2019 4 Familia
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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
luglio - agosto 2019
Diretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA Il superamento del verticalismo familiare nel Codice civile italiano Paolo Pollice
Certificato successorio europeo e tutela dei figli Claudia Benanti
Lo stato di abbandono nell’adozione: oggettività e interesse del minore Mario Renna
Pacini
Indice Parte I Dottrina Angelo Di Sapio, Daniele Muritano, Adriano Pischetola, Disposizioni anticipate di trattamento: tempo di comunicazione, tempo di cura..................................................................................................... p. 399 Claudia Benanti,Certificato successorio europeo e tutela dei figli............................................................» 433 Francesco Meglio, Considerazioni sul vincolo testamentario di destinazione.......................................» 441 Parte II Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1887 (con nota di Mario Renna, Lo stato di abbandono nell’adozione: oggettività e interesse del minore) ............................................................................................» 455 Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2018, n. 11696 (con nota di Marco Ramuschi, Sul matrimonio celebrato all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero del medesimo sesso)...............................................» 473 Parte III L’opinione Paolo Pollice, Il superamento del verticalismo familiare nel Codice civile italiano..............................» 513 Parte IV La recensione Salvatore Patti, Jens M. Scherpe (ed.), European Family Law, 4 volumi, Cheltenham, UK-Northampton, MA, USA, 2016 ...................................................................................................................................................... » 521
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Angelo Di Sapio, Daniele Muritano, Adriano Pischetola
Disposizioni anticipate di trattamento: tempo di comunicazione, tempo di cura*
Sommario : 1. Introduzione. – 2. La relazione terapeutica. – 3. Le DAT quale espressione di identità e ipseità. – 4. I dati. – 5. Il fiduciario. – 6. La conservazione delle DAT. – 7. La libertà di espressione delle indicazioni rese. – 8. L’acquisizione di adeguate informazioni. – 8.1. Il significato delle «adeguate informazioni mediche». – 8.2. La portata documentale della attestazione di preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche». – 8.3. La portata sostanziale della preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche». – 9. La forma delle DAT e il tatuaggio DNR. – 10. DAT e tutela del diritto alla riservatezza. – 11. A mo’ di conclusione.
The paper deals with problems arising from the Italian Law 22 December 2017, no. 219, containing rules on informed consent and advance treatment provisions. The Authors start from the consideration that the Law no. 219/17 involves relationships between persons, human beings, not legal entities, not Titius, Caius and their imaginary juridical relatives. Crossing this, they investigate the rules on law: the relationships between patients and doctors, the importance of the personal identity in approaching the advance treatment provisions, the role of the fiduciary and his duties, the problem of the adequacy of the information received before drawing them. There is a dignity in living, and a dignity in dying. Now it is necessary to verify on the field, whether Italy and Italian people are ready for a mild and gentle law.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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1. Introduzione. Persone, non soggetti giuridici. Creature di carne, sangue e ossa, non individui tratti fuori dal loro contesto storico-culturale e che non esistono in nessun luogo1. È quello che, in sostanza, traspare in filigrana dal parere n. 01991/2018 della Commissione speciale del Consiglio di Stato del 31 luglio 2018, che sistema alcune tessere nel mosaico della legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento2. Il Consiglio di Stato risponde a cinque quesiti formulati dal Ministero della salute con richiesta del 22 giugno 2018 in riferimento alle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che «[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può [...] esprimere [...] in materia di trattamenti sanitari»: art. 4, comma 1, legge 219/20183. La portata delle DAT è scolpita dall’art. 4, comma 5: «[f]ermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del
1 H. Arendt, [1948] Le origini del totalitarismo, trad. it. A. Guadagnin, Torino, 2015, 402 ss., segn. 404. La poesia ci dice che l’abisso non ci divide, l’abisso ci circonda ed è quanto pare avvenga con riguardo a molteplici declinazioni della pagina di F.C. Savigny, [1840-1849] Sistema del diritto romano attuale, trad. it. V. Scialoja, Torino, 1888, § 60, [vol. II], 1 s., che fece coincidere, concettualizzandoli, persona e soggetto di diritti: «il concetto primitivo della persona ossia del soggetto di diritti deve coincidere col concetto dell’uomo». Certi specchi, come recita un’altra poesia, dovrebbero riflettere prima di rimandarci le immagini. La filosofia conosce a menadito questa tematica e v. almeno P. Ricœur, [1983] La persona, trad. it. I. Bertoletti, Brescia, 2006, 21 ss. Ha anche dimestichezza con i pronomi: prima, seconda e terza persona, singolare e plurale e v. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, 2007, passim, in part. 5 ss., 8 ss., 20 ss., 77 s., 80 ss., 94 ss., 100 ss., 113 s., 118 ss., 124 s., 127 ss., 140 ss., 146 ss. e 173 ss., ove un’estroflessione dell’idea della persona per il tramite di un rovesciamento del suo significato corrente e un tentativo di riunificazione tra bios e zoé, sempre promessa, ma, ritiene l’A., mai davvero sperimentata. 2 Ha ragione P. Zatti, Brevi note sul testo approvato, consultabile all’indirizzo undirittogentile.wordpress.com, il testo di legge approvato dalla Camera era il migliore risultato conseguibile in questa tempesta politica. L’A. non ha sostanzialmente cambiato opinione neppure dopo l’approvazione in Senato, e dunque in ordine al testo di legge vigente: Id., La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, in Riv. crit. dir. priv., 2017, 3, spec. 23 e Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ., 2018, I, 247. L’auspicio che aveva formulato nel 2009 in Le «disposizioni del paziente»: ci vorrebbe un legislatore, ibidem, 2009, II, 313, spec. a 314, può ritenersi realizzato. Pure P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, Milano, 2018, 214 ss. e G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 47, passim e in part. 50, apprezzano il provvedimento. Critico invece D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293: di quest’ultimo A. v. già Tentativi di legiferazione in materia di «testamento biologico», Torino, 2016, ivi, 17 ss., un completo regesto dei diversi progetti di legge presentati nel corso degli anni. 3 Si noti: «disposizioni anticipate di trattamento», non «dichiarazioni anticipate di trattamento» di cui parlava il parere reso dal Comitato nazionale per la bioetica il 18 dicembre 2003, Dichiarazioni anticipate di trattamento, né «direttive anticipate di trattamento» di cui parlava, tra l’altro, l’art. 3 della proposta di legge n. 3630 presentata alla Camera il 24 febbraio 2016. È questo uno dei segni tangibili della benevolenza riservata dal legislatore alla proposta di un diritto gentile e ai «Principi per un diritto della dignità del morire». Se n’è fatto promotore proprio P. Zatti e v.ne la prova di testo normativo sulla relazione di cura, che raccolse l’adesione di molti studiosi, esperti e professionisti sanitari, in Id., Per un diritto gentile in medicina. Una proposta di idee in forma normativa, in Nuova giur. civ., 2013, II, 1, in part. a 3 ss., testo che, salvo qualche variazione nominalistica e legistica, fu trapiantato nella proposta di legge n. 13 comunicata alla Presidenza del Senato il 15 marzo 2013.
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paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, si procede ai sensi del comma 5, dell’articolo 3»4. L’art. 4, comma 5, fa pendant con l’art. 1, comma 6, stella polare del provvedimento: «[i]l medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali»5.
2. La relazione terapeutica. La guide-line della legge 219/2017, ci dice il Consiglio di Stato, è costruire una «relazione terapeutica» che, «pur essendo asimmetrica, si mantenga umana, personale ed empatica, nonostante l’eccessivo tecnicismo della medicina e la “spersonalizzazione” dei rapporti che questo può comportare»6. A Palazzo Spada gode probabilmente qualche credito l’invito a riflettere sulla “carnalità” dell’esperienza giuridica7.
