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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
maggio - giugno 2017
D iretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Maria Giovanna Cubeddu, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio. Salvatore Patti
Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza reciproca e nascita dell’obbligo alimentare.
Massimo Paradiso
Libertà e solidarietà nella crisi delle convivenze. Gilda Ferrando
Pacini
Indice Dottrina Salvatore Patti, Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio............................................ p. 275 Massimo Paradiso, Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza reciproca e nascita dell’obbligo alimentare.....................................................................................................................» 287 Gilda Ferrando, Libertà e solidarietà nella crisi delle convivenze....................................................... » 299 Maria Novella Bugetti, La solidarietà tra genitori e figli e tra figli e genitori anziani...........................» 313 Paola Grimaldi, Gli accordi di maternità surrogata tra autodeterminazione sulle scelte procreative, autonomia privata e best interest of the child........................................................................................» 323 Rachele Marseglia, I matrimoni contratti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso dopo la legge Cirinna’......................................................................................................................................... » 339 Michela Labriola, La filiazione omogenitoriale................................................................................... » 357 Giurisprudenza App. Napoli, sez. min., decreto 29 marzo 2017, con nota di Rosaria Giampetraglia, Il conflitto endofamiliare non giustifica la nomina di un amministratore di sostegno..................................................» 389 Recensioni La recensione di Salvatore Patti a “Same-Sex Relationships and Beyond – Gender Matters in the EU” di Katharina Boele-Woelki and Angelica Fuchs (eds.)............................................................................» 407 Part
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Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio* Sommario :
1. Il tramonto dell’autorità nella famiglia e i doveri di solidarietà. – 2. Il principio di autosufficienza nei principi della European Commission on Family Law. – 3. L’introduzione del principio di autosufficienza nel BGB. – 4. La dédramatisation della fine del matrimonio e il principio di autosufficienza dopo la riforma del Code civil. – 5. Il bilanciamento tra il principio di autosufficienza e le esigenze di solidarietà. – 6. Spunti per un ripensamento degli orientamenti giurisprudenziali in tema di mantenimento del coniuge separato e dell’ex coniuge.
At the beginning of the new century, among the principles delevoped in connection with the matter of divorce, the European Commission on Family Law indicated the principle according to which, except particular cases, “following the divorce, every spouse shall provide to their own needs” as being the general rule. A similar evolution can be found in the French legal system that, in 2004, has adopted in the Code civil the principle according to which the divorce “met fin au devoir de secours entre époux” and in German one that, in 2007, introduced the principle of the “self-responsibility” in the BGB (German Civil code). The “post marital solidarity” survives only in exceptional cases and, generally, for a limited period of time. A similar reform seems advisable also in the Italian legal system.
1. Il tramonto dell’autorità nella famiglia e i doveri di solidarietà.
Sono trascorsi circa quarant’anni da quando è stato segnalato il tramonto delle autorità
* Relazione svolta al Convegno su «La solidarietà tra familiari in Europa», Grosseto, 20 aprile 2017, organizzato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia in collaborazione con EFL (European Association for Family and Succession Law).
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familiari ed il passaggio a rapporti caratterizzati dalla solidarietà1. La solidarietà rappresenta uno dei principi che caratterizzano la Costituzione italiana, ed in tal senso può quindi condividersi la tesi secondo cui «la storia (…) del diritto di famiglia è in gran parte una storia delle progressive limitazioni delle potestà private a tutela dei diritti fondamentali»2. Si afferma una nuova visione della famiglia, caratterizzata da armonia, condivisione degli impegni e delle responsabilità nonché dalla disponibilità di ciascun membro di prestare reciproca assistenza3. La solidarietà che lega i membri della famiglia – soprattutto nella fase iniziale – è quindi una solidarietà spontanea, che nasce dal sentimento e giustifica molte scelte (altrimenti da giudicare) non razionali4. Peraltro, la solidarietà e non soltanto con riferimento ai rapporti familiari, veniva posta da grandi giuristi di altre epoche, come Jhering e Josserand, in relazione alla gratuità, ed accostata alla fraternità, alla generosità, alla carità e all’assistenza, mentre oggi si mette in luce che il superamento della gratuità, ha condotto ad un diverso concetto di solidarietà, in grado di garantire il rispetto della dignità della persona5. La Costituzione italiana, che prescrive doveri sociali di solidarietà segna il passaggio ad un concetto di solidarietà imposta. La solidarietà non deve essere considerata soltanto come espressione dell’altruismo e dei sentimenti ma rappresenta un dovere che si scorge come ratio di numerose norme del codice civile e di altre leggi che disciplinano i rapporti familiari6. Così, ad esempio, possono ricondursi al principio di solidarietà i doveri di collaborazione e di contribuzione, come pure la piena equiparazione dell’attività casalinga e quella lavorativa «esterna» (art. 143 c.c.)7. Il principio di solidarietà va oltre la famiglia «nucleare» e giustifica l’obbligo sussidiario di mantenimento posto a carico degli ascendenti (art. 148 c.c.), come pure l’obbligo di mantenimento «secondo la condizione patrimoniale della famiglia» disciplinato a favore del familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’im-
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C.M. Bianca, Le autorità private, Napoli, 1977, 9 ss.; Id., Diritto civile, 2.1, La famiglia5, Milano, 2014, 7 ss., secondo cui l’unità della famiglia si basa su una coesione spirituale che non può essere perseguita mediante l’esercizio di poteri autoritari. L. Ferrajoli, Costituzionalismo oltre lo Stato, Modena, 2017, 38. Cfr. la definizione di solidarietà che si riscontra, ad esempio, in T. De Mauro, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Secondo una tesi diffusa tra gli studiosi di economia, i comportamenti umani più razionali sono quelli che corrispondono a scelte «egoiste» dell’individuo. Sul punto v. N. Lipari, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1977, 1, il quale intende la solidarietà come «sentimento di generosità o di altruismo». In termini generali, S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Bari-Roma, 2014, 48, parla di «solidarietà giuridicizzata». Con riferimento ai rapporti familiari e agli obblighi di mantenimento, v. p. 50. Bianca, La famiglia, cit., 59 ss., il quale precisa che il principio di solidarietà trova un limite generale nella reciprocità e nella proporzionalità degli obblighi da esso scaturiti.
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presa familiare (art. 230 bis c.c.). Nella solidarietà può individuarsi anche il fondamento della responsabilità dei genitori (art. 2048 c.c.) ed anche, da un diverso angolo di visuale, quello dell’obbligo di risarcimento dei danni ai superstiti, in quanto conseguenza della lesione – da parte di un terzo – di un vincolo di solidarietà della vittima con i superstiti 8. In tutte le norme sopra considerate, pur con riguardo ad una famiglia che vive in modo armonico, la solidarietà è «imposta» e per molti versi – come si vedrà – rappresenta un’espressione del principio di eguaglianza (art. 2 Cost.). La solidarietà si manifesta più chiaramente come «imposta» nelle ipotesi in cui serve a giustificare norme che disciplinano obblighi alimentari o di mantenimento a seguito della crisi del rapporto coniugale. Alla solidarietà familiare viene infatti ricondotto l’obbligo alimentare di fonte legale (art. 433 c.c.), in quanto il suo fondamento è stato ravvisato nell’appartenenza al medesimo gruppo familiare (c.d. famiglia parentale, a parte ovviamente la posizione del donatario)9. Si parla al riguardo di «diritti fondamentali di solidarietà» che si realizzano attraverso l’altrui cooperazione, mettendosi altresì in luce che nella valutazione dello stato di bisogno dell’avente diritto occorre tener conto di ogni forma di assistenza e sovvenzione su base legale o convenzionale, come ad esempio le pensioni sociali, con la conseguenza che il compito della famiglia e degli altri soggetti tenuti agli alimenti sembra «divenire marginale in ragione dell’affermarsi della sicurezza sociale»10. La necessità di coordinare obblighi di solidarietà familiare con l’intervento pubblico a tutela del soggetto in stato di bisogno è altresì evidente nella materia degli obblighi di mantenimento del coniuge separato o divorziato. La presenza di un adeguato sistema di sicurezza sociale rende più semplice, in altre esperienze giuridiche, soprattutto del centro e del nord Europa, la cessazione degli obblighi di mantenimento a carico dell’ex coniuge. Nell’assegno di divorzio viene individuata una sicura ipotesi di solidarietà postconiuga11 le . In questa ipotesi, la crisi del matrimonio e l’inevitabile passaggio da una fase di armonia ad una di conflitto mette in particolare evidenza il carattere «imposto» della solidarietà, che assume le caratteristiche di un obbligo.
Lipari, op. cit., 2, discorre di una escursione molto ampia di significati, che va dalla posizione di chi – come Rodotà – vi coglie la cadenza di una nuova lex Aquilia come doveri inderogabili di non recare danno ad altri o di chi vede un sinonimo di giuridicità. 9 T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984. 10 Bianca, La famiglia, cit., 481 ss. 11 Bianca, La famiglia, cit., 289 ss. 8
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2. Il principio di autosufficienza nei principi della European Commission on Family Law
Il passaggio dall’autorità alla solidarietà nei rapporti familiari è caratterizzato da un superamento della visione autoritaria quale conseguenza di una piena affermazione del principio di eguaglianza. Se oggi si discute di un tramonto della concezione (esclusivamente) solidarista dei rapporti familiari – ed in particolare coniugali – in favore di una individualista, ciò riguarda anzitutto la fase della crisi (e non quella della “vita”) del matrimonio. Inoltre, l’affermarsi del principio di autosufficienza degli ex coniugi, seppure – come si vedrà – può parlarsi di un sopravvento in Europa di esso rispetto a quello di solidarietà postconiugale, non ha condotto ad una cancellazione di quest’ultimo che ha assunto il diverso ruolo di limite del nuovo principio. Il compito del giurista diviene quindi quello di indicare i criteri del necessario bilanciamento tra principi contrapposti. Vediamo anzitutto come ha trovato espressione il nuovo principio. L’autosufficienza è chiaramente indicata come regola generale nei principi sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi elaborati dalla Commission on European Family Law12. I Principles of European Law regarding Divorce and Maintenance between Former Spouses elaborati dalla Commissione hanno riconosciuto sia il divorzio per mutuo consenso, sia quello senza il consenso di uno dei coniugi, non richiedendo una certa durata del matrimonio per consentirne lo scioglimento. Per quanto concerne il mantenimento tra gli ex coniugi, esso è soggetto a regole identiche a prescindere dal tipo di divorzio. Al principio 2.2, intitolato «Autosufficienza» è infatti previsto che «salvo quanto disposto dai Principi seguenti, dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni». L’eventuale attribuzione del mantenimento dopo il divorzio, presuppone che il coniuge non abbia mezzi adeguati per far fronte ai propri bisogni e che, in ogni caso, il coniuge obbligato abbia la capacità di soddisfare tali bisogni. Nel valutare la capacità del coniuge obbligato di soddisfare i bisogni del coniuge avente diritto, l’autorità competente deve accordare la priorità ad una eventuale richiesta di mantenimento del figlio minore e tenere conto dell’eventuale obbligo alimentare del coniuge obbligato verso il nuovo coniuge o convivente (c.d. «principio di pluralità delle richieste di mantenimento»). La Commissione ha inoltre previsto il principio dei cc.dd. «limiti temporali»: l’autorità competente può attribuire il mantenimento per un periodo di tempo limitato e, soltanto eccezionalmente, senza limiti temporali.
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Cfr. S. Patti, I principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, in Familia, 2005, 337 ss.
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L’obbligo di mantenimento si estingue se l’ex coniuge avente diritto sia passato a nuove nozze o abbia intrapreso una convivenza duratura (oltre che, naturalmente, a causa della morte del coniuge obbligato o di quello avente diritto). In ogni caso, una volta estinto, l’obbligo di mantenimento non rivive nell’ipotesi di rottura del nuovo matrimonio o della convivenza. La Commissione ha previsto, infine, un principio in materia di «accordi sul mantenimento», in base al quale i coniugi, dopo il divorzio, possono concludere un accordo in forma scritta sul diritto al mantenimento. L’accordo può riguardare l’ammontare, le modalità di esecuzione, la durata e l’estinzione dell’obbligo di mantenimento, nonché l’eventuale rinuncia al diritto dello stesso13.
3. L’introduzione del principio di autosufficienza nel BGB Analoga scelta – e analoga tecnica normativa – si rinviene nel codice civile tedesco dopo la riforma del 200714. Il § 1569 BGB, la cui rubrica recita: «Principio della autoresponsabilità» (Selbstverantwortung), stabilisce che dopo il divorzio ciascun coniuge deve provvedere al proprio mantenimento e che se non è in condizione di farlo ha, nei confronti dell’altro coniuge, una pretesa al mantenimento soltanto secondo quanto stabilito dalle norme seguenti. Dal § 1574 BGB discende l’obbligo dell’ex coniuge di svolgere un’«adeguata attività lavorativa». L’attività si considera adeguata alla luce della formazione, dell’età, delle condizioni di salute nonché del lavoro precedentemente svolto15. Lo stesso ex coniuge ha, eventualmente, l’onere di provare di avere fatto tutto il possibile per trovare un posto di lavoro e di non aver rifiutato alcuna offerta16. In definitiva, la solidarietà postconiguale (nacheheliche Solidarität), sopravvive soltanto nei casi – definiti eccezionali – in cui circostanze specifiche determinano un insuperabile stato di bisogno della persona. Si precisa tuttavia che l’obbligo è configurabile «solange und soweit» (per il tempo e nella misura in cui) non sia possibile applicare la regola generale17, poiché il fine dell’istituto viene individuato in primo luogo nella esigenza di facilitare il reinserimento nella vita lavorativa. Il criterio delle condizioni di vita godute durante il matrimonio, pur ancora previsto dal § 1578 BGB, perde di rilevanza: come affermato può parlarsi di un superamento della “garanzia” dello standard di vita18.
Per un quadro completo sull’evoluzione del diritto europeo della famiglia in tema di divorzio e mantenimento tra ex coniugi, si veda, K. Boele-Woelki, B. Braat, I. Sumner (Ed.), European Law in Action, II, Maintenance between former spouses, Antwerp-Oxford-New York, 2003. 14 Gesetz zur Änderung des Unterhaltsrechts (UÄndG, BGBl, 2007, I, 3189). 15 In tal senso v. già BGH, 6 ottobre 2004, in FamRZ, 2005, 23 ss. 16 Una regola di ripartizione dell’onere della prova di segno opposto rispetto a quella del diritto italiano vivente. 17 W. Born, Das neue Unterhaltsrecht, in NJW, 2008, 5. 18 Born, op. cit., 1 ss. 13
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Le norme sopra richiamate non trovano applicazione nel caso in cui i coniugi hanno raggiunto un accordo avente ad oggetto il mantenimento. In base alla nuova disciplina gli accordi devono essere certificati in forma notarile (§ 1385 c, seconda frase, BGB), e la legge ha determinato un aumento di questi atti di autonomia privata, soprattutto al fine di tutelare le donne che, d’accordo con il coniuge, decidono di dedicarsi ai figli e alla casa familiare. Sia la regola di soft law che quella del BGB contengono quindi lo stesso principio dell’autoresponsabilità, che conosce tuttavia attenuazioni ed eccezioni, riconducibili al principio di solidarietà nei confronti dell’ex coniuge in stato di bisogno. In entrambi i casi, inoltre, si attribuisce un ruolo importante all’accordo dei coniugi sulle conseguenze del divorzio.
4. La dédramatisation della fine del matrimonio e il
principio di autosufficienza dopo la riforma del Code civil Più complessa, ma rispondente al principio di autosufficienza, appare la nuova disciplina dettata nel Code civil. La legge 26 maggio 2004 n. 2004/439, entrata in vigore il 1° gennaio 2005, come è noto, ha completato un itinerario di riforma iniziato da circa trent’anni, seguendo il metodo, suggerito da J. Carbonnier, di modificare il diritto per tappe, corrispondentemente all’evoluzione della società. Le finalità della riforma sono state sintetizzate utilizzando soprattutto i termini «dédramatisation», «concentration des effets du divorce», «simplification et pacification». «Dédramatisation» appare in questo contesto un termine significativo, perché serve ad indicare che il divorzio non deve essere visto e vissuto – come avveniva a metà del secolo scorso – alla stregua di un dramma, di una catastrofe familiare e personale. Circa la metà dei matrimoni dell’Unione Europea si conclude con il divorzio e questo dato testimonia che la fine del rapporto matrimoniale, prima del suo termine naturale per la morte di uno dei coniugi, deve essere accettata come un’evenienza normale, da gestire nel modo più conveniente per tutti i soggetti coinvolti, in modo che ciascuno di essi possa riprendere il cammino con una diversa organizzazione della propria esistenza. Già alla luce di queste considerazioni, a parte la tutela degli eventuali interessi di minori, nell’esperienza francese si è manifestato il dubbio che la moderna visione dello scioglimento del matrimonio renda superfluo – o addirittura controproducente – il ricorso al giudice. Posto che il matrimonio si scioglie per una consapevole e libera decisione dei coniugi, così come avviene nel caso di ogni altro rapporto che vede in gioco interessi patrimoniali, e che quindi si determina la necessità di configurare un assetto stabile, certo ed equilibrato, sono altre le figure professionali che possono contribuire a soddisfare tali esigenze. La legge francese attribuisce nuove e specifiche competenze al notaio19.
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Cfr. S. Patti, La nuova legge francese sul divorzio e il ruolo del notaio, in Familia, 2008, 3 ss.
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Con l’espressione «concentration des effets du divorce» si esprime un altro importante fine della riforma, per certi versi collegato alla «dédramatisation». Se, infatti, il divorzio deve essere accettato come una evenienza normale nella vita della persona, così come normale, anche se spesso dolorosa, è la fine di qualsiasi rapporto sentimentale o affettivo, occorre che le vicende economiche conseguenti allo scioglimento del matrimonio si esauriscano nel più breve tempo possibile. In tal senso (il nuovo testo del) l’art. 270 Code civil stabilisce che «Le divorce met fin au devoir de secours entre époux. L’un des époux peut être tenu de verser à l’autre une prestation destinée à compenser, autant qu’il est possible, la disparité que la repture du mariage crée dans les conditions de vie respectives. Cette prestation a un caractére forfaitaire. Elle prend le forme d’un capital dont le montaut est fixé par le juge». La norma prevede inoltre che il giudice può rifiutare la suddetta prestazione se ciò è richiesto dall’equità, sia in considerazione dei criteri previsti nell’articolo successivo (bisogno del coniuge e risorse dell’altro coniuge, tenendo conto della situazione al momento del divorzio e dell’evoluzione prevedibile), sia quando il divorzio è pronunciato per colpa esclusiva del coniuge che domanda il beneficio di questa prestazione con riguardo alle circostanze particolari della fine del rapporto. La decisione del giudice sulle conseguenze patrimoniali non ha luogo se i coniugi hanno stipulato una convenzione (art. 267 Code civil). L’art. 265-2 stabilisce infatti che «les époux peuvent, pendant l’instance en divorce, passer toutes conventions pour la liquidation et le partage de leur régime matrimonial». In base al secondo comma dello stesso articolo la convenzione deve essere stipulata per atto notarile quando la liquidazione riguarda beni sottoposti a pubblicità. La «simplification» della procedura rappresenta la naturale conseguenza della nuova visione del divorzio, mentre il termine «pacification». ha riguardo all’intento di favorire il dialogo tra le parti, di concedere spazio alla loro volontà in un quadro complessivo caratterizzato dalla richiesta di comportamento leale. Se i coniugi, nonostante i suggerimenti del notaio, non riescono a trovare un accordo, le difficoltà legate allo stato di crisi del loro rapporto, soprattutto in presenza di figli minori, possono rendere preferibile il ricorso alla seconda forma di procedura prevista dalla nuova disciplina, cioè il divorzio per accettazione del principio di «rottura» del matrimonio. In questo caso, il giudice, fallito il tentativo di conciliazione, prende le necessarie misure provvisorie e i coniugi hanno comunque la possibilità di raggiungere un accordo, nel corso del procedimento, su tutte o una parte delle conseguenze del divorzio, e di sottoporre la relativa convenzione al giudice per l’omologazione. In mancanza di accordo dei coniugi («consentement mutual») circa l’eventuale pagamento di una somma di denaro o sulle modalità di tale pagamento, il giudice può ordinare il pagamento di una «prestation compensatoire», che normalmente è rappresentata da una somma versata una tantum (art. 270, al. 2 Code civil) e può anche avere ad oggetto l’attribuzione di beni in proprietà (art. 274 Code civil). Peraltro, se il debitore non è in grado di pagare tutta la somma in un’unica soluzione, il giudice può fissare le «modalités» del pagamento, in un periodo massimo di otto anni, sotto forma di versamenti periodici.
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Proprio al fine di assicurare la definitiva cessazione di ogni rapporto tra i coniugi, soltanto in ipotesi eccezionali, la «prestation compensatoire» può assumere la forma di una rendita vitalizia (rente viagère). In ogni caso, non è possibile che successivamente venga aumentato l’ammontare stabilito: «la (eventuale) révision ne peut avoir pour effet de porter la rente à un montant supérieur à celui fixé initialement par le juge» (art. 276-3 al. 2 Code civil). La volontà del legislatore di evitare qualsiasi prosecuzione di rapporti economici tra gli ex coniugi risulta inoltre dalla nuova regola introdotta dall’art. 276-4 Code civil, secondo cui il debitore di una «prestation compensatoire» sotto forma di rendita può chiedere al giudice, in qualsiasi momento, di sostituire in tutto o in parte la rendita con il pagamento di una somma. Analoga domanda può essere presentata dal creditore della prestazione patrimoniale se dimostra che le condizioni del debitore consentono questa modifica20. La nuova legge francese ha quindi accresciuto gli spazi lasciati all’autonomia privata nella materia in esame. In particolare, pur non avendo modificato le modalità di versamento della «prestation compensatoire» stabilite dalla legge 30 giugno 2000, favorisce ulteriormente l’accordo dei coniugi. Il giudice dovrà intervenire soltanto nei casi in cui manca l’accordo sull’ammontare o sulle modalità di pagamento21. I coniugi possono, tra l’altro, individuare una soluzione che invece non potrebbe costituire oggetto della decisione del giudice: es. il pagamento della somma stabilita in un periodo superiore a otto anni oppure una rendita temporanea22. L’accordo dovrà comunque essere sottoposto all’omologazione del giudice, che può essere negata soltanto nei casi in cui la convenzione ripartisca in modo non equo diritti ed obblighi delle parti.
5. Il bilanciamento tra il principio di autosufficienza e le esigenze di solidarietà
Il principio generale è stato quindi capovolto: in Europa prevale l’idea secondo cui con il divorzio iniziano vite autonome e distinte degli ex coniugi, ciascuno dei quali deve provvedere ai propri bisogni. Ma il nuovo principio conosce – come detto – importanti eccezioni o limitazioni, riconducibili all’idea della solidarietà, più o meno intense nelle diverse normative. Iniziando ad esaminare i principi europei del diritto di famiglia, l’obbligo di mantenimento si configura quando l’ex coniuge richiedente non ha mezzi adeguati per far fronte
Per un più ampio commento, v. S. Patti, Crisi del rapporto coniugale e obblighi di mantenimento, in Crisi della famiglia e obblighi di mantenimento nell’Unione europea, a cura di V. Roppo e G. Savorani, Torino, 2008, 25 ss. 21 M. P. Murat-Sempietro, V. Trambouze, Le divorce après la loi du 24 mai 2004, Paris, 2006, 133 ss. 22 Id., op. cit., 141. 20
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ai propri bisogni e l’altro ha la possibilità economica di soddisfarli (2.3). Al riguardo, occorre tenere conto della capacità lavorativa degli ex coniugi, dell’età e dello stato di salute, della cura di figli minori, della ripartizione dei doveri durante il matrimonio, della sua durata e del tenore di vita, nonché di eventuali successivi matrimoni o convivenze (2.4). L’eventuale somma dovuta a titolo di mantenimento deve essere versata con cadenza periodica e in anticipo, ed è altresì possibile il pagamento in un’unica soluzione (2.5). Si noti, peraltro, che nonostante il sussistere dei suddetti presupposti, il mantenimento può essere escluso se il pagamento risulta di eccezionale «durezza» per l’obbligato anche, tenendo conto del comportamento dell’ex coniuge avente diritto (2.6). Inoltre, nel valutare la capacità dell’ex coniuge obbligato a soddisfare i bisogni dell’avente diritto, occorre accordare priorità alle esigenze di mantenimento dei figli dell’obbligato come pure tenere conto di eventuali obblighi di quest’ultimo nei confronti di un nuovo partner (2.7). In ogni caso, come detto, il mantenimento – salvo casi eccezionali – può essere attribuito soltanto per un periodo di tempo limitato (2.8) e l’obbligo si estingue se l’avente diritto è passato a nuove nozze oppure ad una convivenza stabile (2.9). Nell’esperienza tedesca, con riferimento ai limiti del principio di autoresponsabilità del coniuge divorziato, si afferma la necessità di coordinare diversi principi in parte contrastanti. Il primo di essi è quello della Handlungsfreiheit, cioè della libertà di agire che ciascuno dei coniugi deve avere dopo il divorzio, e che risulta limitata da eventuali obblighi di mantenimento. Il suddetto principio deve tuttavia cedere rispetto alle esigenze di figli in tenera età, che risulterebbero (ulteriormente) sacrificati se l’ex coniuge che ne ha la cura – in genere la madre – fosse costretta a svolgere un’attività lavorativa. È previsto pertanto il diritto dell’ex coniuge di ricevere il mantenimento (per se stesso) fino al compimento del terzo anno di età del figlio (§ 1570 BGB). Il secondo principio è quello della nacheheliche Solidarität, cioè della solidarietà post coniugale, che tuttavia – alla luce del principio generale e prevalente della Eigenverantwortung, necessità di volta in volta di una particolare giustificazione alla luce delle circostanze del caso concreto (età, malattia, etc.). In ogni caso si tiene conto della durata del matrimonio e di ciò che risulta pretendibile alla luce delle possibilità economiche dell’ex coniuge (eventualmente) obbligato, soprattutto alla luce della presenza di figli minori (§ 1579 BGB)23. Dopo la riforma del 2007, comunque non sussiste la c.d. garanzia di mantenere lo stesso standard di vita goduto durante il matrimonio. Nella stampa quotidiana si è letto a volte, con espressione sintetica ed efficace, che l’infermiera che aveva sposato un medico, dopo il divorzio, corre il rischio di ritornare a vivere come una infermiera.
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N. Dethloff, Familienrecht, 30 ed., München, 2012, 174 ss.
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6. Spunti per un ripensamento degli orientamenti
giurisprudenziali in tema di mantenimento del coniuge separato e dell’ex coniuge. Il diritto di famiglia italiano, come è noto, ha predisposto una tutela specifica per il coniuge «cui non sia addebitabile la separazione», prevedendo il suo diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri (art. 156, 1° comma, c.c.). Una norma, solo per alcuni versi simile, è contenuta nella legge sul divorzio, essendo previsto che «il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive» (art. 5, n. 6, l. 1.12.1970, n. 898, come modificato dall’art. 10, l. 6.3.1987, n. 74). Il confronto con la normativa in tema di scioglimento del matrimonio di altri Paesi europei conduce alla conclusione che esiste un favor del nostro ordinamento giuridico nei confronti del coniuge destinatario dell’assegno, che generalmente non trova riscontro oltre confine. In molti paesi, come si è visto, infatti, è prevista la (eventuale) corresponsione dell’assegno soltanto per un breve periodo dopo la cessazione del matrimonio oppure si tende a privilegiare il pagamento di una somma una tantum adeguata per affrontare le difficoltà connesse ad un periodo di transizione. Peraltro, ad avviso di chi scrive, il suddetto favor della legge italiana risulta accentuato da una interpretazione delle norme sopra ricordate che non può andare esente da critiche. Al riguardo, conviene esaminare la problematica prendendo spunto da una importante sentenza della Cassazione (2.7.2007, n. 12121) in tema di separazione personale dei coniugi. Nella suddetta decisione la Corte suprema, cassando la sentenza della corte d’appello, ha affermato che nel caso di specie sussistevano «pacificamente» i presupposti essenziali dell’obbligo di mantenimento, stabiliti dall’art. 156, 1° comma, c.c., ossia la non addebitabilità della separazione alla ricorrente e la totale mancanza di propri redditi «accertati». Accertata risultava invece, nella sentenza della corte del merito, l’inerzia della ricorrente «nella ricerca di un’occupazione redditizia, confacente alla sua condizione e alle sue capacità». È opportuno ricordare che la ricorrente non aveva figli, era giovane e laureata in lingue straniere, mentre il coniuge era obbligato al mantenimento di un figlio nato a seguito di una relazione con un’altra donna dopo la separazione e percepiva un modesto stipendio, ed infine che la ricorrente era tornata a vivere nella casa d’abitazione dei facoltosi genitori, come pure nel corso del giudizio era emersa l’eventualità che essa svolgesse attività lavorative non «emergenti sul piano del riscontro fiscale», la cui prova «ben difficilmente avrebbe potuto essere fornita dal di lei coniuge».
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Solidarietà e autosufficienza nella crisi del matrimonio
Ciò posto, ai fini della corresponsione dell’assegno risulta decisiva, anche nelle ipotesi di separazione personale, la circostanza (della possibilità concreta) dello svolgimento di un’attività lavorativa e di un «rifiuto» delle relative opportunità da parte del coniuge che chiede l’assegno. La Corte di cassazione afferma testualmente che «l’inattività lavorativa del richiedente l’assegno può costituire circostanza idonea ad annullare l’altrui obbligo – altrimenti sussistente – di versarlo, solo se conseguente al rifiuto accertato di effettive e concrete, non meramente ipotetiche, opportunità di lavoro». La Cassazione aggiunge che «il mancato sfruttamento della supposta attitudine al lavoro non equivale ad un reddito attuale né, di per sé ed in modo univoco, lascia presumere la volontaria ripulsa di propizie occasioni di reddito» e precisa altresì che «l’inattività lavorativa, infatti, non necessariamente è indice di scarsa diligenza nella ricerca di un lavoro, finché non sia provato, ai fini della decisione sull’assegno, il rifiuto di una concreta possibilità di occupazione». Viene in tal modo confermato un orientamento consolidato secondo cui sul coniuge chiamato a versare l’assegno grava l’onere di fornire la prova del «rifiuto» dell’altro coniuge di concrete opportunità di lavoro24. Non si configura, quindi, a carico del richiedente, come avviene nelle altre esperienze giuridiche prima esaminate, l’onere di provare di avere fatto tutto il possibile per trovare un’occupazione, ma si presume che l’inattività sia giustificata, poiché dipendente dalla «assenza» di occasioni adeguate. Quasi superfluo sottolineare che il suddetto orientamento ha determinato nel nostro paese vere e proprie situazioni di «rendita», particolarmente criticabili anche perché il presupposto della mancanza di addebito della separazione a carico del richiedente, non significa – ovviamente – che l’addebito sussista a carico dell’altro coniuge, posto che nella maggior parte dei casi l’addebito non viene pronunciato. Il presupposto della mancanza di addebito non può pertanto essere valutato alla stregua di un giudizio di meritevolezza a favore del richiedente. Ma, soprattutto, appare errata la regola di ripartizione dell’onere della prova, su cui in definitiva poggia la costruzione giurisprudenziale. Infatti, la norma dettata in tema di separazione personale dei coniugi non stabilisce su quale dei coniugi grava l’onere della prova (delle occasioni di lavoro e del rifiuto di svolgere un’attività lavorativa) ma prevede soltanto il diritto di ricevere quanto è necessario al mantenimento in mancanza di adeguati redditi propri. Non essendo stata prevista una regola particolare di ripartizione dell’onere della prova, dovrebbe trovare applicazione la regola generale dell’art. 2697 c.c., secondo cui l’onere di provare i fatti costitutivi grava sull’attore. Nel caso in esame fatti costitutivi sono sia la mancanza di mezzi adeguati sia l’impossibilità di procurarseli, cioè di svolgere un’attività
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V. ad es., Cass., 2 luglio 2004, n. 12121, in Fam. pers. e succ., 2005, 17 ss. con nota critica di S. Patti, Assegno di mantenimento e ricerca di un lavoro.
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Salvatore Patti
lavorativa. Se allora può (entro certi limiti alla luce delle condizioni del mercato del lavoro) giustificarsi la regola giurisprudenziale secondo cui è lecito rifiutare occasioni di lavoro non adeguate in considerazione della formazione ricevuta, deve essere considerata errata la regola di ripartizione che fa gravare sul coniuge convenuto l’onere della prova di un fatto costitutivo. Né, in senso favorevole al criticato orientamento, varrebbe rilevare che la giurisprudenza si preoccupa di modificare l’oggetto della prova richiesta al convenuto, chiamato a provare non il fatto negativo della mancanza di adeguato impegno da parte del coniuge, bensì il fatto positivo del «rifiuto» di quest’ultimo di concrete occasioni di lavoro. La modifica dell’oggetto della prova non serve infatti a correggere l’errata ripartizione dell’onus probandi e, comunque, come insegna l’esperienza dei tribunali, risulta ben difficile provare che il coniuge in realtà non ha cercato il lavoro e ancor più il suo eventuale «rifiuto», trattandosi di vicende che attengono ad una sfera del tutto estranea a quella del soggetto chiamato a versare l’assegno. In altri termini, violando anche il principio della «vicinanza alla prova», sullo stesso coniuge si fa gravare l’onere di provare (la esistenza di redditi adeguati oppure) il «rifiuto» dell’altro coniuge di svolgere un’attività lavorativa, come se egli avesse la possibilità di accertare l’attività posta in essere per cercare lavoro, oppure di assistere ad eventuali colloqui o di verificare le offerte di lavoro pervenute all’altro coniuge. In definitiva, la suddetta ripartizione dell’onere della prova conduce a risultati non accettabili proprio perché la giurisprudenza non si accontenta di una valutazione «in astratto» delle occasioni di lavoro, in base alla qualificazione professionale della persona e alle condizioni del mercato, ma esige la prova dell’avvenuto «rifiuto» da parte del coniuge di un concrete offerte o occasioni di lavoro. Come conseguenza di tale orientamento, il coniuge nei cui confronti viene fatta valere la pretesa dell’assegno finisce per essere considerato «obbligato» semplicemente sulla base della domanda. Un ripensamento del suddetto orientamento appare quindi necessario, perché il mancato impegno a trovare un’occupazione non merita di essere tutelato, ma anche perché la Cassazione è chiamata ad interpretare il diritto vigente e per motivare una propria decisione dovrebbe cercare il fondamento nella norma di legge, non limitarsi a richiamare propri orientamenti, come avviene nel caso della sentenza sopra citata. Allo stesso modo, sembra indispensabile una modifica dell’orientamento della Corte suprema per quanto concerne il parametro del «tenore di vita» tenuto durante il matrimonio che, come è noto, già per le maggiori spese collegate alla necessità di una seconda abitazione, determina spesso insormontabili difficoltà in capo all’ex coniuge obbligato. Analoghe considerazioni possono svolgersi con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova circa il presupposto dell’assegno di divorzio. La legge stabilisce infatti che il richiedente, non deve avere mezzi adeguati «o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive» (art. 5, n. 6, l. 1.12.1970, n. 898). Anche in questo caso, alla luce della regola generale (art. 2697 c.c.) nonché dei criteri, basati su principi di logica e di buon senso, come quello della «vicinanza alla prova», l’onere della prova della impossibilità di procurare i mezzi adeguati per vivere dovrebbe gravare sul richiedente l’assegno.
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Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza reciproca e nascita dell’obbligo alimentare* Sommario : 1. Dalla prassi di assistenza reciproca alla nascita dell’obbligo alimentare. – 2. Uguaglianza morale e giuridica dei conviventi e inderogabilità del “regime primario” sul comune tenore di vita. – 3. La «cessazione della convivenza» e la problematica individuazione dei fatti che la integrano. “Tenuta nel tempo” del rapporto e insorgenza dello stato di bisogno. – 4. L’obbligo alimentare tra codice civile e disciplina di settore. Presupposti dell’obbligo e soggetti obbligati. – 5. Funzione dell’obbligo alimentare e “misura” degli alimenti. – 6. Durata dell’obbligo e sua cessazione.
The paper deals with the issue of economic assistance between more uxorio cohabitants in the light of the recent law no. 76/2016, which provides for a genuine duty of solidarity only at the time of its ending. In particular, it is expected that the former cohabitant unable to maintain himself has the right to receive “alimenti” from the other one – that is, what is necessary for the basic needs of life – for a period proportional to the duration of cohabitation. However, the question arises whether the particular intensity of the relationship does not affect the general criteria for determining alimony and, first, if it does not affect the reciprocal contribution during the cohabitation.
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Relazione svolta al Convegno su «La solidarietà tra familiari in Europa», Grosseto, 20 aprile 2017, organizzato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia in collaborazione con EFL (European Association for Family and Succession Law). Il saggio è destinato agli Scritti in onore di Giovanni Furgiuele.
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Massimo Paradiso
1. Dalla prassi di assistenza reciproca alla nascita dell’obbligo alimentare.
Il recente intervento normativo sulle convivenze di fatto individua i tratti identificanti della figura nei «legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza, morale e materiale», ma tanto fa limitandosi a prendere atto della prassi che connota il rapporto nel suo svolgimento: sembra arrestarsi così al piano della mera rilevazione o riscontro oggettivo di una situazione fattuale, dalla quale esula ogni profilo di doverosità. Di contro, sancisce un vero e proprio dovere di solidarietà economica al momento della sua cessazione: l’ex convivente che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento ha diritto di ricevere dall’altro gli «alimenti» nella misura determinata dal codice civile e per un periodo proporzionale alla durata del rapporto (art. 1, comma 65, legge n. 76/2016). Viene sancita così a livello di diritto positivo la statuizione di un dovere di assistenza che, per la prima volta, supera la logica e le angustie delle obbligazioni naturali alle quali si è soliti ricondurre la contribuzione reciproca e le diverse forme di solidarietà tra conviventi. Sulla perdurante validità di detto inquadramento non da oggi la dottrina ha iniziato a riflettere: in particolare, con riguardo a quelle forme di sostegno economico che siano attuate al momento della fine del rapporto. In questa sede vorrei soffermarmi sulla natura e sul contenuto di un obbligo che riguarda la fase in cui è sì esaurita l’esperienza del convivere e cessata la prassi di assistenza reciproca ma che, al contempo, non può non tener conto del fatto che esso trova radice in detta esperienza: e perciò in una consuetudine di intensa solidarietà che l’accosta decisamente, o addirittura l’assimila sotto tale profilo, alla comunione di vita propria del coniugio. Non a caso del resto il testo approvato in Commissione, prima dell’emendamento governativo, prevedeva il «diritto di ricevere il mantenimento e gli alimenti»: e se il primo è poi rimasto nella penna del riformatore (lasciandone traccia vistosa nella mancata cancellazione della congiunzione), certo si è che nel dettato originario emergeva la consapevolezza che l’intensità del pregresso rapporto ben avrebbe potuto dar luogo a un più pregnante dovere di solidarietà. La formulazione originaria della previsione era sicuramente infelice, non specificando se e quando il giudice avrebbe potuto decidere per l’uno o per gli altri e, a volerla dire tutta, non è certo che sarebbe stata opportuna: ben poche sono le voci che rimpiangono l’enunciato originario, anche a salvaguardia della libertà delle parti e per scongiurare il rischio di “fuga” dalla convivenza. Ma non è questo il punto. Il punto è se l’unico dovere di solidarietà sancito per l’ex convivente, pur non potendosi equiparare a un vero e proprio “mantenimento”, non risenta in qualche modo della particolare intensità del pregresso rapporto; una intensità, che lo differenzia nettamente dalle altre ipotesi in cui è sancito un obbligo alimentare: vuoi perché diversificati sono i vincoli che ad esso danno luogo, vuoi perché non è previsto che debbano ricorrere gli estremi in presenza dei quali si attiva un tale obbligo tra coniugi. Non sarà inutile allora un rapido richiamo alla disciplina sugli alimenti, movendo dal
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Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza reciproca
raffronto con le ipotesi in cui l’obbligo grava su chi sia, o sia stato, coniuge dell’avente diritto. Ebbene, il primo rilievo attiene al fatto che un tale obbligo si rende attuale soltanto ove esuli un dovere di più ampio contenuto: a parte quello ordinario della vita comune, vengono in considerazione l’assegno divorzile e il mantenimento del coniuge separato senza addebito, con una articolazione concreta che, quando non è volta ad assicurare il mantenimento dello stesso tenore di vita, ne tiene comunque conto in ampia misura (cfr. artt. 156 c.c., 56 e 12-bis legge div.). Gli alimenti, per contro, costituiscono la provvidenza minima, che si giustifica in ragione di una violazione dei doveri coniugali: vengono in considerazione infatti solo in caso di addebito della separazione e, stando almeno ad alcune letture, nei confronti del coniuge allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare (artt. 146 e 1563 c.c.). Emerge così nella disciplina degli alimenti una connotazione sanzionatoria che trova conferma in altre disposizioni, pur se ciò avviene in un disegno articolato e complesso difficilmente riconducibile ad unità: esso trascorre dall’imposizione dell’obbligo a chi non vi sarebbe tenuto (è il caso del coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio: art. 129-bis c.c.), alla sua soppressione in capo a chi pur vi sarebbe obbligato: oggi l’art. 448-bis c.c. esonera i figli dal soccorso alimentare verso il genitore decaduto dalla potestà, ma sono ormai innumerevoli le ipotesi di decadenza dal diritto a titolo di pena accessoria per la commissione di un delitto (v. ad es. art. 600-septies.2, n. 3, in relazione ai delitti di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater.1, 600-quinquies, 600-octies, 601, 602 c.p., nonché art. 609-nonies in relazione ai delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-quater2, 609-quinquies, 609-octies e 609 undecies, c.p.). D’altra parte, nelle altre ipotesi sancite dalla disciplina in materia, a parte talune fattispecie peculiari ed eccentriche (artt. 51 c.c. e 47 legge fall.), gli alimenti si collegano a vincoli nei quali non s’è mai dato un generale dovere di solidarietà economica (ad es., tra affini e tra collaterali: art. 433, nn. 4, 5, 6, e 437 c.c.), ovvero a rapporti in cui sono venute meno le ragioni che rendevano attuale un dovere di più ampio contenuto (ad es., tra genitori e figli, vuoi perché è cessata la convivenza in famiglia, vuoi per l’ormai acquisita autonomia economica: v. artt. 279 e 433, nn. 2 e 3, in relazione a quanto disposto dagli artt. 337-septies1, 315-bis1, 4, 316-bis1 c.c.). Nel nostro caso invece l’obbligo alimentare, mentre trova radice in una relazione di gran lunga più intensa di quella intercorrente tra affini e tra fratelli, non si colora certamente per una qualche connotazione sanzionatoria: al contrario, introduce un obbligo per l’innanzi non previsto. Si pone perciò il problema di definire i caratteri e il contenuto dell’obbligo alimentare: esso va, per quanto di ragione, accostato a un “comune” obbligo alimentare o non piuttosto all’articolata disciplina della solidarietà post-coniugale? Una questione, per la quale credo necessario almeno qualche rapido cenno alla «assistenza morale e materiale» che caratterizza la fase fisiologica della convivenza.
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2. Uguaglianza morale e giuridica dei conviventi e
inderogabilità del “regime primario” sul comune tenore di vita.
Già s’è detto che la prassi di reciproco sostegno e mutuo aiuto non può non arieggiare i doveri vigenti tra i coniugi, quale aspetto caratterizzante della «comunione di vita materiale e spirituale. Ma altresì, il comma 53, nel prevedere che il contratto di convivenza possa disciplinare «le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune», indica a parametro guida di dette modalità la correlazione «alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo»: riprende perciò testualmente la formula impiegata dall’art. 143 c.c. per la contribuzione tra coniugi. E se è certo che non possono semplicemente trasporsi alla convivenza i doveri coniugali, non può rimanere privo di rilievo un tale riferimento. Credo che, con riguardo al profilo della solidarietà, se ne possa desumere almeno quanto segue: che la regola ivi sancita, in ordine al paritario concorso di entrambi nella contribuzione alle necessità comuni, debba connotare anche il rapporto tra i conviventi, trattandosi di criterio non solo in linea col canone generale della pari dignità delle persone, ma, più specificamente, coerente col principio di uguaglianza morale e giuridica su cui è ordinato il matrimonio: un principio che, attenendo alla fase del rapporto, non v’è ragione di ritenere prerogativa esclusiva dei legami formalizzati. Ciò che importa, per quanto qui rileva, un paritario impegno di contribuzione alle necessità comuni e consente poi di apprezzare come ugualmente adeguate al fine prestazioni di diversa entità purché “correlate” alle specifiche capacità di ciascuno. In ogni caso, al pari del matrimonio, la convivenza non può che ordinarsi sull’adozione di un comune tenore di vita, quale carattere che connota tutti i rapporti di coppia nell’ambito del cd. “regime primario”. In breve, la regola della solidarietà familiare vale anzitutto per la condivisione di un comune tenore di vita che trascenda le fortune economiche dei singoli – siano essi i coniugi, i conviventi o i figli –, atteso che il principio di pari dignità morale e giuridica su cui è fondato il matrimonio deve ritenersi lo statuto di fondo di ogni esperienza di vita comune che, svolgendone le funzioni, su quello si voglia modellare. È questa, allora, la cornice sistematica (e problematica) alla quale vanno ricondotte le questioni relative alla solidarietà tra ex conviventi.
3. La «cessazione della convivenza» e la problematica
individuazione dei fatti che la integrano. “Tenuta nel tempo” del rapporto e insorgenza dello stato di bisogno. Il presupposto generale al quale la legge collega la nascita del diritto agli alimenti è la «cessazione della convivenza»: ancora una situazione di fatto dunque, ma della quale – a differenza degli elementi costitutivi di essa, e come ho avuto modo di evidenziare in altra occasione – non è precisato alcun estremo o elemento identificativo nella legge.
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Convivenza di fatto e solidarietà economica: prassi di assistenza reciproca
Si diffonde invece, la legge, sulle modalità di risoluzione del contratto di convivenza: indica i casi di «accordo delle parti, recesso unilaterale, morte di uno dei contraenti, matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona» (comma 59), e, per contro, tra di essi non menziona la fine della relazione. Certo, non è possibile immaginare che ad essa sopravviva il negozio destinato a regolarla e si può ritenere, con una apprezzata dottrina, che il contratto venga in tal caso a caducarsi automaticamente. Ma non è detto che debba valere anche l’inverso, e cioè che al venir meno del contratto debba accompagnarsi la rottura del rapporto, e perciò che i due eventi siano necessariamente collegati. Quando il contratto si sciolga per accordo tra le parti, infatti, ben è possibile che esse intendano proseguire nella relazione: decisiva sarà perciò la continuazione, anche “in via di fatto”, della convivenza. A parte tale caso, comunque, le ipotesi previste dalla legge sono evenienze oggettive che comportano, o presuppongono, la fine della relazione: così è per i casi di morte, matrimonio o unione civile, recesso unilaterale dal contratto che sia accompagnato dal «termine... concesso al convivente per lasciare l’abitazione» (comma 61); e lo stesso deve dirsi per il caso in cui sia instaurata un’altra convivenza. Dunque, sono fatti e dichiarazioni di volontà che hanno contenuto esattamente definito e portata univoca e in tali casi ben potrà dirsi di essere di fronte a una «cessazione della convivenza». Ben diversa è invece l’ipotesi in cui venga a cessare il «fatto» del convivere, trattandosi di evenienza che sembra riproporre, in negativo, la rilevanza degli estremi necessari per la sua sussistenza: quali estremi è sufficiente (o necessario) che vengano meno per ritenere cessato il rapporto? E in particolare, basta una sospensione o una qualche contrazione della prassi di assistenza reciproca? Per esigenze di brevità, evito di soffermarmi su tale questione e mi limito a proporre la conclusione cui sono giunto in altra sede: credo sia da ritenere dirimente la cessazione della coabitazione, che, mentre integra un elemento esteriore suscettibile di riscontro oggettivo, costituisce un carattere necessario per la stessa configurabilità di una convivenza di fatto. Se questi sono i possibili casi, e le modalità, di cessazione della convivenza, rimane però da verificare quando ad essa si accompagni la nascita dell’obbligo alimentare. Invero, vanno esclusi anzitutto i casi di matrimonio o unione civile tra i conviventi – nei quali subentra il più pregnante obbligo di contribuzione – ma altresì le ipotesi di matrimonio, unione civile o nuova convivenza instaurati con altri, che precludono la nascita del diritto ove sopravvengano senza apprezzabile intervallo di tempo dalla fine della convivenza precedente. In ogni caso, tali evenienze fanno venir meno il diritto, come appresso meglio dirò. Restano perciò i casi di morte di una delle parti e di fine concordata o unilaterale del rapporto: quanto alla prima, il diritto non sorge attesa la mancanza dello stesso soggetto debitore (art. 448 c.c.) e l’unica provvidenza prevista è il diritto d’abitazione nella casa familiare. La rottura volontaria del rapporto, allora, è la sola ipotesi in cui sorge il diritto agli alimenti, non assumendo rilevanza che essa si determini per volontà unilaterale, per decisione concordata, ovvero “in via di fatto”, per essere venuta a cessare la stabile coabitazione. Ma si prospetta allora un ulteriore problema.
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Fino a quando permane la rilevanza della pregressa, concorde comunione di vita quale titolo giustificativo dei diritti tra le parti e nei confronti dei terzi? In altre parole, la prassi di reciproca assistenza deve perdurare nel tempo, e in particolare deve perdurare fino al momento in cui si vogliano reclamare le relative tutele? D’altra parte, potrebbe accadere che le condizioni economiche di uno dei conviventi, buone al momento della rottura, peggiorino subito dopo: qui non v’è esercizio tardivo del diritto, ma v’è un limite di tempo oltre il quale tali diritti si perdono? Non credo di avere risposte affidabili e si corre il rischio di inventarsi una disciplina. Escluso che possa farsi applicazione delle norme sulla prescrizione, credo anche fortemente dubbio che possa farsi riferimento a un periodo di tempo pari alla durata del rapporto. Credo necessario cioè evitare di trasporre alla convivenza quella “indissolubilità” dei doveri di solidarietà post-coniugale che oggi connota il matrimonio e che, a mio giudizio, costituisce la ragione prima della sua crisi. Provo a indicare, quale possibile spunto di soluzione, le modalità di cessazione della convivenza: se una fine concordata “congela” le situazioni giuridiche dei conviventi – sì che dovrebbero essere irrilevanti le sopravvenienze successive – forse una rottura unilaterale potrebbe non escludere la rilevanza di fatti sopravvenuti, come la condizione di bisogno insorta entro un certo periodo di tempo: periodo, per il quale mi sentirei di indicare quello necessario ad attestare la stabilità della convivenza.
4. L’obbligo alimentare tra codice civile e disciplina di settore. Presupposti dell’obbligo e soggetti obbligati.
Quanto al contenuto dell’obbligo alimentare, la legge sembra voler mantenere un profilo basso, sia perché si attesta sul solo diritto agli alimenti, sia perché richiama la disciplina generale dell’istituto in ordine ai presupposti sostanziali della pretesa: è perciò a tale disciplina che dovrà farsi riferimento per quanto concerne stato di bisogno, inettitudine dell’alimentando a provvedere al proprio sostentamento, commisurazione degli alimenti al bisogno di chi li domanda e alle condizioni economiche di chi li deve somministrare. In questa sede basterà perciò farvi rinvio, salvo poi a tornare sul profilo della misura, rectius: dei parametri alla cui stregua dev’essere determinata l’entità degli alimenti. Piuttosto, la novella necessita di chiarimenti con riguardo all’ordine tra gli obbligati che la novella sembra lasciare inalterato, salvo l’inserimento dell’ex convivente al penultimo posto, così lasciando presupporre la perdurante vigenza di tutti gli altri obblighi. Del che è invece possibile dubitare. Il primo tra i chiamati dall’art. 433 c.c. è il coniuge, ma, atteso che i conviventi devono essere di stato libero (art. 1, comma 36, legge n. 76/2016), non può esservi un «coniuge» tenuto all’obbligo alimentare; se poi vi fosse, non si tratterebbe di una convivenza “a norma di legge” e perciò esulerebbe l’obbligo alimentare dell’ex convivente.
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Ma altresì è ormai cessato l’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile, atteso che l’avente diritto ha instaurato una convivenza di fatto: questa è infatti la conseguenza che la giurisprudenza aveva già tratto dal sistema, per ovviare a una previsione ormai avvertita come difficilmente giustificabile e che è stata in qualche modo confermata dall’art. 337-sexies c.c., là dove fa cessare il diritto al godimento della casa familiare nel caso in cui «l’assegnatario... conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio». Equiparata la convivenza al coniugio, quanto all’idoneità ad estinguere (o almeno a sospendere) il diritto all’abitazione e all’assegno post-coniugale, come non equipararla ad esso anche nella cessazione dell’obbligo alimentare? D’altra parte, la lettura che li voleva sospesi temporaneamente si inseriva in un quadro normativo in cui mancava un dovere di solidarietà dell’ex convivente. Oggi un tale dovere è positivamente sancito: come dunque far rivivere un obbligo che già si era potuto ritenere estinto pur in assenza di detto dovere? E dunque, per quel che può valere questa ipotesi, non v’è neppure un ex-coniuge che possa in qualche modo “occupare il primo posto” tra i soggetti tenuti a erogare un sostegno economico. A questo punto, però, sembra difficile ritenere che sopravviva l’obbligo alimentare di suocero e suocera, di generi e nuore. La disciplina positiva non è di molto aiuto: l’affinità cessa solo quando il matrimonio sia dichiarato nullo e l’obbligo alimentare viene meno (quando siano morti il coniuge da cui deriva l’affinità e i discendenti comuni e) quando l’avente diritto sia passato a nuove nozze (artt. 78 e 434 c.c.). Non è ovviamente previsto il caso della convivenza, ma se, come sembra, essa fa cessare l’obbligo del coniuge, non si vede come esso potrebbe permanere per gli affini. L’obbligo alimentare dell’ex convivente, così, precederà quello di fratelli e sorelle, ma sarà a sua volta “preceduto” da quello di discendenti e ascendenti, con una conseguenza perciò che mi sembra del tutto singolare. Ben più razionale sarebbe stato porlo in prima posizione, sia per la maggiore pregnanza del rapporto di convivenza – in “analogia” con quanto sancito per il coniuge –, sia per la sua durata temporanea, che avrebbe attivato l’obbligo dei parenti in un momento in cui si è ormai allontanata nel tempo l’esperienza del convivere e si sono affievolite le aspettative che in essa si fossero ragionevolmente riposte.
