle unioni civili62: ed invero, ancor prima che dalla tecnica di regolamentazione impiegata e dalla lettera delle norme63, tale scelta emerge proprio dalle regole che governano le unioni civili, scevre d’ogni aspetto legato ad una dimensione “procreativo-comunitaria”. Viene così anzitutto omesso il richiamo all’obbligo di fedeltà, intriso com’è, per tradizione normativa e dottrinale, di implicazioni con il tema della filiazione giacché, come s’è
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La necessità di un intervento legislativo in materia di unioni civili è stata sottolineata da Corte Cost. n. 138/2010, in Fam. e dir., 2010, 653 ss., con nota di Gattuso, ed in seguito ribadita da Corte Cost. 11 giugno 2014, n. 170. Il monito nei riguardi del legislatore italiano proveniva altresì dalla Corte di Strasburgo: cfr., in proposito, il provvedimento 21 luglio 2015, Oliari c. Italia (ric. n. 18766/11 e 36060/11), in Fam. e dir., 2015, 1069, con nota di Bruno. 62 A. Ruggieri, Unioni civili e convivenze di fatto: “famiglie” mascherate? (nota minima su una questione controversa e sulla discutibile risoluzione da parte della legge n. 76 del 2016), cit., 286, il quale osserva che “un’autentica frode alla Costituzione si consuma laddove dovessero riconoscersi i medesimi diritti e doveri ai componenti di formazioni sociali di cui, in partenza, si ammetta la diversa natura giuridica, tanto da riservarsi ad esse nomi parimenti diversi, facendosene tuttavia a conti fatti, oggetto di una non dissimile regolazione». M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit., 883, parla di “forma alternativa (e diversa) dal matrimonio” e, nel sottolineare la rilevanza euristica del richiamo agli artt. 2 e 3 Cost. da parte del legislatore, osserva come il mancato richiamo all’art. 29 Cost., consenta già di ritenere che questa nuova e “specifica” formazione sociale non si sovrapponga alla famiglia matrimoniale, e che, quindi “nella stessa intenzione del legislatore, matrimonio e unione civile sono, in linea di principio, differenti”. In termini ancora più estremi, G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso, cit., 119, il quale osserva che la fattispecie delle unioni civili è fondata sulla “scelta di circoscrivere gli effetti del relativo negozio giuridico alle sole parti che lo abbiano concluso”, risultando così sganciata “da qualsivoglia dimensione autenticamente familiare”. Ma v., T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, 310 s., che propugna l’idea della configurabilità di una pluralità d “famiglie” alla luce dei una rilettura sistematica degli artt. 2 e 29 Cost. alla cui stregua il primo costituirebbe il genus ed il secondo la species. 63 Quanto alla tecnica di disciplina, risulta chiaro che l’applicabilità alle unioni civili delle sole norme del codice espressamente richiamate sottende l’inequivoca scelta legislativa “di riservare alle unioni civili una autonoma identità distinta rispetto al matrimonio”: cfr. sul punto C. M. Bianca, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, comma uno, cit., 2, il quale così esclude “che le norme del codice sul matrimonio trovino applicazione analogica alle unioni civili sulla base di una supposta assimilazione tra i due istituti”. L’a. tuttavia ammette che a tale applicazione analogica si possa procedere anche nel caso di norme del codice civile non espressamente richiamate “quando non vi è ragione che giustifica una diversa regola del caso”, come ad esempio accade per l’art. 10 c.c., sull’abuso dell’immagine del coniuge: norma che, si rileva, pur non espressamente richiamata dalla disciplina sulle unioni civili è tuttavia applicabile “stante l’uguale meritevolezza dell’interesse tutelato”. Sulla questione dell’applicabilità per analogia delle norme codicistiche, cfr. P. Zatti, Introduzione al convegno Modelli familiari e nuovo diritto (Padova 7-8 ottobre 2016), in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1665 s. Sul piano letterale, poi, il legislatore non discorre di unione coniugale, “che reca in sé l’essenza originaria del vincolo, cioè la generazione” ma di unione civile che è invece priva della possibilità di instaurare rapporti giuridici di filiazione (M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit. 882.); non è familiare ma comune l’aggettivo di cui, salva la “svista” di cui al comma 12 “ evidentemente sfuggita alla censura” (così , F. Gazzoni, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it.; T. Auletta, Comma 12, in C. M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze, cit., 152, parla di “svista”) si fa uso nella complessiva disciplina delle unioni: come nel caso del comma 11 che, nel regolare l’obbligo di contribuzione, impone alle parti di tenere conto non dei “bisogni della famiglia”, come recita l’art. 143, III comma, c.c., ma di quelli “comuni”. Tale dato è reputato particolarmente significativo da M. Sesta, op. ult. cit., 886, giacché idoneo ad evidenziare “la ritrosia del legislatore a qualificare “famiglia” l’unione civile, e a considerarla alla stregua di una istituzione che trascende gli interessi dei singoli che la compongono, certamente anche in relazione al fatto che essa si riduce alla coppia e, almeno secondo l’impianto legislativo, non prevede la presenza di figli”.
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veduto, normalmente assunto alla base della disciplina sulla presunzione di paternità, poi mantenuta come connotato della famiglia fondata sul matrimonio anche nella riforma sulla filiazione64. L’omissione in parola trova allora verosimile fondamento nella reticenza ad introdurre regole legate al rapporto di genitorialità per la disciplina di un istituto al quale si nega l’essenza di comunità preordinata alla procreazione65: l’accertamento della generazione all’interno della coppia ed il proposito di scongiurare il rischio di introdurre nella famiglia figli generati da una persona che non sia il marito sono invero questioni estranee alle coppie omosessuali. Né tale assunto può considerarsi “anacronistico” in ragione della veduta elaborazione giurisprudenziale che ha mutato il contenuto di fedeltà, colorandolo di significati più ampi della mera esclusiva sessuale66, a meno che non si intenda dare per assunto che il legislatore abbia fatto propria siffatta evoluzione, sganciandosi dalla tanto radicata quanto ineludibile nozione codicistica di fedeltà. Non è poi superfluo rammentare come secondo una diffusa concezione di fedeltà essa deve ritenersi “strettamente legata alla presenza e all’attività di una comunità”67: di guisa che, pur primariamente rivolta al coniuge, risulta funzionale “all’esigenza di unità di tutta la famiglia piuttosto che alla sola comunione tra coniugi, a pena di espungere dalla nozione di famiglia i rapporti di filiazione”68. D’altra parte, la mancata considerazione dell’obbligo di fedeltà non si traduce nella sua irrilevanza in seno alle unioni civili. Il complessivo sfavore della dottrina verso l’idea di una “unione infedele” e la consolidata convinzione che tale obbligo sia connaturale ad ogni rapporto coniugale, rappresentando il significato ultimo di qualsiasi unione intesa come comunione di vita 69, hanno indotto ora a radicare la fedeltà nel dovere di assistenza morale70, talora osservandosi come ove si propendesse per l’insussistenza dell’obbligo di
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Medesima la posizione di F. Gazzoni, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, cit., il quale giustifica l’omissione osservando che «la fedeltà, nel matrimonio, esprime, sul piano dei principi, l’esigenza di rendere certa la paternità, inconcepibile nell’unione». 65 In senso contrario, T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 289, il quale sottolinea come non sia escluso che “ragioni di coppia” giustifichino comunque il fondamento di tale dovere. 66 Tale è l’opinione di G. Perlingieri, Interferenze tra unione civile e matrimonio. Pluralismo familiare e unitarietà dei valori normativi, cit., 107 ss., il quale critica l’impostazione in esame rammentando come la rinnovata concezione di fedeltà, lontana da quella esclusivamente connessa all’esclusiva sessuale, includa in senso più ampio la lealtà verso l’altra parte (su tale evoluzione, v. supra §1). 67 P. Rescigno, Proprietà e famiglia, II, Bologna, 1971, 156. 68 M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, cit., 36. Sul legame tra la fedeltà e l’unità della famiglia F. Carnelutti, Fedeltà coniugale e unità della famiglia, cit., 1ss.; P. Schlesinger, L’unità della famiglia, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, IV, Milano, 1972, 339; A.P. Scarso, Il dovere di fedeltà coniugale, in Fam. pers. e succ., 2005, 243. Lo stretto legame tra fedeltà e comunità familiare è evidenziato da quella dottrina che ha prospettato la possibilità che i coniugi si dispensino reciprocamente dall’osservanza del dovere in parola solo in assenza di prole: cfr., in argomento, M. Ferrari, Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, in Rass. dir. civ., 1994, 784. 69 Contrario all’operatività dell’obbligo di fedeltà nelle convivenze cfr. G. Perlingieri, Interferenze tra unione civile e matrimonio. Pluralismo familiare e unitarietà dei valori normativi, cit., 107. 70 G. Perlingieri, Interferenze tra unione civile e matrimonio. Pluralismo familiare e unitarietà dei valori normativi, cit., 109 s.; P. Zatti, Introduzione al convegno, cit., p.1664 (secondo cui dovere di collaborazione e di fedeltà sarebbero entrambi riconducibili al dovere di assistenza); Iorio, op. cit., 62, discorre di capacità “espansiva” dell’assistenza morale; C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit, cit., 1095; A. Figone, Matrimonio ed unioni civili. Differenze e analogie, Focus del 23 maggio 2016, in Familiarista.it; L. Oliviero,
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fedeltà si darebbe luogo ad un sostanziale svuotamento degli altri doveri previsti in capo agli uniti civilmente, non potendosi invero ammettere una “assistenza morale infedele”71; ora a discorrere di “dovere implicito” o “non espressamente menzionato”72, ricostruibile in via sistematica giacché la fedeltà, benché espunta dalla lista dei doveri tra gli uniti civilmente, riaffiorerebbe “negli interstizi di altre disposizioni”73; ora, infine, di “dovere pregiuridico” che esiste in campo familiare e nell’ordinamento, a prescindere dal suo richiamo espresso74, rinvenendo nell’art. 143 c.c. una “coincidenza tra norma morale e norma giuridica”, giacché il “non giurista sente dentro di sé, pur ignorando la regola del codice civile,
Unioni civili e presunta licenza di infedeltà, in Riv. trim.dir.proc.civ., 2017, 213; R. Campione, Le convivenze non matrimoniali, in Amadio- Macario, Diritto di famiglia, Bologna, 2016, 87, che reputa la lealtà “alla stregua di una particolare sfaccettatura dell’obbligo di assistenza e di collaborazione sancito al comma 11, il quale…include il dovere di rispettare la persona dell’altro coniuge”. Con particolare riferimento alle convivenze di fatto, L. Balestra, La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione, in Fam. e dir., 2016, 929, testo e nt. 45, secondo cui il rapporto di coppia improntato alla reciproca assistenza materiale morale non può non includere in sé “anche un impegno di dedizione, esclusività e rispetto”. In proposito, cfr. A. Ruggieri, Unioni civili e convivenze di fatto: “famiglie” mascherate? (nota minima su una questione controversa e sulla discutibile risoluzione da parte della legge n. 76 del 2016), in www.giurcost.org, 259, a cui “sfugge la ratio per la quale nella legge non si fa menzione dell’obbligo di fedeltà”: l’a. osserva come esso rappresenti il pilastro su cui poggia quell’assistenza morale e materiale che pure grava sui civilmente uniti e non esclude che il giudice delle leggi, ove chiamato a pronunciarsi sul punto, “possa far luogo ad una pronunzia additiva, al fine di ripristinare la necessaria coerenza tra la prescritta assistenza e l’omessa fedeltà”. Contro una identificazione tra fedeltà e assistenza morale, M. Bianca, Le unioni civili ed il matrimonio: due modelli a confronto, cit., 8, la quale osserva che “la fedeltà non si immedesima …con l’obbligo di assistenza morale…” la cui violazione “mantiene pertanto la sua rilevanza autonoma anche ai fini di un giudizio di responsabilità endofamiliare”. Per l’a. “l’obbligo di fedeltà conserva la prerogativa di obbligo che riguarda esclusivamente il modello della disciplina fondata sul matrimonio” sottolineandosi come la sua mancata riproposizione “non è…una dimenticanza, né esso è ricavabile dall’obbligo di assistenza morale ma è una delle tante espressioni della volontà del legislatore di rimarcare la differenza tra unioni civili e matrimoniali”. 71 C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit?, cit., 1104; T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., p.290, discorre di “depotenziamento” degli altri doveri, primo tra tutti quello di assistenza morale, ove mancasse quello di fedeltà. Cfr. in proposito M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit., 887, ove si legge che “non v’è dubbio che le disposizioni dei commi 4, lett. a) - che qualifica come causa impeditiva per la costituzione dell’unione civile la sussistenza per una delle parti di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile -, 32 - che ha modificato l’art. 86 del codice civile qualificando come ostativi alla li-bertà di stato non solo il vincolo matrimoniale, ma anche quello discendente da un’unione civile -, 36 - che qualifica conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e mate- riale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile -, ed il infine il comma 59, lett. c) - alla cui stregua il contratto di convivenza si risolve per matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona - testimoniano che sia l’unione civile che la convivenza rechino con sé l’idea di un rapporto di coppia analogo, sotto questo riguardo, a quello matrimoniale, che è infatti con esse in vario modo incompatibile”. 72 T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit. 293; F. Carimini, Verso il tramonto “giuridico” dell’obbligo di fedeltà, 462, osserva che se il dovere di fedeltà di intende come dovere di lealtà ( quindi secondo un’accezione diversa dalla mera fedeltà sessuale) “allora esso è insito nella comunità di vita della coppia e non necessita pertanto di una specifica menzione” giacché dignità ed onore costituiscono valori da attuare nello svolgimento di qualsiasi unione basata sull’affectio; R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, 1392, se in generale prospetta la possibilità “di individuare doveri impliciti in aggiunta a quelli tipici generali che governano il rapporto, oltre che dai principi costituzionali riferibili alla persona” (p. 1392) quanto all’obbligo di fedeltà sottolinea invece la necessità di evitare «un’interpretazione correttiva- volta ad includere anche nelle unioni un (implicito) dovere di fedeltà- non autorizzata dalla presenza di un testo normativo che deve essere correttamente interpretato per salvaguardarne la finalità» (p. 1393) precisando poi che il dovere di fedeltà, se inteso come buona fede e astensione da condotte contrarie alla correttezza può senz’altro riferirsi anche alle unioni civili; A. Fasano- G. E. Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle unioni civili, Milano, 2016, 67, secondo cui tali doveri impliciti sarebbero assorbiti nell’ambito del generico obbligo reciproco di assistenza morale e materiale, opportunamente non codificati, ispirati al rispetto della personalità del singolo secondo il generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost) che impone il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona nell’ambito delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. 73 L. Olivero, Unioni civili e presunta licenza di infedeltà, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2016. 74 C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit?, cit., 1104.
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che il bravo marito non deve tradire la moglie, che i coniugi devono prestarsi reciprocamente assistenza morale, che devono coabitare”75. In realtà, la fedeltà declinata come presidio della dignità personale consente di superare l’omissione legale non soltanto per essere sottesa alla necessaria esclusività della relazione emergente in modo chiaro dall’enunciazione del principio monogamico che, “fattore di massima assimilazione tra vecchio matrimonio e nuove famiglie”, riflette un’idea dell’amore coniugale esclusivo e fedele (comma 4, lett. a)76; ma altresì per collocarsi tra quei doveri connaturali all’obiettivo di comunione della vita familiare, sottesi al matrimonio così come all’unione civile e da taluno estesi perfino alle convivenze77, essendo impossibile ritenere che «all’unione di coppia, connotata da affetto e lealtà reciproca, sia estraneo quel mutuo impegno di devozione e che è l’altro nome della fedeltà coniugale»78: quest’ultima, allora, deve essere inquadrata tra quei valori che non abbisognano di una norma che espressamente li contempli, come del resto aveva a dirsi del dovere di collaborazione il quale, introdotto solo con la riforma del 1975, si riteneva sussistere in capo ai coniugi pur in assenza di un’esplicita previsione79. Ove poi si guardi all’espunzione dell’obbligo di fedeltà dalla prospettiva degli effetti, non è superfluo osservare come all’omissione in parola non seguano significative implicazioni pratiche. Se in un’ottica comune al matrimonio ed alle unioni civili, l’adempimento dei doveri coniugali è rimesso “alla sensibilità delle parti ed allo spirito di solidarietà e comprensione (o sopportazione) che reciprocamente li anima”80, commesso l’adulterio e superata che sia l’eventuale fase della tolleranza, emerge la differenza tra i due modelli
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C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit? Chiose sull’obbligo di fedeltà nei rapporti di convivenza familiare, in Dir. fam. e pers., 2016, 1099. 76 E. Quadri, Unioni civili: disciplina del rapporto, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1695; A. Fasano - G. E. Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle unioni civili, cit., 66, rileva come “ove si consideri la fedeltà alla stregua di un impegno di lealtà e correttezza per la vita a due, non vi sarebbe motivo di ritenere la sua violazione legittima nell’ambito di qualsiasi relazione affettiva”. 77 Sulla vigenza dell’obbligo di fedeltà anche nelle convivenze, N. Lipari, La categoria giuridica della famiglia di fatto e il problema dei rapporti personali al suo interno, in La famiglia di fatto, Atti del convegno di Pontremoli, 27-29 maggio, Montereggio, 1977, 69, il quale (implicitamente) rileva che la fedeltà impronterebbe di sé ala famiglia di fatto che non potrebbe configurarsi in assenza di una condotta rigorosamente fedele; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., 67, il quale rileva che i conviventi devono tenere “un comportamento essenzialmente fedele, ma non già in funzione dell’esclusività del ius in corpus, quanto piuttosto perché l’infedeltà può essere di volta in volta spia dell’assenza di affectio”; A. Trabucchi, Recensione, in Riv.dir.civ., 1979, I, 345, osserva che il rapporto di convivenza “deve essere caratterizzato, almeno in uno dei due partners, da un elemento di dichiarata fedeltà esclusiva, che lo distingue da un pur ripetuto scambio di manifestazioni in vario modo affettivo e di possesso”. e ad ogni altro rapporto fondato sull’affectio (cfr. comma 36 che definisce i conviventi di fatto come persone unite da “legami affettivi di coppia” 78 Così, con riguardo alle convivenze, M. Paradiso, Art. 1, legge 20 maggio 2016, n. 76, commi 36-37, in C. M . Bianca ( a cura di), Le unioni civili e le convivenze, cit., 487. 79 T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 289. C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit? Chiose sull’obbligo di fedeltà nei rapporti di convivenza familiare, cit., 1107, osserva invero che la fedeltà non può che essere presente nella famiglia, anche in quella non matrimoniale, e ciò a prescindere dalla sua previsione normativa; R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, 1393, la quale rileva come il dovere di fedeltà, inteso come buona fede ed astensione da comportamenti contrari alla correttezza nei confronti del partner, non può essere escluso, ma deve essere riconosciuto come dovere implicito, riconducibile al dovere di rispetto della personalità e della dignità dell’altro soggetto, espressivo dell’impegno assunto con la scelta dell’unione civile. In questo senso l’omissione potrebbe trovare giustificazione nella superfluità di una specifica previsione per il contenuto implicito del dovere”. 80 R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, cit., 128.
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coniugali: la condotta infedele del civilmente unito, se ben potrà determinare la crisi del rapporto di coppia, non assumerà infatti i contorni di possibile causa di addebito, quale tipica benché oggi “attenuata” sanzione della violazione dell’obbligo in discorso81, attesa la mancata previsione della fase di separazione82.
5. Il riflesso della “dimensione di coppia” nella l. n. 76/2016.
La prospettiva “di coppia” in cui il legislatore mostra di collocare le unioni civili emerge altresì in diffusi luoghi della l. n. 76/2016. Essa, anzitutto, si riflette sulla disciplina della fase patologica delle unioni, per le quali non è previsto l’istituto della separazione ed assai agili risultano le procedure per addivenire allo scioglimento del vincolo: a seguito di richiesta anche unilaterale innanzi all’ufficiale dello stato civile, le parti entro tre mesi avanzano domanda di scioglimento; essa, sganciata com’è dall’onere di motivazione come da quello di deduzione dell’intollerabilità della convivenza, è da accogliersi senza accertamento alcuno ed è perciò guardata dalla dottrina come vero e proprio recesso ad nutum83. Così, soppressa la fase della separazione e perciò non confermata la struttura “bifasica” che invece continua a contraddistinguere il rapporto matrimoniale, lo “scioglimento” dell’unione (id est, divorzio) costituisce l’unico rimedio per la crisi dell’unione civile. Al contrario, la relativa disciplina matrimoniale, seppur percorsa da quel processo di semplificazione sfociato nell’introduzione del c.d. divorzio breve, non soltanto non ammette che al divorzio possa giungersi senza la previa separazione, quale mera “sospensione” degli effetti idonea a garantire ai coniugi un adeguato margine di riflessione84, ma altresì
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V. supra, §1. Sulla funzione dell’addebito, F. Ruscello, Funzione dell’addebito e presunto nesso di causalità tra intollerabilità della convivenza e violazione dei doveri coniugali, in Vita not., 2006, 591 ss.; S. Polidori, Addebito della separazione, in Rass. dir. civ., 1999, 873 ss. 82 Sulle modalità di scioglimento dell’unione civile, v. infra, § 83 Così, M. Paradiso, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, cit., p.1308; G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso. Note critiche sulla disciplina contenuta nei commi 1°- 34° dell’art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76 integrata dal d. lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, cit., 138 s., osserva che l’unica peculiarità risiede nella circostanza che l’effetto risolutorio non si produce immediatamente, essendo invece alternativamente subordinato alla pronuncia di una sentenza costitutiva o alla stipulazione di un accordo tra le parti (o sottoposto all’ufficiale dello stato civile o concluso a seguito di negoziazione assistita da avvocati). M. Bianca, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, cit., 6, discorre di “diritto potestativo” giacché, “indipendentemente dal fatto che tale dichiarazione non richiede una causa specifica, essa è espressione di un libero esercizio di una delle parti che si traduce in potere di modificare la sfera giuridica dell’altro”. Secondo S. Troiano, Commi 22- 23-24, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, cit., 373 s., l’unione si scioglierebbe per effetto del provvedimento del giudice. Anche ove si aderisse ad una idea siffatta, occorre comunque convenire che è pur sempre il singolo a decidere lo scioglimento dell’unione. Dubbi sulla idoneità, ai fini dello scioglimento dell’unione, della manifestazione di volontà di una sola delle parti dell’unione sono espressi da G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso, cit., 137. 84 In argomento, medesima la posizione di R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, 1394, la quale osserva che l’esigenza di stabilità del rapporto “è particolarmente evidente nel caso in cui vi siano figli, posto che in queste ipotesi la disciplina della separazione e del divorzio è più “controllata “ e meno “snella” rispetto a quella operante nei casi di coniugi senza figli, venendo meno l’esigenza di garantire la stabilità del rapporto e tutelare gli interessi della prole”.
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impedisce l’accesso alle procedure “rapide” nel caso vi sia la presenza di prole: non può allora farsi a meno di notare come nel matrimonio tale presenza, non soltanto legittima i genitori minori di età a contrarre matrimonio e altresì consente di sanare un matrimonio invalido (art. 84, II comma; art. 117, II comma c.c.), ma è financo preclusiva della possibilità di accesso alla più snella procedura di cui all’art. 12, II comma, d.l. n. 123/2014, assai simile a quella contemplata in tema di unioni civili 85. Non si tratta tanto di smentire la rilevanza dell’interesse all’unità e stabilità della coppia86, di indubbio peso in seno ad ogni modello familiare e dunque anche nelle unioni civili, ma non può revocarsi in dubbio che tale interesse trovi una più radicale tutela in vista della stabilità del nucleo familiare in cui il minore è destinato a crescere; laddove, in una dimensione “di coppia” alla quale si nega il ruolo di “istituzione” che trascende gli interessi dei singoli che la compongono, risulta accentuata la rilevanza delle libertà del singolo dal quale il diritto non esige un sacrificio in funzione di tutela di un interesse “altro” 87. Ancora, il mancato richiamo all’obbligo di collaborazione, del quale autorevolmente si sottolinea la portata “riassuntiva della prospettiva comunitaria e solidale dei rapporti familiari”88, conferma la visione legislativa delle unioni civili in termini di “coppia” e viep-
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Sulla presenza di figli minori (o conviventi) quale elemento condizionante l’autonomia dei coniugi, M. Cavallaro, Intese non patrimoniali fra coniugi, in Familia, 2003, 367. Quanto al procedimento di cui nel testo, è noto come l’art. 12, II comma, d. l. 12 settembre 2014, n. 132, recante Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, espressamente esclude che la procedura di divorzio innanzi al sindaco, connotata da un iter particolarmente agile, sia accessibile nel caso di presenza di figli minori, di figli maggiorenni o portatori di un handicap grave. Per le considerazioni di cui nel testo, M. Paradiso, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, cit., 1309 s., che osserva come in definitiva la famiglia sia chiamata a sopravvivere alla crisi di coppia “in funzione dei figli”, i quali costituiscono ragione autonoma di un nuovo gruppo, fino ad arrivare alla costituzione di forme coniugali illecite, come quelle poligamiche, al fine di realizzare il “diritto al ricongiungimento familiare” con i genitori. Sul problema delle famiglie poligamiche, cfr. G. Perlingieri, In tema di rapporti familiari poligamici, in corso di pubblicazione; M. Rizzuti, Il problema dei rapporti familiari poligamici. Precedenti storici e attualità della questione, Napoli, 2016; AA. VV., Più cuori e una capanna. Il poliamore come istituzione, Torino, 2018. 86 In tal senso, invece, G. De Cristofaro, Le “unioni civili” fra coppie del medesimo sesso, cit., 125 s., secondo cui l’omissione dell’obbligo di fedeltà e di collaborazione nell’interesse comune è null’altro che l’“inevitabile e logico corollario della scelta di negare qualsivoglia rilevanza giuridica all’esistenza (o all’inesistenza) di un legame affettivo stabile fra le parti dell’unione”. Invero, continua l’a. secondo cui dall’unione civile non sorgerebbe un impegno, ma solo un “probabile obiettivo”, non vi è alcun programma di comunione di vita la cui concreta attuazione richieda imprescindibilmente una quotidiana e coordinata collaborazione tra le parti dell’unione civile; non vi è un legame affettivo e sentimentale stabile, che valga a giustificare le limitazioni della libertà personale e sessuale derivanti dall’obbligo di fedeltà, ancorché inteso nella più moderna delle accezioni, nient’affatto circoscritta alla dimensione sessuale”. Così, la mancata previsione di un passaggio “intermedio” sarebbe indice dell’“assoluto disinteresse del legislatore per la sorte del rapporto sorto in seguito alla costituzione dell’unione civile, a tal punto sottovalutato da non essere ritenuto nemmeno meritevole… di essere per un breve periodo di 6 mesi semplicemente sospeso, prima del definitivo ed irreversibile scioglimento” (p. 136). Anche R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, cit., 1394, osserva che «la stabilità del legame non costituisce più un valore da salvaguardare, posto che si tratta di tutelare la coppia e non il “gruppo”, e per questo il legislatore rimette alle parti la scelta di conservare o sciogliere il rapporto». 87 In contrario, cfr. T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 285, nt. 53, il quale, all’idea secondo cui l’interesse alla stabilità della coppia nelle unioni civili sia più debole rispetto a quello sotteso alle unioni matrimoniali, obietta che “la rilevanza di un valore non si determina sulla base del numero dei soggetti interessati” e che “l’esigenza di stabilità del rapporto familiare non è maggiormente garantita dall’ordinamento a secondo che la coppia abbia o meno dei figli”. 88 M. Paradiso, I rapporti personali fra coniugi, cit., p 47; R. Fadda, Le unioni civili e il matrimonio: vincoli a confronto, 1392, la quale discorre di valenza “collettiva e solidaristica” e osserva come il dovere di collaborazione “consista essenzialmente in un impegno riferito ai bisogni del gruppo familiare e non del singolo componente della coppia”, laddove quello di collaborazione è preordinato alla cura ed ai bisogni delle esigenze del coniuge.
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più accentua la contrapposizione con il matrimonio, nel cui ambito la dottrina tradizionale, mentre riconnette il dovere di assistenza a quelle condotte funzionali all’interesse dell’altro coniuge, pacificamente riferisce quello di collaborazione alle attività immediatamente funzionali alle esigenze della vita familiare, che appaiono come interessi comuni ai coniugi e ai figli»89. A sottolineare vieppiù la negazione di una dimensione “comunitaria” dell’unione civile vi è infine la preclusione del vincolo di affinità con i parenti dell’altra parte, atteso il difetto di una norma che espressamente lo preveda o di un rinvio all’art. 78 c.c.90: viene così ribadita l’idea che l’unione civile, priva della “capacità espansiva” propria del matrimonio, produce i propri effetti soltanto nei riguardi di coloro che la costituiscono91. Volendo trarre le conclusioni di quanto s’è venuto fin qui svolgendo, può dirsi che dalle norme sul governo delle unioni civili è estranea la prospettiva della “genitorialità” e della “comunità familiare”: in linea con le indicazioni desumibili dalla legge n. 40/2004 in tema di procreazione medicalmente assistita, che notoriamente preclude l’impianto e la successiva instaurazione del rapporto di filiazione per coppie omosessuali92, le unioni civili sono pensate come luogo elettivo della coppia omosessuale, per natura inconciliabile con un progetto di filiazione, non potendo esse generare naturalmente, né ricorrere a procreazione assistita ed essendo loro preclusa ogni forma di adozione, inclusa secondo una certa interpretazione quella del figlio dell’altro soggetto dell’unione93.
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P. Zatti, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, II ed., Torino, 1982, III, 2, 42. Nel senso di uno stretto nesso di tale dovere con i rapporti con la prole, Ruscello, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, cit., 137; R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, cit., 126 s.: così, viene in particolare collocata in tale quadro la collaborazione richiesta per la sorveglianza dei figli, per la loro educazione ed istruzione, o, ancora, l’attività di cura dei parenti anziani 90 F. Azzari, Unioni civili e affinità, in www. rivistafamilia.it, 2017, rileva che l’omissione del vincolo di affinità, invero, al pari di altre omissioni rinvenibili nella nuova disciplina, non pare essere dovuta ad altra ragione che a quella di marcare una mera distinzione tra gli effetti dell’unione civile e quelli del matrimonio. 91 Sul punto, M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, cit. 885, secondo cui la scelta legislativa conferma l’intenzione di circoscrivere gli effetti dell’unione ai soli membri che la costituiscono. Al riguardo, T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione e morte della famiglia?, sub l. 20 maggio 206, n. 76, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 382 s., secondo cui si tratta di una scelta che non convince «perché non trova riscontro nella coscienza sociale secondo la quale, col formarsi della coppia, si realizza un ingresso a pieno titolo di ciascun membro nella famiglia dell’altro. Pertanto, come il coniuge diviene affine dei parenti dell’altro, non vi era ragione per precludere analogo effetto ai parenti del partner dell’unione civile, principio ormai espresso dall’art. 74 c.c. a proposito della parentela naturale». 92 Legge 19 febbraio 2004, n. 40 «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita». In dottrina, U. Salanitro, La procreazione medicalmente assistita, in Tratt. dir. fam., diretto da Bonilini, IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3655 ss.; G. Di Rosa, Scienza, tecnica e diritto in recenti applicazioni giudiziali della disciplina in materia di procreazione medicalmente assistita, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 611; M. Meli, Il divieto di fecondazione eterologa e il problema delle antinomie tra diritto interno e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 14 ss. 93 Così T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 312 s., esplica il requisito della “espansività” della famiglia. La visione “di coppia” cui si fa cenno nel testo è indirettamente confermata da Corte Cost., 15 aprile 2010, n, 128, in Foro it., 2010, I, 11361, là dove riconosce alle coppie omosessuali il diritto fondamentale di “vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone (…) il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Sulla dubbia ammissibilità della stepchild adoption nella legge sulle unioni civili, cfr. M. Bianca, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, 9 s.; F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, cit., 15, che si sofferma sul controverso dettato normativo di cui al comma 20 (in cui, dopo l’esclusione dell’applicabilità della l. n. 184/1983, si aggiunge che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”) che sembrerebbe un vero e proprio rinvio all’interpretazione giurisprudenziale prevalente che notoriamente ammette l’adozione del minore dalla parte dell’unione civile: G. Collura, Le “famiglie degli affetti” e le nuove
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Né, tale assunto, che riposa sull’analisi del dato normativo, può essere scalfito dal mero fatto della (pur sempre) possibile presenza di figli all’interno dell’unione94: intendo riferirmi alle ipotesi di mutamento di sesso e susseguente trasformazione del matrimonio in unione civile; di figli nati da un precedente matrimonio o da convivenza eterosessuale; di fecondazione eterologa di soggetto nato all’estero95 o di soggetto nato in Italia96; di maternità surrogata 97 ovvero, infine, di riconoscimento in Italia di un’adozione avvenuta all’estero98.
genitorialità, cit., 51, rinviene in tale disposto il significato di «demandare ancora una volta alla mutevolezza degli orientamenti giurisprudenziali il riconoscimento del minore a vedere legittimato un rapporto essenziale per la sua nascita lasciandolo in un limbo giuridico». 94 In dottrina, G. Salvi, Percorsi giurisprudenziali in tema di omogenitorialità, Napoli, 2018; A. Morace Pinelli, Il problema della filiazione dell’unione civile, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2017 e ai d.lgs. n. 5/2017; d. lgs. 6/2017; d. lgs. 7/2017, Torino, 2017, 303 ss.; G. Casaburi, Matrimonio same sex all’estero, unioni civili in Italia, genitorialità omosessuale: nuovi sviluppi giurisprudenziali (osservazioni a Cass. 14 maggio 2018, n. 11696, e Trib. Perugia, decr. 26 marzo 2018), in Foro it., 2018, I, c. 1965 ss.; A. Bellelli, La disciplina della filiazione nella legge sulle unioni civili, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, cit., 320 ss.; I. Prisco, I rapporti di filiazione nelle unioni omosessuali. Uso e abuso del criterio del best interest del minore, in Foro nap., 2017, 679 ss. 95 Ipotesi che solleva la controversa questione del riconoscimento in Italia di atti di nascita formatisi all’estero: sul concetto di “ordine pubblico internazionale” quale limite alla riconoscibilità dei provvedimenti stranieri, ex artt. 65, l. n. 318/1995 e 18, d.p. r. n. 396/2000, cfr. Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, in Dir. fam. pers., 2017, 52 ss. In argomento, App. Torino, 4 dicembre 2014 (in riforma di Trib. Min. Torino, 21 ottobre 2013), in Nuova giur. civ. comm., 2015, 441 ss. e in Fam. dir. 2015, 822, con nota di M. Farina, Il riconoscimento di status tra limite dell’ordine pubblico e best interest del minore, e in Giur. it., 2015, 1344, con nota di F. Cristiani, Trascrizione di filiazione accertata all’estero nell’ambito di un matrimonio omosessuale, a proposito dell’ordine di trascrizione del certificato di nascita di un minore nato in Spagna da due donne (una italiana, donatrice dell’ovulo, e l’altra spagnola che ha gestito la gravidanza ed infine partorito il bambino). Per la dottrina in argomento, cfr. G. Luccioli, Il caso del figlio nato da due madri. L’interesse del minore e il limite dell’ordine pubblico, in www.giudicedonna.it 96 In argomento, G. Grasso, È possibile formare in Italia un atto di nascita con due genitori dello stesso sesso?, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1569 ss. 97 Cfr. Corte App. Trento, 23 febbraio 2017, in Fam. dir., 2017, 669 ss., che riconosce la doppia paternità di due gemelli nati da maternità surrogata in capo ad entrambi i papà (quello biologico e quello non biologico). La questione è in tal caso assai complessa giacché il figlio non è ovviamente concepito a seguito di fecondazione eterologa, notoriamente ammessa anche nel nostro ordinamento, ma mercé un contratto con il quale una donna acconsenta ad essere fecondata artificialmente, per poi consegnare il figlio così generato alla coppia committente: contratto che, nella modalità della maternità surrogata, come si sa, non solo è vietato, ma anche penalmente sanzionato (cfr. art. 12 n. 6, L. 04/40). Cfr. in proposito, Corte cost. n. 162/2014, in Nuova giur. civ. comm. 2014, I, 802. 98 Sul punto, cfr. L. Lenti, Unione civile, convivenza omosessuale e filiazione, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1707 ss.; G. Ferrando, L’adozione in casi particolari alla luce della più recente giurisprudenza, in Dir. succ. fam., 2017, spec. 85. In giurisprudenza, nel senso di ammettere l’adozione semplice da parte di coppie dello stesso sesso sulla base della lett. d) dell’art. 44, l. n. 184/1983 (ossia per i casi di impossibilità di affidamento preadottivo, non solo di fatto ma anche di diritto cioè anche nelle ipotesi in cui, pur in difetto dello stato di abbandono, in concreto sussista l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi von altri soggetti che se ne prendano cura) Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1213, con nota di G. Ferrando, Il problema dell’adozione del figlio del partner. Commento a prima lettura della sentenza della Corte di Cassazione n. 12962 del 2016; Cass. 11 gennaio 2013, n. 601, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 432. App. Milano, 1 dicembre 2015, in Fam. dir., 2016, 271, con nota di F. Tommaseo, Sul riconoscimento dell’adozione piena, avvenuta all’estero, del figlio del partner d’una coppia omosessuale, che ha parimenti riconosciuto lo status ad una bambina nata da fecondazione eterologa in Spagna da donne coniugate e poi adottata da una delle due con adozione “piena” (consentita dalla legge spagnola), escludendo un possibile contrato con l’ordine pubblico internazionale; Trib. Minori Roma, 30 luglio 2014, in Foro it. 2014, I, c. 2743, con osservazioni a margine di G. Casaburi e in Fam. e dir., 2015, 580, con nota di M. G. Ruo, A proposito di omogenitorialità adottiva e interesse del minore (confermata da App. Roma, sez. minori, 23 dicembre 2015); Trib. min. Roma, 22 ottobre 2015, in www.articolo29.it, sull’accoglimento della domanda di adozione in casi particolari ad opera del partner della madre biologica che aveva fatto ricorso a fecondazione eterologa all’estero. Ma, sull’adozione, occorre tener conto della tendenza interpretativa espressa dalla Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro, it., I, c. 2342, con nota di G. Casaburi e in Guida al dir., 2016, 29, con nota di M. Finocchiaro: ove tale tendenza trovasse seguito nella giurisprudenza potrebbe dirsi ammessa l’adozione legittimante di minore da parte di no o di entrambi i membri della coppia
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Può allora dirsi che nelle unioni civili si assiste ad un corso opposto a quello che autorevole dottrina registra in seno al diritto di famiglia: mentre quest’ultimo diviene “decisamente e senza residui diritto della filiazione”99, nelle unioni omosessuali la situazione è capovolta e la tutela non è riferita alla filiazione, ma ai partners, per propria essenza non genitori100: così, il diritto delle unioni civili, non è diritto dei minori, ma diritto degli adulti.
6. Obbligo di fedeltà e autonomia privata: sulla sua
derogabilità tra coniugi.
Una delle questioni di maggiore interesse legate al tema dell’obbligo di fedeltà è sicuramente quella relativa al rapporto con l’autonomia privata e all’ammissibilità o meno di una deroga dell’obbligo in parola da parte dei coniugi. Il sempre più diffuso impiego di patti che regolano interessi non patrimoniali – come quelli sull’obbligo di convivenza o sulle modalità dell’esercizio della potestà – se per un verso rappresenta uno dei passaggi più significativi della graduale revisione del dogma di tipicità dei negozi familiari101, è per altro verso emblematico di quel processo di “privatizzazione” del diritto di famiglia che, da mera regola della crisi diviene governo dei più vari aspetti della vita familiare in un “progressivo degradare degli interessi coinvolti, da indisponibili e superindividuali, a situazioni soggettive i cui arbitri sono esclusivamente i soggetti partecipi della relazione”: così incrinando l’idea dei rapporti familiari quale ambito riservato alla regola giuridica e favorendone la transizione verso uno dominato dalle dinamiche negoziali102. Il nuovo corso del diritto di famiglia ha così fornito rinnovato impulso al dibattito dottrinale sul rapporto tra autonomia privata e doveri personali tra coniugi, gradualmente scalfendo il dogma dell’assoluta indisponibilità delle posizioni derivanti dal matrimonio riposante sul portato pubblicistico sotteso all’idea di famiglia come cellula sociale e sulla ritenuta natura “inscindibilmente collettiva” degli interessi coinvolti103.
omosessuale. M. Paradiso, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, cit., 1310. 100 Per tali considerazioni, ma in un più ampio contesto, F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, cit., p.293. 101 P. Rescigno, Manuale di diritto privato, 2000, 245. 102 A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il “nuovo” diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 336 e p.350. In proposito, cfr. C. Cicero, Non amor sed consensus, cit., 1105, critico verso la tendenza a introdurre nella famiglia “un certo consensualismo, inteso nella sua concezione deteriore, del “fare come si vuole” perché vi è un accordo sottostante. Se così realmente fosse (…) si ridurrebbe la convivenza, l’unione civile, finanche il matrimonio, a una struttura contrattuale in senso tecnico, ma addirittura si perverrebbe al contrattualismo della famiglia”; G. Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005; F. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; F. Santoro Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Dir. giur., 1945, 3 ss.; T. V. Russo, Il potere di disposizione dei diritti inderogabili, in Rass. dir. civ., 2014. 459 ss.; C. Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, in Rass. dir. civ., 1997, 494 ss.; A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2002, I, 213 ss.; R. Amagliani, Appunti su autonomia privata e diritto di famiglia: nuove frontiere della negozialità, in Contratti, 2014, 582 ss. 103 A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 220 ss. Una impostazione alla cui stregua la dottrina 99
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I termini della questione posta mutano a secondo che ci si interroghi sulla declinabilità “in blocco” di tutti i doveri derivanti dal matrimonio ovvero soltanto di uno di essi. Sotto il primo profilo, se la dottrina pacificamente la esclude quando si verta in tema di doveri dal contenuto economico, valorizzando la sedes materiae dell’art. 160 c.c., al contrario non vi è unanimità là dove si discorra di doveri di natura personale104. Quale che sia l’opzione che si intenda accogliere in merito alla portata della disposizione in parola, il tenore dell’art. 123 c.c., che sancisce l’annullabilità del matrimonio “quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti”, non sembra lasciare spazio a dubbi, non essendo ipotizzabile «una differenza sostanziale tra un accordo precedente al matrimonio, in ogni caso illecito, ed uno successivo»105. Così, rimasta isolata l’opinione dottrinale che relega la disciplina del diritto di famiglia a mera regola “integrativa” destinata ad operare solo in difetto di una diversa volontà delle parti quali arbitri indiscussi dei loro rapporti personali106, l’accennato processo di privatizzazione del diritto di famiglia senz’altro si arresta innanzi all’idea d’un matrimonio “ad effetti limitati”, espressione con cui si intende indicare quell’opzione che mira a rendere «interamente derogabile il contenuto dei rapporti personali e patrimoniali, con l’effetto di ridurre il matrimonio ad una cornice all’interno del quale si esplica la libera determinazione dei coniugi»107. Quanto alla deroga di singoli obblighi derivanti dal matrimonio, ipotesi che esigenze di trattazione mi impongono di esaminare con limitato riguardo a quello di fedeltà, l’analisi delle riflessioni dottrinali sul tema disvela un panorama assai variegato: accanto all’opinione di chi, ravvisando il nucleo essenziale della fedeltà nella “esclusività dell’impegno
invero osservava che solo di fatto i coniugi possono osservare un patto in deroga ai doveri familiari ché, essendo privo di qualsivoglia efficacia, ognuna delle parti potrebbe considerarlo nullo o pretenderne l’osservanza: così, L. Barassi, La famiglia legittima nel nuovo codice civile, Milano, 1947, 255. In argomento, F. Ruscello, Accordi fra coniugi e dovere di fedeltà, in Studium iuris, 1999, 630 ss. 104 In argomento, M. Cicala, Considerazioni intorno agli accordi non patrimoniali tra coniugi, in Riv. dir. matr., 1967, 462 ss. Nel senso della inderogabilità, M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, cit., 206 ss.; T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., 303 e nt. 154, che fonda il divieto di escludere “in blocco” i doveri coniugali nell’art. 123 c.c.; G. Doria, Autonomia privata e “causa” familiare, Milano, 1996, 78; F. Ruscello, I diritti e i doveri, cit., 78 ss. In contrario, R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, cit., 144, il quale fa leva sulla collocazione dell’art. 160 nel capo dedicato al regime patrimoniale della famiglia; parimenti R. Sacco, Note introduttive agli artt. 41-47 Nov., in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di L. Carraro - G. Oppo - A. Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 323 ss.; G. Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 249, circoscrivono l’operatività dell’art. 160 c.c. ai soli obblighi di contenuto economico, con particolare riguardo a quelli di contribuzione. 105 M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi, cit. 179 s. e ivi ulteriori argomentazioni a sostegno della inderogabilità “in blocco” (anche) dei doveri personali nascenti dal matrimonio. 106 M. Ferrari, Gli accordi relativi ai diritti e ai doveri reciproci dei coniugi, cit., 784 s., secondo cui «la Costituzione, pur riconoscendo nello schema indicato dal legislatore il modello legale di famiglia, conferma l’autonomia di ognuna delle compagini naturali aventi la propria origine nel matrimonio, giustificando la stessa come strumento idoneo a rispettare la peculiarità e le esigenze dei singoli membri di ogni “società naturale”. Pertanto non esiste neppure a livello costituzionale un dettato che limiti l’autonomia dei singoli, intesi come coniugi, oltre ai principi fondamentali del nostro ordinamento, quali la legge, l’ordine pubblico e il buon costume. Il modello legale di famiglia rappresenta ciò a cui le parti intendono tacitamente fare riferimento allorquando non pattuiscono nulla al momento della celebrazione delle nozze o successivamente con un comune impegno; esso rappresenta lo schema guida per i coniugi, dal quale possono in ogni momento allontanarsi attraverso pattuizioni che tutelino gli interessi di ognuno e della prole se esiste, sempre nel rispetto dell’ordinamento giuridico». 107 In proposito, cfr. A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il “nuovo” diritto di famiglia: il contratto di convivenza, cit., 345.