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Il legislatore ha seguito anche qui le orme impresse ante litteram da P. Zatti, in Le «disposizioni del paziente», cit., 314: l’autonomia decisionale del paziente ha efficacia vincolante, salvo il limite di cui al menzionato art. 4, comma 5. Essa è centrale e non c’è spazio né per tanti paternalismi, né per quel vago “tener conto” dei “desideri” dell’interessato, che è formula se non ipocrita, sicuramente vaga e v. sempre P. Zatti, «Parole tra noi così diverse». Per una ecologia del rapporto terapeutico, in Nuova giur. civ., 2012, II, 143, spec. 149. 5 Ha fatto da apripista la sec. 7191 del Natural Death Act della California [1976], sostituito dalla normativa sulle Health Care Decision [2000], parte integrante del Probate Code della California (sec. 4670 ss.). La section 7191 così recitava: «[n]o physician, and no licensed health professional acting under the direction of a physician, shall be criminally or civilly liable for failing to effectuate the directive of the qualified patient pursuant to this subdivision». Il Natural Death Act non passò sotto gli occhi della civilistica italiana e v. G. Criscuoli, Sul diritto di morire naturalmente, in Riv. dir. civ., 1977, I, 94, ove il suo testo integrale accompagnato da una traduzione. 6 Un tracciato delle asimmetrie informative in subiecta materia è esposto da P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 153 ss. e da M. Foglia, di cui v. Autodeterminazione terapeutica e poteri della persona nella relazione di cura, in P. SIRENA e A. Zoppini [cur.], I poteri privati e il diritto alla regolazione. A quarant’anni da «Le autorità private» di C.M. Bianca, Roma, 2018, 245, segn. a 246 e, funditus, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 34 ss. e 41 s. Ma v. anche, senz’altro, i ricordi e le riflessioni linguistiche di L. Fontanella, La comunicazione diseguale, Roma, 2011, passim. 7 P. GROSSI, del quale v. almeno Prima lezione di diritto9, Roma - Bari, 2007, 64 e Mitologie giuridiche della modernità2, Milano, 2005, 73 s., 106 s. e, soprattutto, 79 e già, senz’altro, L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 1117 e soprattutto le conclusioni a 1135 s. Sul tema v. altresì, in una cornice argomentativa differente, le esplorazioni di S. Rodotà, del quale Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma - Bari, 2015, 140 ss., 250 ss., 265 ss., 272 e 281 ss., La vita e le regole, Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2012, 23 ss. e 262 e La rivoluzione della dignità, La scuola di Pitagora, Napoli, 2013, 6 ss., 11 ss., 16, 18 ss., 23 ss. e 29 ss. e di P. Zatti, [1995] Verso un diritto per la bioetica: risorse e limiti del discorso giuridico e [2008] Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e diritti “dell’uomo”, contributi entrambi ora in Id., Maschere del diritto e volti della vita, Milano, 2009, rispettivamente a 5, segn. 15 ss. e a 53, segn. 100 ss. e 106 ss., ove un piercing the veil della persona fisica; ma sul ruolo performativo della categoria della persona e sulla reificazione di quest’ultima, soggetta alla propria oggettivazione cfr. R. Esposito, op. cit., 12 ss., 21 ss., 92 ss., 100 ss., 104 ss., 113 s., 116 ss., 151 ss., 165, 170 s. e 172 s., che, a scanso di equivoci, val la pena di precisare che è un mondo affatto diverso da quello di A. Nicolussi, Testamento biologico e problemi del fine-vita: verso un bilanciamento di valori o un nuovo dogma della volontà?, in Eur. dir. priv., 2013, 457.
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In effetti, si tratta di umanizzazione del diritto e di umanizzazione della medicina8: la disponibilità al dialogo ne è un ottimo recettore. Si fa presto però a parlare di empatia. Certo, qui è fondamentale la relazione9. Ma la relazione, asimmetrica e diseguale quanto si vuole, è, per definizione, reciproca, bilaterale e bidirezionale10; è double bind11: et medico/paziente et paziente/medico12. Una cosa è sicura, non dovrebbe esserci più spazio per l’alessitimia, neppure per i notai chiamati a ricevere o autenticare le DAT13.
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S’intrattiene sul tema, che lambisce quello della c.d. medicina difensiva, P. Borsellino, di cui Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 111 ss. e “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Fam. dir., 2018, 789, spec. a 792 ss. 9 Di «consensualità come connotato essenziale della relazione di cura, non confinata al problema della accettazione della terapia» parla, a proposito dell’impianto della legge 219/2017, P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 247. Di riappropriazione della decisione parlava già U. Veronesi, Prefazione ad AA. VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Milano, 2006, VII, s. a IX. Caldeggiano, condivisibilmente, una lettura relazionale del consenso informato G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 47 e 52 e M. Foglia, Autodeterminazione, cit., 247 e 261 s. A tal proposito un’ottima rappresentazione, in chiave generale, è offerta da M. Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, nel Trattato di biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti, I diritti in medicina, a cura di L. Lenti, E. Palermo e P. Zatti, Milano, 2011, 191, ma va certamente ricordato anche G. Cattaneo, Il consenso del paziente al trattamento medicochirurgico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 949, maestro oltre che pioniere dell’argomento. Sul backyard storico-culturale della relazionalità nel e del diritto v. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 144 ss. 10 Una penetrante descrizione dei rapporti di forza tuttora attivi in campo medico-ospedaliero, che oscillano tra potestà e soggezioni, in P. Zatti, «Parole tra noi così diverse», cit., 143 ss., il quale descrive la subordinazione e l’ammutolimento correlati come situazione in cui alla malattia si aggiunge il dolore e «alla sofferenza di essere malato si aggiunge quella di essere ‹paziente› » (ivi, 145) e per una questione giuridico-culturale più allargata v. M. Graziadei, Diritto positivo, potere, interesse, in G. Alpa, M. Graziadei, A. Guarneri, U. Mattei, P.G. Monateri e R. Sacco, La parte generale del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, 2001, 3. Guarda la medesima realtà, ma con occhiali diversi, L. Fontanella, op. cit., 23 ss., 45 ss. e 89 ss. 11 Su questa tavola di coniugazione double bind v., senz’altro, J. Derrida, [2005] et cetera (and so on, und so weiter, and so forth, et ainsi de suite, und so überall, etc.), trad. it. T. Lo Porto, Roma, 2006, spec. 5 ss., 11 ss., 19 ss. e 50 ss. 12 Per una netta presa di distanza dalla metaforica scena della c.d. relazione di cura e dalla retorica della c.d. alleanza terapeutica P. Borsellino, della quale Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 151 ss., 181 ss., 187 ss., 202 ss. e 220 ss., “Biotestamento”, cit., 794 ss. e “Norme in tema di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”. Una conquista per i pazienti e per gli operatori sanitari, in Riv. it. cure palliative, 2018, 2 ss. Nulla da dire sulla c.d. alleanza terapeutica: di ingannevole formula parlava già S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 277 ss. e v.ne pure, in più ampio raggio, La vita e le regole, cit., 224 ss.; sfumato, ma fermo, P. Becchi, Il testamento biologico, Brescia, 2011, 54, smascherando un certo possibile paternalismo medico; cfr. tuttavia E. Bilotti, L’efficacia delle disposizioni anticipate di trattamento, in V. Verduci [cur.], Il diritto sulla vita. Testamento biologico, autodeterminazione e dignità della persona, Pisa, 2018, 17, in part. 85 ss. Sulla c.d. relazione di cura – che è una concettuologia cui accede anche il Consiglio di Stato – occorre invece intendersi. Indubbiamente, come ha messo in evidenza P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 248, incontriamo elementi «rispetto allo stato e alla “cultura” diffusa della macchina sanitaria e della “classe medica”». Ma non va trascurato che a questi elementi fa contrappunto un altrettanto diffuso atteggiamento di alcuni pazienti, che “asservendosi” a questa “cultura” hanno, in qualche misura, finito per deresponsabilizzarsi: d’altronde, lo stesso P. Zatti, in «Parole tra noi così diverse», cit., 146, ha parlato di pazienti “rinfanciulliti” che si consegnano ai medici e, a tal proposito, v. pure L. Fontanella, op. cit., 54 ss. (ma anche 108 s.), che accende le luci sul gioco delle parti in ordine ai molteplici diminutivi che si recitano nelle stanze ospedaliere (“punturina”, “taglietto” [e, perchè no?, “firmetta”]). Il vero è che, come risulterà più chiaro nel prosieguo di questo lavoro, la legge 219/2017 introduce una rivoluzione [letteralmente] copernicana. 