5. Funzione dell’obbligo alimentare e “misura” degli alimenti.
Quanto alla misura degli alimenti, il primo criterio è fornito dalla sua funzione, che è indubbiamente assistenziale: si tratta di provvedere alle necessità di vita dell’ex convivente e, conforme all’espresso rinvio, di fare riferimento alla disciplina del codice, e perciò alla misura idonea ad assicurare un livello di vita dignitoso. L’entità dell’assegno così si assesta su un livello tendenzialmente modesto, non dovendo «superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando» (art. 438 c.c.), ma il punto si presta a qualche considerazione ulteriore. Come ho già rammentato, la disciplina generale sugli alimenti risente del fatto che l’obbligato è chiamato a porre rimedio a una condizione di bisogno alla quale non ha certo
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dato causa; per contro, il coniuge titolato ai (soli) alimenti vede così ridotto il suo diritto in ragione di fatti che gli sono imputabili: si tratti del coniuge allontanatosi senza giusta causa o di quello che abbia subito l’addebito della separazione. Esulando tali ipotesi, al coniuge separato o divorziato compete un diritto di più ampio contenuto, che fino a tempi recenti si voleva addirittura calibrato sul mantenimento del tenore di vita goduto in precedenza. E se è ovvio che tali parametri non possono applicarsi tout court ai conviventi, non è detto che non possano almeno costituire elementi rilevanti nella determinazione degli alimenti. È da escludere ovviamente che l’obbligo debba assicurare lo stesso tenore di vita della convivenza: un criterio, che già non trova riscontro testuale nella disciplina del divorzio e che una recentissima sentenza della Cassazione ha finalmente rigettato (Cass. n. 11504/2017), prospettando un’indebita «ultrattività del vincolo matrimoniale» che ha finito col riproporre una inedita indissolubilità del matrimonio ristretta ai doveri economici. Non si tratta allora di equiparare il trattamento economico del coniuge divorziato e del convivente, quanto di tener conto della profonda diversità che intercorre tra un ‘generico’ obbligo alimentare e un dovere di solidarietà che si innesta su una pregressa relazione di tipo coniugale. Già all’interno della disciplina generale la misura degli alimenti si differenzia in ragione dei rapporti che li giustificano e delle peculiari esigenze di vita dell’alimentando: così è, ad es., quando si tratti di un fratello, del donatario, di un minore (artt. 4382, 3, e 439 c.c.). D’altra parte, la necessità di tener conto delle peculiarità fattuali del rapporto emerge anche nella novella, là dove si pone una correlazione tra estensione dell’obbligo e «durata della convivenza»: un riferimento, che sarebbe affrettato limitare alla durata dell’erogazione. In altre parole, pur escludendo che l’obbligo debba assicurare lo stesso tenore di vita della convivenza, non è detto che a determinarne la misura non possano concorrere altri elementi di giudizio come già avviene per la solidarietà post-coniugale, che tiene conto vuoi dell’«addebito» della separazione vuoi «delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo dato alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno...», fino a includervi una quota del t.f.r. e della pensione di reversibilità (artt. 156 c.c., 56 e 12-bis legge div.). È questo infatti che ci comunica l’espresso riferimento normativo alla «durata della convivenza» – che richiama per evidenti segni l’analogo riferimento in tema di divorzio –, ed è poi questa la ragione per la quale credo che la ratio della previsione non possa rinvenirsi soltanto nell’esigenza di consentire «un tempo ragionevole per riprogettare la propria esistenza» (come è stato suggerito da una apprezzabile dottrina). Se così fosse, tra l’altro, è a detto periodo, e non alla durata della relazione, che avrebbe dovuto commisurarsi la vigenza dell’obbligo. Che poi questo sia configurato come temporaneo, dipende semplicemente dal fatto che nella convivenza, a differenza del matrimonio, esula un impegno – dirò così – “a tempo indeterminato”. Non si tratta allora di equiparare il trattamento economico del coniuge divorziato e del convivente, quanto di tener conto, nell’uno come nell’altro caso, di criteri desunti dalle caratteristiche del rapporto. Riterrei perciò che, a sussidio degli ordinari criteri di determinazione dell’assegno alimentare, ben potranno trovare posto elementi di giudizio tratti dal tenore di vita durante
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la convivenza, dalle cause della rottura e dal contributo dato alla formazione del patrimonio di ciascuno, oltre che del criterio-principe della durata della convivenza (arg. art. 56 l. div.). Già s’è detto del ruolo centrale svolto dal comune tenore di vita durante la convivenza e basterà farvi rinvio, salvo a precisare che detto riferimento, mentre opererà solo come criterio orientativo, potrà operare solo in presenza di risorse adeguate, e perciò solo se non comporti una sostanziale riduzione del tenore di vita dell’obbligato. Quanto alle cause della rottura, la loro rilevanza emerge a livello normativo sia nella separazione, sia nella determinazione dell’assegno divorzile; il contributo alla formazione del patrimonio dell’altro non da oggi viene assunto dalla dottrina a fondamento di una eventuale azione di arricchimento a favore del convivente impoverito; la durata del rapporto infine, già rilevante in ordine all’assegno divorzile, ben può essere indice del tipo di affidamento che ciascuno può aver fatto sulla stabilità dell’unione (e che si è venuto consolidando nel tempo) e perciò dell’incidenza che esso può aver esercitato sulla decisione di non procurarsi una autonomia economica. E infine, chi giudicasse singolare il fatto che tale misura degli alimenti sia tendenzialmente più elevata di quella dovuta da obbligati di grado anteriore consideri che si tratta di conseguenza coerente con la “logica” della solidarietà familiare, che vede le qualità personali dell’obbligato incidere in modo talora determinante (cfr. artt. 4383 e 4391 c.c.), mentre ben potrebbe accadere che l’entità dell’assegno si attesti su un livello modesto in ragione delle risorse del primo tra i chiamati e viceversa su uno standard più elevato ove costui venga a mancare o non sia più in grado di erogare il sostegno. Quanto alla natura dell’assegno, già s’è detto della sua funzione assistenziale: esso deve ritenersi perciò irrinunciabile, ma uno spazio significativo va accreditato all’autonomia delle parti, sia in ordine alla sua misura, sia in ordine alla eventuale liquidazione in unica soluzione che precluderà ogni successiva revisione o pretesa (arg. art. 58 l. div.). Non è possibile qui soffermarsi sull’ammissibilità di accordi preventivi in materia, che attiene propriamente all’ambito dei contratti di convivenza; mi limito ad osservare che essi non possono ritenersi preclusi dal sancito divieto di apporvi termini o condizioni (art. 1, comma 56). Come che sia del problema generale, nel nostro caso la fine del rapporto non è avvenimento al quale siano subordinati «l’efficacia o la risoluzione del contratto», com’è proprio della condizione; è piuttosto una evenienza alla quale sono ricollegati (diversi e comunque) specifici effetti: nella specie, la misura e il contenuto della solidarietà post-convivenza che, mentre sono contemplati già nel disegno normativo, ben si prestano a una definizione convenzionale, fermo il limite della sua irrinunziabilità sostanziale. Si consideri del resto che, a tenore della giurisprudenza corrente, l’avvio di una convivenza estingue il diritto all’assegno divorzile: come non comprendere allora se, attesa la precarietà del rapporto informale, le parti vogliano introdurre una misura previdenziale? Infine, non credo sia il caso di interrogarsi sulla formula impiegata dal comma 65, a tenore della quale è «il giudice [che] stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro
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gli alimenti». Ordinariamente si insegna che l’obbligo alimentare sorge al verificarsi dei relativi presupposti, sì che la sentenza non ha valore costitutivo bensì di liquidazione del dovuto e di condanna al pagamento. Qui la peculiare formulazione credo si giustifichi in ragione del fatto che già il primo dei presupposti, la ricorrenza di una “convivenza di fatto”, non risulta certo per tabulas come accade per i rapporti formalizzati cui sono collegati gli ordinari obblighi alimentari. Posto allora che un qualche atto ‘formale’ – sia esso una sentenza o un accordo negoziale – è comunque necessario (anche per determinarne la misura), non si vede perché, in presenza di una intesa tra le parti, occorrerebbe percorrere la via defatigante dell’azione in giudizio. Quanto alle sopravvenienze successive, se il matrimonio o una nuova convivenza dell’alimentato faranno cessare l’assegno, per contro eventuali miglioramenti nelle condizioni economiche dell’obbligato non potranno dar luogo a una revisione, trattandosi di eventi che, stando al comune intendimento, non è possibile ricondurre a un progetto di piena comunione destinato a proiettarsi per tutta la vita.
6. Durata dell’obbligo e sua cessazione. Infine, e come più volte s’è rammentato, la legge prevede testualmente che gli alimenti «sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza», senza ulteriori precisazioni. Il compito dell’interprete è perciò arduo. Non resta che muovere dalla funzione dell’assegno che, come già s’è detto, difficilmente può essere rinvenuta nella sola esigenza di consentire «un tempo ragionevole per riprogettare la propria esistenza». Di un “tempo ragionevole” per trovare altra sistemazione è forse esempio la disposizione che, in caso di recesso dal contratto di convivenza, prevede la fissazione di un «termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione» comune (art. 1, comma 61). E se il termine, a dirla tutta, appare ben poco “ragionevole”, per certo la sua brevità attesta che detta finalità non risente della durata del rapporto, cui invece è commisurata la prestazione degli alimenti. Conviene muovere dunque dalla rilevata funzione assistenziale dell’assegno: se i criteri più sopra illustrati incidono primariamente sulla sua misura, il parametro della commisurazione alla durata del rapporto ne definisce una misura temporale tanto maggiore quanto più è durata la convivenza. E a tale parametro già fa riferimento il comma 42 nel calibrare il diritto del superstite sulla casa di comune residenza. Pertanto, a voler scansare il rischio di determinazioni arbitrarie, potrebbe ritenersi che anche il diritto agli alimenti operi per «un periodo pari alla convivenza... e comunque non oltre i cinque anni». Vero è che la disposizione sulla casa familiare prevede come periodo minimo di godimento due anni, e tuttavia se – come credo – «stabile convivenza» potrà aversi (a certe condizioni) anche per un rapporto di minore durata, difficilmente giustificabile sarebbe una solidarietà successiva alla sua fine che sia di durata superiore alla convivenza stessa.
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Di contro, la maggiore ampiezza del diritto d’abitazione per un verso trova ragione nella causa traumatica, non voluta, della cessazione del rapporto e, per altro verso, nel fatto che non è prevista altra forma di solidarietà a favore del convivente superstite. Infine, in ordine alla tutela del diritto dell’ex convivente, sono da ritenere applicabili gli ordinari rimedi processuali e cautelari a garanzia dei crediti alimentari, non invece quelli previsti per il mantenimento del coniuge in sede di separazione.
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Libertà e solidarietà nella crisi delle convivenze* Sommario : 1. Libertà e responsabilità nella famiglia di fatto. – 2. La solidarietà alla fine della convivenza. Regole giurisprudenziali e problemi irrisolti. – 3. Il diritto alimentare nella legge n. 76. – 4. Solidarietà e contratto.
Some duties of solidarity remain among unmarried partners at the end of cohabitation. Law no. 76/2016 provides a limited obligation of support. The Courts consider that it is not possible to ask for the return of the contributions to the common life and that unjustified enrichment must be returned. The article discusses about various problems the interpreter has to deal with.
1. Libertà e responsabilità nella famiglia di fatto. Libertà e solidarietà sono i poli entro cui, nel matrimonio e nelle convivenze, si articola la vita familiare. La solidarietà prevale nel corso della vita comune, la libertà ha il sopravvento quando l’intesa viene meno. Se nel matrimonio il vincolo coniugale genera obblighi di assistenza e collaborazione che sostengono il rapporto, nelle convivenze prevale la libertà, intesa come volontà di sottrarsi al vincolo matrimoniale e ai suoi effetti. Libertà matrimoniale non è solo libertà di contrarre
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Relazione svolta al Convegno su «La solidarietà tra familiari in Europa», Grosseto, 20 aprile 2017, organizzato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia in collaborazione con EFL (European Association for Family and Succession Law).
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Gilda Ferrando
matrimonio, è anche libertà di non contrarlo1. Ciò non toglie che anche le convivenze, le famiglie di fatto per usare il linguaggio fino a ieri fatto proprio dalle supreme magistrature, costituiscano formazioni sociali ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, luoghi in cui si esprimono diritti fondamentali della persona umana e si esercita la solidarietà familiare. Anche nelle convivenze di fatto si realizza una vita familiare meritevole di rispetto e protezione. La giurisprudenza delle supreme magistrature interne ed europee è incline a considerare le famiglie di fatto come luoghi in cui si esprime la personalità individuale, si esercitano diritti fondamentali, e si adempiono doveri di solidarietà, si realizza la vita familiare. La Corte europea di Strasburgo ascrive alla tutela della “vita familiare” anche le relazioni che si dispiegano nell’ambito delle convivenze non coniugali2. La Corte costituzionale3, dal canto suo, riconosce ai conviventi «il diritto di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone [...] il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», riconoscimento che «necessariamente postula una disciplina di carattere generale … finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia». La piena tutela dei diritti della persona, infatti, richiede il riconoscimento dei vincoli affettivi, anche non formalizzati, ma soltanto “di fatto”4. Anche la Corte di cassazione in diverse occasioni ha dato rilevanza alla famiglia di fatto come luogo in cui le persone realizzano la propria personalità e si sostengono reciprocamente5. A sua volta, il legislatore, pur in assenza di una legge di carattere generale, in molte occasioni ha tenuto conto delle situazioni di convivenza, consapevole che in esse si realizza una significativa esperienza di vita, e si svolgono diritti fondamentali della persona tutelati dall’art. 2 Cost. È per questo che in sede di disciplina dei congedi parentali (l. n. 53/2000, d.lgs. 151/2001), di amministrazione di sostegno (l. n. 6/2004), di donazione di organi (l. n. 91/1999), di violenza in ambito domestico (l. n. 154/2001, artt. 342 bis e 342 ter, c.c.), di procreazione medicalmente assistita (l. n. 40/2004), di assicurazione RCA [v. art. 129, 2 co., lett. b), l. 209/2005, codice delle assicurazioni], di edilizia residenziale pubblica (l. n. 179/1992); di interventi a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata (l. n. 302/1990), delle vittime dell’usura (l. n. 44/1999), o di disastri ferroviari (Viareggio, l. n. 106/2010; Val Venosta l. n. 135/2011), di provvedimenti a tutela dei collaboratori di giustizia (l. n. 157/2010), il legislatore considera la condizione del convivente parimenti a quella del coniuge. Convivenze e matrimonio appaiono come fenomeni sempre meno antitetici, come real-
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Corte cost. 13 maggio 1998, n.166, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, 683, con nota di G. Ferrando. Corte EDU, Shalk and Kopf c. Austria 24 giugno 2010. V. anche Corte EDU, G.C., Vallianatos c. Grecia, 7 novembre 2013. Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. dir, 2010, p. 653 ss., con nota di Gattuso. Corte cost. 23 settembre 2016, n. 213, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, c. 3, l. n.104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati ad usufruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza a persona con handicap grave in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado. Ad esempio, v. Cass. 3 aprile 2015, n. 6855, in Fam. dir. 2015, 553, con nota di G. Ferrando, a proposito degli effetti della convivenza sull’assegno divorzile.
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tà familiari diverse ma entrambe meritevoli di tutela in quanto luoghi in cui si esercitano diritti fondamentali e si esprime la solidarietà reciproca. In questo contesto si colloca la legge n. 76 del 2016. Il comma 36 dell’art. 1, nel considerare conviventi di fatto due persone “unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”, sottolinea la rilevanza dei vincoli di affetto e di solidarietà – analoghi a quelli intercorrenti tra coniugi – come elementi necessari ai fini della qualificazione del rapporto in termini di “convivenza di fatto”, elementi che, nello stesso tempo distinguono la “convivenza di fatto” da altre forme di convivenza diversamente caratterizzate.
2. La solidarietà alla fine della convivenza. Regole giurisprudenziali e problemi irrisolti.
Libertà e solidarietà, notavamo, sono i poli entro cui nel matrimonio e nelle convivenze si articola la vita familiare. La libertà prevale nel momento della crisi. Anche nel matrimonio le recenti riforme accentuano l’autonomia dei coniugi in questa fase. Negoziazione assistita da avvocati e accordo di separazione e divorzio raggiunti direttamente innanzi al Sindaco nella sua veste di ufficiale di Stato civile attenuano il controllo pubblico sulla crisi coniugale. È peraltro vero che nel matrimonio non basta la volontà dei coniugi. La modifica dello status richiede pur sempre una fase di controllo, anche se non necessariamente di tipo giudiziale. Nella convivenza, invece, il venir meno dell’affectio, dell’adesione al comune progetto di vita porta, senza altre mediazioni, alla rottura della vita comune, alla fine della convivenza. Cosa resta della solidarietà? Nel matrimonio la legge garantisce la solidarietà post coniugale con tutta quella serie di misure che oggi ci sono state illustrate dai relatori che mi hanno preceduta. E nella convivenza? La legge n. 76 /2016 introduce una forma di tutela minimale delle convivenze di fatto, nel corso della vita comune ed alla cessazione del rapporto, che si aggiunge a quella già prefigurata dalla legislazione speciale e dagli orientamenti della giurisprudenza. Ed è di questo insieme di regole di fonte legislativa e giurisprudenziale che occorre dar conto se vogliamo provare a fare una rassegna delle forme di tutela della solidarietà tra conviventi alla fine della vita comune. Bisogna intanto prendere in considerazione il caso in cui dall’unione siano nati dei figli. La riforma della filiazione, come è noto, assicura ai figli un unico status e piena tutela a prescindere dal fatto che i genitori siano oppure no sposati, che convivano oppure no. Nel caso di rottura della vita comune, gli artt. 337 bis e seguenti c. c. prevedono regole specifiche sulla responsabilità genitoriale tese garantire lo svolgimento dei rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli nel mutato contesto. Il genitore con cui il figlio vive in modo prevalente ha diritto di ricevere dall’altro, iure proprio, un assegno come contributo al mantenimento del figlio, e se corrisponde all’interesse del figlio, ha diritto all’assegnazione della casa
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familiare, assegnazione che, in quanto trascritta, è opponibile ai terzi. Una misura, questa, di cui beneficia indirettamente anche il genitore c.d. “prevalente”. Non è invece previsto, come accade in Germania, che la madre affidataria di un bambino piccolo possa chiedere per sé un assegno di mantenimento fino al compimento dei tre anni di età del bambino. Per quanto riguarda i rapporti di coppia, la legge n. 76/2016 assicura specifiche tutele. La principale è costituita dall’assegno alimentare previsto dal comma 65. Tuttavia, già prima dell’entrata in vigore della legge, la giurisprudenza aveva elaborato un insieme di regole a protezione del convivente. Il problema che i giudici hanno dovuto affrontare è stato quello di qualificare i rapporti patrimoniali intercorsi durante la vita comune e valutare, secondo le regole del diritto delle obbligazioni e dei contratti, il fondamento delle pretese restitutorie (o risarcitorie) avanzate. Bisogna infatti considerare, da un lato, che è abitudine molto diffusa, nelle coppie non sposate, come in quelle sposate, quella di mettere in comune risorse economiche, redditi, beni di uso comune (abitazione, auto, seconda casa, e così via), senza tener conto dell’effettiva titolarità dei beni, dando vita a quella che è stata definita “una confusione dei patrimoni”, che si sovrappone alle effettive situazioni di appartenenza e che non è facile da dipanare quando l’armonia viene meno6. Dall’altro, che è nel momento in cui si giunge alla rottura vita comune che tra i conviventi (non diversamente da quanto accade tra coniugi7) vengono avanzate pretese restitutorie di contributi, beni, risorse di varia natura apportati per il soddisfacimento di bisogni comuni o di esigenze personali dei partner e di cui si assume, ora che sono venuti meno l’intesa sentimentale ed il comune progetto di vita, la mancanza di una adeguata giustificazione. È nel momento della rottura che con maggiore forza si pongono i problemi e si avanzano pretese8. Nel matrimonio l’esistenza del vincolo e dell’obbligo di contribuzione che da esso deriva giustificano gli apporti che a quest’area possono essere ricondotti e rende vane eventuali pretese restitutorie9. Nella convivenza, invece, gli stessi apporti alla vita comune, in quanto non sorretti da un esplicito obbligo di natura legale, sono frequentemente oggetto di domande restitutorie. Se guardiamo a questi problemi in prospettiva storica, possiamo notare che, nell’Italia degli anni ’50 del secolo scorso, in un contesto di ferma riprovazione morale e sociale delle convivenze fuori del matrimonio in cui alla donna si guardava come “sedotta”, “concubina”, “mantenuta”, gli stessi apporti dati alla vita comune venivano intesi come oggetto di uno
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R. Sacco, Se tra coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, 83 ss, A. Fusaro, La restituzione degli arricchimenti tra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 1ss. L. Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, Riv. dir. priv. 2000, 475 ss., E.v.L. Balestra, Convivenza e situazioni di fatto, I rapporti patrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio a cura di G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello, 2° ed., Milano, 2011, 1126. Il che non esclude che pretese restitutorie vengano avanzate a diverso titolo: v. G. Ferrando, Le attribuzioni patrimoniali e le liberalità tra familiari e conviventi. Regime, validità e obblighi restitutori, in Corr. giur., 2006, 311 ss.
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scambio contrario ai buoni costumi. Lo spirito di liberalità costituiva l’unica giustificazione idonea a sorreggere l’intento dell’uomo di beneficiare la sua compagna, sempre che l’atto liberale fosse stato rivestito delle forme solenni prescritte per la donazione. La speciale remunerazione con cui talvolta si riteneva di poter colorare le ragioni dell’attribuzione non privava l’atto della sua natura liberale dato che anche la donazione remuneratoria è donazione da compiersi nelle forme prescritte, mancando le quali veniva accolta la pretesa restitutoria10. Negli anni sessanta, con l’avvio del processo di riforma, anche lo sguardo del diritto sulle convivenze iniziava a cambiare. Le pretese restitutorie fino ad allora accolte dalla giurisprudenza che guardava alle attribuzioni rese dal convivente come donazioni prive della forma prescritta, vengono ora respinte in quanto filtrate nella diversa prospettiva dell’adempimento di obbligazione naturale11. L’assunto di partenza è che sussista un obbligo se non giuridico, quanto meno di natura morale e sociale di provvedere ai bisogni comuni o a quelli personali del partner. L’adempimento di questo dovere, sia che avvenga con la messa a disposizione di beni, sia mediante l’erogazione di somme di denaro, in quanto adempimento di un obbligo di tale natura, non può essere giuridicamente preteso ma, se spontaneamente effettuato, non è ripetibile. Se in un primo tempo il fondamento dell’obbligazione naturale veniva ravvisato nell’obbligo morale di risarcire la compagna del discredito e della perdita di occasioni matrimoniali derivanti dalla convivenza more uxorio12, in seguito, in una prospettiva di reciprocità, ne è stata sottolineata la valenza solidaristica tale da giustificare, nell’ottica del dovere morale, non solo le attribuzioni effettuate dall’uomo a favore della compagna ma anche quelle effettuate dalla donna per soddisfare le esigenze del proprio compagno13. Il principale problema che suscita tale inquadramento è quello di individuare contenuto e limiti dell’obbligazione naturale, problema che la giurisprudenza affronta indicando nella proporzionalità e adeguatezza dell’attribuzione rispetto alle condizioni economiche e sociali del disponente la misura entro la quale la prestazione effettuata corrisponde all’obbligo di natura morale e sociale. “Il discrimine – osserva ancora di recente la Cassazione tra l’adempimento dei doveri sociali e morali, … e l’atto di liberalità va individuato, oltre che nella spontaneità, soprattutto nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare”14. A questo orientamento ancora di recente la Cassazione ha inteso “dare continuità”15,
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Nel perimetro della donazione remuneratoria andavano comprese, per usare le parole della S.C., anche quelle che “abbiano per movente la riparazione di un torto” comprese quelle “fatte dal seduttore alla sedotta, divenuta poi sua concubina”: Cass.7 ottobre 1954, n. 3389, in Giur. it., 1955, I, 1, 872. 11 Al riguardo, cfr. L. Balestra, Le obbligazioni naturali, in Trattato Cicu Messineo diretto da Schlesinger, Milano, 2004; L. Nivarra, voce Obbligazioni naturali, in Dig. IV disc. Priv., XII, Torino, 1995, 366 ss. 12 Cass., 17 gennaio 1958, n.84, in Giust. civ., 1958, I, 882 13 Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it. 1969, I, 1512, Cass. 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, 230. 14 Cass., 22 gennaio 2014, n. 1277, in Fam. dir., 2014, 888, con nota di Bortolu; Cass. 13 marzo 2003, n. 3713. 15 Cass., 21 gennaio 2014, n. 1277, cit.
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ribadendo che “eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese … come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo che non può non implicare, pur senza la cogenza giuridica di cui all’art. 143 II comma, c.c., forme di collaborazione e, per quanto qui maggiormente interessa, di assistenza morale e materiale”. La giurisprudenza ha costantemente seguito l’indirizzo descritto, e tutt’ora respinge le pretese restitutorie in quanto dirette a recuperare attribuzioni che costituiscono adempimento di doveri morali e sociali, sempre che sussista il rapporto di proporzionalità con le condizioni economiche e sociali del disponente: un indirizzo che è rimasto sostanzialmente invariato nel trascorrere del tempo, e nella mutata considerazione delle unioni non coniugali da parte della società e dello stesso diritto. Per quanto non espressamente previsto dalla legge, il requisito della “proporzionalità” – o meglio adeguatezza – diviene un presupposto, benché implicito, dell’obbligazione naturale, non essendovi alcun dubbio sul fatto che il contenuto del dovere morale valga altresì a determinare la misura della prestazione volta ad adempierlo. In altri termini, è lo stesso dovere morale, seppur con carattere di relatività, che “contiene in sé un implicito criterio quantitativo e conseguentemente determina la misura della prestazione”16. Il requisito della proporzionalità consente di gestire matrimonio e convivenza secondo canoni omogenei, dato che l’obbligo di contribuzione tra coniugi deve essere adempiuto in proporzione alle loro risorse economiche o alle possibilità di lavoro professionale o casalingo. Quando sia escluso l’intento liberale, il requisito della proporzionalità/adeguatezza consente di imputare all’area degli arricchimenti ingiustificati quelle utilità apportate al patrimonio del convivente che superino tali limiti. La giurisprudenza illustra una casistica varia che va dalla prestazione di attività di lavoro nella famiglia e nell’impresa dell’altro, alla realizzazione sul suolo della compagna di costruzioni diverse dalla casa di abitazione, alla messa a disposizione di redditi personali impiegati dall’altro per l’acquisto di immobili a sé intestati in via esclusiva dove l’apporto è stato ritenuto esorbitante rispetto al limite di proporzionalità adeguatezza, generando a favore dell’uno un l’arricchimento con correlativo impoverimento dell’altro tale da giustificare, in presenza degli altri requisiti richiesti, l’applicazione del rimedio residuale dell’art. 204117. Tali sentenze meritano una sottolineatura in quanto esprimono il superamento delle obiezioni in passato rivolte all’applicazione del rimedio dell’arricchimento ingiustificato alle prestazioni rese tra conviventi nell’assunto che fosse ravvisabile una giusta causa dell’arricchimento nella volontà di colui che spontaneamente presta. È invece vero che vi sono attribuzioni le quali, se possono essere giustificate finché dura la convivenza, perdono giustificazione quando la convivenza viene meno e si determina un definitivo
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L. Balestra, Convivenza e situazioni di fatto, I rapporti patrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, cit., 1132. Cfr. Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, in Giur. it., 2004, 530, con nota di V. Di Gregorio; Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, in Corr. giur., 2010, 72, con nota di Ruvolo; Cass., 22 marzo 2007, n. 6976, in De Jure).
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consolidamento del vantaggio economico a favore di uno, con impoverimento dell’altro18. Il requisito della proporzionalità adeguatezza consente inoltre di segnare il confine tra adempimento di obbligazioni naturali e attribuzioni liberali. Superato il limite della proporzionalità/adeguatezza, si apre infatti la questione di identificare l’area entro la quale l’attribuzione liberale debba essere collocata: quella delle donazioni vere proprie, delle donazioni manuali o delle liberalità d’uso. È un problema che accomuna convivenza e matrimonio, dato che, anche nel matrimonio, è problematica, in assenza di forma solenne, la giustificazione di quelle elargizioni che, almeno prima facie, sembrano da collocare nell’area delle liberalità19. La giurisprudenza, anche recente20, è incline a inscrivere le attribuzioni di beni, anche di rilevante valore (gioielli, opere d’arte), nell’area delle liberalità d’uso ex art. 770, c.2 che non richiedono la forma solenne della donazione purché soddisfino i requisiti della conformità agli usi e dell’adeguatezza alle condizioni economico/sociali del donante. Il rilevante valore economico del bene non è ostativo alla configurabilità di una liberalità d’uso alla stregua dei rapporti esistenti tra le parti e della loro posizione sociale. Solo quando il dono determini un “apprezzabile depauperamento del donante” si trascorre dalla liberalità d’uso alla donazione vera e propria. In dottrina è stato criticato, con argomenti non irrilevanti, l’uso giurisprudenziale del requisito di proporzionalità come elemento distintivo dell’obbligazione naturale21. Ci si può infatti chiedere se il limite e il contenuto dell’obbligazione naturale vada individuato sulla base del requisito di proporzionalità e adeguatezza (rispetto al patrimonio ed alle condizioni economiche e sociali del convivente) o se invece non si debba individuare in modo autonomo il contenuto dell’obbligo morale e sociale. L’obbligo morale e sociale riguarda solo il contributo alla vita comune o ha una portata più ampia, capace di giustificare attribuzioni che esorbitano dall’obbligo di contribuzione ma che hanno a loro volta un fondamento di natura morale e sociale? Si può, ad esempio, pensare all’obbligo morale di compensare il lavoro invisibile svolto nella famiglia e nell’educazione dei figli, di ripagare il contributo dato alla formazione del risparmio e del patrimonio familiare, di risarcire della perdita di opportunità di lavoro e di affermazione personale, di garantire un’abitazione alla fine della vita comune, oppure
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Cfr. F.D. Busnelli, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in La famiglia di fatto, atti del Convegno di Pontremoli, Pontremoli, 1975, 138 ss.; F.D. Busnelli e M. Santilli, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da G. Cian, G. Oppo e A. Trabucchi,, VI, Padova, 1993,757 ss.; G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 127 ss. 19 Questioni alle quali vengono date risposte non univoche: ad esempio, cfr.. Trib. Palermo 3 settembre 1999, i n Fam. dir., 2000, 284 con nota di G. Ferrando, Famiglia di fatto: gioielli e mobili antichi vanno restituiti alla fine della convivenza?, cui rinvio per ulteriori approfondimento. E v. Cass. 28 novembre 1998, n. 11894, in Corr. giur. 1999, 54 con nota di V. Carbone, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali. La cassazione “ripiomba” nel medioevo. 20 Cass., 19 settembre 2016, n. 18280 21 M. Venuti, I rapporti patrimoniali tra i conviventi, in Romeo (a cura di), Le relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, 263 ss., specie 318 ss.
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di provvedere ai bisogni della vita della compagna dopo la separazione o dopo la propria morte, mediante attribuzioni fatte in vita ma che costituiscono una sorta di “investimento” per il futuro22. Si badi bene che questa esigenza si prospetta non solo nella convivenza, ma anche nel matrimonio. Proprio a proposito delle “attribuzioni” intercorse tra coniugi vi sono pagine molto illuminanti di Giorgio Oppo nelle quali il grande maestro si chiedeva se davvero tali attribuzioni debbano essere ascritte all’area delle liberalità, nulle in assenza di forma solenne. La comunione legale, si sa, risponde ad una funzione comunitaria, partecipativa, intende rendere partecipi entrambi i coniugi degli acquisti realizzati nel corso della vita comune, indipendentemente dal fatto che siano stati compiuti con risorse comuni o personali. La comunione, tuttavia, è derogabile. Derogabilità della comunione non vuol dire rinuncia a tutelare l’eguaglianza tra coniugi. Significa piuttosto prendere atto del fatto che il regime legale non è l’unico mezzo per realizzarla. Le coppie che scelgono la separazione dei beni non intendono, il più delle volte, rifiutare lo “spirito” comunitario ed egualitario della riforma. La legge, tuttavia, non offre molte alternative: a chi lascia la comunione non mette a disposizione strumenti per realizzare altrimenti le finalità che questa intende perseguire. Giorgio Oppo ha denunciato più volte questa incoerenza, il fatto che, ammessa in nome dell’autonomia, la possibilità di deroga al regime legale, ciò abbia come conseguenza la rinunzia alle finalità perseguite con tale opzione legislativa. La critica non investe la derogabilità in sé del regime legale, ma il fatto che “esso può essere disvoluto senza residui né alternative che salvino, in qualche modo e misura, i valori che la legge sembrava aver privilegiato”23. Nella prassi è molto frequente che lo stesso obiettivo venga perseguito mediante atti traslativi, intestazioni, in comune o in via esclusiva, di beni immobili acquistati con risorse provenienti dal coniuge percettore del reddito. Si tratta di atti che spesso sono animati da quello stesso intento, sotteso al regime legale, di valorizzare l’apporto dato alla vita comune. “Quella collaborazione”, si chiedeva Oppo, “che sarebbe, nella scelta legislativa, titolo sufficiente ad una attribuzione patrimoniale ha ancora un rilievo giuridico o lo perde del tutto fuori del regime della comunione?” Può valere ai fini della “qualifica e disciplina dell’attribuzione, non corrispettiva e non dovuta” che un coniuge compie a vantaggio dell’altro? Si pone, in tutta la sua evidenza, il problema della giustificazione causale di tali attribuzioni. Osserva Giorgio Oppo, a proposito delle attribuzioni tra coniugi in regime di separazione dei beni: “alla disapplicazione della scelta legislativa residua un titolo morale e sociale, e dunque un’obbligazione naturale ai sensi dell’art. 2034, anche se i modi o la misura dell’adempimento di tale obbligazione sono rimessi alla ‘spontanea’ prestazione dell’obbligato”. Il coniuge in regime di separazione al quale non è attribuito un titolo
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Al riguardo, v. V. Barba, Adempimento e solidarietà nella successione del convivente, in Rass. dir. civ., 2015, 1 ss. G. Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, 19 ss., 21; Id., La prestazione in adempimento di un dovere non giuridico (cinquant’anni dopo), in Riv. dir .civ., 1997, I, 515 ss.
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legale per pretendere la partecipazione al patrimonio alla cui formazione ha contribuito, anche se non possa vantare un titolo di natura convenzionale che gli garantisca una qualche forma di partecipazione agli acquisti, può comunque opporsi alle pretese restitutorie provenienti dall’altro coniuge o da terzi. L’atto traslativo non è donazione di cui si possa assumere la nullità per difetto di forma. Si può sostenere che “il coniuge il quale, in regime di separazione effettua una attribuzione che si risolve ... in beneficio dell’altro coniuge, sia mosso dalla stessa ispirazione che ha indotto il legislatore a rendere “legale” il regime di comunione”: il che è sufficiente per ricondurre l’attribuzione all’adempimento di un dovere morale e sociale24. L’obbligazione naturale consente in tal modo di mettere fuori gioco il formalismo delle donazioni, che alla dottrina pare ormai anacronistico25. Queste considerazioni possono valere anche per quel che riguarda le attribuzioni tra conviventi. Se si riconosce all’obbligazione naturale questo contenuto più ampio, tutto il discorso sulle “liberalità”, anche tra conviventi, dovrebbe essere rivisto.
3. Il diritto alimentare nella legge n. 76. Alla vigilia della legge n. 76 la giurisprudenza ha elaborato un complesso di regole la cui funzione è quella di “stabilizzare” le attribuzioni patrimoniali compiute durante la vita comune e di riconoscere un certo indennizzo per gli arricchimenti che uno dei conviventi ha apportato al patrimonio dell’altro e che perdono di giustificazione una volta che l’unione viene meno. A queste forme di tutela ormai consolidate la legge n. 76 (art. 1, c. 65) aggiunge il riconoscimento di diritti alimentari. In caso di cessazione della convivenza il giudice può stabilire il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti “qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”. L’obbligo alimentare è quantificato secondo la misura indicata dall’art. 438 c.c. e spetta per un tempo determinato che deve coincidere con un “periodo proporzionale alla durata della convivenza”. Infine, per quanto concerne l’ordine degli obbligati ai sensi dell’art. 433 c.c., l’obbligo alimentare del convivente precede quello dei fratelli e sorelle, ma viene dopo quello dei figli e dei genitori. In questo modo viene istituita una forma di protezione della parte economicamente debole successivamente alla rottura della convivenza. Si intende rendere operanti i doveri di solidarietà tra conviventi proiettandoli verso il futuro. In termini molto generali la funzione dell’obbligo alimentare temporaneo dovrebbe essere quella di sostenere l’ex compagna in
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G. Oppo, La prestazione in adempimento, cit., 516 e 518 A. Palazzo, Atti gratuiti e donazioni, in Trattato Sacco, Torino, 2000, p. 120 ss., che parla di “relitto storico” (125).
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modo che possa rifarsi una vita. La disciplina positiva, tuttavia, è piuttosto opaca. Venuto meno – opportunamente, secondo alcuni26 – l’obbligo di mantenimento originariamente previsto dal Disegno di legge Cirinnà, il diritto alimentare, limitato nel tempo, previsto dal comma 65 dell’art. 1 presenta aspetti problematici di non poco rilievo27. Alcune questioni riguardano in termini generali l’impianto della legge con inevitabili ricadute anche sull’obbligo alimentare. Bisogna intanto tener conto del fatto che la legge n. 76 definisce la convivenza di fatto sulla base di requisiti giuridici, analoghi a quelli richiesti per il matrimonio e le unioni civili. Essa si applica alle convivenze (c. 36) che intercorrono tra persone maggiorenni, “unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Maggiore età, assenza di rapporti di parentela, libertà di stato sono i requisiti che i conviventi debbono possedere ai fini dell’applicazione delle nuove disposizioni. Il comma 37 aggiunge un ulteriore requisito: la registrazione28. Ci si chiede quindi se gli alimenti spettino solo in caso di rottura di una convivenza che abbia le caratteristiche prescritte dal comma 36 o anche, per fare un esempio, nel caso di rottura della convivenza instaurata da chi è separato e non possiede (ancora) lo stato libero? Spettano soltanto in caso di rottura di “convivenze registrate” (c. 37)? Se da un lato il possesso dei requisiti previsti dal c. 36 costituisce condizione per l’applicazione delle disposizioni della l. n. 76, non altrettanto può dirsi per la registrazione che non rappresenta elemento costitutivo, ma soltanto probatorio29. Solo il contenuto c.d. “opzionale” della legge (principalmente la disciplina del contratto tipico di convivenza) si applica esclusivamente alle convivenze registrate. Il contenuto c.d. “di tutela” è invece espressione di regole e principi inderogabili che attuano valori costituzionali di rispetto dei diritti delle persone e di solidarietà e si applica a prescindere dalla registrazione30. Va poi tenuto conto che il comma 65 può trovare applicazione solo riguardo alle convivenze cessate dopo il 5 giugno 2016, data dell’entrata in vigore della legge31. Per quanto riguarda specificamente la disciplina contenuta nel comma 65 dell’art. 1, Massimo Paradiso ne ha già illustrato i punti salienti e gli snodi problematici. Mi limito a riprendere alcune questioni di particolare rilievo. La legge inquadra l’obbligo del convivente nella disciplina generale delle obbligazioni alimentari delineata dal codice civile. In realtà
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L. Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. dir., 2016, 931 ss. Come bene ci ha illustrato la relazione di Massimo Paradiso, in questo fascicolo. 28 “Ferma restando la sussistenza dei presupposto di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b), comma 1, dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”. 29 V. Trib. Milano, 31 maggio 2016, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1473, con nota di R. Siclari, Dichiarazione anagrafica di convivenza e accesso del concepito all’accertamento preventivo della paternità. E v. la Nota del Ministero dell’Interno 6 febbraio 2017, n. 231 la quale, richiamando il DM. N. 7 del 6 giugno 2016, chiarisce che “il citato comma 37 – nel fare salva la sussistenza dei presupposti della convivenza di fatto, indicati nel comma 36 – finalizza espressamente gli istituti propri dell’ordinamento anagrafico all’accertamento della stabile convivenza e non già alla costituzione della convivenza di fatto”. 30 S. Patti, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in Foro it., 2017, I, 301 ss.. 31 Trib. Milano, 23 gennaio 2017. 27
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la situazione del convivente presenta maggiori analogie con quella del coniuge separato. Nella separazione dei coniugi, tuttavia, il diritto alimentare è un minus rispetto al mantenimento e la legge lo prevede in funzione sanzionatoria, ove vi sia stata la pronuncia di addebito. Nel caso di cessazione della convivenza di fatto, invece, gli alimenti sono l’unica forma in cui si manifesta la solidarietà nei confronti dell’ex compagno. A parte questo, la similitudine deriva da fatto che lo stato di bisogno è determinato dalla cessazione della vita comune e quindi dall’esaurirsi di quel progetto che aveva impresso una particolare direzione al percorso esistenziale (dei coniugi e) dei conviventi. Nella disciplina generale del codice civile, invece, non ha alcun rilievo la circostanza da cui lo stato di bisogno deriva. Non è infrequente che all’interno della coppia vengano ripartiti i compiti lavorativi e di cura e che uno dei due accetti di sacrificare – quanto meno in modo parziale o temporaneo – o le proprie aspettative di affermazione professionale, cosicché alla fine della vita comune occorre un aiuto per riorganizzare il proprio progetto di vita. Da questo punto di vista, può apparire singolare che, nell’ordine degli obbligati, il convivente segua i figli ed i genitori, dato che lo stato di bisogno ha la sua origine proprio nella fine della vita comune. Il fatto, poi, di aver subordinato l’obbligo del convivente all’assenza (o incapienza) di figli e genitori, favorirà probabilmente la scarsa applicazione della norma dato che, se la coppia è relativamente giovane, è facile che ci siano genitori in grado di far fronte alle difficoltà della figlia, se la coppia è avanti negli anni, potrebbero esserci figli adulti capaci di provvedere alla loro madre. Per quanto riguarda, poi, la quantificazione dell’assegno, la scelta del legislatore è stata quella di garantire una tutela economica “coincidente con quella alimentare e sostanzialmente corrispondente al livello minimo di solidarietà post coniugale assicurata al coniuge separato con addebito”. Non solo non si tiene conto dei contributi dati alla vita comune, ma ci si attesta sul livello minimo di sostegno32. L’assegno a favore del convivente si caratterizza, poi, per il carattere necessariamente temporaneo: un contributo limitato nel tempo, non un sostegno permanente – e in questo si ravvisano analogie con l’assegno dovuto in seguito all’annullamento del matrimonio (art. 129 bis c.c.) –. Il riferimento alla durata della convivenza riecheggia il parametro – la durata del matrimonio – individuato dall’art. 5 l, div. per quantificare l’assegno. Ciò sembra esprimere un più corretto bilanciamento tra solidarietà e autoresponsabilità: recuperata la libertà nelle scelte personali, anche dal punto di vista patrimoniale i conviventi debbono poter riconquistare la propria autosufficienza33.
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Nel senso che l’assegno non assolve ad alcuna finalità compensativa o risarcitoria, v. E. Al Mureden, Commento all’art. 1, comma 65, l. 20 maggio 2016/76, in Codice della famiglia a cura di Sesta, Giuffré, Milano, 2017. 33 La più recente giurisprudenza valorizza l’“autoresponsabilità” dei coniugi anche in sede di attribuzione dell’assegno di divorzio che la S.C. da ultimo ritiene dovuto quando l’avente diritto non sia “autosufficiente economicamente”: v. Cass., 10 maggio 2017, n. 11704. Per la separazione, invece, essendo i coniugi separati ancora coniugi, l’assegno è dovuto quando il richiedente non sia in grado di conservare un tenore di vita analogo a quello del matrimonio: Cass., 16 maggio 2017, n. 12196.
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4. Solidarietà e contratto. Questo, in sintesi, per quel che riguarda gli alimenti legali. Naturalmente nulla impedisce ai conviventi di accordarsi diversamente, fissando, in via convenzionale, una diversa misura dell’assegno o pattuendo misure alternative all’assegno periodico, come il trasferimento di beni o la corresponsione una tantum di somme di denaro. La legge n. 76 disciplina il contratto di convivenza, Dal punto di vista formale, è richiesta, a pena di nullità la forma scritta dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da notaio o da avvocato i quali “ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, copia del contratto deve essere trasmessa, entro i 10 giorni successivi, al comune di residenza per l’iscrizione nei registri anagrafici. Ne sono indicati i requisiti soggettivi ed i contenuti. Quanto ai requisiti soggettivi, “il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso: a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza; b) in violazione del comma 36; c) da persona minore di età; d) da persona interdetta giudizialmente; e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 codice civile” ( c. 57). Quanto ai contenuti, il contratto può regolare esclusivamente i rapporti patrimoniali (c. 50) e può contenere (c. 53): “a) l’indicazione della residenza; b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile”. Si aggiunge poi che “il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione” (c. 56). Quanto alle cause di scioglimento, il contratto “si risolve per: a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti” (c. 59). Questa disciplina ha dato luogo a numerosi problemi tra l’altro per quanto riguarda i possibili contenuti. Quelli indicati dal comma 53 dell’art. 1 costituiscono contenuti minimi, cosicché ci si chiede se il contratto possa essere arricchito da altre previsioni, ad esempio, proprio clausole che prevedano attribuzioni patrimoniali o assegni in occasione della cessazione del rapporto, cosa che sembra ai più ragionevole, tenuto conto della funzione dei contratti di convivenza. Vi è poi il problema dell’ammissibilità dei contratti fra persone che convivono senza essere registrate o che non possiedono i requisiti previsti dal c. 36. Tra di loro i contratti dovrebbero essere ammissibili secondo le regole generali del libro quarto del codice civile, non secondo quelle speciali della l. n. 76, sfruttando spazi di autonomia più ampi rispetto a quelli riservati alle coppie registrate. Si affaccia l’ipotesi che la previsione di un contratto tipico di convivenza, disciplinato dalla legge e soggetto a rigorosi requisiti formali e di pubblicità, non escluda la possibilità di concludere non solo contratti tipici tra conviventi (vendita, mutuo, comodato, donazio-
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ne, ecc,) ma anche contratti atipici che regolamentino alcuni aspetti patrimoniali (esclusa la costituzione di comunione legale) della vita comune nel suo svolgimento o alla sua cessazione, contratti soggetti alla disciplina di diritto comune della validità, della forma e della pubblicità. Questi contratti potrebbero intercorrere anche tra conviventi more uxorio non registrati o privi dei requisiti previsti dal c. 36, sempre che si tratti di contratti leciti e meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c. Potrebbero essere stipulati durante la convivenza e in considerazione della sua cessazione oppure potrebbero essere conclusi proprio in occasione della crisi non diversamente da quanto accade per i patti di separazione o divorzio. Si tratterebbe di contratti aventi “causa familiare”, sintesi delle molteplici ragioni (risarcitorie, restitutorie, solutorie, compensative ecc.) che giustificano gli spostamenti patrimoniali in ambito familiare.
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La solidarietà tra genitori e figli e tra figli e genitori anziani* Sommario : 1. Premessa. – 2. La sempre più estesa solidarietà “imposta” ai genitori nei confronti dei figli. – 3. Il carattere “spontaneo” della solidarietà dei figli nei confronti dei genitori anziani o non autosufficienti.
The author develops a reflection on the protection of elderly people in our legal system; the a. specifically considers the gaps and asymmetries in the Italian legal system that, while expanding the rights of sons – even over the age of 18 – towards parents, does not require duty of care for the elderly parents who are not self-sufficient.
1. Premessa. Non vi è dubbio che la solidarietà, principio di per sé non definibile con compiutezza, sia ontologicamente connesso alla relazione familiare1; essa, infatti, connota tanto i rapporti orizzontali tra i coniugi, ed ora, a seguito della legge 20 maggio 2016, n. 76, tra le parti dell’unione civile (art. 1 c. 11)2– cosicché tra i doveri reciproci si annovera l’assistenza morale e materiale e la collaborazione nell’interesse della famiglia –, quanto i rapporti tra genitori e figli, specialmente laddove in capo ai genitori sono posti doveri di cura, di assistenza morale, oltre che di educazione, istruzione e mantenimento. La solidarietà, dunque, compenetra la relazione familiare: la famiglia si dà carico di portare ad estrinsecazione bisogni e diritti dei singoli, mediante la cura e l’assistenza re-
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Il contributo riproduce, con l’aggiunta delle sole note, la Relazione svolta al Convegno su «La solidarietà tra familiari in Europa», Grosseto, 20 aprile 2017, organizzato dall’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia in collaborazione con EFL (European Association for Family and Succession Law). S. Patti, infra. Ex multis, A. Arceri, sub art.1, comma 11, l. 76/2016, in M. Sesta (a cura di), Codice dell’unione civile e delle convivenze, Milano, 2017, in corso di pubblicazione.
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ciproca. Si è da taluno correttamente evidenziato come la soddisfazione dell’assistenza e della cura della persona trovino risposta all’interno della famiglia in quanto essa è dalla stessa Carta fondamentale considerata un consorzio del tutto peculiare, che si distingue dagli altri per la natura dei rapporti intercorrenti tra i suoi membri3, tali da renderla luogo primario e privilegiato di sviluppo della personalità dei singoli4. Proprio la peculiarità del consorzio familiare fa sì che gli specifici diritti e bisogni della persona possano trovare ivi piena e reale soddisfazione in via privilegiata, nella misura in cui la famiglia stessa se ne fa tramite e portatrice5 per condurli – con i mezzi suoi propri – ad estrinsecazione. Tra i bisogni dei quali la famiglia si dà carico in via preferenziale, anche nell’ottica del legislatore, vi è proprio quello della assistenza e della cura della persona “debole”6. Ed, anzi, come è stato osservato, il tema dell’assistenza richiama in sé la relazione familiare, che manifesta la sua qualità tipica nella “cura alla persona”; la famiglia infatti, di norma, si dà carico spontaneamente di sostenere le persone che si trovano nell’impossibilità di soddisfare in maniera autonoma i bisogni della vita quotidiana e, dunque di svolgere da sé le attività connesse alla cura della propria persona e del proprio patrimonio. Sulle ragioni di questa “naturale collocazione” dell’adempimento dei compiti di cura nel contesto delle relazioni familiari, non può non evidenziarsi come essa sia da ravvisare nella molteplicità dei bisogni di cui la persona non autonoma è portatrice: laddove infatti vi sia una situazione di mancanza di autonomia, il soddisfacimento di esigenze di tipo materiale costituisce uno degli aspetti del “sostegno”, essendo altrettanto richiesta una componente di cura di tipo
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Nella famiglia l’uomo è considerato in quanto tale, in forza della sua partecipazione alla comunità, indipendentemente dalla funzione che ivi svolge. V. in proposito F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, II ed., Milano, 2003, 14, il quale evidenzia come all’interno della famiglia esista “uno spazio di comunicazione totale, nel quale le persone [sono] incluse nella loro totalità, e non nella specializzazione funzionale che è loro imposta dall’essere-in-società”. Cfr. sul punto M. Sesta, Diritto di famiglia, II ed., 2005, 6-7; V. Tondi della Mura, Famiglia e sussidiarietà, ovvero: dei diritti (sociali) della famiglia, in Modelli familiari tra diritti e servizi, a cura di M. Gorgoni,Napoli, 2005, 340: “Proprio perché funzionali allo sviluppo del singolo nel luogo primariamente deputato allo svolgimento della sua personalità, tali diritti non possono trovare compimento all’infuori degli interessi, delle necessità ed anche delle capacità e potenzialità della singola famiglia coinvolta”. Sul punto V. M. Caferra, Famiglia e assistenza. Il diritto della famiglia nel sistema della sicurezza sociale, III ed., Bologna, 2003, 6: “I rapporti personali si distinguono da quelli di carattere patrimoniale, sia perché non sono suscettibili di valutazione economica (e quindi sono irriducibili all’unità di misura del denaro), sia perché in essi il soggetto rileva per il suo valore di uomo – tendenzialmente nella globalità della sua natura – come partecipe alla stessa comunità e non già per la funzione che svolge nella organizzazione sociale (c.d. rapporti funzionali)”. V. anche F. D’Agostino, op. cit., che dalla visuale del filosofo del diritto afferma: “Infatti, se la famiglia è riconosciuta in primo luogo come comunità di amore e di solidarietà, ci si pone in una prospettiva meta-sociologica, quella che investe il piano più autentico dei bisogni dell’uomo, il piano dei bisogni non mistificati: i bisogni che l’uomo avverte non perché indotti in lui dalla struttura sociale, ma perché appartenenti alla sua struttura di essere-uomo e sui quali egli costruisce […] la società in cui vive”. P. Rescigno, La comunità familiare come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, Quaderni del CSM, Roma, 1980, 366, ove si osserva che: “la famiglia, che entra nel campo del diritto come formazione sociale, porta con sé il problema ineliminabile dei soggetti visti nella loro debolezza, nella loro incapacità di partecipazione al commercio giuridico”. Cfr. anche V. Tondi della Mura, op. cit., 330: “In quanto “società naturale” la famiglia preesiste all’ordinamento dello Stato e gode del riconoscimento di una sfera di autonomia, per l’appunto, naturale, nel senso di intangibile e non soggetta alle eventuali ingerenze del potere pubblico. Si tratta di una sfera di libertà normativa ed attuativa, la cui ampiezza è definibile in relazione al dettato delle altre disposizioni costituzionali coinvolte, ed i cui limiti hanno origine endogena, attenendo a tutti quei casi di manifesta inadeguatezza della famiglia stessa a provvedere agli interessi dei propri componenti. Solo in questi casi, in via integrativa o suppletiva, il potere pubblico può intervenire anche nell’organizzazione interna dei rapporti familiari. La famiglia, in altri termini, “ha un suo interesse di gruppo da perseguire e che dev’essere in grado di realizzare, finchè possibile, coi suoi mezzi””.