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affettivo” connesso al fondamentale carattere monogamico del matrimonio, ritiene che quest’ultima ben “può permanere a prescindere dalla esclusività sessuale”108, si colloca il diverso indirizzo secondo cui, nel più ampio quadro degli accordi sull’indirizzo della vita familiare ex art. 144 c.c., i coniugi possono trovare un’intesa sulle modalità con cui vivere la fedeltà coniugale, “in base alla loro sensibilità, alla loro cultura, alla loro individualità”, tali da rendere meno rigoroso il concreto adempimento di tale dovere109; ed ancora, all’indirizzo che facendo leva sullo stretto legame tra il rispetto del dovere di fedeltà e la tutela dei minori ammette una deroga di tale dovere solo in caso di assenza di prole110, si contrappone la più intransigente posizione che guarda alla fedeltà coniugale come dovere senz’altro inderogabile poiché qualificante del matrimonio, concludendo per la nullità di qualsiasi patto che intenda metterne in discussione la sussistenza tra i coniugi, a pena di snaturare l’essenza stessa del vincolo111. Quel che a me sembra è che la “stagione delle riforme” del diritto di famiglia, che pure ha inciso profondamente sul suo attuale assetto investendone aspetti di pregnante rilievo, non ha però scalfito la veste dell’obbligo di fedeltà all’interno del matrimonio: ne ha sì mutato il contenuto, elevandolo al più alto valore di “lealtà alla scelta familiare”, ma non gli ha sottratto il ruolo di «punto centrale e permanente dell’impegno e della vicendevole donazione matrimoniale»112, né la sua funzione di salvaguardia di un bene indisponibile,
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G. Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 145 s e 163; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., 67; M. Ferrari, Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, cit., 782, secondo cui se è inammissibile un patto inteso a derogare all’obbligo di fedeltà complessivamente inteso, è invece configurabile quello volto ad esonerare dall’esclusiva sessuale; R. Tommasini, Art. 143, in Comm. cod. civ., diretto da G. Gabrielli, Della famiglia, I, a cura di Balestra, Torino, 2010, 427. Ma v. M. Paradiso, I rapporti personali fra coniugi, cit., 66, il quale osserva che “deve tenersi per fermo… che la fedeltà, ivi compresa l’esclusiva sessuale, è preordinata a favorire e rafforzare un bene indisponibile come l’unità familiare” ed è perciò inderogabile”. 109 Così, F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Vicalvi, 2018, 66; P. Zatti, Rapporti tra i coniugi e separazione personale, Padova, 1979, 49; F. Macario, I rapporti personali dei coniugi, cit., 122, osserva che i doveri coniugali sono inderogabili sia in quanto “il modello delineato dal legislatore non ammette alterazioni” sia in quanto discendono dal matrimonio anche qualora i nubendi non ne abbiano contezza e perciò non se li siano raffigurati” sicché non può dirsi “in alcun modo vincolante l’accordo tramite il quale sia pattuita una loro inosservanza o la modifica del loro contenuto essenziale”, a differenza di un accordo che invece concerna unicamente le modalità di esercizio di singoli doveri coniugali. Sull’ammissibilità di premarital agreements, propri dell’esperienza statunitense, aventi ad oggetto diritti ed obblighi di carattere personale tra coniugi, cfr. A. Las Casas, Accordi prematrimoniali, status dei conviventi e contratti di convivenza in una prospettiva comparatistica, in Contratti, 2013, spec. 916.; A. Fusaro, Marital contracts, ehevertraege, convenzioni e accordi prematrimoniali. Linee di ricerca comparatistica, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 475 ss. Per un’analisi dell’evoluzione della materia nel nostro ordinamento, cfr. F. Scia, Le proposte in tema di accordi prematrimoniali: tra valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi e specialità delle regole del diritto di famiglia (in margine alla p.d.l. n. 2669), in Nuove leggi civ. comm., 2017, 191 ss.; I. Tardia, Gli “accordi prematrimoniali” tra timide aperture giurisprudenziali, autonomia negoziale e tutela del coniuge economicamente debole, in Rass. dir. civ., 2015, 258 ss. 110 M. Ferrari, Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, cit., 784. 111 M. Paradiso, I rapporti personali fra coniugi, cit., 66 ss.; A. De Cupis, I diritti della personalità, in Tratt. Cicu- Messineo, IV, 1, Milano, 1959, 210, secondo cui il dovere di fedeltà «inerisce così profondamente all’ordine matrimoniale da non poter essere eliminato dalla volontà privata»; C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonius facit?, cit., 1100, che se con riguardo all’obbligo di coabitazione, tramite una interpretazione “valoriale equilibrata” dell’art. 160 c.c., ritiene che i coniugi “possano modellarlo ai loro intendimenti di vita .insieme, purché sempre nel superiore interesse della convivenza familiare”, ritiene invece che l’inderogabilità “dev’essere intesa in maniera rigorosa con riferimento alla fedeltà coniugale”; G. Bonilini, Nozioni di diritto di famiglia, Torino, 1992, 90; F. Ruscello, Accordi fra i coniugi e dovere di fedeltà, cit., 635. In giurisprudenza, cfr. Cass. 12 giugno 2006, n. 13592; Cass. 10 maggio 2005, n. 9801; Cass. 9 giugno 2000, n. 7859. 112 F. Santosuosso, Il matrimonio, in Commentario del codice civile, Torino, 1983, I, 2, 517; F. Vassalli, Del ius in corpus del debitum
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quale è l’unità familiare 113. D’altra parte, la rilevata valenza giuridica dell’obbligo di fedeltà non potrebbe essere revocata in dubbio facendosi leva sugli attenuati effetti connessi ad una sua eventuale violazione e, segnatamente, sul veduto orientamento giurisprudenziale inteso ad escludere la rilevanza di quest’ultima ai fini dell’addebito114: da un simile indirizzo, invero, non è dato desumere né l’irrilevanza giuridica dell’obbligo di fedeltà, ché di essa non è necessario indice la presenza o meno di un apparato sanzionatorio o la sua severità, né tanto meno la sua derogabilità ad opera delle parti; esso, piuttosto, è emblematico di una impostazione tesa a fondare l’addebito unicamente su quelle condotte alle quali sia direttamente collegabile la rottura coniugale115. La sicura inammissibilità di una famiglia composta da partners “volontariamente infedeli”, che risulterebbe depauperata di quel nucleo minimo senza il quale un rapporto di coppia “semplicemente non è riconoscibile come famiglia”116, conduce senz’altro ad un giudizio di nullità del patto di esonero dalla fedeltà, di certo inidoneo ad eliminare il carattere di illiceità della violazione e a renderla giuridicamente irrilevante. Ma, come s’è osservato, «altro è derogare ai diritti e doveri che nascono dal vincolo matrimoniale, altro è regolare gli stessi dandone una concretizzazione adeguata alle peculiarità che caratterizzano il singolo rapporto»117: ed allora, con il limite della intangibilità del nucleo qualificante il vincolo matrimoniale e del rispetto della personalità e della dignità degli altri familiari118, l’autonomia privata dei coniugi ben potrà spingersi alla determinazione delle concrete modalità di adempimento dell’obbligo di fedeltà in vista di un suo adeguamento alla sensibilità individuale e al contesto sociale nel quale essi svolgono la loro esistenza,
coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, cit., 130 s. Ma v. R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, in AA. VV., Famiglia e matrimonio, a cura di T. Auletta, in Tratt. dir. priv., diretto da Bessone, Torino, 2010, 436, che non rinviene nell’obbligo di fedeltà una condicio sine qua non del matrimonio. 113 M. Paradiso, I rapporti personali fra coniugi, cit., 38 s.; M. Cavallaro, Intese non patrimoniali fra coniugi, cit., 366. 114 Tale è la posizione di M. Ferrari, op. cit., 785, che da quell’orientamento deduce che l’esclusiva sessuale non è elemento essenziale del matrimonio, sicché le parti potrebbero prescinderne per una comune scelta. 115 In tal senso, G. Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. A. Cicu- F. Messineo, V, 1, Milano, 2002, 89, con riferimento alla circostanza che «in sede di addebito, la violazione della fedeltà (come degli altri doveri coniugali) può apprezzarsi solo quando determinante del fallimento dell’unione, di modo che l’episodio isolato di infedeltà può non essere preso in considerazione quando non abbia esercitato una tale influenza o si sia inserito in una situazione di intesa già gravemente compromessa». 116 App. Napoli, 13 dicembre 2012, n. 4074. La dottrina sottolinea la preminente rilevanza di tale obbligo in seno al matrimonio, talora facendo leva sul “posto” che il legislatore gli ha riservato nel novero dei doveri dei coniugi: cfr. T. Auletta, I rapporti personali tra uniti civilmente, cit., p.290, il quale rileva come il testo pre-riforma dell’art. 143 c.c. ponesse in primo piano la coabitazione. In argomento, M. Paradiso, Rapporti personali tra coniugi, cit., 178 s., nt. 34; P. Zatti, I diritti e i doveri dei coniugi, in Trattato Rescigno, 3, Torino, 1982, 29; F. Vassalli, Del ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, cit., 133, che descrive l’obbligo di fedeltà come il più grave tra gli obblighi reciproci tra i coniugi. Sulla particolare gravità dell’obbligo di fedeltà rispetto agli altri gravanti sui coniugi, in giurisprudenza Cass. 12 giugno 2006, n. 13592, in Il civilista, 2008, 6; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21245, in Il civilista, 2010, 17. 117 A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 223. 118 C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonius facit?, cit., p.1105. Per talune esemplificazioni, cfr. M. Cavallaro, Intese non patrimoniali fra coniugi, p.362, la quale ad esempio reputa nullo un accordo fra coniugi avente a oggetto la sterilizzazione di uno dei due per ragioni diverse da quelle terapeutiche o l’altro, lesivo della libertà religiosa del singolo, che impedisca ad uno dei due coniugi di professare il proprio credo.
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Non è poi superfluo precisare come un eventuale patto di esonero dall’obbligo di fedeltà ben potrebbe cionondimeno conservare una qual rilevanza in sede di addebito, ove il giudice ha il compito di valutare la condotta delle parti ed il ruolo assunto dall’adulterio119. Ed invero, sul piano pratico, è difficile ipotizzare l’accoglimento della domanda di addebito avanzata dal coniuge che aveva in precedenza acconsentito alla consumazione dell’infedeltà 120. Potrà allora giungersi ad escludere la configurabilità di un addebito nei riguardi del coniuge infedele, pur restando ferme le ulteriori eventuali conseguenze giuridiche in termini di illecito endofamiliare121.
7. (segue)… e sull’ammissibilità di una sua integrazione
pattizia nelle unioni civili: accordi sull’indirizzo della vita familiare, clausole penali e clausole premiali.
Se indagato dalla diversa prospettiva delle unioni civili, il tema del rapporto tra autonomia privata e fedeltà propone all’interprete questioni ancora differenti: in particolare, ove si ritenesse attendibile l’opzione dottrinale dell’insussistenza dell’obbligo di fedeltà nel sistema delle unioni civili122, sembra utile verificare i limiti dell’autonomia delle parti con particolare riguardo alla deducibilità convenzionale di un siffatto obbligo. Al riguardo, è oltremodo evidente l’impraticabilità di un’interpretazione analogica intesa a colmare in via interpretativa il silenzio serbato dal legislatore sull’argomento: la sottolineata espunzione dell’obbligo in parola in sede di stesura definitiva insieme alla redazione di una disciplina che nel suo complesso non può dirsi avara di previsioni delineanti una fitta rete di obblighi e diritti in capo agli uniti già di per sé escludono che la mancata previsione integri una lacuna che, attribuibile ad una svista, imponga la necessità di rimediare in via interpretativa. In proposito, superata un’interpretazione restrittiva della regola contenuta nel comma 13, secondo cui “le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile” e così ritenuto che le “deroghe” in discorso siano solo quelle intese a limitare o escludere i diritti ed i doveri contemplati dal comma 11, e non anche quelle volte ad integrare, ampliandoli, gli stessi123, un autorevole orientamento dottrinale
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M. Paradiso, I doveri personali fra coniugi, cit, 38; G. Villa, Gli effetti del matrimonio, in Tratt. G. Bonilini – G. Cattaneo, Torino, 1999, p.343. 120 In tal senso, cfr. A. P. Scarso, Il dovere di fedeltà coniugale, cit., 249. 121 Sulla indisponibilità dei diritti relativi allo stato di coniuge, F. Galgano, Trattato di diritto civile, I, Padova, 2014, 671. 122 Per un esame delle opzioni dottrinali che respingono la configurabilità dell’obbligo di fedeltà nelle unioni civili, v. supra, § 3. 123 Divieto che, secondo T. Auletta, Comma 12, in C. M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze, cit., 153, riguarderebbe le unioni civili allo stesso modo del matrimonio. Diverso è il discorso per il contratto di convivenza che, a tenore del comma 50, ha ad oggetto i “rapporti patrimoniali relativi alla vita in comune”: la dottrina è perciò concorde nel ritenere nulle eventuali clausole intese a disciplinare interessi personali dei conviventi: cfr., in proposito, L. Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia privata, …, 149.
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valorizza il varco dischiuso dagli accordi sull’indirizzo della vita familiare, ex art. 1, comma 12, l. n. 76/2016, ai quali notoriamente sono da ricondurre «le decisioni di natura esistenziale e organizzativa riguardanti la coppia» 124 e guarda ad essi quale strumento idoneo a conferire rilevanza giuridica a quegli obblighi contemplati per il matrimonio, ex art.143 c.c., e non previsti dalla disciplina sulle unioni, quali quello di fedeltà e di collaborazione125. Se tale opzione dottrinale è certo coerente con il sicuro contenuto personale di tali accordi126, osservandosi al riguardo come la stessa “indicazione della residenza”, esemplificativamente richiamata dal comma 12 della disciplina sulle unioni civili, rivesta contenuto non patrimoniale127, occorre tuttavia domandarsi se essa sia compatibile con l’efficacia meramente “specificativa” del contenuto di diritti e doveri già posti dal legislatore - e non già “costitutiva” di interessi nuovi- normalmente assegnata agli accordi in parola128. D’altra parte, se si ritiene che l’omissione del dovere di fedeltà costituisca esito di una precisa scelta legislativa intesa a creare un “modello familiare” improntato ad una più ampia libertà delle parti (come fa chi assume l’inesistenza di tale obbligo in capo agli uniti), ammetterne una “integrazione pattizia” significherebbe autorizzare una arbitraria deviazione di tale modello o “tipo”, così piegato alla realizzazione delle individuali aspettative del singolo, verso uno differente ed in tutto sovrapponibile al matrimonio. In una prospettiva più ampia, ad escludere l’idea di un patto con cui gli uniti si obblighino alla fedeltà non depone soltanto il diffuso sfavore verso l’espansione dell’autonomia privata in ambiti che esigenze di rispetto delle libertà personali impongono di sottrarre ad opzioni individuali129. Ed invero, la nullità di una convenzione che obbligasse alla fedeltà altresì discende sia dal difetto di un rapporto patrimoniale da regolare130, sia dalla contra-
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T. Auletta, Comma 12, in C. M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze, cit., 153 s. T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio, cit., 382; Id, I rapporti personali tra uniti civilmente, 294, osserva che ove si dovesse addivenire all’idea che gli obblighi di fedeltà non siano contemplati per le unioni civili (idea che l’A. respinge), le parti potrebbero introdurlo attraverso l’accordo di indirizzo della vita familiare, ex art. 1, comma 12. Sul punto, cfr. altresì, A. Fasano- G. E. Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle unioni civili, Milano, 2016, 66 s. Viceversa, ed ove ancora si muova dall’idea dell’insussistenza degli obblighi di fedeltà e di collaborazione all’interno dell’unione, T. Auletta, Comma 12, in C. M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze, cit., 154, osserva come gli accordi sull’indirizzo della vita familiare siano il luogo in cui gli uniti possono adottare lo schema della “coppia aperta”, rifiutarsi di ammettere i figli dell’altro nella casa familiare o di adoperarsi per la risoluzione delle controversie familiari. 126 A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 213. 127 D. Achille, Contratto di convivenza e autonomia privata familiare, in C. M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, Commento alla legge n. 76/2016 e ai d. lgs. n. 5/2017; d. lgs. n. 6/ 2017; d.lgs. n. 7/2017, Torino, 2017, 68, nt. 19 e p.650 ss. 128 G. M. Uda, Gli accordi di indirizzo della vita familiare, in Giust. civ., 2017, 668 s., che osserva come “già prima dell’accordo di indirizzo è la legge che fa sorgere gli interessi dei coniugi a un determinato (…) modello familiare” sicché “l’accordo di indirizzo ha quindi una funzione di specificazione degli obblighi legali (o meglio, del contenuto degli obblighi), ma sempre nella prospettiva della realizzazione degli interessi che già la legge ha reso rilevanti”. 129 Cass. 19 giugno 2009, n. 1343, in Rass. dir. civ., 2011, 992, con nota di G. Caso, Fondamento costituzionale del dovere di ospitalità e conformazione dell’autonomia privata, ha affermato che la valutazione circa i limiti non può prescindere dalla natura degli interessi sui quali essa è destinata ad incidere: ove si tratti di diritti inviolabili della persona, costituzionalmente tutelati al pari dell’autonomia privata, occorrerà perciò procedere ad un giudizio di valore. 130 F. Caggia, La convivenza, in Diritto della famiglia, S. Patti - M. G. Cubeddu (a cura di), op. cit., 726 s., sembra aperto verso la percorribilità di una soluzione che consenta il ricorso alla clausola penale, che troverebbe oggi sostegno non soltanto su alcune 125
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rietà all’ordine pubblico di un’eventuale coazione chiaramente emergente dall’art. 79 c.c., alla cui stregua la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo, né ad eseguire ciò che eventualmente si fosse convenuto per il caso di inadempimento a salvaguardia della libertà matrimoniale131. Secondo una parte della dottrina, il profilo della non patrimonialità di una prestazione potrebbe essere ovviato tramite la previsione di una clausola penale che, idonea a segnalare l’esistenza di un vincolo giuridico pur in presenza di doveri di natura personale132, obblighi alla corresponsione di un quantum per il caso di infedeltà133. Al riguardo, in linea con quell’autorevole affermazione dottrinale secondo cui tanto la fedeltà quanto l’assistenza morale non possono costituire “materia di pretese risarcibili e nemmeno può collegarsi alla violazione un obbligo al risarcimento”134, non può sfuggire come una clausola siffatta, attraverso cui si realizza una violazione del principio di libertà personale per l’influenza che essa è destinata ad esercitare sulle scelte di vita individuali, deve dirsi radicalmente nulla per la sua contrarietà all’ordine pubblico135.
indicazioni provenienti da esperienze straniere, ma altresì “da un’analisi funzionale dei rimedi previsti dal diritto di famiglia per la separazione e lo scioglimento del matrimonio”. In argomento, con specifico riferimento ai contratti di convivenza. R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 682. E, sempre con precipuo riguardo a quei contratti, M. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 747 s., il quale se esclude la possibilità regolare contrattualmente la frequenza dei rapporti sessuali o la coabitazione o l’impegno ad intraprendere la procedura per il mutamento del cognome, d’altra parte ammette che un evento «come ad esempio la convivenza, la fedeltà, la nascita di un figlio ecc., può essere dedotto come oggetto dell’obbligazione, così da costituire un elemento della prestazione da eseguire, oppure può essere dedotto in condizione, così da determinare l’efficacia o l’inefficacia della prestazione dedotta in obbligazione». 131 Discorre di incoercibilità F. D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, 426; analogamente, con riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio, C. M. Bianca, I rapporti personali nella famiglia e gli obblighi di contribuzione, in La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive. Atti del convegno di Verona, 14- 15 giugno 1985 in memoria di Luigi Carraro, Padova, 1986, 79, dubita che si possa parlare dell’obbligo di fedeltà come vera e propria “pretesa giuridica”; R. Tommasini, I rapporti personali tra coniugi, cit., 128. In contrario, cfr. G. Oberto, Contratti di convivenza e contratti tra conviventi more uxorio, in www.giacomooberto.com, che rileva come solo la non patrimonialità della prestazione costituisce il vero motivo dell’impossibilità di rendere giuridicamente rilevante l’impegno morale di fedeltà reciproca tra conviventi, ché, osserva, «altrimenti, dovrebbe ritenersi meramente «platonico» pure il dovere di fedeltà tra coniugi, coercibile, come noto, solo in via indiretta, per mezzo dell’addebito della separazione» (nt. 38). Per tali questioni, con particolare riferimento ai contratti di convivenza (con cui, ai sensi dell’art. 1, comma 50, l. 76/2016 le parti possono «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune»), cfr. A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il “nuovo” diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 335 ss.; R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, cit., 670, ss.; G. Ferrando, Contratto di convivenza, contribuzione, mantenimento, in Contratti, 2015, 722; A. Fasano - G. E. Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle unioni civili, cit., p. 103, che reputano impossibile o inutile inserire in un contratto di convivenza disposizioni che non abbiano valenza patrimoniale inerenti profili strettamente personali del rapporto “ e ciò sia in termini di obbligazione che di condizione”. Ma v. F. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, 1997, 516, secondo cui tra le limitazioni ai diritti di libertà devono ritenersi inammissibili solo «quelle limitazioni che arrivano a sopprimere o comprimere troppo gravemente le manifestazioni più importanti della libertà medesima», così potendosi reputare valide le clausole che impongono ai conviventi obblighi di assistenza morale, di convivenza o di coabitazione. 132 In tal senso, P. Rescigno, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 136. 133 Sulla possibilità di collegare l’obbligo di fedeltà ad una clausola penale, G. Oberto, Contratti di convivenza e contratti tra conviventi more uxorio, cit 134 P. Rescigno, Obbligazioni, cit., 138. M. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., 749, afferma l’illegittimità di una pattuizione che ponga una penale a carico del convivente che abbandonerà l’altro «poiché questo evento potrebbe essere disciplinato solo attraverso il matrimonio»; medesima la posizione di R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, cit., 682, 135 Afferma la nullità di una clausola penale intesa a sanzionare l’eventuale violazione di un dovere di carattere personale come la fedeltà, R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, cit., 682 s., rammentando come in tal modo si realizzerebbe una violazione di un diritto individuale della persona del convivente; M. Sesta, Diritto di famiglia, cit., p.348; F. D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989,
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In una prospettiva ulteriore, giova poi menzionare quell’opinione dottrinale secondo cui il divieto di dedurre in obbligazione un comportamento umano può essere superato tramite la previsione di una condizione136. Al riguardo, si potrebbe anzitutto immaginare la promessa di una prestazione patrimoniale subordinata ad una non patrimoniale da parte promittente che così potrebbe formularsi: “Ti darò 1000 euro se sarò infedele”. La radicale nullità di una promessa siffatta deriva non soltanto dalla circostanza che essa in realtà maschera l’assunzione di un obbligo non patrimoniale sottoposto a clausola penale137, ma altresì dall’essere l’impegno vincolato alla mera volontà del promittente, così integrando una condizione meramente potestativa notoriamente sanzionata con la nullità dall’ art. 1355 c.c. In secondo luogo, potrebbe immaginarsi la promessa di una prestazione patrimoniale subordinata ad una non patrimoniale da parte dell’altro, così ipoteticamente espressa: “Ti darò 1000 euro se sarai fedele”138. Si tratta della c.d. clausola premiale dalla quale in definitiva deriva un capovolgimento della funzione della clausola penale che, da strumento sanzionatorio e di determinazione forfetaria del risarcimento del danno, assume funzione di incentivo al mantenimento di una certa condotta139. Di là dalla questione relativa alla forma di clausole siffatte, giacché la natura premiale ne consentirebbe l’assimilazione ad una donazione remuneratoria, ex art. 770, I comma,
cit. 348; D. Riccio, La famiglia di fatto, Padova, 2007, 156, che rileva come «i canoni fondamentali del nostro sistema pongono (…) un ostacolo insuperabile in merito all’inserimento di aspetti di carattere personale. Anzi, assorbente rispetto a questa considerazione appare quella per cui i doveri di fedeltà, assistenza morale, collaborazione e coabitazione, proprio perché privi del requisito della patrimonialità, si mostrano inidonei, innanzitutto a costituire “prestazione” ai sensi dell’art. 1174 c.c. e, secondariamente, a essere dedotti in contratti, ex art. 1321c.c. Ma il richiamo alle regole d’ordine pubblico sarebbe inevitabile nel caso si fosse tentati di imporre il rispetto di tali impegni per via indiretta, mediante la pattuizione di una penale, che non sfuggirebbe alla sanzione della nullità per violazione del principio di libertà personale». 136 D. Riccio, La famiglia di fatto, cit., 451, nt. 70, il quale, con specifico riguardo ai contratti di convivenza, seppur riconosce la nullità di una clausola penale collegata all’adempimento di un dovere personale, precisa che «la possibilità di attribuire un qualche rilievo sul piano negoziale a taluni aspetti di carattere personale non pare totalmente esclusa. Si è infatti già posto in luce che la deduzione in condizione di un comportamento umano può supplire al divieto di dedurre tale comportamento in obbligazione»; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, 95. 137 In un’ottica comparatistica, non è inutile osservare come anche negli Stati nordamericani, ove ambiti assai ampi sono rimessi alle convenzioni tra coniugi, si nega l’ammissibilità di penali per il caso di infedeltà: cfr. sul punto, A. Fusaro, Marital contracts, ehevertraege, convenzioni e accordi prematrimoniali. Linee di ricerca comparatistica, 478, nt. 29. 138 Ipotesi, quella riportata nel testo, che ricalca il modello della clausola inserita nel patto stipulato tra l’attrice Nicole Kidman e Keith Urban che prevedeva a favore di quest’ultimo un bonus annuale di seicentomila dollari ove si fosse astenuto dall’uso di droghe illecite e non avesse infranto il patto di fedeltà In argomento, cfr. I. Tardia, Gli “accordi prematrimoniali” tra timide aperture giurisprudenziali, autonomia negoziale e tutela del coniuge economicamente debole, cit., 259, nt. 2. 139 Sulla possibilità di apporre una clausola “premiale” al contratto di convivenza, v. G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Torino, 1991, 197 ss.; F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Cedam, 1990, 227 e ss.; F. Peccenini, Gli elementi accidentali del contratto, in I contratti in generale, a cura di G. Alpa- M. Bessone, Torino, 1990, 772 e ss. In senso favorevole, D. Riccio, La famiglia di fatto, cit., 451, nt. 70, secondo cui «non dovrebbe suscitare perplessità una clausola “premiale” in quanto diretta ad attribuire una sorta di compenso per l’effettuazione di una prestazione (non patrimoniale) da parte del promissario»; con qualche perplessità M. Franzoni, I contratti tra conviventi “more uxorio”, cit., 749 ss. In argomento, cfr. G. F. Basini, Le promesse premiali, Milano, 2000, 40, che usa anche l’espressione di “clausole d’incentivo”; Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, I, 2002, 976 s.; F. Caggia, La convivenza, in Diritto della famiglia, S. Patti - M.G. Cubeddu (a cura di), op. cit., 726 s.; L. Balestra, La famiglia di fatto tra autonomia ed eteroregolamentazione, in Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, a cura di T. Auletta, Milano, 2007, 82.
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c.c.140, non può sottacersi come da esse in ogni caso discenda un’indiretta coercizione della libertà del singolo, in definitiva indotto all’osservanza della fedeltà sol perché attirato dalla prospettiva di un incremento economico141. La disapprovazione di una clausola di simile tenore discende tuttavia dal ben più pregnante rilievo secondo cui essa, pur conservando l’apparenza di una condizione, si atteggia in realtà ad un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, là dove l’evento condizionale svolge una funzione differente rispetto a quella che gli è propria. D’altra parte, la “mercificazione” dell’obbligo di fedeltà è ancor più prospettiva da respingere là dove le parti versino in una non paritaria situazione economica e sociale, al punto da potersi tra esse individuare un “contraente forte”142: ove allora sussista una siffatta disparità, che ben potrebbe trovare fondamento in uno stato di debolezza, sfiducia o dipendenza di un partner dall’altro, la dottrina in tema di contratti di convivenza ha talora prospettato il ricorso ai meccanismi di protezione del contraente debole o a quelli di rinegoziazione per il caso di sopravvenienze143.
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M. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., 750. M. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., 750 s., secondo cui se in un contratto di convivenza «sia indicato un evento futuro ed incerto al verificarsi del quale nasca una obbligazione a carico di uno dei conviventi occorre interrogarsi se questa obbligazione possa limitare la libertà personale dell’obbligato. Ove la risposta sia affermativa, si dovrà propendere per la nullità della clausola agli effetti dell’art. 1419 c.c., in caso contrario, la condizione può essere ritenuta valida». Alcuni richiami sull’argomento anche in G. F. Basini, Le promesse premiali, Milano, 2000, 40, 58 ss.; L. Bardaro, Accordi interni tra conviventi, in La prova e il quantum, (a cura di) Cendon, Milano, 2013, 528 ss.; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, 94 ss.; E. Del Prato, Patti di convivenza, cit., 2002, 977. 142 Sul punto, cfr. M. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., 751, il quale riflette come, a seconda della situazione patrimoniale delle parti, sia diversa l’efficacia coattiva di un patto con cui un partner presti all’altro una somma di denaro convenendone la restituzione al momento dello scioglimento del rapporto: si osserva, in particolare, che «se entrambi sono davvero facoltosi, si potrà sostenere che tale evento non avrà riflessi sulla libertà dell’obbligato, di conseguenza si potrà ammettere la liceità della condizione; altrimenti, si dovrà constatare che l’obbligo di restituzione costituisce una forte coazione dell’obbligato, dunque si dovrà concludere per la nullità della clausola». Secondo un certo orientamento, di cui dà conto A. Zoppini, Tentativo d’inventario, cit., 349, a dispetto di una parità formalmente raggiunta, il matrimonio è “intrinsecamente caratterizzato da una diseguaglianza strutturale”. 143 R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, cit., 684. In argomento, A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 227. 141
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La funzione dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi* ** Sommario : 1. Le questioni. – 2. Il contrasto giurisprudenziale relativo ai presupposti dell’assegno divorzile. – 3. La posizione delle Sezioni Unite. – 4. Segue. La «nuova» funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio. Conseguente discrezionalità del giudice. – 5. Il ruolo dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
The United Sections of the Italian Supreme Court, dealing with the factors influencing the right of a former spouse to receive financial provisions from the other one, reject both the principle according to which a lack of financial independence is required and the traditional opinion that the matrimonial life style has still to be ensured. They highlight the need to balance the financial status of the spouses and to take into account the contribution that each one gave to the family life and to the matrimonial property. Nevertheless, the Supreme Court hasn’t really been able to provide the national judges with precise guidelines about the standard of proof, which would be required. Furthermore, there is the need to analyse the consequences that the principles recently set forth by the Court could have on the matrimonial property regimes.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Contributo realizzato con fondi per la ricerca di Ateneo-Piano per la Ricerca 2016/18, Università di Catania. Lo scritto riprende l’Intervento svolto al Convegno “Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme: rapporti di coppia e ruolo genitoriale”, Catania, 27-29 settembre 2018.
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1. Le questioni. Nello studio della recente evoluzione del sistema del diritto di famiglia non si può prescindere dall’analisi dei presupposti e della natura dell’assegno divorzile. Questi profili sono stati, infatti, oggetto di forte dibattito dopo che nel 2017 la Prima sezione della Cassazione ha abbandonato bruscamente il criterio consolidato del tenore di vita matrimoniale ed ha adottato il parametro ben più rigido dell’indipendenza economica del coniuge richiedente1. Il contrasto giurisprudenziale così delineatosi è stato successivamente composto dalle Sezioni Unite2. Questa decisione, nella pretesa di sciogliere tutti i dubbi interpretativi esistenti in materia, ha lasciato aperte alcune questioni, relative al modo in cui il giudice di merito debba fare concreta applicazione dei principi enunciati3, soprattutto sul piano probatorio. Essa induce, inoltre, ad interrogarsi sul ruolo che l’assegno di divorzio rivesta nel sistema dei rapporti patrimoniali tra i coniugi e sulla possibile evoluzione del sistema medesimo. Di questi temi ci si occuperà nel presente lavoro.
2. Il contrasto giurisprudenziale relativo ai presupposti dell’assegno divorzile. L’art. 5, co. 6°, l. 1 dicembre 1970, n. 898 (di seguito, l. div.) – così come modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987, n. 74 – dispone che: «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive (Omissis)».
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Cass., I sez., 10.5.2017, n. 11504, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1010 ss., con nota di U. Roma; in Fam. e dir., 2017, 636 ss., con nota di E. Al Mureden; in Giur. it., 2017, 1299 ss., con nota di A. Di Majo; ivi, 1795 ss., con nota di C. Rimini. Cass., sez. un., 11.7.2018, n. 18287, in questa Rivista, 2018, 455 ss., con nota di S. Patti; in Corr. giur., 2018, 1186 ss., con nota di S. Patti; in Fam. dir., 2018, 1058 ss. e in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 601 ss., con nota di C. Benanti. Cfr. M. Sesta, Attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, in Fam. dir., 2018, 983 ss., spec. 987 ss.; A. Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito, in questa Rivista, 2018, 527 ss., spec. 531 ss.
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Il contrasto giurisprudenziale relativo all’interpretazione di questa disposizione ha riguardato principalmente la determinazione del parametro cui riferire la valutazione di «adeguatezza dei mezzi», che costituisce il presupposto di attribuzione dell’assegno di divorzio. Infatti, sebbene si tratti di un criterio relativo, il testo normativo non ha fornito alcuna indicazione in merito al parametro di riferimento 4. Ambedue gli orientamenti giurisprudenziali, tra cui verte il contrasto che le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere, concordano sulla necessità di ricercare all’esterno dell’art. 5, co. 6°, l. div. il termine cui riferire il giudizio di adeguatezza dei mezzi. Essi divergono, però, radicalmente in merito all’individuazione del parametro specifico da applicare. Infatti, secondo il primo orientamento l’inadeguatezza dei mezzi va interpretata come insufficienza degli stessi a garantire all’ex-coniuge richiedente la conservazione del tenore di vita matrimoniale. Questa tesi è stata accolta da Cass., sez. un., 29 novembre 1990, n. 11490 e n. 114925 ed è stata successivamente seguita in modo costante dalla giurisprudenza6, fino al revirement del 2017, di cui si è detto. Essa ha suscitato però le critiche di un orientamento dottrinale, secondo cui i mezzi avrebbero dovuto essere adeguati, piuttosto, a consentire al coniuge economicamente più debole di condurre un’esistenza libera e dignitosa7. Invero, già il Tribunale di Firenze nel 2013 aveva posto in dubbio la ragionevolezza dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata, sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, co. 6°, l. div., per contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, l’assegno di divorzio avrebbe dovuto garantire all’exconiuge la conservazione del tenore di vita matrimoniale8. Tuttavia, la questione era stata ritenuta dalla Corte costituzionale non fondata, sulla base dell’argomento che, nella quantificazione dell’assegno, la giurisprudenza di legittimità
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Cfr. G. Gabrielli, in C.M. Bianca - G. Gabrielli - F. Padovini, L’assegno di divorzio in una recente sentenza della Cassazione, in Riv. dir. civ., 1990, II, 537 ss., spec. 540 e G. Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in G. Bonilini - F. Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, 3ª ed., nel Commentario Schlesinger, Milano, 2010, sub art. 5 l. n. 898/1970, 572 ss., spec. 589. Cfr. Cass., sez. un., 29.11.1990, n. 11490, in Foro it., 1991, I, 67 ss., con note di E. Quadri e di V. Carbone; in Giust. civ., 1990, I, 2789, con note di A. Spadafora (ivi, 1991, I, 1223 ss.) e di E. Bruschi (ivi, 2119 ss.) e in Corr. giur., 1991, 305 ss., con nota di A. Ceccherini; Cass., sez. un., 29.11.1990, n. 11492, in Dir. fam. e pers., 1991, 119 ss., con note di G. Nappi e di F. Dell’Ongaro; in Giur. it., 1991, I, 1410 ss., con nota di P. Colella; in Arch. civ., 1991, 419 ss., con nota di R.C. Delconte. V., tra le più recenti, Trib. Treviso, 7.10.2016, in Pluris; Cass., 29.9.2016, n. 19339, ivi; Cass., ord. 3.4.2015, n. 6855, ivi; Cass., ord. 10.2.2015, n. 2574, in Fam. e dir., 2016, 259, con nota di V. Giorgianni; Cass., ord. 26.1.2015, n. 1264, in Pluris; Trib. Taranto, 26.11.2014, ivi; Cass., ord. 14.10.2014, n. 2667, ivi; Cass., ord. 8.7.2014, n. 15499, ivi; Cass., ord. 27.5.2014, n. 11797, ivi; Cass., 20.3.2014, n. 6562, in Foro it., 2014, I, 1496; Cass., 5.2.2014, n. 2546, in Pluris. Cfr., da ultimo, G. Bonilini - A. Natale, L’assegno post-matrimoniale, nel Trattato dir. fam., diretto da G. Bonilini, Torino, 2015, 2870 ss., spec. 2887 ss. Invece, nel senso che il giudizio di adeguatezza debba essere rapportato al tenore di vita matrimoniale, anche se i criteri di quantificazione possono incidere come fattori negativi, fra gli altri, L. Rossi Carleo - C. Caricato, La separazione e il divorzio, in C. Caricato - L. Rossi Carleo - R. Tommasini, La crisi familiare, a cura di T. Auletta, nel Trattato Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 2013, 55 ss., spec. 287 e 290; A. Totaro, Gli effetti del divorzio, nel Trattato dir. fam., diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando - M. Fortino - F. Ruscello, II, Milano, 2011, 1607 ss., spec. 1637 s., 1640. Trib. Firenze, ord. 22.5.2013, n. 239, in Fam. e dir., 2014, 687 ss., con note di E. Al Mureden e di A. Morrone.
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faceva costantemente ricorso agli altri criteri indicati nella disposizione impugnata, con effetti in concreto limitativi della somma astrattamente idonea a garantire il tenore di vita matrimoniale9. In questo contesto si inserisce il mutamento di posizione di Cass., I sez., 10 maggio 2017, n. 11504, la quale, ritenendo ormai superato sul piano sociale l’orientamento che faceva riferimento al tenore di vita matrimoniale10, ha affermato che il sintagma «adeguatezza dei mezzi» deve essere riferito al diverso parametro dell’indipendenza economica del coniuge richiedente. Questo parametro è ritenuto, infatti, l’unico coerente con i principi di autodeterminazione e di auto-responsabilità che, in ragione della dissolubilità del matrimonio, non possono non permeare la solidarietà post-coniugale. Secondo questa tesi soltanto l’ex-coniuge che abbia provato la propria mancanza di autosufficienza economica e l’impossibilità oggettiva di porvi rimedio ha diritto all’assegno divorzile. Se questa prova non sia stata fornita, gli altri criteri indicati nella prima parte dell’art. 5, co. 6°, l. div. – comparazione delle condizioni economiche delle parti, contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi, ragioni della decisione e durata del matrimonio – non vengono neppure in considerazione. Questa posizione è stata seguita dalla giurisprudenza nettamente prevalente11, mentre ha sollevato le critiche di un orientamento dottrinale, soprattutto perché essa non dà rilevanza alla vita familiare e alle aspettative di partecipazione a quanto nel corso della medesima si è realizzato12.