13 P. Zatti propone una riflessione centrata: «occorre uscire dall’astrazione che si limita all’applicazione al rapporto di cura di categorie costruite sul modello del contratto» (Id., Per un diritto gentile in medicina, cit., 1 e già Maschere del diritto e volti della vita, cit., XIII e XVI); «[i]l diritto che trasferisce in sala operatoria – o nel corridoio [oppure, può aggiungersi, nelle sale stipula dei notai] – le forme che valgono per un contratto bancario fa piangere» (Id., «Parole tra noi così diverse», cit., 148). Tracce di questo discorso pure in S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 269 ss. e 277. Va peraltro ricordato che tra i pionieri italiani dell’indagine sull’argomento c’è stato anche un notaio, sensibile e attento: L. Milone,
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L’art. 1 promuove e valorizza, al comma 2, «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico». Al comma 8, afferma graniticamente che «[i]l tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». Il parere del Consiglio di Stato lo valorizza come tempo di relazione terapeutica. L’art. 1, comma 8, echeggia il codice di deontologia medica14. Allude a un tempo di comunicazione che – può chiosarsi – va inteso come tempo di conoscenza più profonda possibile della persona del disponente. Anche nelle situazioni di emergenza o urgenza, la volontà del paziente, ove le sue condizioni cliniche e le circostanze lo consentano, va “acquisita”, e non “recepita”, come invece si esprime impropriamente l’art. 1, comma 715. L’abbiamo già abbozzato, c’è però anche il tempo della comunicazione tra paziente e medico, che costituisce tempo del prendersi cura. Il curare non sta al prendersi cura come l’acquerello sta alla tempera16. Sono e hanno tempi gemellari e, rielaborando un vecchio adagio, può dirsi che la differenza sta tutta qui: si cura la malattia, ci si prende cura della persona.
di cui v. Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, con nota finale sul dovere di morire, in Vita not., 2018, 1393, Le direttive avanzate. Questioni di vita, Uomini, giudici, leggi, ibidem, 2009, 203, Il testamento di vita, ibidem, 2004, 105 e già Il testamento biologico (living will), ibidem, 1997, 106, con qualche aderenza al “classico” di L. Kutner, [1969] Due Process of Euthanasia: The Living Will, A Proposal, in Indiana Law Journal: Vol. 44, Iss. 4, Article 2, 539. Alcune proposte volte a delineare compiti e significati dell’intervento notarile in materia si leggono in C. Romano, La legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento: l’ultrattività del volere e il ruolo del notaio, in Notariato, 2018, 15 e Le disposizioni anticipate di trattamento, studio per il Consiglio Nazionale del Notariato n. 136-2018/C1605, approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 25 settembre 2018 e dal CNN nella seduta del 25-26 ottobre 2018, in CNN Notizie, 5 dicembre 2018, n. 221. A proposito di un sillabario alternativo v., s.v., A. Di Sapio e B.A. Elia, Visibile @ invisibile nello studio notarile, in Endoxa, [27] settembre 2018, 89 ss., consultabile all’indirizzo endoxai.net. 14 L’art. 20 del codice di deontologia medica [2014], rubricato «[r]elazione di cura», recita: «[l]a relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità. Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura» (cors. agg.). 15 Converge P. Zatti, Brevi note sul testo approvato, cit. 16 Per una accorta elaborazione del distinguo L. D’Avack, Scelte di fine vita, in AA. VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, cit., 47, spec. a 88 (rielaborazione de Le scelte di fine vita tra etica e diritto, in Id. e F. Riccobono [cur.], Equità e ragionevolezza nell’attuazione dei diritti, Napoli, 2004, 9). Sul prendersi cura pesca nel fondo S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 223.
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Il dialogo trova fondamento sì sul confronto verbale, ma anche sull’ascolto: reciproco17. Com’è stato notato, «non esiste un paziente muto»18. E se mai esistesse in un mondo nuvolesco, non è detto che siano muti anche i suoi familiari, ai quali pure gli artt. 1 (commi 2 e 3), 3 (comma 2) e 5 (comma 2) riconoscono, in certe situazioni, voce in capitolo19. Un dialogo, quindi, che può essere a più voci20. In definitiva, la legge 219/2017 esalta la relazione comunicativa: circolare21. È un collante che non si dissolve neppure se la persona perde la capacità di autodeterminarsi.
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H.-G. Gadamer, di cui, sul tema oggetto d’indagine, [1993] Dove si nasconde la natura, trad. it. M. Donati e M.E. Ponzo, Milano, 1994, 135 ss. Suggestivo il richiamo di A. Grieco e V. Lingiardi, nell’Introduzione a quest’opera, IX, a XIX ss. al «guaritore ferito» e, dunque, ad A. Guggenbühl-Craig, [1983] Al di sopra del malato e della malattia, trad. it. M. Giuliani, Milano, 1987, 67 s.: come il medico non può pensarsi separato dal suo aspetto di paziente, così il paziente non può pensarsi separato dal suo aspetto di medico, ovvero dal fattore di guarigione dentro di sé. Tra i giuristi che hanno approfondito l’argomento M. Graziadei, Il consenso informato, cit., 219 ss. e 231 ss. e P. Zatti, del quale, tra l’altro, [2000] Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele), ora in Id., Maschere del diritto e volti della vita, cit., 229, a 235. Epperò, va tenuto anche conto dell’antico proverbio trasmessoci da Platone, facendolo recitare a Socrate: «è giusto riferire anche le ragioni del lupo» (Fedro, 272C). Si tratta allora di non minimizzare l’effrazione nei confronti del modello dialogico tentata da R. Esposito, op. cit., 21 ss., 129 ss., 140 ss., 146 ss. e 153 ss., in favore della terza persona e del neutro. Una critica disvelatrice, la quale risulta peraltro un po’ carente sul versante ri-costruttivo, soprattutto sul piano giuridico, che, come sappiamo, è il luogo di governo delle responsabilità, troppe volte bypassate, se non eluse, con paradigmi impersonali. 18 P. Zatti, Consistenza e fragilità dello ius quo utimur in materia di relazione di cura, in Nuova giur. civ., 2015, II, 20, in part. a 22. Per uno spaccato sul contesto medico-ospedaliero L. Fontanella, op. cit., 66 ss. e 80 ss. 19 P. Zatti, Consistenza e fragilità, cit., 22, 25 e 26, osserva che potranno essere proprio i familiari a dare testimonianza dei valori identitari del paziente. Sull’argomento, che presenta affinità con quello della “vicinanza” e “prossimità”, v. pure L. Lenti, di cui La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in Jus civile, 2016, 92, in part. 102 e Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. dir., 2016, 931, a 935; allarga il compasso S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 258, ma v. pure R. Esposito, op. cit., 120 ss. Sui rapporti con i familiari, alla luce dell’art. 1, commi 2 e 3, occorrerebbe però intendersi. Non c’è più spazio per le promiscuità del passato e per qualche spunto ulteriore P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 162, 171 e 203 ss. e M. Foglia, Consenso e cura, cit., 107 s., 119 ss. e 123 s. e, tra i medici, L. Orsi, Un cambiamento radicale nella relazione di cura, quasi una rivoluzione (articolo 1, commi 2 e 3), in AA. VV., Forum. La legge n. 219 del 2017, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, n. 1/2018, 19, a 25, consultabile all’indirizzo www.biodiritto.org. Meritano segnalazione sui rapporti con i familiari del paziente, tra rappresentanza, familismo protettivo e autonomia, le pregevoli e stimolanti riflessioni presentate da L. Olivero, all’incontro di studi su Le disposizioni anticipate di trattamento: luci e ombre della legge 22 dicembre 2017, n. 219, tenutosi il 15 febbraio 2018 presso il Consiglio notarile di Cuneo, che, come preannunciatoci dall’A., confluiranno in una monografia dedicata all’argomento, in continuità con le felici intuizioni che si leggono in Id., L’amministrazione di fatto degli interessi patrimoniali e non patrimoniali del familiare, nel volume a cura di P. Morozzo della Rocca, Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assistenza, Napoli, 2013, 163, spec. a. 169 ss. e 183 ss cui hanno fatto seguito, quando questo scritto era in stampa, le agili ma penetranti riflessioni pubblicate con il titolo Che fine hanno fatto i familiari? (Antidoti per un emendamento), in Nuova giur. civ., 2019, II, 139.. 