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relazionale ed affettivo7. Ed anzi, tale componente, per certi versi, costituisce un elemento imprescindibile dell’assistenza alla persona debole, in quanto consente di interpretare l’assistenza non già come strumentale alla sopravvivenza, bensì come garanzia della piena promozione della persona non autonoma. E se si concepisce l’assistenza alla luce del naturale connubio della sua componente materiale e morale, si comprende come nella lettura del sociologo la relazione familiare manifesti la sua qualità tipica nella cura della persona, dotandosi di un “compito che identifica ed accomuna i membri delle generazioni della famiglia, tutti coinvolti nella comune responsabilità di dare e di ricevere cura”8. La famiglia appare in definitiva l’ambito più idoneo a far fronte alle esigenze complessive del soggetto debole, connotando in senso affettivo e relazionale una prestazione di tipo assistenziale che chiunque in via astratta potrebbe adempiere, seppur in modo complessivamente meno rispondente alle molteplici esigenze della persona9. Ecco, dunque, che alla luce di tutto ciò si giustifica la tendenza a preservare il ruolo primario della famiglia nell’adempimento della funzione di assistenza ai soggetti deboli: essa non si piega ad una mera logica economica di risparmio – pur essendo innegabile la maggior rispondenza ad esigenze di contenimento delle spese pubbliche in ambito socio-assistenziale la presa in carico di dette attività da parte dei privati, tra cui la famiglia, su base solidaristica –, quanto alla constatazione della miglior corrispondenza alla tutela del soggetto debole della sua presa in carico nell’ambito del consorzio familiare per la natura dei rapporti esistenti tra
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T. Vecchiato, La famiglia soggetto di politica sociale, in Servizi sociali, 1999, 4, 17; P. Duret, Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari, in E. Balboni, B. Baroni, A. Mattioni, G. Pastori, Il sistema integrato dei servizi sociali, Milano, 2007, 381: “Il pericolo di prospettare una sussidiarietà “residuale”, semplice edizione rivisitata della mera supplenza del vecchio stato liberale, con un sovraccarico di compiti alla famiglia, passivamente funzionalizzata ad obiettivi imposti dall’esterno, può essere scongiurato salvaguardando la partecipazione familiare alla definizione degli obiettivi stessi della programmazione, nel quadro di una sussidiarietà correttamente intesa come condivisione di funzioni e responsabilità pubbliche”. Cfr. anche F. Dalla Mura, La legge quadro 328/00 in attesa delle leggi regionali di recepimento, in Cittadini in crescita, 2001, 2, 35. V. sul punto anche P. Sestito, Le politiche pubbliche di supporto alle famiglie: obiettivi e criticità della situazione italiana, in Osservatorio nazionale sulla famiglia, Famiglie e politiche di welfare in Italia: interventi e pratiche, Bologna, 2005, 143, il quale mette in luce come “L’Italia appartiene alla pattuglia di sistemi di welfare spesso classificata come di tipo mediterraneo proprio per il ruolo essenziale che al suo interno svolge l’istituzione familiare. Questo ruolo è peraltro discendente non dalla presenza di un ampio ammontare di risorse specificamente destinate alla famiglia, chè queste sono al contrario alquanto limitate, ma dal ruolo di supplenza e comunque di pooling di interventi e risorse diverse che la famiglia ricopriva e, pur nell’evoluzione delle strutture familiari, tuttora ricopre”. Sul punto v. F. D’Agostino, op. cit., 92, il quale osserva come “l’uomo attraverso la struttura familiare trova se stesso nella duplice dimensione di soggetto che dà e di soggetto che riceve”. Cfr. anche V. M. Caferra, op. cit., 1. Anche la giurisprudenza ha messo in luce come “non vi è forse settore in cui la dedizione alla famiglia risulti maggiormente utile di quanto lo sia per l’assistenza e il sostegno degli handicappati” Cass. 20 gennaio 2001, n. 829, in Foro it., 2001, I, 855. Merita altresì incidentalmente richiamare la voce degli psicologi della famiglia, i quali nel tracciarne l’identità, mettono in luce come i rapporti tra i familiari siano definiti da cura e lealtà, dove con il primo termine si intende l’interesse preferenziale per l’altro, nei suoi connotati pratici e fisici e nei connotati affettivi di supporto. Al riguardo, ex multis, E. Scabini, Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e trasformazioni sociali, Torino, 1995, 91. V. Tondi della Mura, op. cit., 346: “Rientra tra i compiti della stessa famiglia, sovvenire ai bisogni di ogni componente; questi poi variano storicamente a seconda del contesto, riguardando soprattutto lo sviluppo e l’arricchimento della personalità di ciascuno. Si tratta di una legittimazione riconosciuta alla famiglia nel suo insieme, che deriva tanto dal dovere di solidarietà, che vincola comunitariamente ogni congiunto, quanto dal corrispondente diritto del singolo di provvedere all’assistenza materiale e morale degli altri membri secondo le proprie infungibili capacità”. Cfr. anche P. Donati, La famiglia come relazione sociale, Milano, 1989, 80 e V. M. Caferra, op. cit., 18.
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i suoi membri. Ed in questa prospettiva, ad avviso di chi scrive, deve essere letto altresì l’articolo 16 della legge 328 del 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, a norma del quale “il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici di disagio sia nello sviluppo della vita quotidiana”. Tale disposizione mette in luce come nel nostro ordinamento la famiglia sia considerata quale provider per l’assistenza alla persona non autonoma, ma ciò in considerazione della peculiarità del ruolo che alla famiglia è, non già attribuito, bensì riconosciuto da parte dell’ordinamento.
2. La sempre più estesa solidarietà “imposta” ai genitori nei confronti dei figli.
Se dalle osservazioni precedenti emerge come la famiglia sia il luogo naturale della cura della persona non autonoma, occorre mettere in luce l’asimmetrica valenza, sul piano giuridico, della solidarietà a cui i genitori sono tenuti nei confronti dei figli e di quella a cui, per contro, sono tenuti i figli nei confronti dei genitori, specialmente anziani e non autonomi. Tale asimmetria si rinviene fin dalla ricognizione delle norme costituzionali, laddove in maniera univoca all’art. 30 è sancito il dovere (nonché il diritto) dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. La portata applicativa di questa norma è particolarmente ampia; per limitarsi a qualche esempio, non può non richiamarsi in questa sede quell’orientamento giurisprudenziale che, sancendo la responsabilità del genitore per il solo fatto della procreazione, ha accordato il risarcimento dei danni nei confronti del figlio che non fosse stato riconosciuto alla nascita da parte del genitore e non avesse dunque goduto del relativo stato10. La responsabilità del genitore nei confronti del figlio, in questa prospettiva, viene collegata al fatto in sé della generazione, prescindendo dal formale accertamento dello stato di filiazione. Similmente, la giurisprudenza è andata riconoscendo la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di mantenimento ai sensi dell’articolo 279 c.c. anche in capo al figlio che avesse uno stato di filiazione non veridico, ma non più removibile11 (almeno prima della Riforma della filiazione del 2012-2013, che ha reso imprescrittibile per il figlio le azioni di stato volte a rimuovere uno stato di filiazione non corrispondente al dato biologico della procreazione).
10
In giurisprudenza cfr. Cass 22 novembre 2013, n. 26205, in Giur. it., 2014, 7, 1593 nota di B. Tassone; Trib. Venezia 30 giugno 2004, in Fam. e dir., 2005; App. Bologna 10 febbraio 2004, in Fam. e dir., 2006, 515; Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, Fam. e dir., 2001, 2, 159 nota di M. Dogliotti. 11 Cass., 1° aprile 2004, n. 6365, in Fam. e dir., 2005, 31; amplius M. Sesta sub art. 279, in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, III ed., Milano, 2015, 1091.
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La solidarietà tra genitori e figli e tra figli e genitori anziani
Tali indirizzi hanno trovato conferma nelle riforme legislative che nell’ultimo decennio hanno interessato la materia della filiazione; a partire dalla l. 54 dell’8 febbraio 2006, recante Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, la quale è andata rafforzando la solidarietà cui i genitori sono tenuti nei confronti dei figli introducendo il principio di bigenitorialità. In forza dell’art. 155 c.c. (ora 337 ter c.c.) il rapporto verticale tra genitori e figli rimanere immutato indipendentemente da quale sia il rapporto esistente tra i genitori, non potendo cioè essere compromessa la compartecipazione di entrambi all’esercizio dei doveri di mantenimento, di istruzione, di educazione e di cura – cui sono tenuti nel corso della fase fisiologica del loro rapporto – anche dopo la crisi della famiglia. Nondimeno lo stesso legislatore del 2006 ha recepito nell’articolo 155 quater c.c. (ora 337 septies c.c.), il dovere del genitore di mantenere il figlio che non sia economicamente autosufficiente anche oltre la maggiore età; principio che, com’è noto, era stato da tempo affermato da parte della giurisprudenza12. Alla l. 54/2006 si deve altresì l’introduzione nel nostro ordinamento, all’art. 155 (ed ora 337 ter c.c.), del dovere di “cura”13. Attingendo dalle scienze sociali e pedagogiche14, la cura può essere definita come l’assunzione di iniziative concrete nell’interesse del figlio, richiamando l’attività umana quotidiana che “comporta una disposizione morale o un insieme di orientamenti morali che sono rivolti a interpretare bisogni e modalità del loro soddisfacimento”. Infine deve essere richiamato il disposto dell’art. 155 quinquies c.c. (ora 337 speties c.c.), il quale sancisce il principio dell’integrale applicazione delle disposizioni previste in materia di affidamento condiviso per i figli minori anche ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell’ art. 3 comma 3 della l. 5 febbraio 1992, n. 104. L’interpretazione più ragionevole15 della norma – onde evitare il rischio di perpetrare lo stato di soggezione alla responsabilità genitoriale del figlio affetto da handicap non invalidanti psichicamente anche dopo il compimento della maggiore età – sembra essere nel senso della applicabilità delle sole disposizioni della legge n. 54/2006 che siano compatibili con la condizione del figlio maggiorenne handicappato e tra queste, segnatamente, l’art. 337 ter, comma 1, c.c. il quale stabilisce che il figlio abbia diritto a ricevere cura da parte dei propri genitori. L’estensione di quest’ultima disposizione – dettata
12
Il mantenimento è dovuto dai genitori anche nei confronti dei figli maggiorenni che, senza loro colpa, non siano economicamente autosufficienti (Cass. 24.7.08, n. 24018, in Fam. e dir., 2009, 188; Cass. 28.5.07, n. 12547, in Fam. e dir., 2007, 947; Cass. 6.11.06, n. 2673, in D&G del 7.11.06); il principio, da tempo pacifico in giurisprudenza, trova ora conferma nell’art. 337 sexies c.c. (prima 155 quater c.c., introdotto dalla legge 54/06 in materia di affidamento condiviso), il quale sancisce che i genitori separati – e dunque a fortiori quelli uniti in matrimonio – siano obbligati a mantenere i figli che, ancorché abbiano compiuto il diciottesimo anno di età, non siano economicamente autosufficienti. 13 È stato significativamente osservato come la “cura e la relazione di cura fra la persona che la eroga e quella che a lei si rivolge o da lei dipende, in via privilegiata quelle che si stabiliscono fra le madri e i loto figli, dovrebbero fungere da principio-guida per la riscrittura dell’intero diritto di famiglia”, P. Ronfani, La responsabilità genitoriale. Il diritto, la cultura giuridica e i saperi esperti, in R. Bosisio, P. Ronfani (a cura di), Le famiglie omogenitoriali, Roma, 2015, 28. 14 V. sul punto tra gli altri P. Ronfani, La responsabilità genitoriale. Il diritto, la cultura giuridica e i saperi esperti, in R. Bosisio, P. Ronfani (a cura di), Le famiglie omogenitoriali, cit., ove ampi riferimenti. 15 A. Arceri, L’affidamento condiviso. Nuovi diritti e nuove responsabilità nella famiglia in crisi, Milano, 2007, 185.
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con specifico riferimento all’ipotesi dello scioglimento del legame esistente tra i genitori – al figlio maggiorenne portatore di handicap consente di inferire che, se tale diritto permane anche dopo lo scioglimento del legame esistente tra i genitori, esso a maggior ragione sussiste nel corso della fase fisiologica del rapporto, cosicché, il dovere di cura normalmente incardinato nel contenuto della responsabilità genitoriale è esteso anche a vantaggio dei figli che a causa di un handicap grave non siano in grado di provvedere autonomamente alla molteplicità dei loro bisogni ed interessi. In questo la riforma dell’affidamento condiviso ha introdotto il concetto di cura “per sempre”16 del genitore nei confronti di un figlio disabile, ad ulteriore prova da un lato dell’attenzione rivolta dall’ordinamento ai soggetti deboli mediante la predisposizione di strumenti specifici a loro favore, e dall’altro del riconoscimento del ruolo svolto dalla famiglia nell’assistenza della persona handicappata. La sempre più lata estensione della solidarietà genitoriale nei confronti dei figli emerge da ultimo dalla Riforma della filiazione del 2012-2013, anzitutto laddove ha introdotto lo stato unico di filiazione. Ai sensi dell’art. 315 c.c. riformato tutti i figli godono della medesima tutela giuridica a prescindere dal rapporto esistente tra i genitori, e ciò tanto per quanto concerne il rapporto genitori-figli (ma sul punto la riforma ha apportato modifiche piuttosto marginali), quanto in riferimento ai rapporti tra il figlio e i parenti del genitore. A quest’ultimo riguardo occorre osservare come ora il figlio anche se nato fuori dal matrimonio è inserito a pieno titolo nella famiglia del genitore, con importanti risvolti sul piano non solo delle relazioni personali, ma anche dei rapporti patrimoniali, in primis successori17. È ancora opera della riforma citata l’introduzione del concetto di responsabilità genitoriale, termine che di per sé invoca, dal punto di vista sociologico, pedagogico e psicologico – prima ancora che giuridico – quelli di sollecitudine, preoccupazione, capacità di riconoscere i bisogni dell’altro e farsene carico. Incardinare la relazione genitori-figli sulla responsabilità, in definitiva, ha significato porre in evidenza i diritti dei figli – più che la prerogativa dei genitori – e, nel contempo, configurare i doveri dei genitori come funzionali al soddisfacimento dei diritti dei figli. In questa prospettiva, “la potestà si dissolve nella responsabilità dei genitori nei riguardi dei figli, essendo essi tenuti all’attuazione dei diritti enunciati nell’art. 315-bis c.c.”18. Può in sintesi affermarsi che la stessa variazione terminologica sta ad indicare l’intenzione del legislatore di valorizzare la cura, quindi quella speciale forma solidaristica cui è tenuto il genitore nei confronti dei figli, intesa come
16
M. Sesta, L’affidamento condiviso e nuove dimensioni dell’obbligo di mantenimento, in Crisi della famiglia e obblighi di mantenimento nell’Unione Europea, a cura di G. Savorani, Torino, 2008, 43, 17 M. Sesta, Stato unico di filiazione e diritto ereditario, in Riv. dir. civ., 2104, 1 ss. 18 E. Al Mureden, sub art. 315 bis c.c., in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, III ed., Milano, 2015, 1151; Id. La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in Fam. e dir., 2014, 467: “Cionondimeno la Relazione illustrativa della riforma precisa che con il termine responsabilità genitoriale si indica una “situazione giuridica complessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi e i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione che viene a sostituire il tradizionale concetto di potestà”. La “modifica terminologica”, continua la stessa Relazione, “dà risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso”; “i rapporti genitori figli”, quindi, “non devono essere più considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori””.
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diretta apprensione e soddisfacimento di tutte le esigenze che da essi promanano. Il che è altresì ribadito dalla introduzione nel novero dei doveri cui i genitori sono tenuti nei confronti dei figli, accanto a quelli di educazione, istruzione e mantenimento, di quello di assistenza morale. Nel quadro del discorso in svolgimento appare altresì significativo notare come la Riforma della filiazione abbia svincolato la responsabilità genitoriale dalla minore età del figlio, a testimonianza del carattere più ampio rispetto alla potestà19.
3. Il carattere “spontaneo” della solidarietà dei figli nei confronti dei genitori anziani o non autosufficienti.
A fronte della suesposta latitudine dei doveri di solidarietà imposti dall’ordinamento in capo al genitore, non priva di risvolti sanzionatori tutte le volte in cui il genitore si sottragga al loro adempimento20, deve per contro mettersi in rilievo come la cura e l’assistenza dei genitori anziani e/o non autosufficienti si collochi nell’alveo di una solidarietà per così dire spontanea. Un primo rilievo è che manca nella Costituzione uno specifico riferimento ai doveri cui siano tenuti figli nei confronti dei genitori, disciplinati nel codice civile con scarna disposizione all’articolo 315 bis c.c. il quale sancisce il dovere del figlio di rispettare i genitori; tale dovere, è stato osservato, non è in sé connesso alla minore età del figlio, cosicché esso persiste anche in capo al figlio maggiorenne. Nonostante il dato letterale della norma non lasci adito a dubbi circa la qualificazione del rispetto quale vero e proprio dovere, parte della dottrina esclude si tratti di obbligo giuridico in senso stretto21, ancor più a cagione della inesistenza di una sanzione in caso di inadempimento, connotandosi di contro come dovere morale, insuscettibile di essere coercito. Benché dunque la norma superi le anguste strettoie delle prestazioni di carattere patrimoniale, essa difficilmente può costituire fondamento per la individuazione di un generale obbligo di cura e assistenza dei figli nei confronti dei genitori. A completamento del quadro deve però richiamarsi la disciplina alimentare di cui agli artt.
19
E. Al Mureden, Dalla potestà alla responsabilità genitoriale, in Giur. it., 2013, 1267: “Un particolare elemento di differenziazione sostanziale che caratterizza la responsabilità genitoriale rispetto alla potestà e ne testimonia il carattere più ampio può cogliersi sotto il profilo dell’assenza di una limitazione temporale. La stessa Relazione infatti sottolinea che la responsabilità genitoriale «vincola i genitori ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino cioè al raggiungimento dell’indipendenza economica»; per questa ragione il legislatore ha eliminato ogni riferimento alla durata della responsabilità genitoriale «inserendo tale specificazione solo dove necessario”. 20 Cfr. artt. 330-333 c.c., e art. 709 ter c.p.c. 21 P. Vercellone, La potestà dei genitori, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Filiazione, a cura di G. Collura, L. Lenti, M. Mantovani, II ed., Milano, 2012, 1209; L. Ferri, Della potestà dei genitori, Artt. 315-342, in Commentario al Codice civile, a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, 1988, 24. In senso parzialmente diverso A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, II, Milano, 1984, i quali vi ravvedono un obbligo morale prima ancora che giuridico.
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433 ss. c.c.; quest’ultima disposizione, in maniera del tutto simmetrica, prevede che tanto i figli – anche adottivi, e in loro mancanza i discendenti prossimi –, quanto i genitori – e, in loro mancanza gli ascendenti prossimi – siano reciprocamente tenuti a prestare gli alimenti, al ricorrere dello stato di bisogno dell’alimentando. La condizione oggettiva di bisogno in cui deve versare l’alimentando è concetto sufficientemente elastico perché possa esservi annoverato anche chi, come l’anziano, sia in condizione di età e di salute tale da non poter provvedere da sé a procurarsi i mezzi necessari per vivere. Quanto alla misura, gli alimenti debbono essere determinati sulla scorta del bisogno dell’alimentando e delle condizioni economiche di chi è tenuto alla prestazione alimentare, e sono volti a soddisfare i bisogni primari della persona22. L’art. 443 c.c. statuisce che chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’autorità giudiziaria può, però, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione23. Gli alimenti sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno della costituzione in mora ( art. 445 c.c. ): la disposizione, dunque, mette in luce come solo a seguito della pronuncia della sentenza da parte del giudice – una volta verificata discrezionalmente la sussistenza dei presupposti oggettivi – sorgano il credito e il debito relativo24. In via incidentale, preme evidenziare come il menzionato assetto legislativo testimoni il carattere (tuttora) patrimoniocentrico del nostro sistema civilistico; esso, nondimeno, neppure appare adeguato alla sua funzione, solo che si consideri come manchi un raccordo tra gli obblighi alimentari ed il sistema pubblico di erogazione dei servizi socio-assistenziale agli indigenti, di guisa che, si lamenta, nell’inerzia dell’alimentando, manca uno strumento che consenta la rivalsa dell’ente pubblico erogante un servizio nei confronti dei parenti dell’alimentando25. La lacuna acquista connotati di allarme in un periodo di crisi delle finanze pubbliche quale l’attuale, tant’è che si sono proposte anche di recente soluzioni interpretative per il ricorso a strumenti alternativi, quali l’istituto della gestione di affari altrui26.
22
Confrontando il diritto agli alimenti con il diritto al mantenimento D. Vincenzi Amato, Gli alimenti, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, III, 4, II ed., Torino, 1997, 895, mette in luce come “Il riferimento alla diversa ampiezza dei due obblighi acquista invece maggior senso se la si intende come diversità di risultati che si vogliono realizzare: il mantenimento mira a rendere omogeneo lo standard di vita dei coniugi e dei genitori volti a soddisfare il bisogno di una persona, valutato in relazione alla sua personale condizione e nella misura in cui l’obbligato può farvi fronte. In altre parole, non è la condizione economico-sociale dell’obbligato a fornire il parametro cui rapportare il risultato da raggiungere, ma quella dell’alimentando che, ripetiamo, indica il bisogno da soddisfare”. 23 G. Provera, Alimenti, in Commentario al codice civile, a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, 1972; G. Tedeschi, Gli alimenti, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. Vassalli, Torino, 1969, 435; D. Vincenzi Amato, Gli alimenti, cit., 924. Cfr. anche M. Dogliotti, Doveri familiari e obbligazione alimentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1994, 140 ss. 24 D. Vincenzi Amato, op. cit., 924: “Il credito dunque, e il debito relativo, sorgono dalla sentenza, alla quale nonostante la sua retroattività, o forse proprio per questa, deve riconoscersi natura costitutiva. In questa prospettiva la domanda dell’alimentando non si presenta diversamente da quella di chi sia titolare di uno di quei diritti potestativi nel quale la realizzazione del risultato non segue immediatamente l’esercizio, ma richiede l’intermediazione del giudice (o l’accordo delle parti)”. 25 P. Morozzo della Rocca, Doveri di solidarietà familiare e prestazioni di pubblica assistenza, in Fam. e dir., 2013, 730 ss. 26 L. Lenti, G. Manfredi, P. Morozzo Della Rocca, L. Olivero, F. Stradini, , Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assistenza, Napoli, 2013.
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Ma, ancor più, per quanto in questa sede particolarmente rileva, la disciplina alimentare non è pienamente soddisfacente rispetto alle molteplici esigenze di assistenza di cui la persona non autonoma è portatrice, limitandosi al soddisfacimento del bisogno economico. Ed, anzi, essi si pongono come rimedio ad una situazione di indigenza, in cui cioè la mancanza di autonomia coincide con la mancanza di mezzi economici, non avendo di per sé a che fare con ulteriori diverse esigenze di cura ed assistenza. Su un piano sistematico, poi, non può che osservarsi come la dottrina abbia ben evidenziato come i doveri di assistenza, morale e materiale, e di cura, espressi dagli artt. 143 e 315 c.c. siano espressione della vita familiare, mentre gli alimenti siano un diritto che si limita a trarre la sua legittimazione dall’esistenza del legame familiare, rimanendo tuttavia estranei alla realizzazione dei fini più generali della famiglia27. Si capisce così la ragione per la quale la disciplina alimentare non implichi una condivisione di vita ed una presa in carico della cura della persona non autonoma, ma anzi ne presupponga per così dire una certa separatezza28. Di qui la sostanziale inconferenza dei doveri alimentari rispetto alla solidarietà familiare, tenuto conto del fatto che il genitore anziano e/o privo di autonomia non reclama semplicemente l’erogazione di somme di denaro, quanto piuttosto il sostegno nel compimento delle attività quotidiane; l’istanza è, in altri termini, quella di una presa in carico della sua persona, nel suo complesso, nella molteplicità delle esigenze patrimoniali e morali. In sintesi nel nostro ordinamento non è contemplato un dovere del figlio di darsi carico della cura dell’assistenza del genitore non autosufficiente, rimanendo tale forma di solidarietà estranea alla sfera giuridica, ed essendo dunque rimandata alla sfera della spontaneità. Tale conclusione, ad avviso di chi scrive, non è priva di contraddizioni, tenuto conto delle attuali tendenze demografiche del nostro paese, e in generale di quelli occidentali, caratterizzate dal fenomeno dell’invecchiamento della popolazione e della drastica diminuzione delle nascite, che inducono il sociologo a prefigurare un radicale mutamento della morfologia della popolazione nei prossimi decenni ed una conseguente ridefinizione della fisionomia della società. Le suddette tendenze spiegano il fenomeno da un lato della esternalizzazione dell’assistenza – con il ricorso a persone diverse dai familiari per soddisfare i molteplici bisogni quotidiani dell’anziano – e dall’altro lato del diffondersi di strumenti contrattuali volti, seppur in maniera non sempre soddisfacente, a supplire alla mancanza della rete familiare29. In questo contesto deve peraltro menzionarsi l’istituto dell’amministrazione di sostegno, che in ragione del suo carattere duttile, è idonea a fornire sostegno anche alla persona anziana che non sia in grado di curare da sé il proprio patrimonio e la propria
27
Vincenzi Amato, op. loc. cit. Vincenzi Amato, op. loc. cit.. 29 Sul punto M. N. Bugetti, Nuovi strumenti di tutela dei soggetti deboli tra famiglia e società, Milano, 2008. 28
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persona30. L’amministrazione di sostegno si colloca dunque nell’alveo degli strumenti volti a porre rimedio alla incoercibilità della solidarietà dei figli nei confronti dei genitori anziani, garantendo – unitamente ad un auspicabile efficienza dei servizi socio assistenziali – adeguato sostegno all’anziano bisognoso tutte le volte in cui esso non venga spontaneamente prestato da parte dei familiari. Tale asimmetria può apparire forse non priva di ragionevolezza, invocando un generale principio di non interferenza del diritto nella complessità dei rapporti che legano un figlio adulto ad un genitore anziano; essa però, ad avviso di chi scrive, perplime, tenuto conto del fatto che nel legame familiare, rectius filiale, si individua uno dei fondamenti razionali del sistema successorio, ed in particolare della successione necessaria. Cosicché mentre i figli sono annoverati tra i legittimari ai quali spetta una quota di eredità indipendentemente da una eventuale diversa volontà del de cuius, non sono loro imposti obblighi (corrispettivi) di cura ed assistenza nei suoi confronti. L’ulteriore paradosso è che mentre al figlio è consentito diseredare il genitore indegno in quanto abbia tenuto nei suoi confronti comportamenti gravi, anche sotto il profilo della trascuratezza, nessuna corrispondente facoltà è invece prevista per il genitore, che infatti in nessun caso potrà valorizzare, nell’ambito delle disposizioni successorie, l’omissione da parte del figlio dei compiti di cura, se non in forma premiale mediante l’attribuzione della quota disponibile. Ad avviso di chi scrive la disparità evidenziata, che pone in una situazione giuridica svantaggiosa i genitori anziani non autosufficienti rispetto a quella dei figli che versano nelle stesse condizioni di debolezza o di bisogno, meriterebbe di essere oggetto di rimeditazione, muovendo anzitutto dall’individuazione – se esiste – del fondamento razionale che la giustifica.
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Cosicché, all’anziano che si trovi nella impossibilità anche parziale o temporanea di attendere alle attività necessarie per la cura del proprio patrimonio o della propria persona, può essere nominato un amministratore di sostegno che lo rappresenti o lo assista per una serie di atti. Tale istituto, come è noto, grazie alla flessibilità e gradualità che lo caratterizzano, consente di approntare una tutela “su misura”, ed al contempo estesa a tutte le esigenze di protezione del beneficiario, in una prospettiva di valorizzazione delle sue abilità residue e di suo costante coinvolgimento nelle decisioni che lo riguardano (cfr. art. 410 c.c.). Il che, peraltro, consente di proteggere senza mortificare, ed anzi affermando la centralità della persona umana, il suo valore, a prescindere dalla sua capacità di intendere e di volere. Ancor più, l’amministrazione di sostegno, consentendo di fornire tutela alla persona senza limitarne la capacità di agire – nella interpretazione che si predilige –, si caratterizza come strumento di protezione particolarmente indicato a chi, come accade sovente negli anziani, non sia affetto da malattie che menomino la capacità cognitiva o volitiva, ma necessiti piuttosto di essere assistito nel compimento di attività che il mero indebolimento del fisico gli inibisce.
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Gli accordi di maternità surrogata tra autodeterminazione sulle scelte procreative, autonomia privata e best interest of the child * Sommario : 1. Premessa. – 2. La maternità surrogata: introduzione. –3. La giurisprudenza europea: le “sentenze gemelle” della CEDU sui casi Labassee e Mennesson c. Francia ed il caso Paradiso e Campanelli c. Italia. – 4. La maternità surrogata in Italia e il miglior interesse per il minore. – 5. La qualificazione civilistica degli accordi di maternità surrogata. – 6. Conclusioni.
Surrogacy is legal in some countries where a woman in exchange for money or even for free is committed to continue the pregnancy not recognizing the child. The born child is immediately delivered to the intended parents and its birth certificate is issued by the competent authority certifying that the intended parents are also the legal parents of the child. In Italy the practice is prohibited by the Law n. 40/2004 but it does not rule cases where children are however born in violation of the Law.
1. Premessa. Il 23 febbraio 2017, con la storica ordinanza della Corte di Appello di Trento, è stata riconosciuta ad una coppia omosessuale la possibilità di essere considerati padri di due gemelli nati da maternità surrogata in Canada riconoscendone, per la prima volta in Italia1,
* 1
Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. La Corte di Appello di Trento applica i principi enunciati dalla Corte di Cassazione con la sentenza 30 settembre 2016 n. 19599
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la genitorialità congiunta includendo, quindi, anche quello dei due che non aveva legami biologici con il bambino2. A distanza di oramai quasi trent’anni dal primo caso di maternità surrogata discusso in Italia nel 19893, cui seguì la nota decisione del Tribunale di Monza4, questo appena descritto è soltanto l’ultimo dei casi variegati di surrogacy, tema delicato e tanto discusso al giorno d’oggi, in cui si stanno imbattendo i giudici italiani sempre più di frequente5. Il presente lavoro si prefigge proprio di condurre una riflessione sulle posizioni che dottrina e giurisprudenza hanno e stanno assumendo in relazione a siffatte pratiche di maternità surrogata evidentemente sconosciute al nostro ordinamento per i motivi che si illustreranno nel corso dell’esposizione; in particolare si indagherà sulla natura e liceità degli accordi che stanno alla base di tali procedure, sulla conformazione e sui limiti dell’autonomia privata in simili vicende dove grande rilievo assume la portata vincolante del principio del the best interest of the child6 a cui sempre dovrebbe tendere la concreta valutazione operata dal Giudice nel caso che si ritrova, di volta in volta, ad esaminare. Il tutto, date le fasi di realizzazione delle procedure di surrogacy, verrà trattato con un approccio inevitabilmente multidisciplinare ed in prospettiva comparatistica.
2. La maternità surrogata: introduzione. Il fenomeno della maternità surrogata7 si pone all’interno della dibattuta questione della
in tema di trascrizione dell’atto di nascita straniero recante l’indicazione di due genitori dello stesso sesso; in quest’ultimo caso richiamato, però, la situazione era leggermente diversa perché riguardava due donne che avevano entrambe un legame naturale con il figlio in quanto una delle due era la madre biologica avendolo partorito e l’altra aveva un legame genetico avendo donato l’ovulo da cui era nato il bambino. Ancora, il 28 dicembre 2016, la Corte di Appello di Milano aveva trascritto i certificati di nascita di due gemelli nati tramite maternità surrogata negli Stati Uniti non riconoscendo la genitorialità congiunta della coppia omosessuale costituita da due padri e considerando madre dei bambini la donna che li aveva partoriti. 2 In http://www.rivistafamilia.it/wp-content/uploads/2017/03/App.-Trento-ordinanza-23.02.2017.pdf 3 Si tratta del caso dei coniugi Valassina i quali, il 10 giugno 1988, convenivano in giudizio, di fronte alla prima sezione civile del Tribunale di Monza, la giovane immigrata algerina Bedjaoui per l’esecuzione del contratto di maternità. Per una precisa ricostruzione dei fatti di causa e per una panoramica degli orientamenti dottrinari si vedano: Trib. Monza, 27 ottobre 1989, in Foro it., 1990, I, 298, con nota di G.Ponzanelli; in Dir. fam. e pers.., 1990, 184, con nota di M.Ventura, Sulla procreazione artificiale: una sentenza innovativa; in Giur. it., 1990, I, 2, 296, con nota di M.Palmieri, Maternità «surrogata»: la prima pronuncia italiana; in Giur. merito, 1990, 240, con nota di M.G.Maglio, Spunti in tema di procreazione artificiale; in Giust. Civ., 1990, I, 478, con nota di F.M.Cervelli, Biogenetica, fecondazione artificiale e problemi giuridici emergenti; in Nuova Giur. Civ., 1990, I, 355, con nota di A.Liaci, Contratto di sostituzione di maternità. 4 Trib. Monza, 27 ottobre 1989 in Giur. civ comm, 1990, I, 358. 5 Per una ricostruzione sistematica sul fenomeno della maternità surrogata nel nostro ordinamento giuridico si veda, tra gli altri, I.Corti, La maternità per sostituzione, Milano, 2000. 6 “best interest” secondo la formula rinvenibile nella Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con L. 176/1991 e dalla giurisprudenza della Corte EDU. 7 Già nell’antica Roma era diffusa la pratica del ventrem locare, per cui un uomo cedeva la propria moglie ad un amico, sposato con una donna non fertile, per poi riprenderla subito dopo il parto, come ben descritto da M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, 2015,Torino, 152.
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procreazione medicalmente assistita8 le cui tecniche vengono utilizzate anche per realizzare le diverse ipotesi di surrogazione materna9 cd. gestazionale10. Nello specifico, si ha maternità surrogata quando una donna, dietro corrispettivo o a titolo gratuito, mette a disposizione il proprio utero per una coppia che non può avere figli a causa della impossibilità fisica della donna della coppia stessa di portare a termine una gravidanza, e che si impegna a farsi fecondare artificialmente con il seme dell’uomo della coppia o di un donatore esterno ad essa, a portare a termine la gravidanza ed infine a consegnare ai committenti il figlio così concepito. La maternità surrogata va distinta dall’affitto dell’utero, altra pratica spesso assimilata o confusa con la prima ma che, in realtà, rappresenta una tipologia completamente diversa di portare a termine la gravidanza per conto di altri.; con l’affitto dell’utero, infatti, si fa riferimento alla pratica con cui la donna “commissionata” dalla coppia si limita a portare avanti la gravidanza con impiego di materiale genetico che risulta interamente proveniente dagli stessi committenti o eventualmente da altri donatori11. In Italia12 tutto quanto sopra descritto è vietato dalla Legge 40/2004, che disciplina la procreazione medicalmente assistita13, perché gli accordi che ne derivano sono considerati lesivi di principi fondamentali quali la dignità, la personalità e la integrità psico-fisica della donna, nonché degli interessi dei minori. Questo fermo atteggiamento di rifiuto per tali pratiche è desumibile sia a livello giurisprudenziale che normativo. In particolare, la sentenza del Tribunale di Monza del 1989 ha espressamente affermato il carattere di nullità di tali accordi ai sensi dell’art. 1418 c.c., secondo comma, dell’art. 1346 c.c. per mancanza dei requisiti della possibilità e liceità nell’oggetto del contratto inserito nella categoria dei contratti atipici e per contrarietà degli stessi con i principi contenuti negli
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Con l’espressione «procreazione medicalmente assistita» (PMA), la legge 19 febbraio 2004 n. 40, nota come «legge 40» si riferisce a quel fenomeno comunemente conosciuto con il nome di “fecondazione artificiale” e cioè come l’insieme delle tecniche mediche che consentono di dar luogo al concepimento di un esser umano senza la unione fisica di un uomo e di una donna, utilizzando procedure artificiali intracorporee in vivo o extracorporee in vitro o in provetta e con l’impiego di gameti appartenenti alla stessa coppia richiedente la tecnica (fecondazione omologa) oppure provenienti in tutto o in parte da donatori esterni (fecondazione eterologa). Cfr., inoltre, F. Santosuosso, La procreazione medicalmente assistita. Commento alla legge 19 febbraio 2004 n. 40, Milano, 2004, 75. 9 Benchè la surrogazione di maternità condivida molti tratti della inseminazione artificiale, essa ha sollevato nuovi problemi sia in ordine alla legittimità dell’operazione che allo status del bambino in C. Shalev, Nascere per contratto,, 1992, Milano, 92 10 Cfr. Sintesi dello studio della Direzione generale delle politiche interne del Parlamento Europeo – Dipartimento tematico C: Diritti dei cittadini e affari costituzionali, Il regime di maternità surrogata negli Stati membri dell’UE, 2013 in http://www.europarl.europa. eu/studies dove viene fatta una distinzione tra accordo di maternità surrogata tradizionale che non prevede necessariamente il ricorso a tecnologie riproduttive in quanto la gravidanza ha inizio mediante procedura di inseminazione con materiale genetico del padre committente o di un donatore oppure tramite rapporto sessuale con gli stessi; e l’accordo di maternità surrogata gestazionale dove la gravidanza ha inizio mediante trattamenti di fertilità ed alte tecnologie riproduttive mediche quali FIVET, ICSI e loro varianti. 11 I. Parisi, Utero surrogato: normative a confronto, in www.associazionelucacoscioni.it, 2015. Sulle ipotesi che si possono presentare dell’istituto cfr. anche G. Collura, L. Lenti, M. Mantovani, La maternità surrogata in Trattato Dir. Fam., vol. II, Milano, seconda ed., 700. 12 Altri Paesi in cui qualsiasi forma di maternità surrogata è vietata per legge sono la Bulgaria, la Germania, la Francia, Malta, la Svizzera, la Norvegia, la Svezia, l’Islanda, l’Estonia, la Moldova, la Turchia, l’Arabia Saudita, il Pakistan, la Cina, il Giappone, alcuni Stati degli USA (Arizona, Michigan, Indiana, North Dakota). 13 Fenomeno passato al vaglio già nelle proposte di legge Santosuosso del 1984 e Busnelli del 1995 avanzate per regolare la materia della procreazione medicalmente assistita.
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artt. 2, 30 e 31 della Costituzione e con quelli sanciti dall’Unione Europea nella Convenzione di Oviedo.14 Successivamente, si sono avute pronunce di apertura verso il riconoscimento della liceità di tali accordi; una per tutte è l’ordinanza del Tribunale di Roma del 200015 in cui, considerando il vuoto legislativo esistente in materia, veniva riconosciuta la atipicità del contratto intercorso tra le parti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1322 c.c., in cui la meritevolezza consisteva nel desiderio della coppia di diventare genitori16, che veniva considerata espressione del più generale diritto alla procreazione e che giustificava, quindi, il ricorso da parte della coppia a tutti i mezzi offerti dal progresso scientifico atti a soddisfare la loro aspirazione; il tutto come espressione di una piena libertà di autodeterminazione e libertà positiva dell’individuo di decidere, quindi, in merito alla dimensione della propria famiglia17. Ma tale ultimo orientamento di apertura veniva subito severamente criticato da accorta dottrina18 e stroncato a livello normativo dalla già sopra ricordata Legge 40/2004 che all’art. 12, comma 6, sancisce un espresso divieto, penalmente sanzionato, di realizzare qualsiasi forma di surrogazione di maternità confermando integralmente la ricostruzione del giudice monzese. La surrogazione di maternità, oltre ad essere assoggettata alla sanzione penale prevista dall’art. 12 della Legge 40, potrebbe essere sottoposta ad un ulteriore giudizio di responsabilità penale per il reato di alterazione di stato ai sensi dell’art. 567, comma 2 c.p., per il fatto di attribuire consapevolmente la maternità del neonato ad una determinata donna diversa da colei che lo ha partorito. Tale menzionato articolo andrebbe poi letto in stretta correlazione con l’art. 269 c.c. che al comma 3 precisa che la maternità viene imputata a favore della donna che ha partorito e di conseguenza, costituisce alterazione di stato ogni atto diretto a far risultare come madre una persona diversa da quella che ha partorito. Pertanto, la madre surrogata che adempia l’accordo e si presti a garantire la consegna del bambino e la rinuncia al riconoscimento del rapporto di filiazione, potrebbe essere sanzionata penalmente ai sensi e per gi effetti del su citato art. 567 c.p.19.
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Trib. Monza, 27 ottobre 1989, in Giur. it., 1990, 5 con nota di G. Palmieri, Maternità “surrogata”: la prima pronuncia italiana. La vicenda esaminata dal Tribunale di Roma ha ad oggetto un accordo di utero in affitto. Qui, a differenza del caso esaminato dal Tribunale di Monza, si trattava di una vicenda di utero in affitto in cui il ginecologo che aveva inizialmente proceduto alla crioconservazione degli embrioni della coppia feconda e desiderosa di avere un figlio e che, agli inizi del 1995, si era impegnato contrattualmente con la stessa ad eseguire l’impianto una volta trovata una donna disponibile a “locare” il proprio utero, rifiutava in seguito di adempiere la prestazione contrattuale affermando che si sentiva vincolato dal Codice Deontologico entrato in vigore il 25 giugno 1995 che all’art. 41 vieta espressamente l’accesso alle pratiche di maternità surrogata. La coppia, quindi, ricorreva al Tribunale di Roma chiedendo un provvedimento diretto ad autorizzare il medico ad eseguire l’impianto e ad adempiere così l’obbligazione assunta avente ad oggetto il trasferimento degli embrioni crioconservai nell’utero della donna che si era resa disponibile ad “accoglierli”. 16 I. Corti, La maternità surrogata per sostituzione,Milano, 2000, 126. 17 Tribunale di Roma, ord. 14 febbraio 2000, in Giust. Civ., 2000, 4, 1157-1163, con nota di G. Giacobbe, La giurisprudenza fonte primaria del diritto? 18 M. Sesta, La maternità surrogata tra deontologia, regole etiche e diritto giurisprudenziale, in Corr. Giur., 2000,4,483 in cui l’autore rileva che il procedimento di surrogacy, nello scindere la maternità dal parto confligge evidentemente con quanto disposto dagli artt. 269, comma 3, 239 e 248 c.c. che enunciano il principio per cui la maternità coincide con il parto il che significa che il Tribunale di Roma, nel determinare il rapporto di parentela con la madre genetica e committente il parto, abbia di fatto dato vita alla « formazione di uno status al di fuori di ogni indice previsto dalla legge». 19 Del resto è proprio la conseguenza penale prevista dalla lettera C della circolare del Ministero degli Affari Esteri dell’11 agosto 15
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Tuttavia, l’assoluto divieto posto dalla citata Legge 40/2004 e la crescente diffusione delle problematiche relative alla sterilità e alla infertilità di coppia, sta spingendo sempre più soggetti a cercare soluzioni alternative all’estero20 dove tali pratiche di surrogazione di maternità sono considerate legali ed eseguite ordinariamente21. Proprio a tal riguardo, va osservato che la Legge 40/2004, pur vietando tali pratiche non disciplina i casi in cui vi siano bambini oramai nati e voluti dalle coppie italiane22; e quindi, gli unici indirizzi a nostra disposizione che, seppur non vincolanti, potrebbero rappresentare comunque un possibile punto di partenza importante per il sistema normativo italiano, sono le regole emanate dalle Autorità competenti23 che possano in qualche modo limitare la diffusione del fenomeno in Italia ed i principi fissati dai giudici in occasione della risoluzione delle controversie in materia, che sembrano ormai sempre più ricorrenti24 e lontane, quindi, dal forte appello calato nella Carta di Parigi firmata il 2 febbraio 2016 nella sede della Assemblea Nazionale di Parigi per l’abolizione universale della maternità surrogata ritenuta una pratica ingiusta e lesiva dai molti rappresentanti del mondo politico, dell’associazionismo e della comunità scientifica europea che vi hanno preso parte denunciando «l’utilisation
2011 che formula la seguente indicazione: […] al momento di ricevere l’atto di nascita i funzionari consolari faranno presente agli interessati che il medesimo atto, prima di essere trascritto nei registri di stato civile, sarà fatto oggetto di scrupolosa attenzione relativamente ad eventuali problemi di contrarietà all’ordine pubblico per violazione dei principi dell’ordinamento italiano in materia di “procreazione medicalmente assistita”. Dovrà altresì essere evidenziato da parte del funzionario consolare che, nel caso in cui dalle indagini dovesse emergere che la donna indicata come madre non ha donato l’ovulo né ha portato avanti la gravidanza, l’ufficiale dello stato civile non potrà trascrivere gli atti di nascita nei registri di stato civile e gli interessati incorreranno nel delitto di cui all’art. 567 c.p. che comporta per gli indagati, in caso di condanna, la pena accessoria della decadnza della potestà genitoriale con evidenti conseguenze sui bambini ormai nati […]. 20 Si parla in questi casi di accordi di maternità surrogata transfrontaliera in cui la madre surrogata ed i genitori committenti sono di Paesi diversi. 21 Alcuni Paesi, come ad esempio il Canada, Danimarca, Ungheria, Irlanda ne proibiscono soltanto la forma commerciale, ammettendone quella “altruistica”gestita da agenzie specializzate che prevedono un rimborso spese per le madri surrogate oltre a tutti gli oneri dovuti alla pratica. In altri Paesi, come la California, la Georgia e l’Ucraina, invece, sono permesse entrambe le forme. 22 La Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato del 2012 nel A Preliminary Report on the issues Arising from International Surrogacy Arrangements ha documentato un incremento notevole nella pratica della surrogacy evidenziando che, a fronte degli evidenti fattori che denotano questa crescente diffusione del fenomeno, non esistono ad oggi meccanismi di rendicontazione formali perché non sempre i dati sono disponibili e soprattutto è difficile raccogliere dati accurati e significativi sulla diffusione di tale tecnica in quei Paesi, tra cui l’Italia, dove essa è vietata e penalmente sanzionata. Dunque, risulta evidentemente oggi impossibile indicare una tendenza giuridica specifica a livello UE sullo status dei genitori legali e dei minori coinvolti da tali pratiche. 23 In particolare si ricorda una circolare emanata dal Ministero degli Affari Esteri in data 11 agosto 2011 ed indirizzata a tutti i Consolati del mondo, nella quale vengono fornite le istruzioni che il funzionario consolare all’estero dovrà seguire in caso di presentazione di certificati di nascita e di richiesta di emissione di idonei documenti di viaggio per l’ingresso in Italia dei minori, avanzata da soggetti italiani e nello specifico […] in presenza di atti di nascita formalmente validi, il funzionario consolare, sebbene a conoscenza del fatto che la nascita derivi da “maternità surrogata”, deve accettare gli atti ed inoltrarli al Comune competente, dando tuttavia nel contempo opportuna informazione delle particolari circostanze della nascita al Comune e alla Procura della Repubblica. L’ufficiale di stato civile, ai sensi della normativa vigente, verificherà la sussistenza dell’ipotesi che la nascita derivi da maternità surrogata per il rifiuto motivato alla trascrizione dell’atto […]. 24 Solo a titolo esemplificativo e certamente non esaustivo. tra quelle a favore si ricordano: Appello Bari, 13 febbraio 2009, in Fam.Dir., 3/2010, 257-279; Trib. Varese, 8 ottobre 2014 in Il Caso.it, sez. Giurisprudenza, 11705; Contrarie: App. min. Salerno, decr. 25 febbraio 1992 in Nuova giur. civ. comm., 1994, 177 ss. con nota di R. Bitetti, Contratti di maternità surrogata, adozione in casi particolari ed interesse del minore; Trib. min. Taranto, 3 febbraio 1999, in Famiglia e diritto, 1999, 5, 483 con nota di E.Ravot, “Cessione” del figlio e stato di abbandono; Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 in www.siallafamiglia.it
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des ètres humains dont la valeur intrinsèque et la dignité, sont éliminées au profit d’unevaleur d’usage ou d’une valeur d’échange»25.
3. La giurisprudenza europea: le “sentenze gemelle” della CEDU sui casi Labassee e Mennesson c. Francia ed il caso Paradiso e Campanelli c. Italia.
La questione sottoposta ai Giudici di Strasburgo dai coniugi Labassee e Mennesson26 era quella di verificare se influisce sulla identità dei minori, ai sensi dell’art. 8 CEDU, il mancato riconoscimento nei registri dello stato civile francesi della filiazione ottenuta mediante tecnica di maternità surrogata e legalmente riconosciuta in alcuni Stati degli USA, nello specifico in Minnesota ed in California. Entrambe le coppie, infatti, si erano recate negli Stati Uniti per ricorrere alla tecnica di maternità surrogata con formazione di un embrione in vitro con metà del patrimonio genetico del padre e l’altra metà proveniente da una donna ovo-donatrice; l’embrione così generato veniva poi impiantato nell’utero di una terza donna che si impegnava a portare a termine la gravidanza. Le rispettive autorità statunitensi avevano riconosciuto la parentela in capo ai coniugi francesi, mentre in Francia, le autorità amministrative locali avevavo rifiutato di trascrivere l’atto di riconoscimento della filiazione dei Labassee, mentre ai Mennesson la trascrizione era stata prima concessa e poi annullata; questo sul presupposto che il codice civile francese stabilisce che è nullo per contrarietà all’ordine pubblico, qualsiasi accordo sulla procreazione o sulla gestazione per conto di altri27. Vani si sono rivelati per entrambe le coppie i ricorsi interni perché anche la Corte di Cassazione francese statuiva la contrarietà della trascrizione degli atti di nascita nel registro di stato civile tanto all’ordine pubblico internazionale francese quanto al diritto positivo francese28. Come ben sottolineato da accorta dottrina29, il quesito basilare articolato dai coniugi ricorrenti Labassee e Mennesson era non tanto quello se sia compatibile con la Convenzione EDU il divieto posto da uno Stato membro di ricorrere alla surrogazione di maternità, sulla qual cosa esiste un ampio margine di discrezionalità lasciato ai Paesi Membri che affrontano il tema in base all’ordine pubblico interno e alle diverse e svariate questioni biogiuridiche che possano emergere su una tale tematica eticamente sensibile, ma piut-
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Cfr. su www.abolition-gpa.org Corte EDU, Affaire Labassee c. France, req. n. 65941/11 e Corte EDU, Affaire Mennesson c. France, req. n. 65192/11 in Foro it., 2014, IV, 561. 27 Cfr. articoli 16-7 e 16-9 del codice civile francese come modificati dall’art. 3 della legge 94-653 del 29 luglio 1994 in G. Ferrando, Appunti sulle leggi francesi relative al rispetto del corpo umano, in Pol. Dir. N. 2/1995, 315 ss. 28 M. Di Masi, Maternità surrogata: dal contratto allo «status», in Riv crit. dir.priv.,2014, 615 ss. 29 Ibidem. 26
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tosto quello di capire se sia compatibile con i diritti garantiti dalla Convenzione stessa la decisione dello Stato francese di privare i minori nati da una maternità surrogata, praticata legittimamente all’estero, dei documenti di stato civile che attestino il loro status di figli della coppia committente. Ed a tal proposito, i Giudici di Strasburgo sottolineano come, trattandosi di filiazione, è necessario ridurre il margine di discrezionalità e di apprezzamento degli Stati rispetto alle valutazioni dell’ordine pubblico operando, invece, un bilanciamento degli interessi in gioco – il diritto al rispetto della vita familiare dei genitori ricorrenti e il diritto al rispetto della vita privata dei figli – e considerando preminente quello dei minori che nei casi francesi di specie, si ritrovano in una posizione di assoluta incertezza giuridica tale da ledere la loro identità personale; una incertezza che si ripercuote tanto sulla possibilità di acquisire la cittadinanza francese, nonostante gli uomini delle due coppie fossero i loro padri biologici e cittadini francesi, quanto aspetti di diritto successorio rispetto alla madre sociale, dal momento che i nati da maternità surrogata possono essere istituiti da questa solo come legatari e quindi a condizioni inferiori rispetto agli eredi. La Corte di Strasburgo conclude, quindi, sostenendo che negare il riconoscimento della genitorialità in questi casi lede ingiustificatamente il best interest del minore30. L’altra pronuncia della CEDU sul caso Paradiso e Campanelli c. Italia del 27 gennaio 201531 prendeva le mosse da una coppia italiana che aveva fatto ricorso ad un contratto di maternità surrogata in Russia. Nato il bambino nel 2011, le autorità russe rilasciavano il relativo certificato di nascita dal quale entrambi i committenti risultavano genitori dello stesso. Successivamente, il consolato italiano di Mosca comunicava alle autorità competenti italiane che l’atto di nascita conteneva informazioni false. Ne conseguiva il rifiuto della trascrizione dell’atto di nascita e poiché il minore venne ritenuto in stato di abbandono, il Tribunale per i Minorenni avviava il procedimento di adottabilità e nei confronti della coppia italiana veniva instaurato un procedimento penale per il delitto di alterazione di stato ex art. 567 c.p..Peraltro il test del DNA certificava che alcun legame biologico esisteva tra l’uomo della coppia committente ed il minore. I coniugi, allora, decidevano di fare ricorso alla Corte europea lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione e la violazione del supremo interesse del minore ad avere una famiglia. La CEDU, proprio partendo dal richiamo dell’art. 8 della Convenzione che protegge i legami familiari de facto, considerato che la coppia aveva trascorso nove mesi con il minore si cui sei in Italia, periodo ritenuto fondamentale per la vita del bambino, valutava il rifiuto di trascrizione dell’atto di nascita una vera e propria ingerenza da parte delle autorità italiane nei diritti garantiti dall’art. 8 della Convenzione. In particolare, la Corte affermava che principio fondante di una tale
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La giurisprudenza della Corte di Strasburgo è ormai unanime nel considerare quale componente essenziale per la costruzione della propria identità la conoscenza delle origini biologiche e della discendenza: cfr. le pronunce della Corte EDU sui casi Gaskin c. Regno Unito, 7.7.1989 e Mikulic c. Croazia, 7.2.2002 in Familia, J. Long, Quaderni, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, 9, 27 ss. 31 Corte EDU, 27 gennaio 2015, ric. 25358/12 in www.biodiritto.org
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valutazione deve essere sempre il the best interest of the child da porre al centro di ogni decisione preservando il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco.