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Cfr. Corte cost., 11.2.2015, n. 11, in Foro it., 2015, I, 1136 e in Fam. e dir., 2015, 537 ss., con nota di E. Al Mureden. La Corte ha escluso, sulla base di questo argomento, di essere tenuta a rimettere la questione alle Sezioni Unite, come stabilito dall’art. 374, co. 3°, cod. proc. civ. in riferimento all’eventualità di un contrasto giurisprudenziale. 11 Cfr., nella giurisprudenza di legittimità, tra le altre, Cass., 16.3.2018, n. 6663, in Dejure; Cass., 7.2.2018, n. 3016, ivi; Cass., 7.2.2018, n. 3015, in Guida al dir., 2018, 10, 20; Cass., 26.1.2018, n. 2043, in Dejure; Cass., 26.1.2018, n. 2042, in Fam. e dir., 2018, 321 ss., con nota di A. Figone e in Foro it., 2018, I, 836; Cass., ord. 21.12.2017, n. 30738, in Dejure; Cass., 25.10.2017, n. 25327, ivi; Cass., ord. 9.10.2017, n. 23602, in Corr. giur., 2017, 1597; Cass., ord. 29.8.2017, n. 20525, in Fam. e dir., 2018, 573, con nota di L. Giorgianni; Cass., 22.6.2017, n. 15481, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1473 ss., con nota di A. Vesto e in Foro it., 2017, I, 2259; Cass., 11.5.2017, n. 11538, in Dejure. Cfr., nella giurisprudenza di merito, ex plurimis, Trib. Matera, 7.3.2018, ivi; Trib. Bologna, 1.2.2018, ivi; Trib. Forlì, 29.1.2018, ivi; Trib. Roma, 9.1.2018, ivi; App. Milano, 16.11.2017 e Trib. Roma, 26.9.2017, in Giur. it., 2017, 2625 ss., con nota di A. Di Majo; Trib. Venezia, 25.5.2017, in Dejure; Trib. Milano, ord. 22.5.2017, in Ilcaso.it; Trib. Mantova, 16.5.2017, in Dejure. Contra, nel senso cioè che si debba ancora utilizzare il criterio del tenore di vita matrimoniale, App. Napoli, 22.2.2018, in Fam. e dir., 2018, 360 ss., con nota di F. Danovi e in Foro it., 2018, I, 1386; Trib. Udine, 1.6.2017, in Corr. giur., 2018, 633 ss., con nota di E. Andreola e in Fam. e dir., 2018, 272 ss., con nota di B.M. Colangelo. Una rassegna della giurisprudenza di merito in argomento si legge in D. Piantanida, L’assegno di divorzio dopo la svolta della Cassazione: orientamenti (e disorientamenti) nella giurisprudenza di merito, in Fam. e dir., 2018, 65 ss. 12 Cfr. E. Quadri, L’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “auto-responsabilità”: gli ex coniugi “persone singole” di fronte al loro passato comune, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1261 ss., spec. 1266 ss.; C. Rimini, Verso una nuova stagione dell’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, ivi, 1274 ss., spec. 1280 ss.; Id., Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, in Giur. it., 2017, 1799 ss.; M. Sesta, La solidarietà post-coniugale tra funzione assistenziale ed esigenze compensatorie, in Fam. e dir., 2018, 509 ss., spec. 513; F. Danovi, La Cassazione e l’assegno di divorzio: en attendant Godot (ovvero le Sezioni Unite), ivi, 2018, 51 ss., spec. 63 s. Consequenziale è l’affermazione secondo cui il criterio dell’indipendenza economica può essere appropriato solo rispetto a modelli familiari basati sulla parità dei ruoli (cfr. M. Fortino, Il divorzio, l’ «autoresponsabilità» degli ex-coniugi e il nuovo volto della donna e della famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 10
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3. La posizione delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite condividono le critiche avanzate al parametro del tenore di vita matrimoniale, sia per quanto riguarda la preminenza che il medesimo assegna alla valutazione comparativa delle condizioni patrimoniali dei due coniugi ed i conseguenti effetti locupletativi13, sia per quanto concerne la marginalizzazione degli altri criteri normativi – ed in particolare di quello relativo al contributo che l’ex-coniuge abbia fornito allo svolgimento della vita familiare – e gli effetti de-responsabilizzanti che ne conseguono. Tuttavia, ben maggiori sono i rilievi critici che esse muovono alla scelta della Prima Sezione di adottare il parametro dell’indipendenza economica del coniuge richiedente. Osservano, infatti, le Sezioni Unite che la sentenza su detta ha trascurato di considerare che i principi di autodeterminazione e di auto-responsabilità determinano non soltanto le scelte di costituire prima e di sciogliere poi il vincolo matrimoniale, ma altresì il modello familiare da realizzare e che quest’ultimo fattore incide, in modo spesso irreversibile, sulle condizioni economico-patrimoniali degli ex-coniugi al momento del divorzio. Incompleta è ritenuta anche la ratio che la Prima Sezione ha posto a base dell’assegno divorzile, individuata nella solidarietà post-coniugale, fondandosi il modello costituzionale di matrimonio, piuttosto, sulla pari dignità dei coniugi14. Detto modello si esprime, secondo le Sezioni Unite, proprio nei criteri di attribuzione dell’assegno divorzile indicati nella prima parte dell’art. 5, co. 6°, l. div. Tutti questi criteri, avendo «fondamento costituzionale», non possono non venire in considerazione nell’accertamento del giudice sul diritto all’assegno. Ai medesimi va quindi riferito, secondo la Corte, il giudizio di adeguatezza (dei mezzi)15. Ha, cioè, mezzi adeguati l’ex-coniuge titolare di redditi proporzionati al contributo dal medesimo dato alla conduzione della vita familiare, alle aspettative professionali ed economiche conseguentemente sacrificate e alla possibilità di ricollocarsi sul mercato del lavoro che egli abbia in ragione dell’età e della durata del matrimonio, elementi, questi, che devono essere quindi tutti
2017, II, 1254 ss., spec. 1260) oppure a matrimoni di breve durata, caratterizzati dalla giovane età del richiedente e dall’assenza di figli economicamente non autosufficienti (cfr. E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra auto-responsabilità e solidarietà post-coniugale, in Fam. e dir., 2017, 642 ss., spec. 647). 13 L’applicazione automatica del parametro del tenore di vita matrimoniale può tradursi in una rendita di posizione, fonte di un ingiustificato arricchimento a favore di un coniuge e ai danni dell’altro, tutte le volte in cui nella determinazione dell’assegno non si tenga adeguatamente conto degli altri criteri normativi. Emblematiche, in tal senso, Cass., 16.10.2013, n. 23442, in Corr. giur., 2014, 1349 ss., con nota di V. Amendolagine e Cass., 4.2.2009, n. 2721, in Corr. giur., 2009, 469 ss., con nota di E. Quadri e in Fam. e dir., 2009, 682 ss., con nota di E. Al Mureden, che hanno attribuito l’assegno divorzile a seguito di matrimoni di brevissima durata e, nel primo caso, anche in assenza di coabitazione. 14 L’idea che il fondamento dell’assegno divorzile consista nella solidarietà post-coniugale è stata fortemente criticata da E. Quadri, L’assegno di divorzio, cit., 1266 s., per la visione assistenzialistica dei rapporti patrimoniali tra gli ex-coniugi su cui essa si basa. È quindi da condividere, secondo l’Autore, il riconoscimento della funzione perequativa del principio di solidarietà, operato dalle Sezioni Unite. V., in questo senso, E. Quadri, “C’è qualcosa di nuovo oggi” nell’assegno di divorzio, “anzi d’antico”, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1714 ss., spec. 1720. 15 In questo modo viene meno la lacuna che, secondo Cass., n. 11504/2017, avrebbe giustificato l’applicazione analogica dell’art. 337 septies cod. civ., relativo al mantenimento dei figli maggiorenni non autonomi economicamente.
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valutati dal giudice. Con riferimento al fattore evidenziato per ultimo – cioè la concreta possibilità di ricollocarsi sul mercato del lavoro – il giudizio di adeguatezza assume anche un contenuto prognostico. Viene così superata la posizione consolidata della giurisprudenza che, nell’ambito delle due tesi sopra enunciate, riteneva che vi fosse una rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio e che il giudizio sull’assegno avesse una struttura bifasica, articolandosi nelle due fasi dell’an debeatur e del quantum debeatur, delle quali la seconda presupponesse necessariamente l’esito positivo della prima16. Nel contempo l’adeguatezza dei mezzi perde il ruolo di criterio autonomo, per assumere una funzione di mero rinvio agli altri presupposti indicati nella stessa disposizione. Tra questi ultimi assume un ruolo preminente quello compensativo, ritenuto attuazione del principio di pari dignità dei coniugi. Suscita, però, qualche perplessità il rilievo contenuto in un passaggio della motivazione che, se il contributo dato dal coniuge economicamente più debole alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi non fosse riconosciuto, sarebbe limitata la dignità del coniuge che quell’apporto ha dato. Ne risulterebbe compressa, piuttosto, la libertà di indirizzo della vita familiare. Il coniuge, infatti, si guarderebbe bene dal compiere delle rinunce sui piani della formazione professionale e/o lavorativo, nel contesto di un accordo sull’indirizzo della vita familiare, se sapesse che esse non gli verrebbero poi riconosciute sul piano economico, al momento del divorzio.
4. Segue. La «nuova» funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio. Conseguente discrezionalità del giudice.
Le Sezioni Unite superano la tesi consolidata secondo cui l’assegno divorzile aveva un fondamento esclusivamente assistenziale ed affermano che detto assegno, essendo strumento di attuazione della pari dignità dei coniugi, ha anche (anzi, prevalentemente) una funzione perequativo-compensativa17. Le medesime non riconoscono alcuna rilevanza,
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Questa parte della decisione delle Sezioni Unite è fortemente contestata da M. Dogliotti, L’assegno di divorzio tra innovazione e restaurazione, in Fam. e dir., 2018, 964 ss., spec. 970. Critico anche L. Balestra, L’assegno divorzile sotto la lente delle Sezioni Unite, in www.giustiziacivile.com, 23.7.2018, in quanto le Sezioni Unite avrebbero superato i confini dell’attività ermeneutica e compiuto un’operazione di politica del diritto. 17 La natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio è stata invece ribadita – anche dopo il decisum delle Sezioni Unite – da M. Dogliotti, op. loc. cit., e da C.M. Bianca, Le Sezioni Unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam. e dir., 2018, 955 ss. La portata innovativa della sentenza è individuata da quest’ultimo Autore nella rilevanza dalla medesima attribuita alla «solidarietà postconiugale del caso concreto, ossia [al]la solidarietà che risulta dall’effettività della vita matrimoniale vissuta nel caso concreto» (ivi, 956). Ritiene, poi, M. Fortino, L’assegno di divorzio come strumento per realizzare ex post il principio
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invece, al criterio risarcitorio, probabilmente perché lo ritengono recessivo nel quadro europeo18. L’assegno divorzile acquista così una funzione composita, assistenziale e perequativocompensativa insieme19. Ne consegue che, mentre il coniuge che al momento del divorzio non risulti indipendente economicamente avrà diritto all’assegno già in base al criterio assistenziale, anche colui che sia economicamente autosufficiente avrà diritto all’assegno in base al diverso criterio perequativo-compensativo, quando il dislivello reddituale tra gli ex-coniugi sia conseguenza delle «comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare». Su questo punto la decisione delle Sezioni Unite si distacca da quella della Prima Sezione, la quale aveva escluso che il criterio compensativo potesse operare a favore del coniuge economicamente autosufficiente. Presupposto dell’assegno è la sussistenza di un dislivello economico-patrimoniale tra i coniugi, al momento del divorzio, non potendo essere riconosciuta alcuna prestazione compensativa al coniuge che pur abbia contribuito in modo prevalente alla conduzione della famiglia, quando detta disparità non vi sia20. Va osservato che l’assegno di divorzio non può avere la funzione di retribuire l’adempimento di un dovere coniugale, qual è quello di contribuzione, come sembrerebbe possibile, invece, in base alla lettura della motivazione della sentenza. Ne consegue che il riconoscimento dell’assegno in funzione compensativa potrà giustificarsi soltanto qualora le prestazioni svolte del coniuge richiedente a favore della famiglia o dell’altro coniuge abbiano ecceduto quanto necessario per l’adempimento del dovere di contribuzione. Si pensi ai casi in cui il coniuge abbia assunto su di sé (eventualmente anche per il periodo successivo al divorzio) l’impegno integrale di cura dei figli comuni minori o disabili, o abbia svolto attività lavorativa a favore dell’altro coniuge, e per tali ragioni abbia compiuto delle rinunce sui piani della formazione professionale e/o lavorativo, che ne hanno diminuito la capacità reddituale21. Si aggiunga il caso in cui il coniuge abbia impiegato propri beni in acquisti intestati all’altro coniuge22.
di uguaglianza tra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1704 ss., spec. 1712 s., che sia la natura assistenziale dell’assegno di divorzio a rispecchiare l’evoluzione sociale del matrimonio, mentre la funzione perequativo-compensativa presupponga un modello di matrimonio, ormai superato, fondato sulla disparità di ruoli in base al genere. 18 L’esigenza di valorizzare il criterio fondato sulle ragioni della decisione è evidenziata, invece, da E. Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, in Fam. e dir., 2018, 971 ss., spec. 980. V. anche Id., “C’è qualcosa di nuovo oggi”, cit., 1722. Critiche vengono mosse da C. Rimini, La nuova funzione compensativa dell’assegno divorzile, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1693 ss., spec. 1700 s., alla tendenza giurisprudenziale a non dare rilievo a detto criterio, del quale andrebbe invece affermata l’autonomia rispetto all’accertamento rilevante ai fini dell’addebito della separazione. 19 L’applicazione del criterio combinato «perequativo-compensativo» comporta che l’esigenza compensativa debba essere soddisfatta utilizzando il principio di ragionevolezza. 20 Sono di questo avviso anche C.M. Bianca, op. cit., 957 e C. Rimini, op. ult. cit., 1697 s. Contra A. Mondini, L’assegno di divorzio, cit., 534 s. 21 Cfr. T. Auletta, Diritto di famiglia, Torino, 2018, 246. 22 T. Auletta, op. loc. cit. L’esigenza di ancorare il riconoscimento dell’assegno divorzile (in funzione, però, esclusivamente equilibratrice) a requisiti specifici come quelli indicati nel testo è evidenziata anche nell’art. 1 d.d.l. 12.4.2018, n. 506, recante «Modifiche all’articolo
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Si ritiene che, in difetto di esigenze compensative, l’assegno di divorzio possa comunque spettare al coniuge economicamente più debole, in applicazione del criterio assistenziale. Sul presupposto che, come sostenuto dalle Sezioni Unite, non debba più farsi riferimento al tenore di vita matrimoniale, sembra di poter condividere la tesi che, in difetto di ragioni compensative, al coniuge economicamente più debole debba essere assicurata soltanto un’esistenza dignitosa23. Valorizzando la funzione perequativo-compensativa dell’assegno, le Sezioni Unite hanno inteso contemperare l’esigenza ri-equilibratrice alla base dell’orientamento espresso dalle sentenze gemelle del 1990 con l’esigenza, avvertita da Cass., n. 11504/2017, di un richiamo all’attualità. L’interpretazione dalle medesime proposta non è, però, innovativa. Essa riprende, infatti, una tesi dottrinale di poco successiva alla novella del 1987, secondo la quale la scomparsa, dal testo definitivo dell’art. 5, comma 6°, l. div., del riferimento al «dignitoso mantenimento» originariamente contenuto nei lavori preparatori, deponeva a favore dell’abbandono della concezione esclusivamente assistenziale dell’assegno inizialmente preferita24. Secondo questa tesi, il livello di adeguatezza dei mezzi avrebbe dovuto essere determinato proprio facendo applicazione dei criteri di cui alla prima parte della disposizione, così evitando arbitrarie etero-integrazioni del testo (quali il rinvio allo «stato di bisogno», al «dignitoso mantenimento» o al «tenore di vita matrimoniale»). Questa interpretazione – già respinta da Cass., sez. un., n. 11490/1990, in quanto ritenuta una variante della vecchia idea della natura composita dell’assegno, che si voleva superare – viene oggi ripresa dalle Sezioni Unite, le quali hanno, infatti, cura di precisare che la soluzione accolta non comporterà il rischio di un’eccessiva discrezionalità del giudice di merito (rischio la cui considerazione era stata appunto una delle motivazioni della riforma, nel 1987, del testo previgente, che secondo la giurisprudenza prevalente attribuiva all’assegno natura composita25). Si può dubitare, però, del fatto che un’applicazione integrata dei criteri normativi, «che si fondi sulla concretezza e molteplicità dei modelli familiari attuali»26, possa davvero eli-
5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile», consultabile in www.camera.it., presentato però prima del deposito di Cass., sez. un., n. 18287/2018, cit. 23 Cfr. E. Al Mureden, L’assegno di mantenimento e l’assegno di divorzio dopo la decisione delle Sezioni Unite, in Fam. e dir., 2018, 1019 ss., spec. 1028 s.; A. Mondini, op. cit., 537 s.; C. Rimini, op. ult. cit., 1699, il quale precisa che, nel caso di breve durata del matrimonio, potrà spettare soltanto un livello di assistenza alimentare. Quest’ultimo Autore (ivi, 1698) esclude, altresì, che nei conteggi debba tenersi conto della cosiddetta non matrimonial property, ossia della ricchezza indipendente dai sacrifici comuni ai coniugi. 24 Cfr. E. Quadri, La natura dell’assegno di divorzio dopo la riforma, in Foro it., 1989, I, 2513 ss., spec. 2520 s. 25 V., più diffusamente, C. Benanti, La «nuova» funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 601 ss. 26 L’attuale moltiplicazione dei modelli familiari, di cui la sentenza in commento prende atto, è stata evidenziata, tra gli altri, da F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, I, 509 ss. Il passaggio della sentenza riferito nel testo è criticato da M. Fortino, L’assegno di divorzio, cit., 1712 s., la quale ritiene che le Sezioni Unite abbiano tenuto presente, invece, un modello di matrimonio unico, fondato sulla disparità di ruoli in base al genere, ed auspica una riforma normativa ispirata al principio di autoresponsabilità.
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minare questo rischio. Sembra, anzi, che ciò renda possibili soluzioni molto variegate27, anche in ragione delle difficoltà che si pongono sul piano probatorio. Difatti, sebbene la Corte sottolinei la necessità di un accertamento probatorio rigoroso dei fatti che hanno causato il dislivello economico tra gli ex-coniugi, è evidente la difficoltà che il coniuge richiedente incontrerebbe nel provare il nesso causale tra gli accordi sull’indirizzo della vita familiare e le rinunce effettuate dal coniuge medesimo sul piano della formazione professionale e/o su quello lavorativo. Si tratta, infatti, di decisioni che maturano all’interno della famiglia e di cui sarebbe difficile dare un riscontro oggettivo. Tant’è vero che in altra parte della decisione è precisato che la prova può essere data dal richiedente anche tramite presunzioni28. È presente, quindi, il rischio che il giudice di merito si limiti a prendere in considerazione il dislivello tra le situazioni economiche degli ex-coniugi così com’è e che si torni surrettiziamente ad applicare il criterio del tenore di vita matrimoniale, che si dichiara a ragione di voler superare29. Se il principio affermato dalle Sezioni Unite abbia portata innovativa o costituisca una mera rivisitazione della tesi tradizionale risulterà, perciò, dall’applicazione che del medesimo farà la giurisprudenza di merito. In questa prospettiva, è auspicabile che si diffonda la prassi di formalizzare gli accordi sull’indirizzo della vita familiare, in modo da semplificare le difficoltà di prova che l’applicazione del criterio compensativo comporta.
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Di questo avviso anche S. Patti, Assegno di divorzio: il «passo indietro» delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2018, 473 ss., spec. 478; M. Sesta, Attribuzione, cit., 989 s.; E. Al Mureden, op. ult. cit., 1029; M. Fortino, op. ult. cit., 1707. Questi ultimi due autori, in particolare, suggeriscono di ovviare ai problemi applicativi mediante il ricorso ad un sistema tabellare. L. Balestra, L’assegno divorzile, cit., evidenzia il rischio di un aumento del contenzioso connesso all’imprevedibilità delle decisioni giudiziali. Più fiducioso l’approccio di V. Carbone, Il contrasto giurisprudenziale sull’assegno all’ex coniuge divorziato tra tenore di vita “paraconiugale” e “dipendenza economica”, in Fam. e dir., 2018, 958 ss., spec. 963, il quale si augura «che l’elasticità dei criteri possa rendere più facile l’adeguamento dei principi alle diversità dei casi concreti nell’interesse di coloro che si rivolgono alla giustizia per risolvere le loro specifiche controversie». 28 Queste difficoltà di prova non si pongono, invece, con riferimento al contributo dato dal coniuge alla formazione del patrimonio personale dell’altro coniuge o di quello comune. Si pensi alla collaborazione prestata all’attività professionale dell’altro coniuge o all’impiego di propri beni per compiere acquisti comuni oppure intestati all’altro coniuge. Questi elementi potranno essere provati in base a dati oggettivi. 29 Critici anche S. Patti, op. loc. cit.; M. Sesta, Attribuzione, cit., 990; M. Dogliotti, L’assegno di divorzio, cit., 970; M. Fortino, op. ult. loc. cit. Questo rischio non sembra avvertito, invece, da F. Danovi, Oneri probatori e strumenti di indagine: doveri delle parti e poteri del giudice, in Fam. e dir., 2018, 1007 ss., spec. 1017, il quale ritiene che la regola dell’onere della prova divenga nel processo di divorzio «una regola si licet di bilanciamento e riequilibrio, per quegli aspetti per i quali non è immaginabile possa esplicarsi il sopra visto impulso inquisitorio», limitato – quest’ultimo – all’accertamento dello squilibrio tra le condizioni economiche delle parti.
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5. Il ruolo dell’assegno di divorzio nel sistema dei rapporti patrimoniali tra coniugi.
Nell’impostazione adottata dalle Sezioni Unite la previsione relativa all’assegno divorzile assume la funzione di pareggiare i conti fra i coniugi, così svolgendo una funzione di supplenza rispetto all’istituto della comunione legale, nei confronti del quale si è registrata negli ultimi anni una progressiva disaffezione da parte delle coppie italiane, le quali continuano ad optare in misura crescente per la separazione dei beni30. Ne consegue che, nel decidere in relazione all’assegno di divorzio, il giudice di merito non potrà non tenere conto del tipo di regime patrimoniale adottato dai coniugi ed, in particolare, della scelta di un regime comunitario oppure separatista31. In altre parole, bisognerà prendere in considerazione non soltanto il contributo dato dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio dell’altro coniuge o di quello comune – come fanno le Sezioni Unite – ma anche il contributo che il coniuge economicamente più forte abbia dato alla formazione del patrimonio comune, tramite i propri acquisti rientranti in comunione legale, o di quello dell’altro coniuge, fornendogli le risorse per compiere acquisti personali32. Si dovrà pure tenere conto del contenuto degli accordi eventualmente conclusi tra i coniugi in sede di separazione, che abbiano previsto per esempio trasferimenti patrimoniali da parte di un coniuge a favore dell’altro e/o dei loro figli33. Ne risulta conseguentemente modificato il sistema dei rapporti patrimoniali tra i coniugi originariamente adottato con la riforma del 1975, il quale riservava alla comunione legale il compito di redistribuire la ricchezza prodotta durante il matrimonio e di soddisfare così l’esigenza compensativa ed attribuiva, invece, all’assegno di divorzio una funzione prevalentemente solidaristica ed assistenziale34.
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Osserva E. Quadri, “C’è qualcosa di nuovo oggi”, cit., 1715 e 1721 che la piena attuazione del principio di auto-responsabilità nella regolazione dei rapporti economici tra coniugi divorziati risulterebbe irragionevole in un sistema, come il nostro, nel quale la libera disponibilità del regime legale di comunione e la conseguente fuga da esso impediscono di realizzare, tramite detto regime, l’esigenza perequativa. 31 Di questo avviso anche S. Patti, op. loc. cit. 32 Opinione, questa, già espressa in C. Benanti, op. cit., 1606. Analoga la posizione assunta da C. Rimini, La nuova funzione, cit., 1699 s., il quale afferma che «l’assegno divorzile, determinato sulla base della sua funzione compensativa e perequativa, deve tenere conto, come fattore di moderazione, delle attribuzioni compensative già effettuate prima della crisi matrimoniale». 33 In questo senso già Trib. Milano, ord. 2.4.2015, in Dejure e Cass., 27.11.2013, n. 26491, ivi, sul presupposto però della natura assistenziale dell’assegno divorzile. 34 L’esigenza di un superamento di questo modello è evidenziata da C. Rimini, Il nuovo divorzio, nel Trattato Cicu-Messineo, La crisi della famiglia, II, Milano, 2015, 109 ss. Differente il modello adottato dall’ordinamento tedesco, che prevede che, allo scioglimento del matrimonio, la redistribuzione della ricchezza prodotta avvenga mediante il conguaglio degli incrementi tipico della Zugewinngemeinschaft, mentre l’attribuzione di un assegno periodico, di natura assistenziale, abbia carattere residuale. Cfr. S. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Ferrando, II, Bologna, 2008, 229 ss., spec. 233 s. e 238 s.; M. Fortino, Il fondamento del divorzio, nel Trattato dir. fam., diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando - M. Fortino - F. Ruscello, II, Milano, 2011, 1501 ss., spec. 1511 s.; M. Sesta, L’assegno di divorzio nella prospettiva italiana e in quella tedesca, in questa Rivista, 2019, 3 ss., il quale ritiene che una certa armonizzazione tra
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Questo mutamento di prospettiva dovrebbe condurre a valorizzare sia il ruolo degli accordi sulla corresponsione dell’assegno una tantum – essendo questa la modalità di pagamento più idonea a soddisfare l’esigenza compensativa, come dimostra anche l’esperienza di ordinamenti vicini al nostro, come quello francese – sia la possibilità di disporre un assegno «a termine». Un’evoluzione in questa direzione renderebbe il nostro sistema più vicino al quadro europeo35. Nell’ordinamento francese, ad esempio, la «prestation compensatoire» che un coniuge deve versare all’altro a seguito del divorzio assume la forma di un capitale forfettario, il cui pagamento soltanto in via eccezionale può essere rateizzato per un periodo di tempo comunque non superiore ad otto anni o può assumere la forma di una rendita vitalizia (cfr. artt. 270 ss. code civil). In Spagna, invece, il coniuge che per effetto (della separazione o) del divorzio subisca un peggioramento delle proprie condizioni economiche avrà diritto a una compensazione che potrà consistere in un versamento periodico (per un tempo predeterminato oppure di durata indeterminata) o ancora in una prestazione unica, a seconda di quanto stabilito d’accordo tra le parti o dalla sentenza (cfr. art. 97, co. 1°, codigo civil). Mentre il nostro ordinamento già consente alle parti di accordarsi per la corresponsione dell’assegno in unica soluzione, non è previsto che una decisione di questo tipo possa essere assunta dal giudice e comunque essa è concepita come un’eccezione alla regola generale dell’assegno periodico. Per modificare questo sistema sarebbe necessaria una riforma legislativa36. Invece, il potere del giudice di disporre un assegno di divorzio a termine, seppure non espressamente previsto, potrebbe forse essere già riconosciuto in via interpretativa in tutti i casi in cui la prestazione debba assolvere a bisogni contingenti, per esempio al mantenimento dell’ex-coniuge (del quale il giudice abbia accertato la concreta possibilità di reinserimento nel mercato del lavoro), per il periodo necessario per consentirgli di completare il proprio percorso professionale e/o di trovare un impiego37. A maggior ragione ciò dovrebbe essere possibile se si accedesse all’idea, sostenuta dalle Sezioni Unite, di una funzione prevalentemente compensativa dell’assegno. Non sembra, però, affatto condivisibile l’affermazione delle Sezioni Unite, che la revisione dell’assegno di divorzio prevista dal nostro ordinamento costituisca già una forma di
i sistemi italiano e tedesco possa essere raggiunta attraverso l’interpretazione giudiziale. Osserva S. Patti, Assegno di divorzio, cit., 479 s. che Cass., sez. un., n. 18287/2018 ha fallito l’obiettivo di adeguare la nostra disciplina al quadro europeo e che resta, quindi, necessario un intervento normativo. 36 Di questo avviso anche E. Quadri, Il superamento, cit., 981 s., il quale anzi propone un ripensamento della regola stabilita dall’art. 5, co. 10°, l. div., secondo cui il diritto all’assegno si estingue nel caso di passaggio del creditore a nuove nozze, prevedendo che in tal caso quest’ultimo possa conseguire da parte dell’altro coniuge una prestazione compensativa determinata dal giudice in via equitativa. Secondo il medesimo criterio andrebbe modificata, secondo questo Autore, anche la regola di cui all’art. 9 bis l. div., la quale prevede che nel caso di morte del debitore l’assegno periodico resti a carico dell’eredità. Questa posizione viene ribadita in E. Quadri, “C’è qualcosa di nuovo oggi”, cit., 1724. 37 Della medesima opinione, C. Rimini, Il nuovo divorzio, cit., 149 s.; Id., La nuova funzione, cit. 1702. 35
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temporaneità del medesimo. Per poter disporre la revisione occorrono, infatti, fatti sopravvenuti. Si aggiunga che la giurisprudenza ha assunto una posizione rigorosa sul punto e ritiene che neppure la nascita di un figlio determini l’automatica rideterminazione dell’assegno, dovendosi verificare se ne derivi un effettivo depauperamento dell’obbligato38. È anche auspicabile un superamento dell’orientamento giurisprudenziale contrario all’ammissibilità degli accordi in vista del divorzio relativi al mantenimento dell’ex-coniuge39, a maggior ragione essendo stata superata la concezione esclusivamente assistenziale dell’assegno, sulla quale la tesi restrittiva in parte si basava40. Occorre valorizzare, infatti, la funzione di tutela della libertà di indirizzo della vita familiare che detti accordi possono svolgere, qualora prevedano attribuzioni patrimoniali differite da un coniuge all’altro nel contesto di un accordo più ampio sull’indirizzo della vita familiare.
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Cfr. Cass., 19.3.2014, n. 6289, in Fam. e dir., 2015, 470 ss., con nota di D. Buzzelli e Cass., 22.3.2012, n. 4551, in Corr. giur., 2012, 1052 ss., con nota di G. De Marzo. 39 V., da ultimo, Cass., 30.1.2017, n. 2224, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 955 ss., con nota di B. Grazzini e in Notariato, 2017, 143. 40 Il superamento della posizione giurisprudenziale contraria all’ammissibilità dei patti prematrimoniali è auspicato anche da A. Fusaro, La sentenza delle Sezioni Unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?, in Fam. e dir., 2018, 1031 ss., spec. 1038 s. Una proposta volta a delineare i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio proprio a partire dal decisum delle Sezioni Unite si legge in C. Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir., 2018, 1041 ss.
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Il negozio di destinazione e la meritevolezza degli interessi Sommario : I. Impostazione della questione. – II. Questione metodologica. – III. Posizione della dottrina. – IV. Conclusioni.
The worthwhileness meaning is the most characteristic and controversial matter raised by the art. 2645 ter c.c. under which depends the application of the law. The art. 2645 ter c.c. allows an indipendent asset creation on condition that included goods are destined just to pursue a “worthy” purpose. The matter goes beyond the right interpretation of the article, and it acquires a general value because through the whorthwhilness control, also extended to typical contracts through the concrete cause concept, it is possible to extend the worth judgment not only to atipical contracts but also to every contractual model. With consequent uncertainty.
I. Impostazione della questione. L’art. 2645 ter c.c. appare un’opera dai contorni ancora incerti. I problemi che la norma solleva sono ancora molti, legati soprattutto alle divergenti ricostruzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulle questioni fondamentali1.
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Cfr. R. Viglione, Vincoli di destinazione nell’interesse familiare, Milano, 2005; P. Manes, Fondazione fiduciaria e patrimoni allo scopo, Padova, 2005; R. Quadri, La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli 2004; Aa.Vv., Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, a cura del Consiglio nazionale del notariato, Milano 2003; M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova 1996; G. Petrelli, Divieto testamentario di alienazione con vincolo di destinazione: parere pro veritate, in R. not., 2004, 1296; A. Fusaro, In tema di fondazioni: clausole di inalienabilità e vincoli di destinazione d’uso contenute in donazioni disposte a loro favore, in Vita not., 1997, 1616; A. Fusaro, Vincoli temporanei di destinazione e pubblicità immobiliare, in Contratto e impr., 1993, 815; A. Fusaro, Il vincolo contrattuale di destinazione dell’immobile, in Nuova g. civ.comm., 1991, I, 29; A. Fusaro, Destinazione (vincoli di), in Dig. disc. priv. - sez. comm., V Torino 1989, 321; F. Costantino - A. De Mauro, Determinazione convenzionale dell’uso di beni (nota a Cass. 14 luglio 1989 n. 3322), in G. it., 1991, I, 1, c. 113; M. Costanza, Vincoli di destinazione e durata dei diritti reali, in Giust. civ., 1985, I, 2016; G. Alpa, Destinazione dei beni e struttura della proprietà,
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Non mi occuperò dell’istituto in generale per il quale sono state spese parole di fuoco, come classico esempio di cattiva tecnica legislativa2. Per esempio non mi dedicherò al dibattito relativo al quesito se l’art. 2645-ter c.c., nell’enumerare i presupposti della trascrivibilità del vincolo di destinazione, facendo riferimento alla «forma pubblica» dell’atto, indicando evidentemente con ciò l’atto pubblico, quale descritto dall’art. 2699 del codice civile, vuol far riferimento alla classica domanda: l’atto pubblico è richiesto ai fini della validità del negozio di destinazione ovvero ai soli fini della sua trascrivibilità?3 Tra le questioni sollevate ve n’è una in particolare, dalla quale dipende la portata applicativa della norma, che ancora non trova una soluzione condivisa: la definizione del concetto di meritevolezza. Tale elemento rappresenta il perno attorno al quale ruota l’intera disciplina. Dalla sua esatta qualificazione discende anche l’esatta delimitazione del perimetro normativo. L’art. 2645 ter c.c. consente infatti la creazione di un patrimonio separato a condizione che i beni considerati siano destinati esclusivamente al perseguimento di uno scopo “meritevole”. L’unica indicazione fornita dalla norma per definire tale concetto è rappresentata dal riferimento all’art. 1322 c.c., relativo ai contratti atipici, e sul quale vi è una consolidata interpretazione giurisprudenziale che identifica la meritevolezza con la non illiceità. Di fronte ad un dato testuale incontrovertibile, ci si è interrogati sul valore da attribuire a tale riferimento. La questione riporta inevitabilmente alla ribalta l’ampio dibattito sull’interpretazione dell’art. 1322 c.c., ed in particolare sul valore della meritevolezza nei contratti atipici e sul rapporto con la causa. Il risultato di tali elaborazioni, frutto di decenni di dibattito, da un lato influenza il giudizio sull’art. 2645 ter c.c., ma dall’altro viene esso stesso influenzato. 1. Vediamo una sommaria ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali espressi in tema di vincolo di destinazione previsto dall’art. 2645 ter cc, in relazione al suo punto
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in R. not., 1983, 6; M. Confortini, Vincolo di destinazione, in Dizionario di diritto privato, diretto da N. Irti, Milano 1980, 887. In giurisprudenza, cfr. in particolare Cass. 17 novembre 1999 n. 12769, in Notariato, 2000, 413, con nota di P. Calabritto; Cass. 2 gennaio 1997 n. 8, in R. not., 1997, 1241; Trib. Fermo 29 dicembre 1993, in R. not., 1995, 1526; Trib. Milano 25 luglio 1988, in R. not., 1990, 141; Cass. 11 novembre 1986 n. 6584, in F. it., 1987, I, c. 2177, con nota di G. Massa, ed in Corr. giur., 1987, 955, con nota di V. Mariconda, Vincoli alla proprietà e termini di durata; Cass. 30 luglio 1984 n. 4530, in R. not., 1985, 1191; Cass. 14 aprile 1983 n. 2610, in R. giur. ed., 1983, 917; Cass. 27 giugno 1973 n. 1865, in Giust. civ., 1974, 663; S. Pepe, Il vincolo di destinazione in funzione successoria, in Riv. del notariato, novembre - dicembre 2017, Milano, 1115; U. La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli, 1994; U. La Porta. ‘atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 ter cc, in Riv. del notariato, 2007, 05, 1074; L. Vitale, Vincoli di destinazione e interessi meritevoli: 10 anni di confronto ed una soluzione ancora lontana, in Il Caso.it, 28 maggio 2015; A. Torroni. La destinazione patrimoniale nella famiglia, in Riv. del notariato, Milano, 2017. 81. Cfr. G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2-2006, “la disposizione rappresenta un esempio lampante del progressivo decadimento della tecnica legislativa, ed in particolare della tecnica di novellazione del codice civile, che sembra davvero, con quest’ultimo intervento aver raggiunto il limite più basso”. Cfr. G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 163; G. Petrelli. Trust interno, art. 2645 ter cc e trust italiano, in Rivista di diritto civile – 1/2016; G. Petrelli, Proprietà fiduciaria, art. 2645 ter e condizione, saggio che costituisce una rielaborazione della relazione presentata al Convegno “Il contributo della prassi notarile alla evoluzione della disciplina delle situazioni reali” (Firenze 8 maggio 2015), organizzato dalla Fondazione italiana per il Notariato, in Rassegna di diritto civile. XXXVII 2, 2016 Edizioni Scientifiche Italiane.
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critico, anche per un’interpretazione che tenga conto anche di aspetti tipici “di politica del diritto”4. Un primo orientamento che ha toccato la questione degli interessi, emessa dal Tribunale di Trieste, riguarda la trascrizione di un trust alla luce del nuovo articolo 2645 ter c.c.. Facendo riferimento ad un precedente pronunciamento, il Tribunale ha definito il concetto di meritevolezza attribuendovi il significato che generalmente allo stesso viene riconosciuto: non illiceità. Detto collegio esclude qualunque connotazione ulteriore della meritevolezza. Cioè la meritevolezza si identifica con la non liceità e non bisognerebbe richiamare altri concetti, primo dei quali quello dell’utilità sociale. Alla medesima conclusione giungono anche il Tribunale di Reggio Emilia che il Tribunale di Lecco5. Si afferma che il giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti col negozio atipico si riduce, in realtà, ad una valutazione di non illiceità, in cui l’interprete deve limitarsi all’esame della non contrarietà del negozio alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. Si esprimono in termini analoghi altri due pronunciamenti da parte delle Corti di merito, in cui si esclude la riconducibilità del concetto di meritevolezza a quello di solidarietà sociale, rilevandosi altresì la potenziale “eversività” di una tale impostazione qualora fosse priva di ulteriori correttivi6.
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Per la rassegna di giurisprudenza v. L. Vitale, Vincoli di destinazione e interessi meritevoli: 10 anni di confronto ed una soluzione ancora lontana, in Il Caso.it, 28 maggio 2015; nonché Trib. Trieste, decr. del 24 aprile 2006; Trib. Reggio Emilia, decr. del 23 marzo 2007; Trib. Lecco, decr. del 14 aprile 2012; Trib. Reggio Emilia, decr. del 18 dicembre 2013; Trib. S. Maria Capua Vetere, decr. del 29 novembre 2013; Trib. Roma, sent. del 18 maggio 2013; Trib. Vicenza, decr. del 31 marzo 2011; App. Roma, decr. 16 aprile 2009; Trib. Reggio Emilia, decr. del 7 giugno 2012; Trib. Reggio Emilia, decr. del 12 maggio 2014; App. Trieste, sent. del 19 dicembre 2013, n. 1002; Trib. Ravenna, decr. del 22 maggio 2014; Trib. Rovigo, decr. del 7 ottobre 2014; Trib. Udine del 5 luglio 2013; Trib. Verona, decr. del 13 marzo 2012; Trib. Trieste, decr. del 22 aprile 2015; 56 Trib. Trieste, decr. del 24 aprile 2006, in Giust. Civ., 2006, 185, con nota di M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter c.c.. Notazioni a margine di un provvedimento del Giudice Tavolare di Trieste. In particolare secondo il primo, Trib. Reggio Emilia, decr. del 13 marzo 2007 “meritevolezza degli interessi perseguiti col negozio atipico si riduce, in realtà, ad una valutazione di non illiceità, in cui ‘interprete deve limitarsi all’esame della non contrarietà del negozio alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume”; per il secondo tribunale, Trib. Lecco, decr. del 14 aprile 2012, “questo Collegio non ritiene di condividere ‘assunto di partenza del ragionamento illustrato, infatti il rinvio generico dell’art. 2645 ter c.c. alla meritevolezza ex art. 1322 comma 2 c.c. non legittima alcuna ulteriore delimitazione degli interessi che i privati possono perseguire costituendo un vincolo di destinazione, in questo senso parte della dottrina ha tratto argomenti dai lavori preparatori e dalla finalità perseguita di introdurre con ampiezza un istituto che potrebbe favorire investimenti nel nostro Paese; ma in questo senso depone in modo decisivo il tenore testuale e ‘assenza di una definizione di solidarietà sociale, altrimenti lasciata all’assoluta discrezionalità del giudice, che avrebbe come unico criterio orientativo la ristretta menzione della disabilità o quella assolutamente ambigua di pubblica amministrazione; considerato quindi senza limiti il rinvio alla meritevolezza ex art. ed evitando di addentrarsi nel dibattito sulla definizione di tale ultima nozione, questo Collegio nota che senza dubbio la finalità perseguita nel caso di specie, che consiste nell’assicurare una soddisfazione proporzionale ai creditori non ancora muniti di cause di prelazione, deve reputarsi degna di riconoscimento dall’Ordinamento. Tribunale Reggio Emilia, decr. del 18 dicembre 2013 “gli interessi de quibus, dunque, sono ascrivibili ad “altri enti o persone fisiche”, sicché la disposizione non può considerarsi delimitata, nella sua portata applicativa, da quei profili di solidarietà sociale che involge il riferimento “a persone con disabilità” – tale richiamo è peraltro irragionevole e censurabile, perché i disabili sono certamente persone fisiche e non un tertium genus. La generalità dei creditori di un imprenditore in stato di crisi (così erano individuati i beneficiari nel vincolo sottoposto all’attenzione del Tribunale vicentino) è un insieme di persone fisiche, enti, persone giuridiche e il dato letterale non avalla una lettura così restrittiva come quella sopra esposta. In questi termini, anche Trib. Lecco, 26/4/2012: “Il rinvio generico contenuto nell’art. 2645-ter c.c. alla meritevolezza di cui all’articolo 1322, comma 2, c.c., non legittima alcuna
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2. A diversa conclusione pervengono invece altre Corti, che accolgono l’orientamento più restrittivo, cd. “pubblicistico”, secondo cui l’interesse tutelato dalla norma dovrebbe necessariamente connotarsi in termini di utilità sociale, solidarietà, o comunque da una rilevanza super individuale che non si esaurisca nella semplice liceità. In tal senso si esprime chiaramente il Tribunale di Roma7 che, senza argomentare, afferma con semplicità la necessarietà di profili etici o solidaristici della destinazione. Con analoga sintesi, altre pronunce giurisprudenziali ritengono ammessi soltanto gli interessi attinenti alla solidarietà, gli unici in grado di giustificare una deroga al principio della responsabilità patrimoniale al di fuori di ipotesi tipizzate. In termini meno perentori, ma ugualmente conformi a questo orientamento, si esprimono altri due pronunce, con cui, da un lato, viene ribadita l’essenzialità di un interesse superiore riferito a particolari soggetti, mentre dall’altro si sottolinea la diversità del giudizio di liceità rispetto a quello di meritevolezza8. 3. Aderiscono invece ad un terzo orientamento, cd. “comparativo”, due pronunce che hanno enfatizzato la centralità di una concreta valutazione degli interessi contrapposti9 da condurre sulla base delle specifiche istanze perseguite dal conferente rispetto al controinteresse sacrificato. In forza di detta impostazione, la Corte si attribuisce un penetrante controllo sull’interesse destinatorio, riqualificandolo (rispetto a quello indicato in atto), per giungere conseguentemente ad una pronuncia negativa.