20 In caso di DAT si possono contare fino a 4 voci: paziente, fiduciario, medico e giudice tutelare. 21 P. Zatti, «Parole tra noi così diverse», cit., 143 ss. Una blasonata dottrina aveva affrontato il tema già molti anni addietro osservando che «[s]enza comunicazione non esiste società e senza comunicazione simbolica non esiste società umana; senza regole di convivenza non esiste società e senza regole di convivenza giuridica non esiste società umana»: A. Falzea, [1981] Forma e sostanza nel sistema culturale del diritto, ora in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, I, Teoria generale del diritto, Milano, 1999, 171, in part. 173; per le premesse S. Pugliatti, [1935] Esecuzione forzata e diritto sostanziale, rist. inalt., Camerino, 1978, 64. L’argomento che ci occupa è caleidoscopico e multidisciplinare. La filosofia sa perfettamente ciò di cui stiamo parlando: R. Esposito, op. cit., 73 ss. Sulla comunicazione ospedaliera in chiave linguistica, ma anche tonale e non verbale, v. ancora L. Fontanella, op. cit., 7 ss., 22 s., 26 s., 28 ss., 33 ss., 45 ss., 111 ss. e 118 ss. Accattivante l’analisi antropologica di A. Gusman, Comuni-care. Un percorso sulla comunicazione nel passaggio alle cure palliative, in
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Disposizioni anticipate di trattamento: tempo di comunicazione, tempo di cura
La direttiva normativa, di cui si fa promotore il Consiglio di Stato, accorda un monito pieno di senso: per averne consapevolezza, basti riflettere sul fatto che la tutela della salute – e dunque anche, almeno in questo contesto, la comunicazione del e col medico – è un diritto fondamentale scolpito dall’art. 32, comma 1, Cost. L’art. 1, comma 10, s’innesta in continuità: caldeggia «[l]a formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie», che «comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative»22.
3. Le DAT quale espressione di identità e ipseità. Dalla latitudine qui abbracciata, le DAT non sono solo un mezzo per esprimere il proprio “volere” o “non volere” un trattamento terapeutico. Non sono solo il veicolo per dichiarare “se”, al verificarsi di certe condizioni, vivere o morire23. Sono invece, prima di tutto, espres-
Salute e soc., 2015, 159. I medici sono franchi e v. N. Zamperetti, La formazione del personale sanitario (commento all’articolo 1, commi 9 e 10), in AA. VV., Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 36 e già S. Livigni, Postfazione a L. Fontanella, La comunicazione diseguale, cit., 133. Sulla preparazione del personale sanitario alla «logotecnica clinica» M. Foglia, Consenso e cura, cit., 37 ss. Sulle vertigini (anche) comunicative nella c.d. fase di rimodulazione delle cure, con passaggio alle cure palliative, A. Gusman, op. cit., 166 ss. e 169 s. 23 Vi possono però essere situazioni in cui le DAT non sono idonee a realizzare i propositi della persona. Il caso di Fabiano Antoniani, verificatosi prima dell’entrata in vigore della legge 219/2017, è, da questo punto di vista, emblematico. Anche se la normativa in esame fosse stata già in vigore non gli avrebbe consentito di raggiungere il risultato voluto (conf. L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una analisi della recente legge approvata in Senato, in Dir. fam. pers., 2018, p.179, a 195, G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 71 e P. Zatti, La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 19). Egli non voleva essere “accompagnato”, in un tempo più o meno breve, verso la fine. Date le proprie condizioni fisiche, voleva invece abbreviare il più possibile la propria esistenza mediante il c.d. suicidio assistito. È per tale ragione che decise di farsi accompagnare in una clinica svizzera, dove è morto a febbraio 2017. Il suo accompagnatore, Marco Cappato, è stato tratto a giudizio per il reato di istigazione al suicidio previsto all’art. 580 cod. pen. La vicenda, come noto, è finita davanti alla Corte costituzionale, che ha tracciato le linee guida, invitando il Parlamento (rimasto immobile, come nota M. Ainis, Il regno della pigrizia in politica, ne la Repubblica del 12 dicembre 2018, 28) a legiferare nuovamente sulla materia. L’invito è chiaro: la legge 219/2017 va modificata in modo tale da disciplinare anche situazioni come quella dello sfortunato dj Fabo. L’ordinanza è la n. 207 del 16 novembre 2018, consultabile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it. Con essa la Corte ha sospeso la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., fissando una nuova discussione all’udienza del 24 settembre 2019, in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia. La Corte ha piantato i paletti intorno «alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Nel perimetro di queste specifiche situazioni, ha chiarito la Corte, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (art. 3 Cost. [...])» (considerando in diritto n. 8). Certo, la Corte non recita la parte dell’Arcivescovo di Canterbury. Può tuttavia dirsi che l’habeas corpus non è solo un diritto riconosciuto dalla Magna Charta Libertatum del 15 giugno 1215 e v. ancora S. Rodotà, di cui Il diritto di avere diritti, cit., 144 ss., 256 s., 259 ss. e 295 ss. e Il corpo “giuridificato”, nel Trattato di biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Il governo del corpo, a cura di S. Canestrari, G. Ferrando, C.M. Mazzoni, S. Rodotà e P. Zatti, tomo I, Milano, 2011, 51, a 52 ss. Tra i primi commenti a questa importante pronuncia dei giudici delle leggi cfr. A. Ruggeri, di cui Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora… (a margine di un comunicato stampa sul caso Cappato), in Consultaonline, 2018, 568, consultabile 22
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sione della propria identità narrativa, nella duplice accezione di identità [idem: analogo] e di ipseità [ipse: identico]24. Insomma, sono espressione della propria storia e della propria esperienza, dei propri valori e delle proprie rappresentazioni, del proprio essere e del proprio divenire, dei propri bisogni, della propria memoria, della propria percezione dei ricordi, delle proprie convinzioni, delle proprie preferenze e delle proprie aspirazioni25. È questo il senso in cui può dirsi che le DAT sono lo strumento con cui rendere palese la propria scelta di “come” morire o vivere26. Come tali non costituiscono indice di «suicidio