4. La maternità surrogata in Italia ed il miglior interesse del minore.
A seguito delle due decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 26 giugno 2014, gli Affaire Labassee c. Francia e Mennesson c. Francia e del recente intervento della Corte di Cassazione sul tema32 si è dato vita, su più fronti, ad una attenta riflessione sull’importante e delicato ruolo che le nuove biotecnologie hanno assunto in materia di procreazione33. Le pronunce di cui sopra, seguono alla tanto discussa sentenza della Corte Costituzionale n. 162/201434 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3, dell’articolo 9, commi 1 e 3 e dell’articolo 12, comma 1 della Legge 19 febbraio 2004, n. 40 consentendo così la reintroduzione della pratica della fecondazione eterologa che il legislatore del 2004 aveva vietato con fermezza e aprendo, quindi, nuovi e finora sconosciuti scenari ai giudici che sempre più spesso si ritrovano a dover fare i conti con l’esame di questioni di natura biomedica e più in generale di natura bioetica35. In particolare, il Comitato nazionale per la bioetica «emette una condanna inappellabile»36 sulla maternità surrogata partendo dal presupposto fondamentale che al minore vadano assicurate certezza e stabilità a tutela del suo «prevalente interesse»37 che va sempre garantito insieme alla dignità e soggettività delle donne coinvolte che non devono essere considerate «corpi muti, oggetto di prscrizioni, a partorire o non partorire, secondo volontà altre da loro»38. E così, l’avanzamento della scienza medica e delle nuove biotecnologie riproduttive, ci
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Cass. civ. sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001 in Min. Giust., 2015, 221 ss., con osservazioni di A. Figone. I.A. Caggiano, Tipologie di procreazione, stato di filiazione e conseguenze patrimoniali, in Quaderni di Familia, n. 2, Pisa, 2017, 11 ss. Ed, inoltre, A. Bucelli, Il cammino senza pregiudizi del Biodiritto. La costruzione giuridica dei rapporti genitoriali, in Persona e famiglia nell’era del Biodiritto, a cura di G. Baldini, Firenze, 2015, 62 ss. in cui l’autore precisa che, se da un lato le moderne biotecnologie consentono ad una coppia eterosessuale di realizzare il desiderio di genitorialità ostacolata da cause di infertilità o di sterilità, dal’altro permette di superare i limiti biologici esistenti per coppie dello stesso sesso o a singles che desiderino accedere alla maternità e/o alla paternità. 34 Corte cost., 10 giugno 2014, n. 164, in Fam. Dir. n. 8/9-2014, 753 ss. in cui veniva, tralaltro, affermato che il dato della provenienza genetica non costituisce più un requisito indispensabile della famiglia. 35 M. Aramini, Introduzione alla bioetica, Milano, 2003, 266: « nel fenomeno della gravidanza si verifica un intensissimo scambio tra la madre ed il bambino (…) se, come avviene per contratto nella maternità surrogata, il figlio viene ceduto dopo il parto, si infligge al bambino una grave ferita nella sua vita relazionale (…)»; D. Callahan, Etica e medicina riproduttiva, in Questioni di bioetica, a cura di M. Mori, Roma, 1988, 94ss.: «può essere accettabile una ricompensa nel caso della maternità surrogata? (…) è lecito che le donne siano disposte a prestare l’uso del proprio utero come madri surrogate?» 36 S Cfr. il Parere del Comitato nazionale di bioetica sulle tecniche di procreazione assistita. Sintesi e conclusioni (17 giugno 1994) in Documenti del Comitato nazionale per la bioetica, La fecondazione assistita, Presidenza del onsiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e comunicazione, 120 ss. 37 Ibidem 38 Si veda Mozione del 18 marzo 2016 in Comitato nazionale per la Bioetica, Maternità surrogata a titolo oneroso in www.presidenza. governo.it/bioetica/mozioni/mozione_surroga_materna.pdf 33
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fa assistere, giorno dopo giorno, a nuove ipotesi procreative, al conseguente sviluppo di nuovi modelli familiari e parentali e al sorgere di nuovi problemi di tutela dei diritti della persona, in tempi così rapidi da rendere spesso difficile, anche al più attento giurista, una profonda e meditata riflessione su questi moderni temi che sia altrettanto veloce e che rischia, quindi, spesso di non risultare al passo con i tempi in cui è ormai possibile parlare di una riproduzione senza sessualità diversamente dal passato in cui esisteva una sessualità senza riproduzione diffusasi dopo gli anni ’70 con le tecniche contraccettive e con la pratica dell’interruzione della gravidanza39 e contrariamente al noto brocardo «di mamma ce n’è una sola», oggi non possiamo più essere sicuri di quante figure genitoriali entrino in gioco all’interno di un processo procreativo. Così, nell’aumentare le possibilità riproduttive, la tecnica moltiplica le figure genitoriali e come osservato da pronta dottrina «[…] ci troviamo oggi di fronte ad un assortimento di situazioni genitoriali prima impensabili: si va dalla donna, sposata o non sposata, fecondata con seme di un donatore, con o senza il consenso del partner; al figlio che non è il prodotto biologico dei genitori sociali, ma di uno soltanto, ovvero di nessuno dei due, essendo stato concepito grazie alla donazione tanto di ovocita che di seme e magari all’impianto nell’utero di una madre surrogata […]40». Tutte le su descritte situazioni eticamente sensibili, che ormai di frequente vengono sottoposte ai nostri Giudici, si prestano certamente a diventare oggetto di volontà e di autodeterminazione delle persone, di contrattualizzazione delle relazioni familiari e delle scelte procreative41 a tal punto da aver orientato gli stessi giudici, ma ormai anche i legislatori, a spostare l’attenzione sul cd. best child interest, ponendo così al centro della risoluzione del caso concreto sempre il perseguimento della protezione del minore, anche prescindendo, quando necessario, dalla volontà degli adulti coinvolti. In particolare, l’Italia proibisce duramente la maternità surrogata considerandone nulli i relativi accordi e sanzionando questi ultimi anche penalmente ai sensi dell’art. 12, comma 6, della Legge 40/2004; ma come già verificatosi per il divieto di fecondazione eterologa, venuto poi meno automaticamente con la nota sentenza della Corte Costituzionale 162/2014, anche per la surrogazione di maternità stiamo assistendo al fenomeno del cd. turismo procreativo che ha dato vita al problema circa la validità in Italia degli accordi di surrogazione di maternità che vengono regolarmente conclusi in Stati esteri dove sono consentiti ed in particolare rispetto alla tutela dei minori coinvolti che continuano ad esserci e a nascere attraverso queste tecniche indipendentemente dalla prescritta nullità dei relativi accordi e delle severe sanzioni penali che ne conseguono nel caso di violazione della legge in materia. Tutto quanto sopra descritto porta evidentemente a formulare il
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S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1999, 224. M.R. Marella, Riproduzione assistita e modelli familiari, in Scienza, etica e legislazione della procreazione assistita. Atti del Convegno di Perugia, 4 ottobre 2002, a cura di F. Di Pilla, Napoli, 2003, 235. 41 La novità delle varie tecniche di maternità surrogata consistono nel fondarsi su accordi liberamente stipulati dalle parti al fine di soddisfare il desiderio di genitorialità di uomini e donne e di regolamentare i rapporti fra colei che si offre di svolgere il ruolo di gestante ed il committente o i committenti a seconda delle molteplici situazioni realizzabili. 40
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seguente quesito sostanziale: chi dovrà essere considerata la madre legale del nato da maternità surrogata laddove attualmente si assiste alla presenza di tre figure materne “parziali”, ognuna col proprio ruolo all’interno della situazione che si viene a creare e che si combineranno diversamente a seconda della tecnica di surrogazione di maternità prescelta? Precisamente avremo la madre putativa o madre sociale che ha la volontà di mettere al mondo un bambino, la madre genetica o madre biologica che apporta il materiale genetico e la madre naturale o gestazionale che porterà avanti la gravidanza e partorirà42. Il risultato di tutto ciò è una evidente rottura della struttura classica della identità materna43 e conseguentemente di quella del figlio che prima o poi si porrà il problema di quale sia la figura materna da prendere in riferimento tra le tante coinvolte nel processo riproduttivo. La posizione tradizionale ed assolutamente condivisibile44, ritiene ex art. 269 c.c., prevalente la figura della madre naturale sulle altre sul presupposto che è la gestazione che crea il materiale rapporto materno che accoglie e nutre l’essere umano; la madre genetica avrà, quindi, un titolo soltanto residuale nei confronti del nato che potrà far valere qualora la madre naturale rifiutasse di riconoscere il bambino. Tale orientamento è stato contestato e considerato anacronistico da chi lo ritiene legato ad un’epoca in cui era inimmaginabile l’esistenza contemporanea di una madre sociale, una genetica ed una uterina45 Del resto, in alcuni Paesi si sono cominciati a sperimentare una sorta di superincubatrici per lo sviluppo dell’embrione rendendo possibile che una nascita avvenga a prescindere da una madre gestante. Ma cosa accade nell’ipotesi in cui si faccia ricorso alla tecnica di maternità surrogata all’estero e si chieda in Italia la trascrizione dell’atto di nascita che riconosce la maternità della donna della coppia committente? In questo caso possono verificarsi due ipotesi: quella in cui la coppia committente apporti un contributo biologico minimo46 nella procedura di maternità surrogata prescelta; e quella in cui i genitori committenti ricorrano
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G. Cassano, Maternità «surrogata<>: contratto, negozio giuridico, accordo di solidarietà?, in Fam.dir., n. 2/2000, 176. Ed ancora, per un interessante esame sulla terminologia nell’ambito della maternità surrogata cfr. D. Morgan, Surrogacy: An introduction Essay in Birth Rights: Law and Ethics at the Beginnings of Life, a cura di R. Lee e D. Morgan, Londra, 1989, 55ss. Per i nuovi schemi di rapporti genitoriali che si possono rinvenire nella maternità surrogata, si veda anche G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello, La maternità una e trina in Trattato Dir. Fam, vol. I, Milano, seconda ed., 62 ss. 43 La già spesso richiamata ordinanza del Tribunale di Roma 14 febbraio 2000 definisce questa «figura di una madre genetica ma non gestante (…) quasi una paternità femminile che sembra contrastare con le stabili linee della concezione dei rapporti familiari e della procreazione». 44 C.M. Bianca, Diritto civile. 2. La famiglia. Le successioni, Giuffrè, Milano, 1998, 295; nello stesso senso, Trib. Roma, ord. 8 agosto 2014 in www.neldiritto.it che rileva puntualmente come anche le modifiche introdotte dal legislatore con la riforma della filiazione nel 2013 abbiano mantenuto l’originaria formulazione dell’art. 269, comma 3 c.c., mantenendo pertanto il principio in base al quale è il parto che determina la maternità naturale e specificando che anche con l’avvento delle nuove tecniche di procreazione, la madre uterina potrebbe non coincidere con la madre genetica. Per una sistematica ricostruzione dei fatti così come trattati dal citato Tribunale di Romai, noti oramai come il «caso Pertini», si veda I.A. Caggiano, op. cit., 45ss. 45 Per una ricostruzione dottrinale sul punto si veda F.M. Zanasi, Maternità surrogata, in www.personaedanno.it. 46 Alla stregua di quel che accade nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi ed in Danimarca. Non assume, invece, alcuna importanza la relazione genetica col nascituro in altri Paesi, come ad esempio in Russia, Bielorussia, Ucraina, India, dove la maternità surrogata è legale anche in forma commerciale.
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esclusivamente a materiale genetico estraneo alla coppia.47 Nel primo caso la giurisprudenza italiana preferisce riconoscere la genitorialità alla madre putativa48 sul presupposto che il best interest of the child deve costituire sempre il parametro di valutazione della contrarietà o meno all’ordine pubblico internazionale secondo quanto è del resto ribadito anche dall’Unione Europea nell’ambito del riconoscimento delle sentenze straniere nella materia dei rapporti tra i genitori e i figli49; nel secondo caso, invece, i giudici hanno sino ad oggi ritenuto opportuno considerare il minore in stato di abbandono e procedere quindi alla adozione dello stesso50 tenuto conto della pacifica circostanza per cui non essendoci contributo biologico minimo, i committenti non possono essere considerati in alcun modo genitori del nato ed il best interest of child richiede, in tal caso, che lo stesso sia considerato privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, quindi in stato di abbandono che, ex lege 184/1983 il Tribunale per i minorenni dovrà accertare ai fini della dichiarazione di adottabilità del bambino. Ma la ripartizione appena presentata, fondata sulla presenza o meno di contributo biologico minimo nelle procedure di surrogazione di maternità, pare non accordarsi con il diritto alla vita privata e familiare di cui all’articolo 8 CEDU come argomentato dalla stessa Corte nel già citato caso Paradiso e Campanelli c. Italia51 dove i giudici hanno ritenuto fondata la censura dei ricorrenti, relativa alla illegittimità della sottrazione del minore alla coppia e all’affidamento dello stesso a terzi, rilevando la sussistenza di un legame di fatto meritevole di tutela tra la coppia italiana committente ed il bambino avendo la coppia trascorso circa sei mesi con il minore, tempo sufficiente e determinante per lo sviluppo psicofisico del bambino concludendo così che il bilanciamento di interessi posto in essere dall’Italia appare del tutto sproporzionato, dovendosi ricorrere alla sottrazione del minore
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Cfr. a riguardo L. Gatt, Il problema dei minori senza identità genetica nei (vecchi e) nuovi modelli di famiglia: il conflitto tra ordine pubblico interno e cd. ordine pubblico internazionale, in cui l’autrice sottolinea quanto i casi di minori senza identità siano aumentati a seguito della diffusione delle tecniche di PMA e/o di maternità surrogata, in Il minore e il diritto alla genitorialità (capitolo), in La formazione decentrata presso la Corte di cassazione “Casi e materiali” 2016, Roma, 648ss. 48 Corte di Appello di Bari, sent. 13 febbraio 2009, in Fam. min. n. 5/2009, 50 ss. con nota di M. Castellaneta; Corte di Appello di Torino, decreto 29 ottobre 2014, in «Articolo29.it» con commento di M. Gattuso, Minore nato da due donne in Spagna: l’atto di nascita può essere trascritto in Italia; Trib. Milano, sent. 15 ottobre 2013 e Trib. Milano, sent. 8 aprile 2014, entrambe in Foro it., II, 371; Trib. Varese, GUP, 8 ottobre 2014, on-line sul sito www.penalecontemporaneo.it. I giudici, nei provvedimenti sopra citati rilevano, inoltre, che la procedura relativa all’ordinamento dello stato civile di cui al D.P.R. 396/2000, è finalizzata esclusivamente a regolare l’attività di certificazione, mentre l’individuazione del rapporto di filiazione va stabilito ai sensi e per gli effetti della legge 218/1995. A conferma di tutto quanto espresso dalle citate pronunce di merito sono intervenute le recenti sentenze di Cass. pen., sez V, n. 13525 del 5 aprile 2016 e Cass. pen., sez. VI, n. 48696 del 17 novembre 2016 in cui i giudici hanno ribadito che nessun reato sussiste nel caso in cui la madre sociale registri il certificato di nascita del figlio concepito all’estero da maternità surrogata eterologa, lecita secondo la lex loci che nel caso specifico era l’Ucraina dove la maternità surrogata è consentita qualora il 50% del patrimonio genetico del nato provenga da uno dei genitori committenti. Peraltro, il Collegio ha messo in evidenza come il concetto di discendenza oggi prescinda da un legame meramente biologico ma venga dato rilievo anche al rapporto che si crea tar i diversi componenti della famiglia che deve essere riconosciuto e tutelato dall’ordinamento nell’ottica del perseguimento del the best interest of the child. 49 Cfr. art. 23 del Regolamento CE n. 2201/2003 che espressamente stabilisce che la valutazione della «non contrarietà all’ordine pubblico» deve essere effettuata «tenendo conto dell’interesse superiore del figlio». 50 Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001. 51 Corte EDU, 27 gennaio 2015, ric. 25358/12 in www.biodiritto.org.
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ai genitori solo come extrema ratio nel caso di immediato pericolo per il minore stesso. Da tutto quanto sopra esposto emerge chiaramente che il problema su cui concentrarsi e da risolvere è quello di garantire ogni volta il best interest of the child, a prescindere dalla meritevolezza o meno dei contratti di surrogazione di maternità52. A tal proposito, dai casi sopra esaminati, si evince che la Corte di Strasburgo opta ormai per tutelare il miglior interesse del minore attraverso l’art. 8 CEDU ricordando, ogni volta che viene interpellata sul punto, che la nozione di privacy individuale è una nozione ampia «(…) not susceptible to exhaustive definition(…)». La Corte di Strasburgo, come già innanzi precisato, non ricomprende quindi nel disposto dell’art. 8 CEDU anche la scelta autodeterminativa delle coppie di ricorrere alla maternità surrogata ed in questo è stato colto53 l’atteggiamento schizofrenico della stessa sul punto considerato che in alcuni casi la Corte stessa ha espressamente affermato il diritto di diventare genitori54. Del resto, certa dottrina55 ritiene che proprio la nozione di responsabilità genitoriale, introdotta nel codice civile dalla riforma della filiazione, annullerebbe la distanza creata spesso in giurisprudenza tra l’autodeterminazione delle coppie sulle scelte procreative e il best interest of the child in quanto il rapporto di genitorialità, prima ancora di essere un legame biologico è un rapporto di responsabilità che, quindi, prescinderebbe dal legame di sangue, rilevando in tal caso la ferma volontà di diventare genitori responsabili per l’educazione, il mantenimento e l’istruzione di un bambino nato e voluto anche con l’ausilio di materiale genetico estraneo alla coppia. Ma è doveroso chiedersi, a tal proposito, se il rapporto di responsabilità genitoriale include anche la negazione della identità genetica del minore, così come affermata dall’ordine pubblico internazionale, che verrebbe così sacrificata «da esigenze di tutt’altro genere, facenti capo a tutt’altri soggetti che – dolorosamente – sono proprio coloro che proclamano di volersene prendere cura»56.
5. La qualificazione civilistica degli accordi di maternità surrogata in Italia e lo status del nato da PMA.
Il divieto di maternità surrogata posto in Italia con le relative pesanti sanzioni previste nel caso di infrazione allo stesso non hanno scoraggiato coloro che, pur di avere un figlio e non volendo ricorrere all’istituto della adozione, decidono di ricorrere alla maternità surrogata in quei Paesi dove la stessa è ammessa. Come già innanzi accennato, una tale situa-
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Sul punto si legga M.R. Marella, Sesso, mercato e autonomia privata in S. Rodotà, P. Zatti, Trattato di Biodiritto, vol. II, a cura di R. Canestrari, G. Ferrando, Mazzoni, S. Rodotà, P. Zatti, Il governo del corpo, tomo I, Milano, 2011, 887 ss. 53 G. Repetto, “Non di sola CEDU”… la fecondazione assistita e il diritto alla salute in Italia ed in Europa, in Dir. pubbl., 2013, 67ss. 54 Ex plurimis cfr. Corte EDU, Evans c. Regno Unito, Grande Camera, 10 aprile 2007 in www.giurcost.org. 55 S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, cit., 224 56 Cfr. L. Gatt, Il problema dei minori senza identità genetica (…), op. cit.
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zione comporta due ordini di problemi: il primo attiene alla qualificazione civilistica degli accordi di maternità surrogata che verranno stipulati con conseguente regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra le parti dell’accordo in caso di inadempimento; il secondo attiene, invece, alla attribuzione della maternità legale e della connessa disciplina dello status filiationis57. Nel cercare di rispondere ai suddetti quesiti, l’interprete non potrà non considerare, oltre alle norme specifiche di cui alla legge 40, le disposizioni del codice civile create originariamente dal legislatore solo per la filiazione naturale, ma che oggi possono certamente essere rilevanti in materia di procreazione medicalmente assistita cercando in tal modo di non sforare da quelli che sono i valori ed i principi garantiti dalla nostra Costituzione. Passando, quindi, all’analisi dell’accordo di maternità surrogata, è evidente che alla base dello stesso c’è sempre un’intesa tra i principali attori della vicenda procreativa, cioè tra la coppia committente e la madre surrogata secondo tutte le possibili ipotesi innanzi descritte. L’accordo può essere stipulato a titolo gratuito o a titolo oneroso e proprio dalla onerosità o meno dello stesso si parlerà di contratto o di negozio giuridico non patrimoniale. In particolare, una diffusa opinione ritiene che, in mancanza di corrispettivo, l’accordo di maternità surrogata non può essere considerato tecnicamente un contratto ma invece un negozio, difettando del requisito di patrimonialità richiesto dall’art. 1321 c.c.58; sul punto c’è in dottrina59 chi va aggiungendo che, nello specifico, si tratterebbe di un negozio non patrimoniale familiare atipico anche se dovesse essere pattuito un corrispettivo in favore della madre surrogata considerando l’accordo, sotto il profilo causale, pur sempre destinato a realizzare interessi di natura non patrimoniale perché al centro dell’accordo stipulato e con significato preminente ci sarebbe, non tanto la pattuizione di un corrispettivo, ma l’oggetto del negozio che sarebbe il nato concretamente “ceduto” alla coppia committente. Del resto, quanto appena esposto è proprio la tesi su cui si è fondata la prima pronuncia giurisprudenziale italiana sul tema formulata dal già spesso richiamato Tribunale di Monza nel 1989 che si trovò ad esaminare un caso di surrogazione di maternità affinchè fosse concepito, fosse portata a termine la gravidanza e poi fosse ceduto il bambino così nato alla coppia committente di cui l’uomo aveva apportato il seme per procedere alla fecondazione. Il Tribunale investito di risolvere la questione, ha posto in evidenza come l’affitto dell’utero in tal caso non si risolve nell’impegno della surrogata nella messa a disposizione del proprio utero per accogliere il concepito, ma ha come momento basilare quello della consegna del bambino e la rinuncia da parte della stessa al riconoscimento del rapporto di filiazione e che, pertanto, l’accordo in questione è da considerare nullo in
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Sullo status di protezione del minore cfr. M. Dogliotti, Persone fisiche in Trattato Bessone, Torino, 2014, 20 ss e 247 ss; ed ancora R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, Napoli, 2013. 58 Per una precisa ricostruzione delle opinioni dottrinali e giurisprudenziali sul punto cfr. B. Salone, Figli su commissione: profili civilistici della maternità surrogata in Italia dopo la legge 40/2004, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 2/2014, 162. 59 S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, cit., 224.
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virtù del combinato disposto degli artt. 1418, co. 2 e 1346 c.c. per mancanza dei requisiti di possibilità e liceità nell’oggetto dello stesso60. Difatti, partendo da quanto prescritto dall’art. 5 c.c., il Giudice monzese argomenta correttamente che il consenso prestato dalla madre surrogata potrà essere revocato in qualsiasi tempo da parte dell’interessata in quanto l’affitto dell’utero, pur non cagionando una diminuzione permanente dell’integrità fisica della donna, è comunque da considerare contrario all’ordine pubblico e al buon costume61. Se, dunque, non possono essere oggetto di un atto di autonomia privata le parti del proprio corpo, a maggior ragione non può essere considerato bene giuridico il nascituro. Questi casi di revoca del consenso rilevano ancor di più nelle ipotesi di maternità surrogata “a pagamento” per i quali si pone l’ulteriore problema della restituzione delle somme corrisposte alla surrogata dalla coppia committente per portare a termine l’impegno assunto originariamente di consentire all’impianto dell’embrione, di portare a termine la gravidanza ed infine di consegnare il bambino ai genitori committenti. In tal caso, certamente appaiono applicabili le regole generali di cui all’art. 2033 c.c. e 2035c.c. sulla ripetizione dell’indebito e sulla natura dell’atto di autonomia privata che, così come regolato dalle parti, risulta evidentemente contrario ai canoni del buon costume da intendersi come quel «minimo etico condiviso dalla coscienza sociale di cui il giudice si fa interprete ai fini della valutazione in termini di illiceità (…)»62.
6. Conclusioni. Da tutto quanto esaminato emerge l’evidente disomogeneità delle soluzioni fornite da dottrina e giurisprudenza italiana ma anche dai diversi ordinamenti stranieri riferiti; il che incentiva di certo al cd. turismo procreativo nelle modalità innanzi riportate e rende il divieto posto dalla legge 40 assolutamente debole, in quanto i cittadini, avvalendosi di quanto disposto dall’art. 15 della Legge 396/2000, sono di fatto legittimati a recarsi all’estero a “fabbricare bambini”63 nel rispetto delle norme stabilite dalla legge del luogo prescelto. Di conseguenza, per quanto sia assolutamente condannabile il fenomeno in termini etici64, ci si augura che il legislatore intervenga quanto prima nella materia per costruire un sistema chiaro di regole in grado di salvaguardare in concreto il the best interest of the child di cui, ad oggi, non se ne è ancora ben capita la portata ed il significato, evitando così di lasciare agli interpreti il compito di trovare, di volta in volta, una soluzione adeguata a questioni
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G. Cricenti, Contratto di maternità surrogata, interpretazione evolutiva e frode alla legge in Dir. Giur., 2000, 455 ss. Tale interpretazione è stata poi ribadita da Appello Salerno, sez. min., decr. 25 febbraio 1992, che conferma quanto argomentato sul punto dal Trib. Min. Salerno, decr. 15 novembre 1991, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 177ss. 62 G.B. Ferri, Buon costume – II) Diritto civile (voce), in Enc. Giur., XIII, Roma, 1995. 63 Si pensi alla realtà della BioTexCom, clinica della medicina riproduttiva di Kiev visitabile su www.biotexcom.com. 64 M. Sesta, Maternità surrogata tra deontologia, regole etiche e diritto giurisprudenziale in Il Corriere Giuridico, 2000, 488. 61
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che invece necessitano di una omogeneità legislativa in grado di attribuire uno status certo a chi è nato, seppure attraverso accordi illeciti.. A tal proposito, va osservato che, i citati orientamenti di apertura verso tali pratiche di surrogacy che considerano gli accordi stipulati tra le parti meritevoli di tutela perché dotati delle caratteristiche dei contratti atipici ai sensi e per gli effetti dell’art. 1322 c.c., evidentemente non tengono conto dell’esigenza primaria di tutela di un eventuale terzo – in tal caso il minore – che deve esprimere l’alternativa tipicità-atipicità65 ideata dal legislatore. Riaffiora, allora, il grande interrogativo della bioetica sempre tempestivo quando il progresso scientifico supera i limiti di ciò che è considerato naturale: «tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente accettabile, socialmente ammissibile e giuridicamente lecito?»66Ad avviso di chi scrive la disparità evidenziata, che pone in una situazione giuridica svantaggiosa i genitori anziani non autosufficienti rispetto a quella dei figli che versano nelle stesse condizioni di debolezza o di bisogno, meriterebbe di essere oggetto di rimeditazione, muovendo anzitutto dall’individuazione – se esiste – del fondamento razionale che la giustifica.
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P. Pollice, Il contratto. Appunti per un corso di diritto civile, Torino, 2015, 81 che richiama un passo di A. Graziani, Sull’ammissibilità delle c.d. società atipiche in Studi di diritto civile e commerciale, Napoli, 1953, 456 ss. in cui l’autore precisa che «la libertà che l’ordinamento giuridico consente ai privati non si estende a tutto il campo dei diritti delle obbligazioni, ma al più ristretto campo di quei negozi che, posti in essere tra determinati soggetti, sono destinati unicamente ad avere efficacia nei confronti delle parti medesime. Ma quando un determinato negozio è destinato ad avere efficacia non unicamente tra le parti contraenti (…) a garanzia dei terzi non può consentirsi che il negozio venga posto in essere se non negli schemi dal legislatore previsti». 66 G. Baldini, Riflessioni di biodiritto, Padova, 2015, 5.
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I matrimoni contratti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso dopo la legge Cirinnà* Sommario: 1. L’equiparazione dei matrimoni contratti all’estero fra persone dello stesso sesso alle unioni civili regolate dalla l. n. 76/2016. – 2. L’equiparazione delle unioni civili costituite all’estero fra persone dello stesso sesso alle unioni civili regolate dalla l. n. 76/2016. – 3. Gli effetti dell’equiparazione sulla libertà di stato. – 4. Segue: i nuovi compiti dell’ufficiale di stato civile. – 5. Segue: Gli effetti dell’equiparazione sull’azione di nullità del matrimonio o dell’unione civile successivi. – 6. Conclusioni sulla funzione della novella: la sanatoria delle situazioni pregresse.
This paper aims to offer a concrete analysis of the application scope of implementing rules of law no. 76/2016 and of the “regularizing” function of the above-mentioned law, by focusing on the effects deriving from the recognized possibility of transcribing the “same sex” affective bonds. At the same time, since marriages and “same sex” bonds established abroad are equated to marriages established in Italy, this job performs a combined reading about the (new) substantial discipline and the new special parallel regulation that introduce in our legal system new impedimenta legaminis and, therefore, new invalidation reasons and new tasks for the officer of the civil status.
1. L’equiparazione dei matrimoni contratti all’estero fra persone
dello stesso sesso alle unioni civili regolate dalla l. n. 76/2016.
All’indomani dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili, le incertezze interpretative circa la riconoscibilità, in Italia, degli effetti giuridici dei matrimoni contratti all’estero
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Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Rachele Marseglia
da due persone dello stesso sesso sono state sciolte attraverso il d. lgs. n. 7 del 19 gennaio 2017, concepito per attuare il riordino delle norme di diritto internazionale privato in materia1. L’art. 1 del decreto attuativo ha innestato nella l. n. 218 del 31 maggio 1995, il nuovo art. 32-bis, che attribuisce al matrimonio contratto all’estero da cittadini, entrambi, italiani dello stesso sesso i medesimi effetti dell’unione civile regolata dalla legge del 2016, legittimandone la trascrizione nei registri dello stato civile italiano. La novella introdotta ha sovvertito, oltre che la disciplina pregressa2, anche l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale precedente, che, dopo aver negato per tempo immemore la validità e la “conversione” nel nostro sistema del matrimonio omosessuale dei cittadini italiani che, con l’intento di dare una “veste giuridica” al loro legame, sceglievano di convolare a nozze nei Paesi che lo ammettessero, aveva fondato le ragioni dell’intrascrivibilità dell’atto dapprima sulla sua invalidità, poi sulla sua inesistenza3 ed infine sulla sua inidoneità alla produzione degli effetti4. Nonostante l’importante effetto sovversivo spiegato, l’intervento del legislatore delegato si è rivelato assai più moderato di quanto avrebbe potuto essere se avesse attuato appieno l’ampia delega concessa5. La lettera b) del co. 28 della legge n. 76 del 2016, con cui il legislatore speciale delegava il governo a riordinare le norme di diritto internazionale privato che regolano le unioni fra
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In riferimento alla disciplina delle unioni civili in generale cfr.: G. Alpa, La legge sulle unioni civili e sulle convivenze. Qualche interrogativo di ordine esegetico, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1718; T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (l. 20 maggio 2016, n. 76), in Nuove leggi civ. comm., 2016, 368 ss.; AA. VV., La famiglia all’imperfetto, a cura di A. Busacca, Napoli, 2016; C.M. Bianca, Diritto civile 2.1, V ed., La famiglia, Milano, 2014, 27 ss.; M. Bianca, Le unioni civili e il matrimonio: due modelli a confronto, in Giur. it., 2014, 1261; M. Blasi, R. Campione, A. Figone, F. Mecenate, G. Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016; M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. e dir., 2016, 868; F. Gazzoni, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it; I. Prisco, Sulla disciplina delle unioni civili e delle convivenze, in Rass. dir. civ., 2016, 1081; Si vedano ad esempio le circolari del Ministero dell’Interno, n. 2 del 2001 e n. 55 del 2007, che espressamente negavano la trascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto oltre confine da due cittadini italiani. Cfr. T. Galletto, Identità di sesso e rifiuto delle pubblicazioni per la celebrazione del matrimonio. Per il rifiuto di trascrizione in Italia di matrimonio gay celebrato altrove, in Giur.it., I, 1982, 170; M. Bonini Baraldi, Il matrimonio tra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero non è trascrivibile: inesistente, invalido o contrario all’ordine pubblico?, in Famiglia e Diritto, 2005, 411 e ss.; A. Sinagra, Matrimonio omosessuale validamente celebrato all’estero ed ordine pubblico italiano, in Dir. Fam., 2006, I, 606; Cavana, Sulla intrascrivibilità dell’atto di matrimonio validamente contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, in Il diritto di famiglia delle persone, 2005, 1268 ss.; F. Danovi, Sull’inesistenza e non trascrivibilità del matrimonio per identità di sesso, in Dir. di fam. e delle persone, 2006, I, 606; M. Sesta, Il matrimonio estero tra due cittadini italiani dello stesso sesso è trascrivibile in Italia?, in Fam. e dir., 2007, 166. Per la conclusione dell’excursus interpretativo che ha segnato l’evoluzione giurisprudenziale si veda Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Fam. pers. succ., annotata da S. Patti, I diritti delle persone omosessuali e il mancato riconoscimento del matrimonio contratto all’estero. L’art. 1, comma 28, della legge n. 76/2016, ha delegato il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: «b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo».
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I matrimoni contratti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso dopo la legge Cirinna
persone dello stesso sesso, sembrava infatti – almeno prima facie, da un’interpretazione letterale – indurre all’applicabilità indifferenziata della disciplina italiana dell’unione civile alle coppie formate da persone dello stesso sesso a seguito di «matrimonio, unione civile o altro istituto analogo», senza alcuna barriera territoriale e quindi indipendentemente dai limiti di cittadinanza, italiana o straniera, delle parti. Al contrario, in fase attuativa, il legislatore delegato circoscriveva comunque l’equiparazione al solo matrimonio contratto all’estero da persone che avessero, entrambe, cittadinanza italiana6. La scelta del restringimento dei margini della delega appare tuttavia in linea coi princìpi costituzionali e sovranazionali che governano la materia in parola: una soluzione opposta, quale quella dell’applicazione esclusiva e generalizzata della legge italiana a tutte le situazioni create all’estero, non solo li avrebbe demoliti, ma ne avrebbe anche violato gli obblighi derivati, finendo poi col mortificare il fine del coordinamento degli ordinamenti stranieri cui è vocato il diritto internazionale privato, privando altresì la delega del proprio oggetto7. Lo stesso dettato dell’art. 27, l. n. 218/1995, d’altronde, assoggettando il matrimonio contratto all’estero da cittadini stranieri all’applicazione della legge nazionale di ciascun nubendo, induce ad escludere che il matrimonio contratto fra due cittadini stranieri dello stesso sesso possa essere disciplinato attraverso la legge italiana sulle unioni civili8. Peraltro, l’imposizione del limite spaziale all’equiparazione dell’atto straniero a quello interno è avvalorata dalla Relazione illustrativa al decreto delegato, dalla quale emerge la necessità di arginare il rischio di comportamenti deliberatamente mirati ad eludere la recente normativa interna al fine dell’applicazione dello ius loci celebrationis, quali ad esempio quelli adottati da due cittadini, entrambi italiani, recatisi all’estero per vestire la loro unione del connotato della transnazionalità. Naturalmente, vanno esclusi dalla portata applicativa dell’art. 32-bis i matrimoni o le unioni costituiti da due cittadini che risiedano abitualmente in un Paese straniero e che scelgano di unirsi civilmente nel Paese di residenza9.
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Sul punto cfr. la Relazione illustrativa al d.lgs. n. 7 del 2017, in www.giustizia.it, dalla quale si evince che la scelta è frutto dei rilievi effettuati in sede di esame parlamentare dello schema di decreto legislativo dalle Commissioni competenti che hanno sottolineato la necessità di interpretare la disciplina di delega come diretta ad imporre la soluzione restrittiva nel caso di matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso. Attenzione di siffatto tenore si riscontra anche nel successivo art. 32-ter, laddove il legislatore delegato prevede che la capacità e le altre condizioni per costituire unione civile debbano essere regolate dalla legge nazionale di ciascuna parte al momento della costituzione dell’unione civile e che solo, in via residuale, nel caso in cui la legge applicabile non ammetta l’unione civile tra persone maggiorenni dello stesso sesso possa essere applicata la legge italiana. L’intendimento è comune anche ai giudici di merito. Ex multis cfr. App. Napoli, 13 marzo 2015, che – sulla scorta degli artt. 27 e 28 L. 31 maggio 1995, n. 218; art. 19, d.P.R. n.396/2000; artt. 8 e 12, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; artt. 18 e 21, comma 1°, TFUE – esprimendosi in merito ad un matrimonio contratto all’estero tra due donne francesi, e quindi cittadine di un Paese che già ammetteva il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ha ritenuto esistente il matrimonio anche per l’ordinamento giuridico italiano, dando luogo all’applicazione della legge nazionale di ciascuna nubenda ed imponendo per conseguenza la sua trascrizione nei registri dello Stato civile, attesa la sua non contrarietà all’ordine pubblico internazionale. Sempre dalla Relazione illustrativa al d. lgs. n. 7 del 2017, emerge che lo schema di decreto legislativo consentisse di costituire
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In tal caso in effetti, stante soprattutto il carattere transnazionale dell’unione contratta, l’applicazione forzata della legge italiana non avrebbe senso, sia perché si sostanzierebbe in una lampante infrazione dell’art. 3 Cost. (oltre che in un’immotivata barriera alla libera circolazione nel territorio Europeo), sia perché, non avrebbe fini elusivi da dissuadere: la condizione dell’abitualità della residenza induce infatti ad escludere che per tale scelta si configurino gli estremi di una condotta elusiva della normativa italiana.
2. L’equiparazione delle unioni civili costituite all’estero fra
persone dello stesso sesso alle unioni civili regolate dalla l. n. 76/2016.
Allo stesso modo, l’art. 32-quinques prevede che l’unione civile, o altro istituto analogo, costituiti all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso ed abitualmente residenti in Italia producano gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana. A differenza di quanto previsto nel caso precedente, laddove il legislatore mette in rilievo il requisito della cittadinanza dei soggetti, la norma in questione pone l’accento sul requisito della loro residenza abituale. In questo caso, la precisazione tradisce ancor più chiaramente l’intento del legislatore delegato di reprimere i comportamenti volti ad eludere l’applicazione della legge n. 76/2016. A tal fine, infatti, la disposizione in parola assoggetta alla disciplina nazionale anche le unioni costituite all’estero da due cittadini italiani che, pur essendo stabilmente residenti in Italia, scelgano di migrare all’estero al solo fine di costituire un’unione civile che eluda la legge italiana, senza possibilità di scampo. La ratio della norma, al pari di quella che pervade l’intero articolato del decreto, è del resto perfettamente rispondente ai princìpi costituzionali di tutela dei diritti inviolabili, eguaglianza e ragionevolezza (articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione) oltre
un’unione civile tra persone dello stesso sesso in Italia anche al cittadino di uno Stato straniero che non la consenta, atteso il fatto che la legge n. 76 del 2016 non prevede condizionamenti di tipo spaziale, «non limita cioè l’accesso all’unione civile a chi sia legato al nostro ordinamento da vincoli quali la cittadinanza e/o la residenza. Del resto, il richiamo – nel comma 19 della legge n. 76 del 2016 – all’art. 116, primo comma, cod. civ. (“Matrimonio dello straniero nello Stato”) lascia intendere che qualsiasi straniero possa costituire un’unione civile in Italia». La trascrizione del matrimonio contratto in Italia da due cittadini stranieri dello stesso sesso, ivi residenti era peraltro ammessa ancor prima della riforma del 2016 dalle due fonti di normazione secondaria richiamate in apertura, ovvero dalle Circolari del Ministero degli interni n. 2 del 2001 e n. 55 del 2007, che la definivano una trascrizione meramente riproduttiva di atti riguardanti cittadini stranieri formati secondo la loro legge nazionale da autorità straniere escludendone la soggezione al limite dell’ordine pubblico di cui all’art. 18, l. n. 218/1995. In merito alle natura ed alle funzioni attribuite a tale trascrizione cfr. in dottrina G. Liotta, Un altro passo verso la conoscenza dell’art. 69 del d.P.R. n. 396 del 2000 presso gli archivi dello stato civile, in Dir. fam., 2010, 203; più in generale, cfr. invece, cfr. già B. Nascimbene, Il matrimonio del cittadino italiano all’estero e dello straniero in Italia, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, continuato da Bonilini, I, 1, Torino, 2007, 2a ed., 189.
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che conforme ai parametri sovranazionali contenuti negli artt. 8 e 14 CEDU, 3 TUE e 26 TFUE, unitamente alle altre disposizioni dei Trattati sulla libera circolazione delle persone e del regolamento 2016/1104/UE sugli effetti patrimoniali delle unioni registrate. À rebours, allora, sono destinate a sfuggire ai margini della legge italiana le unioni miste, tra un cittadino italiano e un cittadino straniero ovvero fra due cittadini stranieri: essendo loro estraneo l’intento elusivo che anima il flusso migratorio verso i Paesi del marriage equality, restano fermi i profili di internazionalità. Per la stessa ragione, lasciata illesa l’importanza del criterio dell’“abitualità della residenza”, non ha ragion d’essere l’applicazione della disciplina italiana alle unioni costituite fra cittadini italiani dello stesso sesso che risiedano abitualmente in un Paese straniero. In quest’ultimo caso, infatti, non ricorrendo gli estremi di un distacco temporaneo o solo formale dal Paese di provenienza, trova luogo l’applicazione dello ius loci celebrationis, in quanto coincidente con lo ius soli.
3. Gli effetti dell’equiparazione sulla libertà di stato Precedentemente al riconoscimento degli effetti giuridici delle unioni same-sex nel nostro ordinamento, i cittadini italiani dello stesso sesso che si fossero sposati o uniti civilmente all’estero versavano dunque in uno stato civile “duplice”. Sebbene regolarmente coniugati o uniti oltralpe, essi infatti risultavano rispettivamente celibi o nubili per lo stato civile italiano, conservando quindi la possibilità di (ri)sposarsi in patria anche con persone del sesso opposto. L’atto transnazionale che ne certificava il legame infatti, oltre a non essere riconosciuto, né trascrivibile in Italia, non incidendo sullo stato civile delle parti, non rilevava neanche come impedimentum ligaminis per l’istaurazione di un successivo rapporto di coniugio. Prima della riforma del 2016, infatti, sotto la rubrica «Libertà di stato», il vecchio testo dell’art. 86 c.c. precludeva la possibilità di sposarsi solo a chi risultasse ancora in costanza di un matrimonio – per noi – produttivo di effetti giuridici e trascritto nei registri dello stato civile italiano. Attualmente invece, la norma sostanziale è stata riformata dall’art.1, co. 32, l. n. 76/2016 ed, in un regime di perfetta equiparazione fra il vincolo giuridico derivante dal matrimonio e quello conseguente all’unione civile fra persone dello stesso sesso, il legislatore speciale della legge sulle unioni civili ha elevato al rango di causa impeditiva di ordine pubblico, non dispensabile10, anche l’unione civile costituita in precedenza.
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Per la distinzione fra impedimenti dispensabili e non dispensabili v. già C.M. Bianca, Diritto civile, II, La famiglia e le successioni, Milano, 1985, 48. Le due diverse aggettivazioni sono ancora in uso, sebbene riconducibili alla dispensa di diritto amministrativo che oggi è affiancata dalla autorizzazione del Tribunale.
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Il nuovo art. 86 c.c. preclude infatti la possibilità di contrarre un nuovo matrimonio non solo a chi sia ancora sposato, ma anche a chi sia ancora unito civilmente con una persona dello stesso sesso11. La parificazione realizzata risponde evidentemente ad un sol tempo a due importanti necessità, consentendo, sotto un profilo prettamente oggettivo, di tutelare il vincolo monogamico derivante tanto da un matrimonio quanto da un’unione civile e, sotto un profilo meramente soggettivo, invece, di tutelare non solo la posizione del coniuge precedente, ma anche la posizione della parte già unita civilmente con persona dello stesso sesso12. La ratio che pervade la scelta del legislatore speciale è evidentemente la medesima che anima il legislatore del 1942. Specularmente, infatti, il legislatore della novella, all’art. 1, co. 4, della medesima legge Cirinnà, enumera le analoghe cause che impediscono la costituzione dell’unione civile, fra le quali figura innanzitutto «la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso». Orbene, alla luce di tale trama normativa, dunque, pare corretto ritenere che la lettura combinata degli artt. 32-bis e quinquies, l. n. 218/1995, del nuovo art. 86 c.c. e dell’art. 1, co. 4, della l. n. 76/2016 renda possibile annoverare il matrimonio o l’unione costituiti all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso fra le cause impeditive di un matrimonio o di un’unione civile che si intendano costituire successivamente in Italia. Stante la “conversione” operata dal decreto delegato, anche le unioni same-sex dei cittadini italiani all’estero debbono, di riflesso ed infatti, essere elevate al rango di impedimenta ligaminis ai sensi dell’art. 86 c.c. e dell’art. 1, co. 4, l. n. 76/2016: riconosciuti i legami omosessuali costituiti da cittadini italiani all’estero, ammessane la trascrivibilità e la conseguente idoneità a determinare il cambiamento dello stato civile delle parti, è dunque conseguentemente necessario attribuirgli la veste di cause di nullità del matrimonio o dell’unione civile successivi.
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Il nuovo art. 86 c.c. prevede testualmente che «non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio o da un’unione civile fra persone dello stesso sesso precedente». Al di là della imprecisa concordanza nella frase, in ragione della quale non si evince subito che l’aggettivo “precedente” debba essere rivolto (non al sesso delle parti, ma) al matrimonio o all’unione civile non ancora sciolti, la novella opera senza richiami diretti o indiretti, innestando i virgolettati nel testo dell’articolo del Codice Civile. La tecnica redazionale adottata dal legislatore speciale è oggetto però di notevoli critiche. Più in generale, infatti, ne denuncia i “vistosi difetti” F. Danovi, L’intervento giudiziale nella crisi dell’unione civile e della convivenza di fatto, in Fam. e dir., 10, 2016, 995, il quale riscontra un «[…] utilizzo a “corrente alternata” di forme e modelli normativi eterogenei e dissonanti: introduzione di nuove norme in sostituzione di preesistenti, ripetizione di regole già in vigore ma con varianti, riferimenti o richiami a norme codicistiche o a leggi speciali, applicazioni al nuovo istituto di disposizioni che si riferiscono al matrimonio o utilizzino il termine “coniuge” o altri “equivalenti”. La sensazione è quindi quella di un collage o patchwork, in cui il senso compiuto dell’articolato non può essere individuato unicamente dal testo, che non dispone –per usare una terminologia ormai cara al mondo processuale – della dovuta “autosufficienza”, ma necessita di continui rimandi, trasposizioni e confronti» con le norme che disciplinano il matrimonio. 12 Più in generale cfr. C.A. Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. Vassalli, Torino, 1961, 87; C. M. Bianca, Delle nullità del matrimonio, in Comm. Oppo, Cian, Trabucchi, Padova, 1992, 129; N. Lipari, Il matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile. Libertà di stato, in Comm. Oppo, Cian, Trabuchi, cit., 143; G. Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. Cicu-Messineo, V, 1, Milano, 2002, 306; E. Vitali, Il matrimonio civile, in Il diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, cit., 134, mentre per la rilevanza della libertà di stato ai fini della tutela di interessi individuali e di interessi superiori si v. p 107 e ss.; Matera e G. Salito, Dei singoli impedimenti matrimoniali, in A.A. V.V., Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, Milano, 2011, 135.
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In questo quadro di indagine, le due norme gemelle devono necessariamente essere raccordate con gli artt. 32-bis e 32-quinquies della l. 218/1995, così da poter essere rilette attraverso il criterio della “equivalenza” degli effetti delle unioni e dei matrimoni samesex contratti dai cittadini italiani all’estero agli effetti riconosciuti alle unioni civili regolate dalla legge Cirinnà.
4. Segue: I nuovi compiti dell’ufficiale di stato civile Conseguentemente gli effetti della novella si riflettono anche sui compiti di cui è investito l’ufficiale di stato civile. Sulla scorta del ragionamento appena scorso, pare altrettanto corretto ritenere che la libertà di stato, che è condizione necessaria sia per la piena capacità di sposarsi dei nubendi di sesso opposto che delle persone dello stesso sesso che siano in predicato di unirsi civilmente13, attualmente, debba infatti essere accertata non solo con riferimento ai matrimoni ed alle unioni civili precedentemente costituiti in Italia, ma anche a quelli precedentemente costituiti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso e trascritti nei registri dello stato civile italiano, perché ormai produttivi di effetti anche nel nostro ordinamento. Innanzitutto, sulla base di quanto previsto, ancora oggi, nell’art. 51, primo comma, del Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, d.p.r. n. 396 del 2000, chi richiede la pubblicazione di matrimonio «deve dichiarare il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita, la cittadinanza degli sposi; il luogo di loro residen-
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Orbene, vale la pena evidenziare in questo contesto che, alla luce del fatto che l’art. 86 c.c. coesista in rapporto di stretta connessione con l’art. 556 c., che definisce invece nel nostro ordinamento il divieto di bigamia, pare strano che la legge speciale, oltre a novellare il testo della norma del Codice Civile non abbia novellato anche il testo della norma del Codice Penale che le fa da eco. In merito al legame che tiene avvinti l’art. 86 c.c. e l’art. 556 c. ed alla matrice civilistica del divieto di bigamia cfr. A.G. Cianci, L’invalidità del matrimonio, in Diritto della famiglia, a cura di S. Patti, M.G. Cubeddu, Milano, 2011, 401. Attesa l’insufficienza del richiamo operato dalla clausola di equivalenza di cui al comma 20 dell’art. 1, della legge n. 76 del 2016 ed attesi il divieto di analogia, la tassatività, la determinatezza e la precisione delle norme penali, sarebbe parso forse più opportuno infatti che nella medesima sede il legislatore speciale avesse introdotto l’equiparazione del vincolo matrimoniale a quello dell’unione civile anche nel Codice Penale, “aggiornando” anche il dispositivo della norma di matrice penalistica, tanto da specificare che gli estremi del reato di bigamia possano essere integrati anche dal comportamento di chi, in costanza di unione civile con una persona dello stesso sesso, contragga un matrimonio avente effetti civili. Una simile scelta, forse più fedele al principio di uguaglianza costituzionalmente garantito ed alla logica dell’equiparazione dell’istituto del matrimonio a quello dell’unione civile, avrebbe consentito l’applicazione concreta della medesima disciplina sanzionatoria anche nei confronti di questa nuova figura di bigamo, senza lasciare aperto il varco a nuovi, ulteriori e necessari interventi legislativi. Tanto più considerato il fatto che il d. lgs. 19 gennaio 2017 n. 6, contenente modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76, pur prevedendo una serie di modifiche alle norme penali, non reca alcuna menzione dell’art. 556 c.p. A quest’ultimo potrebbe, al più, ritenersi riferito l’art. 574-ter, che, sotto la rubrica «Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale», prevede che, agli effetti della legge penale, il termine matrimonio debba intendersi riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso e che «quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso».
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za, la loro libertà di stato; se tra gli sposi esiste un qualche impedimento di parentela, di affinità, di adozione o di affiliazione, a termini dell’articolo 87 del codice civile, se gli sposi hanno già contratto precedente matrimonio; se alcuno degli sposi si trova nelle condizioni indicate negli articoli 85 e 88 del codice civile»14. Vale la pena precisare che la norma appena richiamata manca evidentemente di menzionare fra le dichiarazioni che gli sposi devono obbligatoriamente rendere ai fini della certificazione della propria libertà di stato – subito dopo le parole «se gli sposi hanno già contratto precedente matrimonio» quella di aver contratto un’unione omoaffettiva precedente e la mancanza va sottolineata sia in riferimento alle unioni civili costituite in Italia che le unioni o i matrimoni celebrati all’estero prima dell’entrata in vigore della legge del 201615. Nonostante tale omissione tuttavia, attesa la novella apportata dal comma 32, art. 1, l. n. 76/206, all’art. 86 c.c., ai nubendi che siano già ed ancora uniti civilmente con persone del loro stesso sesso resta oggi, comunque, preclusa la possibilità di dichiarare “libero” il proprio stato civile, nel momento dell’autocertificazione. Il secondo comma del medesimo art. 51 – anche questo lasciato illeso dalla modifica del decreto attuativo – dispone invece che «l’ufficiale dello stato civile deve verificare l’esattezza della dichiarazione di cui al comma 1 e può acquisire d’ufficio eventuali documenti che ritenga necessari per provare l’inesistenza di impedimenti alla celebrazione del matrimonio». Come anticipato però, gli accertamenti che l’Ufficiale di stato civile è oggi tenuto ad effettuare ai fini della verifica della libertà di stato devono ormai includere nuovi ed ulteriori compiti16. In primo luogo, l’Ufficiale di stato civile è naturalmente tenuto alla verifica dell’inesistenza di un vincolo derivante da una precedente unione civile fra persone dello stesso sesso, alla stessa stregua di quanto accade per la verifica dell’esistenza di un precedente vincolo matrimoniale17. Oggi però – sempre in ragione del riconoscimento della validità delle unioni same-sex fra cittadini italiani e della loro equiparazione all’unione civile regolata dalla legge n. 76
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Sebbene l’apparato del d.P.R. n. 396 del 3 novembre del 2000 sia stato novellato dal d. lgs. n. 5 del 2017, l’art. 51 è rimasto intatto. Sul d.P.R. 396/2000 cfr. amplius: S. Arena, Osservazioni sulle modalità per applicare praticamente l’art. 18 del nuovo Regolamento dello stato civile, in Stato civ., 2006, 83; A.M. Benedetti, Il nuovo regolamento di stato civile: le novità del d.P.R. 396/2000 in tema di matrimonio, in Familia, 2001, III, 643; F. Finocchiaro, Il nuovo ordinamento dello stato civile, la trascrizione delle sentenze straniere e delle sentenze ecclesiastiche, in Dir. eccl., 2001, 397. 15 L’omissione sopravvive anche alle modifiche apportate all’articolato del Regolamento del 2000 realizzate attraverso un recente decreto attuativo della legge n. 76 del 2016, ovvero dal d. lgs. del 19 gennaio 2017, n. 5 che, emanato ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76, e concepito proprio per l’adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, reca modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili. 16 D’altronde, già prima della novella, nella sentenza n. 15 marzo 2012, n. 4184, cit., la Suprema Corte evidenziava che all’ufficiale di stato civile fossero «attribuiti penetranti poteri di controllo (anche) sulla trascrivibilità degli atti di matrimonio celebrati all’estero». 17 Art. 51, comma 2, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. Ai sensi del successivo art. 59 è fatto obbligo all’Ufficiale di stato civile che rilevi l’esistenza di una causa di impedimento del matrimonio non dichiarata di darne notizia al procuratore della Repubblica.