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ulteriore delimitazione degli interessi che i privati possono perseguire costituendo un vincolo di destinazione”. Trib. Roma, sent. del 18 maggio 2013: “ […] agli interessi previsti dalla norma dell’art. 2645 ter c.c. (che devono connotarsi in senso etico e solidaristico, anche quando riferiti a singole persone fisiche. Trib. Vicenza, decr. del 31 marzo 2011: «ritenuto che gli interessi meritevoli di tutela richiamati dalla norma sono quelli attinenti alla “solidarietà sociale” e non gli interessi dei creditori di una società insolvente in quanto, diversamente opinando, si consentirebbe ad un atto di autonomia privata, per di più unilaterale, di incidere sul regime legale inderogabile della responsabilità patrimoniale al di fuori di espresse previsioni normative».; App. Roma, decr. 16 aprile 2009: «Questa Corte è consapevole che la norma, interpretata in senso stretto, abbia come precipui destinatari i c.d. trust (sebbene la rubrica abbia una portata più generale) e cioè, quei patrimoni vincolati per un lasso di tempo alla realizzazione d’interessi superiori a vantaggio di particolari soggetti, persone fisiche con disabilità o persone giuridiche private e pubbliche»; Trib. Reggio Emilia, decr. del 7 aprile 2012: «Mentre la costituzione di un trust interno merita un giudizio positivo di liceità mercé il semplice rispetto della Convenzione e del limite dell’ordine pubblico, invece il cittadino italiano che volesse raggiungere lo scopo di vincolare determinati beni per un certo fine ai sensi dell’articolo 2645-ter Codice Civile dovrebbe sperare nell’esito positivo del vago giudizio di meritevolezza dell’interesse (Trib. Trieste, 7.4.2006»). Trib. Reggio Emilia, decr. del 12 maggio 2014: «per affermare la legittimità del vincolo di destinazione, non basta la liceità dello scopo, occorrendo anche un quid pluris integrato dalla comparazione degli interessi in gioco, ed in particolare dalla prevalenza dell’interesse realizzato rispetto all’interesse sacrificato dei creditori del disponente estranei al vincolo (cfr. App. Trieste, sent. n. 1002/2013). Invero, come ha correttamente evidenziato il G.E., si osserva che il Legislatore, in chiave evidentemente riequilibrativa rispetto alle possibilità concesse con il vincolo di destinazione, ha subordinato ‘efficacia dello stesso ad un riscontro di meritevolezza in concreto dell’assetto di interessi perseguito dalla parte; e tale riscontro deve essere particolarmente penetrante, proprio in ragione delle potenzialità lesive, nei confronti dei creditori, del vincolo unilateralmente apposto»; App. Trieste, sent. del 19 dicembre 2013, n. 1002: «il richiamo all’art. 1322 c.c., secondo comma, non sembra consentire un’interpretazione della norma volta ad individuare la “meritevolezza” nella sola sfera della pubblica utilità o della solidarietà sociale; non appare, d’altro canto, sufficiente la mera liceità dello scopo, essendo invece necessaria una comparazione tra ‘interesse, sacrificato, dei creditori generali e ‘interesse realizzato con ‘atto di destinazione».
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Ma ragionando così, se da un lato appare opportuna la tutela garantita da un processo valutativo così specifico e non astratto, non può negarsi la conseguente incertezza derivante dall’esercizio di un potere arbitrario così ampio, non circoscritto da quelle opportuna cornice di riferimenti normativi (che esprimono un giudizio di prevalenza già operato da legislatore), ed al quale anche il giudice adito dovrebbe attenersi. Le più recenti pronunce sull’art. 2645 ter c.c., pur non esprimendosi in punto di meritevolezza degli interessi, forniscono ugualmente preziose indicazioni10. Infatti, sebbene formalmente non vi sia una presa di posizione, le Corti, adite in materia di concordato preventivo, ritengono ammessa anche in tale ambito l’applicazione dell’istituto in questione. Da ciò può pacificamente desumersi che è stata ripudiata la pretesa di profili solidaristici, o di utilità sociale, poiché l’interesse dei creditori concorsuali non può ascriversi a tali categorie. Non è consentito tuttavia giungere a conclusioni ulteriori ed affermare l’adesione all’orientamento estensivo o comparatistico, ad eccezione del rilievo che la materia concordataria costituisce il terreno di maggior applicazione dell’art. 2645 ter c.c.. Questo forse è il dato più inaspettato, che testimonia la volontà di garantire alla norma spazi di operatività ben più ampi di quelli in cui parte della dottrina intende confinarla. Spesso, cioè ci sono oscillazioni sulla questione, da parte della giurisprudenza si sostiene ogni cosa, e ripudiando nella maniera più netta ogni concezione metaindividuale e corporativistica della meritevolezza, si afferma la rilevanza esclusivamente in termini di liceità11. Tuttavia, si precisa, ciò non basterebbe di per sè a legittimare una separazione patrimoniale qualora fosse giustificazione di sè stessa, ma abbisognerebbe comunque di un programma destinatorio, effettivo e ragionevole, in grado di perseguire le finalità proposte. Grande incertezza, dunque. Ma quale può essere la tesi preferibile e, soprattutto, queste pronunce contrastanti aprono un discorso che è principalmente metodologico. Affrontiamolo perché servirà nella soluzione e nella risposta da dare al quesito.
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Trib. Ravenna, decr. del 22 maggio 2014; Trib. Rovigo, decr. del 7 ottobre 2014. Al riguarda si veda anche il decreto del Tribunale di Udine del 5 luglio 2013. 11 V. Trib. Trieste, decr. Del 22 aprile 2015: «Appartiene invero ormai alla storia della dottrina civilistica italiana la considerazione che il legislatore fascista, nel coniare il giudizio di meritevolezza di interessi, intendeva assecondare il modello nazionalsocialista che tramite ‘utilizzo delle clausole generali, aveva lo scopo di portare all’interno dei rapporti privatistici principi politici vagamente legali. […] sta di fatto comunque che tra autonomia privata ed utilità sociale esiste una netta distinzione di piano tra di loro non interferenti né strumentali. […]. Lo sforzo che si può fare è quello di obiettivizzare la meritevolezza, per identificarla nell’idoneità del programma negoziale al raggiungimento di uno scopo lecito […]. In ultima analisi la ricerca della meritevolezza degli interessi viene a coincidere con ‘esistenza di un programma negoziale che sia effettivo e che non si concreti nella sola segregazione».
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II. Questione metodologica. 1. Per affrontare la questione che emerge dalla breve, anche incompleta, rassegna di giurisprudenza sopraindicata è utile qualche nozione di teoria generale. In generale si può dire che tre sono le teorie dell’interpretazione che si contendono il campo: - la teoria cognitivistica - la teoria scettica - la teoria eclettica ed intermedia a - Circa la prima, essa afferma che l’interpretazione è un atto di conoscenza e in ogni testo esiste un senso univoco e tale da poter essere conosciuto. L’interprete deve portarlo alla luce. Il testo è suscettibile, almeno tendenzialmente, di una sola interpretazione12. Questa teoria è molto criticata, è quella che si può definire più vicina alle impostazioni di Montesquieu e illuministica. Ma è anche quella che maggiormente trova il suo fondamento nel principio della sovranità del Parlamento e nella separazione dei poteri. Che il parlamento faccia brutte leggi, nel senso di incomprensibili, frutto di compromessi che rimandano volutamente all’interprete la soluzione dei problemi, che questa tesi rispecchi una concezione di un parlamento più coeso di come sono molti adesso, è vero. Ma è altrettanto vero che non è soddisfacente e presenta molte controindicazioni la concezione esasperata del giudice, interprete ultimo delle leggi, che non è investito di quella legittimità che sola conferisce un’elezione democratica oltre a non essere attrezzato per indagini sociologiche o sociali, o economiche, che spesso prescinderebbero dal caso concreto che ha davanti, indagini che sarebbero comunque frammentarie, stante i diversi casi che esamina, spesso slegati tra loro, con visione parziale nel senso che dipendono dalle prospettazioni che gli fanno le parti. Anche spesso sarebbero indagini e conclusioni di attribuzione di senso e significato di tipo, conseguentemente, arbitrario. Per i diritti dei cittadini. Che possono cambiare gli eletti parlamentari, ma non i giudici. b - La teoria scettica, spesso chiamata realista, perché riconducibile in alcune forme al realismo americano, ritiene che l’interpretazione sia non atto di conoscenza ma di volontà. I giudici potrebbero essere liberi di attribuire ai testi normativi qualunque significato. Una variante moderata parte dalla considerazione che i testi normativi sono equivoci, ogni norma è vaga o indeterminata, ogni testo ammette una pluralità di interpretazioni tutte plausibili. La vaghezza può essere ridotta escludendo i pochi casi dubbi o marginali. Giunge alla conclusione che l’interpretazione può essere, secondo i casi, cognitiva, decisoria, o creativa. L’ultima è produttiva di diritto nuovo. L’interpretazione giudiziale è di tipo
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L. Ferrajoli, La semantica della teoria del diritto, in U. Scarpelli, La teoria generale del diritto. Problemi e tendenze attuali, Milano, 1983; per la tematica in generale di un’interpretazione illuministica del diritto, v. L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario, Modena, 2018. L. Ferrajoli. Dei diritti e delle garanzie, Bologna, 2013; L. Ferrajoli, Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Napoli, 2016; D. Ippolito, Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire, Roma, 2016.
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decisorio e spesso creativo di nuove norme. Una seconda variante, più estrema, ritiene che i testi normativi non abbiano alcun significato prima di essere interpretati. Il significato non preesiste all’interpretazione ma ne è il suo risultato13. I giudici sarebbero liberi di attribuire al testo normativo, alla lettera, qualunque significato. Si parla di tramonto e simulacro, oramai, dei criteri dell’art.12 delle preleggi. Della necessità o, peggio, constatazione, di un suo superamento. Spesso si rivendica la giustezza del predetto superamento. I testi normativi non sarebbero diritto ma solo fonti perché il diritto non esisterebbe prima dell’interpretazione. La differenza tra questa variante e la prima consiste che una cosa è dire che esistono, a proposito dei testi normativi, una pluralità di significati possibili, con una molteplicità di interpretazioni, altro è dire che i testi normativi non hanno alcun significato e ammettono qualsiasi interpretazione. I principi della separazione, ma soprattutto bilanciamento, dei poteri, sovranità del parlamento, diventano molto più evanescenti sullo sfondo della civile convivenza e diventa più rilevante il governo dei giudici. c - La teoria eclettica sostiene, nel tentativo di conciliare le precedenti teorie, che l’interpretazione giudiziale è, secondo le circostanze, atto di volontà o atto di conoscenza14. Una prima versione di questa teoria fa riferimento a una certa vaghezza, indeterminatezza, di qualsiasi disposizione giuridica e al suo interno individua un nocciolo duro, dal significato stabile ed accettato, e una zona di penombra15. Ci possono essere casi facili e chiari e casi difficili o dubbi. L’interpretazione è atto di conoscenza nel primo caso e atto di volontà nel secondo. Al contrario secondo la teoria cognitivistica l’interpretazione è sempre atto di conoscenza (trascurando le difficoltà che l’interprete ha ai margini della “trama di un linguaggio”). Per la teoria scettica, invece, l’interpretazione è sempre atto di volontà e trascura che esistono regole condivise e incontestate (tra cui dovrebbe rientrare l’art. 12 preleggi ad esempio). Una seconda versione della teoria eclettica non distingue tra casi facili e casi difficili, ma tra testi chiari ed univoci e testi oscuri ed equivoci. È stato osservato che se per la prima versione la discrezionalità interpretativa dipende dal “mondo (la infinita varietà di controversie o di fattispecie), la seconda versione sostiene che la discrezionalità giudiziale dipende dal linguaggio delle autorità normative, ossia dalla formulazione delle norme giuridiche. I testi normativi possono essere o chiari ed univoci, cioè provvisti di un significato certo e riconoscibile, o equivoci ed oscuri, cioè suscettibili di diverse e configgenti interpretazioni”16. Quando un testo è chiaro e, perciò, non vi sono dubbi circa il significato, l’interpretazione è un atto di conoscenza. Altrimenti sarebbe un atto di volontà. Criterio che, però, non aiuta molto, essendo spesso vicino ad una tautologia o a una petizione di principio. Molto spesso tutto si risolve tramite un atteggiamento mentale
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G. Tarello, Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974, 395; R. Guastini. Interpretare e argomentare, in Trattato di dir. civ. e comm., Milano, 2011, 414. 45. 14 R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., 415. 15 H. L. A. Hart, The Concept of Law, Oxford, 1961. 16 R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit. 417.
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dell’interprete. La teoria cognitivistica, che io sostengo per motivi “politici” cioè anche di coesione sociale e di certezza tendenziale cui si ispira oltre per una questione di potere, potere dei giudici o potere del parlamento, ispira un atteggiamento per cui si disconosce l’esistenza di testi equivoci o oscuri (magari si richiede o richiede che il parlamento faccia meglio il suo compito). La teoria scettica (o realista in senso americano) impone un atteggiamento che tende a disconoscere che esistano testi chiari, il cui significato deve essere solo conosciuto. A seconda di quale atteggiamento mentale si assume, spesso, si è spinti verso una o l’altra teoria. Il significato di un testo normativo è detto oggettivo, corrisponde all’uso comune del linguaggio, alle regole semantiche e sintattiche della comunità cui ci si riferisce (in questo senso presuppone o favorisce una coesione sociale, valore non trascurabile). Il significato di un testo normativo è detto soggettivo, corrisponde alla volontà o intenzione dell’autorità normativa (ma quando non è possibile ricostruirla, di fatto corrisponde a quella dell’interprete). Questa la dicotomia. La prima è esistente, spesso, a livello latente. La seconda è propria dei giuristi, ossequiosi, spesso a parole, verso il legislatore. Se fosse dei giuristi in genere sarebbe un male minore. Diventa più pericolosa quando è in mano di un decisore, come un giudice. Magari di ultima istanza. Alcune domande si possono porre. Gli operatori giuridici si attengono all’uso comune delle parole o ritengono che qualunque interpretazione crea una norma e che si cada “in una notte nella quale tutte le vacche sono nere?”17. Diventando privo di interesse, nel secondo caso distinguere tra i diversi tipi di interpretazione. I giudici hanno solo discrezionalità solo per la decisione di alcuni, marginali, casi concreti, quelli difficili che cadono nell’area di penombra (secondo la teoria eclettica che cerca di conciliare il dualismo sopra indicato)? Si potrebbe aggiungere, però, che tutto dipende, quasi, dall’onestà intellettuale, meglio dall’atteggiamento del singolo. Guastini18, partendo dal presupposto che ogni testo incorpora una varietà di significati (vaghi o no), conclude questo discorso che sarà decisivo per il modo di affrontare il tema della causa concreta, di nascita in gran parte giurisprudenziale, che: a - la chiarezza di un testo segue e non precede l’interpretazione, esso è chiaro solo dopo averlo interpretato; b - il significato è instabile, in un dato momento appare chiaro ma può cambiare anche per via di controversie prima inesistenti; c - l’interpretazione è condizionata da interessi pratici e valori configgenti e i documenti normativi sono equivoci, essendo poi i giuristi capaci di rendere equivoci ogni enunciato. Perciò l’interpretazione giudiziale esige una scelta tra significati confliggenti e questa scelta ha sempre un carattere decisorio e, nel linguaggio di Guastini, ascrittivo cioè attributivo di significato chiamiamolo operativo e specificativo di una genericità. Un carattere
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R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., 425. R. Guastini, Interpretare e argomentare, cit., 430, 431.
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non meramente cognitivo. Personalmente ritengo che simili tesi siano nocive, non solo e non tanto la pericolosità sociale, per la coesione, o per l’attentato alla certezza del diritto o al principio della separazione dei poteri, quanto che un atteggiamento mentale e psicologico del genere di approccio alla norma, favorito da una endemica ambiguità legislativa, se ammissibile in un ambiente di giudice eletto (anche lì ammissibile sempre meno) giustifica chi afferma che a grande indipendenza può corrispondere grande parzialità. Al contrario bisogna tenere uniti i valori di indipendenza ed imparzialità. Ma queste teorie tendono a dividerli o a spingere molti a dividerli. Meglio un atteggiamento, almeno come atteggiamento perché naturalmente si tratta di un ideale irraggiungibile, più illuminista. Una voce autorevole ricorre alla formula del diritto incalcolabile, per indicare il fenomeno della accresciuta imprevedibilità – e, perciò, ingovernabilità – di “ciò che verrà” a motivo della crisi che investe il diritto per fattispecie e dell’ascesa, invece, di un pensare per valori, il cui “preannuncio” si vede nelle clausole generali e si sviluppa nel sempre più frequente ragionare per principi privi di fattispecie. Così privandosi il capitalismo ed i suoi attori di uno strumento essenziale alla sua stessa esistenza. È questa la nota visione di N. Irti19. Infatti il nostro codice attuale, articolo 12 delle preleggi, fa riferimento, per i casi rimasti dubbi, al principio che devono essere decisi “secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”, respinge la concezione che era espressa nel precedente articolo 3, del codice del 1865, dove per principi generali di diritto si può far riferimento anche a principi naturali o di ragione non meglio definiti. A tale proposito, circa l’atteggiamento dei giudici, si deve fare riferimento a una certa versione della cd. ideologia del positivismo giuridico. Cosa significa e cosa intendo? Bobbio20 interpreta le due massime romane “suum cuique tribuere e neminem laedere” nel senso che la prima vuole attribuire a ciascuno ciò che gli spetta secondo un certo ordinamento, cioè instaurare l’ordine, la seconda vuole che non si superino i limiti alla condotta posti da un ordinamento, non invadere la sfera altrui cioè non distruggere l’ordine. Le due massime vengono riportate ai principi “instaurare l’ordine e non distruggere l’ordine”. La funzione del diritto è proprio, appunto secondo l’ottica del giuspositivismo etico moderato, garantire l’ordine e non è divergente da quella che considera “la giustizia come il fine proprio del diritto perché, almeno in base a una certa concezione, la giustizia si identifica con l’ordine”. Questo il percorso argomentativo di Bobbio, le sue conclusioni, che trovo convincenti, cioè il diritto è il mezzo per realizzare l’ordine, cioè un valore strumentale e non assoluto. Perciò nell’interpretare non bisognerebbe mai dimenticare le esigenze di ordine, indicate da Bobbio, ordine sociale, di certezza, valore anche costituzionale, oltre che alcune regole tuttora vigenti che, per esempio, pongono una gerarchia tra norme e fanno dell’art.12 delle preleggi una norma centrale e dell’interpretazione letterale il primo criterio.
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N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016; un’efficace sintesi del pensiero dell’Autore si legge Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 5, 2014, 987. 20 N. Bobbio, Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del diritto raccolte da Nello Morr, Torino, 1996, 236-244.
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2. Bisogna ripartire dall’equilibrio realizzato con il codice civile, dal legislatore, che dedica all’interpretazione della legge un articolo, l’art. 12 delle preleggi che appunto vale per ogni interpretazione di leggi, con tutti i suoi limiti, perché, per esempio il criterio dell’analogia indicato all’art. 12 non può applicarsi alle leggi penali. Perché bisogna ripartire da esso. Perché è centrale? Perché, come pure afferma un’opera molto innovativa21, l’art 12 indica non solo i criteri di interpretazione delle leggi ma anche una loro gerarchia. Essa è importante perché cerca di realizzare il valore della certezza del diritto, che è un valore economico22. In contrapposizione a mode gadameriame, se una società deve realizzare coesione e efficacia economica, conta la calcolabilità e l’affidamento delle decisioni. Infatti Max Weber parla del “bisogno di calcolabilità e di affidamento nel modo di funzionare dell’ordinamento giuridico e dell’amministrazione “come” bisogno vitale del capitalismo moderno”. Irti mette in evidenza come la calcolabilità può trovare applicazione nel decidere secondo la legge, decidere secondo precedenti, decidere secondo il fatto, decidere secondo i valori. Ma la nostra Costituzione ha scelto di decidere secondo la legge, per garanzia di tutti, “permettendo la calcolabilità” e ottenendo così di proteggere e tutelare “la nostra libertà di azione, poiché è libertà sapere a cosa si va incontro”. La scelta tra decidere secondo la legge e decidere, ad esempio secondo i precedenti, che può sembrare innocua ed è praticata altrove, ma non è una questione di dottrina, ma una questione, sostiene Irti, in modo esatto, di potere: se siamo in uno Stato delle leggi, o si proceda verso uno Stato dei giudici. “il diritto giurisprudenziale – ha osservato Paul Koschaker – è opera di giuristi, ma si forma là dove si trova il centro politico dello Stato”23. Diritto razionale è diritto calcolabile. Perciò i criteri di interpretazione sono da rispettare. Non devono essere visti come vuote affermazioni. Primo criterio è l’interpretazione letterale. Secondo criterio, ma subordinato al primo è l’interpretazione teleologica, cioè l’intenzione del legislatore, subordinata come emerge dal testo dell’art.12. Questo ha un’importanza politica e anche ai fini del nostro discorso24. Se i criteri dell’art. 12 delle preleggi non esauriscono i criteri di interpretazione, se l’art. 12 non costituisce un numerus clausus rigido, ma vi possono essere altre tipologie di interpretazione come regole generali, è anche vero che almeno questa gerarchia indicata deve essere tenuta in conto, perché la certezza del diritto (valore generale), il principio della
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L. Viola, Intepretazione della legge con modelli matematici. Processo, a.d.r.,giustizia predittiva, Vol. I, Centro Studi Diritto Avanzato Edizioni, 2017, 23 e ss. 22 A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, Bologna, 2017 dove è evidente il legame tra prevedibilità delle decisioni, certezza del diritto ed economia, intesa la prevedibilità come valore economico, certezza, e prevedibilità che sono valori costituzionali. 23 A. Carleo (a cura di), Calcolabilità giuridica, cit., 22 e 25. 24 Infatti dice Viola “interpretazione teleologica è ammissibile solo in caso di palese contrasto tra il significato letterale manifestato dalle parole secondo la connessione di esse,ed il sistema normativo,e non nella diversa ipotesi in cui il predetto significato letterale tradisca le aspettative di tutela di determinati interessi ritenuti meritevoli sulla scorta di pur apprezzabili esigenze socialmente avvertite come tali, non potendosi attribuire ad una disposizione normativa un significato più ampio di quello legittimamente attribuibile in forza della interpretazione letterale al dichiarato fine di ampliare ‘ambito di operatività per ritenute prevalenti esigenze di tutela di interessi avvertiti come preminenti,essendo questa una funzione tipica dell’atto legislativo,libero nel fine in quanto espressione della sovranità popolare attraverso ‘istituto della rappresentanza articolato nelle assemblee legislative”.
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separazione dei poteri (valore generale), il principio democratico (valore generale), tutti valori anche economici, devono prevalere sul valore del caso singolo, per quanto meritevole e di sicuro non può prevalere l’empatia o l’antipatia del singolo giudice che ha davanti, poi, la solo specifica questione. Perciò rispettare quella gerarchia indicata è importante e l’art.12 delle preleggi ha una valenza costituzionale. Se possono esservi altri criteri, non si può superare il gradualismo indicato dall’art 12 preleggi per motivi di carattere generale e di tenuta e coesione sociale25.
III. Posizione della dottrina. 1. Un esempio di come spesso la giurisprudenza cerca attraverso l’uso di espressioni generiche e/o generali da parte del legislatore, anche favorita dall’uso di clausole generali, di entrare nel merito dell’assetto contrattuale voluto dalle parti, cerca di entrare in valutazioni, di fatto-di merito, di gestione, è rappresentato dal tema della clausola penale dove il ricorso all’equità penalizza la volontà libera delle parti, dove si dovrebbe accertare semmai che la volontà sia libera e consapevole cioè anche informata ma non conformare la volontà secondo presunti criteri26. Un altro esempio è il campo dei derivati e degli investimenti finanziari dove si fa ricorso al c.d. criterio della causa concreta non potendo ricorrere a quello dell’equità. Infatti l’approccio metodologico della dottrina e, soprattutto, della giurisprudenza al fenomeno dei derivati ha visto una certa oscillazione tra l’analisi della validità del contratto, soprattutto dal punto di vista causale, e la verifica del rispetto, da parte degli intermediari finanziari, delle regole di correttezza e trasparenza di cui agli artt. 21 ss. del T.U.F. (d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58). Certi ragionamenti fatti a proposito della causa concreta, con le sue applicazioni in vari ambiti, richiamano le discussioni prospettate a proposito di cosa debba intendersi come meritevolezza ex art. 2645 ter c.c.27.
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L. Viola. Intepretazione della legge con modelli matematici, cit., 40. Cfr. Cassazione sezioni unite civili del 13 settembre 2005 n. 18128. 27 V. V. Lenoci, I contratti finanziari derivati tra regole di validità e regole di condotta, in Studi in onore di Roberto Pardolesi, Il Foro Italiano - La Tribuna, 2018; v. anche R. Clarizia, Nuovi limiti all’autonomia contrattuale delle parti, in Ruscello (a cura di), Studi in onore di Davide Messinetti, I, Napoli, 2008, 271 ss.; sul tema in generale della causa concreta che diventa un modo della giurisprudenza per intervenire su tutta una serie di contratti, quando anche già ci sarebbero altri istituti, V. Roppo, Causa concreta. Una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Rivista di diritto civilei, 4/2013. 957-988, che specifica come dall’egemonia di Emilio Betti e la concezione della causa come funzione economicosociale e alla concezione della causa in termini generali, astratti, oggi si passa a valorizzare tutti gli interessi di cui le parti siano specificatamente portatori in una specifica vendita, si passa alla causa come funzione economico-individuale, alla funzione pratica che le parti hanno effettivamente assegnato al loro accordo, per cui il controllo sulla meritevolezza della causa può diventare molto “incerto”. Infatti, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Trattato Vassalli, 1943, 23, fa riferimenti dai quali emerge una matrice di ispirazione “fascista”; ‘autonomia privata dovrebbe esprimersi non solo nel rispetto di limiti negativi, non contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico, al buon costume, ma anche di limiti positivi rappresentati dal riconoscimento del superiore interesse collettivo espresso dall’utilità sociale e al di fuori di questo ambito ‘autonomia privata non dovrebbe trovare tutela da parte dell’ordinamento, perché ci sarebbe sempre ‘esigenza di conformare ‘autonomia ad un interesse superiore rispetto al quale non porsi mai in contrasto, con una reinterpretazione del concetto di meritevolezza non più in chiave negativa ma in chiave positiva con 26
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Naturalmente estendendo certi discorsi, riprendendo quanto già sopra enunciato sull’interpretazione giurisprudenziale, il superiore interesse cui molti fanno riferimento, al quale dovrebbe ispirarsi il criterio della meritevolezza, se non giustifica matrici dirigistiche di ispirazione “fascista” ispira una sorta di amministrazione giudiziale degli interessi privati? Di sicuro richiama, come risposta, la preoccupazione di Ferri il quale paventa il pericolo che una clausola generale di meritevolezza metta il giudice in condizione di esprimere “il peso della sua ideologia (e degli eventuali tatticismi che questa gli imponga), dei suoi estri personali, della sua conoscenza di cose giuridiche ed economiche con un’arbitrarietà non consentita”28. Infatti, gli investitori, a proposito dei derivati e degli investimenti finanziari (dove spesso la giurisprudenza fà ricorso al concetto di causa concreta), hanno bisogno di fidarsi di qualcuno, di operatori professionali che coprano il gap informativo di cui i primi soffrono: se gli intermediari finanziari, che a vario titolo ed in diverse fasi si interpongono fra emittenti e risparmiatori, riescono a guadagnarsi la fiducia dei risparmiatori, le risorse finanziarie di questi ultimi affluiscono anche sul mercato diretto dei capitali; altrimenti no, e quelle risorse sono dirottate verso altre tipologie di investimento. Gli investitori non hanno bisogno di giudici che sindacano il contenuto del contratto ma di operatori affidabili e che seguano certe regole di comportamento. Da ciò deriva l’importanza, nel mercato finanziario, della correttezza e della completezza delle informazioni che vengono fornite agli investitori. L’informazione assume un ruolo centrale nel sistema delle regole di condotta per la prestazione dei servizi di investimento, allo scopo di favorire scelte consapevoli e di fronteggiare l’asimmetria informativa che caratterizza il rapporto tra risparmiatore ed intermediario finanziario. Dunque, se si guarda all’orientamento, che privilegia un’attenzione a come si comportano gli intermediari più che a conformare e dettare regole su come deve essere il contratto, il contratto di investimento sarebbe comunque valido, ma la violazione dei doveri di informazione e cautela dell’intermediario determinerebbe un inadempimento contrattuale. A sostegno di tale tesi, militerebbe anche l’art. 23, comma 6, t.u.f., secondo il quale “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta29. Ma la giurisprudenza
‘assunzione del concetto di meritevolezza quale “grimaldello per il riconoscimento di nuovi schemi negoziali” cfr. M. Bianca, Alcune riflessioni sul concetto di meritevolezza degli interessi, in Riv. dir. civ., 2011, I, 808; Guarneri, Meritevolezza dell’interesse, in D. disc. Priv. sez. civ., 1994, XI, 324-326; come del tema causa concreta si fa applicazione in diversi ambiti non solo quello dei derivati a cura di F. Alcaro. Causa del contratto. Evoluzioni interpretative e indagini applicative, Milano, 2016. L. Mezzasoma, Meritevolezza e trasparenza nei contratti finanziari, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, 181. 28 G.B. Ferri, Meritevolezza degli interessi ed utilità sociale, in Saggi di diritto civile, 1983, 324. Che un giudizio di merito sia almeno sconsigliabile è testimoniato dall’assenza di ogni considerazione circa il merito sia a proposito del riconoscimento delle fondazioni sia per la costituzione di società di capitali dove si è negata validità alla tesi di Portale che voleva creare un legame tra mezzi patrimoniali della costituenda società e iscrizione della medesima nel Registro imprese, cfr. S. Fortunato, La società a responsabilità limitata. Lezioni sul modello societario più diffuso, Torino, 2017, 64, App. L’Aquila, 13 giugno 1980, in Foro it., 1981, I, 2083; Trib. Trieste, 18 dicembre 1985, in Giur. comm., 1987, II, 331; Trib. Napoli, 12 gennaio 1989, ivi, 1989, II, 426; App. Milano, 13 luglio 1996, in Riv. notar., 1996, 1524). 29 V. Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con le sentenze “gemelle” nn. 26274 e 26275 del 19 dicembre 2007, hanno stabilito
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non sempre privilegia questo aspetto e al contrario pone l’accento su un eventuale vizio genetico del contratto di investimento. Si vuole limitare l’autonomia dei soggetti. Oltre misura. Cioè si afferma che della necessità di limitare l’autonomia negoziale si è reso conto, anche su indicazione della normativa comunitaria, lo stesso legislatore ordinario, il quale ricorre spesso a discipline di settore che vincolano l’autonomia negoziale, piegandola alle esigenze di tutela della parte debole. Ma, al di là del controllo sulle regole formali e sul rispetto degli obblighi informativi previsti in alcun settori contrattuali (primo fra tutti, quello dell’intermediazione finanziaria), la tendenza giurisprudenziale più recente appare orientata nell’operare un controllo più penetrante, diretto a sindacare la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti (secondo il classico schema dei contratti atipici previsto dall’art. 1322 c.c.), e, attraverso di essi, lo schema causale del contratto. Tale controllo sta diventando, sempre di più, lo strumento attraverso cui sindacare un dato regolamento negoziale in funzione della sua aderenza e conformità all’ordinamento. Per ottenere il risultato ci si rifà, non al concetto di equità come nel caso della clausola penale, ma a quello di causa. Infatti recenti impostazioni che hanno abbandonato il concetto di causa quale funzione economico-sociale del contratto, per attestarla su una nozione di funzione economico-individuale, che tenga conto degli interessi concretamente e reciprocamente perseguiti dalle parti, la cd. causa concreta30. Tale ultimo concetto, in particolare, impone di verificare la reale consistenza e giustificazione dei reciproci interessi delle parti, quali obiettivati in quello specifico negozio, indipendentemente dalla corrispondenza dello stesso negozio ad uno schema astratto tipico. Da una tale impostazione discende inevitabilmente un consistente ampliamento dei poteri di sindacato del giudice sul contenuto del contratto, che ovviamente si spingerà fino alla verifica della meritevolezza degli interessi in gioco31. Il problema si sposta sui criteri di valutazione di tale meritevolezza, e, a tal proposito, si pone in evidenza come tale valutazione debba necessariamente basarsi sui valori costituzionali e sui principi generali che caratterizzano il nostro ordinamento32. Sotto
che “la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni, che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario, può dar luogo a responsabilità precontrattuale con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti. Può, invece, dar luogo a responsabilità contrattuale ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può, però, determinare la nullità del contratto d’intermediazione o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418, comma 1, c.c.”. 30 F. Rossi, La teoria della causa concreta e il suo esplicito riconoscimento da parte della Suprema Corte, in Rass. dir. civ., 2008, 573 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto, Milano, 2000, 452 ss.; D. Carusi, La disciplina della causa, in I contratti in generale, vol. I, Trattato dei contratti diretto da Rescigno, Torino, 1999, 531 ss.; U. Breccia, Causa, in G. Alpa, U. Breccia, A. Liserre, Il contratto in generale, (vol. XIII, Trattato di diritto privato diretto da Bessone), Torino, 1999, 1 ss. In giurisprudenza, Cass. 12 novembre 2009, n. 23941, in Guida al diritto, 2009, 50, 55; Cass. 8 maggio 2006, n.10490, in Riv. notariato, 2007, I1, 180, con nota di C. Ungari Transatti, La Cassazione sposa la tesi della causa in concreto del contratto. Richiama la nozione di causa concreta anche Cass., sez. un., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Foro it., 2013, I, 1534, in tema di giudizio di fattibilità del concordato preventivo. 31 F. Marinelli, La causa e ‘oggetto del contratto nella dottrina civilistica italiana, in Giust. civ., 1995, II, 332; L. Mezzasoma, Meritevolezza e trasparenza nei contratti finanziari, cit., 182 66. 32 M. Pennasilico, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti. Per un’ermeneutica rinnovata, Napoli, 2011, 156 ss.; R. Di Raimo,
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questo profilo, si tende allora a distinguere tra giudizio di liceità e giudizio di meritevolezza del contratto: mentre il primo si pone come limite negativo esterno di non contrarietà a norme imperative all’ordine pubblico o al buon costume, il secondo si pone come limite interno e contenutistico, riguardando la verifica della conformità della causa ai principi ed ai valori costituzionali. Giudizio di liceità e giudizio di meritevolezza, quindi, “devono essere intesi quali due controlli che, portati avanti contestualmente da parte dell’interprete, sono entrambi necessari al fine di verificare la conformità all’ordinamento dell’agire umano in ambito negoziale”33. L’autonomia negoziale, pertanto, benché libera, è comunque sottoposta a controlli, programmi ed interventi esterni, i quali certo non sono più come
Considerazioni sull’art. 2645-ter c.c.: destinazione di patrimoni e categorie dell’iniziativa privata, in Rass. Dir. Civ., 2007, 982 ss.; E. Giorgini, Ragionevolezza e autonomia negoziale, Napoli, 2010, 200 ss. 33 Perciò si impone di verificare la reale consistenza e giustificazione dei reciproci interessi delle parti, quali obiettivati in quello specifico negozio, indipendentemente dalla corrispondenza dello stesso negozio ad uno schema astratto tipico. Da una tale impostazione discende inevitabilmente un consistente ampliamento dei poteri di sindacato del giudice sul contenuto del contratto, che ovviamente si spingerà fino alla verifica della meritevolezza degli interessi in gioco, v. F. Marinelli, La causa e ‘oggetto del contratto nella dottrina civilistica italiana, in Giust. civ., 1995, II, 332. Il problema si sposta, allora, sui criteri di valutazione di tale meritevolezza, e, a tal proposito, si pone in evidenza come tale valutazione debba necessariamente basarsi sui valori costituzionali e sui principi generali che caratterizzano il nostro ordinamento – v. R. Di Raimo, Considerazioni sull’art. 2645-ter c.c.: destinazione di patrimoni e categorie dell’iniziativa privata, in Rass. Dir. Civ., 2007, 982 ss.; E. Giorgini, Ragionevolezza e autonomia negoziale, Napoli, 2010, 200 ss. Giudizio di liceità e giudizio di meritevolezza, quindi, “devono essere intesi quali due controlli che, portati avanti contestualmente da parte dell’interprete, sono entrambi necessari al fine di verificare la conformità all’ordinamento dell’agire umano in ambito negoziale” – v. L. Mezzasoma, Meritevolezza e trasparenza nei contratti finanziari, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, 182.; P. Perlingieri, Profili istituzionali del diritto civile, Napoli, 1975, 49. L’autonomia negoziale, pertanto, benché libera, è comunque sottoposta a controlli, programmi ed interventi esterni, i quali certo non sono più come nell’epoca fascista finalizzati a realizzare un principio di autarchia e corporativismo, ma sono rivolti a realizzare un sistema diverso che pone all’apice della gerarchia dei valori il rispetto della persona umana e la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale. La valutazione di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c., è stata operata dalla giurisprudenza anche con riferimento ai contratti derivati e il giudice entra sempre nel merito del contenuto del contratto sindacando il regolamento negoziale “ad un simile regolamento negoziale ‘ordinamento non può allora apprestare alcuno strumento di tutela, quale il riconoscimento di efficacia di cui all’art. 1322 cpv. c.c.: se i soggetti dell’ordinamento sono tendenzialmente liberi di concludere anche patti per sé rovinosi, tuttavia, se lo squilibrio dipende dalla sproporzione delle posizioni di partenza e dalla minorata difesa di uno dei contraenti per la preoccupazione previdenziale e la non esperienza nel settore e dalla particolare aggressività dell’altro quale professionale intermediario nella raccolta del risparmio e delle operazioni finanziarie, ‘ordinamento stesso non può prestare tutela - nella forma di garantire la coercibilità delle obbligazioni così assunte, riconoscendone la giuridica efficacia - al soggetto che di questo manifesto squilibrio può godere i frutti”.v. Cass. 30 settembre 2015, n. 19559, in Banca, borsa, tit. credito, 2016, II, 137, con nota di A. Tucci, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale; nello stesso senso Cass. 27 febbraio 2017, n. 4907, in, 10 marzo 2017; Cass. 3 gennaio 2017, n. 37, in; Cass. 29 febbraio 2016, n. 3949, ibid. In particolare, con riferimento ai contratti di Interest Rate Swap, conclusi con finalità di copertura ma aventi, in concreto, natura speculativa, si è posto il problema della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, tenendo conto della assunzione dell’alea da parte del cliente. Sotto questo profilo, tuttavia, la tendenza giurisprudenziale è quella di valutare in senso positivo la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, purché sia chiara la natura e la funzione del contratto. In particolare, se non vi sono dubbi circa la sussistenza del profilo della meritevolezza nel caso di contratti derivati con funzione di copertura, più problematica è tale valutazione, nei casi di derivati con funzione puramente speculativa. Quello che conta è, secondo la Corte di Cassazione la necessaria cura dell’interesse oggettivo del cliente – interesse oggettivo che lei definisce e che si inserisce nella che generale valutazione di meritevolezza degli interessi. Ma tutto invece spetterebbe al legislatore che potrebbe decidere un bilanciamento degli interessi, di tutti, ma anche un prevalere di uno di essi, non necessariamente quello preferito. I giudici diventano protettori e definiscono loro il contenuto della c.d. meritevolezza. Perciò il criterio potrebbe essere esteso in tutti i campi anche al di fuori del mercato finanziario e attraverso un “autoriconoscimento di un giudizio di meritevolezza”, ogni giudice, al di là del comportamento tenuto, può entrare nel merito di ogni affare.
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nell’epoca fascista finalizzati a realizzare un principio di autarchia e corporativismo, ma sono rivolti a realizzare un sistema diverso che pone all’apice della gerarchia dei valori il rispetto della persona umana e la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale34. 2. Questi ragionamenti si ritrovano praticamente identici a proposito di molte analisi riferite al nostro art. 2645 ter cc.. Vediamoli. Come già visto, il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. deve essere finalizzato alla realizzazione di «interessi meritevoli di tutela» ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c., riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche. Il requisito della meritevolezza potrebbe apparire pleonastico, in quanto già previsto in materia di contratti, ed estensibile anche agli atti unilaterali (art. 1324 c.c.). In realtà, dato che il vincolo di destinazione non è che uno «schema astratto», con contenuto «atipico», e può prestarsi ad utilizzi disparati, e dato soprattutto che l’opponibilità a terzi e la segregazione che ne derivano danno luogo ad un fenomeno di separazione patrimoniale a danno dei creditori del proprietario del bene, con questa precisazione il legislatore ha voluto subordinare la prevalenza degli interessi del beneficiario del vincolo, rispetto a quelli dei creditori del proprietario ed agli altri terzi, alla condizione che i suddetti interessi del beneficiario siano «meritevoli di tutela». Perciò il profilo della meritevolezza è l’aspetto centrale dell’istituto: il sacrificio dei creditori è giustificato da questo aspetto e non da altro. La deroga al principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. presuppone sia che il vincolo sia adeguatamente conoscibile da parte dei creditori del disponente (requisito formale), sia che detto vincolo sia costituito per un interesse «meritevole di maggior tutela» rispetto a quello dei medesimi creditori (requisito sostanziale, o assiologico). Il filtro di meritevolezza assolve, quindi, una ulteriore funzione, analoga a quella svolta dall’art. 1379 c.c., che subordina la validità del divieto convenzionale di alienazione alla sussistenza di un «apprezzabile interesse di una delle parti». Quello della giustificazione causale è, quindi, il limite intrinseco alla configurabilità di vincoli di destinazione con efficacia erga omnes35. Dunque si apre il campo a varie domande. Il sacrificio degli interessi dei creditori è stato legittimato una volta per tutte dal legislatore con l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., agli effetti del quale è sufficiente individuare – per legittimare la nascita di un vincolo reale di destinazione – un interesse sufficientemente serio da prevalere su altri? Deve infatti ritenersi che l’indagine di meritevolezza costituisca il presupposto non solo della trascrivibilità, ma anche della validità del regolamento negoziale? In assenza di meritevolezza, quindi, l’atto non sarà ricevibile dal notaio? Sarà applicabile l’art. 28 del la legge notarile, che presuppone la possibilità per il notaio di riscontrare con certezza la «manifesta» contrarietà dell’atto a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. In ogni
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P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 348 ss. Per il dibattito sul requisito di meritevolezza, quale requisito causale nei contratti, cfr. in particolare L.M. Petrone, Utilizzo giurisprudenziale del concetto di «meritevolezza», in Obbligazioni e contratti, 2006, 50; F. Di Marzio, Appunti sul contratto immeritevole, in R. d. priv., 2005, 305; A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XI, Torino, 1994, 324.