all’indirizzo www.giurcost.org e Fraintendimenti concettuali e utilizzo improprio delle tecniche decisorie nel corso di una spinosa, inquietante e ad oggi non conclusa vicenda (a margine di Corte cost. ord. n. 207 del 2018), ibidem, 2019, 92, S. Prisco, Il caso Cappato tra Corte Costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, in BioLaw Journal Rivista di BioDiritto, n. 3/2018, 153, consultabile all’indirizzo www.biodiritto.org, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, consultabile all’indirizzo www.questionegiustizia.it, C. Cupelli, Il caso Cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte, consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo. it, U. Adamo, In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare, consultabile all’indirizzo www.diritticomparati.it e, s.v., A. Di Sapio e D. Muritano, Fine vita, la Consulta mette al centro la scelta consapevole della terapia in Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2018, 30. Rimane sullo sfondo il tema, sempre più attuale ma sottaciuto, della c.d. “eutanasia da abbandono” e v. le feconde notazioni di P. Rescigno, di cui Malattia, vecchiezza e povertà: condizione necessaria ma non sufficiente, nota a Cass., sez. lavoro, 17 giugno 2010, n. 14642, in Giur. it., 2011, 790 e già, per le premesse, [1988] Eutanasia da abbandono: l’anziano cronico non autosufficiente, ora in Id., Danno da procreazione, Milano, 2006, 317. 24 P. Ricœur, di cui L’identité narrative, in Revue des sciences humaines, 95/221, 1991, 35 (la trad. it. di A. Baldini, L’identità narrativa, si legge in allegoria, 60, luglio - dicembre 2009, 93) e il trittico [1983] Tempo e racconto, vol. I (senza sottotitolo), [1984] Tempo e racconto, vol. II, La configurazione nel racconto di finzione e [1985] vol. III, Il tempo raccontato, trad. it. G. Grampa, Milano, rispettivamente 1986, 1987 e 1988. Questo è ovviamente il primo passaggio di un più articolato discorso sulla persona in senso etico e per un recente riuscitissimo quadro di sintesi dell’invito della filosofia più moderna al superamento dell’impianto di matrice husserliana, centrato sull’autoreferenzialità e sull’autopresenza, aprendo a una relazione di eteronomia, prima ancora che di autonomia, di esposizione prima ancora che di autoriflessione, v. F. Menga, Lo scandalo del futuro, Roma, 2016, 98 ss.; ma cfr. P. Zatti, di cui, tra l’altro, Di là dal velo della persona fisica, cit., 57 s., Principi e forme di governo del corpo, nel Trattato di biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Il governo del corpo, tomo I, Milano, 2011, 99, a 102 s., 104 ss. e 128 ss. Chiaramente, ognuno è libero di scegliere con chi, quando, come e su quale piano entrare in relazione all’altro. 25 Nihil sub sole novi. Ha insistito sul riferimento all’identità della persona quale registro di lettura dell’argomento P. Zatti: v.ne, tra l’altro, Le «disposizioni del paziente», cit., 314, Principi e forme di governo del corpo, cit. 99, a 112 ss. e 125, Per un diritto gentile in medicina, cit., 2 e 4 e Brevi note sul testo approvato, cit. Sensibile all’argomento anche L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 197, il quale però dal presupposto, a là R. Dworkin [Il dominio della vita. Aborto, eutanasia, e libertà individuale, trad. it. C. Bagnoli, Milano, 1994, 276 ss.], che qui sono in questione l’“unità narrativa” della persona e i suoi “interessi critici” trae conseguenze diverse. Su una angolazione affine a quella di P. Zatti v. pure G. Ferrando, della quale Rapporto di cura, cit., 47, 62 e 70 ss. e, a proposito dei minori d’età e delle persone prive di autonomia, Minori e incapaci, in AA. VV., Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 46, segn. 52 e F. Giardina, Il fiduciario, ibidem, 61, segn. 62, entrambe sulla scia di S. Rodotà, di cui Modelli culturali e orizzonti della bioetica, in Id. [cur.], Questioni di bioetica, Roma - Bari, 1993, a 421, segn. 423 s. e, più di recente, Il diritto di avere diritti, cit., 172 ss., ove ci aveva messi in guardia, per tempo, sul rischio della «disidentità». D’altronde, cosa sono mai quelle procedure ospedaliere in cui si perde il proprio nome e si riceve un numero con il quale si viene chiamati per la visita medica?, e v. anche H. G. Gadamer, op. cit., 137. E poi, non lo dimentichiamo, 174517 stava per “Primo Levi”, e su questa piaga umanitaria v. R. Esposito, op. cit., 11 ss. Focalizza maggiormente l’attenzione sul potere/libertà di governo di sé del paziente e sui limiti della medicina M. Foglia, Autodeterminazione, cit., 248, 250 e 254, ma v.ne, con nuances più ricercate, Consenso e cura, passim, in part. 2 ss., 84 ss., 88 ss., 99 s. e 183. 26 Il frequente riferimento alla “dignità” – cui allude pure la legge 219/2017 (artt. 1, comma 1, 2 [la rubrica, però] e 3, commi 2 e 3) – va invece maneggiato con cautela, anche per evitare quella (sempre possibile) deriva di propaganda giuridico-filantropica di cui ci ha dato insuperabile avvertenza H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., 405 ss. Lo aveva già notato S. Rodotà, La rivoluzione della dignità, cit., 12 ss., 17 ss. e, soprattutto, 37, «[l]a dignità non è un diritto fondamentale tra gli altri, né una supernorma», ma integra invece «principi fondamentali già consolidati – libertà, eguaglianza,
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dell’assicurato», che, ai sensi dell’art. 1927, comma 1, cod. civ., se intervenuto prima che siano decorsi due anni dalla stipulazione del contratto, esime l’assicuratore dal pagamento delle somme assicurate, salvo patto contrario27. Questa storia ha un lungo e accidentato percorso. I Principi di etica medica europea fissati nel 1987 già prevedevano, a ragion veduta, che «[i]l medico non può imporre al paziente le proprie opinioni personali, filosofiche, morali e politiche nell’esercizio della sua professione» (art. 3) e che «[i]l medico non può sostituire la propria concezione della qualità della vita a quella del suo paziente» (art. 4, terzo periodo)28.
solidarietà – facendo corpo con essi e imponendone una reinterpretazione in una logica di indivisibilità». I civilisti non sbadigliano sui quaderni. «Dignità è nozione che può avere una forte carica emancipatoria, anche e soprattutto nel senso del rafforzamento dei diritti sociali degli individui ma che nello stesso tempo può essere impiegata, con argomentazioni apodittiche, per determinare una pesante restrizione dei diritti di libertà altrui; dignità è formula che sottende un’elevata pulsione ideale, ma che rischia di subire, nella sua applicazione concreta, un processo di non irrilevante banalizzazione; dignità, infine, è strumento che può essere usato per ampliare la sfera d’autonomia degli individui e per precostituire le condizioni minime per una libera costruzione dell’identità ma che può anche tradursi nella surrettizia imposizione di modelli valoriali dominanti, a scapito del pluralismo e delle diversità»: G. Resta, di cui v. La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della Carta dei Diritti), in Riv. dir. civ., 2002, II, 801, segn. a 825 s. (da cui il virgolettato che precede) e, più diffusamente, Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005, passim, segn. 7 ss., 12, 33 ss. 41 ss. e 123 ss. e La dignità, nel Trattato di biodiritto diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. Rodotà e M. Tallacchini, Milano, 2010, 259. In arg. v. altresì P. Rescigno, di cui [1982] La fine della vita umana, cit., 647 ss., ora in Id., Danno da procreazione, cit., 173, a 193 s., [1998] Limiti e possibilità del diritto, ibidem, 13, a 17 s. e [2000] Bioetica e tutela della persona, ibidem, 39, a 45 s., P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 481 ss. e, con altro approccio, C.M. Mazzoni, Dignità, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 157 e M.R. Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, ibidem, 2007, 67. Cfr. però R. Esposito, op. cit., 5 ss. e, su una posizione ancora diversa, radicale ma che fa pensare su come ci vedono oltreoceano, J.Q. Whitman, The Two Western Cultures of Privacy: Dignity versus Liberty, in (2004) 113 Yale Law Journal, 1151, segn. 1186 ss., 1206 ss. e 1219 ss. 27 Qui sta la chiave di volta del tema già sollevato da P. Rescigno in La fine della vita umana, cit., 180 e 199. Lo stesso dicasi per il rifiuto di trattamenti sanitari e per la rinuncia ai medesimi ai sensi dell’art. 1, comma 6: conf. D. Carusi, Tentativi di legiferazione, 120. Medesima soluzione è fornita dalla sec. 4656 del Probate Code della California il quale prevede che «[d]eath resulting from withholding or withdrawing health care in accordance with this division does not for any purpose constitute a suicide or homicide or legally impair or invalidate a policy of insurance or an annuity providing a death benefit, notwithstanding any term of the policy or annuity to the contrary». 28 Il documento fu approvato il 6 gennaio 1987 dall’allora Conferenza internazionale degli ordini professionali dei medici dei 12 Paesi della Comunità Europea: si legge in aggiornamenti sociali, 11/1987, 729, tratto da Il Medico d’Italia, 13 febbraio 1987, 7.