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del 2016 – tale verifica non si limita più alla sole unioni civile contratte in Italia. In secondo luogo infatti, oltre a non poter più rifiutare di trascrivere nei registri dello stato civile italiano il matrimonio o l’unione costituite all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso18, l’ufficiale di stato civile è tenuto anche a riscontrarne l’inesistenza ai fini dell’art. 51, del d.p.r. n. 396/2000, tenuto conto del fatto che, superati molteplici problemi interpretativi risontrati sull’argomento, entrambi i vincoli possano ormai essere trascritti nei registri dello stato civile e pertanto debitamente verificati. Già nelle more dell’entrata in vigore dei decreti attuativi della legge Cirinnà, il d.p.c.m 23 luglio 2016 n. 144, che costituiva il Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile19, prevedeva che gli atti di matrimonio o di unione civile tra persone dello stesso sesso formati all’estero, dovessero essere tramessi dall’autorità consolare, ai sensi dell’articolo 17 del d.p.r. n. 396/2000, ai fini della trascrizione (art. 8)20. Oggi, poi, lo stesso d.p.r. n. 396/2000, così come modificato dal decreto delegato n. 5 del 2017, prevede che una copia dell’atto che certifichi il vincolo same-sex costituito oltralpe venga rimessa dagli interessati all’autorità consolare (art. 16) ai fini della trasmissione all’ufficiale dello stato civile del comune in cui gli sposi o le parti dell’unione civile risiedono ovvero agli ufficiali dei due diversi comuni in cui essi risiedano, qualora non abbiano stabilito una residenza comune, imponendo l’obbligo del doppio invio (art. 17). Alla stessa stregua del ragionamento sino ad ora seguito, devono dunque essere ampliati anche i compiti cui l’ufficiale dello stato civile è tenuto in materia di annotazioni degli atti di nullità o scioglimento del matrimonio o dell’unione civile, ai sensi dell’art. 49, lett. g), g-bis), g-ter), del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, come modificato dal d. lgs. 19 gennaio 2017, n. 5. Analogamente a quanto prima sostenuto anche questa norma deve quindi essere assoggettata ad una lettura combinata con gli artt. 32-bis e quinquies, l. n. 218/1995, così da investire l’ufficiale di stato civile, anche per le unioni estere, dei medesimi compiti cui è tenuto in caso di cessazione degli effetti civili, scioglimento o nullità del precedente ma-
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Circa la legittimazione dell’ufficiale dello stato civile a negare la trascrizione dell’atto ai richiedenti cfr. App. Roma, decreto 6 giugno 2006, in Fam. e dir., 2007, 166, e Trib. Latina, decreto 31 maggio 2005, in Fam. e dir., 2005, 411, con note di Schlesinger e di M. Bonini Baraldi. 19 L’art. 2 del decreto imponeva all’ufficiale di verificare, entro quindici giorni dalla presentazione della richiesta, l’esattezza delle dichiarazioni rese, attribuendogli il potere di acquisire d’ufficio eventuali documenti che ritesse necessari per provare l’inesistenza delle cause impeditive dell’unione o del matrimonio, potendo adottare ogni misura per il sollecito svolgimento dell’istruttoria e potendo chiedere la rettifica delle dichiarazioni erronee o incomplete, nonché l’esibizione di documenti. Le ulteriori disposizioni contenute nel decreto transitorio prevedevano poi che la trascrizione in Italia degli atti di matrimonio o di unione civile tra persone dello stesso sesso – delle quali almeno una di cittadinanza italiana – costituite di fronte alle autorità estere e la richiesta di trascrizione dovesse essere presentata all’Ufficio consolare italiano all’estero della circoscrizione di residenza. Ai sensi della Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, l’autorità consolare italiana poteva svolgere le funzioni di ufficiale dello stato civile in quanto queste non ostassero le leggi e i regolamenti dello Stato di accreditamento. In presenza di detti ostacoli la costituzione di unioni civili all’estero era preclusa. 20 Per un’analisi del regolamento all’indomani della sua entrata in vigore, cfr. Benedetti, Il nuovo regolamento di stato civile: le novità del d.P.R. 396/2000 in tema di matrimonio, cit., 653.
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trimonio o dell’unione civile contratti o costituiti in Italia di un matrimonio o di un’unione civile costituiti in Italia, per cui è necessario che le relative sentenze, le convenzioni di negoziazione assistita o gli accordi di soluzione consensuale di cessazione degli effetti civili e di scioglimento vengano annotati nei debiti registri21.
5. Segue: Gli effetti dell’equiparazione sull’azione di nullità del matrimonio o dell’unione civile successivi
Proprio perché, alla luce della nuova lettura degli artt. 86 c.c. e 1, co. 4, l. n. 76/2016, anche la costanza di un vincolo di coniugio o di unione civile precedentemente contratti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso costituisce impedimentum ligaminis di ordine pubblico che determina la nullità del matrimonio o dell’unione civile successivi, anche le norme che individuano i legittimati ad esperire l’azione di nullità del matrimonio o dell’unione civile devono essere lette attraverso le lenti degli art. 32-bis e quiniques, l. n. 218/1995. D’altronde, in perfetta rispondenza con la ratio legis della norma sostanziale e sempre operando al fine di un’equiparazione concreta tra il vincolo giuridico derivante dal matrimonio e quello conseguente all’unione civile, lo stesso art. 124 c.c., che nella sua vecchia formulazione, sotto la rubrica «Vincolo di precedente matrimonio», letteralmente legittimava sia il primo coniuge del supposto bigamo ad impugnare il matrimonio successivamente contratto in violazione dell’art. 86 c.c., quanto il secondo coniuge del supposto bigamo ad impugnare il primo matrimonio22, è stato novellato dall’art. 1, co. 33, l. n. 76/2016. Senza adoperare la tecnica dei rimandi, il legislatore del 2016 novella ha innestato direttamente il nuovo testo dell’articolo del Codice Civile. Di tal fatta, il nuovo art. 124 c.c., comma 1, prevede testualmente che «il coniuge può in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l’unione civile tra persone dello stesso sesso dell’altro coniuge», specificando poi che «se si oppone la nullità della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata».23. In linea generale, ancora una volta, l’equiparazione realizzata si sostanzia tanto nella
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Art. 49, lett. g), g-bis), g-ter), del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, modificato dal d. lgs. 19 gennaio 2017, n. 5. L’intendimento è comune in dottrina. La legittimazione attiva del primo e del secondo coniuge viene infatti autorevolmente sostenuta, ex multis, da: G. Giacobbe, Il matrimonio, in Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco, 3, Torino, 2011, 419; F. Finocchiaro, Del matrimonio, in Commentario Scialoja Branca, vol. 2, Bologna-Roma, 1993, 176; C.A. Jemolo, Il matrimonio, cit., 164; e N. Lipari, Il matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile. Libertà di stato, in Comm. Oppo, Cian, Trabucchi, 378. Contra, invece, cfr. F. Santosuosso, Il matrimonio, in Giur. Sist. Civ. e comm., Torino, 1989, 107, il quale esclude che il coniuge del secondo matrimonio possa proporre una siffatta impugnazione, ritenendo che la legittimazione che l’art. 124 c.c. riconosce al coniuge abbia carattere speciale rispetto alla legittimazione generale che deriva dagli artt. 86 e 117 c.c.. 23 La norma di carattere processuale trova eco nella seconda parte del comma 8 – «Se si oppone la nullità della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata» – cui si rinvia per la trattazione delle questioni connesse. 22
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tutela oggettiva del vincolo monogamico derivante o da un matrimonio o da un’unione civile fra persone dello stesso sesso, quanto nella tutela soggettiva del coniuge o, naturalmente, della parte dell’unione civile che versi nella medesima situazione24. Sebbene l’art. 124 c.c. infatti menzioni il solo “coniuge” come il soggetto legittimato attivamente ad agire, il legislatore speciale si è prodigato per garantire identiche tutele anche a chi sia unito civilmente col supposto bigamo. Specularmente alla disciplina codicistica dettata per l’azione di nullità del matrimonio contratto in violazione dell’art. 86 c.c.25, infatti, il comma il comma 8 della legge Cirinnà prevede che anche la parte dell’unione civile possa, in qualunque tempo, impugnare il matrimonio o l’unione civile dell’altra parte. Soffermandosi sulla portata generale della norma codicistica, pare evidente che questa resti comunque legata da un rapporto di stretta connessione all’art. 556 c.p.26 ed agli artt. 86 e 117 c.c., senza trascurare che, proprio con riferimento al coordinamento con art. 117 c.c., si avverta, però, una evidente distonia. L’effetto distorsivo, che emerge già dal fatto che l’intestazione della Sezione in cui è inserito l’art. 124, “Della nullità del matrimonio” – che nel progetto originario era “Delle cause di nullità del matrimonio”, poi variata giacché alcune disposizioni si riferiscono all’esercizio dell’azione di nullità27 – racchiuda in sé, disorganicamente, anche talune cause di annullabilità del negozio matrimoniale, come ad esempio quelle relative ai vizi del consenso o alla stessa incapacità d’agire dei nubendi28, viene poi amplificato dalla duplicazione delle forme di invalidità che toccano l’atto viziato da bigamia. Nel codice, infatti, gli artt. 124 e 117 prevedono, ad un sol tempo, rispettivamente la nullità e l’annullabilità del matrimonio contratto in violazione dell’obbligo della libertà di stato. La coesistenza dei due diversi tipi di rimedi rispetto all’atto del bigamo crea non poche difficoltà interpretative: mentre la nullità contemplata dall’art. 124 c.c. è una forma di invalidità imprescrittibile, insanabile e relativa sotto il profilo della legittimazione attiva all’azione che può essere esperita solo da chi veste i panni di coniuge del bigamo, l’annullabilità prevista dall’art. 117 c.c si sostanzia in una forma di invalidità soggetta a
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Per la discussione in merito alla ratio delle norme in parola si rinvia più in generale a: C.A. Jemolo, Il matrimonio, cit., 87; C. M. Bianca, Delle nullità del matrimonio, in Comm. Oppo, Cian, Trabucchi, Padova, 1992, 129; G. Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. CicuMessineo, V, 1, Milano, 2002, 306; E. Vitali, Il matrimonio civile, in Il diritto di famiglia, I, Famiglia e matrimonio, in Tratt. BoniliniCattaneo, cit., 134, mentre per la rilevanza della libertà di stato ai fini della tutela di interessi individuali e di interessi superiori si v. p 107 e ss.; P. Matera e G. Salito, Dei singoli impedimenti matrimoniali, in A.A. V.V., Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, Milano, 2011, 135. 25 Oltre a prevedere che la sussistenza di una delle cause impeditive di cui al comma 4 comporti la nullità dell’unione civile successiva, il comma 5 della l. 76 del 2016 prevede che all’unione civile tra persone dello stesso sesso si applichino gli articoli 65 e 68, e le disposizioni di cui agli articoli 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis c.c.. 26 Per gli aspetti relativi al collegamento con l’art. 556 c. si rimanda al paragrafo 2 del commento al comma precedente. 27 V. la Relazione introduttiva del Ministro Guardasigilli, n. 96, cit.. 28 La mancanza di una netta distinzione fra le cause di nullità e quelle di annullabilità del matrimonio, contrariamente a quanto il Codice ci ha abituati in materia di contratti, è tuttavia ascrivibile al fatto che l’esempio del diritto canonico e del diritto francese cui il legislatore del 1942 si sia rifatto contemplino la sola categoria della nullità.
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prescrizione29, sanabile ed assoluta nella parte in cui abilita ad agire entrambi coniugi, gli ascendenti prossimi, il pubblico ministero e tutti coloro che abbiano un interesse legittimo e attuale all’impugnazione30. Naturalmente, sebbene quest’ultima norma non includa nel novero dei legittimati attivi la parte dell’unione civile con persona dello stesso sesso, è evidente che questa possa essere annoverata fra i soggetti portatori di un interesse legittimo ed attuale, in quanto animata alla rimozione di uno status coniugale che le cagiona un pregiudizio diretto, immediato e correlato ad interessi di natura familiare. D’altronde, la previsione del Codice civile è identicamente concepita anche per le unioni civili: la norma gemella dell’art. 117 c.c. è infatti il comma 6 della legge n. 76 del 2016, che consente che l’unione civile costituita in violazione di una delle cause impeditive di cui al comma 4, ovvero in violazione dell’articolo 68 del codice civile, possa essere impugnata da ciascuna delle parti dell’unione civile, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale. Di conseguenza, nell’intento di catalogare la patologia da cui sono affetti gli atti in parola in una delle due categorie tradizionali31, parte della dottrina ha dapprima letto tale invalidità come una particolare forma di annullabilità in ragione dell’impossibilità di definire nullo un negozio idoneo alla produzione di effetti anche solo temporanei quale quello in parola32, ritenendo talvolta che l’art. 124 c.c. si legasse all’art. 117 c.c. in base ad un rapporto di species ad genus, quasi il primo specificasse solo una delle plurime ipotesi contemplate nel secondo33. L’intendimento iniziale è stato tuttavia superato da chi ha trovato il discrimen fra nullità ed annullabilità nella possibilità di convalidare o meno l’atto34. Consentendo di desumere l’annullabilità delle unioni, matrimoniali e civili, suscettibili di convalida e la nullità di quelle afflitte da vizi insanabili, tale criterio ha infatti portato a dedurre chiaramente la nullità del matrimonio (e quindi oggi dell’unione civile) del bigamo, da cui derivano un vincolo ed un rapporto in netta antitesi coll’interesse pubblico. Tant’è che, ormai uniformemente, dottrina e giurisprudenza ritengono potersi legittima-
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In merito cfr. già Trib. Messina, 20 marzo 1973, in Dir. fam., 1973, 1075 e C. Gangi, Il matrimonio, Milano, 1953, 122. Per la definizione dell’interesse legittimo in giurisprudenza si veda invece, ex multis, Cass. 6 febbraio 1986, n. 720, in Foro it., 1987, 94. 31 L’utilità della riconduzione delle invalidità matrimoniali alle tradizionali categorie della nullità e dell’annullabilità è esclusa invece da G. Ferrando, L’invalidità del matrimonio, Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, 2011, 889; ed è di povera importanza per P. Rescigno, Manuale di diritto privato, Milano, 2000, 409. 32 Soffermandosi sulla produttività degli effetti del matrimonio o dell’unione civile contratti dal bigamo, si esprime in tal senso F. Santoro Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, 1945, oggi in Saggi di diritto civile, Napoli, 1961, I, 381 ss. 33 C.A. Jemolo, Il matrimonio, cit., 166; nello stesso senso E. Vitali, Il matrimonio civile, cit., 367. Ancor prima A. Bertola, Il matrimonio, in Trattato Grosso Santoro Passarelli, 1963, 196, riteneva invece che la previsione di cui al primo comma dell’art. 124 c.c. fosse una superfetazione, atteso il fatto che la figura del coniuge di “prime nozze” potesse essere già ricompresa nella categoria degli aventi un interesse legittimo ed attuale. 34 In questo senso C.M. Bianca, sub art. 117, cit., 278, al quale peraltro si deve la netta distinzione fra nullità del matrimonio viziato da bigamia, da impedimento di parentela non dispensabile, da delitto o dalla sopravvivenza del coniuge presunto morto e annullabilità del matrimonio affetto dai vizi residuali. 30
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re all’azione di nullità del matrimonio viziato da bigamia entrambi i coniugi, gli ascendenti prossimi, il pubblico ministero e tutti coloro che abbiano per impugnarlo un interesse legittimo e attuale e quindi la persona unita civilmente al bigamo del suo stesso sesso35. A ben vedere tuttavia, rispetto all’atto viziato da bigamia, anche qualora non si avvertisse la necessità di incardinare l’invalidità dell’atto in parola in una della due diverse categorie rimediali ed indipendentemente dal fatto che si proponga un’azione di nullità o di annullabilità, resta comunque ferma l’efficacia retroattiva della sentenza che accoglie la domanda36. Analogamente a quanto detto per l’art. 86 c.c., dunque, anche l’art. 124 c.c., in ragione del combinato disposto cogli artt. 32-bis e 32-quinquies, più volte richiamati, deve esse letto nel senso consenta anche al coniuge o alla parte unita civilmente all’estero con un concittadino italiano identica legittimazione attiva all’impugnazione in parola.
6. Conclusioni sulla funzione della novella: la sanatoria
delle situazioni pregresse.
Nonostante abbia ridotto la portata applicativa della delega di cui si è detto, l’intervento normativo del legislatore speciale del 2017 si è rivelato assai utile ai fini della risoluzione delle difficoltà interpretative cui prima si accennava, ovvero dei problemi relativi soprattutto alla discussa trascrivibilità dei matrimoni omosessuali contratti oltrefrontiera da cittadini italiani prima che la legge sulle unioni civili entrasse a far parte del nostro ordinamento. Tant’è che a ben vedere, sotto questo profilo d’indagine, la novella sembrerebbe adempiere alla funzione di “sanare” le situazioni pregresse, più che a quella di arginare i “nuovi” comportamenti che oggi catalogheremmo come condotte migratorie tipiche del c.d. System shopping, ma che, in buona sostanza, ripercorrono la stessa china delle elusioni registrate dalla pandettistica37. Guardando al futuro, in effetti, si ha motivo di credere che l’intento deterrente della norma potrebbe, per certi versi, essere mortificato. Sotto l’egida della legge Cirinnà, stante la possibilità di costituire unioni civili che attribuiscano effetti giuridici ai legami fra persone dello stesso sesso anche in Italia, è difficile pensare che il flusso migratorio degli italiani verso i Paesi del marriage equality continui ad essere scandito dai ritmi precedenti.
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Relativamente a tale filone interpretativo v. per tutte v. Cass. 29 gennaio 1979, n. 629, in Giust. civ. mass., 1979, 285. In merito alla retroazione degli effetti della sentenza anche nei confronti dei figli nati o concepiti in costanza del matrimonio invalido cfr. amplius C.M. Bianca, op. ult. cit., 263. 37 Riguardo a tali comportamenti, già U. Huber, nel suo De conflictu legum diversarum in diversis imperiis, 1684, §§ 22 ed 11, evidenziava come il matrimonio dovesse esser regolato giusta le leggi del Paese in cui fosse stato celebrato, all’infuori del caso in cui fosse stato contratto col fine fraudolento di eludere le leggi del Paese cui appartenessero i coniugi, come nel caso di matrimonio contratto all’estero da minorenni o soggetti incapaci a contrarre matrimonio secondo le leggi del proprio Stato. La soluzione opposta, sottolineava il giurista della scuola elegante romano-olandese – v. §§ 8 e 13 – avrebbe distrutto la nostra legislazione. 36
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Al contrario, volgendo gli occhi al passato, emerge prepotentemente la funzione di “sanatoria” cui assolve la novella. Sino all’entrata in vigore del decreto attuativo n. 7 del 2017, infatti, gli effetti giuridici delle molte unioni già costituite da cittadini italiani all’estero – che rappresentavano l’unico strumento che consentisse loro di attribuire una “veste giuridica” al rapporto omoaffettivo – rimanevano confinati ai soli ordinamenti degli Stati stranieri che le ammettevano, senza avere alcuna risultanza nei registri dello stato civile italiani e tanto meno in sede di pubblicazione38. Questo problema, di non poco conto, aveva già indotto gli interpreti a sollevare la necessità di un intervento legislativo, attese le difficoltà emerse nelle aule di merito e di legittimità italiane ed europee39. I giudici di Strasburgo, infatti, avevano già riscontrato nelle legislazioni interne di taluni Stati membri una discriminazione per orientamento sessuale nel diritto al rispetto della vita privata e familiare40 ed avevano evidenziato come il diritto al matrimonio non dovesse più essere limitato al solo matrimonio tra persone di sesso differente, rimettendo la definizione della questione alla legislazione nazionale dello Stato contraente41.
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L’orientamento dominante sino al precedente decennio riteneva il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, inesistente per l’ordinamento italiano, evidenziando come, allo stato dell’evoluzione della società italiana, il matrimonio tra persone dello stesso sesso dovesse ritenersi contrario all’ordine pubblico internazionale poiché confliggente con la storia, la tradizione, la cultura della comunità italiana, «secondo una valutazione recepita dal legislatore e trasfusa nelle norme di legge, sia di rango costituzionale sia ordinarie, di cui il giudice deve essere solo fedele interprete, indipendentemente dalle sue convinzioni personali, e che nessuna interpretazione evolutiva, pure ove fosse in sintonia con il comune sentire, potrebbe, oltre certi limiti, superare». Così testualmente T. Latina, decr. 31 maggio 2005, cit., 411. In dottrina cfr. inoltre M. Condinanzi, C. Amalfitano, La libera circolazione della “coppia” nel diritto comunitario, in Dir. Un. eur., Milano, 2008, n. 2, 402; F. Corbetta, Trascrizione del matrimonio tra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero e diritto internazionale privato, in Diritto immigrazione e cittadinanza, 2006, 32 ss.. 39 L. Mariotti, La tutela delle unioni omosessuali nel dialogo tra corti interne e Corte europea dei diritti umani in Giurisprudenza italiana, 2013, 330. A tal riguardo i giudici della Corte d’Appello di Roma, decreto 6 giugno 2006, avevano già avuto modo di precisare che «in carenza di una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni di tipo coniugale tra persone dello stesso sesso a livello europeo, non è consentita all’interprete alcuna anticipazione sulla base di una evoluzione della normativa esistente verso un nuovo assetto degli istituti interessati, evoluzione che non è allo stato rinvenibile nell’ordinamento nazionale, né perseguibile in via di interpretazione sistematica, analogica o estensiva delle norme di diritto interno, peraltro le uniche applicabili nella specie ai sensi dell’art. 27 della legge n. 218/95 e dell’art. 115 cod. civ., essendo i reclamanti entrambi cittadini italiani». 40 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 7 novembre 2013, caso Vallianatos e altri c. Grecia (ric. n. 29381/09, 32684/09), in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 703, annotata da P. Pirrone. La decisione, pronunciandosi in merito al ricorso sollevato da coppie omosessuali greche per la violazione dell’art. 8 in combinato con l’art. 14 della Convenzione, perché discriminate rispetto alle coppie eterosessuali nell’accesso alla disciplina sulle unioni civili introdotta nell’ordinamento greco dal 2008, condannava lo Stato greco al risarcimento dei danni a favore delle coppie ricorrenti. 41 Corte europea dei Diritti dell’Uomo, caso Schalk e Kopf c. Austria, del 24 giugno 2010, n. 30141/04, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 1337, annotata da M. Winkler, nella quale la Corte evidenziava come l’unione fra persone dello stesso sesso costituisse l’espressione di una relazione familiare sostanzialmente omogenea rispetto a quella sussistente tra individui di sesso opposto, caratterizzata dalla stessa capacità di impegnarsi in una relazione stabile e duratura che si rinviene nelle coppie eterosessuali, tanto da arrivare a parificare entrambe le coppie in una situazione di fatto affine nella sostanza, con riguardo alla necessità di tutela e di riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico nazionale. Nella specie, peraltro, la Corte riconosceva la legittimità del c.c. austriaco seppur non prevedesse l’equiparazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, rimettendone l’eventuale modifica alla discrezionalità, calibrata in ragione del «margine di apprezzamento», dei singoli Paesi. Si legge infatti nel par. 62 della decisione che «a tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l’opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società».
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Caduto, dunque, il postulato implicito della diversità di sesso dei coniugi quale requisito necessario dell’istituto matrimoniale nell’interpretazione forgiata dalla Corte europea dell’art. 12 della CEDU, in ambito nazionale, la stessa Consulta aveva testimoniato la necessità di edificare una tutela civile per le unioni omosessuali, ritrovando in quelle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. anche l’unione omosessuale, che fosse intesa quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, «cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri»42. In un clima interpretativo assai lontano dall’univocità, sulla base del nuovo contenuto ermeneuticamente emergente, anche i giudici di merito avevano cominciato a leggere con lenti diverse l’art. 12 CEDU, riconoscendo, ad esempio, al coniuge straniero di un cittadino italiano il diritto di soggiorno43. Quasi contemporaneamente, la Corte di Cassazione aveva ammesso una parziale apertura all’accoglimento di tali unioni anche nel nostro sistema di diritto, escludendo che la diversità di sesso dei nubendi dovesse ritenersi presupposto indispensabile e naturalistico del matrimonio44. Ciononostante tuttavia si ribadiva il diniego della trascrizione delle nozze omosessuali contratte nei Paesi Bassi da due cittadini laziali45. Diniego che però non trovava più ragion d’essere nella contrarietà all’ordine pubblico del matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso46, né quindi nella sua inesistenza47 o nella sua nullità48, ma solo nel
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C. Cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. e dir., 2010, 653. In merito cfr. amplius: M. Winkler, Le unioni same-sex straniere in Italia dopo la sentenza n. 138/2000 e 10: indicazioni per i giudici in Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, a cura di B. Pezzini, A. Lorenzetti, Napoli 2011, 297.; Corte cost., ord. 7 luglio 2010, n. 276, in Il civilista, 2010, 10, 17, e ord. 16 dicembre 2010, n. 4, in www.gadit.it. Già nel 2007, con la sentenza del 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Giur. cost., 2007, 5, 3475, peraltro, la medesima Corte aveva imposto l’adeguamento della giurisprudenza italiana alle norme della CEDU, così come interpretata dai Giudici europei. 43 Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012, in Dir. imm. citt., IV, 2011, 155. Il Tribunale legge infatti il termine “coniuge” attraverso le lenti dell’art. 9 della Carta di Nizza che stabilisce il diritto di sposarsi e costituire una famiglia nel pieno delle garanzie delle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. 44 P. Rescigno, Il matrimonio same sex al giudizio di tre Corti, in Corr. giuridico, 2012, 861; E. Bergamini, Riconoscimento ed effetti in Italia di un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero: la recente evoluzione della giurisprudenza italiana, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 461; e M. Winkler, F. Chiovini, Dopo la Consulta e la Corte di Strasburgo, anche la Cassazione riconosce i diritti delle coppie omosessuali in Giust. civ., 2012, 1707. 45 E. Calò, Sul matrimonio omosessuale un grand arrêt della Cassazione: come dovrà ora comportarsi il Notaio?, in Riv. not., 2012, 504. 46 Alla luce dell’accezione internazional-privatistica, l’ordine pubblico internazionale deve essere inteso quale «complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo». In questi termini Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2014, n. 24001., n. 19405 e Cass., 26 aprile 2013, n. 10070; Cass., 6 dicembre 2002, n. 17349 e Cass., 23 febbraio 2006, n. 4040, tutte in www.diritto24. ilsole24ore.com. 47 Precorrendo i tempi, la Cassazione si allontana dalla categoria dell’inesistenza dell’atto che oggi risulterebbe anacronistica: se la patologia dell’inesistenza viene infatti autorevolmente riferita a fattispecie o “situazioni estreme” che non rispondono neanche astrattamente all’idea di matrimonio riconoscibile nell’ambiente sociale delle parti (C. M. Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 166; e negli stessi termini M. Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 67), atteso il suo riconoscimento sociale (per certi versi prima ancora che giuridico), oggi più che mai non avrebbe avuto senso parlare del matrimonio omosessuale contratto all’estero come di un matrimonio inesistente. 48 In questo senso C.A. Jemolo, Il matrimonio, cit., 45: «Ora, potrà offendere il senso dei più, sempre influenzato, in questa materia,
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fatto che si trattasse di unioni non riconosciute perché non ancora previste e dunque, per ciò solo, improduttive di effetti49. Tale intendimento però veniva superato dai giudici amministrativi che, escludevano che il matrimonio omosessuale celebrato all’estero potesse dirsi privo di efficacia, perché comunque produttivo di effetti nel Paese di celebrazione50, tanto da ribadirne, più volte, la trascrivibilità51. Le decisioni assunte in primo grado venivano tuttavia riformate dal Consiglio di Stato che, al fine di ricondurre ad unità le posizioni registrate, prescindendo dalla catalogazione squisitamente dogmatica del vizio che affligge il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso, ne negava comunque la trascrivibilità perché «che si tratti di atto radicalmente invalido (cioè nullo) o inesistente (che appare, tuttavia, la classificazione più appropriata, vertendosi in una situazione di un atto mancante di un elemento essenziale della sua stessa giuridica esistenza), il matrimonio omosessuale deve, infatti, intendersi incapace, nel vigente sistema di regole, di costituire tra le parti lo status giuridico proprio
da ricordi giusnaturalistici, più o meno precisi, il chiamare invalido anziché inesistente il matrimonio tra due persone dello stesso sesso (sebbene altrettanto dovrebbe offendere il sentir dire invalido e non inesistente il matrimonio tra padre e figlia, che secondo l’insegnamento cattolico osta al diritto naturale, o quello tra due persone già legate da altro vincolo matrimoniale o quello tra bambini); ma se si prescinde da queste impressioni, occorre riconoscere che si versa in un caso in cui il negozio formativo c’è stato, e nei suoi elementi formali è stato perfetto, mentre ciò che è mancato è la capacità delle parti, nei loro reciproci rapporti. Questa mancanza di capacità, se si prescinde da impressioni sentimentali e da rimembranze giusnaturalistiche, non mi pare diversa di fronte al diritto da quella propria del caso che contraessero matrimonio padre e figlia o due persone già legate da precedente vincolo». 49 Cfr. Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, cit. Appartengono al medesimo filone inoltre: Cass., 21 aprile 2015, n. 8907, in www.diritto24. ilsole24ore.com, che ribadiva come il matrimonio contratto all’estero fra due cittadini italiani dello stesso sesso fosse riconoscibile solo per la legge dello Stato di celebrazione; e poi Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, in Corr. Giur., 2015, 909, in cui ancora si legge che: «I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia –, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata». Rientrano nel medesimo filone di merito inoltre: Trib. Pesaro, decreto 14 ottobre 2014; Trib. Milano, decreto 2 luglio 2014 e decreto 17 luglio 2014, tutte in www.diritto24.ilsole24ore.com. 50 T.A.R. Grosseto, decreto 9 aprile 2014 e decreto 26 febbraio 2015, in Dir. civ. cont., 10 luglio 2014, annotati da A.M. Benedetti, Giurisprudenza creativa o illusoria? Prima riflessione su Tribunale di Grosseto: a proposito di matrimonio omosessuale celebrato all’estero. Sul punto si v. anche Trib. Treviso, 19 maggio 2010, in Dir. fam., 2011, 1239, con nota di M. Winkler, Ancora sul rifiuto di trascrizione in Italia di same-sex marriage straniero: l’ennesima occasione mancata, che sottolinea come «il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è inesistente per l’ordinamento italiano; una volta assodata la non qualificabilità della fattispecie, non è necessario accertare la contrarietà del matrimonio omosessuale al nostro ordine pubblico, che, comunque, presuppone che l’atto straniero da trascrivere sia compreso nella categoria degli atti esteri trascrivibili nei registri anagrafici italiani secondo la disciplina che li regola». 51 Cfr. T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 21 maggio 2015, n. 228 e T.A.R. Lazio, 9 marzo 2015, n. 05924, sempre in www.diritto24.ilsole24ore. com, riguardo al caso dell’annullamento da parte del Prefetto – avutosi sulla base della circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 – della trascrizione nei registri italiani di sedici matrimoni omosessuali celebrati all’estero, avvenuta per autorizzazione del Sindaco di Roma (analogamente a quanto già fatto dai Sindaci di Bologna e di Milano). Negli stessi termini si esprimevano anche i giudici di merito. Si legge infatti in App. Napoli, 13 marzo 2015, che nell’ipotesi di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, entrambe cittadine di un Paese che ammette il matrimonio tra persone dello stesso sesso (nella specie, la Francia), posto che lo stesso deve ritenersi esistente anche per l’ordinamento giuridico italiano, si deve dare luogo all’applicazione della legge nazionale di ciascun nubendo e si impone per conseguenza la sua trascrizione nei registri dello Stato civile, attesa la sua non contrarietà all’ordine pubblico internazionale».
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delle persone coniugate (con i diritti e gli obblighi connessi) proprio in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio. Così riscontrata l’inattitudine del matrimonio omosessuale contratto all’estero da cittadini italiani di produrre qualsivoglia effetto giuridico in Italia, occorre esaminare il regime positivo della sua trascrivibilità negli atti dello stato civile»52. A fronte dell’arresto dell’inziale slancio giurisprudenziale, l’avvento della novella ha dunque sanato tutte quelle situazioni pregresse che vagavano nel limbo dell’intrascrivibilità, fra inesistenza e inidoneità alla produzione degli effetti, e che lasciavano aperto, fra gli altri, il grave problema dell’ambiguità dello stato civile delle persone che le avessero costituite oltralpe. Per altro verso, infine, vale la pena rilevare che l’intervento legislativo in parola abbia definitivamente consacrato la neutralità dell’istituto del matrimonio rispetto al sesso dei nubendi, spalancando, così, le porte ai contestati e ormai nuovi filoni giurisprudenziali. Basti pensare, ad esempio, alle pronunce con le quali i giudici della Suprema Corte hanno negato la necessità del cambio di sesso del nubendo transessuale53.
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Consiglio di Stato, 26 ottobre 2016, n. 4899 annotata da G. Gargano, A chi spetta “l’ultima parola” sull’illegittima trascrizione dei matrimoni tra omosessuali celebrati all’estero?, in www.federalismi.it.. 53 A tal riguardo, si tenga presente che l’art. 1, co. 27 della legge sulle unioni civili, prevede espressamente che alla rettifica anagrafica del sesso, qualora i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, fa seguito l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
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Michela Labriola
La filiazione omogenitoriale* Sommario : 1. La stepchild adoption. – 2. Il diritto del minore ad una famiglia: l’adozione in casi particolari. – 3. I casi giurisprudenziali. – 4. La «constatata impossibilità» dell’affidamento preadottivo e l’«assenza dello stato di abbandono» ai sensi dell’art. 44, comma 1°, lett. d) l. n.184/1983. – 5. La trascrizione del certificato di nascita registrato all’estero ed il riconoscimento con effetti legittimanti dell’adozione pronunciata all’estero. – 6. «Il genitore sociale» e l’affidamento etero familiare.
This article analyses the evolution of the Italian law and jurisprudence about same-sex parenting in a comparative perspective. The article highlights issues related to the recently approved piece of Italian legislation (L.76/2016) ruling about civil and common law partnerships. In particular it highlights critical issues stemming from the interpretation and application in Italy of a patchy body of norms. As a result the jurisprudence had to adapt domestic and international legal principles in order to overcome any referencing to the parents’ sexual orientation and gender identity. By conforming to transnational judicial rulings, Italian jurisprudence attempts to overcome adjudicating asymmetrical ward. The judges apply the constitutional principle of equality taking into account a rigorous analysis of the social context.
1. La stepchild adoption Sono ormai presenti, nella nostra realtà, situazioni all’interno delle quali il termine genitore non combacia necessariamente con il colui/lei che ha concepito il figlio, ma anche con chi si atteggia in realtà come madre/padre di un minore convivente. L’espressione anglosassone stepchild adoption, letteralmente adozione del secondo genitore o adozione del figlio del partner, è l’istituto che tende a legalizzare, in un consolidato contesto familiare di fatto e per uno dei suoi componenti, la relazione con i figli.
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Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Con l’entrata in vigore della l.21 maggio 2016 n.761, nell’attuale art.1 comma 20, permane, attraverso un esplicito riferimento alle norme applicabili ad ognuna delle parti dell’unione civile – pur escludendosi le disposizioni di cui alla l. n. 184/1983 – «[…] quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti». È, quindi, legittimo ritenere che la materia consentita sia solo quella prevista dal cod.civ. in tema di adozione del figlio maggiorenne. Sembra, pertanto, che la nuova previsione normativa, con un colpo di spugna, abbia precluso ogni percorso possibile verso la legalizzazione dei rapporti di filiazione nelle convivenze omosessuali. Tuttavia, una diversa lettura del comma 20 porterebbe a ritenere che essendo applicabili le tutele individuate in favore delle unioni civili alle disposizioni relative al matrimonio e contenenti le parole «coniugi e coniuge» inserite nelle disposizioni di legge richiamate espressamente, quelle non richiamate («nonché le disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983 n.184») potranno essere applicate, poiché non escluse, qualora non compaiano i termini «matrimonio e coniugi/e» (come, ad esempio, nell’art.44 comma 1° lett.d), ovvero qualora una coppia same sex abbia scelto di non formalizzare l’unione2. Tra l’altro, sino all’approvazione della l. n. 76/2016, la giurisprudenza3 aveva già individuato, attraverso l’utilizzo dell’art. 44, comma 1°, lett. d) l. n.184/1983, la possibilità di adottare il figlio del convivente eterosessuale o omosessuale in presenza del presupposto dell’impossibilità dell’affidamento preadottivo ed in assenza di uno stato di abbandono4. Inoltre, diversi provvedimenti hanno già consentito la trascrizione, nello Stato italiano, dei certificati di nascita registrati all’estero o la delibazione delle sentenze di adozione da parte di coppie omogenere ottenute all’estero. La sollecitazione all’avvio di una legislazione nazionale relativa alle unioni same sex ed al riconoscimento dei doveri/diritti omoparentali perviene dalla giurisprudenza europea e dalla normativa transnazionale. Ormai si è in presenza di un ruolo decisivo della Corte di Giustizia, quale ineludibile fonte di produzione del diritto interno, che «riproduce sul
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Rubricata «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», in Gazz.Uff., 21 maggio 2016 n.118, L. Guaglione, La nuova legge sulle unioni civili, Molfetta (Ba), 2016; Aa.Vv. Le unioni civili e convivenze giuda commentata alla legge n.76/2016, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2016; G. Dosi, La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze. Commento alla legge 20 maggio 2016 n.76, al d.p.c.m. 23 luglio 2016 n.144 e al d.m. 28 luglio 2016, Milano, 2016. B. Poliseno, Stepchild adoption, al centro del dibattito tra diritti e legittimità, in Guida al diritto, 2016, n. 9, 15 ss. App. sez. min., Firenze, sent. 4 ottobre 2012, n. 1274, G. Miotto, Stepchild adoption omoparentale ed interesse del minore, in Dir.civ. cont., 5 giugno 2015; S. Stefanelli, Adozione del figlio del partner nell’unione civile, in GenIus, www.art.29.it; A. Gorgoni, La filiazione oltre la genitorialità biologica, in Le Corti Fiorentine, Rivista di diritto e procedura civile, a cura della Camera Civile di Firenze, n.1/2016, 55 ss. Per una più approfondita analisi sul concetto dello stato di abbandono e sui presupposti degli elementi “seri e gravissimi” v. anche Cass. civ., sez. I, 13 gennaio 2017, n. 782, in Guida al diritto, 2017, 11, 65, la Suprema Corte, nella specie, ha osservato come la condizione di abbandono fosse stata affermata nonostante la stessa corte territoriale avesse dato atto della volontà dei nonni materni di occuparsi del minore, ancorché l’inidoneità della rete parentale si palesasse ancorata a rilievi apodittici. Soprattutto l’inidoneità genitoriale della madre - evidenziava la S.C. - era stata affermata in base a un giudizio sommario, essenzialmente facente leva sulla evidenziata condizione di fragilità personale e di non meglio esplicitata freddezza rispetto al figlio. Tale condizione era stata, peraltro, desunta dalla stessa Ctu eseguita in primo grado che pure aveva concluso per il necessario mantenimento del legame con i membri della famiglia allargata. V. anche Cass. civ., sez. I, 21/11/2016, n. 23635, in Diritto & Giustizia, 2016, con nota di F. Volpe, Cass. civ., sez. I, 30 giugno 2016, n. 13433, n. 13435, in Ilfamiliarista.it, 2016; Cass. civ., sez. I, 14 aprile 2016, n. 7391.
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continente un messaggio un tempo esclusivo del common law»5. Il noto caso, discusso a Strasburgo presso The European Court of Human Rights nel luglio 2015, Oliari and Others Vs Italia6, vanta il merito di aver imposto al nostro Paese un percorso di adeguamento a quei principî comunitari che riguardano la tutela dei diritti fondamentali delle donne e degli uomini che possono, altresì, trasversalmente influenzare la normativa interna di ciascun Stato membro. Sul contiguo aspetto del riconoscimento di una genitorialità non pregiudicata dalla discriminazione sessuale, non va sottaciuto come la Corte EDU7 abbia già precisato che gli Stati membri, seppur liberi di estendere o meno la disciplina della CEDU in materia di adozione dei minori8 alle unioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso o stabilmente legate da un accordo, non debbano però differenziare le coppie. La Corte aveva già marcatamente espresso in passato la necessità, nel principale interesse del minore, di un percorso contro le disparità fondate sul pregiudizio omofobo. In assenza di un common ground tra gli Stati rispetto a questioni moralmente o eticamente sensibili, il margine di apprezzamento spettante alle nazioni è ampio, ma si riduce progressivamente quando entra in gioco la discriminazione fondata su ragioni di orientamento sessuale9. I giudici di Strasburgo, in particolare, hanno chiarito come la condizione di fatto di una stabile convivenza di coppia, in cui viva il figlio di uno dei due partner ed alla cui cura provvedano entrambi, debba essere garantita dal principio di autodeterminazione dell’individuo e dalla tutela apportata dall’art. 8 della CEDU10. In riferimento al provvedimento
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N. Lipari, La giurisprudenza fonte del diritto, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 29. Corte EDU, ric. nn. 18766/11 e 36030/11, sent. 21 luglio 2015, Oliari and Others c. Italia. M. Winkler, Lo statuto giuridico delle coppie omosessuali (di nuovo) dinanzi la Corte di Strasburgo. Il caso Oliari e altri c. Italia, in SIDIBlog del 27 luglio 2015; M. Castellaneta, Il mancato riconoscimento ad avere una relazione stabile con persone dello stesso sesso viola la Convenzione europea (nota a Corte europea diritti dell’uomo, sez. IV, 21 luglio 2015 ricorsi n. 18766/11 e 36030/11), in Guida al diritto, 2015, 110. 7 «Sussiste una violazione dell’art. 8 CEDU, sul diritto al rispetto della vita familiare, in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, sul divieto di discriminazione, nei confronti di una legislazione nazionale che impedisca ad uno dei soggetti di una coppia omosessuale l’adozione del figlio del proprio compagno convivente, al pari di quanto, viceversa, riconosciuto per legge ad una coppia di fatto eterosessuale», Corte EDU, sez. grande chambre 19 febbraio 2013 n. 19010, X e altri c. Austria, nota di R. Rossi, Second-parent adoption e omogenitorialità, in Europa e Diritto Privato, 2014, 271; M. Catanzariti, I diritti su misura: la Corte Europea di Strasburgo e i minori, in Sociologia del diritto, 2012, 97 ss. 8 È importante sottolineare come non sia mai stata né sottoscritta né ratificata dall’Italia la Convenzione europea sull’adozione dei minori del 2011. «L’obiettivo della Convenzione è di prendere in considerazione le evoluzioni della società e del diritto, nel rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e sottolineando che l’interesse superiore del bambino deve prevalere su qualsiasi altra considerazione. Le nuove disposizioni introdotte dalla Convenzione sono le seguenti: (…) La Convenzione estende la possibilità di adozione a coppie eterosessuali non sposate, se registrate presso un registro delle unioni civili negli Stati che riconoscono tale istituzione. Lascia inoltre agli Stati la libertà di estendere la portata della Convenzione e di consentire l’adozione a coppie omosessuali e dello stesso sesso che vivono insieme nel quadro di una convivenza stabile. (…)»; 9 R. Conti, La CEDU, l’adozione e le coppie dello stesso sesso, Pensieri sparsi, a prima lettura, su una sentenza della Corte dei diritti umani in tema di adozione e coppie dello stesso sesso e sull’efficacia delle sentenze di Strasburgo–GC, in Questione Giustizia Rivista trimestrale, 4/15. 10 La CEDU, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953, l’art.8 recita: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui», v.anche Corte EDU, sez. Grande Chambre, 6 ottobre 2005, n. 1513, Draon C. Francia, in Diritti dell’uomo e libertà fondamentali 2007, 1082; Corte EDU, sez. Grande Chambre, 9 ottobre 2003, n. 48321, Slivenko C. Lettonia, in 6
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succitato, l’Austria11 aveva approvato una legge che vietava l’adozione del minore da parte delle coppie omosessuali, partendo dal dato aprioristico dell’orientamento sessuale dei genitori. Tale normativa impediva ogni ulteriore valutazione fattuale a tutela della prole. La strada indicata dalla giurisprudenza comunitaria è quella di elidere, in radice, gli effetti discriminatori che possano derivare da una differenza di tutela fra coppie eterosessuali ed omosessuali, sempre in ragione del best interest of the child12. La conseguenza del non riconoscere, in ragione dell’orientamento sessuale dei genitori, un legame che possa rappresentare un quid pluris per la migliore crescita psicofisica dei figli, è la contrarietà giuridica alle norme della CEDU (artt. 8 e 14) e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Carta di Nizza artt.7 e 21). Si palesa, pertanto, importante stabilire una possibile mediazione tra l’interesse dello Stato a preservare se stesso da scelte normative, non sempre accettate dalla maggioranza della collettività, ed il diritto del minore ad una famiglia13. Sul fronte delle attuali relazioni di coppia e delle c.d. «nuove famiglie», non si può disconoscere come le sentenze della Corte EDU abbiano solo accelerato quel processo italiano di adeguamento legislativo a principî, comunque già ricordati in precedenza dalla nostra C.Cost., in base ai quali la Repubblica deve garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità14. La comunità familiare, qualunque essa sia, riveste un ruolo importante nella vita di ciascuno. Per famiglia di fatto15 deve intendersi quella aggregazione di «genere familiare» non fondata sul matrimonio, ma caratterizzata dalla convivenza dei suoi membri, dall’esistenza di vincoli di solidarietà reciproca, da un certo grado di stabilità e, in presenza di figli, dal loro riconoscimento con allevamento, istruzione ed educazione da parte dei genitori16. Gli studi dottrinari condotti già all’indomani della riforma del 1975 sul diritto di famiglia,
Diritti dell’uomo e libertà fondamentali 2007, 696; Corte EDU, Sent. gennaio 2014 (ricorso n. 33773/11) , Zlwu c. Italia; Corte EDU, sentenza 7 gennaio 2014 (ricorso n. 77/07), Cusan e Fazzo c. Italia, Relazione sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei confronti dello Stato italiano, (Anno 2014), in www.camera.it. 11 L. Conte, Il caso X e altri c. Austria: l’adozione del figlio del proprio partner omosessuale, in Quaderni costituzionali, 2013, 462 ss. 12 E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016 13 Corte EDU, 22 febbraio 2008, nota di A. Donati, Omosessualità e procedimento di adozione in una recente sentenza della Corte di Strasburgo, in Dir. Fam., 2008, 1090. 14 «In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», C. Cost., 15 aprile 2010, n.138, v. anche C. Cost., 11 febbraio 2015, n. 10; C. Cost., 19 novembre 2015, n. 236; C. Cost., 17 marzo 2015, n. 37; R. Romboli, Il diritto «consentito» al matrimonio ed il diritto «garantito» alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice «troppo» e «troppo poco», in Giurisprudenza Costituzionale, 2010, 1629; B. Pezzini, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sent. n.138 del 2010 della Corte costituzionale. in Giur.Cost., 2010, 2715 15 S. Rossi, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in www.forumcostituzionale.it 16 La Risoluzione del Parlamento europeo sulla parità tra uomini e donne nell’Ue (del 13 marzo 2012, punto T), «Considerando che le famiglie nell’Ue sono diverse e comprendono genitori coniugati, non coniugati e in coppia stabile, genitori di sesso diverso e dello stesso sesso, genitori singoli e genitori adottivi che meritano eguale protezione nell’ambito della legislazione nazionale e dell’Unione europea, […] invita (n.d.a. la Commissione) e gli Stati membri a elaborare proposte per il riconoscimento reciproco delle unioni civili e delle famiglie omosessuali a livello europeo tra i paesi in cui già vige una legislazione in materia, al fine di garantire un trattamento equo per quanto concerne il lavoro, la libera circolazione, l’imposizione fiscale e la previdenza sociale, la protezione dei redditi dei nuclei familiari e la tutela dei bambini».
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plaudivano alla equiparazione tra i figli «legittimi» e «naturali», fornendo una prima, ma decisiva, riflessione sui principî di tutela delle diversità e sul superamento dello stigma sulle differenze tra i componenti delle famiglie.17
2. Il diritto del minore ad una famiglia: l’adozione in casi particolari
«Il diritto non è mai una nuvola che galleggia sopra un paesaggio storico»18. L’esigenza di formalità «pubblicistiche» da parte delle coppie same sex, quali la celebrazione del matrimonio, indubbiamente si intreccia al desiderio di genitorialità. Per comprendere la rilevanza del riconoscimento del vincolo legale si pensi sia all’assunzione di responsabilità da parte del c.d. «genitore sociale» non biologico, sia alla risoluzione delle questioni derivanti dall’adozione, dall’affidamento familiare e dalla pratica della fecondazione medicalmente assistita. Non va sottovalutato, inoltre, il rilievo privato e pubblico che emergerebbe da una legislazione sul matrimonio omosessuale con riferimento alla cittadinanza del minore (figlio di un genitore sociale di diversa nazionalità già adottato all’estero), ai diritti successori, ai rapporti con la p.a. ma, anche, alla tutela nel caso di allontanamento, alla decadenza della responsabilità o al decesso del genitore «biologico» in assenza di altra figura genitoriale. Volgendo uno sguardo iniziale, non esaustivo, ai caratteri generali della legislazione minorile italiana è pertinente rammentare l’asse portante cui si ispira l’art.1 della l. 184/198319 che, al comma 5, sancisce che «il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia, è assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i principî fondamentali dell’ordinamento20». Le simmetrie che emergono dalla lettura degli artt.14 CEDU21 e 1° comma 5 l.184/1983, aiutano l’interprete nel difficile compito di superare le barriere imposte da un rapporto dicotomico tra ordine pubblico
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A. Galizia Danovi, Affidamento, potestà e conflitti nella famiglia di fatto, in Dir. fam. pers., 1989, 780. P.Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, 2011, 43. 19 G. Manera, L’adozione e l’affidamento familiare nella dottrina e nella giurisprudenza, Milano, 2004-2012; Aa. Vv., L’affidamento familiare. Contributi per lo sviluppo dei servizi sociali, Roma, 1974; Aa. Va., Adozione ed affidamento. Proposte per l’attuazione della nuova legge, Torino, 1984; Aa.Vv., Famiglia, tutela dell’infanzia e problematiche dell’affido, Milano, 1984; M. BARBARITO, Adozione e affidamento. Contenuti, limiti, interferenze, dalla dottrina alla giurisprudenza di alcuni tribunali d’Italia, Milano, 1990; Barbero Avanzini, Giustizia minorile e servizi sociali, Milano, 1997; Giurisprudenza del diritto di famiglia. III. La filiazione, a cura di M. Bessone, M..Dogliotti, G. Ferrando,Milano, 1996. 20 C.M. Bianca, Dove va il diritto di famiglia?, in Familia, 2001 21 «Divieto di discriminazione. Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione». 18
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interno ed ordine pubblico internazionale22, non essendo più possibile comprimere gli interessi del minore in quanto, soprattutto nel caso delle famiglie omogenere, il dato giuridico dell’eventuale inserimento del figlio nel nucleo già formatosi è posteriore al dato fattuale23. Ciò sollecita un’indagine sulla natura del legame giuridico ed anche relazionale tra i componenti di questa «nuova» famiglia ed il bambino. Preliminarmente va evidenziato come la nostra Cost. (art. 30 commi 1° e 2°) esorti i genitori a tutelare i figli – col mantenimento del legame familiare – e, solo «nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti». Nel contempo, il medesimo articolo conferisce eguali tutele ai figli nati dentro e fuori del matrimonio e, si presume, attribuisca garanzie giuridiche anche alla prole già convivente con una coppia omosessuale. La l.184/1983 privilegia la crescita del minore nella famiglia, qualsiasi essa sia. Nella gamma di priorità, sempre nell’interesse del minore, al primo posto si colloca l’istituto dell’affidamento familiare24. Un’ipotesi particolare è quella relativa all’affidamento eterofamiliare25 concesso ad una coppia omosessuale ritenuta idonea a svolgere il ruolo di aiuto alla genitorialità. L’intervento recente della giurisprudenza ha esteso tali affidamenti anche a coppie omosessuali. Il caso affrontato dal Trib. min. Bologna26 prende le mosse da una istanza di affidamento volontario, avanzata dagli operatori sociali su consenso dei genitori (art.4 l.184/1983). I
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R. De Felice, Diritto di famiglia ed ordine pubblico internazionale, in www.personaedanno.it, 29 ottobre 2006, secondo il quale, ferma l’inapplicabilità agli italiani, rebus sic stantibus, degli istituti contratti all’estero da coppie omogenere per l’inesistenza che l’ordinamento predica dei matrimoni in questione - con riferimento alle coppie straniere - l’Autorità Giudiziaria deve evitare l’errore di non riconoscere la validità di matrimoni, tali secondo la legge del paese di origine. 23 Famiglie Arcobaleno è una associazione indipendente nata nel marzo 2005 ed è composta da coppie o single omosessuali che hanno realizzato il proprio progetto di genitorialità, o che aspirano a farlo. Uomini o donne che hanno avuto i figli in una relazione eterosessuale e che, in seguito, scoprono o decidono di assumere la loro identità sessuale. Si trovano a fronteggiare problematiche analoghe a quelle delle coppie separate e delle famiglie ricomposte eterosessuali. Coppie omosessuali che desiderano un figlio e che pianificano la procreazione in coppia facendo ricorso alle tecniche di procreazione assistita all’estero, ad autoinseminazione con dono di gameti da parte di un amico, con surrogacy all’estero per le coppie di uomini e all’adozione, se cittadini o residenti di paesi che la permettono. Si confrontano con tematiche analoghe a quelle delle coppie eterosessuali sterili, ma a differenza di queste i loro figli non sono protetti dalla legge per ciò che non rientra nel legame biologico. Coppie o singoli omosessuali di sesso differente che fondano una famiglia insieme (genitorialità condivisa) e che organizzano il quotidiano come coppie eterosessuali separate, con affido congiunto. Singoli omosessuali che decidono, nei modi più vari, di diventare genitori. Si misurano con il vissuto dei genitori single. Le famiglie arcobaleno sono queste e molte altre, Famiglie fondate non sulla biologia, nemmeno sulla legge, purtroppo, ma sulla responsabilità assunta, l’impegno quotidiano, il rispetto, l’amore, in www.famigliearcobaleno.org. 24 E. Scabini, G.Rossi, Allargare lo spazio familiare: adozione e affido, Milano, 2014, XVII-299; R. Cassibba, L. Elia, L’affidamento familiare: dalla valutazione all’intervento, Roma, 2007. 25 E. Ceccarelli, L’affidamento eterofamiliare fra modello legislativo e realtà, in Minorigiustizia, 2006, n.1, 333-142 26 Trib. min. Bologna, decr. 31 ottobre 2013, secondo il quale «[…] in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza, costituisce mero pregiudizio la convinzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino, il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, soprattutto in relazione ad un istituto di carattere strettamente temporaneo come quello dell’affidamento consensuale». L’affido consensuale eterofamiliare di un minore può essere disposto anche nei riguardi di una coppia di fatto omosessuale, stabilmente convivente, trattandosi di una misura temporanea, non finalizzata all’adozione, una volta che si accerti in concreto l’idoneità degli affidatari a prendersi cura del minore, nella specie consenziente e vicino alla maggiore età. V. anche Trib. min. Palermo, 09/12/2013, nota di G. Casaburi, in Foro it. 2014, 1132; G.T. Parma, decr. 3 luglio 2013, con nota di F. Tommaseo, Sull’affidamento familiare di un minore a coppia omosessuale, in Persona e danno, 13 dicembre 2013; C. Rimini, L’affidamento familiare ad una coppia omosessuale: il diritto del minore ad una famiglia e la molteplicità dei modelli familiari; in Corr. giur. 2014, 155; E. Giacobbe, Adozione e affidamento familiare: ius conditum,“vivens”, condendum, in Dir.Fam. Pers., 2016, 237; F. Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento familiare, in Dir. Fam., 2011, 1375.