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caso nessun controllo di meritevolezza può essere effettuato dal conservatore dei registri immobiliari all’atto della richiesta di trascrizione del vincolo, posto che la trascrizione medesima può essere rifiutata nei soli casi tassativamente previsti dall’art. 2674 c.c.?36 Del resto la portata politica della questione, evidenziata con la trattazione di cui sopra circa l’atteggiamento in tema di interpretazione assunto dalla giurisprudenza, assume maggiore rilevanza alla luce non solo delle considerazioni già svolte in tema di causa concreta o altri istituti già richiamati, ma anche perché il concetto di meritevolezza, sfuggente e ambiguo, può essere utilizzato in parecchie occasione e permette operazioni molto ampie, anche per volontà dello stesso legislatore che, così facendo, si sottrae a parecchie responsabilità. Infatti il richiamo alla meritevolezza degli interessi non costituisce una novità assoluta ai fini di cui trattasi, posto che analoga incombenza sussisteva, e sussiste, a proposito del trust come riconosciuto dalla Convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985: si ritiene, infatti, che l’art. 13 di tale Convenzione – in base al quale «nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione» – tende ad impedire il riconoscimento di quei trusts che risultino non meritevoli di tutela. Perciò più si fa ricorso a schemi atipici e più il criterio di cosa significa meritevolezza diventa centrale, perché permette l’entrata di ogni nuova figura e si pone sul crinale della questione se sia più rilevante la volontà delle parti o un controllo pubblicistico e di che tipo. L’esigenza del controllo di meritevolezza è propria di ogni «schema atipico», si tratti di contratti diversi da quelli espressamente disciplinati o di una struttura generale come il trust (o vincolo di destinazione), che rappresenta un «contenitore» suscettibile di essere «riempito» con i più svariati contenuti37. Proprio nell’esperienza relativa al trust si è evidenziata un’ampia casistica di interessi, che la dottrina ha ritenuto meritevoli di tutela, a fronte dei quali risulterebbe quindi legittimo costituire un vincolo di destinazione38. Si tratta di interessi della più svariata natura, che possono avere natura sia personale che patrimo-
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Cfr. sui punti L.M. Petrone, Utilizzo giurisprudenziale del concetto di «meritevolezza», cit., 50; F. Di Marzio, Appunti sul contratto immeritevole, in R. d. priv., 2005, 305; A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XI, Torino 1994, 324; A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in questa Rivista, 1994, I, 799. Sul ruolo del notaio in relazione al controlo di meritevolezza, cfr. Aa.Vv., Il ruolo del notaio nella formazione del regolamento contrattuale, a cura di Perlingieri, Napoli 1976. Cfr. Cass. 1 febbraio 2001 n. 1394, in R. not., 2001, 892; Cass. 4 novembre 1998 n. 11071, in R. not., 1999, 1014; Cass. 19 febbraio 1998 n. 1766, in R. not., 1998, 704; Cass. 4 maggio 1998 n. 4441, in R. not., 1998, 717; Cass. 11 novembre 1997 n. 11128, in Notariato, 1998, 7. In dottrina, cfr. in particolare Gentili, Atti notarili «proibiti» e sistema delle invalidità, in R. d. priv., 2005, 255; Donisi, Art. 28 della legge notarile: baricentro della professione, in Rass. d. civ., 2003, 75; P. Zanelli, La nullità «inequivoca», in Contratto e impr., 1998, 1259. 37 La dottrina limita tradizionalmente ‘ambito di applicazione del controllo di meritevolezza ai contratti atipici: cfr. le riflessioni di R. Sacco, Il contratto, II, Torino 1993, 446 ss.; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, Torino 1980, 31. Contra, C.M. Bianca, Diritto civile, 3. Il contratto, Milano 1984, 450. Per ‘estensione di detto requisito anche alle clausole atipiche di contratti tipici, v. Trib. Firenze 4 febbraio 2003, in Rep. Foro it., 2003, voce Mediazione, n. 35; Pret. Brindisi 10 novembre 1998, in Rep. Foro it., 2002, voce Contratto in genere, n. 425. 38 Cfr. la casistica riportata in G. Petrelli, Formulario notarile commentato, III, 1, cit., 934 ss. (ove riferimenti di dottrina); Lupoi, Atto istitutivo di trust, Milano, 2005, 513 ss.
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niale; ogni esemplificazione non potrebbe che essere incompleta, stante l’enorme varietà degli interessi che il vincolo di destinazione in oggetto, al pari del trust, può soddisfare. Sembrerebbe tuttavia importante chiarire che l’interesse «meritevole di tutela» non può consistere nella mera salvaguardia del patrimonio del costituente da azioni esecutive dei propri creditori: tale salvaguardia costituisce semmai l’«effetto» del vincolo di destinazione, ma non la «causa» del medesimo, che deve rinvenirsi in un ulteriore interesse del beneficiario (che può essere il medesimo costituente un terzo), meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c. Ma parimenti, l’interesse meritevole di tutela non può consistere nella mera esigenza di rendere inalienabile e indisponibile il bene vincolato? Un tale obiettivo può essere raggiunto, quale scopo-mezzo, solo nella misura in cui l’interesse alla non alienazione sia «causalmente giustificato» da un ulteriore interesse meritevole (scopo-fine), di natura personale o patrimoniale, del beneficiario? Vediamo le risposte a questi quesiti. Secondo una prima visione, applicabile anche all’art. 2645 ter, si è avuta un’identificazione del concetto di meritevolezza, che viene equiparato con i requisiti di liceità. Si arriva a sovrapporre i criteri di liceità e di meritevolezza, giungendo a configurare un’impossibilità tra un contratto lecito ma immeritevole39. La lettera dell’articolo in esame potrebbe giustificare una tale interpretazione (“gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo.”). Si può sostenere che già il legislatore indica gli interessi meritevoli di tutela ai sensi dei quali possono essere costituiti questi atti? Gli interessi meritevoli di tutela sono solo quelli “riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma”? Il richiamo all’art 1322 secondo comma è solo pleonastico o fatto per richiamare in modo generico un’autonomia delle parti per configurare in modo concreto l’interesse, ma esso è anche tipizzato nel senso che deve perseguire o realizzare solo quelle finalità, o almeno così deve essere se si vuole un atto trascrivibile con i conseguenti effetti? La meritevolezza può prescindere da una tipizzazzione, nell’articolo in particolare questa tiizzazione non c’è e (anche) il riferimento dell’art.2645-ter serve per rendere non solo legittimi, ma soprattutto trascrivibili con gli effetti segregativi che
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L. Contursi - D. Lisi, Contratti atipici, in GSDCC, 1997, I, 69-86; v. in senso contrario F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, 62.
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ne derivano, atti che perseguano interessi meritevoli perché e purchè (e basta che siano) leciti? Lo sono sicuramente quelli indicati esplicitamente? Quelli indicati esplicitamente rendono l’atto trascrivibile, ma anche altri lo possono rendere tale? Comunque anche nell’ambito di interessi che fanno riferimento a quelli indicati esplicitamente, bisogna nel concreto verificare il loro contenuto? La risposta a tali ultime domande potrebbe partire da una concezione e giungere alla conclusione che appare necessaria una cernita degli scopi anche in considerazione della tutela e degli effetti che ne conseguono verso i creditori. Cioè la meritevolezza deve tenere conto di interessi metaindividuali. Questa risposta parte dal presupposto che l’art. 2740 cc e il principio di responsabilità illimitata sia appunto un principio generale e ammette solo eccezioni. Ma tale assunto se anche fosse stato vero in passato potrebbe non esserlo più oggi, in base a questa o altre novità legislative. Prima di tutto è proprio il legislatore che può indicare cosa sia un principio generale derogabile eccezionalmente e cosa non lo sia più. Dunque la risposta sopra data a quei quesiti corrisponde all’accettazione di certi presupposti. Ma non tutti li accettano e non tutti sono d’accordo. Molti privilegiano anche un’interpretazione letterale della norma in questione. Una parte della dottrina ritiene che ogni interesse lecito (sicuramente quelli indicati dalla norma, ma non solo) giustificherebbe una separazione patrimoniale. Altra parte ritiene che sia necessario un “qualcosa d’altro” (si distingue in tesi cd. pubblicistiche e tesi cd relazionali). Il rinvio contenuto nella norma all’art 1322 cc, servirebbe per far si che gli atti di destinazione debbano essere connotati negativamente per l’assenza di illecità, ma non esclude che debbano, positivamente, presentare elementi che li rendano socialmente meritevoli. Ritengo che la giurisprudenza della Cassazione40 e la dottrina colga nel giusto quando affermano che la meritevolezza assume il significato di non contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume41. Una diversa interpretazione sarebbe foriera di incertezza, arbitrarietà dell’interprete, sia esso in primo luogo il notaio e dopo il giudice. La certezza e la non arbitrarietà è, come detto un valore, giuridico-costituzionale,
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V. la giurisprudenza citata in L. Contursi - D. Lisi, Contratti atipici, in GSDCC, 1997, I, 69-86. A. Falzea, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto di destinazione, 2007, 7: «il requisito di meritevolezza dell’atto di destinazione allo scopo non sia diverso dal requisito richiesto per qualsiasi contratto atipico e debba essere trattato allo stesso modo»; G. Vettori, Atto di destinazione e trascrizione, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, 2007, 176, sostiene che la meritevolezza «è rivolta ed affermata in ordine ad una valutazione di interesse che non deve affatto essere prevalente rispetto ad altri interessi. […] Si è usato questo riferimento alla meritevolezza perché nella giurisprudenza prevalente il termine equivale a non illiceità»; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. Dir. Civ., 2006, II, 161: «non si richiede una particolare pregnanza dell’interesse del disponente, cioè la verifica da parte dell’interprete di una sua graduazione poziore rispetto all’interesse dei creditori o alla libera circolazione dei beni», ma basta individuare «un interesse sufficientemente serio da prevalere sull’interesse economico generale»; G. Oppo, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto di destinazione, 2007, 13, afferma che «non vi sono argomenti sufficienti per limitare la meritevolezza codicistica (ex art. 1322) dell’interesse e i possibili beneficiari»; G. Palermo, Configurazione dello scopo, opponibilità del vincolo, realizzazione dell’assetto di interessi, in La trascrizione dell’atto di destinazione, 2007, 77, «(…) per quello che può essere ormai considerato ius receptum, il giudizio di meritevolezza dell’interesse perseguito, al quale si riferisce ‘art. 1322 secondo comma c.c., è essenzialmente un giudizio di ragionevolezza del disporre (…), non sembra che debbano essere svolti ulteriori argomenti per dimostrare ‘assoluta inconsistenza di ogni tentativo, volto a ridurre ‘ambito di applicabilità dell’art. 2645 ter c.c., facendo leva su esigenze solidaristiche, al soddisfacimento delle quali ‘esercizio del potere di autonomia dovrebbe ritenersi subordinato»; A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. dir. civ., 2007, 16.
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che tutela l’ordine, in senso bobbiano come scopo che un ordinamento deve preseguire. È un valore anche economico, che serve alla calcolabilità del diritto. Al massimo si può ritenere, perché rientra in principi affermati comunque in modo positivo che l’interesse, come afferma il Petrelli debba essere comunque sufficientemente serio da prevalere su altri interessi economici generali, nel senso che non sia frivolo o fraudolento. Senza estendere il concetto di serietà in modo eccessivo per non far rientrare dalla finestra l’impostazione uscita dalla porta. Anche i lavori preparatori o il parere espresso dalla Commissione Permanente di Giustizia che ha preceduto l’adozione del decreto legge 273/2005 sembrerebbe confermare questa impostazione (Parere espresso in data 28 giugno 2005, reperibile sul sito). Gli unici parametri sarebbero, rendendo certo il giudizio preventivo del notaio, quello successivo del giudice, a parte quelli indicati dal legislatore che potrebbero intendersi come integrativi, il rispetto delle norme inderogabili, dei principi di ordine pubblico e del buon costume (pur facendo la tara all’ambiguità di queste espressioni). Nel loro controllo, temperato dall’evitare scopi fraudolenti o frivoli, consisterebbe la valutazione relativa alla meritevolezza. Realizzando il rispetto dell’autonomia e volontà delle parti con l’assenza di ogni paternalismo non necessario. I creditori dovrebbero tenere conto da una parte che il principio desumibile ex art. 2740 oggi potrebbe essere, per volontà legislativa, non assoluto, e dall’altra parte si potrebbe agire sempre a loro tutela con gli articoli 2929 bis cc e 2901 c.c. Del resto il principio di libertà negoziale ribadito attraverso il richiamo all’art. 1322 c.c. può essere coordinato con la pretesa graduazione degli interessi, onde poterne valutare la prevalenza rispetto a quello dei creditori o alla libera circolazione dei beni. In altri termini, il Legislatore avrebbe già effettuato detta comparazione prevedendo il sacrificio degli interessi da ultimi menzionati. Inoltre ammettere il trust nel nostro ordinamento, con la salvezza anche per questo istituto realizzata circa gli interessi dei creditori ecc.. significa che, richiedere per l’art.2645 ter cc requisiti maggiori e diversi, è un fuori luogo. Diventa poco razionale, anche poco ragionevole ai fini di un’interpretazione costituzionalmente orientata, cioè disciplinare situazioni simili in modo diverso, cioè prevedere per i vincoli di destinazione requisiti diversi, più severi, che poi diventano più arbitrari rispetto a quelli previsti per i trust. Eppure c’è chi ha sostenuto, come già accennato, che accanto alla liceità dell’interesse bisogna tener conto della ragionevolezza della destinazione o della prevalenza sull’interesse economico generale. E queste tesi sono basate sul fatto che saremmo in presenza di una deroga al principio di responsabilità patrimoniale ex art 2740 cc. Tesi qui contestata, almeno come valenza assolutamente generale di questo principio posto che quello che conta è la volontà legislativa e non presunti principi astratti e la volontà legislativa cambia e potrebbe essere cambiata nel tempo, posto che comunque l’azione revocatoria e tutti i rimedi in tema di trust rimarrebbero. Si aggiunge che non si può dar
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rilievo a motivi o interessi meramente futili, stravaganti o vani42. Ma su questo secondo punto, posto che sulla ragionevolezza di una certa destinazione si potrebbe discutere, il fatto è che se si ritiene che la volontà delle parti, la loro autonomia sia un principio (almeno altrettanto) “sacro” che quello della tutela dei terzi, creditori ecc.., una volta che la destinazione e il negozio non lede i diritti dei creditori o comunque per essi la tutela ex 2929 bis e 2901 ecc..continua a rimanere, perché negare che non possano essere perseguiti anche interessi (considerati) futili? Per aderire una concezione paternalista, per la quale deve essere un altro (la pubblica amministrazione durante l’era fascista, il mutevole e cangiante giudice adesso) a indicare la meritevolezza? Quando i creditori sono comunque tutelati e, sapendo le novità legislative anche loro come tutti possono prendere tutte le iniziative (preventive e non) che ritengono. Perciò una parte della dottrina, con un senso esagerato di tipo dirigista, interpreta la disciplina in senso restrittivo: un interesse non illecito non può prevalere su un interesse costituzionale, o connotato da pubblica rilevanza. Bisognerebbe rifarsi ad un concetto di pubblica utilità che “un tempo era alla base del riconoscimento delle fondazioni” (Gazzoni). Gli interessi ritenuti meritevoli sono solo quelli connotati da pubblica utilità. Ma a parte che già la norma richiama alcuni di questi interessi caratterizzati da questi requisiti e non si capisce, dal punto di vista letterale (che dovrebbe essere il primo criterio interpretativo), perché allora il legislatore che aveva presente alcuni interessi specifici collettivi, non abbia previsto una clausola più generale. La verità è che si è voluto prevedere un istituto che oltre a preseguire specifici interessi collettivi (non necessariamente pubblici) espressamente indicati, ha poi voluto lasciare un pò di autonomia e libertà alle persone, senza sempre dover “caricarle della soluzione di ogni male del mondo” soprattutto quando i loro creditori hanno delle tutele. Già il notaio farà il filtro degli interessi, nella sua opera di consiglio e di controllo di legalità (cioè appunto liceità). Nel consiglio notarile rientra anche in modo (non coartante) indicare, magari certi scopi, ma lasciando libertà alle parti quando i diritti dei terzi creditori hanno tutela. Le parti, con i loro beni, a quel punto possono anche fare quello che vogliono. Il notaio farà fare quello che possono, rendendo pubblico e certo l’atto e conoscibile a tutti i terzi che, se vogliono, possono esercitare le impugnazioni se ritengono che sussistano i presupposti, impugnazioni che come a proposito del trust, rimangono integre. Del resto il riferimento alla fondazione che autorevole dottrina compie mi sembra incongruo perché, da un punto di vista letterale esiste un’assenza di dati testuali dai quali desumere un’identità del concetto di meritevolezza con quello di pubblica utilità, e l’attuale disciplina in tema di riconoscimento delle fondazioni (DPR 361/2000, art.1) subordina il riconoscimento alla liceità dello scopo e all’adeguatezza patrimoniale. Non ad altro. Tanto è vero che le fondazioni
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F. Gazzoni, Osservazioni, in La trascrizione dell’atto di destinazione, 2006, 216: «La stravaganza, la futilità, la vanità avrebbero allora libero corso, prevalendo sull’interesse dei creditori e sullo stesso disposto dell’art. 2740 c.c. […] ‘incostituzionalità dell’art. 2645 ter c.c. per violazione dell’art. 3 Cost. in punto di irragionevolezza sarebbe ben sostenibile».
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si diffondono e, per rispetto del principio di libertà e autonomia delle parti, potremmo dire come e negli stessi limiti del trust, nessuno ritiene che oltre alla liceità dello scopo occorra la meritevolezza intesa come perseguimento di pubblica utilità43. Da respingere, pertanto sono quelle opinioni che addirittura identificano alcuni interessi che la norma indica con il criterio di meritevolezza44. Gli interessi indicati integrerebbero quello della meritevolezza. Se ci sono i primi, tanto basta, ma che la meritevolezza debba essere ricondotta, per esempio al soccorrere i disabili o a quelle situazioni espressamente menzionate, non è detto dalla norma. Norma, l’art 2645 ter, che dovrebbe essere considerata almeno al pari della costituzione di una fondazione o di un trust. Se ci sono quegli interessi “meritevoli” di cui parte della dottrina (Oberto) fa una cernita, bene (e nessuno lo vieta). Ma perché il giudizio di meritevolezza deve essere ricondotto solo ad essi, posto che la norma non lo dice? Diventa un esempio di paternalismo, chi impone la presenza di interessi, anche quando scelte diverse non pregiudicherebbero nessuno, come fanno coloro che ritengono che l’art. 2645 ter c.c. si riferisca a tutti gli «interessi non lucrativi, che assumono rilevanza sul piano della morale o sono socialmente utili, in attuazione di principi solidaristici»45. In verità si verrebbe ad attribuire o al notaio o al giudice dei
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G. Amadio, Note introduttive - Gli interessi meritevoli, in Studio del Consiglio Nazionale del Notariato 357-2012/C, Atti di destinazione – Guida alla redazione, 54: «Così, nel settore no profit, dimostra il nuovo regime di riconoscimento persone giuridiche (DPR 361/2000: abrogaz art. 12 c.c.). Riconoscimento (consistente nell’iscrizione nel relativo registro) subordinato unicamente all’accertamento della “possibilità e liceità dello scopo” nonché all’”adeguatezza del patrimonio”, con abbandono di qualsiasi riferimento alla natura pubblica dell’interesse sottostante la costituzione. Non di diritto positivo, ma presente in più di un progetto di riforma, è ‘analoga ridefinizione dello scopo della fondazione (nel senso di una sua riscrittura in termini non più di pubblica utilità ma di liceità)». 44 A. De Donato, Elementi dell’atto di destinazione, atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», organizzato a Milano dal Consiglio Notarile di Milano il 19 giugno 2006: «La menzione dei disabili permea di sé ‘intera norma e ne costituisce la chiave di lettura».»; De Donato, Elementi dell’atto di destinazione, loc. cit., il quale afferma che «più che legittimo appare quindi il dubbio che meritevoli di tutela ex art. 2645-ter c.c. possano solo essere, tra gli scopi di utilità sociale, quelli improntati al canone della solidarietà»; Spada, Conclusioni, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, 2006, 203, secondo il quale «non può e non deve restare senza significato che ‘unico esemplare testuale di interesse, al quale può essere destinato il cespite, è quello dei disabili, di soggetti la condizione dei quali esige solidarietà, sotto qualsiasi etica, confessionale o laica che sia. G. Oberto, Atti destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust: analogie e differenze, consultabile alla pagina web http://giacomooberto. com/2645ter/2645ter_e_trust.htm#_ftn100: «Più che legittimo appare quindi il dubbio che meritevoli di tutela ex art. 2645-ter c.c. possano solo essere, tra gli scopi di utilità sociale, quelli improntati al canone della solidarietà» G. Oberto, Atti destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust, cit., «Se è vero come è vero che le osservazioni di cui sopra costituiscono una forte motivazione «per una rigorosa cernita degli interessi da tutelare» e che la Costituzione (artt. 41 e 42) «fissa un criterio di socialità per ‘attività economica privata e per la proprietà che deve servire per modulare il criterio fondante dell’interpretazione della nuova norma», ne deriva che potranno ritenersi sicuramente meritevoli di tutela interessi quali quelli legati al dovere di contribuzione nella famiglia tanto legittima (artt. 143, 167 c.c.), che di fatto, all’obbligo di mantenimento della prole, sia nella fase «fisiologica» (artt. 147, 148 c.c.), che in quella patologica» (artt. 155 ss. c.c., art. 6, l.div.) del rapporto coniugale, allo stesso mantenimento del coniuge separato (art. 156 c.c.) e all’assegno in favore del divorziato (art. 5, commi quinto ss., l.div.), per i quali del resto non si esita a parlare di «solidarietà post coniugale». La famiglia costituisce dunque il terreno d’elezione per lo sviluppo di tali manifestazioni di solidarietà, che, ancorché dirette a soggetti determinati, finiscono con ‘assumere una funzione sicuramente sociale». 45 A. Morace Pinelli, Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina, in Riv. Dir. Civ., 2008, II, 472; S. Troiano, Destinazione dei beni al soddisfacimento dei bisogni di una famiglia cd.di fatto, op. cit., 12: «Si rammenti, in proposito, che la giurisprudenza intende con particolare ampiezza la formula “bisogni della famiglia”, con riferimento al fondo patrimoniale, ovvero nel senso che essa si presta a ricomprendere tanto i bisogni essenziali quanto le esigenze ordinarie del nucleo familiare o dei singoli suoi componenti, con esclusione soltanto delle finalità voluttuarie o futili (secondo la formula giurisprudenziale, “le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, con esclusione solo delle esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi”. Siamo, a quanto pare, assai lontani
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giudizi di merito. Perlomeno si avrebbe un’eccessiva concentrazione, concentrazione di potere in capo all’autorità giudiziaria che già suscita giustificate preoccupazioni. Poco significato avrebbe la tesi di Baralis46 e altri che distinguono e ritengono che il concetto di meritevolezza abbia un valore differente nell’art. 1322 c.c. rispetto all’art. 2645 ter c.c., operando nella seconda non come controllo di liceità (quindi causalmente), ma come controllo di pregnanza e congruenza con riguardo agli scopi della pubblicità immobiliare. Chi pone in essere l’atto ex art 2645 cc lo vuole fare per perseguire certi effetti in tema di pubblicità e come altrove ho sostenuto, spesso il legislatore, superando la vecchia distinzione diritti reali /diritti di credito, sempre più spesso si pone nell’ottica opponibilità/non opponibilità. Cioè, oggi in modo quasi consapevole, si agisce all’interno delle norme in tema di trascrizione, perché si vogliono superare antiche distinzioni, cioè di diritti che di per sè valgono solo tra le parti e diritti che di per sè valgono verso tutti. Oggi si prevedono diritti, in modo indistinto, che tendono a superare antiche classificazioni, e certe norme possono proprio essere il sintomo o la sanzione di un simile superamento, e questi diritti sono opponibili e danno luogo a risarcimenti da far valere verso una collettività, oppure si prevedono diritti con segregazione, prescindendo da una classificazione perché si guarda all’effetto più che a problemi di validità/non validità dell’atto o di natura del diritto47.
dal concetto di “pubblica utilità”».; altri autori, ripercorrendo ‘evoluzione del fenomeno destinatorio, hanno rilevato che nel nostro ordinamento i fenomeni di separazione patrimoniale per uno scopo soffrono di una rigida tipizzazione ad opera del Legislatore, che seleziona a monte le ipotesi ammesse, sulla base di un giudizio di prevalenza degli interessi perseguiti,la medesima valutazione comparativa, secondo i sostenitori di questa tesi dovrebbe essere alla base del giudizio di meritevolezza ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. Tale giudizio si risolverebbe pertanto in un confronto tra il valore del fine destinatorio e ‘interesse sacrificato, generalmente quello dei creditori o aventi causa del conferente, cfr. M. Nuzzo, Atto di destinazione ed interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, 2006, 68) secondo il quale bisognerebbe «attribuire al giudizio di meritevolezza dell’interesse perseguito attraverso la destinazione che aspira a divenire opponibile ai terzi, un rilievo relazionale, ciò nel senso che il giudizio di meritevolezza costituisce il risultato di una valutazione comparativa tra ‘interesse sacrificato, che quello dei creditori generali, e ‘interesse realizzato con ‘atto di destinazione». ‘autore prosegue ribadendo che «ogni volta che ‘interesse perseguito dall’atto di destinazione appartenga alla stessa classe degli interessi rispetto ai quali è consentita dalla legge la costituzione di un vincolo di destinazione, si rientri nell’ambito degli interessi meritevoli di tutela che nell’art. 2645 ter c.c. giustificano la limitazione di responsabilità»; U. La Porta, op. cit., 104, sostiene che «la valutazione di meritevolezza deve misurare e comparare ‘interesse del disponente a destinare con il sacrificio imposto alle ragioni del credito e della circolazione e, alla luce della ponderazione, sfociare in un giudizio positivo o negativo, che la necessaria forma pubblica dell’atto impone, come in ogni caso di atipicità, in prima battuta al notaio, riservando al giudice dell’eventuale contenzioso ‘ultima parola. 46 G. Baralis, Prime riflessioni in tema di art. 2645 ter c.c., in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Atti dei Convegni tenutisi a Rimini il 1° luglio e a Catania ‘11 novembre 2006 (n. 1/2007). 47 F. Felis, Superficie e fattispecie atipiche. La cessione di cubatura, in Contratto e Impresa, 2011, 632 ss nonché in corso di pubblicazione su Vita notarile, v. Id., I Diritti edificatori. Una possibile rivoluzione? ‘art. 2643 n.2-bis, sintomo di cambiamento. Infatti oggi molte norme, al di là della loro collocazione hanno una portata sostanziale tra cui in tema di diritti edificatori ‘art. 2643 n. 2-bis: alcuni sostengono che abbia una portata sostanziale e non solo la portata limitata in ambito pubblicitario, ma, anche fosse, non vuol dire che questa portata consista nel riconoscere il valore reale dei diritti menzionati nella norma. La norma potrebbe solo significare che certi diritti, le loro vicende, dalla costituzione sino al trasferimento, indipendentemente dal titolo di nascita, anche anomalo, magari proprio perché possono avere un titolo di nascita anomalo e produttivo di dubbi, certi diritti, prescindendo caratteristiche e natura di presunta o vera realità, proprio perché di natura nuova ed incerta, con caratteristiche non univoche ma determinate, debbono rendersi pubblici con la trascrizione. Perciò in modo unitario queste vicende di questi “nuovi e diversi” diritti possono diventare opponibili. Perché ‘opponibilità è quello che conta. Per esigenze di certezza, possono valere verso i terzi: tra le parti, ogni diritto nascente da un contratto già vale. ‘opponibilità è il valore cui tiene il legislatore e ha deciso che, se questo è quello
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IV. Conclusioni. Perciò spesso, a far luce sull’argomento è intervenuta la giurisprudenza, la quale, aderendo al primo orientamento, sostiene che il solo limite alla meritevolezza sia da individuarsi nella liceità degli scopi perseguiti48 ponendo, altresì, una chiosa leggermente più restrittiva
che conta, questo risultato deve essere conseguito, al di là di cosa siano questi diritti, non importando classificazioni di un tempo. Nel futuro, per il legislatore, conta ‘opponibilità. Questa nuova norma, pubblicitaria, che impone e consente la pubblicità per tutti i diritti edificatori, probabilmente prescinde e supera la classica dicotomia diritti reali/diritti di credito. In qualche modo può essere che risolva il problema con il diluire i diritti reali, e la loro differenza con i diritti di credito, nella opponibilità. Forse sbaglierò. Ma oggi potrebbe esserci una concezione particolare. Tutti i diritti, almeno questi, almeno per questi, ‘unica cosa che conta è ‘opponibilità. Uno potrebbe domandarsi: opponibilità per cosa e con quali effetti? Opponibilità per far si che, in alcuni casi, essendoci alcuni soggetti con carenza di legittimazione, si potrà ottenere un certo tipo di tutela. Anche un eventuale venir meno del provvedimento amministrativo. Oppure in altri casi, opponibilità che determina obblighi risarcitori. Quello che conta è ‘opponibilità verso i terzi, che può essere fatta valere verso di loro “in modo pressoché automatico” anche se può dare conseguenze diverse. E questa opponibilità, per il legislatore, è importante e alcune volte si può concretizzare in un modo e in altre volte si può concretizzare in altro modo. Sistema molto anglosassone che privilegia il risarcimento? Forse, ma si potrebbe rispondere che il legislatore ha voluto introdurre un istituto di origine anglosassone, come è stato per altri istituti. Perciò la trascrizione dei diritti edificatori, produce opponibilità (magari riconducibile agli effetti dell’art. 2644 c.c.) opponibilità che dà una tutela varia a seconda delle circostanze, ma sempre opponibilità perché consente di avere un ristoro verso i terzi. La realità, o comunque i diritti reali e i diritti di credito, accomunati nel fatto di essere diritti opponibili e di ottenere tutele, magari diverse o che si possono cumulare a volte. Naturalmente ciò implica una diversa visione anche del sistema della pubblicità, avvicinandosi comunque alle visioni che già erano di Pugliatti e di Gabrielli comunque, che oggi sono anche di Morello – v. U. Morello. Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Trattato dei diritti reali, diretto da A. Gambaro U. Morello, vol I, proprietà e possesso, Milano, 2008, 1111 s.s.; A. Guarneri. Diritti reali e diritti di credito, in Trattato dei diritti reali, vol. I, Proprietà e possesso, cit., 37 ss. – che privilegia il fatto “informazione”. I pubblici registri che danno informazioni. Perciò queste comunque devono valere, ogni operatore economico, come la p.a., dovrà di più consultare i pubblici registri. Ma consultandoli di più, e prima, risparmia, come costi, dopo. Pubblici registri che contengono informazioni ed esse possono determinare certe conseguenze e tutele in certi casi e in altri diverse forme di tutela, magari solo risarcitorie se non sono possibili le prime tutele. Mai comunque irrilevanza ed indifferenza. Perciò diritti edificatori che, devono e producono opponibilità (dichiarativa) ma anche opponibilità che deriva dal dare semplicemente informazioni, importanti dal punto di vista commerciale ed imprenditoriale. Questo richiama concetti nuovi. Evolutivi in tema di contrapposizione diritti reali / diritti di credito. Come se certi diritti, al di là della loro qualificazione, che diventa in parte irrilevante, abbiano una tutela comunque verso i terzi. La distinzione e bipartizione diritti reali diritti di credito è estranea alla tradizione angloamericana e la sua rilevanza è esistente nell’area francese. Comunque si può affermare che oggi esistono frontiere mobili dei diritti reali. ‘espressione è di A. Guarnieri. Il discorso è legato ad una concezione diversa della pubblicità, che diventando, a differenza di un tempo dove si dava prevalenza alla parte sostanziale del codice civile, una parte centrale perché più legata all’azione giudiziale (ottica anglosassone...) giustifica la tendenza che tutte le più recenti riforme sono state fatte modificando gli articoli dettati in tema di trascrizione. Importano gli effetti verso i terzi, la tutela relativa, più che la sostanza degli istituti. Essi, comunque siano, devono essere opponibili (v. art. 2643 n. 2-bis, n. 12 bis; 2645 bis, 2545 ter, 2645 quater, tutti articoli dove si introducono riforme anche sostanziali, a prescindere, si potrebbe dire dalla sostanza, tutti articoli, non a caso compresi in un libro del codice denominato “Della tutela dei diritti”, tramite la loro pubblicità). Modificare almeno in parte i principi che reggono il regime della pubblicità immobiliare, nonostante che recenti riforme (articolo 2645 ter ecc) già tendono a farlo, ha come conseguenza che diventa importante chi è ‘artefice dei prodotti inseriti nei registri immobiliari. Cioè diventa importante ‘articolo 2657 c.c. che prevede ‘inserimento nei pubblici registri di prodotti del giudice o del notaio. La funzione preventiva dei Registri Immobiliari, che già da essi è assolta, se si vuole ampliare, facendo conoscere situazioni di buona o malafede, comunque situazioni relative agli immobili, presuppone ‘intervento di un professionista che non può essere se non un notaio di diritto latino per ragioni di certezza e obblighi legali che ha. Altrimenti salta ogni sistema di sicurezza, risparmio di costi, connessa ad un Pubblico Registro; v. S. Pepe. Il vincolo di destinazione, cit. 1133, a proposito del pubblico ufficiale rogante ‘atto costitutivo il vincolo di destinazione ex art. 2645 cc ritiene che nell’eventualità di vincolo ritenuto nullo per immeritevolezza degli interessi, sarebbe logica una sanzione consistente in un risarcimento, legata alla violazione macroscopica dei doveri di diligenza nell’espletamento del mandato professionale, ma mai sanzione ex art. 28 e 138 L.N, notaio che avrà un fondamentale ruolo nella selezione preventiva degli interessi coinvolti, adeguando alla legge la volontà delle parti). 48 Cfr. ex pluris App. Venezia, Sez. III, 10/07/2014.
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nel senso che sono meritevoli di tutela gli interessi leciti che non possono essere soddisfatti con il ricorso a strumenti negoziali tipici diversi dagli atti di destinazione49. Il ragionamento deve svilupparsi tenendo in considerazione sia le considerazioni esposte circa la funzione del diritto, creare certezze, preservare l’ordine sia con considerazioni più attinenti all’istituto concreto. Perciò con il ricorso a considerazioni circa la posizione dei creditori bisogna che ci renda conto che non c’è la necessità di non irrigidire troppo tale atto, la cui peculiarità sta proprio nella atipicità del contenuto. Il legislatore, poi, ha tenuto conto dei diritti dei creditori, che vengono informati dell’atto con la sua trascrizione e dove i requisiti di forma, servono per assolvere sia esigenze contenutistiche, il notaio indicherà l’interesse meritevole e le caratteristiche della meritevolezza, ma senza giudizi di merito, sia esigenze attinenti ad una piena capacità delle parti. Si è detto che il requisito di liceità, da solo, potrebbe assurgere a parametro sufficiente per garantire un equo contemperamento delle ragioni private, quando non si tratti di interessi meramente frivoli (ma anche li bisogna andare cauti) o fraudolenti. Del resto l’azione revocatoria, e altri rimedi, ci sono e piuttosto bisognerebbe, semmai agire su questi istituti più che concentrarsi su questo e i principi in tema di contratto: sol che si consideri che se vi è un intento fraudolento del disponente le tutele ci sono e anche se ci fossero controinteressati che potrebbero non essere creditori, bisogna vedere di quali interessi sarebbero portatori. La validità della tesi cd. estensiva, che privilegia l’aspetto liceità nell’ambito delle caratteristiche che deve avere la meritevolezza, esistono e vanta a proprio sostegno gli argomenti più forti, primo tra tutti il dato testuale. Oltre che paragoni con altre fattispecie, dai trust, alla costituzione delle fondazioni, sino, in certo qual modo al controllo omologatorio in tema di costituzione di società di capitali. A ciò si aggiunga che, dai pareri espressi dalle Commissioni Parlamentari, emerge la consapevolezza del valore del rinvio all’art. 1322 c.c.. Inoltre, non è priva di rilievo la considerazione di carattere sistematico per cui gli interessi non tutelabili attraverso l’art. 2645 ter c.c. possono essere soddisfatti ricorrendo all’istituto del trust, come detto, il cui ambito di applicazione è decisamente più ampio e meno incerto. Dall’altro lato anche a chi sembra che bisogna evitare una giuridicizzazione di interessi futili e capricciosi e ribadisce la necessità di una fase di comparazione che garantisca equilibrio tra gli interessi in gioco50, non sembra opportuno legittimare l’introduzione di una soglia di rilevanza degli interessi connotata da profili etici o solidaristici. Non vi sono infatti elementi testuali dai quali desumere una simile compressione, ritenendosi altresì superata l’interpretazione della meritevolezza in termini esclusivamente metaindividuali. Più specificatamente l’effetto segregativo non pregiudica in ogni caso i diritti dei creditori del disponente, ai quali comunque sarà sempre lasciata la possibilità di esperire l’azione revo-
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Cfr. Trib. Trieste, 22/04/2015, in Giur. it., 2015, 6, 1354, I. S. Pepe, Il vincolo di destinazione, cit. 1130, esplicitamente afferma che “la dottrina migliore concorda nel ritenere che in questa valutazione [meritevolezza] bisogna tener conto, da un canto degli interessi soddisfatti e, da un altro canto, altresì di quelli sacrificati” e fa riferimento oltre alle tesi restrittive a quella dottrina che riconduce la meritevolezza alla stregua dei principi di solidarietà di cui all’art.2 Cost.
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Il negozio di destinazione e la meritevolezza degli interessi
catoria ordinaria, che avrà, tra l’altro, come presupposto per l’accoglimento esclusivamente l’”eventus damni” connesso automaticamente al vincolo imposto al bene, non occorrendo altresì il “consilium fraudis”, in quanto atto a titolo gratuito, ed essendo pertanto sufficiente sotto il profilo dell’elemento soggettivo la mera consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (“scientia damni”).
193
Giurisprudenza Cass. civ., sez. III, 30 agosto 2018, n. 21385; Presidente Vivaldi - Relatore D’Arrigo Fondo patrimoniale – Ipoteca giudiziale – Alienazione del bene vincolato – Conflitto fra più acquirenti – Trascrizione immobiliare. Qualora un immobile incluso in un fondo patrimoniale sia stato alienato a terzi e su di esso sia stata iscritta ipoteca in data anteriore alla trascrizione della compravendita, gli effetti dell’atto dispositivo non sono opponibili al creditore, se per lui pregiudizievoli, ma ciò non esclude che il creditore possa comunque avvalersi di quegli effetti qualora siano per lui favorevoli, come emerge dal coordinamento del principio consensualistico con quello dell’efficacia meramente dichiarativa della trascrizione. (Nella specie, in cui un creditore aveva iscritto ipoteca su un immobile costituito in fondo patrimoniale da coniugi suoi debitori e da questi ultimi alienato con atto trascritto successivamente all’iscrizione ipotecaria, la S.C. ha ritenuto che il creditore potesse giovarsi di tale alienazione per dedurre la sopravvenuta inefficacia dei vincoli derivanti dalla pregressa appartenenza dell’immobile ad un fondo patrimoniale e che, nel contempo, allo stesso creditore non fosse opponibile l’alienazione, in quanto trascritta successivamente alla iscrizione dell’ipoteca).
(Omissis)
sione, assegnando termine per l’introduzione del
Svolgimento del processo. Con atto del 3 dicem-
giudizio di merito.
bre 2003, trascritto nei pubblici registri il 9 di-
L’opposizione fu respinta anche nel merito,
cembre 2003 e annotato nei registri di stato civile
ma la sentenza inappellabile in ragione di quanto
a margine dell’atto di matrimonio il 10 febbraio
disposto dall’art. 616 cod. proc. civ. nella versio-
2003, i coniugi (omissis) costituirono un fondo
ne applicabile ratione temporis - venne cassata
patrimoniale nel cui oggetto era ricompreso un
(Cass. n. 18113 del 2011) per violazione del liti-
immobile sito nel comune di Montagna di Valtel-
sconsorzio necessario con i coniugi (omissis). A
lina (Sondrio).
seguito di riassunzione, il Tribunale di Sondrio
Con atto notarile del 5 aprile 2004 i predetti
accolse l’opposizione del [compratore] e la Corte
cedettero il menzionato immobile al [comprato-
d’appello di Milano, con sentenza del 15 febbra-
re].
io 2016, confermando la decisione di primo graIn data 7 aprile 2004 sul medesimo immobile
venne iscritta dalla Banca un’ipoteca giudiziale in
do, rigettò l’impugnazione proposta dalla Banca (omissis).
forza del decreto ingiuntivo emesso dal Tribuna-
Contro questa decisione la banca creditrice ha
le di Milano nei confronti dei coniugi (omissis),
proposto ricorso per cassazione articolato in due
quali fideiussori della (omissis) s.r.1., per l’impor-
motivi illustrati da successive memorie.
to di euro 239.803,35, oltre interessi e spese. L’atto di acquisto del [compratore] venne trascritto dei registri immobiliari il 20 aprile 2004. Avviata l’azione esecutiva, con notificazione del pignoramento anche al terzo proprietario, ai
Il [compratore] ha resistito con controricorso e ha depositato memorie difensive ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. I coniugi (omissis) non hanno svolto attività difensiva. Motivi
della decisione.
(Omissis)
sensi degli artt. 602 ss. cod. proc. civ., il [compra-
2. La sentenza impugnata rileva espressamen-
tore] propose ricorso in opposizione ex art. 619
te «l’inopponibilità alla banca dell’atto di vendita
cod. proc. civ. Il giudice dell’esecuzione del Tri-
fra i [coniugi debitori ed il compratore], in quanto
bunale di Sondrio rigettò la richiesta di sospen-
la trascrizione della compravendita è successiva
195
Giurisprudenza
all’iscrizione ipotecaria, sebbene il rogito notarile
del contratto sì producono con il semplice accor-
fosse di due giorni precedente.
do fra le parti (art.1326 cod. civ.).
Tale capo della sentenza non è stato impu-
Giova, al contempo, rammentare che la tra-
gnato e quindi il punto non è più controvertibile.
scrizione degli atti elencati dall’art. 2643 cod. civ.
La corte territoriale, tuttavia, ritiene che alla
non è un istituto di pubblicità costitutiva, bensì
banca fosse però opponibile il vincolo nascente
dichiarativa, e come tale ha la funzione di rende-
dall’inclusione dell’immobile nel fondo patrimo-
re opponibile l’atto ai terzi onde dirimere il con-
niale, non potendo la creditrice invocare che, al-
flitto tra più acquirenti dello stesso bene, senza
la data dell’iscrizione dell’ipoteca, il bene fosse
incidere sulla validità ed efficacia dell’atto stesso.
fuoriuscito dal fondo perché venduto al [compra-
Configurandosi come un onere, essa è, pertanto,
tore], proprio in considerazione della tardiva tra-
un quid pluris rispetto all’atto trascrivendo, co-
scrizione della compravendita.
sicché, ove essa sia necessaria ad integrare una
3. Contro questa seconda parte della sentenza
qualsiasi fattispecie normativa, deve essere og-
impugnata si incentrano le censure illustrate, in
getto di esplicita previsione (Sez. 3, Sentenza n.
via espressamente gradata, dalla ricorrente.