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Di acqua sotto i ponti n’è passata29. L’identità e l’ipseità presidiano oggi la volontà e a esse il medico deve attenersi anche in assenza di DAT30. La legge 219/2017 cementa il diritto al rispetto dell’identità e dell’ipseità del paziente/disponente, le cui scelte autodeterminative sono prevalenti e preminenti sulle diverse valutazioni e convinzioni del medico, salvi i limiti di cui agli artt. 1, comma 6 e 4, comma 531.
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Acconce notizie sul progressivo irrigidirsi delle posizioni e sul polarizzarsi delle polemiche in L. D’Avack, Scelte di fine vita, cit., 53 ss. e D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., 3 ss.; un’interessante intervista di P. Zatti è visionabile all’indirizzo https://vimeo.com/3675192; in chiave più generale, P. Rescigno, di cui [1998] Valori, modelli, politiche, ora in Id., Danno da procreazione, cit., 19, a 21 e [1997] «Living will», un istituto giuridico di formazione extralegislativa, ibidem, 215, a 223 ss. e P. Borsellino, [1996] La bioetica: terreno di scontro tra moderno e postmoderno, ora in Ead., Bioetica tra autonomia e diritto, Milano, 1999, 45. La critica mossa da R. Esposito, op. cit., 5 ss. e 113 ss. alla contrapposizione tra tesi religiose che proclamano la sacralità della vita e tesi laiche che proclamano la sua qualità è dirompente, ma disoccultatrice: queste tesi, osserva l’A., poggiano entrambe sulla prevalenza del personale sull’impersonale; hanno entrambe la medesima radice concettuale, lo stretto legame tra la “persona” e il “soggetto di diritto”: si operi poi uno slittamento di senso e di attenzione “dalla persona al soggetto di diritto”, che è un filone cui abbiamo già accennato (nt. 1), oppure “dal soggetto di diritto alla persona” il risultato non cambia. Questo disincantato orizzonte travolge anche la teoria normativa della persona, che mette da parte le proprietà empiriche o odontologiche degli individui in favore della griglia dei diritti e doveri che, tempo per tempo, l’ordinamento giuridico riconosce e impone a certi individui: per essa v. P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 85 ss. e 191. Molteplici sembrano i punti di contatto con H. Kelsen, del quale v. [1960] La dottrina pura del diritto, trad. it. M.G. Losano, Torino, 1990, 192 ss., segn. 194 e 197, [1960] Religione secolare, trad. it. P. Di Lucia e L. Passerini Glazel, Milano, 2014, passim, spec. 363 s. e [1962] Politica, etica, diritto e religione, ora in Id., Cos’è la giustizia?, sempre a cura di P. Di Lucia e L. Passerini Glazel, Macerata, 2015, 139, in part. 140 ss. (segn. 142 ove una centrata relativizzazione della moralità vs immoralità del suicidio); ma cfr. R. Esposito, op. cit., 102 ss. 30 Non è dunque registrabile alcun ritorno alla volontà. Il face value della volontà è, invece, una declinazione dell’identità e ipseità – o se si preferisce della dignità umana – che, a bella posta, si coniugano e germogliano con il rispetto di se stessi: in arg. si consulta con profitto l’atlante ragionato di L.E. Perriello [cur.], L’autonomia negoziale nel fine vita, in Corte Costituzionale - Servizio studi, gennaio 2016, reperibile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it, 13 ss. (testo e relative note) e 19 s. Non tutti la pensano allo stesso modo. C. Romano, La legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento, cit., 18, evoca una «sacralità del volere» e la stessa considerazione è riproposta in Id., Le disposizioni anticipate di trattamento [studio CNN n. 136-2018/ C1605], § 4. 31 Intendere questa svolta ordinamentale come frutto di una logica librescamente etichettata come “logica dell’autodeterminazione assoluta” significa seguitare a galoppare dietro un modello che pone pur sempre al centro della scena le valutazioni e convinzioni del medico, pur declamando di volersi allontanare dal paternalismo sanitario: è indicativa l’enfasi con cui D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., 106 ss., ha sottolineato la possibile influenza della depressione e dell’emulazione sul rifiuto delle cure e v. le repliche di P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 187 ss. Qui fiorisce la “logica dell’alleanza terapeutica” che, in tempi recenti, ha trovato i nuovi alfieri: E. Bilotti, op. cit., 85 ss. e L. Bozzi, La legge sulle disposizioni anticipate di trattamento tra esigenze di bilanciamento e rischi di assolutizzazione, in Nuova giur. civ., 2018, II, 1351, segn. 1352 s. e 1355 s., entrambi con richiamo a F. Busnelli, Problemi giuridici di fine vita tra natura e artificio, in Riv. dir. civ., 2011, 153, segn. a 171 s. e ripercorrendo le orme di A. Nicolussi, op. cit. (v.ne in part. 460 ss., 463 ss., 467 ss., 483 ss. e le conclusioni a 502 ss.). Ma, di là dalla segnalata retorica della “alleanza terapeutica” (supra nt. 12), non vi è alcun puntello normativo per affermare che questa pretesa “alleanza” – ovviamente: in caso di conflitto tra medico e paziente, perché di questa eventualità stiamo parlando – deve essere ubbidita dal paziente. Questa “alleanza”, a tutto concedere, andrebbe prima ricercata nel dialogo tra medico e paziente, poi da loro condivisa e solo di conseguenza osservata, tenendo però conto della intangibile facoltà del paziente/disponente di rivedere le sue scelte e di rimangiarsi la parola. Occorre peraltro non calcare neppure troppo la mano riconducendo la “logica dell’alleanza terapeutica” a una logica accondiscendente all’autonomia professionale e alla coscienza del medico. Perchè, seppur in filigrana, il timore che alberga in questa logica è quello dell’abbandono terapeutico e v. infatti E. Bilotti, op. cit., 91 e L. Bozzi, op. cit., 1356 e 1358; qualche apprensione, con tonalità di fondo non coincidenti, anche in V. Verdicchio, Testamento biologico e consenso informato (Aspetti delle decisioni di fine vita nel diritto italiano tra jus conditum e jus condendum), in Dir. succ. fam., 2017, 637, a 667 e pure 671; s’interroga poi sul “dovere di morire” L. Milone, Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, cit., 1403, ma il registro di questa domanda è noto ai filosofi: ne parla R. Esposito, op. cit., 120 ss. Ora. Il timore dell’abbandono terapeutico non è del tutto peregrino. Tuttavia, esaltando a questo modo i poteri/doveri del medico al fine di impedirne la deresponsabilizzazione, si rischia di proporre una “cura giuridica” peggiore del male. L’abbandono terapeutico
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Ben s’è detto, «il rispetto dell’identità» è l’«orizzonte che include e integra il principio di consensualità»32. Et pour cause si è parlato di testamento “biografico”, prima che “biologico”33. Qui sta la cifra del nostro discorso.