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servizi sociali chiedevano al giudice tutelare di autorizzare l’affidamento consensuale tra una madre ed una coppia di uomini legati sentimentalmente tra loro. Il giudice accoglieva la domanda. Il p.m.m. impugnava il provvedimento autorizzativo in quanto «non risultava acquisito e formalizzato il consenso del padre del minore, risultava incompleto e non sottoscritto il progetto quadro dell’equipe territoriale, non veniva previsto alcun mantenimento di rapporti con il padre né il complesso degli interventi posti in essere a sostegno della famiglia del minore, non risultava documentata la convivenza degli affidatari, non veniva documentato che gli affidatari costituivano una famiglia di fatto o una coppia con un minimo carattere di stabilità, né si comprendeva perché non fosse stata privilegiata una coppia con figli, perché la minore doveva essere allontanata dalla madre e dalla sorella o non potesse essere assistita dal padre o essere inserita in un asilo a tempo piano, per alleggerire la madre». Il reclamo del p.m.m., discusso innanzi al Trib.min. Bologna, veniva respinto con la conferma dell’affidamento alla coppia omosessuale. Il collegio minorile evidenziava come i servizi avessero fornito sufficienti argomentazioni per un programma che prevedesse il recupero del rapporto con la madre ed il rientro della minore in breve tempo presso la famiglia di origine. Si aggiunga come il tribunale conservi sempre un potere ex officio di decisione sull’affidamento temporaneo nell’interesse del minore, disponendone la permanenza anche presso singoli individui oppure presso coppie di fatto. Nel caso trattato, la bambina, comunque, mostrava di non fare confusione tra le figure di riferimento, chiamando zii gli affidatari ed i genitori papà e mamma. Per la scelta dei soggetti cui affidare il minore, temporaneamente privo di un ambiente familiare adatto (art. 2 l.184/1983), il giudice deve prediligere «[…] una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola […]» previa verifica della capacità di assicurare «[…] il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno […]». La dottrina, alla luce del principio del preminente interesse del minore, si è interrogata sulla preventiva necessità che l’interesse stesso preceda e determini la cerchia dei soggetti potenzialmente idonei all’affido ovvero se debba seguire a siffatta definizione, entrando in campo unicamente dopo che si sia stabilito quali siano tali soggetti27. Nel caso in cui, invece, vi sia impossibilità accertata ed assoluta di affidamento temporaneo ed il minore sia in stato di abbandono28, questi è dichiarato adottabile. L’istituto della adozione «piena o legittimante»29 ha, come presupposto indefettibile, il taglio definitivo del cordone ombelicale con la famiglia d’origine. In tale ipotesi, l’adottato assume la
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A. Ruggeri, Noterelle in tema di affido di minori a coppie di omosessuali, in www.giurcost.org, secondo il quale appare inappagante la motivazione del provvedimento di Bologna di affido sopra richiamato, non essendo chiara la ragione per cui non sia stata preferita la soluzione dell’affidamento a coppia coniugata e in forza di quali elementi la scelta sia piuttosto caduta sugli affidatari, in ispecie se e quali legami già si intrattenessero tra uno di essi o entrambi e la minore. 28 Cass. civ., sez. VI, 19/05/2016, n. 10366, in Diritto & Giustizia 2016, 20 maggio; Cass. civ., sez. I, 13 settembre 2016, n. 17945; K. Mascia, Sì all’adozione del minore se non si è in grado di offrirgli uno stabile progetto di vita, in Diritto & Giustizia, 2016, 9; J. Long, I confini dell’affidamento familiare e dell’adozione in Dir. Fam., 2007, 1432. 29 A. C. Moro e L. Fadiga, Manuale di diritto minorile, Bologna, 2008; L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, nel Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, Milano, seconda edizione 2012, vol. II, 821 ss.
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qualità di erede nella famiglia adottiva ed è esentato dell’obbligo alimentare nei confronti dei precedenti ascendenti, oltre a modificare, altresì, il proprio cognome. Non va trascurato di aggiungere come le norme sulla adozione c.d. «piena» con effetti legittimanti30 non contemplino le convivenze di fatto. Difatti, è condizione essenziale, per la richiesta di adozione, la circostanza che un uomo e una donna abbiano celebrato il matrimonio da almeno tre anni o, quanto meno, che vi sia stata una convivenza di pari periodo prima della celebrazione del matrimonio31. Quindi, da tale opportunità sono esclusi i conviventi eterosessuali, omosessuali ed i singoli32. Eccezione a tale modalità di adozione è quella c.d. «non legittimante o semi-piena» prevista in tutti quei casi ove non siano presenti le predette condizioni, rappresentando una adeguata risposta ad altri disagi33. In tale ipotesi per il minore permane un vincolo giuridico con la famiglia di origine – ove presente – e, sino alla introduzione della l. n.219/2012 (riforma della filiazione)34, egli non acquisiva alcun legame legale con i parenti degli adottanti. Sotto il profilo successorio si rileva che l’adottato acquista la natura di erede sia nei confronti dei genitori adottivi (è dubbio se sia, come in precedenza, non incluso nella successione dei parenti dell’adottante) sia nei confronti dei genitori biologici. Inoltre il genitore adottivo e la sua famiglia non vantano diritti successori nei confronti dell’adottato. Ad ogni buon conto, le restrizioni giuridiche dettate per questi «casi particolari» – allo stato non del tutto eliminate dalla vigente normativa – devono confrontarsi con le recenti evoluzioni in materia di filiazione35. Infatti, mentre l’adozione piena «è consentita a favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità» (art.7) «di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi» (art.8) e «per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome (…..)» con la conseguente cessazione dei «rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti
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Art. 6, l. n.149/2001; G. Manera, I requisiti soggettivi degli adottanti nell’adozione dei minori, in Dir. fam., 2003, 500. Art. 27, l. n.184/1983. 32 Cass. civ., sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3572, in Foro it. 2011, 728, «Le persone non coniugate non possono ottenere il riconoscimento in Italia del provvedimento di adozione di un minore pronunciato all’estero con gli effetti dell’adozione legittimante, ma solo con gli effetti dell’adozione in casi particolari». 33 In questa forma di adozione, disciplinata nell’art. 44 comma 1°, vengono contemplate le ipotesi in cui: (lett. a) il minore sia orfano di entrambi i genitori e può essere adottato da coloro che abbiano conservato un rapporto significativo con lui e/o siano parenti entro il sesto grado; (lett. b) il minore sia adottato dal coniuge dell’altro genitore, anche se figlio adottivo di questi; (lett. c, d) sia constatata l’impossibilità procedere ad un affidamento preadottivo (ad esempio: minore portatore di handicap ed orfano; rifiutato ma non abbandonato, perché già legato affettivamente ad altri soggetti adulti, anche single, che abbiano provveduto a garantirne accudimento e cura; in affidamento familiare presso singoli o anziani c.d. «irreversibile»; quando, pur dichiarato lo stato di abbandono, il minore non riesca ad essere inserito in una nuova famiglia perché ormai grandicello, per difficoltà caratteriali, per infermità; a tali vicende, si può aggiungere anche l’ipotesi in cui l’affidamento preadottivo abbia luogo, ma venga interrotto senza poi trovare altra coppia in grado di «corrispondere alle esigenze del minore» (art. 22, comma 5 l. 184/1983); quando la richiesta di adozione di un parente sia intervenuta dopo la dichiarazione di adottabilità e, più frequentemente, quando, l’adolescenza del minore, si scontri con il desiderio degli adulti di avere un figlio in tenera età). 34 A. Figone, La riforma della fliazione e della responsabilità genitoriale, Torino, 2014; S.A Galluzzo, La riforma della filiazione. Commento organico al D.Lgs.28 dicembre 2013 n.154, Roma, 2014 35 V. Barela, L’adozione all’indomani della legge n. 219/2012, in www.comparazionedirittocivile.it . 31
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matrimoniali» (art.27), nella fattispecie dell’adozione semi-piena (in casi particolari) l’art. 55 l. n.184/1983 richiama, tuttora, gli artt. 300 e 304 cod.civ. estendendo ai minori adottati la medesima disciplina prevista per l’adozione dei maggiori di età36. Come già accennato, l’introduzione della l. n.219/2012, convertita col D.lgs. n.154/2013, ha eliminato la distinzione lessicale e sostanziale tra «figli legittimi» e «figli naturali». Sino all’introduzione della riforma sulla filiazione, la diversità tra i minori adottati, quindi, aveva avuto una sua ratio. Attualmente il combinato disposto, degli artt.74 cod.civ. e 315 e 315 bis cod.civ., in base ai quali la parentela è il vincolo delle persone che discendono dallo stesso stipite anche per i minori adottati, benché non sorga (n.d.a. solo) nei casi di persone maggiori di età, e «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico […] ed hanno diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti», impone il superamento della precedente concezione di «figli adottivi diversi»37. Atteso che, in entrambe le forme di adozione, la strada maestra è sempre il preminente interesse del minore, il dubbio che possa permanere ancora un limite nella instaurazione di rapporti di parentela e successori con la famiglia del genitore adottivo, oltre al perdurare dell’obbligo alimentare in favore del proprio ascendente (eccezion fatta per la previsione di cui all’art. 448 bis cod.civ. perdita del diritto nei casi di decadenza della responsabilità genitoriale)38, fa emergere profili di incostituzionalità per contrasto con la previsione di cui all’art. 30 Cost., a meno di non ritenere superata, implicitamente, la disposizione dell’art.55 l. n.184/1983 nella parte in cui vengono richiamati gli artt. 300 e 304 cod.civ. La portata assolutamente innovativa di una riforma, auspicata da anni, che ha giuridicamente equiparato i figli, va plaudita soprattutto per la sua nuova formulazione terminologica, avendo avuto l’obiettivo di sollecitare una «responsabilità genitoriale», a tutela della prole tout court, senza distinzioni. Si è ritenuto, da più parti, che la struttura delle norme introdotte con il d.lgs. n.154/2013 abbia stabilito una netta demarcazione tra filiazione e matrimonio, nel senso che «il baricentro della famiglia si è spostato dal matrimonio alla filiazione»39. Pertanto, diviene pressante la sollecitazione del superamento di disparità normative nella disciplina della adozione, anche in ragione di una futura apertura – auspicata da taluno – verso l’applicabilità dell’istituto della adozione, con effetti legittimanti, alle coppie dello stesso sesso40. Il consolidamento affettivo,
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Art. 300 c.c. «L’adottato conserva tutti i diritti ed i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge. L’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato, né tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salvo le eccezioni stabilite dalla legge», art. 304 cod.civ. «L’adozione non attribuisce all’adottante alcun diritto di successione. I diritti dell’adottato nella successione dell’adottante sono regolati dalle norme contenute nel libro II»; P. Morozzo della Rocca, Il nuovo status di figlio e le adozioni in casi particolari, Opinioni Riforma della filiazione, in www.giur.uniroma3.it 37 M. Moretti, Le «uscite di sicurezza». L’adozione in casi particolari, in Manuale di diritto minorile. Alfredo Carlo Moro, a cura di Dossetti M., Moretti C., Moretti M., Vittorini Giuliano S., Bologna, 2014, 305 ss. 38 Per la prima volta la S.C. affronta la questione della equiparazione dei minori adottati con l’interessante provvedimento n.14878 del 15 giugno 2017, relatore dott. Dogliotti. 39 G. Ferrando, Stato unico di figlio e varietà dei modelli familiari, in Fam.Dir., 10/2015, p. 952. 40 G. Dosi, in Lessico di diritto di famiglia, voce L’adozione in casi particolari, aprile 2016, secondo cui «La riforma del 2012/2013 ha reso omogenea nell’ambito della nuova definizione di parentela l’adozione piena all’adozione in casi particolari, unificando di fatto lo status di tutti i figli minori ivi compresi quelli adottivi».
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la relazione particolarmente significativa con un soggetto capace di cure genitoriali, oltre ad una adeguata condizione psicofisica del minore, dovranno essere, quindi, sempre tra i criteri di ammissibilità della domanda di adozione. Ritornando all’esame della fattispecie della adozione in casi particolari, l’art. 44 l. n.184/1983 si presenta quale norma con carattere residuale e si basa essenzialmente sull’assenza delle condizioni previste dal comma 1° dell’art.7 della medesima legge, così come argomentato anche dalla C. Cost.41. Nel successivo paragrafo si esaminano alcune pronunce giurisprudenziali sulla adozione da parte del c.d. «genitore sociale» del figlio biologico del partner eterosessuale od omosessuale. I diversi provvedimenti hanno seguito la strada di una lettura adeguatrice alla normativa transnazionale, con particolare attenzione al rispetto degli artt. 2, 3 e 30 Cost. Nel nostro ordinamento, come già sottolineato, l’adozione «piena», al di fuori del rapporto di coniugio, è assolutamente inammissibile, ad eccezione della particolare ipotesi prevista dai commi 1 e 4 dell’art.6 l. n.149/2001 in base ai quali la convivenza prematrimoniale (tre anni) è considerata nel calcolo del periodo minimo per poter accedere alle pratiche di adozione.
3. I casi giurisprudenziali In Italia ultimamente si assiste, sempre più frequentemente, all’uso del precedente giurisprudenziale che si pone in aderenza a quel percorso tutto anglosassone proprio del common law, una sorta di giurisprudenza normativa42. Difatti, recentemente, i tribunali e le corti, in assenza di una normativa ad hoc, hanno aperto un varco verso l’ammissibilità dell’adozione per quelle coppie (conviventi omosessuali o eterosessuali) che siano portatrici di agiti esperienziali ormai consolidatisi di fatto. L’escamotage utilizzato – con l’applicazione dell’art. 44 comma 1° lett. d) l. n.184/1983 – dalle sentenze, tuttavia, lascia senza risposta la domanda di riconoscimento di una genitorialità «piena» nell’interesse del minore e del genitore «sociale» che abbia consapevolmente scelto di procedere, con la/il proprio compagna/o, alla costituzione di una famiglia talvolta, ma non solo, attraverso la pratica della procreazione medicalmente assistita (pma)43 e della gestazione surrogata per conto
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C. Cost., 30 settembre 1999, n.383. «Non è fondata – in riferimento agli art.3 e 30, c.2, cost. – la q.l.c. dell’art. 44, lett. a) e c), l.4 maggio 1983 n.184, sollevata sotto il profilo che tale norma – in quanto stabilisce che l’adozione da parte dei parenti entro il quarto grado non è consentita se non subordinatamente alla constatata impossibilità di affidamento preadottivo – potrebbe essere interpretata nel senso dell’impossibilità di far luogo all’adozione in casi particolari da parte di parenti che si prendano cura del minore», T. Montecchiari, Adozione “mite”: una forma diversa di adozione dei minori od un affido senza termine? Se un bambino vive nell’accettazione e nell’amicizia, impara a trovare l’amore nel mondo (Doret’s Law Nolte, I bambini imparano ciò che vivono), in Dir.Fam.Pers., 2013, 1581, secondo cui l’adozione mite è la soluzione per il superamento di zone “grigie” in cui versano i minori allontanati dalle famiglie ma per i quali trascorre molto tempo prima che sia accertato lo stato di abbandono. 42 Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2015 n. 25767, in Danno e resp., 2016, 352. 43 F. Astiggiano, La procreazione medicalmente assistita, in Fam. Dir., 2012, 420 ss.
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di altri (gpa). In risposta a tali quesiti sono già intervenute alcune pronunce che saranno analizzate nei paragrafi successivi. In presenza di una stabile coppia non coniugata, il Trib. min. Milano44 disponeva l’adozione di una minore, da parte del compagno convivente della madre. Il Collegio premetteva di potersi esimere da qualsiasi valutazione circa la libera ed insindacabile scelta della coppia di non voler contrarre matrimonio. Il giudice minorile, approfondendo attentamente l’esame del caso concreto nell’intento di valorizzare i legami affettivi di fatto creatisi, autorizzava l’adozione ai sensi della lett.d) dell’art.44 applicabile, altresì, nei casi di impossibilità di affidamento preadottivo, ai singoli o alle persone anziane, quale alternativa al collocamento in comunità o in case famiglia. I giudici non limitavano l’interpretazione della norma alle sole situazioni di fatto ma, anche, a quelle di diritto45. D’altra parte l’articolo (alla lett.d) prevede, quale unica condizione, l’impossibilità di affidamento preadottivo e non l’impossibilità di fatto dell’affidamento preadottivo di un minore in stato di abbandono46. In seguito, anche App. Firenze47 accoglieva l’istanza di adozione avanzata da parte di un uomo che aveva intrattenuto, sin dalla nascita, un rapporto di natura genitoriale con la bambina – già dodicenne – della propria compagna convivente, privilegiando, nei fatti, il forte legame creatosi tra «padre e figlia», seppur in assenza di rapporti di sangue. La Corte, partendo dal paradigma ermeneutico della analogia ad altri pronunciamenti, avvertiva l’esigenza di superare le discriminazioni all’interno dei rapporti di filiazione e, atteso che la scelta dei conviventi di non voler convolare a nozze, non dovesse avere ricadute di denegata tutela nei confronti della minore inconsapevole, ammetteva l’adozione della bambina riscontrando anche qui i presupposti dell’art. 44 comma 1°, lett. d)48. Non secondaria rilevanza aveva avuto la volontà della minore che, come previsto dal successivo art.45 l. n.184/1983, veniva raccolta attraverso l’ascolto. La norma prevede il consenso del minore ultraquattordicenne e l’ascolto di quello di età inferiore49. Va segnalato, comunque, un difforme orientamento giurisprudenziale sul punto50. In
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Trib. min. Milano, 28 marzo 2007, n. 626, in www.personaedanno.it; M. Cerato, M. Romeo, F. Turlon, La filiazione adottiva, La filiazione percorsi giurisprudenziali, Milano, 2010, 185. 45 Sulla impossibilità giuridica di un affidamento preadottivo perché manca lo stato di abbandono, v. anche Trib. min. Perugia, 16 settembre 2010; Trib. min. Bari, 7 maggio 2008; App. Bologna, sez. minori, 15 aprile 1989. 46 Adozione in casi particolari, a cura di G.Dosi , in Lessico di diritto di famiglia, Centro studi giuridici sulla persona, Servizi professionali riuniti, Roma, aprile 2016. 47 App. Firenze, sent. 4 ottobre 2012, n. 1274. 48 Cionondimeno, da parte di autorevole dottrina e di certa giurisprudenza (Trib.min.Milano, decr. 2 febbraio 2007), si sostiene che non sia pacificamente ammissibile l’adozione da parte del convivente more uxorio se non nell’ipotesi in cui il figlio sia orfano del partner con cui l’adottante abbia stabilito un rapporto stabile e duraturo. M. Dogliotti, Diritto del minore ad una famiglia, in Codice della famiglia. Artt.1-69, a cura di M. Sesta,Milano, 2015, 2123 ss. 49 Benché vi sia una recente adesione del nostro legislatore alla consolidata prassi internazionale sull’ascolto del minore ed il richiamo alle leggi di ratifica delle convenzioni che hanno permesso al nostro Paese di individuare modalità processuali di maggiore sensibilità nell’interesse del minore (Conv.New York 1989, rat. l. n.176/1991, e Conv. Strasburgo 1996, rat. l. n.77/2003, con cui si stabilisce che il diritto del fanciullo di esprimere liberamente la propria opinione su ciò che lo riguarda), lo strumento, introdotto della l. n.184/1983 e poi ampliato e ribadito dalla recente riforma sulla filiazione, non è mai stato del tutto estraneo al nostro ordinamento. 50 Trib. min. Milano, 20 ottobre 2016, n. 268, per cui il convivente more uxorio non può ottenere l’adozione “in casi particolari”, prevista dall’art. 44, l. n. 184/1983, del figlio della compagna, né con riferimento alla lettera b) (relativa al
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caso analogo il Trib. min. meneghino, rigettando la richiesta di adozione del minore da parte del convivente more uxorio del genitore biologico, asseriva che l’adozione, in quanto istituto che supera il dato biologico, richiedesse un modello giuridico di riferimento affinché si potesse definire la disciplina. Questo modello è identificabile con il matrimonio che integra un quadro normativo di maggiore tutela per il minore adottato. Risulta evidente, comunque, la ricaduta socioculturale di tali posizioni giurisprudenziali. Sulla scia di tali arresti, con tutta probabilità, è stata ampliata la possibilità di ammettere le adozioni nelle convivenze eterosessuali, ma sembra essersi chiuso (art.1 comma 20 l. n.76/2016), allo stato, l’ingresso alle coppie omosex. Per tale motivo il favor adoptionis della magistratura nei casi di minori cresciuti all’interno di convivenze eterosessuali ha incontrato, nelle istanze di coppie omosessuali, una strada più impervia a causa degli orientamenti sessuali dissomiglianti. Invero, tale difficoltà non si comprende alla luce del divieto di differenziare le tutele in base all’orientamento sessuale. Da parte di autorevoli sociologi è stata, inoltre, sollevata una questione di natura terminologica di non poco momento: non appare corretto parlare di «famiglia omosessuale», ma bisogna definire tale solo la «coppia». Non si considera, infatti, che il connotato del medesimo orientamento sessuale riguarda solo due persone che possono avere dei rapporti parentali allargati – nonni, genitori, zii, cugini, fratelli, nuovi coniugi dei genitori – così come per le coppie eterosessuali. «A prescindere dalla loro sessualità e dalle loro eventuali relazioni di coppia (n.d.a. le persone dello stesso sesso) hanno, quindi, famiglia dal punto di vista sia normativo (inclusi gli obblighi di solidarietà sanciti dalle legislazioni nazionali), sia relazionale. Questi rapporti, la loro qualità, lo statuto relazionale ed affettivo che ha la persona omosessuale al suo interno, le conseguenze che ha il manifestarsi come omosessuale sulle relazioni con il padre e la madre, i fratelli e le sorelle, sono dimensioni importanti dell’esperienza familiare delle persone omosessuali»51. L’esistenza di variegati contesti parentali ed amicali arricchisce, in termini di affettività ed accudimento, il panorama familiare di un minore. Non va sottaciuto, comunque, quanto gli arresti giurisprudenziali abbiano dovuto fare i conti con le divergenti correnti di pensiero che hanno trasversalmente percorso il dibattito politico e culturale italiano in questi ultimi anni. Pur nella consapevolezza di procedere per semplificazioni, si può riassumere che, da parte di taluni, si è inteso mettere in luce come il binomio affetto-accudimento ed orientamento sessuale dei genitori riesca a tenere in debita considerazione il best interest of the child. Nell’ambito degli studi psicologici sul tema si è auspicato che una sostanziale equiparazione tra omogenitorialità ed eterogenitorialità possa partire «dall’individuazione di nuovi modelli culturali per la determinazione di contesti protettivi per i genitori omosessuali e soprattutto per figli che vivono e crescono in nuclei omogenitoriali, ai quali non può essere assolutamente
caso in cui il minore sia figlio dell’altro coniuge), mancando il rapporto di coniugio, né con riguardo alla lettera d) (che concerne la constatata impossibilità di affidamento preadottivo), allorché il minore non sia privo dell’assistenza morale e materiale da parte dei genitori. 51 C. Saraceno, Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Milano, 2012, 101-112.
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negata la tutela dei diritti e la protezione del loro senso di appartenenza familiare e sociale. Il superamento di impostazioni pregiudizievoli dovrebbe portare all’acquisizione di adeguati criteri analitici ed approcci metodologici scevri da dogmatismi eterosessisti, destrutturando il costante ed imperante tentativo di far passare per oggettivo (ossia l’esclusiva funzionalità della genitorialità eterosessuale vs la disfunzionalità della genitorialità omosessuale) ciò che in realtà appartiene all’ambito di sistemi e modelli culturali ideologicamente improntati su concezioni omonegative ed eteronormative»52. Altri, di contro, hanno sottolineato come lo stravolgimento della nozione di «famiglia» abbia condotto la giurisprudenza europea ad accettare quale verità inconfutabile, sul presupposto del primario interesse del minore, la omogenitorilità come valore aggiunto, arrivando al paradosso di discriminare ulteriormente, con motivazioni ideologiche ed aprioristiche, situazioni in realtà tra loro già molto sperequate. Si è temuto, infatti, da parte di autorevole dottrina, l’aprirsi di un varco ad una varietà indefinita di relazioni familiari, cui viene attribuita una qualificazione che va oltre le intenzioni del legislatore e, in particolare per l’adozione, si è esortato al rispetto del principio del diritto del minore a crescere in famiglia, intendendosi tale quella eterosessuale e tutelata dal precetto dell’art. 29 Cost.. La esiguità delle ricerche scientifiche in sede nazionale e l’inesperienza sul campo – a dire di certuni – renderebbe difficile una valutazione concreta su quanto possa incidere, nella psiche di un minore, la crescita in un contesto omoparentale; ciò indurrebbe a passi di maggiore prudenza53. Infine va segnalato, con riguardo alla procreazione con gameti esterni alla coppia, il rilievo mosso da parte di chi ha eccepito la pericolosità e la contrarietà all’ordine pubblico interno dell’istituto dell’adozione conseguente a tale pratica, partendo dall’analisi letterale dell’art.12, comma 6, l. n.40/2004, che sancisce che «[…] chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro»54. In ogni caso le problematicità emerse in Italia, in assenza di una legislazione in materia, hanno comportato lo stigma da parte dei provvedimenti della Cort.Edu, disapprovazione che si ritiene possa essere superata attraverso il rispetto del divieto intangibile di discriminazione omofoba55. Sino ad oggi, l’applicazione della ratio decidendi, nei casi di adozione tra partner omosessuali, ha percorso in Italia, co-
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A. Taurino, Famiglie e genitorialità omosessuali. Una riflessione in chiave psicologica contro il pregiudizio omofobo, in Avvocati di Famiglia, n. 2 – aprile-giugno 2015, Osservatorio Nazionale sul diritto di famiglia, 31. 53 F. Tommaseo, Sull’affidamento familiare d’un minore a coppia omosessuale, in Famiglia e diritto, 2014, 275. 54 B. Salomone, Figli su commissione, profili civilistici della maternità surrogata in Italia dopo la legge 40/2004, in BioLaw Journal, 2/2014; Dossier: come è cambiata la legge 40 (2004-2017) in www.biodiritto.org. 55 Corte EDU, sez. II, ric. n. 25358/12, sent. 27 gennaio 2015, Paradiso e Campanelli c. Italia. Il caso Paradiso e Campanelli c. Italia di fronte alla Grande Chambre della Corte EDU, in rivista.eurojus.it; M. Winkler, Senza identità: il caso Paradiso e Campanelli c. Italia, in GenIUS Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, 2015/1, 243; C. Castronovo, L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Europa e Diritto Privato, 2016, 981; S. Cacace, Le diverse facce della genitorialità e un unico interesse, quello del minore. Così vicini ad un cortocircuito giuridico, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), 2016, 913; T. Trinchera, Profili di responsabilità penale in caso di surrogazione di maternità all’estero: tra alterazione di stato e false dichiarazioni a pubblico ufficiale su qualità personali, in Riv.It. Dir.Proc.Pen., 2015, 418.
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me già anticipato, un processo analogico e di adeguamento ai dettami sovranazionali. Il noto caso «pilota», trattato dal Trib. Min. Roma56, è quello relativo a due donne conviventi in Italia, sposate in Spagna che ivi avevano proceduto alla pratica di fecondazione eterologa medicalmente assistita. La bambina, nata a seguito di donazione di gameti maschili, cresceva quindi con una genitrice biologica ed una sociale, entrambe chiamate mamma. La madre non biologica chiedeva di adottare la bambina della propria compagna (coniuge all’estero). Benché vi fosse il parere contrario del p.m.57, il Collegio riteneva che, ai sensi dell’art.57 n.2 l.184/1983, andassero, invece, considerati preliminarmente gli interessi della minore. Pertanto, in ragione del fatto che la lett. d) dell’art.44 non abbia previsto, in modo esplicito, il presupposto dell’abbandono – non applicabile al caso di specie avendo già la minore una madre –, nella impossibilità non di «fatto» ma «di diritto» di affidamento preadottivo, il Trib. Min. disponeva farsi luogo all’adozione della bambina58, richiamandosi alla precedente giurisprudenza conforme59. La questione veniva portata all’attenzione della C. App. capitolina su reclamo del p.m.60. La Corte, preliminarmente, rigettava la richiesta di nomina di un curatore speciale per la minore, sul presupposto dell’assenza del conflitto di interessi. Infatti, la tutela della bambina veniva correttamente garantita dalla madre che l’aveva riconosciuta alla nascita e che ne aveva la responsabilità genitoriale in via esclusiva, costituendo, il consenso della genitrice biologica, la condizione necessaria per il perfezionamento della procedura di adottabilità (art. 46 l. n.184/1983). In secondo luogo, i giudici restituivano rilevo ad un consolidato rapporto di fatto tra la minore e la mamma adottante, sancendo, così, l’irrilevanza del presupposto dello stato di abbandono. La detta pronuncia si adeguava a quell’orientamento, condiviso da parte dalla giurisprudenza internazionale, che ammetteva l’adozione di un figlio generato all’estero attraverso la pratica della fecondazione eterologa medicalmente assistita scelta che, in assenza del presupposto della eterosessualità, invece in Italia subisce le limitazioni previste dalla l. n.40/2004. Le complesse motivazioni dei giudici romani partivano dall’assunto che l’istituto dell’adozione in casi particolari, seppur richieda requisiti meno rigorosi di quelli previsti per l’adozione legittimante, tuttavia non può non sottomettersi ad una verifica ben ponderata dell’imprescindibile premessa del superiore interesse del minore. I magistrati giudicavano tenendo conto dell’ampio concetto di «legame familiare» quale elaborato – con esplicito richiamo alle unioni omosessuali – anche dalla giurispruden-
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Trib.min. Roma, sent. 30 luglio 2014, n.299, G. Miotto, Adozione omoparentale e preminente interesse del minore, in Dir. Fam. Pers., 2015, 1335; M. Cavallo, Si fa presto a dire famiglia, Bari-Roma, 2016. 57 Secondo cui l’art. 44 comma1°, lett. d) l. n.184/1983 - fondato sul presupposto imprescindibile dello «stato di abbandono - si può applicare solo ai minori non collocabili «di fatto» in affidamento preadottivo (o perché portatori di handicap o perché, se sradicati dal contesto in cui già vivono, potrebbero subire un serio pregiudizio psico-fisico). 58 In senso conf. Trib. Min. Roma, sent. 22 ottobre 2015, n.291, S. Niccolai, Diritto delle persone omosessuali alla genitorialità a spese della relazione materna?, in Giur. cost., 2016, 1169. 59 App. Firenze, Sez. min., 4 ottobre 2012, n. 1274; Trib. min. Milano, 28 marzo 2007, n. 626. Contra Trib. min. Roma, 22 dicembre 1992, in Dir. fam., 1993, 212. 60 App. Roma, 23 dicembre 2015, n. 7127, con nota di Sapi, in Il familiarista.it, 2016, 5 gennaio s.m,; S. Menichetti, Una sentenza che allinea l’Italia a Strasburgo, in Dir. fam. pers., 2016, 806, Contra Trib. min. Milano, 17 ottobre 2016, n. 261.
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za della Corte EDU61, in aderenza ai principî della Carta di Nizza, che vieta qualsivoglia discriminazione basata sul sesso e sull’orientamento sessuale. In sede di legittimità62 le ragioni della decisione si presentavano assolutamente in linea con quanto deciso nei due gradi del merito. Durante l’udienza di discussione il pm chiedeva, in via preliminare, la rimessione alle Sezioni Unite in quanto involgente una questione di massima di particolare importanza. Sul punto della rimessione la Corte, prima sezione civile, sottolineava la inesistenza dei presupposti di cui al comma 2 dell’art. 374 c.p.c., considerato che la funzione nomofilattica, quale onere di vigilanza sull’esatta e uniforme interpretazione della legge su argomenti di particolare importanza, nel caso di specie, non appariva doverosa, non emergendo rilevi particolari dalla prospettata questione di adozione da parte di chi ha già instaurato un rapporto significativo con il/la minore; il dato fattuale della relazione omosessuale, già trattato in pronunce nazionali e sovranazionali, non rappresentava, pertanto, una «questione di massima di particolare importanza». Sulle questioni subordinate la prima, relativa alla nomina necessaria del curatore della minore, diveniva oggetto di approfondita analisi e, in ragione delle conclusioni cui perveniva la Corte, si può sostenerne la correttezza. La tesi del pubblico ministero si basava sull’emergere di un «conflitto potenziale» in quanto la madre biologica, in realtà, più che nel precipuo interesse della minore, avrebbe prestato il proprio consenso all’adozione della figlia quale portatrice di un interesse personale al consolidamento della relazione affettiva, apparendo, a detta del reclamante, tale posizione “ispirata da una concezione «adultocentrica»”. Di talché veniva ritenuta strada obbligata la scissione delle due posizioni tra l’interesse morale all’adozione e quella di legale rappresentante dell’adottanda. Tale assunto non appariva condivisibile, alla luce dei precedenti fissati dalla giurisprudenza comunitaria. Gli Ermellini, evidenziando preliminarmente come non sia sindacabile in sede di giudizio di legittimità il conflitto di interessi «potenziale» qualora escluso in sede di merito63, non ritenevano di essere in presenza di interessi incompatibili tra loro64. Qualora il conflitto «potenziale» di interessi sia da intendersi quale situazione in cui l’interesse secondario di una madre – alla formazione di una famiglia – possa potenzialmente tendere ad interferire con l’interesse primario della figlia – al riconoscimento ad una stabile rapporto di accudimento e di affettività – (verso cui la prima ha precisi doveri e responsabilità), allora si perverrebbe alla conclusione che, nell’ambito della famiglia e nella funzione genitoriale, potrebbero essere in ogni momento potenzialmente individuati conflitti di interessi, comunque sottoponibili ad un vaglio giurisdizionale, seppur in assenza di un concreto pregiudizio.
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Corte EDU, ric. 30141/04, sent. 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria. Cass., I sez., 26 maggio 2016 n. 12962; con nota di A. Figone, La Cassazione dice sì alla stepchild adoption, in Diritto & Giustizia, 2016, 61; nota di G. Casaburi, in Foro it. 2016, 2342; nota di A. Fasano, in Il familiarista.it, 2016, 3 ottobre; con nota di M. Labriola, Adozione: giurisprudenza creativa o conforme alla legge?, in personaedanno.it, 2016, 2 settembre; A. Spadafora, Adozione, tutela dell’omogenitorialità ed i rischi di eclissi della volontà legislativa, in Giur. It., 2016, 2573. 63 Cass., n. 5533/2001; R.Sassano, Giurisprudenza, in Il curatore speciale dei minori in sede civile e penale, 2008, 170. 64 Cass., n.21651/2011; G. Dosi, L’ascolto del minore, Le conseguenze del mancato ascolto del minore, in L’avvocato del minore Professione legale e relazioni familiari, Torino, 2015.
62
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Nel corpo del provvedimento emergeva come fosse prevalso, per il p.m. reclamante, uno sguardo «discriminante», che attribuiva ai progetti di natura meramente affettiva tra le genitrici omosessuali e la figlia un carattere di incompatibilità in re ipsa. D’altronde, seguendo la linea argomentativa del p.m. in base alla quale l’adozione in casi particolari presenterebbe sempre un conflitto di interessi «potenziale», il particolare ambito in cui si muove l’art. 44 l. n.184/1983 si snaturerebbe di quella propria funzione che assicura alle situazioni di fatto, spesso già consolidate nel tempo, una tutela in più per il minore nei casi in cui non sia possibile procedere all’adozione c.d. «piena»65. Infine, sul punto, è importante rimarcare che la necessità del consenso del genitore dell’adottato, previsto dall’art. 46 l. n.184/1983, attribuisce una valenza fondamentale alla responsabilità del genitore biologico la cui derogabilità – in ipotesi di conflitto di interesse - andrebbe valutata in sede di merito caso per caso. Ad ogni buon conto, poiché la previsione, contenuta nell’art.56 l. n.184/1983, così come riformato nel 1988 dalla C.Cost., è quella della mera audizione – non del consenso – del legale rappresentante del minore adottando che obbliga, conseguentemente, il giudice ad una più approfondita indagine e valutazione sul reale interesse del minore (a seguito delle ricevute dichiarazioni del legale rappresentante), la modalità in cui si muovevano le due corti di merito era nel senso di una verifica puntuale secondo l’indirizzo tracciato dal successivo art.57 l. n.1984/1983. Il secondo punto del provvedimento di legittimità appariva più controverso sia in dottrina sia in giurisprudenza ed era relativo all’interpretazione della espressione lessicale «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» contenuta nell’art. 44 comma 1° lett.d). I giudici della S.C., seguendo il solco tracciato dai provvedimenti di merito, sottolineavano come l’art. 44 comma 1° avesse stabilito che l’accertamento di una situazione di abbandono non dovesse costituire, diversamente dalla adozione c.d. piena, una condizione imprescindibile per l’adozione in casi particolari. A tal risultato era già pervenuta la Cass., con sentenza n.260 del 201066, che concludeva per l’esclusione della necessarietà dello stato di abbandono in tema di adozione di minore in casi particolari, ex art. 44 l. 4 maggio 1983 n. 184. Infatti, la natura informale del procedimento camerale esige, ai sensi dell’art. 313 cod.civ. – come richiamato dall’art. 56
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E. Falletti, Adozione e orientamento sessuale: si alla stepchildren adoption anche in Italia, in Quotidiano giuridico, 2.9.14; A. Figone, Affidamento familiare di minore a coppia omosessuale, in Quotidiano giuridico, 2.4.14; G. Ferrando, Diritti delle persone e comunità familiare nei recenti orientamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in Fam. Pers. Succ., aprile 2012, 281; G. Ferrando, L’adozione in casi particolari: orientamenti innovativi, problemi, prospettive, in NGCC, 2012; M. Sesta, Il Codice della Famiglia Artt 44/58 legge 184/1983, Milano, 2009; G. Giusti, L’adozione dei minori in casi particolari, in Bonilini, Il Diritto di Famiglia, Filiazione e adozione, Roma, 2007; G. Del Papa, Adozione in casi particolari e affidamento preadottivo, in Fam. Dir., 6, 2000, 634; G. Perzia, Adozioni in casi speciali? Arriva il sì dal Tribunale per i Minorenni di Roma nota alla Sentenza del Trib.min. Roma, 30 giugno-30 luglio 2014, n. 299, in www.filodiritto.com. 66 Cass., sez. I, 12 gennaio 2010, n.260, in Adozione, in comparazionedirittocivile.it In materia di adozione del minore, non può ritenersi lesiva del diritto di difesa una dichiarazione di assenso del genitore biologico ad una forma di adozione meno severa nei suoi confronti, quale l’adozione mite ex art. 44, l. n. 184/1983, – nella specie giustificata dalla constatata impossibilità di affidamento preadottivo - qualora espressa nell’ambito della procedura per l’accertamento dello stato di abbandono. In tal senso, invero, l’accertamento dello stato di abbandono, quale presupposto della dichiarazione di adottabilità, determina la fine del vincolo con il genitore naturale, laddove, al contrario, l’adozione mite consente la conservazione del rapporto. F. Micela, La rappresentanza e assistenza del minore nei procedimenti di potestà e di adottabilità, in Dir. fam., 2010, 1413.
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l. n.184/1983 – l’assenza di qualunque vincolo di rigida priorità temporale tra gli atti della procedura, restando unica richiesta di tutela il preminente interesse del minore. Pertanto, non può considerarsi lesiva del diritto di difesa del genitore naturale l’utilizzazione del consenso da lui prestato nell’ambito del procedimento per l’adozione legittimante, qualora, constatata l’impossibilità di affidamento preadottivo, il procedimento muti in quello per l’adozione in casi particolari, tanto più che il primo processo presuppone l’accertamento dello stato di abbandono e recide il vincolo con il genitore naturale, mentre il secondo consente la conservazione del rapporto con quest’ultimo. D’altronde, con la precedente pronuncia n.182/198867, la C.Cost., nel dichiarare fondata la questione di illegittimità costituzionale degli art. 45, comma 2 e 56 comma 2 – per contrasto con l’art. 3 cost. – nel corso della motivazione testualmente asseriva che “il Titolo IV «Dell’adozione in casi particolari» della legge n. 184 del 1983 tende a recuperare, in ipotesi tassativamente circoscritte, l’impiego dell’adozione cosiddetta ordinaria o semplice o non legittimante per minori che non si trovino nello stato di abbandono, presupposto necessario quest’ultimo per l’adozione cosiddetta piena o legittimante”. Attesa, quindi, la possibilità di applicazione dell’art. 44 alle ipotesi di «non abbandono», in assenza, tra l’altro, del dato testuale ed in presenza di situazioni di fatto in cui il minore abbia già consolidato, con adulti, una relazione affettiva e stabile di convivenza, la Corte concludeva sostenendo che «l’interpretazione della “impossibilità di affidamento preadottivo” […] non osta alla più ampia opzione ermeneutica che ricomprenda nella formula anche la impossibilità di “diritto”, e con essa tutte le ipotesi in cui, pur in difetto dello stato di abbandono, sussista in concreto l’interesse del minore a vedere riconosciuti i legami affettivi sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendano cura». A sostegno della tesi formulata dalla S.C., militano le pronunce in cui sono affermati diritti al riconoscimento adottivo in favore di minori cresciuti all’interno di famiglie eterosessuali68, senza che sia mosso alcun rilievo circa l’assenza dello stato di abbandono. Nei casi su descritti i giudici, partendo dal paradigma ermeneutico della analogia ad altri pronunciamenti, hanno avvertito l’esigenza di superare le discriminazioni all’interno dei rapporti di filiazione e, atteso che la scelta dei conviventi di non voler convolare a nozze, andasse rispettata, hanno evitato che la volontà degli adulti avesse ricadute di denegata tutela nei confronti di minori inconsapevoli. Ben si comprende, quindi, perché il favor adoptionis della magistratura di merito nei casi di minori cresciuti all’interno di convivenze omosessuali abbia trovato in questi ultimi anni un esito positivo, in ragione del fatto che «l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto sia in concreto, non può essere svolto – neanche indirettamente – dando rilievo all’o-
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C. Cost., 18 febbraio 1988 n.182, qlc delle parti degli art. 45, comma 2 e 56 comma 2, l. 4 maggio 1983 n. 184, contenenti la disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori in cui si prevedeva il consenso anziché l’audizione del legale rappresentante del minore perché si facesse luogo all’adozione. 68 Trib. min. Milano, sent. 28 marzo 2007, n. 626; App. Firenze, sent. 4 ottobre 2012, n. 1274.
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rientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione stabilita con il partner». Un ultimo inciso è d’uopo, la pronuncia in commento, che ha esaminato precedenti giurisprudenziali sorti prima della emanazione della l.76/2016 (regolazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), «non si applica in assenza di una disciplina transitoria alla fattispecie dedotta in giudizio». Infine, vi è il diverso caso relativo alla adozione di un bambino concepito con la pratica di maternità surrogata, che consiste nel procedere alla fecondazione eterologa medicalmente assistita, di frequente esplorata da parte di due uomini same sex, sulla base della disponibilità di una donna gestante che ricorra alla fecondazione con l’impianto di un ovulo fecondato in vitreo di altra donatrice, diversa dalla portatrice, reso fertile dal seme del padre biologico, che poi riconoscerà il bambino. Il Trib. min. Roma69, a seguito di istanza avanzata da due uomini italiani sposati in Canada, ammetteva l’adozione di un maschietto di sei anni da parte dei due padri omosessuali che erano ricorsi ad una «gpa»70. Nella fattispecie de quo gli uomini avevano mantenuto rapporti costanti con la gestante, soggiornando nella città del bambino per due mesi dopo la sua nascita. Il p.m. aveva espresso parere negativo, sul presupposto, tra l’altro, che l’adozione in casi particolari è prevista solo nei casi tassativi previsti che contemplano, come premessa ineludibile, lo stato di abbandono inesistente nel caso di specie. Il p.m. insisteva, inoltre, per la nomina di un curatore speciale per il minore. Preliminarmente rigettata l’istanza di nomina del curatore speciale, la motivazione della sentenza – basata nuovamente sull’evenienza che l’impossibilità di affidamento preadottivo possa essere una circostanza anche di diritto, oltre che di fatto – prendeva le mosse dal precipuo interesse del minore a continuare a vivere con i due papà che lo avevano cresciuto e riconosciuto all’estero (art. 57 n. 2, l. n.184/1983). Il Collegio rammentava, poi, come nel nostro ordinamento fosse già consentita l’adozione (art. 44 lett. d) sia della coppia di fatto eterosessuale sia del singolo, a prescindere dall’orientamento sessuale, e che, per altri versi, l’asserito ostacolo derivante dall’assenza dello stato di abbandono fosse stato già superato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità che aveva operato una «interpretazione convenzionalmente orientata delle norme nazionali nel rispetto dei principî costituzionali»71. I giudici romani avevano evidenziato che, in tema di
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Trib. min. Roma, sent. 31 dicembre 2015, in questionegiustizia.it; S. Niccolai, Diritto delle persone omosessuali alla genitorialità a spese della relazione materna?, in Giur. Cost., 2016, 1169B; l’autrice pone l’accento sul pari valore che può avere anche una famiglia monogenitoriale e sottolinea una sorta di svalorizzazione della madre sola, cui è sempre preferibile la ‘doppia figura genitoriale’, secondo un principio che esalta il diritto della coppia alla genitorialità, quale atteggiamento intento a negare che la famiglia composta dalla madre e dal bambino sia già famiglia in senso pieno; vedi anche App. Roma, 23 novembre 2016, Trib. Napoli, 28 giugno 2006, App. Milano, 1 dicembre 2015. 70 Gestazione per altri: Esistono tre forme di maternità surrogata: la surrogata può fornire solo l’utero in prestito con embrione omologo, la surrogata può fornire anche un gamete femminile, la surrogata può fornire in prestito l’utero con embrione con gameti donati. 71 Cass. civ., sez. I, 19 ottobre 2011, n. 21651, nel procedimento di adozione in casi particolari, non è necessaria la nomina di un curatore speciale del minore, qualora non emerga un conflitto di interessi concreto, diretto ed attuale tra quest’ultimo e il suo legale rappresentante. Conf. App. Palermo, 14 aprile 2010, in Foro it. 2012, 821.
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estensione dei diritti derivanti dal matrimonio contratto all’estero delle coppie omosessuali, finanche la C.Cost. aveva riconosciuto il diritto di vivere liberamente la propria condizione di coppia, così come per le unioni di fatto fra persone di sesso diverso. Conseguentemente, assumeva il Trib., il desiderio di avere dei figli, naturali o adottati, rientrava nel diritto alla vita familiare, nel «vivere liberamente la propria condizione di coppia» quale diritto fondamentale. Pertanto, il giudice concludeva che un’interpretazione restrittiva della lett. d), che escluda l’adozione per le coppie omosessuali solo in ragione del diverso orientamento sessuale pur riconoscendo la facoltà di ricorrere a tale istituto per le coppie eterosessuali, avrebbe sollevato profili di incostituzionalità per contrarietà agli artt. 3 e 2 cost.72.
4. La «constatata impossibilità» dell’affidamento
preadottivo e «l’assenza dello stato di abbandono» ai sensi dell’art. 44 comma 1°, lett. d) l. n.184/1983
Ampliare, nell’interesse del minore, l’accertamento sulla «impossibilità di affidamento preadottivo», in assenza dello stato di abbandono, anche alle ipotesi di impossibilità di diritto, come già specificato, ha consentito l’applicazione della disciplina della lett. d) art. 44 anche alle coppie same sex. Sulla questione si è espressa la Corte EDU, con una pronuncia del 21 gennaio 2014, caso Zhou vs. Italia, in cui si è registrato che, nei tribunali italiani, sta già emergendo una interpretazione estensiva, lì dove è dichiarata l’adozione in casi particolari in favore di un minore anche in situazioni in cui non sussista lo stato di abbandono. Inoltre, è stato evidenziato da autorevole dottrina che, poiché la forma di adozione «piena» esige, quale requisito necessario per far dichiarare il minore in condizione di adottabilità, la previa verifica dello stato di abbandono dello stesso, sembra logico supporre che le ipotesi di cui agli artt.44 e ss., applicabili «anche quando non ricorrono le condizioni di cui all’art.7 c.1», si configurino sostanzialmente in presenza di minore che non versi in tale condizione73. Con argomento difforme, parte di dottrina e giurisprudenza ha obiettato che l’adozione del figlio del compagno/a, da parte del convivente eterosessuale ed omosessuale, non possa rappresentare un diritto degli adulti che scaturisca dalla loro unione. Si è, pertanto, sostenuto come l’adozione in casi particolari tuteli anzitutto il preminente interesse del minore e, se questi non è in stato di abbandono, posto che è «giuridicamente e non di fatto impossibile» il collocarlo in affidamento preadottivo, una adozione omoparentale non sarebbe adeguata allo spirito dell’art. 44, lett. d). Conseguen-
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Trib. min. Roma, sent., 30 luglio 2014, n.299; G.Miotto, Adozione omoparentale e preminente interesse del minore; in Dir.Fam. Pers., 2015, 1335. 73 E. Urso, L’adozione dei minori in casi particolari, in Il nuovo diritto di famiglia. Volume terzo, Filiazione e adozione, a cura di G. Ferrando, Bologna, 2007, 784-789.