19058 del 12/12/2003, Rv. 568857).
In particolare, con il primo motivo si denun-
6. Coordinando il principio consensualistico
cia la violazione o falsa applicazione degli artt.
con quello dell’efficacia meramente dichiarativa
1376, 2643, 2644, 2647 cod. civ.
della trascrizione della compravendita immobilia-
In sostanza, alla Corte viene richiesto di chia-
re, si ottiene che gli effetti dell’atto dispositivo
rire se al creditore che iscrive ipoteca possa esse-
non sono opponibili al terzo, se per lui pregiudi-
re opposta l’inclusione dell’immobile in un fondo
zievoli, fintanto che l’atto non risulta dai pubblici
patrimoniale qualora, in data anteriore dell’iscri-
registri immobiliari; ma ciò non esclude che il
zione, il bene sia stato alienato a terzi, ancorché
terzo non possa invece avvalersi di quegli effetti,
tale alienazione non sia stata ancora trascritta.
se per lui favorevoli.
4.Il motivo è fondato.
Rientra in quest’ultima ipotesi anche il caso,
Anzitutto, va rilevato che il problema dell’op-
come quello in esame, in cui l’atto dispositivo del
ponibilità alla banca dei vincoli nascenti dal fon-
bene determina sia effetti favorevoli (la fuoriusci-
do patrimoniale, pur dopo l’alienazione dell’im-
ta dell’immobile dal fondo patrimoniale nel quale
mobile, non deve essere risolta [recte: risolto]
era stato conferito), sia sfavorevoli (l’alienazione
- come invece ha fatto la corte d’appello - in base
dell’immobile dalla sfera patrimoniale dei debi-
al criterio della anteriorità o posteriorità della tra-
tori). In una simile circostanza, mentre il conflit-
scrizione dell’atto di compravendita, in quanto ta-
to fra terzo acquirente e creditore dell’alienante
le criterio vale nei rapporti fra terzo creditore [la
va risolto secondo il criterio della priorità della
banca] e acquirente del bene ipotecato (omissis):
trascrizione (correttamente applicato dalla corte
l’omessa trascrizione rende l’atto inopponibile al
d’appello nel capo della sentenza non impugna-
creditore, cioè “contro” di lui. Qui si tratta, inve-
to), nei rapporti fra venditori e creditore i primi
ce, di un atto dispositivo favorevole al credito-
non possono opporre al secondo, quale fattore
re, in quanto determina l’immediata fuoriuscita
ostativo all’assoggettamento del bene a pignora-
dell’immobile dal fondo patrimoniale costituito
mento, la mancata trascrizione dell’atto nei regi-
dai coniugi (omissis).
stri immobiliari.
Viene qui in rilievo, invece, il principio con-
Ciò in quanto, lo si ribadisce, il sistema delle
sensualistico, secondo cui, com’è noto, gli effetti
trascrizioni degli atti dispositivi aventi ad ogget-
196
Ruggero Vigo
to beni immobili e mobili registrati ha natura di
terzo estraneo al rapporto, al fine di impedirgli
pubblicità dichiarativa e, come si ricava chiara-
di giovarsi degli effetti di un atto a lui favorevole.
mente dell’art. 2644 cod. civ., costituisce un one-
7. Pertanto, nel caso in esame deve concluder-
re imposto dalla legge a tutela del terzo. Infatti,
si che la Banca (omissis), avendo iscritto l’ipoteca
gli atti soggetti all’onere della trascrizione non
sull’immobile due giorni dopo che lo stesso era
hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. In altri termini, la trascrizione giova a rendere opponibile
stato ceduto dai coniugi (omissis) [all’acquirente], può giovarsi di tale alienazione per dedurre la sopravvenuta inefficacia dei vincoli derivanti dall’essere appartenuto, tale immobile, all’ogget-
al terzo un atto per lui pregiudizievole. Dunque,
to di un fondo patrimoniale. Di contro, poiché
l’omesso espletamento della formalità dichiarati-
l’acquisto del terzo è stato trascritto successiva-
va non potrà essere invocato dalle parti del con-
mente all’iscrizione dell’ipoteca, tale acquisto
tratto con una funzione diametralmente opposta
non è opponibile alla Banca.
a quella che le è propria, ossia a discapito del
(Omissis)
Sul conflitto fra l’acquirente di un immobile conferito nel fondo patrimoniale e il creditore munito di ipoteca giudiziale sul medesimo bene S ommario : 1. Iscrizione di ipoteca su immobile proveniente dal fondo patrimoniale. – 2. Rimozione del vincolo del fondo. – 3. Ambito di applicazione dell’art.2644 c.c. – 4. La soluzione della sentenza. – 5. Opponibilità dell’atto e opponibilità dei suoi effetti. – 6. Vincolo del fondo e regime della comunione. – 7. Il (contestabile) transito dal regime della comunione. –8. Interruzione del meccanismo pubblicitario. – 9. Continuità delle formalità pubblicitarie. – 10. Inapplicabilità dell’art. 2650 c.c.
The case is about a property that the spouses first placed in a family trust (Art. 167 and following articles of the Civil Code) and later sold to a third party. However, before the contract of sale was registered, the bank applied a judicial mortgage to the property, as a security for a credit it had granted to the spouses for purposes unrelated to their family needs. The Court of Cassation ruled that the mortgage was valid and that the bank should prevail over the buyer. A different opinion is expressed in the note.
197
Giurisprudenza
1. Iscrizione di ipoteca su immobile proveniente dal fondo patrimoniale.
La Corte di Cassazione si pronuncia su un problema che “presenta caratteri di novità”, pur avendo ad oggetto risalenti istituti del diritto di famiglia e del diritto privato generale, quali sono il fondo patrimoniale e la pubblicità immobiliare1. La vicenda riguarda un immobile che dapprima i coniugi conferiscono in un fondo patrimoniale (artt.167 ss., c.c.). L’atto costitutivo del fondo è annotato nei registri di stato civile, ai sensi dell’art.162, co.4, c.c., ed è trascritto nei registri immobiliari ai sensi dell’art. 2647, co.1, c.c. A un certo momento i coniugi vendono l’immobile ad un terzo (in assenza di figli minori non è richiesta l’autorizzazione del giudice per compiere atti dispositivi sui beni del fondo patrimoniale: art.169 c.c.), ma nelle more della trascrizione della compravendita, la banca iscrive un’ipoteca giudiziale sul medesimo immobile, a garanzia di un credito che essa aveva concesso ai coniugi per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Infine la banca esercita l’azione esecutiva sul bene, e l’acquirente dell’immobile presenta opposizione ai sensi dell’art.619 c.p.c. L’opposizione è accolta dai giudici di merito, ma è respinta dalla Corte di Cassazione, e la banca può esercitare l’azione esecutiva.
2. Rimozione del vincolo del fondo. I beni conferiti nel fondo patrimoniale sono sottoposti al regime dettato negli artt.167 ss., c.c. Tali disposizioni prevedono, fra l’altro, che detti beni non siano aggredibili da coloro che vantano verso i coniugi crediti contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170 c.c.). Peraltro, il regime del fondo patrimoniale cessa se i coniugi modificano la convenzione matrimoniale (art.163 c.c.) e sciolgono il fondo; se dispongono uno scioglimento parziale del fondo, cioè uno scioglimento limitato ad un bene o a taluni beni2; se alienano singoli
1
2
Esaminano la giurisprudenza sul fondo patrimoniale A. Ferrari, Fondo patrimoniale e trust familiare, Milano, 2017; P.G. Demarchi ALBENGO, Il fondo patrimoniale, 2a ed., Milano, 2011; G. Pascale, Il fondo patrimoniale, in Famiglia e patrimonio a cura di A. Oberto, s.l., 2014, 585 ss.; F. Macario, Diritto di famiglia. Questioni giurisprudenziali, Torino, 2011, 79 ss.; C. Rimini e G. Viganò, Diritto di famiglia, 2a ed., Padova, 2009, 125 ss. Il codice non fa menzione di questa facoltà, ma la dottrina ritiene che i coniugi possono liberare dal regime del fondo un immobile che vi è sottoposto, conservandone la comproprietà (T. Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano 1990, 328, 342; Id., Il fondo patrimoniale, artt. 167-171, in Il codice civile, Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1992, 347 s., 365 s.; G. Gabrielli e M.G. Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 287.
198
Ruggero Vigo
beni conferiti nel fondo avvalendosi dell’art.169 c.c.3. Quest’ultima opzione fu seguita nella fattispecie in esame. L’art.169 c.c. non contiene disposizioni volte a regolare i profili pubblicitari di questa terza modalità di cessazione del fondo. Pertanto, il contratto che trasferisce la proprietà del bene deve essere trascritto come in ogni altro caso, ma nessun nuovo adempimento pubblicitario è disposto con specifico riguardo alla rimozione del vincolo che era stato impresso sul bene. Ed invero eseguire un’ulteriore formalità sarebbe impossibile perché non vi sono atti, diversi dalla compravendita, che possano essere trascritti; e sarebbe cosa superflua in quanto dai registri immobiliari risulta già che il bene era stato conferito in un fondo patrimoniale, e che questo regime non è più vigente perché il bene non appartiene più ai coniugi, ma è stato alienato ad un terzo per mezzo di un atto traslativo già trascritto4.
3. Ambito di applicazione dell’art. 2644 c.c. Può avvenire, però, ed è quel che avviene nella vicenda rimessa al giudizio della Corte di Cassazione, che la trascrizione della compravendita sia preceduta dall’iscrizione di una ipoteca ad opera di un terzo. Se è iscritta un’ipoteca volontaria, e quindi se i coniugi, dopo aver alienato l’immobile conferito nel fondo, concedono ad un creditore un’ipoteca su quello stesso bene, il meccanismo pubblicitario opera de plano ed il conflitto fra i due aventi causa dal comune autore si risolve applicando l’art.2644 c.c. Ciò vale tanto nel caso in cui il debito garantito con l’ipoteca fu contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, quanto nel caso contrario. Infatti, non vi è alcun ostacolo ad iscrivere l’ipoteca che garantisce crediti contratti per scopi relativi ai bisogni della famiglia. E dall’art.169 c.c. si desume che sui beni appartenenti al fondo può essere validamente iscritta anche un’ipoteca volontaria a garanzia di crediti estranei ai bisogni della famiglia5. Se, invece, quella iscritta sull’immobile venduto è un’ipoteca giudiziale, occorre distinguere. L’ipoteca è validamente iscritta se (a) garantisce un debito contratto per ragioni familiari, e pertanto il conflitto con l’acquirente si risolve, di nuovo, ai sensi dell’art.2644
3
4
5
A differenza della precedente, in questa terza ipotesi il bene non resta in proprietà dei coniugi. Se non esistesse l’art.169 c.c. i coniugi intenzionati ad alienare un bene conferito nel fondo, dovrebbero dapprima rimuovere il vincolo e poi porre in essere l’atto di disposizione. Ma l’art.169 c.c. mette a disposizione dei coniugi una “scorciatoia”. A. Saturno (Il fondo patrimoniale, cit., in I rapporti patrimoniali, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia diretto da G. Autorino Stanzione, III, Torino, 2005, 374) prende in esame la tesi secondo cui “ove si voglia derogare al vincolo di destinazione alienando o ipotecando il bene per finalità diverse dal soddisfacimento dei bisogni della famiglia, sia necessario operare in conformità al modello previsto dall’art. 163 c.c. per le modificazioni delle convenzioni matrimoniali”. Questo problema non emerge nella sentenza, forse perché sono estranei alla controversia i creditori del fondo nel cui interesse sarebbe disposta “la annotazione della modifica a margine dell’atto di matrimonio ed a margine della trascrizione delle convenzioni matrimoniali”. Ma v. l’orientamento riportato nella nota precedente.
199
Giurisprudenza
c.c., onde il creditore che iscrive questa ipoteca prevale sul compratore che trascrive per secondo (anche se ha acquistato il bene prima che fosse iscritta l’ipoteca). Nel caso (b) in cui l’ipoteca giudiziale garantisce un debito contratto per ragioni estranee ai bisogni familiari, occorre procedere ad una ulteriore distinzione. (b/1) Se il creditore iscrive l’ipoteca prima che i coniugi alienino il bene, e quindi se il creditore iscrive ipoteca su un bene ancora sottoposto al fondo patrimoniale, l’ipoteca è invalida, o, più esattamente, la sua iscrizione nei registri immobiliari è illegittima e inefficace perché vietata dall’art.170 c.c.6 7. Pertanto, non sorge un conflitto fra due acquirenti. Vi è un solo avente causa dai coniugi, il compratore, che acquista efficacemente un immobile non gravato da alcuna (valida) ipoteca. Se invece (b/2), ed è –finalmente- il caso a cui si riferisce la decisione in epigrafe, l’ipoteca è iscritta dopo la stipula della compravendita (ma, naturalmente, prima della trascrizione di quest’atto), sono prospettabili due soluzioni. La prima (b/2α) ritiene che il creditore che iscrive tempestivamente l’ipoteca prevalga sull’acquirente. Questa è l’opinione accolta dalla S.C. nella decisione in epigrafe. La seconda (b/2β) muove dalla convinzione che (come nel caso b/1) anche in questa volta l’ipoteca è stata inutilmente iscritta, onde l’acquirente prevale sul creditore, benché questi abbia trascritto il proprio acquisto dopo l’iscrizione dell’ipoteca. Nel prosieguo si giudicherà più convincente quest’ultima tesi8.
4. La soluzione della sentenza. La Corte di Cassazione afferma che, anche se garantiva un credito estraneo alle esigenze della famiglia, l’ipoteca giudiziale fu validamente iscritta perché, dopo la stipula della compravendita, l’immobile non era più sottoposto al regime del fondo patrimoniale e non era più operante il divieto dell’art.170 c.c.
6
7
8
A. Ravazzoni, Le ipoteche, in Tratt dir. civ. e comm., diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2006, 21 ss., 304, precisa che il giudizio di invalidità si riferisce al negozio, mentre l’ipoteca è un diritto che può sussistere o non sussistere, nonostante la iscrizione, che può essere inefficace. D. Rubino, L’ipoteca immobiliare e mobiliare, nel Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1956, 327, scriveva che l’iscrizione inefficace “può anche dirsi nulla, sebbene, a rigore, come pubblicità, non sia intrinsecamente viziata, ma solo inutile (…)”. Cosa diversa è la invalidità della registrazione (D. Maltese, voce “Registri immobiliari” in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 476 ss.). L’art. 170 c.c. vieta l’esecuzione forzata, ma è stato chiarito che anche l’iscrizione ipotecaria può “essere ricondotta nel novero degli atti ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art.170 c.c. latamente inteso” (Cass., 14 ottobre 2016, n. 20799, in Famiglia e diritto, 2017, 513 ss., unitamente a in Cass., 28 ottobre 2016, n.21800, con nota di M. de Pamphilis, I bisogni “insaziabili” della famiglia: presupposti per l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e ripartizione dell’onere probatorio. In tal modo non si viola la regola della pubblicità premiando immeritatamente l’acquirente che tarda a trascrivere il suo atto di acquisto. Infatti il criterio dell’art.2644 c.c. non trova spazio applicativo e l’acquirente prevale sul creditore a prescindere dal momento in cui l’ipoteca è iscritta. Piuttosto, il creditore extrafamiliare non diviene meritevole di aggredire il bene che era stato vincolato al fondo sol perché i coniugi alienano questo bene ad un terzo.
200
Ruggero Vigo
Inoltre, continua la Corte, il creditore ipotecario prevale sull’acquirente dell’immobile, il cui acquisto (benché anteriore) non è opponibile alla banca, perché trascritto successivamente all’iscrizione dell’ipoteca. La compravendita produce, da un lato, “la fuoriuscita dell’immobile dal fondo patrimoniale nel quale era stato conferito”, e, dall’altro, “l’alienazione dell’immobile dalla sfera patrimoniale dei debitori”. La rimozione del vincolo nascente dal fondo patrimoniale è un effetto della compravendita favorevole per il terzo creditore, del quale, in forza del principio consensualistico, egli si può avvalere anche se la compravendita non è stata ancora trascritta. Infatti, l’acquirente ha l’onere di eseguire la trascrizione per opporre ai terzi gli effetti dell’atto a loro pregiudizievoli, ma non anche per consentire che i terzi beneficino degli effetti favorevoli. La fuoriuscita del bene dal patrimonio dei coniugi debitori, viceversa, è un effetto sfavorevole per il terzo creditore (se il bene non appartiene più al debitore, il creditore non può più iscrivervi l’ipoteca giudiziale), e non è a lui opponibile perché la compravendita fu trascritta tardivamente. Si applica infatti l’art.2644, co.1, c.c., che fa prevalere l’avente causa che per primo dà corso agli adempimenti pubblicitari, cioè, nel caso in esame, il creditore ipotecario.
5. Opponibilità dell’atto e opponibilità dei suoi effetti. La sentenza considera la rimozione del vincolo nascente dal fondo come un effetto autonomo dal trasferimento del bene. Del primo effetto potrebbe avvalersi il creditore della comunione, al quale, viceversa, sarebbe inopponibile il secondo9. Scindendo in due ordini gli effetti della compravendita trascritta tardivamente, la sentenza ne “salva” uno. Benché non ancora trascritta, la compravendita avrebbe l’effetto di rimuovere il divieto dell’art.170 c.c., e l’immobile potrebbe essere aggredito anche da chi esercita crediti contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Ma le disposizioni della pubblicità immobiliare stabiliscono quando un atto è efficace verso un terzo e quando non lo è. Esse non contemplano la possibilità che un atto produca nei confronti di qualcuno soltanto una parte dei suoi effetti. Opponibile o inopponibile è l’(intero) atto, e non ciascun suo effetto. Pertanto, dalla compravendita non ancora trascritta e inopponibile ai terzi, la banca non può trarre alcun vantaggio, ed in particolare non può trarre la legittimazione ad iscrivere ipoteca a garanzia di un credito estraneo ai bisogni della famiglia.
9
La pubblicità immobiliare conosce nell’art.2650 c.c. una fattispecie in cui un atto dispositivo produce un effetto favorevole per un terzo; ed è un effetto indiretto che si avvera soltanto a favore di un avente causa dell’acquirente. Nel caso in esame, invece la rimozione del divieto di escussione costituirebbe un effetto favorevole, rivolto direttamente a vantaggio del creditore ipotecario, che non è un avente causa dell’acquirente, ma degli alienanti. (V. infra §.10).
201
Giurisprudenza
6. Vincolo del fondo e regime della comunione. Ma quandanche (come assume la sentenza) gli effetti della compravendita verso la banca fossero scindibili, non si giungerebbe alle conclusioni indicate dalla S.C. Se si afferma che, benché tardivamente trascritta, la compravendita ha comunque rimosso il divieto dell’art.170 c.c., occorre allora indicare a quali altre regole l’immobile viene ad essere sottoposto nelle more della trascrizione della compravendita. In particolare – per giungere alle conclusioni della sentenza –, occorre applicare una norma che consenta ai creditori dei coniugi di aggredire l’immobile. Più precisamente, bisognerebbe dimostrare che nel tempo compreso fra la stipulazione e la trascrizione della compravendita, il bene ha continuato ad appartenere ai coniugi, ma secondo un regime diverso da quello precedente, e cioè secondo le regole della comunione (e bisognerebbe precisare se legale o ordinaria), le quali hanno consentito alla banca, creditrice di ambo i coniugi, di iscrivere validamente ipoteca giudiziale10. Tale conclusione non è giustificabile argomentando dall’art. 168, co.1, c.c., ai sensi del quale “la proprietà dei beni costituenti il fondo spetta ad entrambi i coniugi”. Infatti, questa disposizione non va intesa nel senso che sul bene conferito nel fondo gravano due diritti (un diritto di godimento e un diritto di proprietà), sicché, rimosso il vincolo del fondo patrimoniale, resta comunque la comproprietà dei coniugi. Né i beni conferiti nel fondo sono sottoposti ai due regimi in modo consecutivo, applicandosene, dapprima l’uno e poi, alienato il bene, l’altro. Piuttosto, la previsione dell’art. 168, co.1, c.c., è stata dettata perché il costituente potrebbe conferire nel fondo soltanto il godimento del bene, e riservarsene la nuda proprietà, e tuttavia la legge “configura il trasferimento della [piena] proprietà dal costituente ai coniugi come effetto naturale della costituzione di fondo patrimoniale”11. Pertanto la norma va intesa nel senso che, “salvo che sia diversamente disposto nell’atto di costituzione”, i beni conferiti nel fondo patrimoniale soggiacciono ad un unico regime, nel quale si combinano le norme dettate negli artt.167 ss., e le norme alle quali in questa sezione si fa rinvio parlando di “proprietà”. Si ha così una comproprietà sui generis e non la compresenza della comproprietà e del vincolo del fondo12.
10
Non basta affermare che è caduto il divieto dell’art.170 c.c. per giustificare la pretesa del creditore sul bene alienato. Occorre anche dimostrare che, cadendo il vincolo, sono divenute applicabili le norme che consentono al creditore della comunione di soddisfarsi sul bene. 11 G. Gabrielli, voce “Patrimonio familiare e fondo patrimoniale”, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 302; G. Cian e G. Casarotto, voce “Fondo patrimoniale della famiglia”, in NNDI, Appendice, III, Torino, 1982, 833. La costituzione del fondo “comporta normalmente spostamento di ricchezza perché i beni in esso confluenti appartengono [ora] ad entrambi i coniugi”. “Tale spostamento di ricchezza manca nel caso in cui al fondo vengono attribuiti beni già in comunione tra coniugi per quote eguali, onde essi mutano regime, ma non titolarità” (T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Il diritto di famiglia, Tratt. dir. da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2a ed., Torino, 2007, 409. 12 Nel senso che la disciplina del fondo si integra con quella della comunione, A. Galasso, Regime patrimoniale della famiglia, I, nel Commentario del codice civile Scialoja e Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 2003, 194, 151.
202
Ruggero Vigo
Per questa ragione, “in seguito alla alienazione, il bene cessa di far parte del fondo”13, e l’ipoteca è inutilmente iscritta, sia che il trasferimento è opponibile al creditore ipotecario (in tal caso il bene non appartiene più ai coniugi), sia che non lo è (in tal caso il vincolo del fondo continua ad operare).
7. Il (contestabile) transito dal regime della comunione. L’applicabilità delle regole della comunione autonomamente da quelle del fondo non trova fondamento nemmeno adducendo che il regime del fondo è riferibile soltanto ai “determinati beni” (art.167 c.c.) che vi sono conferiti, mentre per gli altri beni acquistati dai coniugi vige un diverso regime patrimoniale (nel caso in esame, la comunione). Dal fatto che le regole del fondo hanno un ambito di applicazione circoscritto ai beni conferiti14 qualcuno potrebbe desumere che il regime della comunione si applichi di diritto non appena la compravendita fa cessare il vincolo del fondo su quel bene. Questa fase sarebbe soltanto istantanea in quanto, nello stesso momento, il bene venduto fuoriesce dal fondo patrimoniale, ricade nel regime della comunione e si trasferisce nel patrimonio dell’acquirente. Pertanto, le opportunità dei creditori della comunione sarebbero realmente nulle, se non intervenissero le regole della pubblicità immobiliare, le quali impongono all’acquirente di trascrivere il suo acquisto prima che i creditori della comunione pignorino il bene o vi iscrivano ipoteca. In tal modo (ed è quel che sarebbe avvenuto nel caso in esame), se il compratore tarda a trascrivere il suo acquisto, si apre una finestra temporale della quale può avvalersi il creditore ipotecario. Questa costruzione non appare fondata. Il fatto che le regole del fondo si applicano soltanto a beni “determinati” non implica che, quando l’immobile giacente nel fondo è alienato, lo stesso bene transiti per il regime della comunione prima di approdare al patrimonio dell’acquirente. La legge non ha necessità di disporre questo tragitto e nessun elemento esegetico depone nel senso che lo abbia fatto. Se davvero la legge avesse voluto consentire al creditore estraneo al fondo di prendere ipoteca giudiziale sul bene alienato, non avrebbe dettato l’art.169 c.c., e la rimozione del
È discusso se possano essere conferiti in un fondo patrimoniale i beni della comunione legale, “senza escluderli preventivamente dalla stessa” (T. Auletta, Il fondo patrimoniale, cit., 100). Chi risponde in modo affermativo si dà carico, poi, di coordinare le due discipline. Ad esempio, si precisa che anche in questo caso i creditori della comunione subiscono il divieto dell’art. 170 c.c. (T. Auletta, op.ult.cit, 102). È stato scritto che “la disciplina della comunione rimane allora in parte assorbita, ma non esclusa, da quella del fondo, che, a sua volta, richiama largamente il modello della comunione” (C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1., La famiglia, 6a ed., Milano, 2017, 134, nota 332). Discusso anche se la comunione di cui all’art.168 c.c. sia quella legale o quella ordinaria: M. Paladini, in Diritto di famiglia a cura di G. Amadio e F. Macario, Bologna, 2016, 128. 13 T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Il diritto di famiglia, II,Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 435. 14 Il regime del fondo patrimoniale “si aggiunge, ma non si sostituisce a quello legale o convenzionale operante tra i coniugi, di comunione o di separazione dei beni”: A. Saturno, Il fondo patrimoniale, cit., 374.
203
Giurisprudenza
vincolo impresso con il fondo avverrebbe soltanto quando i coniugi sciolgono il fondo, o quando stipulano e trascrivono un autonomo atto di rimozione del vincolo, limitatamente ad un bene15.
8. Interruzione del meccanismo pubblicitario. Da quanto si è detto deriva che l’immobile giacente nel fondo e poi alienato non cade nemmeno transitoriamente in comunione e non è mai aggredibile dai titolari di crediti sorti per ragioni estranee ai bisogni della famiglia. Questo creditore iscrive inutilmente l’ipoteca e, come nel caso già esaminato (b1), non sorge un conflitto fra due aventi causa che possa essere risolto ai sensi dell’art.2644 c.c. Vi è un solo avente causa, ed è l’acquirente16. Questa conclusione trova conferma osservando che, ove si seguisse l’opinione accolta nella sentenza, e se, quindi, la banca potesse aggredire l’immobile alienato, si avrebbe un “vulnus” del sistema pubblicitario. Infatti, se davvero il bene proveniente dal fondo cadesse ope legis in comunione non vincolata, il regime giuridico dell’immobile subirebbe una modificazione non sottoposta a pubblicità, con pregiudizio dei terzi i quali non avrebbero conoscenza di un fatto per loro rilevante. In particolare, sono interessati ad avere notizia del mutamento di regime i creditori della comunione che intendono iscrivere ipoteca giudiziale o sottoporre il bene ad esecuzione forzata; i creditori del fondo patrimoniale, che ora non possono opporsi a tale esecuzione; gli aventi causa dai coniugi, il cui acquisto è opponibile al creditore ipotecario e ai creditori (della comunione) pignoranti solo se è anteriore alla rimozione del vincolo (cioè solo se è anteriore alla compravendita non trascritta)17. In mancanza di una specifica formalità pubblicitaria il transito attraverso il regime della comunione sarebbe conoscibile dagli interessati in modo indiretto e tardivo: i terzi desumerebbero che il bene è stato sottoposto alle regole della comunione soltanto quando è stato trascritto l’atto di alienazione e quindi soltanto quando quelle regole non si applicano più.
15
Sono le prime due vie indicate nel §.2. L’ipoteca giudiziale su cui si pronuncia la sentenza non è stata “validamente presa” dalla banca (art.2822 c.c.), ma fu iscritta in violazione del divieto dell’art.170 c.c., e pertanto “deve ritenersi radicalmente nulla” (A. Ravazzoni, voce “Ipoteca immobiliare” in Enc. giur., XIX,1990, Roma, § 3.1.2.: l’a. prende in esame l’ipoteca iscritta su un bene del fondo in mancanza dei presupposti di cui all’art. 169 c.c.). 17 Seguendo il ragionamento della S.C., se vi è una doppia alienazione, oltre che l’iscrizione della ipoteca, il creditore ipotecario prevale sul secondo acquirente, che trascrive dopo l’iscrizione dell’ipoteca, come prevale sul primo acquirente (che, in ipotesi, non abbia trascritto). Peraltro, quando trascrive il suo acquisto, il secondo acquirente non ha notizia della preesistente rimozione del vincolo, conseguente alla prima compravendita e quindi non può valutare se l’ipoteca sia stata utilmente iscritta. 16
204
Ruggero Vigo
9. Continuità delle formalità pubblicitarie. In senso contrario alla opinione qui espressa, la sentenza argomenta dal principio consensualistico che i terzi possono avvalersi anche di atti non trascritti. La disciplina della pubblicità immobiliare non lo impedirebbe. La fondatezza di questo asserto può essere contestata facendo riferimento all’art. 2650 c.c., che impone al subacquirente l’onere di trascrivere l’acquisto del suo dante causa per risolvere a proprio favore il conflitto con un altro subacquirente. Questa disposizione mira a dare continuità alle formalità pubblicitarie, dacché in mancanza di continuità si riduce la capacità informativa dei registri immobiliari. Ma un difetto di continuità è proprio ciò in cui la disciplina della pubblicità immobiliare incorrerebbe se il creditore iscrivesse validamente ipoteca su un bene che nei pubblici registri risulta ancora sottoposto al regime del fondo, mentre, effettivamente, sarebbe caduto in comunione. In questo senso, se non vi è la pubblicità della modifica del regime patrimoniale, viene meno la continuità delle formalità pubblicitarie18. Poiché la fuoriuscita dell’immobile dal regime del fondo non è effetto di un atto autonomamente trascrivibile, ma discende dalla compravendita stipulata ai sensi dell’art.169 c.c., seguendo il ragionamento della sentenza, si giungerebbe all’inaccettabile risultato di applicare l’art.2644 c.c., in assenza di continuità, e il creditore della comunione potrebbe utilmente iscrivere ipoteca pur in mancanza di pubblicità del mutamento del regime patrimoniale19.
10. Inapplicabilità dell’art.2650 c.c. Né si può asserire che l’iscrizione dell’ipoteca avrebbe un effetto di prenotazione, alla stregua di quanto dispone l’art.2650 c.c. per la trascrizione degli atti dei subacquirenti. La previsione dell’art.2650 c.c. non è estensibile analogicamente alla fattispecie qui in esame, perché l’art.2650 c.c. impone al subacquirente l’onere di trascrivere l’atto di acquisto del suo dante causa.
18
Non si prospetta un difetto di continuità nel senso che la consultazione dei registri non consente di ricostruire la catena dei trasferimenti del bene, ma nel senso che non si ha pubblica notizia della rimozione del vincolo gravante sul fondo, onde chi consulta i registri non ha modo di sapere se l’ipoteca giudiziale è stata utilmente iscritta e se l’atto di pignoramento è stato efficacemente trascritto. (v. supra, §.7). 19 Posto che la pubblicità dichiarativa fa gravare l’onere di trascrivere un atto su chi ne trae vantaggio, e posto che, nel caso in esame, a giudizio della corte, dalla rimozione del vincolo non trae vantaggio l’acquirente, ma il creditore ipotecario, allora la legge avrebbe dovuto imporre quell’onere sul creditore. Ma, se il creditore osservasse quell’onere soccomberebbe immancabilmente e la trascrizione della compravendita gioverebbe all’acquirente. (Nel senso che qualunque interessato è legittimato alla trascrizione degli atti che altri ha compiuto v. F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare, t. II, Il codice civile, Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1993, 193).
205
Giurisprudenza
La compravendita fra i coniugi ed il terzo, per effetto della quale viene meno il vincolo del fondo, non può essere equiparata all’“atto anteriore di acquisto” considerato dall’art.2650, co.1, c.c. Infatti, se quella compravendita fosse stata tempestivamente trascritta, il creditore non avrebbe potuto iscrivere utilmente l’ipoteca. Al contrario, se fosse stato trascritto l’atto di acquisto di cui all’art.2650 c.c., il secondo acquisto sarebbe stato immediatamente efficace. Il creditore ipotecario non è un subacquirente, a differenza del secondo acquirente di cui all’art.2650 c.c. Ruggero Vigo
206
Giurisprudenza App. Napoli, sez. V, 12 gennaio 2018; Celentano Presidente Relatore Azione di riduzione – Rinuncia – Tutela dei creditori – Impugnazione della rinuncia all’eredità da parte dei creditori – Analogia La rinuncia del legittimario all’azione di riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva può essere impugnata dai creditori del legittimario con il rimedio di cui all’art. 524 c.c. e dal curatore del fallimento del legittimario in forza del combinato disposto degli artt. 66, primo comma, l.f. e 524 c.c., anche nel caso del legittimario pretermesso.
(Omissis)
verbale di pubblicazione del testamento olografo
Svolgimento del processo – Motivi della decisione.
del padre, avevano espressamente rinunziato ad
1.1. Il 7 marzo 2012 il Tribunale di Napoli di-
agire per la riduzione delle disposizioni testamen-
chiarava il fallimento della R.A. S.A.S. e della sua
tarie del de cuius lesive dei diritti a loro riservati
socia accomandataria, P.R..
in quanto legittimari.
Dagli accertamenti successivamente compiuti
1.2. Pertanto, con citazione notificata l’8 no-
dagli organi della procedura fallimentare emer-
vembre 2012 a P.R. ed a tutti gli eredi testamentari
geva che né la società fallita né la sua socia ac-
di F.R., il Curatore dei suindicati fallimenti adiva
comandataria erano proprietarie di immobili o di
il Tribunale di Napoli chiedendo che - previa la
mobili registrati.
dichiarazione dell’inefficacia nei suoi confronti, in
Molte erano invece le domande di ammissione
applicazione analogica di quanto disposto dall’art.
al passivo dei loro fallimenti, tra le quali spiccava
524 c.c. o, in subordine, in forza dell’art. 2901 c.c.,
quella presentata dall’Agente della riscossione per
della rinunzia della prima ad esercitare l’azione di
un importo complessivo superiore a 300.000,00
riduzione contro i secondi - ciascuna delle quote
Euro, relativo ad imposte e tasse di cui era stato
dell’eredità di F.R. di cui quest’ultimo aveva dispo-
intimato il pagamento con cartelle notificate tra il
sto per testamento fosse ridotta di 1/6 in modo da
2001 ed il 2011.
reintegrare la quota di 1/6 di tale eredità alla pri-
Il Curatore fallimentare inoltre accertava che il
ma riservata dalla legge e che, conseguentemente,
25 ottobre 2006 era deceduto in Napoli il padre
i secondi fossero condannati a restituirgli 1/6 dei
della fallita P.R., F.R., il quale, con un testamento
beni ricevuti in eredità o, nel caso in cui la resti-
olografo datato 6 dicembre 2005 e pubblicato il 12
tuzione in natura della quota di tali beni spettante
novembre 2007, aveva lasciato in eredità ai suoi
alla prima fosse risultata impossibile, a pagarglie-
figli F., M. e F.R., le sue nuore P.C., moglie di suo
ne l’equivalente pecuniario, che indicava pari a
figlio S., e T.C., moglie di suo figlio F., i suoi nipoti
189.204,16 Euro, oltre agli accessori, nonché, in
N. e L.D.V., entrambi figli di sua figlia P., A. e G.C.,
ogni caso, a pagargli un’indennità per l’utilizzo dei
entrambi figli di sua figlia M., e S. e S.G., entrambi
beni caduti in successione e/o a rendergli il conto
figli di sua figlia A., i beni immobili che, secondo
della loro gestione.
il medesimo Curatore, costituivano tutto il suo pa-
1.3. Costituendosi in giudizio, tutti i convenuti
trimonio, dividendoli tra gli eredi da lui così no-
contestavano sotto vari profili l’ammissibilità e/o
minati, senza lasciar alcunché ai suoi figli A., P. e
la fondatezza delle domande proposte dalla Cu-
S., i quali poi, in occasione della redazione del
ratela attrice.
207
Giurisprudenza
1.4. All’esito del processo di primo grado, il Tri-
- il primo: “erronea e falsa applicazione dell’art.
bunale adito, con la sentenza indicata in epigrafe,
524 c.c. con riguardo alla sua esperibilità in ordine
pubblicata il 2 novembre 2015:
alla fattispecie che ne occupa”;
A) in accoglimento della domanda formulata
- il secondo: “erronea determinazione della
dalla Curatela attrice invocando l’art. 524 c.c., di-
massa ereditaria in riferimento agli appartamenti
chiarava “inefficace nei confronti dei creditori con-
edificati da C.A. e R.M.”;
corsuali la rinunzia alla quota di riserva effettuata dalla fallita R.P. nel verbale di pubblicazione del testamento olografo del padre R.F.”; B) in accoglimento della “domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della quota di riserva di R.P.”, condannava “i soggetti di seguito indicati al pagamento in favore del fallimento delle somme parimenti indicate in rela-
- il terzo: “erronea determinazione della massa ereditaria a seguito della mancata imputazione dell’importo di Euro 51.635,00 (pari a 100.000.000 delle vecchie lire) sulla quota di riserva della Signora R.P.”; - il quarto: “erronea determinazione della quota di riserva su cui calcolare il quantum debeatur astrattamente al fallimento”. 2.2. Costituendosi tempestivamente il 23 feb-
zione a ciascuno di essi, maggiorate degli inte-
braio 2016 nel processo d’appello così introdotto,
ressi legali sulle stesse via via rivalutate dal dì
F.R. e T.C. impugnavano, a loro volta, la suindicata
della notificazione della domanda giudiziale fino
sentenza e rassegnavano le conclusioni sopra in-
all’integrale soddisfo: R.F., per la somma di Euro
dicate sostenendo, in buona sostanza, che il primo
6.622,20; C.P., per la somma di Euro 62.551; C.T.,
Giudice aveva errato:
per la somma di Euro 3.462,50; D.V.N., per la somma di Euro 6.054,52; D.V.L., per la somma di Euro
1) nel ritenere applicabile alla fattispecie l’art. 524 c.c.;
16.971,60; C.A., per la somma di Euro 29.137,42;
2) nel non considerare che P.R. aveva ricevuto
C.G., per la somma di Euro 35.948,76; G.S., per la
dal padre, allorché questi era ancora in vita, “la
somma di Euro 14.228,10: G.S., per la somma di
somma di Euro 51635,00 a titolo di prestito mai re-
Euro 14.228,10”;
stituito … e per questo trasformatosi in donazione
C) condannava infine “i convenuti al pagamento in favore dell’erario della somma di Euro 10.000, oltre al rimborso delle spese generali, iva e cpa come per legge, nelle seguenti proporzioni: R.F., 3,50%; C.P., 33,06%; C.T., 1,83%; D.V.N., 3,20%; D.V.L., 8,97%; C.A., 15,40%; C.G., 19%, G.S., 7,52%; G.S., 7,52%”. 2.1. Avverso tale sentenza, P.R., N.D.V., L.D.V., P.C., M.R., A.C. e G.C. - con citazione per l’udienza
da far rientrare nell’asse ereditario”; 3) nel determinare la quota di riserva spettante a P.R. in 1/6, anziché in 1/9, del relictum. 2.3. Costituendosi, a sua volta, tempestivamente innanzi a questa Corte il 26 febbraio 2016, la Curatela appellata contestava la fondatezza dell’appello notificatogli e chiedeva pertanto la conferma della sentenza appellata e, in subordine, riproponeva tutte le domande da essa formulate al Giudice di primo grado, tra cui quella volta ad
del 18 marzo 2016 notificata al Curatore dei falli-
ottenere in fora dell’art. 2901 c.c. la dichiarazione
menti della R.A. S.A.S. e di P.R. il 4 dicembre 2015,
dell’inefficacia nei suoi confronti della rinunzia di
a S.G. e S.G. il 9 dicembre 2015 ed a F.R., F.R. e
P.R. ad esercitare l’azione di riduzione delle quote
T.C. il 10 dicembre 2015 - s’appellavano a questa
dell’asse ereditario del padre da questo devolute
Corte, per sentir accogliere le conclusioni sopra
per testamento, rassegnando quindi le conclusioni
indicate, sulla base di quattro motivi, intitolati:
sopra indicate.
208
Aldo Corvino
2.4. F.R., S.G. e S.G. invece non si costituivano, sicché vanno dichiarati contumaci.
della quale s’è espressa anche Cass. 3208/1959), non impedisce ai creditori del legittimario di eser-
2.5.1.1. Fatte queste premesse, la prima que-
citare l’azione di riduzione delle donazioni e del-
stione che occorre affrontare è evidentemente
le disposizioni testamentarie lesive della quota
quella dell’applicabilità dell’art. 524 c.c. al caso in
di riserva spettante al legittimario surrogandosi a
cui il legittimario pretermesso abbia rinunziato ad
quest’ultimo in forza di quanto disposto dall’art.
esercitare l’azione di riduzione delle disposizioni
2900 c.c.
testamentarie del de cuius lesive della quota di
D’altronde, dal terzo comma dello stesso art.
eredità riservatagli dalla legge, così danneggiando
557 c.c. si ricava, a contrariis, che l’azione di ri-
i propri creditori.
duzione può essere esercitata anche dai creditori
Il Giudice di primo grado ha infatti – in consa-
del defunto, qualora il legittimario non abbia ac-
pevole contrasto con la giurisprudenza della Corte
cettato l’eredità con beneficio d’inventario, sebbe-
di cassazione (e, in particolare, con quanto affer-
ne tali soggetti non siano contemplati dal primo
mato da Cass. 20562/2008 e peraltro di recente ri-
comma dello stesso articolo e possano agire per
badito da Cass. 3389/2016) – ritenuto la previsione
la riduzione delle donazioni e delle disposizioni
di cui all’art. 524 c.c. applicabile anche a questo
testamentarie lesive della quota di riserva del legit-
caso, anche se ricorrendo all’interpretazione ana-
timario, divenuto loro debitore a causa della man-
logica, per la decisiva ragione che la situazione dei
cata accettazione dell’eredità con beneficio d’in-
creditori danneggiati dalla rinunzia del debitore ad
ventario e della conseguente confusione tra il suo
un’eredità è sostanzialmente analoga a quella dei
patrimonio personale e quello ereditario, soltanto
creditori danneggiati dalla rinunzia del debitore a
ai sensi dell’art. 2900 c.c.
chiedere la riduzione delle disposizioni testamen-
Sicché non si vede perché non debba essere
tarie lesive della quota di un’eredità spettantegli
riconosciuta analoga tutela in favore dei creditori
per legge in quanto legittimario, mentre tutti gli
del legittimario.
appellanti contestano questa tesi.