4. I dati. Questa non è la storia di Tizio o di Caio, ma la nostra storia34. Evitiamo dunque di dare i numeri, bastano i dati. Uno studio pubblicato sul British Medical Journal ci fa sapere che nelle primary care physician consultations nel mondo la durata media di visita è di 5 minuti.. Si va dai 20/22,5 minuti dei primi tre stati (in testa la Svezia, poi Stati Uniti d’America e Bulgaria) ai 48 secondi (Bangladesh, fanalino di coda)35. L’Italia non è presa in esame. Dalla stampa spe-
non può essere evocato a mo’ di spauracchio, ma va affrontato apertamente sulla piattaforma sua propria, che è quella di cui si colgono nitide tracce nell’art. 2, comma 1, ai sensi del quale «[i]l medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico» e v. altresì Corte cost., [ord.] 16 novembre 2018, n. 207, cit. (considerando in diritto n. 10) e S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 279 ss. La sfida che la legge 219/2017 ci lancia è la revisione delle strutture sanitarie-burocratiche attorno al malato (terminale e non): in arg. P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 162 s. e già P. Rescigno, [2003] Living will e autodeterminazione, ora in Id., Danno da procreazione, cit., 229, a 234 s. 32 P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 247. Si sfogliano con interesse anche le pagine di L. D’Avack, Scelte di fine vita, cit., 82 ss. 33 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 169 ss., 251 ss., 273 ss. e 283, G. Cosmacini, Chiamatelo «testamento biografico», in Il Sole 24 Ore, domenica 1° marzo 2009, 27 e, per un primissimo abbozzo, P. Rescigno, «Living will», un istituto giuridico di formazione extralegislativa, cit., 219 ss. Ne fa vendemmia G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 70 s.: «[l]e DAT possono anche contenere dichiarazioni di “identità”, con cui si esprimono le proprie convinzioni riguardo al morire “con dignità”, al limite oltre il quale non si desidera essere mantenuti in vita, o si chiede di non dover soffrire inutilmente». Vivacemente critico invece D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., passim, in part. 106 ss. La storia, anche qui, ci mette a nudo e ci fa fare i conti con quello che eravamo. Quasi si stenta a credere che meno di cento anni fa siano stati insigniti del premio Nobel due scienziati che, proprio sotto il vessillo dell’umanità e della personalità umana, ma mettendo poi in pratica un preciso paradigma biologico, avevano ritenuto, l’uno, che una massa di carne umana senza intelligenza è materia vivente non degna di alcuna dignità e, l’altro, che non bisogna esitare a ordinare la società moderna in rapporto agli individui sani: dettagli in R. Esposito, op. cit., 71 ss. 34 La letteratura legge la vita e la morte anche ai non vedenti. Indimenticabile la pagina in cui L.N. Tolstoj ci racconta dello sgomento del giudice Iván Ilìc quando scoprì la reale portata di «quel sillogismo che aveva appreso nella logica di Kjessewater: ‹Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale›», un sillogismo che «gli era sembrato, per tutta la vita, giusto solo nei riguardi di Caio, e che lui non c’entrasse per nulla»: La morte di Iván Ilìc, Santarcangelo di Romagna, 2014, a 35. Non va meglio con la storia di Tizio, che tra i giuristi riscuote maggior successo. L’idea di scriverla era venuta a F. Galiani: notizie in L. Diodati, Vita dell’abate Ferdinando Galiani, Napoli, 1788, 59 s. Se ne fece cura F. De Jorio, avvocato nella Regia Udienza di Lucera, che ce ne ha compiutamente narrato le gesta nel volume in due tomi Tizio o sia le vicende dell’umanità, Napoli, 1790-1793. Questo giurista pugliese ce ne ha presentato il coniuge e tutti i parenti e amici, ma ben ci ha messo in guardia dal fatto che si tratta solo di «una pittura della vita umana» (tomo II, 440) e che Tizio altro non è che il «ritratto di Uomo deſideroſo della immortalità» (come recita il titolo della parte XX, tomo II, 395). Anche per questo, probabilmente, conquistò la simpatia di B. Croce, nel suo gustosissimo aneddoto La «storia di Tizio», pubblicato su La Critica, 1929, 159 (ringraziamo Angelo Tonnellato che ce ne ha generosamente inviato copia). 35 G. Irving, A.L. Neves, H. Dambha-Miller, A. Oishi, H. Tagashira, A. Verho e J. Holden, International variations in primary care physician consultation time: a systematic review of 67 countries, consultabile all’indirizzo bmjopen.bmj.com/content/bmjopen/7/10/e017902.
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cializzata apprendiamo però che un’indagine della Società Italiana di Medicina Interna ha verificato che nel nostro Paese il tempo medio di visita è di circa 9 minuti36. Siamo quindi sopra la media mondiale, più o meno pari posto con la Gran Bretagna (9.22 minuti), prima dell’Austria (5 minuti) e della Germania (7,6 minuti), ma dietro l’Olanda (10,2 minuti), la Spagna (13,4 minuti), la Francia (16 minuti) e la Svizzera (17 minuti). Questi dati fotografano nitidamente le paradossalità con cui conviviamo nella gestione del “fattore tempo”. Fanno planare l’art. 1, comma 8, della legge 219/2017 sul concreto: il tempo della comunicazione è tempo di cura, ma il tempo sembra mancare»37. Ciò non immiserisce però l’art. 1, comma 8, a slogan38; al contrario permette di acclimatare la comunicazione del e col medico nel quadro della tutela della salute costituzionalmente protetta e di cui è ora possibile chiedere effettiva attuazione.
5. Il fiduciario. Il disponente ha facoltà (non obbligo) di nominare un fiduciario. Lo conferma l’art. 4, comma 4: «[n]el caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario [...] le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente. In caso di necessità, il giudice
full.pdf. Sarebbe peraltro ricco di spunti anche un futuro report comparativo dei diversi tempi e delle differenti modalità d’attesa delle visite mediche nel mondo. 36 Sono i dati emersi nel corso del 116° Congresso nazionale della Società italiana di medicina interna di cui dà conto l’articolo Parlare con i pazienti riduce i ricoveri e migliora cure del 40%. Ma solo 1 su 5 è un medico “amico” pubblicato l’11 ottobre 2015 su quotidianosanita.it, dal quale emerge anche che «già dopo 20 secondi il racconto del paziente viene interrotto dalle domande del dottore». L’articolo è interessante pure per le osservazioni (ivi riferite) di G.R. Corazza, all’epoca Presidente S.i.m.i.: «[p]ochi pazienti [...] vedono appagato il loro desiderio di dialogo col medico, che spesso è troppo frettoloso o assente: in media guarda lo schermo del pc o dello smartphone anziché la persona che ha davanti per i due terzi del già scarso tempo della visita. Ascoltare le ragioni e le emozioni del paziente è invece il punto di partenza fondamentale per avere una visione più ampia e circostanziata della patologia e porre una miglior diagnosi». V’è consapevolezza che «le parole curano tanto quanto i farmaci, in moltissime situazioni. Purtroppo», prosegue G.R. Corazza, «la nostra medicina iper-tecnologica sembra allontanare da un rapporto empatico medico-paziente, portandoci verso una de-umanizzazione delle cure». Pensieri pensati sul passaggio dalla medicina ippocratica e paternalistica alla medicina tecnologicizzata in M. Foglia, Consenso e cura, cit., 4 ss., 16 s., 18 ss., 23 ss. e 26 ss.; con respiro progressivamente più ampio, G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 47 s., P. Zatti, «Parole tra noi così diverse», cit., 147 ss. e S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 162 ss., 169 ss. e 259 ss. 37 M. Foglia, Consenso e cura, 30 ss. (spec. 32, da cui il virgolettato), ove notizie sul passaggio dall’ospedale all’azienda sanitaria, governata da budget che impongono sempre maggiore velocità dei ritmi lavorativi con inevitabile sottrazione di tempo al fattore comunicativo. 38 In quest’arco ermeneutico pure P. Zatti, La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 8, osservando che l’art. 1, comma [9, oggi comma] 8, non solo asserisce, ma prescrive qualcosa di fondamentale e di molto impegnativo sia per il medico, sia per l’organizzazione sanitaria; ma cfr. M. Foglia, Consenso e cura, 17. In più ampio raggio, G.M. Flick, Dignità del vivere e dignità nel morire: un (cauto) passo avanti, in V. Verduci [cur.], Il diritto sulla vita, cit., 17, a 22: «[l]a salute (si dice) non ha prezzo, ma la sanità costa cara: è vero e le risorse sono limitate, soprattutto in tempo di spending review. Ma il richiamo ai costi evoca valutazioni di diseguaglianza fondate sulle condizioni economiche che sono inaccettabili in linea di princìpio, ancorché purtroppo spesso inevitabili e condizionanti nella realtà». L’utilizzo degli strumenti di lettura offerti dall’analisi economica del diritto per affrontare le questioni poste dalla bioetica suscita da molti anni preoccupazione e v. P. Rescigno, [2003] I confini della vita umana, ora in Id., Danno da procreazione, cit., 165, a 170 s. e, più recentemente, P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 169 s.