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temente, diversamente opinando attraverso una lettura forzata della norma, si correrebbe il rischio di accogliere la domanda di adozione proveniente da «ogni» soggetto «desideroso – e titolato in forza di un ottimo rapporto con il minore – di diventare il padre 2, o madre 2; o 3, o 4, […]» che intenda adottare un minore che non versi in condizione di abbandono, al fine di ampliarne accudimento e risorse economiche (giustificandosi così la maggiore realizzazione dell’interesse del minore, rispetto alle possibilità complessive dei genitori biologici)74. Sul punto, anche un provvedimento di legittimità – seppur minoritario – aveva ristretto, forse per motivi di cautela, le maglie di una lettura estensiva della lett. d) art. 44, sostenendo che, in tema di adozione in casi particolari, il presupposto andasse individuato nella impossibilità di affidamento preadottivo solo con riferimento all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, essendo, le fattispecie previste dalla norma, tassative e di stretta interpretazione75. D’altro canto, alcune perplessità sono emerse anche da parte di chi, favorevole all’ammissibilità dell’adozione omogender, ha però considerato come i giudici romani abbiano forzato il dettato normativo. A detta di costoro il Trib. min. avrebbe, invero, dovuto sollevare q.l.c., poiché, sempre nel preminente interesse del minore, la verifica non deve basarsi solo sulla astratta idoneità alla adozione da parte di una coppia omosessuale, bensì sulla eventuale discriminazione agita a causa dell’orientamento sessuale dei genitori. In altri termini, in aderenza con quanto affermato dalla Corte EDU in questi anni, la conformità ai principî antidiscriminatori deve essere misurata sulla pregiudiziale omofoba di un provvedimento nazionale e non sulla presunta violazione di una norma comunitaria che «inviti» ad un riconoscimento – aprioristico ed acritico – dei diritti delle coppie omosessuali ad adottare76. Secondo altri la questio iuris, del caso portato dinnanzi al Trib. romano, ha subito un eccessivo sbilanciamento per il peso esercitato dall’orientamento sessuale dell’adottante e dalla natura omosessuale del rapporto di convivenza, a discapito del preminente interesse del minore. Si è sostenuto che il fatto che il diritto positivo non consenta l’adozione del figlio del convivente trovi, altresì, conferma in una imprescindibile scelta del legislatore. Se questi avesse voluto estendere, anche al convivente, la facoltà di adottare lo avrebbe previsto esplicitamente, così come sancito per i coniugi (lett. b)77. È stato eccepito, inoltre, come l’assunto da cui parte la sentenza in commento sia erroneo in quanto «l’assenza di una limitazione, esplicita o implicita, relativa all’orientamento sessuale dell’adottante o alla convivenza omosessuale
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Trib. min. Torino, 11 settembre 2015, in Ilfamiliarista.it, 3 febbraio 2016, secondo cui non può essere disposta l’adozione in casi particolari di un minore da parte della compagna dello stesso sesso della madre biologica, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b) o lett. d), l. n. 184 del 1983. Il tribunale per i minorenni ha rilevato che la prima fattispecie è riservata esclusivamente al coniuge del genitore del minore, cui non è equiparabile, in via interpretativa, il partner omosessuale, mentre la seconda presuppone esclusivamente l’impossibilità di fatto, non anche di diritto, di affidamento preadottivo, quindi lo stato di abbandono del minore, nella specie insussistente; nota di G. Casaburi, in Foro it. 2016, 1911. 75 Cass.civ., sez. I, 27 settembre 2013, n. 22292, in Giust. civ. Mass., 2013; nota di Fiorini, in Guida al diritto, 2013, 46, 34 (s.m.). 76 M. G. Ruo, A proposito di omogenitorialità adottiva e interesse del minore, in Fam. Dir., 2015, 580. 77 G. Miotto, Per la Corte d’Appello di Roma «un profondo legame» giustifica l’adozione della figlia della convivente, in Dir.Civ.Cont., Rivista trimestrale online. dirittocivliecontemporaneo.com., Anno II, aprile/giugno 2015.
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con il genitore dell’adottando, ai fini della adozione particolare, risulta assolutamente irrilevante con riferimento alla questione di cui si tratta»78. C’è un ultimo approdo della C.Cost.79, presso cui veniva sollevata q.l.c. degli artt. 35 e 36 l. n.184/1983 «nella parte in cui non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato (all’estero) il riconoscimento della sentenza straniera». Il caso, portato all’attenzione della Corte, è quello di due donne nordamericane, sposate negli USA, che si trasferivano a Bologna. Dopo qualche tempo, una delle due chiedeva il riconoscimento (nazionale) dell’adozione del figlio dell’altra; bambini generati a seguito di pratica di fecondazione «doppia eterologa» e reciprocamente adottati in Oregon. Il Trib. min. Bologna rimetteva gli atti alla Consulta e l’Avvocatura dello Stato, opponendosi alla questione di illegittimità, evidenziava come l’opportunità di adottare il figlio del compagno omosessuale fosse già prevista in Italia, appunto dalla legge sulle adozioni all’art. 44 comma 1°, lett. d), non potendosi considerare, il caso portato all’attenzione della C.Cost., disciplinato dalle norme sulla adozione internazionale di cui agli artt. 35 e 36 l. n.184/1983. La Corte dichiarava inammissibile il ricorso in quanto il Tribunale remittente avrebbe «erroneamente trattato la decisione straniera come un’ipotesi di adozione da parte di cittadini italiani di un minore straniero (così detta adozione internazionale), mentre si trattava del riconoscimento di una sentenza straniera, pronunciata tra stranieri».
5. La trascrizione del certificato di nascita ed il
riconoscimento dell’adozione con effetti legittimanti pronunciata all’estero
«Le trasformazioni sociali e le scoperte biotecnologiche hanno aumentato grandemente il numero e le difficoltà dei temi in discussione, accelerandone lo sviluppo sino a rendere insignificanti, se non impossibili, previsioni di comportamento astratte funzionali alla emanazione di prescrizioni»80. In Italia, due persone dello stesso sesso non possono entrambi riconoscere il figlio. Si trascrive la nascita della bambina/o da parte di chi l’ha concepita/o nel caso degli uomini (padre), o di chi l’ha generata/o nel caso delle donne (madre); sono «genitori biologici o genetici», termine così coniato a seguito della novella sulla filiazione. Non apparirà, quin-
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Per un ulteriore commento al prov. Trib.Min.Roma, 30 luglio 2014, n.299, vedi R. Carrano e M. Ponzani, L’adozione del minore da parte del convivente omosessuale tra interesse del minore e riconoscimento giuridico delle famiglie omogenitoriali, in Dir. Fam. Pers., 2014, 1550-1564. 79 C. Cost. 24 febbraio 2016, 76, in Riv.Dir.Int., 2016, 949; L.S. Runchella, Il primo intervento della Consulta sul riconoscimento di provvedimenti stranieri in tema di adozione coparentale per coppie dello stesso sesso, in www.art29.it, 16 maggio 2016. 80 P. Sommaggio, Introduzione, in Filosofia del biodiritto. Una proposta socratica per società postumane, Torino 2016, 2. L’autore sostiene che nella sfera del biodiritto, della bioetica e della biotecnologia, si sostanzia la futura trasformazione dell’intera umanità, costringendo il diritto (legge e giustizia) a superare la dicotomia permesso/vietato risultando, ormai superato, l’approccio precettistico.
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di, di poco momento l’estensione delle garanzie conseguenti alla trascrizione dell’atto di nascita di un bambino adottato o nato all’estero – attraverso la pratica della fecondazione eterologa medicalmente assistita – da una coppia omosex e riconosciuto da entrambi i «genitori». Vi è un vuoto legislativo per i casi, ormai sempre più frequenti, in cui, accedendo all’estero alla pratica della fecondazione assistita eterologa e gestazione per conto di altri, due persone dello stesso sesso chiedano che venga riconosciuto il diritto del figlio a «questa famiglia». Ad una soluzione particolare giungeva la C.App. Torino81. Nel caso di specie un bambino veniva riconosciuto in Spagna quale figlio di due donne. Una delle due donava gli ovuli per il concepimento mentre l’altra portava avanti la gravidanza e partoriva. Alla nascita, il minore assumeva la cittadinanza spagnola. L’Ufficiale di stato civile di Torino, a seguito di trasmissione del Consolato Generale d’Italia in Barcellona, respingeva la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita del minore per contrarietà all’ordine pubblico interno. Le ricorrenti, sposate in Spagna (successivamente divorziate con accordo che prevedeva l’affidamento congiunto del minore ad entrambe con condivisione della responsabilità genitoriale), ricorrevano, ex art. 96 d.P.R. n. 396/2000, avverso il diniego espresso dall’Ufficiale di stato civile, chiedendo l’accertamento del rapporto di filiazione tra il minore e la madre donatrice dell’ovulo – ai sensi dell’art. 33 l. n.218/95 – con conseguente riconoscimento, nello Stato italiano, dell’atto di nascita del minore ed obbligo di trascrizione nel p.r. dell’Anagrafe di Torino. Con successivo decreto, il Trib. Torino respingeva il ricorso rilevando come il procedimento avviato ex art. 96 d.P.R. n.396/2000, strumentale al compimento di un’attività di tipo amministrativo, non fosse previsto per ottenere una pronuncia di accertamento del rapporto di filiazione tra le ricorrenti ed il minore, né per il riconoscimento della cittadinanza italiana di quest’ultimo dovendosi, a questo fine, necessariamente introdurre un ordinario giudizio di cognizione. Per il giudice di prime cure solo la madre spagnola, quella che aveva partorito, era la genitrice, quindi, l’unica via per attribuire cittadinanza italiana al minore era rappresentata dal criterio dello ius sanguinis, previo riconoscimento del rapporto di filiazione. Con reclamo le donne chiedevano, previa revoca del decreto impugnato, di accertare e dichiarare il rapporto di filiazione tra il minore e la madre (donatrice dei gameti), attesi i presupposti di cui all’art. 33 l. n.218/95, col conseguente riconoscimento nello Stato Italiano dell’atto di nascita del minore ed il diritto quest’ultimo ad acquisire la nazionalità italiana. La C.App., preliminarmente sottolineando come la procedura prevista dal d.P.R. n.396/2000, caratterizzata da un’attività di tipo amministrativo, non potesse essere finalizzata all’accertamento di diritti, aveva, comunque, statuito che la questione dovesse essere disciplinata dal diritto internazionale
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App. Torino, sez. fam., decr. 29 ottobre 2014. V. anche App. Milano, sez. fam., 1 dicembre 2015, n. 543, in Guida al diritto, 2016, 22; App. Napoli, sez. fam., 5 maggio 2016; la asserita contrarietà all’ordine pubblico – secondo il Trib. – derivava dall’assenza di una normativa nazionale che disciplini istituti analoghi a quello del matrimonio tra persone dello stesso sesso e consenta la nascita di rapporti di filiazione tra persone omosessuali.
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privato italiano – ex art.33 l. n.218/95 – con l’applicazione di norme esterne in assenza di contrarietà all’ordine pubblico (art. 16 l. n.218/1995). «[…] L’articolo 13 conferma il favore nei confronti della filiazione disponendo che, quando è richiamata la legge straniera, si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato straniero, alla legge di un altro Stato (in presenza di alcune condizioni), ed in ogni caso, nei casi di cui agli articoli 33, 34 e 35, si tiene conto del rinvio soltanto se esso conduce all’applicazione di una legge che consente lo stabilimento della filiazione»82. Dall’atto di nascita risultava che il minore, nato da due donne con impianto di gameti donati da una all’altra, aveva acquisito in Spagna la cittadinanza italiana ius sanguinis, ai sensi dell’articolo 2 p.1, l. n.91/92. Pur tuttavia, alla procedura di trascrivibilità amministrativa dell’atto di nascita, ostava un più approfondito accertamento giurisdizionale circa il rispetto dell’ordine pubblico interno83. Concetto, quest’ultimo che, come evidenziato più volte dalla S.C.84, deve rendersi compatibile col corrispondente postulato internazionale «da intendersi come complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati su esigenze di garanzia comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, sulla base di valori sia interni che esterni all’ordinamento purché accettati come patrimonio condiviso in una determinata comunità giuridica sovranazionale». La C. App., quindi, accogliendo il ricorso, ordinava all’Uff. stato civile di Torino la trascrizione dell’atto di nascita del bambino. Contro il provvedimento della Corte torinese veniva proposto ricorso per cassazione da parte del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino e il Ministero dell’Interno. Il Procuratore denunciava violazione degli artt.18 del dPR n. 396/2000 e 65 l. n. 218/1995 in quanto la Corte avrebbe erroneamente escluso la contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita riconosciuta da due madri. Inoltre, evidenziava come lo stesso art. 269 cod.civ. riconoscesse quale madre del bambino solo colei che aveva partorito introducendo, implicitamente, il principio in base al quale la genitorialità dovesse essere necessariamente eterosessuale. Anche il Ministero dell’Interno denunciava un allargamento eccessivo del concetto di ordine pubblico interno oltre alla violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 9 l. n.40/2004, che qualificano la filiazione quale discendenza di persone di sesso diverso e prevedono, in caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo, che il donatore di gameti non acquisisca alcuna relazione giuridica parentale con il nato e che non possa far valere, nei suoi confronti, alcun diritto né essere titolare di obblighi.
82
cfr Cass. sent. n. 367/2003 e n. 14545/2003; App. Torino, sez. fam., decr., 29 ottobre 2014. Cass.sent., 317/2009, «[…] un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa CEDU certamente non viola gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ne esplicita ed arricchisce il contenuto, alzando il livello di sviluppo complessivo dell’ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali.» 84 Vedi anche Cass. civ., sez. III, 19405/2013; Cass., sez. lav., sent. 26 aprile 2013, n. 10070; Cass., sent. 6 dicembre 2002, n. 17349, in Mass. Giur. it., 2002; Cass., 23 febbraio 2006, n. 4040; da ultimo la recentissima Cass. civ., 15 giugno 2017, n. 14878, in Diritto e Giustizia 16 giugno 2017. 83
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La Corte85, premettendo che il bambino fosse di cittadinanza spagnola per nascita e che fosse, altresì, cittadino italiano in quanto, per la legge spagnola, anche figlio di una cittadina italiana, trovava condivisibile la conclusione cui era pervenuta la Corte di merito. Infatti, assumeva che l’atto di nascita straniero non fosse in astratto incompatibile con l’ordine pubblico e che, pertanto, potesse essere «riconoscibile in Italia come titolo valido per la costituzione del rapporto di filiazione nei confronti della madre genetica, rapporto che costituisce il presupposto dell’acquisto della cittadinanza italiana, per il combinato disposto degli artt.1 c comma 1°, lett.a) e 2 comma 2°, l. n.91/1992. In altri termini, l’essere cittadino italiano di [T] dipende dall’accertamento dell’esistenza di un rapporto di filiazione che sia valido (anche) per il diritto italiano». Vi era, inoltre, a detta della Corte di legittimità un divieto per il giudice italiano di sovrapporre propri accertamenti a fonti di informazione nazionali o estranee. Nell’approfondire, attraverso un interessante percorso storico-culturale, l’evoluzione della nozione di ordine pubblico, gli Ermellini giungevano alla conclusione che «nella giurisprudenza di legittimità più recente prevale il riferimento all’ordine pubblico internazionale, da intendersi come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e collocati a un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria». Confermando le due pronunce di merito la Cassazione sottolineava come il giudice, chiamato ad esprimersi sulla conformità all’ordine pubblico interno, dovesse principalmente accertare se l’atto straniero contrastasse o meno con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo desumibili dalla nostra Costituzione. La sentenza apre un paragrafo, già avviato con alcune significative pronunce di merito, rilevante sotto il profilo del riconoscimento in Italia degli atti di nascita prodottisi all’estero. Tale rigorosa ipostazione giurisprudenziale va declinata in ragione dell’interesse del minore in presenza di un dato di fatto già presente86. L’impossibilità di trascrivere l’atto di nascita, limiterebbe, infatti, il diritto all’identità personale del bambino ed il suo status nello Stato italiano. Tale minore non avrebbe alcuna relazione parentale né con la madre non gestante – ma che in alcuni casi potrebbe essere donatrice dell’ovulo – né con i parenti della stessa. Inoltre, la mancata trascrizione del certificato di nascita, a seguito di una eventuale crisi di coppia, comporterebbe conseguenze rilevanti in ordine alla libera circolazione del minore accompagnato dalla sola «madre» italiana87.
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Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599; nota di Porracciolo, in Guida al diritto, 2016, 39; G. Casaburi, in Foro it., 2016 329; nota di Conti, in Gius.Civ.Com, 2017, 20 gennaio/febbraio 2017, secondo cui né la disciplina della l. n. 40 del 2004, né l’art.269, comma 3, cod.civ. possono condurre ad affermare che l’atto di stato civile straniero, da cui risulti che il minore è figlio di due donne, sia contrario all’ordine pubblico nella misura in cui, da un lato, non rileva che la tecnica procreativa utilizzata all’estero non sia riconosciuta dall’ordinamento italiano e, dall’altro lato, la regola che ritiene madre solo colei che ha partorito non ha alcun fondamento costituzionale, ma è norma rilevante sul piano meramente probatorio; A. Figone, in Diritto & Giustizia, 2016. 86 Corte EDU, sez. V, ric. n. 65192\11, sent. 26.6.2014, Mennesson c. Francia, M.T. Corte EDU Mennesson e Labassee c. Francia – Diritto dei figli nati da maternità surrogata ad ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione da parte delle autorità statali, Università degli Studi di Trento, www.biodiritto.org, 11 luglio 2014; Corte EDU, ric. n. 65941, sez. V, sent. 26.6.2014, Labassee c. Francia. 87 L’UE ha pubblicato, nel 2013, uno studio comparatistico sulla surrogazione di maternità in alcuni Stati, l’indagine fornisce un quadro
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Anche sotto il profilo penale, la S.C.88 assolveva una coppia eterosessuale, che aveva proceduto alla pratica di fecondazione con maternità surrogata (con gameti tutti esterni alla coppia), escludendo la previsione sanzionatoria di cui all’art. 12 comma 6, l. n.40/2004. Gli Ermellini avevano richiamato la sentenza Corte EDU89, con cui veniva ribadito come la legge debba definire chiaramente i reati e le pene che reprimono i crimini, nullum crimen, nulla poena sine lege. Orbene, si asseriva in parte motiva non essere configurabile neanche l’applicazione del dispositivo dell’art. 567 c.p., atteso che, in questa fattispecie di reato, il presupposto è l’attività materiale di alterazione di stato. Ma, nel caso di specie, l’atto di nascita veniva redatto in Ucraina, conformemente alla normativa che consente la maternità surrogata. Infine, aggiungevano i giudici penali che, «[…] ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 396 del 2000, le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani (è tale il minore, in quanto figlio di padre italiano: art. 1, comma 1, lett. a) della l. n.91/1992) nati all’estero sono rese all’autorità consolare (comma 1) e devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità locali competenti, se ciò è imposto dalla legge stessa. In questi casi, copia dell’atto è inviata senza indugio, a cura del dichiarante, all’autorità diplomatica e consolare (comma 2)». Di conseguenza, il fatto che l’Uff. di stato civile si fosse limitato a procedere alla trascrizione dell’atto riguardante un cittadino italiano redatto all’estero, non dimostrava la falsità della produzione di detto documento, escludendosi, pertanto, la sussistenza di qualsiasi reato in capo ai genitori della gpa. Nella diversa fattispecie di una adozione «piena» con effetti legittimanti, dichiarata all’estero, App. Milano90 rigettava la decisione del Trib. min. che aveva respinto la richiesta di riconoscimento – attraverso la trascrizione – agli effetti civili interni dell’ordinanza di adozione spagnola, di una bambina nata da una coppia di donne entrambe italiane ed omosessuali, a seguito di fecondazione eterologa medicalmente assistita. Il Tribunale rilevava come, nel caso di specie, si fosse in presenza, non già di una adozione internazionale, ma di una adozione nazionale di minore italiana, figlia della coniuge, realizzata all’estero da parte di cittadina italiana, così come disciplinato dall’art. 44, comma 1°, lett.
piuttosto chiaro di come e dove sia consentita: «This study provides a preliminary overview of the wide range of policy concerns relating to surrogacyas a practice at national, European and global level. It undertakes an extensive examination of national legal approaches to surrogacy. It also analyses existing European Union law and the law of the European Convention of Human Rights to determine what obligations and possibilities surround national and transnational surrogacy. The study concludes that it is impossible to indicate a particular legal trend across the EU, however all Member States appear to agree on the need for a child to have clearly defined legal parents and civil status.» in www.europarl.europa.eu. 88 Cass. pen., sez. V, 10 marzo 2016, n. 792. 89 Corte EDU, sez. IV, ric. n. 66655/13, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia. 90 App. Milano, sez. Minori e Famiglia, decr. 1 dicembre 2015, n. 2543, in www.osservatoriofamiglia.it; vedi anche Trib. Min. Milano, 20 ottobre 2016 n.268; App. Roma, 23 novembre 2016; A. Simeone, Adozione gay all’estero: dalla Consulta nessuna decisione, in Ilfamiliarista.it, 26 febbraio 2016; B. Lavitola, Trascrivibilità dell’atto di matrimonio same-sex e del provvedimento di adozione a favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, in Gius.Civ.com; L. Dell’Osta, Inammissibile la domanda per il riconoscimento di adozione straniera in favore di una coppia omossessuale, in Ilfamiliarista.it, 30 settembre 2016; M. Pisapia, Stepchild adoption: riconosciuta in Italia l’adozione estera del figlio del compagno same sex, in Ilfamiliarista.it, 23 febbraio 2016.
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b) l. n.184/1983. Invero il giudice di prime cure si dichiarava competente in materia di adozione solo per la adozione «piena» (legittimante) del minore straniero in stato di abbandono all’estero e, non ritenendo sussistere i presupposti di cui all’art. 41 comma 2, l. n.218/199591, invitava la ricorrente a richiedere la trascrizione del provvedimento di adozione direttamente nei Reg. stato civile italiano. Presentata, quindi, istanza di trascrizione, la stessa veniva rigettata dalla p.a. in quanto: «[…] il caso specifico non rientra in alcuna delle previsioni di cui all’art. 44 della l. n.184/83 e, in particolare, nella fattispecie di cui al comma 1 lett. b). Al momento i matrimoni tra persone dello stesso sesso non vengono riconosciuti in Italia, pertanto l’adottante per il nostro ordinamento non risulta essere coniuge della madre dell’adottata e quindi il tipo di adozione riconosciuta all’estero non è da ritenersi riconducibile all’ipotesi di adozione in casi particolari». Subito un secondo rigetto, la ricorrente proponeva reclamo chiedendo che fosse riconosciuta in Italia l’ordinanza spagnola di adozione della figlia e che fosse ordinata la trascrizione sia dell’atto di matrimonio contratto all’estero, sia della sentenza di divorzio con tutti gli accordi a questa conseguenti. La C. App., rigettata, in via preliminare, la richiesta di riconoscimento dell’atto di matrimonio contratto all’estero (richiamandosi ai numerosi precedenti giurisprudenziali italiani sia di merito sia di legittimità), di conseguenza respingeva anche la trascrizione della sentenza di divorzio pronunciata in Spagna, ritenendo, però, meritevole di accoglimento la domanda di riconoscimento dell’ordinanza di adozione, con effetti legittimanti, pronunciata dal giudice spagnolo, nell’ordinamento giuridico italiano. Sul punto il giudice del reclamo sottolineava come il provvedimento straniero di adozione avesse coinvolto un’adottante di cittadinanza italiana ed una minore adottata, pure di cittadinanza italiana, perché figlia riconosciuta da madre biologica italiana e non riconosciuta dal padre biologico. Non si verteva, pertanto, in ipotesi di adozione internazionale di minore, né di minore adottabile perché in stato di abbandono all’estero o in Italia, ma di ragazzina che, sin dalla nascita, era stata adeguatamente amata, curata ed istruita da entrambe le donne legate da un progetto stabile e continuativo di vita. L’assunto da cui muoveva la Corte era che, poiché il matrimonio contratto all’estero non aveva efficacia in Italia, l’unica strada percorribile era rappresentata dagli artt. 65 e 66 della l. n.218/9592, non potendosi applicare la previsione dell’art. 44 comma 1°, lett. b) l. n.184/83. Sotto tale profilo il Collegio citava, in parte motiva, oltre a numerosi provvedimenti e norme di natura sovranazionale, anche l’art. 25 della l. n.184/83 per cui l’adozione poteva essere disposta, nell’esclusivo interesse del
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«Restano ferme le disposizioni delle leggi speciali in materia di adozione dei minori»; La Corte d’appello di Milano dispone la trascrizione di una adozione piena da parte della mamma sociale, in www.articolo29.it/2015. 92 App. Milano, sez. Minori e Famiglia, decr. 1 dicembre 2015, n. 2543 «I provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone, nonché alla esistenza dei rapporti di famiglia, come quelli di volontaria giurisdizione hanno effetto nell’ordinamento italiano e sono quindi riconosciuti senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento, quando producono effetti nell’ordinamento dello stato in cui sono stati pronunciati, non sono contrari all’ordine pubblico e sono stati rispettati i diritti della difesa. L’ordinanza di adozione della minore di cui si discute ha piena efficacia in Spagna ed è stata emessa da una autorità giudiziaria spagnola, con l’accertato pieno consenso della madre della bambina»;
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minore, nei confronti anche del solo coniuge che, per libera scelta, come consentito nel nostro ordinamento, nel corso di un affidamento preadottivo, avesse deciso di porre fine alla convivenza coniugale e di separarsi. La scelta era quindi di autorizzare la trascrizione in Italia della adozione «piena» della minore attraverso il recepimento di un provvedimento straniero, ai sensi e per gli effetti delle norme di diritto internazionale privato, oltre che del Reg. CE n.2201/2003. Il succitato provvedimento, fortemente innovativo, ha avuto l’indubbio pregio di superare l’ostacolo frapposto da norme inderogabili di diritto interno, che prevedono l’adozione «piena» solo in caso di coniugio, applicandosi, al caso di specie, sia il diritto convenzionale sia la giurisprudenza sovranazionale, valorizzando così quella tutela del minore che deve ricevere sempre preminente considerazione93. In aderenza con quanto disposto dalla Corte milanese, App. Napoli, con ordinanza del 30 marzo 2016, accoglieva il ricorso presentato da una coppia di donne cittadine francesi (di cui una iure sanguinis anche italiana) che chiedevano disporsi il riconoscimento e la trascrizione in Italia, ad ogni effetto di legge, delle adozioni con effetti legittimanti pronunciate in Francia dal Tribunal de Grande Istance de Lille, nel 2014. In particolare, le ricorrenti, legate da relazione stabile e continua da circa trent’anni, nel 2013 avevano contratto matrimonio in Francia, in forza della l. n.404/2013. Ognuna delle donne, inoltre, aveva concepito un figlio a seguito di inseminazione artificiale, con atto di nascita trascritto nei Reg. del Comune francese. Ai minori era stato apposto il cognome della madre biologica. A seguito di istanze depositate in data 04.02.2014, il Trib. francese aveva emesso due sentenze (n.14/01162 e n.14/01157) di adozione legittimante di ciascun figlio, in favore dell’altra coniuge non genitrice biologica. Successivamente, le donne avevano chiesto, con istanza all’Uff. stato civile del Comune italiano competente, la trascrizione delle predette sentenze nell’ordinamento italiano. Il Sindaco, letta l’istanza, ne disponeva il rigetto poiché tali sentenze richiamavano, quale presupposto per il riconoscimento in Italia, il matrimonio tra le donne celebrato e trascritto all’estero. Si riteneva, nel caso di specie, che tale celebrazione effettuata in Francia, fosse improduttiva di effetti, come peraltro confermato dal decreto di rigetto emesso dal Trib. Avellino, con riferimento all’opposizione depositata dalle donne, in risposta al rifiuto della trascrizione del predetto matrimonio nei registri italiani94. Inoltre, si richiamava l’art. 41, l. n. 218/95, in base al quale si deve «[…] salvaguardare la specialità della materia dell’adozione internazionale rispetto al procedimento di delibazione ordinario, proprio in ragione della specificità delle procedure che vedono coinvolte le autorità del paese di provenienza e del paese di adozione del minore. Procedure intese a garantire che l’adozione internazionale si realizzi con il rispetto degli standard fissati a livello inter-
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F. Tommaseo, Sul riconoscimento dell’adozione piena, avvenuta all’estero, del figlio del partner d’una coppia omosessuale, Fam. Dir., 2016, 275. 94 Deve, altresì, aggiungersi che il medesimo Trib. rigettava, del pari, la richiesta di una delle due donne volta ad ottenere l’aggiunta del proprio cognome a quello della figlia generata dalla coniuge, motivando che, nel caso di specie, il procedimento da instaurare sarebbe stato quello previsto dalla l. 476/98 - Conv. Aja, sull’adozione internazionale - e non quello di cui alla l. n.218/95, artt. 64, 65, 66 e ss.
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nazionale dalla Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 per la tutela dei bambini e per la cooperazione nell’adozione internazionale recepita in Italia con la L. 31 dicembre 1998, n. 476». Per l’effetto, pertanto, i giudici di Trib. ritenevano competente funzionalmente a riconoscere le sentenze francesi di adozione il giudice minorile italiano oltre a non ritenere, in alcun modo, trascrivibile in Italia l’atto di nascita della minore, come rettificato in Francia, perché contrario all’ordine pubblico. Sul punto, di diverso avviso, la Corte partenopea affermava che il caso di specie non potesse essere disciplinato dalla Conv.dell’Aja, così come evidenziato dal giudice di primo grado ma, al contrario, dovesse essere inteso quale «adozione nazionale straniera francese da parte di due donne coniugate – entrambe cittadine francesi di cui una anche iure sanguinis italiana – che, dunque, secondo la loro legge nazionale (art. 343 e ss. Code Civil) erano legittimate ad adottare, in forma piena, i rispettivi figli biologici», quindi anche il minore nato dall’altro coniuge. Dunque, alla luce delle suddette premesse, l’autorità adita, applicando al caso concreto gli artt. 65 e 66 l. n.218/95, rilevava che le sentenze di adozione delle due minori avevano piena efficacia, essendo state emesse dall’autorità giudiziaria francese competente, su istanza delle attuali ricorrenti, previo accertamento da parte del giudice francese del pieno consenso delle rispettive madri dei minori. Il collegio aggiungeva come, nel caso di specie, il provvedimento straniero che statuiva il rapporto di adozione piena tra le coniugi anche se dello stesso sesso ed i rispettivi figli riconosciuti, non potesse, in alcun modo, essere considerato contrario all’ordine pubblico. Attesa, altresì, una concreta valutazione sul fatto che il suddetto riconoscimento, con tutti i diritti e doveri scaturenti da tale rapporto, rispondeva all’interesse superiore dei minori al mantenimento di una «vita familiare costruita con ambedue le figure genitoriali e al mantenimento delle positive relazioni affettive ed educative che con loro si sono consolidate, in forza della protratta convivenza con entrambe e dei provvedimenti di adozione». Conseguentemente, il giudice del reclamo disponeva il nulla osta al riconoscimento nell’ordinamento italiano delle predette sentenze di adozione con effetti legittimanti, ordinando la trascrizione, ex art. 28, lett. g), compresa l’aggiunta del cognome, ex lett. f), delle rispettive adottanti al cognome degli adottati. Provvedimenti decisamente inediti che aprono un’ulteriore finestra sulla possibilità di attribuire ai figli nati da procreazione medicalmente assistita eterologa, praticata all’estero, uguali tutele dei figli nati all’interno e fuori dal matrimonio, ove però solo in presenza di un provvedimento straniero o sullo stato o sull’adozione. Nello stesso senso, App. Milano95 ordinava la trascrizione degli atti di nascita dei gemelli nati negli USA attraverso la pratica della maternità surrogata; i due ovuli erano stati fecondati ciascuno con il seme di uno dei due partner. Il provvedimento di revisione si assestava sul principio in base al quale i due atti di nascita, oggetto della richiesta di trascrizione, non risultavano affatto contrari all’ordine pubblico – così come assimilato dalla
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App. Milano, 28 ottobre 2016, proc. n. 345/2016-346/2016 V.G., con nota di C. Chini, in www.foroitaliano.it, 10 gennaio 2017; A. Schillaci, Passo dopo passo, il diritto si avvicina alla vita: la Corte d’Appello di Milano ordina la trascrizione dell’atto di nascita di due gemelli nati grazie alla gestazione per altri, in www.articolo29.it, 4 gennaio 2017.
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sentenza Cass. n.19599/2016 – emergendo, quindi, le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e, in particolare, di tutela dell’interesse del minore96. Infine, di recente il Trib. min. Firenze97, partendo dal presupposto che lo status filiationis prescinda totalmente dall’esistenza di un rapporto di coniugio tra i genitori anche alla luce della parificazione operata dalle modifiche apportate all’art. 74 cod.civ. dalla l. n. 219/2012, ordinava la trascrizione nei registri dello Stato Civile italiano dei provvedimenti di adozione stranieri di due minori da parte di due cittadini italiani dello stesso sesso. Il paradigma da cui partiva il tribunale è che il matrimonio, ai fini della filiazione, non è principio rientrante tra quelli fondamentali che regolano il diritto di famiglia e dei minori nello Stato. In particolare i ricorrenti avevano, a detta del Collegio, correttamente inquadrato la questione nell’ambito di applicazione dell’art. 36, comma 4, l. n. 184/198398, non ravvisandosi ostacoli alla dichiarazione di status di genitori adottivi poiché l’art. 5 della Convenzione dell’Aja richiede soltanto che le Autorità competenti dello Stato di accoglienza constatino che i futuri genitori adottivi siano qualificati e idonei all’adozione, subordinando la trascrizione dello stato di nascita alla conformità o non contrarietà all’ordine pubblico internazionale quale «complesso di principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo»99.
6. «Il genitore sociale» e l’affidamento eterofamiliare In ultimo, un ulteriore coordinamento normativo deve essere, comunque, immaginato alla luce della recente l. n.173/2015 che ha modificato la l. n.184/1983, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare e che ha introdotto una sorta di automatismo per le adozioni in caso di affidamenti prolungati. Tale novella – entrata in vigore a novembre 2015 –, dando predominante rilievo alla relazione del minore con i genitori non biologici cui è stato affidato per un lungo periodo, ha previsto che all’art. 4 della l. n.184/1983, e successive modificazioni, dopo il comma 5 siano inseriti gli artt. 5 bis, ter, quater100. L’adozione che ne conseguirebbe ha effetti legittimanti estendendosi, tale
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C. Chini, Corte d’Appello di Milano, 28 ottobre 2016: Maternità surrogata - la trascrizione degli atti di nascita di gemelli nati negli USA da due papà non viola l’ordine pubblico, in www.biodiritto.org, 10 gennaio 2017. 97 Trib. min. sez. adozioni, Firenze 7 marzo 2017, Tribunale per i minorenni di Firenze: riconosciuta l’adozione di due minori da parte di una coppia same sex, in www.dirittoegiustizia.it; A. Schillaci, Una vera e propria famiglia”: da Firenze un nuovo passo avanti per il riconoscimento dell’omogenitorialità, in www.articolo29.it, 13 marzo 2017. 98 che stabilisce che l’adozione pronunciata dall’autorità di un Paese straniero, su istanza di cittadini italiani che dimostrino di aver soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del Tribunale per i minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione dell’Aja 29 maggio 1993. 99 Tali principi, nell’ordinamento italiano, possono ricavarsi dalla Cost. e dai Trattati internazionali cui l’Italia ha aderito e che, ex art. 117, hanno lo stesso rango di fonti della Costituzione medesima. 100 «5-bis. Qualora, durante un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi delle disposizioni del capo
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ultima forma, ad alcune ipotesi che in precedenza venivano contemplate nell’art. 44 lett. d). Orbene, nel caso di affidamento familiare protrattosi per un lungo periodo presso coppie same sex, di minore dichiarato successivamente adottabile, attesa l’inammissibilità di adozione piena a coppie omosessuali, si correrebbe il rischio di privilegiare famiglie normocostituite allontanando il minore, dopo diversi anni, da un consolidato contesto di vita. È, quindi, importante comprendere chi sia questo «genitore sociale». Come più volte sin qui accennato, con il d.lgs. n.154/2013, il legislatore ha individuato, come caratterizzante il rapporto di filiazione, il concetto di responsabilità genitoriale. Negli attuali vissuti familiari il rapporto di filiazione è andato sempre più sganciandosi dall’appartenenza genetica, con l’emersione, anche a seguito delle nuove tecniche riproduttive, di nuove figure genitoriali: la madre genetica (donatrice dell’ovocita fecondato), la madre biologica (partoriente) la madre sociale, (senza legami di sangue col minore); il padre biologico ed il padre sociale. Sono figure che possono, di fatto, non coincidere fra di loro. La tutela del diritto allo status e alla identità personale può non identificarsi con le origini genetiche. Le pronunce, cui si è fatto sin qui riferimento, hanno tenuto in debito conto l’importanza di un vaglio giurisdizionale condotto sulla affidabilità di una stabile convivenza che avesse il fine di valorizzare l’equilibrio del minore, i giudici, infatti, hanno accertato, caso per caso, l’eventuale pericolosità dell’interruzione del legame con le figure di riferimento vicine al minore. Nei casi giurisprudenziali sin qui analizzati, il minore è stato tutelato attraverso l’adozione o la trascrizione degli atti di nascita. Tuttavia le espressioni «famiglia o convivenza di fatto» ritraggono una pluralità di relazioni e legami aventi vincoli giuridici, biologici e sociali, anche diversi. Nell’attribuire alcune tutele (ad esempio il diritto agli incontri, nel caso di separazione tra conviventi) ai figli del genitore sociale o della genitrice genetica (che non ha partorito), la giurisprudenza, in questi ultimi anni, si è avvalsa dell’ausilio del concetto di «stabilità» e di «solidità», che è l’esatta cifra della relazione di fatto già intercorrente tra un adulto convivente ed il minore. Su tale presupposto, conseguentemente, possono essere individuate soluzioni che consentano, ad una coppia omosessuale, di esprimersi pienamente nella esperienza della genitorialità – seppur in assenza di un provvedimento adottivo –. Non sono infrequenti i casi in cui il genitore sociale, a causa della crisi di coppia, sia impossibilitato ad esercitare, in assenza di un riconoscimento formale di maternità o paternità, le proprie prerogative genitoriali, con particolare riferimento all’interesse prevalente del minore101.
II del titolo II e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’articolo 6, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il tribunale per i minorenni, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. 5-ter. Qualora, a seguito di un periodo di affidamento il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in affidamento ad altra famiglia o sia adottato da altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento. 5-quater. Il giudice, ai fini delle decisioni di cui ai commi 5-bis e 5-ter, tiene conto anche delle valutazioni documentate dei servizi sociali, ascoltato il minore che ha compiuto gli anni dodici o anche di età inferiore se capace di discernimento». 101 A. Oliviero Ferrris, Il terzo genitore. Vivere con i figli dell’altro, in www.oliviero.eu, Milano, 1997-2015.
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La filiazione omogenitoriale
In questo caso il Trib. min. Milano 102 rigettava il ricorso, proposto da parte del p.m., ai sensi dell’art. 330 cod.civ., avente ad oggetto la presunta incapacità genitoriale di una madre, conseguente al rilievo mosso dalla «madre sociale», cui era stato impedito un rapporto con i minori figli della ex convivente. Il Trib. Min. dichiarava, inizialmente, il difetto di legittimazione della genitrice sociale, con riguardo alle domande formulate in prima istanza, nonché la propria incompetenza in ordine alla richiesta avanzata ai sensi degli artt. 342 bis e ter c.c. (ordini di protezione). Trasmetteva, quindi, gli atti al p.m. affinché valutasse la necessità di apertura di un procedimento ex artt. 330 e ss. cod.civ.. Inoltre, il Collegio evidenziava come la madre sociale non potesse essere «portatrice della responsabilità genitoriale», intesa quale insieme dei poteri/doveri tesi ad assicurare il benessere materiale e morale del minore, non essendo neppure legittimata a richiedere ed ottenere un provvedimento che fosse espressione dell’esercizio della responsabilità genitoriale. Ad ogni buon conto, non essendo emerso, nel corso della espletata ctu, una inadeguatezza materna tale da comportare un provvedimento limitativo della responsabilità, l’istanza veniva respinta. Il successivo provvedimento del Trib. Palermo103 è di segno opposto, benché cassato in sede di appello, ma valorizzato dalla Corte delle leggi. Il caso è relativo a due madri, una biologica (fecondata col seme di un comune amico) l’altra sociale. Successivamente alla crisi sentimentale, le donne confliggevano circa la facoltà per la madre sociale di frequentare il bambino. Il tribunale, a seguito di ctu, consentiva il diritto di visita alla madre non biologica, tenendo in primaria considerazione il principale interesse del minore. In linea di diritto, in questi particolari casi, gli aspetti di maggiore problematicità emergono a causa della carenza di legittimazione della madre sociale a vedersi riconosciuto un ruolo genitoriale. Il Trib., sul punto, chiariva che il legame biologico non era determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili relazioni con il genitore sociale, sempre che questi abbia rivestito un ruolo decisivo per la crescita del bambino, pur non essendo legato da rapporti di parentela. Il giudice effettuava un’interpretazione evolutiva dell’art. 337 ter cod.civ., conformemente al dettato costituzionale ed alle fonti di diritto internazionale, estendendo l’ambito applicativo della norma per includere, nel concetto di bigenitorialità e di famiglia, anche la figura di questa «non genitrice», ossia di quella donna che aveva instaurato con il minore un legame familiare di fatto significativo e duraturo. Nel caso di specie veniva dichiarata la competenza del tribunale ordinario e non di quello minorile, non essendo equiparabile, tale ipotesi, alla diversa domanda giudiziaria introdotta con l’art. 317 bis cod.civ. che tutela, invece, il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. Successivamente, la C.Cost.104, interessata
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Trib. min. Milano, decr., 20 ottobre 2009; in particolare, il giudice osservava come la ricorrente non fosse titolare di un diritto potestativo spettando la titolarità della potestà unicamente ai genitori. 103 Trib. Palermo, sez. I, 13 aprile 2015. 104 C. Cost. 5 ottobre 2016, n.225, in www.foroitaliano.it, Riconosciuto il diritto del genitore “sociale” a mantenere rapporti con il minore, in www.dirittifondamentali.it, anno 2016; G. Casaburi, in Foro it. 2016, 3329; Fiorini, in Guida al diritto, 2016, 45, 67.
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Michela Labriola
della questione di legittimità – sollevata in relazione ai plurimi parametri costituzionali, dalla Corte d’Appello di Palermo – dell’art. 337 ter cod.civ., nella parte in cui, disponendo che il minore ha diritto di mantenere rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale, impedirebbe al giudice di garantire la conservazione, nell’interesse del minore, di rapporti, ove ugualmente significativi, con soggetti diversi dal ramo parentale (nella specie l’ex partner omoaffettiva a della genitrice biologica di due minori) chiariva che l’interruzione ingiustificata, da parte di uno o di entrambi i genitori è in contrasto con l’interesse del minore. Questo minore che ha intessuto un rapporto significativo con soggetti che non siano parenti ma da cui potrebbe essere allontanato subisce, infatti, un pregiudizio riconducibile, sotto il profilo psicologico, alla ipotesi di condotta del genitore “comunque pregiudizievole al figlio”, in relazione alla quale l’art. 333 cod.civ. già consente al giudice di adottare “i provvedimenti convenienti”. Non sussiste, pertanto, il vuoto di tutela dell’interesse del minore presupposto dal giudice rimettente. In conclusione la tendenza, più volte evidenziata, dell’affidamento del minore all’ente socio-assistenziale, contraddice il codice di priorità che prevede la l.184/1983. In prima battuta è sempre preferibile una famiglia che, anche se rappresentata da una coppia di persone dello stesso sesso, nel primario interesse del minore, non deve più meravigliare105.
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A. Cardoret, Genitori come gli altri. Omosessualità e genitorialità, Milano, 2002.
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Giurisprudenza App. Napoli, sez. min., decreto 29 marzo 2017; Viciglione, Presidente – Sensale Estensore Richiesta nomina amministratore di sostegno – Condizione fisica e mentale – Esigenze personali e patrimoniali – Protezione della persona – Conflitto endofamiliare – Rigetto nomina amministratore di sostegno – Tutela dignità e libertà della persona. La condizione fisica e mentale che limita la capacità di provvedere alle esigenze personali e patrimoniali, in presenza di una efficace rete familiare di assistenza, non consente l’accoglimento della richiesta per la nomina di un amministratore di sostegno. L’ attenzione è posta sulla tutela della persona, sulla sua dignità e sulla sua libertà. La nomina di un amministratore di sostegno non può essere il pretesto per risolvere un conflitto endofamiliare e per regolare mere aspettative ereditarie.
(Omissis) FATTO E DIRITTO 1 - Nel decreto del 20 luglio 2016 del Giudice tutelare presso il Tribunale di Napoli si legge che: – … chiese la nomina per la madre … di un amministratore di sostegno a tempo indeterminato, da individuarsi al di fuori della cerchia familiare, sul presupposto che la madre il 4.01.14 era stata colpita da un grave evento vascolare, a seguito del quale era rimasta ricoverata per oltre tre mesi nella clinica Neuromed di Pozzilli, e che il giorno prima delle dimissioni aveva rilasciato al coniuge … procura generale ad amministrare il suo cospicuo patrimonio; in forza di tale procura, il 24.02.15 il coniuge aveva svenduto, per un importo esiguo, la quota di partecipazione della … alla srl …; il successivo 25.03.16, in base alla stessa procura, … già proprietario del 50% di uno yacht, ne aveva acquistato dalla moglie l’altra metà; e tali atti ledevano gli interessi economici e patrimoniali della madre … , laddove era preclusa ad essa ricorrente, per la conflittualità che la contrapponeva al padre e ai germani, ogni possibilità di far visita alla madre, tanto da avere appreso del peggioramento delle sue condizioni di salute solo indirettamente; – si sono costituiti … , i figli …, … , … e la sorella dell’interessata, … - … ha dedotto che la moglie, dopo l’emor-
ragia cerebrale che l’aveva colpita, ha seguito un lungo percorso riabilitativo anche presso centri specialistici all’estero; e tuttora, nella sua abitazione in cui vive con il marito e la sorella, è assistita da una coppia di badanti e può usufruire di un’assistenza infermieristica continua; ha spiegato, con riferimento alle operazioni oggetto del ricorso, che la cessione delle quote della srl ha avuto lo scopo di formalizzare “l’avvicendamento generazionale alla guida dell’azienda” e l’accordo familiare già in precedenza intervenuto; e che la vendita del 50% dell’imbarcazione si era resa necessaria sia perché, in seguito alla malattia, non sarebbe stato più possibile utilizzarla come nel passato, sia perché i costi di manutenzione erano molto alti e il prezzo della sperata alienazione poteva in parte compensare le accresciute esigenze economiche della famiglia; ha concluso precisando che la moglie è tuttora proprietaria di un cospicuo patrimonio immobiliare che le garantisce una rendita mensile di oltre 7.000 euro; per cui ha chiesto rigettarsi il ricorso o, in subordine, di essere nominato egli stesso amministratore di sostegno; - i figli e la sorella di … hanno dedotto che questa è costantemente assistita da medici e infermieri, oltre che dal marito (che perciò si è ritirato dalla attività lavorativa) e dagli altri congiunti; hanno aggiunto che l’amministrazione di sostegno mira ad assicurare cure e protezione al beneficiario e
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non a tutelare aspettative successorie dei familiari. 2 - Il Giudice tutelare, nel decreto impugnato, ha rilevato che “la certificazione medica prodotta offre un quadro esaustivo della malattia della … e dell’iter terapeutico e riabilitativo cui essa è stata sottoposta dal momento in cui è stata colpita dall’emorragia cerebrale”; “l’audizione e l’esame cui ella è stata sottoposta all’udienza del 14 luglio 2016 dimostrano inequivocabilmente che tuttora la donna manifesta le conseguenze della malattia che l’ha colta: l’incertezza relativa alla individuazione dei familiari con cui convive (...), il disorientamento temporale (…), l’erronea individuazione della casa dove abita (...), l’incapacità di offrire un quadro esaustivo ed attendibile delle proprie risorse economiche (...), le pesanti conseguenze fisiche che l’insulto cerebrale ha avuto sulla sua capacità di muoversi autonomamente e di esprimersi in maniera sempre comprensibile rendono evidente che la … è sicuramente incapace di provvedere, in piena autonomia, alle esigenze personali di cura ed ai propri interessi patrimoniali”; “sennonchè, alle esigenze di cura ed assistenza (. . .) hanno provveduto e provvedono egregiamente il marito e i familiari che la circondano”; “la donna (...) è stata oggetto di una attenzione costante, volta non solo a rimediare alle emergenze che, di volta in volta, si sono presentate, ma anche al recupero delle abilità compromesse”; “gli interventi cui, nel corso degli anni, la … è stata sottoposta, i ricoveri presso strutture di cura e riabilitazione, in Italia e all’estero, e il complesso sistema assistenziale che il marito ha predisposto nella casa coniugale (...) dimostrano che, sotto tale aspetto, l’interessata non ha certamente bisogno di una figura di sostegno, posto che le sue esigenze non potrebbero essere soddisfatte in maniera più adeguata”, come confermato nella “relazione che gli operatori dei Servizi sociali hanno trasmesso all’ufficio, dopo una visita al domicilio dell’interessata”; non
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trova riscontro l’allegazione della ricorrente secondo la quale i due atti dispositivi compiuti da … … quale procuratore generale della moglie (...) abbiano spogliato la … “pressoché quasi interamente del suo patrimonio”, dal momento che “la … è piena ed esclusiva proprietaria di sette immobili (alcuni dei quali prestigiosi), dai quali percepisce una rendita mensile di oltre settemila euro”; i due atti dispositivi “sono stati compiuti in forza di una procura generale rilasciata al marito il giorno 12 maggio 2014, dinanzi al notaio …”; in merito ai dubbi adombrati dalla ricorrente sulla capacità della madre di esprimere una volontà piena e consapevole al momento del rilascio della procura, la scheda di dimissione del 13.05.14, che attribuisce all’ammalata “uno stato di minima coscienza”, non è sottoscritta dal medico responsabile né dal direttore sanitario, per cui non ha valore probatorio; “in difetto di qualsiasi specifica iniziativa volta ad invalidarla, deve ritenersi che la procura generale sia l’espressione della volontà libera e consapevole della …, di cui il notaio, sotto la sua personale responsabilità, ha evidentemente accertato, preventivamente, la capacità di intendere e di volere”; “la procura generale, sulla scorta della quale il … ha compiuto gli atti oggetto di contestazione, è la chiara e inequivocabile volontà della … di affidare al marito la gestione dei propri interessi e della fiducia che essa riponeva in lui”; “la procura gli venne rilasciata in previsione dell’intervento chirurgico cui la moglie doveva sottoporsi ed è verosimile che ella, ben conscia del suo stato e dei rischi cui andava incontro, volesse evitare che un suo possibile impedimento rendesse difficoltosa o addirittura impossibile la gestione della azienda creata dal marito”; “le condizioni attuali della interessata non consentono di ricostruire la sua volontà in ordine agli atti compiuti, ma è verosimile ritenere che la …, se potesse manifestare la sua volontà, condividerebbe le scelte del marito, sia perché la cessione delle proprie quote è avvenuta in favo-
Rosaria Giampetraglia
re dei figli, nell’ottica di una continuità familiare nella titolarità e nella responsabilità dell’azienda, sia perché la quota dell’imbarcazione rilevata dal marito è, verosimilmente, finalizzata ad una più agevole dismissione di un bene, divenuto, con la malattia, inutilizzabile concretamente e fonte di spese assolutamente insostenibili”; “gli atti compiuti non costituiscono certamente il segno
carattere patrimoniale e per l’effetto disporsi la nomina di un terzo estraneo alla famiglia quale tutore ovvero amministratore di sostegno, a seconda del rimedio che meglio rispecchi le esigenze dell’interessata, anche in considerazione del conflitto endofamiliare e della straordinaria consistenza del patrimonio della interessata. Con vittoria di spese.
di una gestione sconsiderata degli interessi patrimoniali della … da parte del marito; né è possibile ipotizzare che tali dismissioni possano pregiudicare le condizioni della donna ed impedirle di mantenere, nei limiti imposti dalla malattia, il tenore di vita che il marito e l’azienda familiare le hanno assicurato negli anni”; “la stessa ricorrente non dubita della consistenza patrimoniale del
4 - Nel costituirsi in giudizio, … ha concluso per il rigetto del reclamo e, in subordine, in caso di apertura dell’amministrazione di sostegno, per la nomina di se medesimo quale amministratore. Analoghe conclusioni hanno rassegnato … … … e … nonché … , con l’ulteriore subordinata che uno di loro sia nominato amministratore.
padre e neppure ipotizza che la malattia (abbia interrotto, o) possa interrompere quel legame di affetto tra i genitori, cementato da un matrimonio che dura da oltre cinquant’anni”; “cosicché,
5 - All’udienza del 23.11.16 la Corte ha riservato la decisione sulle conclusioni riportate a verbale.
in conclusione, deve ritenersi che, pur versando l’interessata in una condizione fisica e mentale che ne limita fortemente la capacità di provvedere alle esigenze personali e patrimoniali, ella non abbia bisogno di alcuna misura di tutela, posto che l’utilizzo dello strumento che la stessa interessata, nell’ambito della sua autonomia, ha inteso riservare al marito è idoneo ad assicurare il conseguimento di quegli obiettivi che, pur non potendo oggi essere ratificati dall’interessata, devono ritenersi, presumibilmente, a lei comuni, perché sono stati condivisi in un momento in cui essa era pienamente cosciente e perché realizzano, oggi, la sua presumibile volontà”. Su tali presupposti, il Giudice tutelare ha rigettato la domanda di … per l’apertura dell’amministrazione di sostegno a beneficio della madre … . 3 - … ha proposto reclamo, chiedendo revocarsi l’impugnato decreto e dichiararsi che la signora … necessita di un’adeguata tutela di
6 - Prima di esaminare le specifiche censure mosse da … al decreto impugnato, è opportuno premettere che l’amministrazione di sostegno differisce dai tradizionali istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione non per un diverso e meno intenso grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma per la maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze dell’amministrato, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa, con l’obiettivo (espressamente enunciato dall’art. 1, legge 9 gennaio 2004, n. 6) della minor limitazione possibile della capacità di agire del soggetto in difficoltà [Cass., 11 settembre 2015, n. 17962; Cass., 26 ottobre 2011, n. 22332; Cass., 1 marzo 2010, n. 4866]. Tale obiettivo rende l’amministrazione di sostegno compatibile con la Convenzione di New York del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 3 marzo 2009, n. 18, nella
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parte che concerne l’obbligo degli Stati aderenti di assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità di agire siano proporzionate al grado in cui esse incidono sui diritti e sugli interessi delle persone con disabilità [Cass., 25 ottobre 2012, n. 18320]. Il rispetto della vita privata e familiare rende del tutto eccezionale, e strettamente limitata alle esigenze di protezione della salute e dei bisogni della persona non autosufficiente, l’ingerenza di un’autorità pubblica. La limitazione della capacità di agire della persona va evitata tutte le volte in cui sia, nel caso concreto, superflua non solo e non tanto in rapporto alle condizioni psico-fisiche della persona stessa, quanto per la presenza – come evidenziato dalla giurisprudenza di merito e da autorevole dottrina – di una rete familiare attenta alle esigenze della persona, accompagnata dalla disponibilità del soggetto bisognoso ad avvalersi dell’aiuto proveniente dai familiari. In altri termini, l’amministrazione di sostegno è un istituto residuale che si giustifica soltanto di fronte a bisogni che nel caso concreto non possano essere soddisfatti in altro modo, ad esempio mediante strumenti tradizionali quale il mandato, con relativa procura generale conferita a persona di fiducia dell’interessato. Va dunque salvaguardata, fin quando possibile, la piena capacità della persona che possa contare su affetti familiari sicuri e sulla solidarietà
al rango di vero canone ermeneutico, capace di orientare l’interprete, nel dubbio, verso l’opzione più vicina all’obiettivo posto dal legislatore. 7 – Sostiene la reclamante … che l’esistenza di una rete familiare “non è di per se’ presupposto idoneo ad escludere la concessione di un’adeguata tutela dell’interessata, laddove, come nel caso in esame: – sia accertata la sussistenza di una grande conflittualità tra la ricorrente e il resto della famiglia; conflittualità che, peraltro, ha dato luogo ad un comportamento persecutorio della stessa nei confronti della ricorrente”. L’assunto è infondato, perché l’amministrazione di sostegno è un istituto creato al fine di curare l’interesse dell’amministrato, sicché rileverebbe semmai un conflitto di interessi tra l’amministrato e chi provveda – di diritto o di fatto – alla gestione del suo patrimonio. La ricorrente … allude invece ad un conflitto fra se stessa, da una parte, ed i genitori e i germani, dall’altra; conflitto che può incidere sulle rispettive aspettative successorie, ma che nulla ha a che vedere con le esigenze di conservazione del patrimonio della madre finché questa è in vita. La ricorrente non allega invece alcun conflitto tra la madre e il marito e non prospetta affatto – almeno esplicitamente, salvo quanto si dirà tra poco sui due atti dispositivi in contestazione – un proposito di … di arrecare danno economico alla moglie per un proprio tornaconto.
delle persone gravitanti nella sua cerchia, sempre che non le faccia difetto la consapevolezza degli atti compiuti e da compiere. Peraltro, il dato normativo è incentrato sulla “impossibilità” di provvedere ai propri interessi, sicché ne esulano le ipotesi di mera difficoltà e le situazioni in cui alle carenze psico-fisiche della persona possa sopperire la supplenza dei familiari. Il richiamato art. 1 della legge 6/2004 contiene, perciò, la principale direttiva al compito del giudice, là dove si afferma la necessità di giungere alla minore limitazione possibile della capacità di agire della persona. Tale prescrizione assurge
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8 – Sostiene inoltre la reclamante che l’amministrazione di sostegno è necessaria di fronte all’assoluta certezza che le operazioni poste in essere da … (grazie alla procura conferitagli dalla moglie) non rispondono ad alcun reale o concreto interesse della beneficiaria, ma anzi ne depauperano in maniera considerevole il patrimonio. Osserva invece la Corte – non prima di aver considerato che le cospicue spese di cura (anche all’estero) e di assistenza quotidiana assicurate ad … gravano in linea di principio sul suo personale patrimonio, onde il bisogno di una rilevante li-
Rosaria Giampetraglia
quidità – che non è palesemente pregiudizievole per la … la vendita della quota di comproprietà della barca, ottenendo così una liquidità immediata (utilizzabile per il suo maggiore benessere) di € 150.000,00 (come indicato in reclamo) o di € 200.000,00 (come indicato di nuovo dalla reclamante nelle deduzioni a verbale del 23.11.16), con azzeramento delle spese di manutenzione, nella prospettiva di uno scarso o nullo godimento diretto del natante, laddove non vi è prova che il medesimo abbia il valore di mercato indicato dalla ricorrente (un milione e mezzo di euro), in presenza di un formale incarico di mediazione per la vendita conferito in data 1.03.l6 al broker South Seas Yachting srl, per un prezzo, al lordo della provvigione, di € 400.000,00. Quanto alla cessione della quota nella società di famiglia (che la ricorrente stima apoditticamente in dieci milioni di euro), la ricorrente sembra contraddirsi là dove ipotizza che, se fosse vero lo scopo programmato (prima della malattia della …) di realizzare la continuità aziendale in favore dei figli, sarebbe stato più logico procedere ad una donazione, fiscalmente più vantaggiosa, a beneficio di tutti . i figli, ricorrente compresa. La contraddizione si manifesta laddove, ad onta dei vantaggi fiscali, la donazione avrebbe comportato una perdita patrimoniale certa e secca per la … , che invece dalla cessione ha intascato un milione di euro. Neppure è vero che la continuità aziendale dovesse essere realizzata in favore di tutti i figli, potendo la donazione riguardare anche soltanto alcuni di essi, salvo futura eventuale collazione. Ma qui si tratta di tutelare gli interessi di … in vita, non di regolare la sua successione mortis causa e tanto meno di cautelare mere aspettative ereditarie dei congiunti. Non è questa neppure la sede per valutare il tasso di ambiguità e spregiudicatezza (in assenza di allegazioni di illiceità) di operazioni societarie che, in concreto, sono consistite nella rinuncia della … per il tramite del suo procuratore gene-
rale, a sottoscrivere, evidentemente a sue spese, un aumento di capitale – la cui convenienza per l’interessata sarebbe tutta da dimostrare – per poi cedere ai figli la sua “diluita” (ossia ridotta) partecipazione sociale ad un prezzo che, nella prospettazione della ricorrente, è esiguo non in rapporto al valore della quota effettivamente venduta, ma in rapporto al valore che sarebbe stato ottenuto eventualmente sottoscrivendo (onerosamente) l’aumento di capitale. La ricorrente mostra di valutare la convenienza di operazioni commerciali – relative alla barca e alla società di famiglia – in base a criteri astratti e spersonalizzati, trascurando l’età e le condizioni di salute di … e dunque il suo maggior interesse per risorse economiche immediatamente fruibili e dunque più statiche e più liquide di quelle riferibili all’attività d’impresa e al diporto nautico. E poi una chiosa merita la ripetuta convinzione della ricorrente di essere, tra i figli, “l’unica che, da sempre, ha tutelato gli interessi [della madre] opponendosi fermamente ai familiari” (reclamo, pag. 15, ultimi righi), sicché, ove la madre avesse disposto consapevolmente dei suoi beni, non l’avrebbe pretermessa nella cessione della quota societaria. Sta di fatto, però, che dei rapporti tra la ricorrente e la madre risultano documentati soltanto gli aspetti conflittuali, in sede giudiziaria civile e penale. Invece non vi è traccia di alcun disaccordo tra la … e il marito, tale da far escludere o apparire inverosimile l’intenzione della moglie di conferire al coniuge una procura generale perché amministri i suoi beni anche senza un proprio approfondimento di ogni singolo atto dispositivo, ma sulla base di una complessiva fiducia nell’operato del marito, quale giustificherebbe, in caso di apertura della amministrazione di sostegno, la designazione del marito stesso da parte dell’amministrata ovvero la sua nomina da parte del giudice ai sensi dell’art. 408 c.c., il quale espressamente indica nel coniuge non separato l’opzione prioritaria.