Non ha invece bisogno di ricorrere alla tutela
2.5.1.2. Il codice civile non si occupa specifi-
accordata ai creditori dall’art. 2900 c.c. il curato-
camente dei creditori del legittimario e, d’altron-
re del fallimento del legittimario, al quale va ri-
de, l’art. 557, co. 1, c.c.prevede che “la riduzione
conosciuto il potere di chiedere direttamente, in
delle donazioni e delle disposizioni lesive della
forza di quanto disposto dall’art. 43 l.fall. e dun-
porzione di legittima non può essere domandata
que in luogo del legittimario fallito, la riduzione
che dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa”;
delle donazioni e delle disposizioni testamentarie
il che, al contrario di quanto affermato da una par-
lesive della quota di riserva spettante a quest’ul-
te minoritaria della dottrina, induce ad escludere
timo come condivisibilmente affermato da Cass.
che l’azione di riduzione possa essere esercitata
11737/2013, secondo la cui massima ufficiale: “In
direttamente dai creditori dei legittimari, posto
tema di successione necessaria, il curatore falli-
che, almeno secondo l’accorta terminologia utiliz-
mentare del legittimario può esercitare azione di
zata dal legislatore codicistico, i creditori non sono
riduzione, in virtù della legittimazione a stare in
compresi tra gli aventi causa di un determinato
giudizio per i rapporti di diritto patrimoniale com-
soggetto (cfr., ad es., art. 1415, co. 1, c.c.).
presi nel fallimento attribuitagli dall’art. 43 legge
La previsione di cui al primo comma dell’art.
fall., oltre che per effetto dello spossessamento
557 c.c. però, secondo l’opinione che a questa
fallimentare che priva il fallito della disponibilità
Corte pare prevalente e preferibile (ed in favore
di suoi beni (tra i quali sono da ricomprendere i
209
Giurisprudenza
diritti patrimoniali spettanti al fallito quale legittimario)”.
Anche in questo caso infatti il favorevole esito dell’azione revocatoria non consentirebbe al credi-
Sia per i creditori che per il curatore del falli-
tore del legittimario (pretermesso o semplicemen-
mento del legittimario assai problematico è invece
te leso) di soddisfare le proprie ragioni od al cu-
reagire alla rinunzia del debitore ad esercitare l’a-
ratore del fallimento del legittimario di soddisfare
zione di riduzione.
le ragioni della massa dei creditori di quest’ultimo
Infatti, la Corte di cassazione, con la sentenza
se non dopo il vittorioso esercizio dell’azione di
19 febbraio 2013, n. 4005, ribadendo un principio
riduzione delle donazioni o delle disposizioni te-
già affermato con le sentenze 21 luglio 1966, n.
stamentarie lesive della quota di legittima spettan-
1979, 22 aprile 1992, n. 4800, ed 11 maggio 2007,
te al debitore.
n. 10789, ha negato che possano essere revocati in
D’altro canto, la stessa Corte di cassazione, con
forza dell’art. 2901 c.c. ”atti che si sostanziano nel-
la sentenza 22 febbraio 2016, n. 3389, ponendosi
la rinuncia ad una facoltà, per effetto della quale
sulla scia della sentenza 29 luglio 2008, n. 20562,
non resta modificato, né attivamente né passiva-
ha affermato che “La rinuncia all’azione di ridu-
mente, il patrimonio del debitore e che, pertanto,
zione da parte del legittimario totalmente preter-
anche se dichiarati inefficaci nei confronti del cre-
messo diverge, sul piano funzionale e strutturale,
ditore, non consentirebbero il conseguimento del-
dalla rinuncia all’eredità, non potendo il riserva-
lo scopo cui è preordinata l’azione stessa, secondo
tario essere qualificato chiamato all’eredità prima
la “ratio” assegnatale dal legislatore”, ed ha conse-
dell’accoglimento dell’azione di riduzione volta a
guentemente ritenuto inammissibile la revoca di
rimuovere l’efficacia delle disposizioni testamen-
un atto con cui il debitore “aveva, prestando totale
tarie lesive dei suoi diritti, sicché il creditore del
adesione e acquiescenza al legato in sostituzio-
legittimario totalmente pretermesso che intenda
ne di legittima a lui attribuito dal testamento della
esperire l’azione ex art. 524 c.c., deve previamente
madre, rinunciato a promuovere nei confronti dei
impugnare la rinunzia di costui all’azione di ridu-
propri figli, eredi testamentari rispetto agli unici
zione”.
immobili caduti in successione, ogni azione di ri-
Non s’è fatta però carico di spiegare mediante
duzione per lesione di quota di legittima”. “atte-
quale azione il creditore – ma lo stesso discorso
so che, sostanziandosi l’atto di disposizione nella
dovrebbe valere per il curatore del fallimento –
rinuncia ad una facoltà, l’eventuale accoglimento
del legittimario pretermesso potrebbe impugnare
dell’azione, con la dichiarazione di inefficacia del-
la rinunzia di quest’ultimo all’azione di riduzione
lo stesso, non consentirebbe al creditore di soddi-
se fosse vero che (come da ultimo ribadito dalla
sfare le proprie ragioni, restando i beni nella pro-
cit. Cass. 4005/2013) questa rinunzia non può es-
prietà dei soggetti individuati dal de cuius, sino al
sere revocata in forza di quanto disposto dall’art.
positivo esperimento dell’azione di riduzione, che
2901 c.c.
presuppone la rinuncia al legato”.
Risulta dunque evidente la necessità di un’at-
Il che sembra voler dire che la revoca ai sen-
tenta rivisitazione degli orientamenti del Giudice
si dell’art. 2901 c.c. della rinunzia del legittimario
della nomofilachia ai quali s’è sopra fatto riferi-
all’esercizio dell’azione di riduzione non è, se-
mento, che, per quanto detto, finiscono per con-
condo la Suprema Corte, mai consentita, nemme-
traddirsi e rischiano di lasciare inaccettabilmente
no nel caso in cui tale rinunzia non sia correlata
disarmati sia i creditori sia il curatore del fallimen-
all’accettazione da parte del legittimario del legato
to del legittimario, specialmente, ma non solo, se
attribuitogli in sostituzione della quota di riserva.
pretermesso, di fronte alla rinunzia di quest’ultimo
210
Aldo Corvino
all’esercizio dell’azione di riduzione delle dona-
Non si vede pertanto perché non debba essere
zioni e delle disposizioni testamentarie lesive della
riconosciuta la natura di atto di disposizione del
sua quota di riserva.
proprio patrimonio a quello con cui il legittimario
Ebbene, ad avviso di questa Corte, innanzitutto
rinunzia ad esercitare l’azione di riduzione delle
non può essere condivisa l’idea che la rinunzia del
donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive
legittimario all’azione di riduzione non può essere
della sua quota di riserva.
revocata in forza dell’art. 2901 c.c. (secondo quanto pare evincersi dalla cit. Cass. 4005/2013).
Pare infatti difficile negare che con una tale rinunzia il legittimario perde un diritto o, se si pre-
Vero è che oggetto dell’azione revocatoria pre-
ferisce, il potere o la facoltà di esercitare un dirit-
vista da questo articolo possono essere soltanto
to che, almeno dal momento della morte del de
gli atti con cui il debitore dispone del proprio pa-
cuius, è entrato nel suo patrimonio e non è privo
trimonio, cioè ne modifica, sotto il profilo eco-
di valore economico, tant’è vero che può essere
nomico-giuridico, la composizione quantitativa o qualitativa, attuale o futura (come affermato, ad es., da Cass. 1979/1966). Al contrario di quanto nella specie asserito dal Giudice di prime cure, non pare però a questa Corte necessario che si tratti di atti che producano il depauperamento del patrimonio del debitore ed il contestuale arricchimento del patrimonio altrui. La rinunzia ad un credito, ad esempio, in quanto atto meramente abdicativo e privo di efficacia estintiva dell’obbligazione, importa il depauperamento del patrimonio del creditore rinunziante senza il contestuale arricchimento del patrimonio del debitore, salvo che si ritenga che sia un arricchimento patrimoniale anche l’attribuzione della possibilità di formulare un’eccezione, e tuttavia è certamente lesiva delle ragioni dei creditori del creditore rinunziante, sicché non si vede
ceduto a terzi o cadere in successione, come chiaramente si desume dall’art. 557, co. 1, c.c., cioè, in sintesi, dispone del proprio patrimonio. Pertanto, non possono essere condivise le risalenti pronunzie della Corte di cassazione secondo le quali il diritto del legittimario alla riduzione delle donazioni e/o delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva (o l’azione volta a farlo valere) ha carattere strettamente personale (v. Cass.; 2845/1966; 160/1970) e pertanto è incedibile (v. Cass. 160/1970) e che peraltro paiono in larvato contrasto con altre pronunzie della Suprema Corte, precedenti, come quella che, quasi sessant’anni or sono, riconobbe al creditore del legittimario di azionare il diritto in questione surrogandosi al suo debitore (cfr. Cass. 3208/1959), e successive, come quelle che affermano che tale diritto ha contenuto patrimoniale ed è perciò disponibile (cfr. Cass.: 1373/2009; 2773/1997).
perché non possa farsi rientrare tra gli atti revo-
Costituisce poi un’indimostrata petizione di
cabili ai sensi dell’art. 2901 c.c. (nel cui novero
principio la negazione dell’ammissibilità dell’azio-
Cass. 1979/1966 include esplicitamente la rinunzia
ne revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. in tutti i casi
all’eredità e la rinunzia alla prescrizione sebbene
in cui il suo vittorioso esercizio non consentirebbe
entrambi tali rinunzie non importino il contestuale
al creditore di vedere soddisfatte le proprie ragioni
arricchimento di soggetti diversi dal rinunziante,
se non dopo il compimento di ulteriori attività, co-
se, come s’è avvertito, non si dà di tale arricchi-
me, ad esempio, l’esperimento di ulteriori azioni
mento una nozione assai ampia, ed il riconosci-
giudiziali.
mento della loro revocabilità appaia, almeno sotto
Vero è che il primo comma dell’art. 2902
il profilo pratico, inutile, tenuto conto di quanto
c.c. prevede che il creditore che, mediante l’e-
disposto dagli artt. 524 e 2939 c.c.).
sercizio di tale azione, abbia ottenuto la dichia-
211
Giurisprudenza
razione dell’inefficacia nei suoi confronti dell’atto
con quanto affermato dalla sentenza 4005/2013
con il quale il debitore abbia disposto del proprio
allorquando, con la sentenza 3389/2016, afferma,
patrimonio in suo danno “può promuovere nei
come già s’è detto, che “il creditore del legittima-
confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o
rio totalmente pretermesso che intenda esperire
conservative sui beni che formano oggetto dell’at-
l’azione ex art. 524 c.c., deve previamente impu-
to impugnato”,
gnare la rinunzia di costui all’azione di riduzione”,
Ma non pare proprio che da tale norma, che
senza poi specificare le azioni mediante le quali
evidentemente si riferisce ai soli casi in cui l’atto
tale rinunzia potrebbe essere impugnata, ma au-
del debitore dichiarato inefficace ai sensi dell’art.
torizzando a ritenere che intenda riferirsi anche
2901 c.c. sia un atto traslativo, possa ricavarsi
all’azione revocatoria.
un’ulteriore condizione d’ammissibilità dell’azione
La questione della revocabilità ai sensi dell’art.
revocatoria ordinaria, consistente appunto nell’i-
2901 c.c. della rinunzia del legittimario all’azione
doneità dell’esercizio vittorioso di tale azione a consentire al creditore di soddisfarsi delle sue ragioni senza bisogno di compiere ulteriori attività, oltre a quella di esercitare una o più azioni esecutive. Dall’art. 2901 c.c. si ricava infatti che l’azione revocatoria ivi prevista può avere ad oggetto anche atti privi di efficacia traslativa, come, ad esempio, quelli mediante i quali il debitore si limiti ad assumere un’obbligazione verso terzi oppure a costituire una garanzia reale in favore di terzi, la dichiarazione della cui inefficacia nei confronti del creditore certamente non può produrre gli effetti indicati dal primo comma dell’art. 2902 c.c., bensì semplicemente la possibilità per il creditore di agire esecutivamente sui beni del debitore senza subire la concorrenza del terzo divenuto creditore del debitore o titolare di un diritto reale di garan-
di riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva non merita però di essere ulteriormente approfondita, giacché, ad avviso di questa Corte, deve ammettersi che tale rinunzia può essere impugnata dai creditori del legittimario in forza di quanto previsto dall’art. 524 c.c. e dal curatore del fallimento del legittimario in forza del comb. disp. degli artt. 66, co. 1, l.fall. e 524 c.c., anche nel caso del legittimario pretermesso. Invero, anche a voler condividere il consolidato (ma tuttora fortemente e motivatamente criticato da molta ed autorevole dottrina) orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione secondo il quale il legittimario non è per ciò solo chiamato all’eredità, pare a questa Corte abbastanza evidente che, sotto il profilo sostan-
zia su beni di quest’ultimo in forza dell’atto dichia-
ziale, la situazione dei creditori del legittimario
rato inefficace.
pretermesso – e per questo non chiamato all’ere-
Sicché a questa Corte le ragioni sulla cui ba-
dità – che abbia rinunziato all’azione di riduzione
se, sulla scia di quanto affermato dalla Corte di
delle donazioni e delle disposizioni testamentarie
cassazione con le sentenze sopra citate, viene di
lesive della sua quota di riserva – e con ciò alla
solito negata la revocabilità ai sensi dell’art. 2901
parte dell’eredità che gli sarebbe spettata per leg-
c.c. della rinunzia del legittimario all’azione di ri-
ge – non è diversa da quella dei creditori del legit-
duzione delle donazioni e delle disposizioni testa-
timario semplicemente leso che abbia rinunziato
mentarie lesive della sua quota di riserva paiono
all’eredità devolutagli e perciò, esplicitamente od
in definitiva poco convincenti,
implicitamente, anche all’azione di riduzione delle
D’altronde, la stessa Corte di cassazione sembra porsi abbastanza chiaramente in contrasto
212
donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva.
Aldo Corvino
Sicché, come sostenuto anche da attenta dottrina, il principio di coerenza del sistema normativo e
mente coincidenti con quelle svolte dal Giudice di primo grado.
quello di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. impon-
2.5.2.1. Può quindi passarsi agli altri motivi de-
gono di riconoscere ai creditori – od al curatore
gli appelli in esame, che riguardano tutti l’acco-
del fallimento – del legittimario pretermesso che
glimento da parte del Giudice di prime cure della
abbia rinunziato all’azione di riduzione la possibi-
domanda di riduzione delle predette disposizioni
lità di tutelare le loro ragioni – o, rispettivamente,
testamentarie pure nella specie formulata dalla
le ragioni della massa dei creditori concorrenti nel
Curatela fallimentare attrice e le conseguenti statu-
fallimento del legittimario pretermesso – utilizzan-
izioni della sentenza impugnata.
do, direttamente od analogicamente, lo speciale rimedio di cui all’art. 524 c.c. e chiedendo quindi,
2.5.2.2. Alcune considerazioni paiono però preliminarmente necessarie.
contestualmente o successivamente, la riduzione
Nella giurisprudenza della Corte di cassazione
delle donazioni e delle disposizioni testamentarie
è consolidata l’affermazione, condivisa dalla dot-
lesive della quota di riserva spettante per legge al
trina prevalente e da questa Corte, che l’azione
debitore, surrogandosi a quest’ultimo, nel caso dei
di riduzione delle donazioni e delle disposizioni
creditori, o direttamente, nel caso del curatore del
testamentarie lesive della quota di riserva del legit-
fallimento.
timario ha carattere “personale” (cfr., ad es., Cass.:
Essendo necessaria al fine di assicurare anche
1884/2017; 26254/2008; 27414/2005; 4698/1999),
il rispetto del principio costituzionale di eguaglian-
sicché può essere autonomamente esercitata da
za sostanziale questa soluzione interpretativa non
ciascuno dei legittimari pretermessi o lesi senza
potrebbe invero essere considerata impraticabile
la necessità di chiamare in giudizio gli eventua-
nemmeno a causa della postulata natura eccezio-
li altri legittimari (cfr. Cass.: SS.UU. 13429/2006;
nale della norma di cui all’art. 524 c.c., che peral-
20143/2013; 27414/2005) e contro ciascuno degli
tro deve essere negata, giacché quello previsto da
eventualmente più beneficiari delle donazioni e/o
tale norma costituisce un mezzo di conservazione
delle disposizioni testamentarie lesive della quo-
della garanzia patrimoniale analogo a quelli pre-
ta di riserva spettante al legittimario attore (cfr.
visti dagli artt. 2900 e 2901 c.c. e caratterizzato
Cass. 27770/2011), che peraltro non possono es-
soltanto da alcuni elementi di specialità per nulla
sere considerati nemmeno obbligati in solido alla
distonici rispetto ai principi generali dell’ordina-
reintegrazione della quota di riserva (cfr. Cass.:
mento giuridico ed anzi funzionali ad assicurarne
1884/2017; 2202/1968).
una più efficace attuazione.
Ma da ciò discende anche che ciascuno dei
2.5.1.3. Il primo motivo degli appelli di P.R.,
giudizi promossi dal legittimario, sebbene even-
N.D.V., L.D.V., P.C., M.R., A.C., G.C., F.R. e T.C. va
tualmente cumulati in un unico processo, conser-
pertanto rigettato, dovendo la sentenza appellata
va la propria autonomia e può fisiologicamente
- nella parte con tale motivo censurata, cioè quel-
sfociare in giudicati contrastanti con quelli che co-
la relativa all’accoglimento della domanda della
stituiscono l’esito degli altri.
Curatela attrice volta ad ottenere la dichiarazione
Il che significa che, nella specie:
dell’inefficacia nei suoi confronti della rinunzia di
1) la sentenza appellata è passata in giudicato
P.R. all’azione di riduzione delle disposizioni testa-
nei rapporti tra la Curatela appellata ed i soggetti
mentarie di F.R. della quota di riserva a lei spet-
nominati da F.R. propri eredi e perciò convenuti
tante in quanto legittimaria - essere confermata,
in giudizio in primo grado che non l’hanno impu-
sia pur sulla base di considerazioni non perfetta-
gnata, cioè F.R., S.G. e S.G.;
213
Giurisprudenza
2) ciascuno degli appellanti poteva dolersi del
allorquando quest’ultimo era ancora in vita, anzi-
rigetto o comunque del mancato accoglimento da
ché soltanto quello, pari, secondo loro, a 50.000
parte del Giudice di prime cure soltanto delle do-
Euro, della sua area di sedime, e senza sottrarvi
mande e delle eccezioni in senso stretto che egli
né il costo, pari, secondo loro, a 160.000 Euro,
stesso aveva tempestivamente formulato o fatto
dei materiali, della manodopera e della pratica di
proprie;
condono sostenuto dagli stessi A.C. e M.R. per re-
3) di contro, l’art. 345, co. 2, c.p.c. consentiva a
alizzare e sanare l’abusività del suddetto fabbrica-
ciascuno degli appellanti di formulare per la prima
to né l’aumento di valore del terreno da questo
volta in appello eccezioni in senso lato e mere di-
determinato e pari, secondo loro, a 220.000 Euro.
fese, fossero state o meno state da loro formulate
Impugnano perciò la parte della sentenza ap-
in primo grado, e quindi anche di dolersi del riget-
pellata in cui si afferma quanto segue:
to o comunque del mancato accoglimento da parte
“Deve essere, inoltre, rigettata l’eccezione di
del Giudice di prime cure delle eccezioni in senso
C.A. e C.G., nipoti ex filia del de cuius R.F., i quali
lato e delle mere difese formulate in primo grado
hanno dedotto che il fabbricato che essi hanno
dalle altre parte convenutevi, ma soltanto nei li-
ricevuto in eredità dal nonno è stato, in realtà, co-
miti consentiti dall’attuale struttura del processo
struito a spese dei loro genitori su di un terreno di
ordinario di cognizione e, in particolare, dagli artt.
proprietà del de cuius.
167, co. 1, e 115, co. 1, c.p.c., i quali – stabilendo,
In sostanza, i convenuti hanno inteso dedurre
rispettivamente, che il convenuto deve, con la sua
che al valore del relictum al tempo dell’apertura
comparsa di risposta e dunque nel costituirsi nel
della successione, al fine di ricostruire l’entità della
processo di primo grado, “proporre tutte le sue
lesione della legittima della fallita, andava sottratto
difese prendendo posizione sui fatti posti dall’at-
il debito che il de cuius aveva ex art. 936 comma 2
tore a fondamento della domanda” e che il giudice
c.c. nei confronti dei genitori dei deducenti.
deve porre a fondamento della propria decisione
In vero, anche ad ammettere che l’eccezione
“i fatti non specificatamente contestati dalla parte
spiegata dai C. sia un’eccezione in senso lato,
costituita” – impediscono al convenuto costituitosi
dunque non soggetta alle preclusioni di cui all’art.
in primo grado di formulare per la prima volta in
167 comma 2 c.p.c., in quanto tesa ad offrire al
appello eccezioni in senso lato o mere difese fon-
Giudice gli elementi di fatto per la ricostruzione
date sulla contestazione di fatti allegati dall’attore
del patrimonio del de cuius utile alla verifica del
e dal medesimo convenuto non tempestivamente
rispetto delle quote di riserva dei legittimari, deve
contestati in primo grado, quanto meno se si tratti
osservarsi che la richiesta di CTU è esplorativa e
di fatti principali la cui sussistenza non sia comun-
non poggia su un’adeguata attività assertiva.
que esclusa dalle risultanze processuali.
I C., infatti, avrebbero dovuto innanzitutto dire
2.5.2.3. Questa premessa serve infatti in primo
se intendessero che fosse scomputato dal valore
luogo per lo scrutinio del secondo motivo dell’ap-
dell’immobile ad essi devoluto il valore dei ma-
pello proposto da P.R., N.D.V., L.D.V., P.C., M.R.,
teriali impiegati per la costruzione e il costo della
A.C. e G.C..
manodopera, oppure l’aumento di valore che il
Con tale motivo costoro si dolgono che il Giudice di primo grado abbia determinato il valore
fondo abbia conseguito in seguito alla costruzione del fabbricato ad opera dei genitori.
della massa ereditaria di F.R. includendovi anche
Inoltre, avrebbero dovuto tramite una consu-
quello del fabbricato costruito a cura e spese di
lenza tecnica offrire degli elementi precisi di va-
A.C. e M.R. su un terreno di proprietà del de cuius
lutazione al Giudice, il quale poi dal suo canto
214
Aldo Corvino
avrebbe potuto decidere la rilevanza di una con-
di dimostrare “che il valore del fabbricato, nella
sulenza tecnica d’ufficio anche in base all’eventua-
sua interezza, non apparteneva all’asse eredita-
le atteggiamento difensivo delle altre parti.
rio, bensì vi apparteneva l’area di sedime”, e non
Invece, la consulenza tecnica di parte versata
meritevole di considerazione “la difesa svolta sul
in atti si è limitata ad attestare che la pratica am-
punto” “solo perché difetterebbe, in essa, un mero
ministrativa di condono è stata seguita dai genitori
calcolo algebrico (sic!)”, che peraltro la loro difesa
dei deducenti, i quali ne avrebbero sopportato le
non aveva formulato perché era “partita da una ra-
spese.
gionamento opposto, molto più semplice: provato
Inoltre, sono state versate in atti alcune fatture
che effettivamente il manufatto è stato realizzato
di fornitura di materiali edili intestate ai genito-
dai genitori dei germani C., l’operazione da farsi
ri, senza nemmeno indicare una somma precisa
non dovrà essere stimare il valore dei materiali e
e complessiva da imputare a debito del de cuius.
della manodopera, né calcolare l’aumento di valo-
Tanto non basta per sollecitare una consulenza tecnica d’ufficio”.
re del fondo (operazione questa tanto più difficile perché parliamo di opere inizialmente abusive
Il che insomma significa che, secondo il primo
ndr), quanto, piuttosto, stimare il valore della sola
Giudice, A. e G.C. non potevano limitarsi ad alle-
area di sedime e inserire solo tale posta nella mas-
gare che gli appartamenti a loro attribuiti dal de
sa da dividere”.
cuius facevano parte di un fabbricato realizzato su
È tuttavia evidente, da una parte, che il Giudice
un terreno di proprietà di quest’ultimo “a cura e
di prime cure non ha respinto la difesa sul punto
spese” dei loro genitori e pertanto dovevano esse-
spiegata da A. e G.C., insieme a F., M. e F.R. ed
re esclusi dalla massa dei beni sul cui valore anda-
a T.C., comunque la si voglia qualificare sotto il
va calcolata la quota di riserva spettante alla fallita
profilo giuridico, sol perché non corredata da un
P.R., ma – posto che, sempre secondo il Giudice di
mero calcolo algebrico, bensì perché l’ha ritenu-
prime cure, la loro eccezione, anche a volerla con-
ta irrimediabilmente carente innanzitutto sotto il
siderare tale solo in senso lato (ma, in realtà, essi
profilo assertivo e poi sotto il profilo probatorio,
avevano, insieme a F., M. e F.R. e T.C., proposto al
e, dall’altra, che gli stessi appellanti non negano il
riguardo una domanda riconvenzionale condizio-
deficit assertivo dal Giudice di prime cure eviden-
nata), doveva essere interpretata come volta a de-
ziato e ritenuto decisivo, limitandosi in sostanza a
trarre da detta massa il debito che il de cuius ave-
spiegarne le ragioni ed a dedurne implicitamente
va nei confronti dei loro genitori ai sensi dell’art.
l’irrilevanza a fronte delle prove testimoniali e do-
936, co. 2, c.c. – avevano innanzitutto l’onere, che
cumentali da loro offerte.
non avevano poi soddisfatto, di dire se tale debi-
Senonché, secondo quanto più volte condivisi-
to andava commisurato al valore dei materiali e
bilmente affermato dalla Corte di cassazione (cfr.,
della manodopera utilizzati per la costruzione del
ad es., Cass.: 1357/2017; 20830/2016; 14473/2011;
fabbricato oppure all’aumento di valore arrecato
13310/2002; 3661/1975), il legittimario che agisca
al fondo dal fabbricato e, nell’uno come nell’altro
per la riduzione delle donazioni e delle disposi-
caso, di quantificarne precisamente l’importo, con
zioni testamentarie lesive della sua quota di riser-
il necessario supporto di una consulenza tecnica.
va ha innanzitutto l’onere di indicare i beni che
Di contro, P.R., N.D.V., L.D.V., P.C., M.R., A.C.
compongono la massa sulla quale tale quota va
e G.C. in sostanza sostengono che il primo Giu-
calcolata ed il loro valore e lo stesso deve gioco-
dice ha errato nel ritenere irrilevanti le prove te-
forza ritenersi che valga, mutatis mutandis, nel ca-
stimoniali e documentali da loro offertegli al fine
so in cui l’azione di riduzione venga esercitata da
215
Giurisprudenza
un suo creditore o, come nella specie, dal curatore
ha errato nel non imputare alla quota di riserva
del suo fallimento.
spettante a P.R. ed i secondi sostengono che lo
Pertanto, una volta che l’attore in riduzione,
stesso Giudice ha errato nel non detrarre dal va-
come nella specie la Curatela attrice, abbia sod-
lore della massa dei beni di F.R. da prendere in
disfatto tale onere di allegazione, deve altresì ri-
considerazione ai fini della verifica della sussi-
tenersi che a carico del convenuto insorga il sim-
stenza e dell’entità della lesione di detta quota la
metrico ed opposto onere – compreso in quello,
somma di 100.000.000 di lire che essi affermano
più ampio, di prendere posizione sui fatti posti
da quest’ultima ricevuta dal padre ancora in vita
dall’attore a fondamento della sua domanda, rica-
a titolo di prestito gratuito e mai restituita, con la
vabile già dall’art. 167, co. 1, c.p.c. – di indicare le
conseguente trasformazione di fatto del prestito in
ragioni per le quali ritiene che tale domanda deb-
una donazione.
ba essere rigettata e dunque, se del caso, il minor valore che, a suo avviso, deve essere attribuito alla massa di beni da prendere in considerazione; e, siccome è pacifico che nella specie quest’onere – fatto salvo quanto si dirà appresso a proposito del motivo d’appello che sarà successivamente esaminato – non è stato assolto da alcuno dei convenuti, la decisione del Giudice di prime cure che si sta considerando deve essere giudicata in definitiva corretta. Né può ritenersi consentito al convenuto che non abbia soddisfatto quest’onere nel costituirsi innanzi al Giudice di prime cure di rimediarvi con il suo atto d’appello, come nella specie in sostanza vorrebbero A. e G.C., F., M. e F.R. e T.C.. Dal che consegue che il motivo d’appello in esame non merita di essere accolto senza bisogno di ulteriori considerazioni e, in particolare, di stabilire se la contestazione del valore attribuito
Il semplice fatto che P.R., secondo tutti gli appellanti, non ha restituito la somma di denaro che i medesimi appellanti sostengono prestatale a titolo gratuito dal padre non potrebbe invero mai essere giudicato sufficiente per concludere che l’originaria mutuataria si sia trasformata nella beneficiaria di una donazione, sia pur indiretta. Conseguentemente, P.R., N.D.V., L.D.V., P.C., M.R., A.C. e G.C. non hanno alcun interesse all’accoglimento della doglianza da loro soltanto formulata in ordine alla mancata ammissione della prova testimoniale (peraltro, secondo quanto da loro stessi affermato nel loro atto d’appello, tempestivamente dedotta dalla sola P.C.) volta a fornire la dimostrazione del suddetto prestito, che, se provato, in mancanza dell’allegazione e/o della prova di una rinunzia di F.R. alla sua restituzione o comunque dell’estinzione della relativa obbliga-
dall’attore in riduzione alla massa da prendere in
zione, costituirebbe la fonte di un credito del de
considerazione ai fini della verifica della sussisten-
cuius nei confronti della figlia P. il cui importo
za e dell’entità della lesione della quota di riserva
dovrebbe essere addirittura aggiunto alla massa
del legittimario costituisca una mera difesa, un’ec-
dei beni del primo da prendere in considerazione
cezione in senso lato od un’eccezione in senso
ai fini della verifica della sussistenza e dell’entità
stretto o debba addirittura essere formulata me-
della lesione della quota di riserva della seconda.
diante una domanda riconvenzionale.
2.5.4.1. Fondati invece sono gli ultimi motivi
2.5.3. Immeritevoli di essere accolti sono an-
degli appelli in esame: quelli coi quali tutti gli ap-
che il terzo motivo dell’appello proposto da P.R.,
pellanti sostengono che il Giudice di primo grado
N.D.V., L.D.V., P.C., M.R., A.C. e G.C. ed il secondo
ha errato nel ritenere la quota di riserva spettante
motivo dell’appello proposto da F.R. e T.C., con
a P.R. pari ad 1/6, anziché ad 1/9, dell’asse di ri-
i quali i primi sostengono che il primo Giudice
ferimento.
216
Aldo Corvino
Invero, diversamente da quanto ritenuto dal
di riserva spettante a P.R., sia di tener conto di tali
Tribunale di Napoli, F.R., al momento del suo de-
importi al fine della rideterminazione di quelli che
cesso, non aveva solo quattro, ma ben sei, figli
devono essere condannati a pagare alla medesima
in vita, cioè F., A., M., F., P. e S., la quota di riser-
Curatela gli appellanti beneficiari delle disposizio-
va spettante a ciascuno dei quali doveva e deve
ni testamentarie di F.R. lesive della quota di riserva
pertanto, in mancanza di altri legittimari, essere
spettante a P.R..
determinata, giusto quanto disposto dall’art. 537,
2.5.4.3.Ciò posto, tenendo conto che i beni di
co. 2, c.c., in 1/6 dei 2/3 e dunque in (1/6 x 2/3
cui F.R. dispose per testamento avevano, alla data
= 2/18 =) 1/9 del patrimonio del de cuius, essen-
della morte del de cuius, un valore complessivo
do a tali fini irrilevante l’espressa rinunzia di A. e
che, per quanto s’è detto, deve ritenersi defini-
S.R. all’azione di riduzione delle disposizioni testa-
tivamente fissato in 1.135.225 Euro, di cui Euro
mentarie del padre lesive (anche) delle loro quote
71.650 Euro per il valore di quanto attribuito a
di riserva (cfr. Cass., SS.UU., 13429/2006, secondo
F.R., 65.650 Euro per il valore di quanto attribuito
la cui massima ufficiale, “In tema di successione
a M.R., 217.550 Euro per il valore di quanto attri-
necessaria, l’individuazione della quota di riserva
buito a F.R., 267.350 Euro per il valore di quanto
spettante alle singole categorie di legittimari ed ai
attribuito a P.C., 14.750 Euro per il valore di quanto
singoli legittimari appartenenti alla medesima ca-
attribuito a T.C., 25.825 Euro per il valore di quan-
tegoria va effettuata sulla base della situazione esi-
to attribuito a N.D.V., 72.475 Euro per il valore di
stente al momento dell’apertura della successione
quanto attribuito a L.D.V., 124.550 Euro per il va-
e non di quella che si viene a determinare per
lore di quanto attribuito ad A.C., 153.725,00 Euro
effetto del mancato esperimento, per rinunzia o
per il valore di quanto attribuito a G.C., 60.850,00
per prescrizione, dell’azione di riduzione da parte
Euro per il valore di quanto attribuito a S.G. e
di qualcuno dei legittimari”; e, nello stesso senso,
60.850,00 Euro per il valore di quanto attribuito a
Cass., SS.UU., 13524/2006, Cass. 3471/2008 e Cass.
S.G., la misura in cui le disposizioni testamentarie
13385/2011).
in questione devono considerarsi lesive della quo-
Posto che il valore del patrimonio da prende-
ta di riserva di 1/9 spettante a P.R. va ridetermina-
re in considerazione era, alla morte di F.R., pari,
ta, secondo i medesimi ulteriori criteri utilizzati dal
secondo quanto affermato dal primo Giudice ed
primo Giudice e non contestati dagli appellanti:
invano contestato dagli appellanti con i motivi di
- in 13.226,36 Euro per quel che concerne F.R.;
impugnazione sopra esaminati, ad 1.135.225 Eu-
- in 38.681,94 Euro per quel che concerne P.C.;
ro, la quota di riserva spettante a P.R. va dunque
- in 2.134,13 Euro per quel che concerne T.C.;
determinata in (1.135.225,00 x 1/9 =) 126.136,11 Euro, anziché in 189.204,17 Euro. 2.5.4.2. L’evidenziata natura personale dell’azione di riduzione delle disposizioni lesive dei
- in 3.736,53 Euro per quel che concerne N.D.V.; - in 10.486,16 Euro per quel che concerne L.D.V.;
diritti riservati ai legittimari e la mancata impu-
- in 18.020,71 Euro per quel che concerne A.C.;
gnazione della sentenza appellata da parte di S. e
- in Euro 22.241,94 per quel che concerne G.C.;
S.G. impediscono però sia di diminuire l’importo
- in 8.804,18 Euro per quel che concerne S.G.;
di 14.228,10 Euro che ciascuno di costoro è stato
- in 8.804,18 Euro per quel che concerne S.G..
dal primo Giudice condannato a pagare in denaro alla Curatela attrice al fine di reintegrare, secondo quanto previsto dagli artt. 553 e ss. c.c., la quota
Il tutto come meglio esplicitato dalla tabella riportata alla pagina seguente. (Omissis)
217
Giurisprudenza
Ne consegue che le somme che gli appellanti
L.D.V., N.D.V. e T.C. vanno condannati a pagare
beneficiari delle disposizioni testamentarie di F.R.
alla Curatela ora appellata vanno ridotte come so-
devono essere condannati a pagare alla Curatela
pra indicato.
ora appellata – “maggiorate”, secondo quanto di-
2.6.2.Tuttavia, tenendo conto soprattutto della
sposto dal primo Giudice senza incontrare conte-
novità, rispetto ai precedenti della Corte di cassa-
stazioni, “degli interessi legali sulle stesse via via
zione, della soluzione data dal Giudice di prime
rivalutate dal di della notificazione della domanda
cure e da questa Corte d’appello alla questione
giudiziale fino all’integrale soddisfo” – vanno ri-
dell’applicabilità dell’art. 524 c.c. al caso in cui
dotte:
il legittimario pretermesso abbia rinunziato, con
a) da 62.551,00 a 38.681,94 Euro per quel che concerne P.C.; b) da 3.462,50 a 2.134,13 Euro per quel che concerne T.C.; c) da 6.054,52 a 3.736,53 Euro per quel che concerne N.D.V.; d) da 16.971,60 a 10.486,16 Euro per quel che concerne L.D.V.; e) da 29.137,42 a 18.020,71 Euro per quel che concerne A.C.; f) da 35.948,76 a 22.241,94 Euro per quel che concerne G.C.. Il divieto della reformatio in peius (per il quale
danno dei propri creditori, ad esercitare l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie del de cuius lesive della quota di eredità riservatagli dalla legge, nonché del complessivo esito della controversia, soltanto parzialmente favorevole alla Curatela attrice, equa pare l’integrale compensazione tra tutte le parti delle spese dei due gradi di giudizio, fermo restando ovviamente il regolamento delle spese processuali contenuto nella sentenza di primo grado riguardo ai soli rapporti tra la stessa Curatela, da una parte, e S. e S.G., dall’altra. P.Q.M. Definitivamente
pronunziando
sull’appello
cfr., ad es., Cass. 25244/2013) impedisce invece
proposto da P.R., P.C., A.C., G.C., L.D.V., N.D.V. e
di rideterminare la somma che il primo Giudice
M.R. con citazione notificata al Curatore dei falli-
ha condannato F.R. a pagare alla Curatela ora ap-
menti della R.A. S.A.S. e di P.R. il 4 dicembre 2015,
pellata.
a S.G. e S.G. il 9 dicembre 2015 ed a F.R., F.R. e
Tale somma, pari a 6.622,20 Euro, è infatti infe-
T.C. il 10 dicembre 2015 e sull’appello proposto in
riore a quella di 13.226,36 Euro che - alla stregua
via incidentale da F.R. e T.C. con la loro comparsa
delle suesposte considerazioni (e, in particolare,
di risposta, depositata il 23 febbraio 2016, avverso
per effetto della rideterminazione della quota di
la sentenza del Tribunale di Napoli, Settima Sezio-
riserva spettante a ciascuno dei figli di F.R. in 1/9,
ne Civile, in data 29 ottobre/2 novembre 2015, n.
anziché in 1/6, dell’asse ereditario) - risulta dallo
13743/2015, cosi provvede:
stesso F.R. dovuta alla controparte quale equivalente pecuniario della lesione cagionata dalle di-
A) dichiara la contumacia in appello di F.R., S.G. e S.G.;
sposizioni testamentarie date dal padre in suo fa-
B) in parziale accoglimento di entrambi gli ap-
vore alla quota di riserva spettante alla sorella P.R..
pelli ed in parziale riforma della sentenza appella-
2.6.1.Tirando dunque le somme di quanto fin
ta, riduce come indicato di seguito le somme che
qui dicendo, sia l’appello principale, proposto da
P.C., T.C., N.D.V., L.D.V., A.C. e G.C., con il capo
P.R., P.C., A.C., G.C., L.D.V., N.D.V. e M.R., sia quel-
n. 2) di detta sentenza, sono state condannate a
lo incidentale, proposto da F.R. e T.C., vanno par-
pagare al Curatore dei fallimenti della R.A. S.A.S. e
zialmente accolti, giacché, in parziale riforma della
di P.R., maggiorate degli interessi legali sulle stesse
sentenza appellata, le somme che P.C., A.C., G.C.,
via via rivalutate dal dì della notificazione della
218
Aldo Corvino
domanda giudiziale fino all’integrale soddisfo: a) da 62.551,00 a 38.681,94 Euro per quel che concerne P.C.; b) da 3.462,50 a 2.134,13 Euro per quel che concerne T.C.; c) da 6.054,52 a 3.736,53 Euro per quel che concerne N.D.V.; d) da 16.971,60 a 10.486,16 Euro per quel che concerne L.D.V.; e) da 29.137,42 a 18.020,71 Euro per quel che concerne
A.C.; f) da 35.948,76 a 22.241,94 Euro per quel che concerne G.C.; C) compensa integralmente le spese dei due gradi di giudizio nei rapporti tra gli appellanti e la Curatela appellata. (Omissis)
La tutela dei creditori del legittimario Sommario : 1. Il problema. – 2. a) Il ricorso all’applicazione dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. – 3. b) L’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. – 4. Gli interessi coinvolti e la libertà del de cuius. – 5. Esclusione dell’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. – 6. Esclusione dell’utilizzabilità dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.
The following paper offers an overview on the potential legal instruments, available to creditors of necessary heir, which can be applied when the latter doesn’t receive the reserved share. The author explores the different approaches and concludes that creditors of necessary heir don’t have any remedies to contest the will of the deceased.
1. Il problema. La sentenza in commento affronta e risolve un problema sempre più spesso sottoposto all’attenzione della giurisprudenza1. Nel caso esaminato un legittimario totalmente pretermesso aveva rinunciato all’azione di riduzione; essendo poi fallito, il curatore fallimentare aveva chiesto, previa dichiarazione di inefficacia della rinuncia, la riduzione delle disposizioni testamentarie del de cuius. La Corte di Appello, confermando, sul punto, la decisione del Tribunale, ha ritenuto che
1
M. Criscuolo, La tutela dei creditori rispetto ad atti dispositivi della legittima, in Successioni e donazioni, diretto da G. Iaccarino, Torino, 2017, 1464, nota che “la tutela dei creditori del legittimario nei confronti degli atti posti in essere dal loro debitore ed idonei a pregiudicare il diritto alla quota di legittima, e di riflesso l’aspettativa dei primi, costituisce un argomento che solo negli ultimi anni sembra aver suscitato l’interesse della dottrina e della giurisprudenza”.
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Giurisprudenza
l’ordinamento consenta ai creditori, e nel caso specifico al curatore, di ottenere la riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima che sarebbe spettata al debitore2. Quella del legittimario totalmente pretermesso che rinuncia all’azione di riduzione costituisce, a ben vedere, una specifica ipotesi del più ampio problema relativo alla tutela dei creditori del legittimario in tutti i casi in cui quest’ultimo non consegua tutto quanto gli spetterebbe sulla successione di che trattasi. Difatti, il legittimario potrebbe essere pretermesso o soltanto leso, o ancora potrebbe essere destinatario di un legato in sostituzione di legittima di valore inferiore alla quota a lui riservata; inoltre, anche il comportamento del legittimario potrebbe variare, in quanto questo potrebbe restare inerte o rinunciare all’azione di riduzione. Il codice civile non si occupa espressamente dei creditori del legittimario. Invero, come evidenzia anche la sentenza in commento, il primo comma dell’art. 557 c.c. prevede che la riduzione può essere domandata solo dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa. E si ritiene che i creditori non possano includersi tra gli aventi causa3. Si occupa espressamente dei creditori, ma dei creditori dell’erede, l’art. 524 c.c. disponendo che se l’erede rinuncia ad un’eredità con danno dei suoi creditori “questi possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti”. Dunque, il codice, da un lato, non annovera espressamente i creditori del legittimario tra i soggetti che possono chiedere la riduzione, e dall’altro lato, considera espressamente, nell’ambito della vicenda successoria, solo i creditori dell’erede, nel caso in cui quest’ultimo rinunci all’eredità. Da qui il problema della tutela dei creditori del legittimario.
2. a) Il ricorso all’applicazione dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.
Per rinvenire nel sistema una tutela a favore dei creditori del legittimario il primo percorso argomentativo solitamente indagato, e analizzato anche dalla sentenza in commento, è volto ad utilizzare i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale.