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9 – I due atti di disposizione incriminati – a parere della ricorrente (non condiviso dalla Corte) sintomatici dell’intenzione di … di arrecare danno alla moglie (salvo poi a dedicarle tempo e denaro a iosa per le cure e l’assistenza) – hanno una loro logica propria e non lasciano presumere un piano di sistematica dismissione del patrimonio della … il quale, consistendo prevalentemente in proprietà immobiliari produttive di reddito da locazione, non è connotato, al contrario di
chiaro che si tratta di valutazioni connotate dalla clausola rebus sic stantibus, onde si provvederà a tempo debito ove dovessero sorgere esigenze diverse da quelle oggi prospettate. Di nessun pregio, infine, è il ripetuto riferimento della ricorrente al proprio diritto (morale) di far visita alla madre. Non pare alla Corte che la questione – se davvero i resistenti abbiano condotte cosi ciniche e meschine – possa essere risolta da un amministratore di sostegno.
quanto dice la ricorrente, da “un’evidente complessità” (reclamo, pag. 11, righi l-4), tale da imporre l’amministrazione di sostegno in luogo del supporto familiare. Ed è una petizione di principio che l’imparzialità evocata dalla ricorrente (reclamo, ibidem) possa essere garantita soltanto da un amministratore estraneo alla famiglia.. Per di più, come già chiarito, si tratta pur sempre dell’imparzialità nella valutazione dell’interesse dell’amministrata, non certo dell’imparzialità nelle dispute tra i suoi familiari, che restano del tutto estranee al significato e allo scopo dell’istituto. E ancora la reclamante dubita della consapevolezza con la quale la madre conferì la procura generale al marito, nonostante la positiva valutazione del notaio. Giova ripetere, al riguardo, che, trattandosi di procura generale, essa presupponeva in quel momento soltanto il consapevole affidamento al marito della gestione dei suoi interessi, non anche la analitica prefigurazione dei singoli atti dispositivi che il marito avrebbe compiuto in nome e per conto di lei. Del resto, il risultato non cambierebbe in caso di nomina del marito come amministratore di sostegno in mancanza di validi argomenti per nominare un’altra persona. Ed è
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10 – Il reclamo va dunque respinto. I peculiari connotati della vicenda, inserita in un più ampio conflitto endofamiliare, testimoniato dalla produzione di atti di altri giudizi, giustificano la compensazione delle spese di lite. 11 – Sussistono i presupposti di cui all’articolo 13, comma 1 quater, del DPR 30 maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte di … , di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato. P.Q.M. la Corte, definitivamente pronunciando sul reclamo di … nei confronti di … , … , … , … , … , … , … , … , contro il decreto 20 luglio 2016 del Giudice tutelare presso il Tribunale di Napoli, sentito il Procuratore Generale, così provvede: a) rigetta il reclamo; b) dichiara compensate le spese di lite; c) dà atto che sussistono i presupposti di cui all’articolo 13, comma 1 quater, del DPR 30 maggio 2002 n. 115, perché … versi un ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Napoli, 21 dicembre 2016.
Rosaria Giampetraglia
Il conflitto endofamiliare non giustifica la nomina di un amministratore di sostegno Sommario : 1. L’istanza. – 2. Il contesto di riferimento. – 3. L’applicazione della disciplina al caso concreto.
The decision of the Court of Appeal of Naples, concerning the institute of the support administration, shows a highly relevant profile of interest because it is an expression of the close attention of Italian jurisprudence for the protection of the “person”, of his needs, of his dignity and freedom, therefore, for interests in life. In particular, it affirms that the nomination of an administrator who takes care of an incapable person cannot be the excuse to solve a conflict which is within the family and to regulate mere hereditary expectations. So, it appears to be in compliance with the ratio of the institute, according to the principles of our Constitution.
1. L’istanza. La Corte di Appello di Napoli, Sezione minorenni, persona e famiglia, con decreto del 29 marzo 2017, ben argomentato e analitico, rigetta il reclamo contro il decreto 20 luglio 2016 del Giudice tutelare presso il Tribunale di Napoli, sentito il Procuratore Generale, riguardante la nomina di un amministratore di sostegno o di un tutore, a seconda del rimedio che più avrebbe tutelato l’interessata, depositato dalla figlia di una signora colpita da un grave evento vascolare. I peculiari connotati della vicenda, inserita in un più ampio conflitto endofamiliare, inducono la Corte di appello a ritenere la beneficiaria già adeguatamente protetta dalla rete familiare nella quale è inserita e, dunque, a negare l’attivazione dell’amministrazione di sostegno. La figlia, stante un grave conflitto endofamiliare in atto, chiede la revoca del decreto impugnato rappresentando la necessità della nomina di un amministratore di sostegno, estraneo alla famiglia, al fine di garantire un’adeguata tutela di carattere patrimoniale per la straordinaria consistenza del patrimonio della madre, che, aveva rilasciato al proprio coniuge una procura generale ad amministrare il suo cospicuo patrimonio. Lamenta altresì che alcune operazioni di amministrazione di detto patrimonio, effettuate dal padre nella sua qualità di procuratore, hanno leso gli interessi economici e patrimoniali della madre. Nel costituirsi in giudizio il marito, i figli e la sorella dell’interessata alla nomina dell’amministratore, chiarito che le operazioni economiche poste in essere non hanno leso i suoi interessi patrimoniali e che la stessa è ben assistita grazie ad un’efficace rete familiare,
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concludono tutti per il rigetto del reclamo ed in subordine affinché uno di loro sia nominato amministratore di sostegno. Nel corso del giudizio la reclamante evidenzia che l’esistenza di una rete familiare, in particolare le attenzioni del padre e degli altri congiunti oltre che una continua assistenza da parte di due badanti, di medici ed infermieri, non rappresentano un’adeguata tutela per la madre, accertata la sussistenza del grave conflitto tra la ricorrente stessa ed il resto della famiglia, incidente sulle rispettive aspettative successorie e aggravato dal compimento dei due atti dispositivi, posti in essere dal padre, nella sua qualità di procuratore generale della madre e che, a parere della ricorrente, hanno depauperato fortemente il patrimonio della madre.
2. Il contesto di riferimento. È opportuno premettere una breve considerazione sulla ratio dell’amministrazione di sostegno. Prima della legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno del 2004, il nostro codice civile trattava la tutela giuridica dei soggetti che avevano bisogno di “attenzione” solo in termini di interdizione e di inabilitazione, ponendo al centro dell’attenzione la protezione e la gestione patrimoniale degli stessi. Con la dichiarazione di interdizione il tasso di invalidazione è altissimo, i soggetti sono dichiarati incapaci totalmente di provvedere ai propri interessi, per gli infermi di mente era previsto solo la privazione totale della capacità di agire, una vera e propria morte civile1. Pur essendo ben delimitata l’area di applicazione ai soli casi di incapacità gravissima, nella realtà dei fatti l’interdizione finiva con il trovare applicazione anche nelle ipotesi che non necessitavano di una forma di tutela così invasiva. La dichiarazione di inabilitazione trova applicazione, invece, nei casi in cui l’infermità mentale non è così grave da dar luogo alla dichiarazione di interdizione. Il soggetto affetto da una infermità di mente, più o meno grave, in passato costituiva un peso per la famiglia e per la società, un soggetto non tanto da tutelare quanto da temere in virtù di una mera presunzione di pericolosità sociale che giustificava il ricorso ad un ricovero, spesso coattivo, presso strutture a ciò destinate2. La misura dell’interdizione risultava una misura idonea ad impedire ogni libertà di azione e spesso, totalizzante e largamente sproporzionata alle esigenze dello stesso, ne sacrificava ogni residua estrinsecazione della personalità. Una sorta di “marchio infamante”.
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La dicitura era del codice civile del 1942 con riferimento ai pazienti psichiatrici senza considerazione alcuna per i casi di disabilità intellettiva o relazionale È soltanto nel 1978 che viene attuato il principio ex art. 32, comma 2 Cost., secondo il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Sul punto si rinvia alla legge 13 maggio 1978 n.180 di disciplina degli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori ed alla legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale.
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Alcuna possibilità era dunque prevista per “affiancare” tali soggetti nel compimento degli atti personali (es. manifestare un consenso ai trattamenti terapeutici) e patrimoniali (es. una semplice accettazione di eredità). L’unico rimedio previsto era il ricorrere ad una dichiarazione di interdizione o di inabilitazione con la relativa nomina di un tutore o di un curatore che incideva fortemente sulla capacità di agire. Progressivamente l’attenzione del legislatore si sposta dalla privazione della capacità e dal riferimento esclusivo alla gestione patrimoniale del soggetto in difficoltà, alla valorizzazione della “persona” e alla necessità di privilegiare la sua libertà e di assicurare la tutela dei suoi interessi del vivere quotidiano. La priorità è la tutela della “persona” e, in via indiretta, quella del suo patrimonio. È dunque un rovesciamento di prospettiva: non più la tipizzazione della patologia del soggetto che porta alla declaratoria della sua incapacità, l’attenzione si sposta sull’esigenza di protezione della “persona”, che sia totalmente o parzialmente incapace di intendere o di volere3. Con la legge 9 gennaio 2004 n.6, e a seguito di un lungo dibattito, la condizione giuridica dei soggetti incapaci e gli istituti posti a loro tutela, subiscono, dunque, un’importante innovazione dovuta all’introduzione, accanto ai tradizionali istituti dell’interdizione e della inabilitazione, della nuova figura dell’amministrazione di sostegno che si differenzia da questi ultimi non per il diverso grado di infermità o impossibilità di badare ai propri interessi ma per il fatto di assicurare uno strumento duttile e flessibile che conduca alla minore limitazione possibile della capacità di agire del soggetto interessato4. La nuova legge, apprestando uno strumento di evidente semplicità procedimentale e di elasticità nei contenuti, pone al centro dell’attenzione la persona, le sue esigenze e non più la sola cura del patrimonio. L’art.1 della legge 6/2004 è chiaro sul punto, la finalità della nuova legge è dichiarata in maniera espressa: “tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”5.
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Prospettiva in linea con i principi dettati dalla Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia con legge 3 marzo 2009 n.18. La rubrica in origine “Dell’infermità, dell’interdizione e dell’inabilitazione” ex art. 2, l. n. 6/2004 è stata così sostituita “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia” e ciò a testimonianza della ragione ispiratrice della nuova legge di salvaguardare quanto più possibile la sfera di autonomia del soggetto incapace. Tra i tanti cfr. E. Calò, Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004, n.6, Milano, 2004; C.M. Bianca, Premessa, in AA.VV. L’amministrazione di sostegno, a cura di S. Patti, Milano, 2005; G. Ferrando, L’amministrazione di sostegno, a cura di G. Ferrando, Milano, 2005; G. Bonilini, I presupposti dell’amministrazione di sostegno, in G. Bonilini, F. Tommaseo, Dell’amministrazione di sostegno, in Cod. civ. comm. Fondato da P. Schlesinger e dir. da F.D.Busnelli, Milano, 2008; P. Stanzione, Costituzione, diritto civile e soggetti deboli, in Fam. e dir., 2009, 3, 305. In giurisprudenza tra le tante cfr. Cass. 1 marzo 2010, n.4866 in Fam. Pers. e succ., 2010, 325; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22332, in Riv. Not. 2013, 466 con nota di M.F. Giorgianni, La flessibilità dell’amministrazione di sostegno; Cass. 11 settembre 2015, n.17962 in Giur. it., 2016, 1, 57 con nota di C. Pirro, Amministrazione di sostegno – una tutela in punta di piedi. Cfr. Cass. 25 ottobre 2012, n. 18320 in Giust. civ., 2013, I, 1791 ss. secondo la quale “la disciplina normativa nell’amministrazione di sostegno, è pienamente compatibile con la Convenzione di New York del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con gli artt. 1 e 2 della legge 3 marzo 2009, n.18 nella parte che concerne l’obbligo degli Stati aderenti di assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica siano proporzionate al grado in cui esse incidono sui diritti e sugli interessi delle persone con disabilità, che siano
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L’amministratore di sostegno, diversamente dalla figura del tutore nell’interdizione che sostituisce il soggetto incapace, svolge, dunque, e principalmente, un ruolo di integrazione con il soggetto bisognoso di “attenzione”, per il compimento di tutte le azioni del vivere quotidiano, con la conseguenza che emerge tutto il carattere solidaristico rispetto alla prospettiva delle altre due misure di protezione che privano, in tutto o in parte, di autonomia i soggetti. La ragione ispiratrice della nuova legge consiste nel preservare quanto più possibile la libertà e l’autonomia della persona così che l’amministrazione di sostegno diventa la prima nella lista delle misure di protezione, diversamente dalle altre misure privative, totalmente o parzialmente, della capacità di agire che assumono rilevanza solo come extrema ratio6. L’amministrazione di sostegno, infatti, diversamente dagli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione che attribuiscono al soggetto uno status di totale o parziale incapacità, fortemente invalidante, permette, alla persona bisognosa di aiuto, di essere assistita solo per il compimento di determinati atti e di conservare la propria capacità di agire per la restante parte dell’attività giuridica, cioè per il compimento di tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno ex art. 409 c.c. 7. Quest’ultimo, svolgendo funzioni di assistenza e di rappresentanza, “integra” la capacità di agire del soggetto beneficiario che, pertanto, non ne viene privato. Dall’esame degli artt. 404 - 414 c.c. si evince, dunque, che il nuovo strumento giuridico di protezione si applica nei casi in cui un soggetto, affetto da infermità di mente o da menomazione fisica o psichica sia impossibilitato, parzialmente o temporalmente - non è infatti richiesta l’abitualità - a provvedere da solo alle azioni del vivere quotidiano, ai propri interessi, interessi non necessariamente di natura economica. Il termine “infermità” ex art. 404 c.c. consente l’applicazione di questo istituto per qualsiasi ipotesi di infermità, mentale o fisica, e anche per tutte quelle menomazioni che non integrano una vera e propria ipotesi di infermità. Si fa riferimento ai soggetti affetti dalla malattia di Alzheimer, ai disabili, agli anziani con una limitazione apprezzabile nel badare alle funzioni del vivere quotidiano, ai soggetti con mera fragilità esistenziale o sociale, ai tossicodipendenti, agli alcolisti e dunque a chiunque sia in difficoltà, anche solo momentaneamente, nell’organizzazione della propria vita e necessita di un sostegno. Tutte ipotesi per le quali, in passato, non si prevedeva alcuna tutela specifica, costringendo il ricorso,
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applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità indipendente ed imparziale (artt. 1 e 2), anche in ordine al decreto del giudice tutelare. Il quale preveda l’assistenza negli atti di ordinaria amministrazione specificamente individuati, nonché, previa autorizzazione del giudice, di straordinaria amministrazione, ferma restando la facoltà del beneficiario di compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana, con il dovere dell’amministratore di riferire periodicamente in ordine alle attività svolte con riguardo alla gestione del patrimonio dell’assistito, nonché in ordine ad ogni mutamento delle condizioni di vita personale e sociale dello stesso.” Sul ruolo residuale dell’interdizione e dell’inabilitazione che subentrano solo laddove l’amministrazione di sostegno si riveli inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario cfr. Trib. Trieste 29 settembre 2006, in Corriere del merito, 2006, 12, 1389. Sulla legittimità costituzionale degli artt. 404, 405 c.c., numeri 3) e 4) e 409 c.c. nel testo introdotto dalla legge 6/2004 è intervenuta la Corte Costituzionale, ritenendo non fondata la questione per erroneità del presupposto interpretativo. Le ordinanze di rimessione affermavano che gli ambiti di operatività dell’amministrazione di sostegno, dell’interdizione e dell’inabilitazione potevano coincidere tra loro. Sul punto più ampiamente cfr. Corte cost., 9 dicembre 2005, n.440 in Giust. civ., 2006, I, 773.
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appunto, alle dichiarazioni di interdizione e di inabilitazione che erano previste per le sole ipotesi di infermità mentale8. La prassi giudiziaria degli ultimi anni ha mostrato un grande favore per l’applicazione dell’amministrazione di sostegno, diventata oramai una misura socialmente accettata, e ha registrato una netta diminuzione delle domande di interdizione e di inabilitazione la cui applicazione diventa sempre più residuale9. Si fa strada il concetto di “protezione” che prende il posto del concetto di “divieto”, la nuova linea di tendenza è diretta, attraverso il superamento del momento autoritativo, alla massima salvaguardia possibile del principio di autodeterminazione della persona che vive un momento di difficoltà. L’esigenza è ora non più quella di individuare l’organo che deve sostituirla in tutte le scelte in cui si estrinseca la sua personalità, quanto quella di aiutarla nel momento di difficoltà. Ai sensi dell’art. 410 c.c. l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, deve tempestivamente informarlo circa gli atti da compiere, e grazie alla flessibilità e alla duttilità del nuovo istituto, il Giudice tutelare, ex art. 405, calibra i poteri dell’amministratore in base alle effettive esigenze della persona bisognosa di assistenza, così come “un sarto che cuce un abito su misura”10. Uno strumento, dunque, che permette al Giudice tutelare di modulare, di volta in volta i bisogni e la misura di protezione più rispondente all’esigenze della persona e che si di-
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Sull’attivazione dell’amministrazione di sostegno a favore della persona anziana cfr. tra gli altri P. Cendon, La tutela civilistica dell’infermo di mente, in La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione, a cura di S.Patti, Milano, 2002; G. Bonilini, Persone in età avanzata, e amministrazione di sostegno, in Fam. pers. succ., 2005, 487; G. Bonilini, I presupposti dell’amministrazione di sostegno, in G. Bonilini, A.Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007; S. Patti, Senilità e autonomia negoziale della persona, in Fam. pers. succ., 2009, 3. 9 A distanza di oltre un decennio si può affermare che l’obiettivo che si era prefissato il legislatore è stato raggiunto. L’amministrazione di sostegno trova applicazione nella maggior parte dei casi di incapacità così che l’interdizione può dirsi oramai misura residuale, il cui ambito di applicazione è limitato alle sole ipotesi in cui altro strumento non sia in grado di fornire al soggetto interessato la protezione di cui necessita. L’inabilitazione è quasi scomparsa. Cfr. tra i tanti G. Autorino, P. Stanzione, V. Zambrano, Amministrazione di sostegno. Commento alla legge 9 gennaio 2004, n.6, Milano, 2004; P. Vadala’, Amministrazione di sostegno: ultime evoluzioni dell’istituto tra merito e legittimità, in Riv. nel dir., 2013, 5. Sul diverso ambito applicativo delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia si è pronunciata la Suprema Corte chiarendo che esso deve essere individuato con riferimento alla maggiore o minore idoneità della misura prescelta a soddisfare le esigenze della persona priva di autonomia e non invece al suo diverso grado di infermità. Sul punto cfr. Trib. Genova, 1 marzo 2005, in Famiglia, persone e successioni, 2006, 319 con nota di G. Ferrando, Diritti dei soggetti deboli e misure di protezione; Trib. Bologna 1 agosto 2005, n.2006, 51 con nota di M.N. BugettI, Le incerte frontiere tra amministrazione di sostegno e interdizione; Cass.12 giugno 2006, n. 13584, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 275; Cass., 1 marzo 2010, n.4866 in Fam. pers. e succ., 2010, 325 e in Giust. civ. Mass., 2010, 3, 298; Cass., 26 ottobre 2011, n.22332, cit. Più recentemente la Cassazione ha sostenuto che l’ambito di applicazione dei diversi istituti “deve essere individuato avendo riguardo non già al diverso grado d’infermità o d’impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, in ipotesi più intenso per l’interdizione, ma alla maggiore idoneità dell’amministrazione di sostegno ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa: la finalità dell’amministrazione di sostegno consiste infatti nell’offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, proprio in virtù di tale specifica funzione, dagli altri istituti previsti a tutela degli incapaci, non soppressi ma solo modificati dalla stessa legge, attraverso la novellazione degli artt.414 e 427 c.c.”: così Cass., 11 settembre 2015, n. 17962, cit. 10 Sia consentito rinviare al nostro L’amministrazione di sostegno, Napoli, 2006, 13, nota 19 “l’espressione tailored measure – si veda E. Calò, Amministrazione di sostegno, cit., 69, – è divenuta ormai d’uso comune nelle trattazioni concernenti l’amministrazione di sostegno”.
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stingue dall’interdizione sotto l’aspetto funzionale e non più sotto quello quantitativo11. Si amplia, in altre parole, il novero delle persone protette, valutando il giudice concretamente di quale autonomia è fornita la singola persona e di quale sostegno invece ha bisogno. I principi informatori dell’intera disciplina sono dunque quelli della gradualità o della massima conservazione della capacità e della flessibilità. Non c’è nessuna predeterminazione di poteri nel codice civile, si protegge non più privando della capacità il soggetto ma sostenendo la “persona” con un aiuto mirato, riconoscendogli così quella dignità che si trova tra i primi valori della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea12. Nel nostro ordinamento l’amministrazione di sostegno è considerata, dunque, una sorta di “piccola rivoluzione” che considera la capacità di agire come la regola e la sua limitazione come l’eccezione, legata alla esigenza di protezione della persona. La legge 6/2004 ha dunque lo scopo di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, “le persone” prive in tutto o in parte della propria autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. La persona affetta da una qualunque forma di infermità non fa più paura, non è più un marchio infamante. È ora il tempo di proteggere, è ora il tempo di applicare misure adeguate e non più sproporzionate rispetto alle esigenze di tutela, di “graduare la misura”, di non isolare la persona bisognosa di attenzione dal mondo che la circonda e soprattutto di non scindere le sue relazioni familiari e sociali. L’attenzione è ora non più sulla sola gestione degli interessi patrimoniali del soggetto ma sulla “persona” e sulle sue esigenze, sulla sua vulnerabilità, sulla necessità di affiancarla nella cura dei suoi bisogni quotidiani13.
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Sulla distinzione tra l’amministrazione di sostegno, l’interdizione e l’inabilitazione è intervenuta più volte la Suprema Corte indicando quale criterio quello del tipo dell’attività da svolgersi in nome e nell’interesse del beneficiario cfr. sul punto Cass. 12 giugno 2006 n.13584 in Riv. Not., 2007, 2, 485 con nota di A. Pedron, La Cassazione si pronuncia: actio finium regundorum tra amministrazione di sostegno, interdizione –inabilitazione e necessità di difesa tecnica e in Dir. fam., 2006, 4, 1671, con nota di A. Venchiarutti, Il discrimen tra amministrazione di sostegno e interdizione: dopo la Corte costituzionale si pronuncia la Corte di Cassazione ; Cass. 22 aprile 2009, n. 9628, in Giust. civ., 2010, I, 395. 12 L’amministrazione di sostegno diventa dunque uno strumento anche per tutta una serie di patologie e disagi, non previsti prima dell’emanazione della legge 6/2004 e non suscettibile di un’elencazione definitiva, com’è il caso del gioco di azzardo cfr. Trib. Venezia, 4 dicembre 2006, in www.personaedanno.it; delle patologie di natura psichica cfr. Spallarossa, in Amministrazione di sostegno: interdizione, inabilitazione, incapacità naturale, diretto da Ferrando, Bologna, 2012; del barbonismo, sia domestico sia dei senza fissa dimora. Particolarmente interessante lo spunto di riflessione che viene offerto da chi esamina l’età avanzata quale presupposto dell’amministrazione di sostegno ed in particolare “si deve interrompere la propria attività poiché l’ordinamento ritiene che la continuazione della stessa non sia opportuna, a causa dell’età, nonostante l’eventuale contraria volontà dell’interessato mentre nessuna misura di tutela è (automaticamente) collegata al raggiungimento di un’età molto avanzata” così S.Patti, Senilità e autonomia negoziale della persona, in Fam. Pers. Succ., 2009, 3. Cfr. altresì Trib. Milano, 3 novembre 2014 con nota di M. Massaro, Dieci anni di applicazione dell’amministrazione di sostegno; certezze e questioni aperte. 13 In giurisprudenza cfr. Trib. Palmi, 24 maggio 2004, in Fam., pers. e succ., 2005, 132 con nota di S. Patti, Amministrazione di sostegno: una corretta applicazione della nuova disciplina. Secondo la Suprema Corte la tendenza emergente dall’esame dei lavori preparatori della legge del nuovo istituto “-appare permeato l’intero testo legislativo in esame, a cominciare dal suo art.2, che innova la rubrica del titolo 12 del libro primo del codice civile, dedicato appunto agli istituti di protezione degli incapaci, sostituendo a quella originaria “dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione” l’altra, più rispondente alle descritte finalità della l.n.6 del 2004, che recita, in perfetta sintonia con il già richiamato art.1 “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia” così Cass., 12 giugno 2006, n. 13584, cit.
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3. L’applicazione della disciplina al caso concreto. Ed è l’attenzione sulla “persona”, vista da un’altra angolazione, che induce prima il Giudice Tutelare del Tribunale di Napoli, poi la Corte di appello a decidere di non procedere per l’apertura dell’amministrazione di sostegno a beneficio di una interessata che, pur versando in una situazione di incapacità fisica e mentale, che ne limita fortemente la capacità di provvedere da sola alle proprie esigenze personali e patrimoniali, è ritenuta non necessitare in concreto di alcuna misura di tutela. Nel corso del giudizio, ed in base ad una completa certificazione medica prodotta che offre un quadro esaustivo della malattia, si evince che l’interessata, a seguito di un’emorragia cerebrale, ha seguito un lungo e qualificato percorso riabilitativo ed è assistita nella sua abitazione, in cui vive con il marito e con la sorella, da una coppia di badanti e da infermieri qualificati. Si evince altresì che, nel corso degli anni, la stessa è stata sottoposta a diversi interventi e ricoveri presso strutture di cura e di riabilitazione, in Italia e all’estero, a seguito dei quali risulta incapace di provvedere autonomamente alle proprie esigenze personali e patrimoniali. Ciò nonostante il complesso ed efficace sistema di assistenza predisposto dal marito nella propria abitazione, riesce a dare un quadro chiaro della completa ed efficace assistenza che lo stesso, i familiari, i badanti, i medici e gli infermieri, provvedono a favore della interessata. Situazione di assistenza confermata anche dalla “relazione che gli operatori dei Servizi sociali hanno trasmesso all’ufficio, dopo una visita al domicilio dell’interessata”. Gli stessi atti di disposizione compiuti dal marito, in nome e per conto dell’interessata, sono il frutto della libera e consapevole manifestazione della propria volontà da parte dell’interessata, volontà manifestata con il conferimento del potere, a mezzo di procura generale, davanti al notaio che ne ha preventivamente accertato, e sotto la sua personale responsabilità, la piena capacità di intendere e di volere della stessa. Atti che, in considerazione della gestione del quadro complessivo del patrimonio, non sono da considerarsi lesivi degli interessi economici e patrimoniali dell’interessata, ma che al contrario inducono a ritenere che, presumibilmente, se la stessa avesse avuto la possibilità di manifestare nuovamente la sua volontà, avrebbe riconfermato la fiducia al marito, già espressa in precedenza con il rilascio della procura generale. Pienamente condivisibile appare, dunque, il decreto della Corte di appello di Napoli, secondo il quale è il rispetto della vita privata e familiare che rende del tutto eccezionale l’ingerenza dell’Autorità pubblica e pur sempre limitata alle sole ipotesi di protezione della salute e dei bisogni della persona completamente non autosufficiente. La questione si pone come necessità di un bilanciamento tra la piena autonomia decisionale e l’intervento di un terzo estraneo nella vita di una persona bisognosa di attenzione. Anche la Corte di Appello pone, dunque, l’attenzione sulla “persona” e sulle sue esigenze, sulla salvaguardia della sua dignità di essere umano e considera l’amministrazione di sostegno un istituto residuale, al quale ricorrere ogni qual volta i bisogni della persona
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non autosufficiente non possono essere soddisfatti altrimenti. L’intento appare in linea con la stessa ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno: il superamento concettuale del momento autoritativo a salvaguardia dell’effettiva protezione della persona e delle sue esigenze, in conformità al principio costituzionale del rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo14. La creazione di una rete familiare di assistenza a casa, così come quella creata dal marito dell’interessata, assicura non solo l’aiuto materiale nelle cure ma soprattutto una rete di calore ed amore da parte dei familiari e di affetto e solidarietà degli altri soggetti che contribuiscono all’assistenza e che, difficilmente, un amministratore estraneo, per quanto efficiente, riuscirebbe a garantire allo stesso modo. Lo stesso legislatore ex art. 404 c.c. prevede che l’amministratore di sostegno assiste la persona che si deve trovare nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi, non considerando le ipotesi di mera difficoltà e tutte quelle ipotesi in cui le carenze psico-fisiche della persona possano essere affrontate con l’assistenza dei familiari. A giudizio della Corte di appello di Napoli “la stella polare” che orienta l’interprete nella esegesi della nuova disciplina è individuabile nell’art.1 della legge 6/2004 che contiene “la principale direttiva al compito del giudice, là dove si afferma la necessità di giungere alla minore limitazione possibile della capacità di agire della persona. Tale prescrizione assurge al rango di vero canone ermeneutico, capace di orientare l’interprete, nel dubbio, verso l’opzione più vicina all’obiettivo posto dal legislatore”15, dunque verso la minore limitazione possibile in termini di capacità per la persona interessata. Si condivide pertanto e pienamente la decisione della Corte di Appello di Napoli sulla importanza della presenza di “una rete familiare” di supporto all’assistenza di un proprio congiunto, rete che rappresenta un sistema difensivo e che opera in maniera spontanea ed efficace, rendendo inevitabilmente superfluo la nomina di un amministratore di sostegno ed iniqua la privazione, seppure parziale, della capacità di agire della beneficianda. Se già i congiunti, per motivi di solidarietà, e gli ausiliari per dovere, provvedono all’assistenza e a tutte le necessità dell’assistita, incapace di provvedere alle proprie esigenze personali e patrimoniali, ove non sussistono conflitti o dubbi nel perseguimento degli esclusivi interessi dell’assistita, non ha ragione d’essere la nomina di un amministratore di sostegno. La nuova cultura sulla diversità, il moderno atteggiamento del diritto e l’evolversi della personalità dei soggetti sono di supporto nella scelta del giudice nel preferire la costante partecipazione della “persona” a tutte quelle che sono le scelte della sua vita. L’esigenza di
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Con riferimento al diritto sovranazionale si rinvia all’art.8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali secondo il quale ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura, che in una società democratica, è necessaria alla protezione della salute. Il rinvio, lato sensu, è alla protezione delle persone deboli e non autosufficienti. 15 Così, App. Napoli, sez. min., decreto 29 marzo 2017, in esame.
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tutela alla quale è funzionale una misura di protezione che priva anche solo parzialmente la capacità di agire, viene meno dinanzi all’esistenza di una rete familiare atta a soddisfare in modo adeguato gli interessi, in primo luogo di natura personale e, quindi, anche quelli patrimoniali della persona affetta da minorazione fisica o psichica.16. Una rete che rende la persona ancora protagonista della sua vita e delle scelte che riguardano la sua salute, il proprio patrimonio. Sarà invece necessario procedere alla nomina di un amministratore di sostegno, ogni qual volta la rete familiare non rassicuri la necessaria assistenza per il soggetto debole17. A parere di chi scrive, appare sicuramente più tutelante, meno gravoso e limitante rispetto all’amministrazione di sostegno, il conferimento da parte della beneficianda della procura generale notarile in favore del marito per l’amministrazione del suo cospicuo patrimonio e dunque per il compimento di tutti quegli atti necessari al fine di garantire una gestione oculata dell’intero patrimonio18. Appare, dunque, pienamente condivisibile il provvedimento annotato anche laddove si evidenzia la presenza di una piena e totale consapevolezza del momento in cui è conferita la procura al marito, a nulla rilevando la mancata analitica prefigurazione dei singoli atti dispositivi che lo stesso avrebbe poi successivamente compiuto. La procura conferita ad una persona di propria fiducia e davanti ad un notaio che ne accerta la piena capacità di esprimere una volontà piena e consapevole al momento del rilascio, appare sicuramente uno strumento idoneo a garantire il perseguimento di quegli intenti condivisi in un momento di piena e totale capacità e presumibilmente ancora rispondenti alla medesima volontà dell’interessata, pur in presenza di condizioni fisiche e mentali che successivamente ne limitano fortemente la capacità di provvedere da sola alle proprie esigenze di carattere personale e patrimoniale. Ben venga quindi l’impiego di un normale strumento negoziale, qual è appunto la procura, strumento più snello e non sottoposto al pesante sistema pubblicitario dell’am-
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Suggestive le conclusioni cui giunge un illustre Autore sul tramonto della visione tradizionale degli status e sul concetto dal diritto alla persona “ridefinita dal progresso medico la nozione di capacità giuridica, l’uomo, svestito della diversità che gli deriva dall’appartenenza ad una determinata categoria, si presenta al cospetto del diritto e ne rivendica la protezione. Ed il diritto in questa dimensione che non conosce divisioni di razza, di sesso, di cittadinanza, di opinioni politiche, culturali, religiose, indugia e si sofferma sull’emergere delle sue “condizioni personali e sociali” in quanto momenti ineludibili di una tutela che possa e debba dirsi efficace” cfr. P. Stanzione, Costituzione, diritto civile e soggetti deboli, in Famiglia e diritto, 2009, 3, 305. 17 Sulla presenza di una rete familiare di supporto che esclude la possibilità di attivazione dell’amministrazione di sostegno cfr. P. Cendon, 100 domande e risposte su L’amministratore di sostegno, Firenze, 2008, 10. 18 Sull’opportunità dell’attivazione non già dell’amministrazione di sostegno bensì del conferimento da parte dell’interessata all’assistenza di una procura generale con riferimento agli “incombenti più importanti e coinvolgenti il compimento di attività di straordinaria amministrazione patrimoniale”, cfr. Trib. Vercelli, 16 ottobre 2015, in Fam. e dir., 2016, 2, 177, con nota di G. Bonilini, L’anziano consapevole, e adeguatamente assistito, non abbisogna di amministratore di sostegno. In soccorso, può intervenire il mandato. La misura di protezione non è attivabile in presenza di una rete sociale attenta e vigile di idoneo supporto alla persona anche per Trib. Modena, 5 febbraio 2016 in Il giudice tutelare e l’amministrazione di sostegno: un confronto sulle prassi giurisprudenziali a cura di E. Manzon con la collaborazione di C.I. Risolo, Raccolta materiale di studio incontro SSM, P. 17003, 2017. Cfr. inoltre M. Piccinni, Amministrazione di sostegno “misure di protezione e principio di sussidiarietà nell’attuazione dei diritti delle persone non autonome”, in Nuova giur. civ., 2016, 6, 827.
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ministrazione di sostegno, e ben venga la valorizzazione dell’intero contesto familiare al fine di non compromettere la capacità di agire della “persona”. Codesta interpretazione, in linea con l’art.1 della l.6/2004, conduce a reputare insussistenti le condizioni per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. La nomina di un amministratore di sostegno non è obbligatoria, si deve provvedere solo quando è necessario per assicurare una adeguata protezione e lo richiedano le condizioni di salute del soggetto beneficiario, non può certo essere utilizzata al fine della risoluzione di un conflitto endofamiliare, ovvero per garantire una sorta di controllo sul patrimonio e sulla sua gestione e dunque per “cautelare mere aspettative ereditarie dei congiunti”19. In una situazione come quella sopra illustrata, nella quale la creazione di una adeguata rete familiare garantisce tutte le esigenze della “persona vulnerabile”, il ricorso all’apertura di un’amministrazione di sostegno impone una valutazione complessiva della situazione della persona in difficoltà. Una valutazione effettuata alla luce della clausola rebus sic stantibus, per cui al sopravvenuto non funzionamento della rete familiare potrebbe dimostrarsi l’insufficienza dello strumento di autonomia privata, liberamente scelto dall’interessata, e dunque necessaria l’attivazione dell’amministrazione di sostegno. In assenza di effettivi e attuali bisogni, la nomina di un amministratore di sostegno sempre ed in ogni situazione, contrasta con la stessa ratio della legge istitutiva e rischia di allargare a dismisura l’ambito di applicazione dell’istituto, sino a renderlo inefficace20. Una tale interpretazione appare coerente con una lettura costituzionale della legge istitutiva sull’amministrazione di sostegno che mette in gioco “scelte valoriali, gerarchie di valori”, profondamente radicati nella nostra Costituzione21. È compito dello Stato ex art. 3 Cost. rimuovere gli ostacoli di ordine economico e socia-
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Sulla impossibilità di imporre la nomina di un amministratore di sostegno si rinvia al Tribunale di Forlì, sezione Cesena, secondo il quale “se nonostante le indiscutibili limitazioni funzionali dovute alle particolari condizioni di salute, la persona è comunque in grado di “amministrarsi” seppure con l’aiuto e l’assistenza di familiari, non è possibile imporre alla stessa un amministratore di sostegno”, così Trib. Cesena, 29 maggio 2006, in www.personaedanno.it. Cfr. inoltre Trib. Vercelli, 16 ottobre 2015, cit. 20 Il Tribunale di Milano ribadisce che non ogni fragilità del soggetto conduce alla nomina di un amministratore di sostegno, ma occorre che tale vulnerabilità provochi un ostacolo nell’esercizio dei diritti o precluda vantaggi e utilità, “la necessità di un amministratore di sostegno sempre e in ciascuna situazione di bisogno comporta una necessaria istituzionalizzazione di ogni figura di assistente e tradisce la lettera e lo spirito della legge” cfr. Trib. Milano, 3 novembre 2014 in www.personaedanno.it e inoltre Tribunale di Trieste 5 ottobre 2006 in Giur. it., 2007, 1, 84 ss. con nota di P. Cendon, “Soprassedere all’amministrazione di sostegno ? Il problema è che siamo oramai scesi dagli alberi. Non è sufficiente, dunque, la semplice situazione di “diversità” del soggetto ma è necessario che tale “diversità” ostacoli l’esercizio dei propri diritti. Secondo il Trib. Busto Arsizio, sez. Gallarate, 12 ottobre 2011, in Giur. mer., 2013, 11, 2373,con nota di G. Buffone, L’istituto dell’amministrazione di sostegno, “appare conforme alla lettera ed allo spirito della legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno attingere a questa misura protettiva quando ve ne sia un concreto e soprattutto attuale bisogno, non potendosi accedere a domande presentate per la mera e futura eventualità del venir meno di un sistema di protezione spontaneo”. Cfr. altresì C.M. Bianca, Premessa, in AA.VV., L’amministrazione di sostegno, a cura di S. Patti, Milano, 2005. 21 Il rinvio è a chi ritiene che la stessa legge sia una diretta attuazione dei principi costituzionali fondamentali ed in particolare degli artt. 2 e 3 Cost. Il riferimento è al “riconoscimento” e alla “garanzia” ai diritti inviolabili davanti alla legge (….) senza distinzioni (…) di condizioni personali” ed indicano quale “ compito della Repubblica” la “rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” così E. Manzon, L’attuazione della L. n.6/2004 tra giustizia, politiche sociali e solidarietà. Dalle parole ai fatti, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2014, 2, 950.
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le che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e che impediscono il pieno sviluppo della persona umana ma è altrettanto compito dello Stato richiedere ex art.2 Cost. anche l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, gravanti in primo luogo su tutti coloro che sono vicini a chi vive un momento di difficoltà. I diritti della “persona” devono essere tutelati e garantiti innanzitutto all’interno della famiglia e di ogni formazione sociale. Doveri inderogabili che sono posti a carico dei familiari, dei servizi sociali, delle associazioni, primi chiamati a prestare le cure necessarie quando una persona si ammala o diventa più debole e fragile con l’avanzare dell’età, anche grazie, come nel caso concreto, all’uso di strumenti privatistici, quale appunto, la procura generale conferita dall’interessata al marito. Spesso capita di rendersi conto che una fascia, purtroppo sempre più ampia, di cittadini che hanno diritto “al pieno sviluppo della persona umana” pur vedendo riconosciuto in astratto i loro diritti, possono in concreto esercitarli solo quando sono “assistiti” dalla famiglia, dalle associazioni di volontariato, dai servizi sociali. Il riferimento è a determinate categorie di persone: gli anziani, gli analfabeti, quelle prive di adeguati mezzi culturali, gli stranieri ecc., soggetti che pur potendo, in astratto, curare personalmente i loro interessi, in quanto pienamente capaci di agire, possono di fatto farlo solo attraverso l’uso degli strumenti privatistici quale può essere per l’appunto una procura conferita ad un soggetto che nello svolgimento del proprio incarico, adempie un “dovere inderogabile di solidarietà sociale”22. Sulla stessa scia si è posta la Corte di Appello di Napoli nel ritenere, giustamente, che la presenza di una funzionante rete familiare di assistenza, nel far fronte a tutte le esigenze della “persona vulnerabile”, garantisce l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale e che una procura generale notarile rilasciata dalla interessata a persona di sua fiducia, sia sufficiente ad evitare il ricorso ad un soggetto di nomina giudiziale e quindi a rendere totalmente superfluo, iniquo ed inopportuno il ricorso all’apertura dell’amministrazione di sostegno che presuppone invece una situazione di impossibilità di provvedere ai propri bisogni in altro modo. Più chiaramente che “nulla ha a che vedere con le esigenze di conservazione del patrimonio della madre finchè questa è in vita” e ancor di più che “si tratta di tutelare gli interessi in vita, non di regolare la sua successione mortis causa e tanto meno di cautelare mere aspettative ereditarie dei congiunti”23.
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Secondo il Tribunale di Vercelli tali soggetti “senza tali strumenti, semplicemente, non ne sarebbero in grado. L’ausilio altrui, preteso dalla Costituzione in ossequio al dovere di solidarietà sociale, si pone quindi alla stregua di una vera e propria “causa di esclusione” della impossibilità, per taluni consociati, di attendere ai propri interessi” cfr. Trib. Vercelli, 16 ottobre 2015, cit. Appare interessante verificare, inoltre, anche un altro aspetto che riguarda l’operatività nel nostro ordinamento del cd. principio di sussidiarietà delle misure di protezione, in particolare “il principio di sussidiarietà dovrebbe portare – già de iure condito, e ancor più chiaramente de iure condendo – ad una complementarietà tra gli strumenti pubblicistici di assistenza socio-sanitaria, quelli privatistici di solidarietà e cooperazione e le misure di protezione previste agli artt. 404 cod. civ.” così M. Piccinni, Amministrazione di sostegno – Misure di protezione e principio di sussidiarietà nell’attuazione dei diritti delle persone non autonome, cit., 827. 23 Così, App. Napoli, sez. min., decreto 29 marzo 2017, in esame..
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Giurisprudenza
Nel caso di specie la decisione della Corte di Appello, pur, all’apparenza, comportando una forte perimetrazione dell’ambito di applicabilità dell’amministrazione di sostegno, si è posta nel solco di un’interpretazione che mira a porre l’attenzione sulla tutela della “persona”, sulla sua dignità e sulla sua libertà, ritenendo iniquo e superfluo agire con una limitazione, seppure parziale, della capacità di agire dell’interessata, laddove il ricorso ad istituti privatistici appare, sul piano etico sociale, maggiormente orientato al rispetto della dignità dell’individuo, rivelandosi così una decisione esemplare e, si spera, di esempio per il futuro. Rosaria Giampetraglia
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La recensione “Same-Sex Relationship and Beyond – Gender Matters in the EU” di Katharina Boele-Woelki and Angelica Fuchs (eds.). Salvatore Patti
Il volume raccoglie relazioni di studiosi provenienti da diversi paesi, tenute ad un convegno svoltosi ad Amburgo nel 2016, ed è diviso in tre parti. La prima è dedicata al matrimonio di persone dello stesso sesso, ormai diffuso in Europa, come pure ad altre forme di regolamentazione del loro rapporto affettivo. Particolarmente interessante l’esperienza dei paesi nordici: come viene ricordato, la Danimarca è stato il primo paese al mondo ad introdurre un modello di partnership registrato. Oggi Norvegia, Svezia, Danimarca e Islanda prevedono un’unica disciplina per il matrimonio delle persone dello stesso sesso o di sesso diverso, mentre alcune differenze nelle suddette legislazioni si riscontrano per quanto concerne la possibilità di stipulare il matrimonio di persone provenienti da altri paesi (marriage tourism) che non ammettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La seconda parte riguarda la filiazione di coppie dello stesso sesso o di persone transessuali, la maternità surrogata e l’adozione. In dieci Stati europei è vietata la stepchild adoption, e l’impossibilità di adottare il figlio del partner causa rilevanti problemi poiché si impedisce qualsiasi relazione giuridica con il bambino. Al riguardo si sottolinea che, anche nel caso delle coppie omosessuali, l’adozione è rivolta soprattutto a garantire il benessere del bambino (the protective principle) e non si giustificano quindi le resistenze ancora riscontrabili in alcuni ordinamenti giuridici. Vengono pertanto esaminati alcuni recenti casi di maternità surrogata, tra cui Paradiso e Campanelli c. Italia, muovendo dalla considerazione delle profonde differenze normative esistenti all’interno dell’Unione europea. Soltanto due ordinamenti giuridici (Regno unito e Grecia), infatti, riconoscono efficacia ai contratti in materia di maternità surrogata e prevedono altresì una normativa che disciplina il fenomeno. Si auspica quindi un’evoluzione anche negli altri Paesi, nei quali comunque si pone il problema, molto rilevante da un punto di vista pratico, della «transcription» dei certificati di nascita stranieri, problema che ha ricevuto risposte non univoche nei diversi ordinamenti. La terza parte prende in esame la discriminazione delle persone omosessuali alla luce della Convenzione europea dei diritti umani, le problematiche relative alle persone LGBT che si trovano nella condizione di rifugiati in Europa, nonché i tentativi di armonizzazione della normativa europea, con particolare riguardo alle leggi in materia di mutamento di sesso. Nelle pagine conclusive si affronta la questione di fondo se nella società attuale sia ancora necessaria una categoria giuridica relativa alla identità sessuale della persona. L’esperienza italiana, particolarmente interessante soprattutto in materia di transessualismo, viene trattata in modo marginale. Alcuni spunti sono dedicati alla recente legge 76/2016 in materia di unioni civili e convivenze di fatto (pag. 50). Il breve commento è senz’altro corretto, ma può risultare fuorviante l’uso del termine maintenance per il diritto agli alimenti previsto nell’art. 1, comma 65, in proporzione alla durata della convivenza, per il convivente che dopo la fine del rapporto si trova in condizione di bisogno. I contributi sono in genere di ottimo livello e offrono un quadro preciso e aggiornato delle complesse problematiche. Utili informazioni riguardano anche il fenomeno – in crescente espansione – delle
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La recensione
coppie eterosessuali che preferiscono la convivenza (registrata o meno) al matrimonio, con il conseguente aumento di bambini nati fuori dal matrimonio (in alcuni paesi nordici il 65%). Tra lâ&#x20AC;&#x2122;altro, si osserva (p. 12), che la presenza o meno di figli dei conviventi determina profonde differenze, soprattutto dal punto di vista della sicurezza sociale, occorrendo garantire ai minori una vita serena anche nel caso di fine della convivenza o di morte di uno dei genitori. Particolarmente apprezzabile, infine, il commento della nota sentenza della Corte europea dei diritti dellâ&#x20AC;&#x2122;uomo (Oleari c. Italia), opera di due studiose italiane (M. Dâ&#x20AC;&#x2122;Amico e C. Nardocci).
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