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La sentenza è stata commentata da M. Costanza, La tutela del creditore di fronte alle rinunce del debitore a suoi diritti successori, in Fall., 457 ss.; A. Leuzzi e C. Cicero, La rinuncia del legittimario pretermesso all’azione di riduzione e i mezzi di tutela dei creditori e del curatore fallimentare, in Riv. not., 2018, 662 ss.; F. Pirone, Rinunzia all’azione di riduzione ed art. 524 c.c.: la tutela del creditore del legittimario, in Notariato, 2018, 218 ss. Quindi, la disposizione in esame, rubricata “soggetti che possono richiedere la riduzione”, non riconosce ai creditori del legittimario la legittimazione a proporre l’azione di riduzione. Anche la sentenza in commento esclude che i creditori possano ritenersi compresi nella categoria degli aventi causa. Nello stesso senso, v. Cass. 2 febbraio 2016, n. 1996, dove, incidentalmente si afferma che i creditori “non rientrano nella categoria degli “aventi causa”, direttamente legittimati ai sensi dell’art. 557 c.c., comma 1”. Ma cfr. L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale, successione necessaria, Milano, 2000, 243 e F. Realmonte, La tutela dei creditori personali del legittimario, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, 630.
220
Aldo Corvino
In particolare, nel caso in cui il legittimario resti inerte, i creditori potrebbero, seguendo questa impostazione, esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria4. La tesi troverebbe supporto – come non manca di rilevare la sentenza in commento – nell’ultimo comma dell’art. 557 c.c., ai sensi del quale i creditori del defunto non possono chiedere la riduzione se il legittimario accetta con il beneficio d’inventario. A contrario, si argomenta che ciò è consentito ai creditori del defunto se il legittimario accetta puramente e semplicemente, e questa possibilità si giustifica considerando che a seguito dell’accettazione pura e semplice i creditori del defunto diventano creditori del legittimario. Da ciò si deduce ulteriormente che i creditori del legittimario, proprio perché tali, potrebbero esercitare l’azione di riduzione. La dottrina più attenta pone però dei limiti: i creditori del legittimario potrebbero esercitare tale azione solo nel caso in cui il legittimario non sia stato pretermesso, ma soltanto leso, in quanto in caso di legittimario pretermesso l’accoglimento dell’azione di riduzione comporterebbe l’acquisto della qualità di erede, che è considerata una scelta di natura personale5. È opportuno anticipare che, in considerazione della limitazione appena evidenziata, la tesi in esame presta il fianco alla critica secondo cui si verificherebbe così una disparità di trattamento tra i medesimi creditori del legittimario, “tutelati o meno dal rimedio dell’art.
4
5
F. Realmonte, op. cit., 629, nota che il problema era stato “normalmente liquidato con l’incidentale e tralaticia osservazione secondo cui i creditori personali del legittimario possono esperire in via surrogatoria l’azione di riduzione”. Sono a favore della possibilità di esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria da parte dei creditori, recentemente, A. Albanese, I soggetti che possono chiedere la riduzione, in Fam., per. succ., 2006, 747; A.G. Annunziata, Sull’ammissibilità della legittimazione dei creditori personali del legittimario ad esperire, in via surrogatoria, l’azione di riduzione, in Fam. per. succ., 2011 217 ss.; U. Stefini, Atti dismissivi di diritti successori e tutela del credito, in Nuov. giur. civ. comm., 2017, 1731 ss.; L. Zoso, La trasmissibilità dell’azione di riduzione, in Corr. giur., 2012, 584. V. F. Realmonte, op. cit., 632 il quale evidenzia che in tal caso l’azione di riduzione sarebbe un “modo di adizione dell’eredità”. Evidenzia il possibile problema di carattere morale M. Criscuolo, op. cit., 1468. È opportuno notare che persino in ambito fallimentare, qualora il chiamato all’eredità sia fallito, nonostante l’art. 35 l.f. preveda che il curatore può accettare l’eredità con l’autorizzazione del tribunale, si ritiene, proprio in considerazione della natura personale della scelta relativa all’acquisto della qualità di erede, che la norma non si riferisca propriamente all’accettazione dell’eredità, bensì alla possibilità di soddisfarsi sui beni ereditari come previsto dall’art. 524 c.c. In questo senso, L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2015, 106, nota 9. Alla limitazione indicata nel testo, secondo cui l’azione di riduzione in via surrogatoria potrebbe essere esercitata dai creditori del legittimario soltanto qualora il legittimario sia stato leso, e non pretermesso, se ne potrebbe aggiungere un’altra derivante dall’art. 564 c.c. Tale disposizione prevede che il legittimario leso può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati fatti a persone che non siano chiamati come coeredi solo se ha accettato con beneficio di inventario. La ratio della norma non è chiarissima. Secondo G. Capozzi, Successioni e donazioni, I, 3a ed. a cura di A. Ferrucci e C. Ferrantino, Milano, 2009, 546 “sarebbe preferibile la tesi che la indica nella tutela dei legatari e donatari estranei, per i quali è necessaria la preventiva constatazione ufficiale della consistenza dell’asse ereditario che accerti l’effettiva lesione”, aggiungendo che “tuttavia, la norma è apparsa in realtà sproporzionata, perché sarebbe stata sufficiente la sola redazione dell’inventario”. Da tale norma potrebbe derivare un’ulteriore limitazione all’esercizio dell’azione di riduzione da parte dei creditori del legittimario. Ci si chiede, infatti, cosa accada se il legittimario leso accetti puramente e semplicemente: per L. Zoso, op. cit., 584, i creditori potrebbero accettare con beneficio; per F. Realmonte, op. cit., 630, la norma non si applicherebbe in questo caso; per M. Perreca, Considerazioni minime sugli strumenti di tutela dei creditori del legittimario verso la rinuncia tacita alla legittima, nota a Trib. Cagliari 14 febbraio 2002, n. 625, in Riv. giur. sarda, 2003, 324, la possibilità di proporre l’azione di riduzione in via surrogatoria sarebbe ulteriormente limitata ai casi in cui non occorra, ai fini dell’azione, accettare l’eredità con il beneficio di inventario. Tale ultima posizione sembra preferibile in quanto la norma di cui all’art. 564 c.c. è posta – come rilevato sopra – nell’interesse dei legatari e donatari estranei che non può essere compromesso.
221
Giurisprudenza
2900, a seconda del tipo di lesione, totale o parziale, dei diritti in cui l’attore vorrebbe surrogarsi”6. Ancor più problematica è l’ipotesi, verificatasi nel caso sottoposto all’esame della Corte di Appello, in cui il legittimario non si limita a restare inerte, ma rinuncia espressamente all’azione di riduzione7, perché in questo caso è necessario in primo luogo rimuovere la rinuncia e poi, ove si ritenesse possibile, esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria. La dichiarazione di inefficacia della rinuncia potrebbe essere conseguita con l’azione revocatoria. La giurisprudenza di legittimità, però, nega tale possibilità. La rinuncia all’azione di riduzione consisterebbe in una rinuncia ad una facoltà, che non modificherebbe, né attivamente né passivamente, il patrimonio del debitore; inoltre, anche ove fosse dichiarata l’inefficacia dell’atto, il creditore non potrebbe soddisfare il proprio credito in via esecutiva; l’azione revocatoria sarebbe quindi inammissibile perché il suo accoglimento non consentirebbe di ottenere il bene della vita cui l’azione mira8. La Corte di Appello non condivide la posizione della Cassazione e, rilevando una contraddizione tra diversi orientamenti di quest’ultima9, avverte l’esigenza di una loro rivisitazione. In primo luogo, la Corte chiarisce che la rinuncia all’azione di riduzione deve essere qualificata come un atto di disposizione, in quanto il legittimario, pur non avendo un dirit-
6
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8
9
A. Bucelli, Dei legittimari, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2012, sub art. 557, 600. Ipotesi alla quale può essere accostata quella, del legittimario che non rinuncia ad un legato in sostituzione di legittima dal valore inferiore alla quota di riserva, che pure presenta ulteriori problemi. Ed invero, come evidenzia C. Caccavale, La vitalità del diritto delle successioni nelle pagine di una nuova rivista, in Dir. succ. fam., 2017, 987 ss., spec. 1018, “mentre nella rinuncia all’eredità (e così anche nella mera rinuncia ad agire in riduzione) si tratta di reagire ad un atto meramente dismissivo, nel caso di legato in sostituzione la rinuncia è sostanzialmente compensata da un corrispettivo (il legato appunto)”. Da qui l’A. pone una serie di interrogativi: “è corretto a questo punto considerare analoghe le due fattispecie? Atteso, poi, che l’art. 524 c.c. mette a disposizione dei creditori del chiamato beni ereditari che dopo il soddisfacimento delle ragioni creditorie, per l’eccedenza, tornano nella disponibilità dell’avente diritto, che cosa accade adesso? Si può ipotizzare che, soddisfatti i creditori, il residuo assetto dei beni resti invariato? Può mai ritenersi che al legittimario continui a spettare anche il legato? Se la risposta è negativa, non ne consegue forse che l’art. 524 c.c. vada ora oltre il segno perché, non solo riattrae beni ereditari alla garanzia patrimoniale del debitore, ma al tempo stesso vale pure, dal patrimonio di quest’ultimo, ad espellere un bene?”. Cass. 19 febbraio 2013, n. 4005, in Foro it., 2013, 2245 ss.: “la rinunzia ad una facoltà, come va qualificata la dichiarazione di rinuncia all’azione di riduzione di disposizioni testamentarie, non può assumere portata di atto dispositivo sottoponibile a revocatoria, perché l’effetto di tale azione è la declaratoria di inefficacia dell’atto revocato con immediato effetto di assoggettamento all’azione esecutiva del bene oggetto della rinuncia, mentre nel caso di specie, anche se manca l’atto di rinuncia all’azione di riduzione di legittima, non si incrementa il patrimonio del debitore, poiché tale effetto può aversi non in via immediata, bensì solo all’esito del positivo esperimento dell’azione di riduzione”. Ed invero, la Suprema Corte, da un lato sostiene, come riferito nel testo, che la rinuncia all’azione di riduzione non può essere impugnata con l’azione revocatoria, ma dall’altro lato afferma che il creditore del legittimario che intenda esperire l’azione di cui all’art. 524 c.c. debba previamente impugnare la rinuncia all’azione di riduzione (Cass. 22 febbraio 2016, n. 3389), che però non potrebbe che essere impugnata se non con l’azione revocatoria.
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Aldo Corvino
to sui beni ereditari10, perde il diritto11 di esercitare l’azione di riduzione, che è entrato nel suo patrimonio e non è privo di valore economico, tanto è vero che può essere ceduto a terzi o cadere in successione12. In secondo luogo, la Corte non condivide l’argomento secondo cui l’azione revocatoria sarebbe inammissibile quando dal suo accoglimento non conseguirebbe la possibilità di agire in via esecutiva sui beni oggetto di disposizione. Ed invero, secondo l’art. 2901 c.c. il creditore che abbia ottenuto la dichiarazione di inefficacia può promuovere nei confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive o conservative sui beni che formano oggetto dell’atto impugnato, ma da tale disposizione, che si riferisce ai soli casi in cui l’atto dichiarato inefficace sia un atto traslativo, non può fondatamente ricavarsi una condizione di ammissibilità dell’azione revocatoria. Le critiche mosse dalla Corte di Appello sembrano condivisibili, in quanto la rinuncia all’azione di riduzione non presenta profili in grado di differenziarla, dal punto di vista che qui interessa, da altre rinunce, che si ritengono pacificamente revocabili. Può aggiungersi, peraltro, un rilievo di natura processuale, in quanto la “inammissibilità” dell’azione non sembra comunque la pronuncia più appropriata, dovendosi al più discorrere di infondatezza13.
10
Tesi che, come è noto, è stata invece sostenuta da L. Ferri, Dei legittimari, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, 1981, Bologna - Roma, 199 ss. il quale ritiene che i creditori del legittimario possono sempre impugnare la rinuncia fatta dal legittimario ai suoi diritti, in frode alle loro ragioni, partendo dalla premessa che i legittimari abbiano un diritto sui beni relitti. Ma questa tesi non è stata accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina, come rileva S. Pagliantini, La frode per testamento ai creditori del legittimario: sulla c.d. volontà testamentaria negativa e tecniche di tutela dei creditori, in La c.d. forza di legge del testamento. Itinerari odierni della libertà testamentaria tra regole e principi, Napoli, 2016, 99, il quale afferma che “allo stato, quasi più nessuno dubita del fatto che il legittimario acquisti (…) un diritto sul compendio ereditario soltanto al posterius di un fruttuoso esperimento dell’azione di riduzione”. 11 La sentenza in commento si riferisce ad “un diritto o, se si preferisce, il potere o la facoltà di esercitare un diritto”. 12 Come chiaramente si desume – aggiunge la Corte di appello – dall’art. 557 c.c. Nello stesso senso non mancano precedenti della giurisprudenza di merito: Trib. Novara, 18 marzo 2013, in Notariato, 2013, 655 ss., con nota critica di A. Bigoni e F. Giovanzana, La tutela del creditore personale del legittimario tra surrogatoria, revocatoria ed art. 524 c.c. Secondo tale decisione “non può dirsi che la rinuncia all’azione di riduzione costituisca una mera rinuncia ad una facoltà priva di conseguenze sul patrimonio del debitore, perché il diritto a conseguire la legittima ha contenuto patrimoniale ed è già acquisito al patrimonio del debitore per effetto della pretermissione. In questo senso, dunque, la rinuncia deve qualificarsi come atto dispositivo suscettibile di revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c. Nello stesso senso anche Trib. Gorizia 4 agosto 2003, in Familia, 2004, 1187 ss., con nota di C. Grassi, Rinuncia del legittimario pretermesso all’azione di riduzione e mezzi di tutela dei creditori: revoca della rinuncia ed esercizio in surroga dell’azione di riduzione. Diversamente, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, 490 il quale afferma che “la revocatoria dovrebbe indirizzarsi contro l’eventuale rinunzia all’azione ed in effetti è difficile negarne l’esperibilità se si ritiene che il legittimario acquisti ipso iure all’apertura della successione la proprietà dei beni necessari a reintegrare la propria quota di riserva lesa. Se invece, come appare preferibile opinare, il legittimario acquista la proprietà solo in seguito al vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, non di rinunzia dovrà parlarsi ma di mera omissio adquirendi, insuscettibile di revocatoria”. 13 La Corte di Cassazione sembra muovere dalla premessa secondo cui la c.d. “possibilità giuridica” sarebbe una specifica condizione dell’azione, nel senso che dovrebbe sussistere una astratta corrispondenza tra la pretesa accampata in giudizio ed una norma che le dia fondamento. Critico nei confronti della c.d. possibilità giuridica, quale ulteriore condizione di trattabilità, A. Chizzini, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2012, 17-18, il quale afferma che “essa non sembra null’altro che il cascame della concezione concreta dell’azione, pertanto del tutto superflua nel presente: sarà il giudizio di merito, attorno alla situazione dedotta, a definire l’effettiva esistenza della situazione dedotta, quindi la sua possibilità giuridica”. Conseguentemente, nel caso esaminato nel testo, pare che la domanda dovrebbe ritenersi semmai infondata, e non inammissibile.
223
Giurisprudenza
In ogni caso, è evidente che la tutela di cui potrebbero usufruire i creditori del legittimario dipende, anche in caso di rinuncia all’azione di riduzione, a monte, dalla possibilità di esperire l’azione di riduzione in via surrogatoria14.
3. b) L’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. Un diverso percorso argomentativo, da tempo proposto in dottrina al fine di riconoscere una tutela ai creditori del legittimario15, si basa sulla applicazione analogica del rimedio previsto dall’art. 524 c.c. a beneficio dei creditori dell’erede16. Questa norma, come già ricordato, consente ai creditori del chiamato che rinuncia all’eredità di soddisfarsi sui beni ereditari. La rinuncia all’azione di riduzione è chiaramente diversa dalla rinuncia all’eredità, ma tale diversità strutturale non sembra da sola costituire un ostacolo insormontabile per applicare il rimedio di cui all’art. 524 c.c. al caso in esame, in quanto si tratterebbe di applicazione analogica. La soluzione favorevole è stata sostenuta argomentando, innanzitutto, che il rimedio in esame è riconducibile al principio della tutela del credito, e per questo è astrattamente suscettibile di applicazione analogica17; aggiungendo, in secondo luogo, che è possibile rintracciare una “somiglianza rilevante” fra le fattispecie, dal momento che la posizione dei creditori del legittimario che rinuncia all’azione di riduzione non sarebbe diversa da quella dei creditori del chiamato che rinuncia all’eredità.
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Ovviamente, come rileva F. Realmonte, op. cit., 634 – 635 che “la limitazione della legittimazione surrogatoria comporta altresì l’inutilità del rimedio revocatorio ex art. 2901 cod. civ. nell’ipotesi di rinuncia fraudolenta all’azione di riduzione: ove si ritenga preclusa ai creditori la possibilità di domandare la riduzione in sostituzione del legittimario, la dichiarazione di inefficacia relativa (della rinuncia) conseguente all’accoglimento dell’azione revocatoria non può in alcun modo giovare”. 15 La tesi è stata esposta da L. Mengoni, op. cit., 244. Cfr. anche F. Realmonte, op. cit., 629 ss. Più recentemente, in contrasto con l’orientamento della Corte di Cassazione, la tesi in esame è stata sostenuta da S. Pagliantini, op. cit., 85 ss. Aderiscono alla tesi A. Albanese, op. cit., 747; A. Bigoni e F. Giovanzana, op. cit., 664; C. Grassi, op. cit., 1190 ss.; M. Perreca, op. cit., 323 ss.; V. Verdicchio, Rinunzia all’eredità e diritti dei creditori, in V. Cuffaro (a cura di), Successioni per causa di morte, Torino, 2015, 174 ss., spec. 181 e nota 31; I. Zecchino, La “impugnazione” della rinunzia all’eredità da parte dei creditori del rinunziante, in Per. Mer, 2018, 13 ss., spec. 22. 16 In particolare, questa tesi offre le seguenti soluzioni operative alle diverse varianti riconducibili al più ampio problema in esame relativo alla tutela dei creditori del legittimario: in caso di rinuncia all’azione di riduzione si tratterebbe di applicare analogicamente il rimedio previsto dall’art. 524 c.c. per la rinuncia all’eredità; in caso di inerzia del debitore, invece, tale rimedio dovrebbe essere preceduto dall’applicazione, ancora in via analogica, dello strumento di cui all’art. 481 c.c. (così che in caso di rinuncia o di infruttuosa scadenza del termine si potrebbe poi ricorrere all’art. 524 c.c.). Così F. Realmonte, op. cit., 635-636. M. Perreca, op. cit., 325, con riferimento al caso specifico, relativo ad una rinuncia tacita all’azione di riduzione, afferma: “a nostro sommesso avviso, e non senza perplessità, potrebbe ragionevolmente superarsi l’impasse interpretativa, abbandonando la convinzione che l’azione proponibile dai creditori del legittimario sia la surrogatoria di cui all’art. 2900, per modellarla (sotto il profilo effettuale) sulla falsariga di quella con cui il creditore impugna la rinuncia all’eredità (art. 524) al fine di soddisfarsi sui beni ereditari, senza peraltro immedesimarsi con questa, stante l’assenza di una dichiarazione espressa di volontà da impugnare”. 17 Non sarebbe, dunque, una c.d. norma a fattispecie esclusiva. Così F. Realmonte, op. cit., 638 e S. Pagliantini, op. cit., spec. 102-103.
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Tale soluzione sarebbe peraltro preferibile in quanto eviterebbe al debitore di acquistare la qualità di erede18 e offrirebbe una tutela più efficiente ai creditori del legittimario: l’azione sarebbe infatti limitata a quanto occorre per soddisfare i creditori, e consentirebbe di evitare la complessità che risulterebbe, nel caso di rinuncia all’azione di riduzione, dal necessario esperimento dell’aziona revocatoria e poi dell’azione di riduzione in via surrogatoria19, semplificando anche la fase esecutiva, e dunque, in definitiva, sarebbe una soluzione più rispettosa del principio di economicità dei mezzi giuridici20. A tale conclusione, pur dopo essersi fatta carico di sostenere la percorribilità del primo percorso argomentativo, giunge, anche qui in contrasto con la giurisprudenza della Suprema Corte21, ma in continuità con una parte della giurisprudenza di merito22, la sentenza in commento, concludendo nel senso che la rinuncia all’azione di riduzione può essere impugnata dai creditori del legittimario con lo strumento previsto dall’art. 524 c.c. e dal curatore fallimentare ai sensi del combinato disposto degli artt. 66, co. 1, l.f. e 524 c.c.
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Così, Trib. Napoli, 15 ottobre 2003, in Giur. it., 1644 ss. È bene precisare che in quel caso si trattava di un’azione proposta da un fallimento, che aveva chiesto di far accertare l’inefficacia dell’atto di rinuncia all’azione di riduzione e conseguentemente di disporre la riduzione delle disposizioni testamentarie. Il Tribunale afferma che l’azione che si sarebbe dovuta proporre era quella di cui all’art. 524 c.c. applicabile in via analogica, in quanto tale conclusione avrebbe permesso di salvaguardare le ragioni della massa dei creditori e di lasciare impregiudicata la scelta di carattere personale di rinunciare all’azione di riduzione. 19 Come autorevolmente osservato da L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, parte generale, III, Napoli, 1955, 146 a proposito del rapporto tra l’azione revocatoria e quella surrogatoria, da un lato, e lo strumento di cui all’art. 524 c.c., dall’altro, “qui si tratta di un potere particolare che non si può ricondurre sotto le comuni azioni: invero, esclusa la necessità della frode e richiesto solo il danno dei creditori, a questi non si dà la facoltà di sperimentare l’azione revocatoria sic et simpliciter, ma quella più complessa d’impugnare la rinuncia (vedi il titoletto dell’art. 524) per accettare, con la debita autorizzazione, o se si vuole d’impugnare la rinuncia accettando”. Allora, piuttosto che discutere della possibilità di esercitare l’azione revocatoria e quella surrogatoria, non solo nello stesso processo – il che può senza dubbio ammettersi – ma come azioni che, solo se esercitate congiuntamente possono portare ad un risultato positivo, a chi scrive sembra senz’altro più ragionevole chiedersi se sia possibile esercitare proprio il rimedio previsto dall’art. 524 c.c., nel quale – come osserva ancora Cariota Ferrara – “revocatoria e surrogatoria si fondono in un unico mezzo”. 20 Così, anche A. Bigoni e F. Giovanzana, op. cit., 664. S. Pagliantini, op. cit., 104, rileva che l’ipotesi di consegnare la tutela dei creditori all’utilizzo sincronico dell’azione revocatoria e surrogatoria, seguite poi da un’espropriazione contro il terzo proprietario ex art. 602 c.p.c. sarebbe “un trittico articolatamente barocco, contraddistinto da un alto tasso di farraginosità”. C. Grassi, op. cit., 1196, afferma che l’esercizio sincronico di azione revocatoria e surrogatoria “è uno strumento articolato e si compone di numerosi passaggi obbligati: anzitutto, l’esperimento dell’azione revocatoria ai fini della declaratoria di inefficacia della rinuncia all’azione di riduzione fatta dal convenuto; in secondo luogo, l’esperimento dell’azione surrogatoria nei diritti e nelle azioni spettanti al legittimario pretermesso; infine, l’azione esecutiva sui beni che formano oggetto dell’atto nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario, come prescritto dagli art. 602 c.p.c. ss. Lo stesso effetto, in realtà, si sarebbe potuto ottenere anche attraverso l’esercizio dell’azione disciplinata dall’art. 524 c.c., con la differenza che essa non solo avrebbe consentito di evitare alcuni dei passaggi sopra descritti, ma avrebbe anche permesso alle creditrici di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti attraverso un’espropriazione diretta”. 21 Cass. 29 luglio 2008, n. 20562, in Giur. it., 2009, 859 ss. 22 V. Trib. Napoli, 15 ottobre 2003, cit. e Trib. Roma 22 gennaio 2014, in Foro it., 2014, I, 1308 ss. Diversamente, escludono la tutela di cui all’art. 524 c.c. ma ammettono l’utilizzo dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui agli artt. 2900 e 2901 c.c. Trib. Novara, 18 marzo 2013, cit. e Trib. Gorizia 4 agosto 2003, cit.
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4. Gli interessi coinvolti e la libertà del de cuius. Entrambi i percorsi argomentativi appena sintetizzati giungono a riconoscere una tutela ai creditori del legittimario muovendo dalla premessa, da cui ha preso le mosse esplicitamente anche la sentenza in commento, secondo cui il loro interesse sarebbe senz’altro meritevole di tutela23. Tale premessa non appare però argomentata in modo persuasivo, e deve essere verificata24. Per fare ciò è indispensabile rintracciare innanzitutto gli interessi coinvolti, ed in particolare quelli che si contrappongono all’interesse dei creditori del legittimario. Il conflitto riguarda, in modo immediato, l’interesse del debitore ad avere un certo comportamento (ovverosia: restare inerte, rinunciare all’azione di riduzione, non rinunciare al legato in sostituzione di legittima) e quello dei suoi creditori che vorrebbero vedere incrementato il suo patrimonio. Come è noto, in via generale, alla luce della disciplina dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, l’interesse del debitore deve, in presenza di taluni presupposti, soccombere, a favore di quello dei suoi creditori. Ma per risolvere il caso in esame è necessario calare il rapporto tra il creditore ed il debitore nel contesto della vicenda successoria, e conseguentemente prendere in considerazione anche l’interesse dei beneficiari delle disposizioni lesive della quota di legittima a trattenere quanto ricevuto e, soprattutto, quello del de cuius a che siano rispettate le sue volontà25. Nel sistema successorio, infatti, sembra che il principio fondamentale sia quello della libertà del testatore26 e che le limitazioni di tale libertà siano eccezionali e giustificate solo da ragioni di solidarietà familiare. A questo proposito, giova evidenziare che, secondo la giurisprudenza, se uno dei legittimari rinuncia all’azione di riduzione o resta inerte, facendo prescrivere il diritto, la sua quota non amplia quella degli altri legittimari, ma amplia invece la quota disponibile27, valorizzando – è il caso di sottolineare – la libertà del te-
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Per la sentenza in commento lasciare i creditori disarmati sarebbe inaccettabile; Trib. Roma 22 gennaio 2014, cit., discorre di “lacuna nel sistema”. 24 Cfr. G. Perlingieri, Profili applicativi della ragionevolezza nel diritto civile, Napoli, 2015, 52, il quale afferma che il giurista non deve fermarsi alla logica e al sillogismo ma deve sempre valutare il fondamento della pluralità delle premesse (che muovono il ragionamento) e delle soluzioni proposte, nonché la loro coerenza, legittimità, meritevolezza attraverso il ricorso ai principi e ai valori normativi che fondano il sistema giuridico di riferimento. 25 Come evidenzia condivisibilmente C. Caccavale, La vitalità del diritto delle successioni nelle pagine di una nuova rivista, cit., 1017, egli “è pur sempre il protagonista (che per l’ultima volta può essere tale nella dimensione giuridica) della vicenda successoria”. 26 Si sofferma diffusamente sulla rilevanza costituzionale della libertà testamentaria, da un lato, e del credito, dall’altro, giungendo tuttavia ad una conclusione diversa rispetto a quella sostenuta nel testo, S. Pagliantini, op. cit., spec. 91, il quale afferma che “se la libertà testamentaria è provvista di una garanzia costituzionale (art. 42, c. 4 Cost.), pure il credito ne può esibire un’altra, per inciso di non minore spessore (art. 47, c. 1)”. A questo proposito sembra potersi rilevare che proprio la disposizione costituzionale secondo cui “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme” costituisce un forte argomento a favore della soluzione proposta nel testo, secondo cui l’interesse dei creditori del legittimario non dovrebbe prevalere sull’interesse del de cuius a disporre liberamente del proprio patrimonio, in quanto diversamente il risparmio non sarebbe incoraggiato. 27 Cass. SS.UU. 12 giugno 2006, n. 13524, in Notariato, 2006, 671 ss. con nota di F. Loffredo, La determinazione della quota di riserva spettante ai legittimari nel caso in cui uno di essi rinunci all’eredità ovvero perda, per rinuncia o prescrizione, il diritto di esperire
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statore28. Allo stesso modo, nel caso in esame, si può sostenere che la rinuncia o l’inerzia del legittimario dovrebbe ampliare la quota disponibile, mentre non potrebbero dolersene i creditori del legittimario, posto che la disciplina della quota di legittima non è posta a tutela di un loro interesse. Le considerazioni che precedono inducono quantomeno a dubitare della necessaria prevalenza dell’interesse dei creditori del legittimario29. Allora, sembra più corretto muovere dalla constatazione che il codice non attribuisce espressamente loro alcuna tutela, e ciò non deve necessariamente considerarsi il frutto di una dimenticanza30, potendo invece rappresentare una scelta31 coerente con i valori ai quali è ispirato l’ordinamento.
5. Esclusione dell’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. Per sostenere l’applicabilità analogica dell’art. 524 c.c. al caso in esame sono necessari, come è stato anticipato, due passaggi: ritenere la norma di cui all’art. 524 c.c. astrattamente applicabile in via analogica; e poi sostenere che nel caso in esame sussistano le condizioni per l’applicazione analogica. Il primo passaggio può ritenersi condivisibile, in quanto la norma di cui all’art. 524 c.c. rappresenta effettivamente una concretizzazione settoriale del più generale principio di tutela del credito32. Ma ciò non basta, in quanto, oltre alla astratta applicabilità in via analogica, si deve anche dimostrare che nel caso in esame esistono le condizioni per l’applicazione analogica, e cioè che sul fatto non regolato il principio “incide allo stesso modo”33; deve anche sussistere, in altre parole, una “somiglianza rilevante”. Epperò, tale somiglianza non sembra sussistere. La scelta del debitore di rinunciare all’eredità si pone in contrasto con la volontà del de cuius34, mentre la scelta di rinunciare all’azione di riduzione la asseconda35. Si tratta, ove si attribuisca la giusta considerazione
l’azione di riduzione. Cfr. F. Loffredo, op. cit., 682. 29 S. Pagliantini, op. cit., 109 ss. prende in considerazione l’obiezione all’applicazione analogica fondata sulla libertà testamentaria, e replica che “in almeno un quintetto di fattispecie contigue, lo stesso intento fraudatorio è tenuto in non cale ed efficacemente anestetizzato dalle Corti”. Ma sembra che il riferimento sia ad ipotesi in cui l’intento fraudatorio si riferisce alle ragioni dei legittimari, e non a quelle dei creditori di questi ultimi. 30 Così, invece, M. Criscuolo, op. cit., 1464. 31 In applicazione del classico argomento ubi lex voluit, dixit, ubi noluit, tacuit. 32 Così, S. Pagliantini, op. cit., 102 e 103. 33 V. P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, cit., 114. 34 Cfr. U. Stefini, op. cit., 1733, il quale evidenzia che l’ordinamento vede con sfavore il comportamento del delato che non voglia adire l’eredità e C. Coppola, La revoca della rinunzia, in G. Bonilini - V. Barba - C. Coppola, La rinunzia all’eredità e al legato, Torino, 2012, 484, la quale evidenzia che la possibilità di revocare la rinuncia all’eredità è spiegata dalla valutazione della rinuncia all’eredità quale atto “moralmente riprovevole sia rispetto alla memoria del defunto, sia rispetto ai propri creditori”. 35 Cfr. U. Stefini, op. cit., 1735, il quale condivisibilmente afferma che “il legittimario pretermesso, o beneficiato di una quantità di beni 28
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alla volontà del de cuius, di casi diametralmente opposti, anche perché nel primo, quello della rinuncia all’eredità, il diritto di accettare l’eredità entra nel patrimonio del debitore in applicazione della disciplina generale e fisiologica della vicenda successoria; nell’altro, quello del legittimario leso o pretermesso, il diritto ad esercitare l’azione di riduzione entra nel suo patrimonio in applicazione della disciplina eccezionale dei diritti riservati ai legittimari. Pertanto, sembra potersi affermare che le due fattispecie divergano sensibilmente e non sia possibile un’applicazione analogica dell’art. 524 c.c.
6. Esclusione dell’utilizzabilità dei mezzi di conservazione
della garanzia patrimoniale.
Anche chi non ha ritenuto applicabile analogicamente l’art. 524 c.c. per la mancanza di una somiglianza rilevante ha poi riconosciuto comunque ai creditori la possibilità di esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria36. A parere di chi scrive, fermo restando che la soluzione basata sull’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. presenta indubbi vantaggi rispetto all’utilizzo dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale37, e che dunque non sarebbe ragionevole preferibile il ricorso a questi ultimi, essi non potrebbero comunque trovare applicazione, in quanto la scelta di esercitare l’azione di riduzione deve considerarsi spettante esclusivamente al legittimario38. Come è stato anticipato, la dottrina maggioritaria esclude la possibilità di esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria nel caso in cui il legittimario sia stato pretermesso, perché l’esercizio vittorioso di tale azione comporterebbe l’acquisto della qualità di erede, che è ritenuta una scelta discrezionale, rimessa al legittimario, e che non può essere compiuta dai creditori. Dovrebbe allora coerentemente ritenersi che anche la scelta di diventare erede per una quota, piuttosto che per un’altra, sindacando, peraltro, la volontà del de cuius, competa, allo stesso modo, solo al legittimario e non ai suoi creditori39, e che, in altre parole, l’azione
inferiore alla sua quota di legittima, che rinuncia ad agire in riduzione, compie una scelta consentita dall’ordinamento e tanto più meritevole in quanto volta a rispettare la volontà del defunto”. Coerentemente, l’A. esclude l’applicabilità analogica della disposizione di cui all’art. 524 c.c. 36 V. ancora U. Stefini, op. cit., 1735, il quale, nonostante le condivisibili considerazioni di cui alle note precedenti, ritiene esercitabile l’azione di riduzione in via surrogatoria e l’azione revocatoria contro la rinuncia. 37 Come rilevato supra, par. 3. Ma cfr. U. Stefini, op. cit., 1735, il quale, sulla scorta delle considerazioni di cui alle note precedenti – che chi scrive condivide – ritiene ragionevole che nel caso in esame “la tutela dei creditori venga in un certo senso limitata”. 38 Così, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, 331. Nello stesso senso V.E. Cantelmo, L’Attuazione della tutela, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, 2010, 605. 39 Cfr. M. Perreca, op. cit., 325, il quale nota, condivisibilmente, che “se la scelta di diventare erede è del tutto personale e non ammette surrogazioni, per coerenza dovrebbe essere tale anche quella di essere erede per una certa quota, piuttosto che per un’altra, con tutte le conseguenze che ne discendono con riguardo alla responsabilità per i debiti ereditari”.
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di riduzione rientri tra le azioni che per loro natura non possono essere esercitate se non dal loro titolare, ed esclusa, come tale, dal perimetro applicativo dell’art. 2900 c.c. Ma, ancor più decisamente, l’impossibilità di esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria sembra discendere direttamente dalla ratio che presiede all’istituto della legittima. Tale istituto è funzionale, come è noto, a far si che i legittimari, ovverosia i parenti più stretti del de cuius, conseguano una quota del patrimonio ereditario, in considerazione del rapporto di parentela, che si valorizza, sacrificando, in una certa misura, la libertà testamentaria. È quindi necessario, allargando la visuale ed inserendo nel contesto della vicenda successoria i creditori del legittimario, chiedersi se, nel caso in cui il testatore non intenda lasciare la quota di legittima al legittimario e questo, da parte sua, non abbia interesse a conseguirla, e dunque non si attivi, o addirittura si opponga alla trasmissione forzata della ricchezza prevista dalle norme sulla successione necessaria, a ciò possano opporsi i creditori del legittimario. Sembra ragionevole dare una risposta negativa a tale quesito. L’istituto della legittima limita l’autonomia del testatore in considerazione della solidarietà familiare40. Si tratta di una scelta assiologica di politica legislativa che è, peraltro, de iure condendo, oggetto di interessanti riflessioni critiche, volte a ridurne la portata41. Nel caso in esame, alla libertà del testatore non si contrappone la solidarietà familiare, ma gli interessi dei creditori. Dal momento che non è per i loro interessi che il nostro ordinamento prevede l’istituto della legittima, i creditori non dovrebbero poterne beneficiarne. Diversamente, infatti, si consentirebbe un esercizio controfunzionale del potere di chiedere la riduzione, che è previsto nell’interesse del legittimario, ma che perseguirebbe interessi diversi se esercitato dai suoi creditori. Inoltre, la scelta di esercitare l’azione di riduzione dipende da evidenti valutazioni di ordine morale, in quanto mira a rendere inefficaci le disposizioni testamentarie o le donazioni volute dal de cuius, ed anche per tale motivo i creditori non potrebbero esercitarla42. In conclusione, è opportuno evidenziare che gli elementi ricavati dall’art. 557 c.c. non solo non contrastano con tale conclusione, ma appaiono del tutto coerenti con essa. Il primo comma, secondo cui l’azione di riduzione può essere esercitata anche dagli eredi e dagli aventi causa del legittimario non contraddice, ma anzi conferma, la natura
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Per un’analisi più approfondita della ratio della successione necessaria, v. L. Gatt. Memento mori. La ragion d’essere della successione necessaria in Italia, in Fam. per. succ., 2009, 540 ss., spec. 546 ss. 41 Recentemente, G. Perlingieri, Il «Discorso preliminare» di Portalis tra presente e futuro del diritto delle successioni e della famiglia, in Dir., succ. fam., 2015, 671 ss.; M. Robles, Osservazioni in tema di delazione ereditaria e destituzione testamentaria, in Dir. succ. fam., 2015, 457 ss. Vedi anche M. Cinque, Sulle sorti della successione necessaria, in Riv. dir. civ., 2011, 493 ss.; L. Gatt. Memento mori. La ragion d’essere della successione necessaria in Italia, cit., 540 ss.; C. Consolo e T. Dalla Massara, Libertà testamentaria, protezione dei figli e deflazione delle liti, in Nuov. giur. civ. comm., 2008, 269 ss. G. Amadio, La successione necessaria tra proposte di abrogazione e istanze di riforma, in Riv. not., 2007, 803 ss; S. Delle Monache, Abolizione della successione necessaria?, in Riv. not., 2007, 815 ss. 42 È opportuno sottolineare che “è inibita l’iniziativa surrogatoria quando l’esercizio di un diritto o di un’azione, pur se a contenuto direttamente o indirettamente patrimoniale, sia dalla legge riservato al suo titolare, oppure dipenda da valutazioni di ordine morale o sociale insite nel diritto in questione” (G. Monteleone, sub art. 2900, in Della tutela dei diritti, Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2015, 766).
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personale dell’azione di riduzione. Gli eredi e gli aventi causa possono esercitare l’azione di riduzione proprio perché l’atto di disposizione, da parte del legittimario, può essere interpretato come manifestazione della volontà di conseguire la legittima43. Tale norma è peraltro coerente con la finalità dell’istituto, che è quella di garantire ai prossimi congiunti il godimento di parte della ricchezza del defunto: la possibilità di cedere il diritto alla quota di legittima consente di monetizzare subito un diritto che altrimenti vedrebbe la propria soddisfazione solo all’esito di un giudizio che, come è noto, può durare molto tempo44. Nemmeno il terzo comma, nella parte in cui si ricava che i creditori del defunto possono esercitare l’azione di riduzione se il legittimario non ha accettato con beneficio di inventario, sembra fornire un argomento decisivo a sostegno della tesi favorevole all’esperibilità dell’azione di riduzione in via surrogatoria. Difatti, l’azione di riduzione è in tal caso concessa pur sempre a chi poteva fare affidamento sul patrimonio del defunto perché suo creditore45. Tale previsione potrebbe dunque non essere superflua46, ma utile a consentire ai creditori del defunto di esercitare l’azione di riduzione spettante al legittimario che abbia accettato puramente e semplicemente, in considerazione della meritevolezza del loro interesse, avendo loro fatto affidamento sul patrimonio del defunto47. Aldo Corvino
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G. Capozzi, op. cit., 544 ammette la possibilità da parte dei creditori del legittimario di esercitare l’azione di riduzione in via surrogatoria, ma avverte la necessità che “il legittimario preterito abbia manifestato, sia pure mediante comportamento concludente, la volontà di conseguire i propri diritti ereditari”. 44 L. Zoso, op. cit., 581 ss., la quale afferma che “la possibilità di cedere il diritto che compete sulla quota di legittima può configurarsi quale mezzo ulteriore per il conseguimento del beneficio patrimoniale del prossimo congiunto che l’istituto della legittima, di ispirazione romanistica, è volto a perseguire in quanto consente al legittimario di cedere il suo diritto dietro corrispettivo senza attendere l’esito dell’azione di riduzione e della conseguente azione di restituzione” (pag. 583). La tesi dell’A. è però diversa da quella sostenuta nel testo, in quanto secondo l’A. è esperibile l’azione di riduzione in via surrogatoria da parte dei creditori del legittimario (p. 583). 45 S. Pagliantini, op. cit., 108, rileva condivisibilmente quanto segue: “addurre l’argomento che i creditori personali del legittimario non hanno di che dolersi, in quanto è soltanto sul patrimonio di costui che avevano fatto affidamento al momento dell’erogazione del prestito ha a tutta prima il corposo limite argomentativo che il principio di universalità della responsabilità patrimoniale (sub art. 2740 c.c.) non autorizza minimamente siffatta illazione”. Ma, per le ragioni indicate nel testo, i beni che sarebbero pervenuti al debitore nel caso in cui questi avesse deciso di contestare la volontà del de cuius e promuovere l’azione di riduzione, non sembrano potersi ritenere inclusi nella garanzia patrimoniale generica, e segnatamente tra i beni futuri. 46 Parla di precisazione “esattissima, anche se forse superflua”, L. Ferri, Dei legittimari, cit., 200. 47 Si potrebbe aggiungere un ulteriore dato: la prima parte del terzo comma dell’art. 557 c.c. – che anticipa la disposizione appena considerata nel testo e che ha effettivamente un contenuto un pò oscuro – secondo cui i donatari non possono esercitare l’azione di riduzione, potrebbe essere interpretata nel senso che non possono chiedere l’accertamento in ordine alla non riducibilità della donazione o a determinare l’entità della riduzione, e da tale interpretazione potrebbe ricavarsi un ulteriore argomento per sostenere la natura personale dell’azione di riduzione. A proposito di tale norma. L. Zoso, op. cit., 585 ritiene “la norma superflua con riguardo ai legatari ed ai donatari in quanto essi possono essere soggetti passivi e non soggetti attivi dell’azione di riduzione”. Ma F. Festi, sub art. 558, in Delle successioni, Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, , Torino, 2009, 655, con riferimento alla prima parte del terzo comma, secondo cui “i donatari e i legatari non possono chiedere la riduzione, né approfittarne”, dopo aver premesso che “la norma sembra priva di senso, in quanto non si vede come possa un donatario approfittare della riduzione”, rileva che “forse lo scopo del precetto è di stabilire che il donatario, il quale abbia l’interesse a chiarire che la sua liberalità non deve essere ridotta o a determinare l’entità della riduzione, non è legittimato a promuovere azione di accertamento relativa all’altrui diritto di agire in riduzione”; concludendo che “se così fosse, allora sarebbe da ridiscutere la tesi circa l’ammissibilità dell’azione surrogatoria (…), in quanto verrebbe affermata la natura “personale” della riduzione”.
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