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tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile»39. La nomina del fiduciario è una scelta che si colloca su una piattaforma, per così dire, dinamica, non statica: punta a prevenire il “rischio di disidentità” del disponente, vale a dire che il disponente, una volta diventato incapace di autodeterminarsi, sia trattato nel contesto medico-ospedaliero come una “non persona” nelle mani di altre persone mai scelte dal medesimo40. Sarà il fiduciario che, mano nella mano del disponente, facendone le veci, garantirà aderenza diacronica alle DAT e darà o negherà il consenso ai trattamenti sanitari, perseguendone l’esclusivo e migliore interesse41. Ancora. Sarà il fiduciario che dialogherà con il medico qualora le DAT appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. In questi casi (e solo in questi casi), il medico può disattendere, in tutto o in parte, le DAT, ma può farlo esclusivamente «in accordo con il fiduciario»42: ecco un’altra forma in cui si coniuga la consensualità della relazione di cura43. Una relazione paritetica: «in accordo con il fiduciario» non significa sentito il parere del fiduciario: la decisione dev’essere condivisa dal medico e dal fiduciario, dunque dev’esserci concorso e combinazione di consensi; non basta un’informativa, né è sufficiente un confronto dialettico, che è solo il presupposto dell’«accordo»44.
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Si ponga attenzione alla direzionalità del dato positivo: allude alla «nomina di un amministratore di sostegno», non anche di un tutore. Il che parrebbe sconfessare quell’orientamento giurisprudenziale di merito per cui l’“incapacità” di esprimere il consenso informato ai trattamenti sanitari sarebbe, di per sé, causa di apertura della tutela. Questa risulta la prassi di alcuni tribunali piemontesi. Una prassi che non sembra condivisibile e che non tiene conto del diverso e ben più strutturato indirizzo di legittimità e v., da ultimo, Cass., [ord.] 26 luglio 2018, n. 19866, consultabile nel Foro it. on line. Coglie poi nel segno P. Cendon, in Il testamento per morire in pace, in AA. VV., Testamento biologico direttive anticipate di trattamento, atti del Convegno di Trieste del 6 aprile 2005, reperibili all’indirizzo www.personaedanno.it, 34, segn. a 37: l’appellativo “incapace” andrebbe attentissimamente soppesato cogliendo tutti i messaggi che il paziente riesce a dare o anche solo a lanciare. 40 R. Esposito, op. cit., 121 s., trattando della persona in generale, enfatizza tali rischi, ma per una più convincente ricomposizione della tematica in termini giuridici v., a proposito dei minori d’età, M. Graziadei, Diritto positivo, potere, interesse, cit., 69 ss. 41 Questa focalizzazione dell’attività del fiduciario era stata chiarita nell’art. 6, comma 3, del c.d. disegno di legge Calabrò, approvato dal Senato il 26 marzo 2009, in un testo risultante dall’unificazione di molteplici disegni di legge, modificato dalla Camera il 12 luglio 2011 e trasmesso dal Presidente della Camera alla Presidenza il 13 luglio 2011 e nell’art. 5 del c.d. disegno di legge Marino, comunicato alla Presidenza il 15 marzo 2013. Molto interessante quanto attualmente previsto dalla sec. 4684 del Probate Code della California: «[i]n determining the principal’s best interest, the agent shall consider the principal’s personal values to the extent known to the agent». 42 Neppure la mancanza di un fiduciario, la sua rinuncia, il suo decesso, la sua intervenuta incapacità lasciano il medico libero di disattendere autonomamente le DAT. Al contrario, sono proprio questi i principali casi «di necessità», in cui, come visto, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno: art. 4, comma 4, secondo periodo. In assenza di una istanza dei familiari indicati dall’art. 417 cod. civ. (e probabilmente anche dello stesso fiduciario non familiare rinunciante) trova applicazione l’art. 406, comma 3, cod. civ.: «[i] responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona [...] sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’articolo 407 o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero». Che è l’ultima carta da giocare in un sistema che oggi dà ampio credito all’autonomia della persona e v. pure G. De Marzo, Prime note sulla legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in Foro it., 2018, V, c. 137, spec. c. 142. 43 P. Zatti, La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 11 e F. Giardina, op. cit., 61. 44 P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 222.
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Il ruolo del fiduciario ha sollevato negli studiosi qualche grattacapo. Esso dev’essere valutato in concreto. Occorre analizzare caso per caso le DAT, che sono, per definizione, a contenuto variabile. Se si tratta di direttive specifiche il fiduciario è garante della loro fedele attuazione. Se si tratta, invece, di direttive che esprimono indirizzi più generali il fiduciario assume il ruolo attivo di interprete del percorso di vita del disponente45. Egli è, in questo secondo caso, il depositario della sua fiducia. Non una persona qualsiasi, ma la persona che – nella maggior parte delle situazioni – ha condiviso e condivide il “vissuto” del disponente, il quale affida al fiduciario la propria persona per evitare di diventare, come si diceva prima, una “non persona”. Su queste premesse non si ravvisano ragioni ostative per negare che l’affidamento può essere anche totale46, come d’altronde già lasciava intendere l’art. 1, comma 40, della legge 20 maggio 2016, n. 76, prevedendo che «[c]iascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di mor-
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Sull’ampiezza dei poteri del fiduciario circolavano opinioni contrastanti già anteriormente alla legge 219/2017: si leggono tuttora con interesse P. Rescigno, La scelta del testamento biologico e M. Sesta, Quali strumenti per attuare le direttive anticipate?, entrambi in AA. VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, cit., rispettivamente 15 (in part. a 22 s.) e 163 (in part. a 169 ss.). 46 Sono di scena le c.d. “deleghe in bianco”. P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., immagina il fiduciario di cui all’art. 1, comma 3, come «un avatar giuridico che ripristina la relazione di “cura e fiducia” con il medico e l’équipe sanitaria [...] sulla base di [...] scelte fatte dal paziente-disponente», il quale, ed ecco la volata, potrebbe anche «limitarsi a dare ogni potere al fiduciario, senza dilungarsi in disposizioni su specifiche situazioni o scelte o disegnando scelte molto generali, criteri di decisione più che “disposizioni” circostanziate» (ivi, 248). L’A. replica il suo pensiero a proposito delle DAT: un antidoto al forte rischio di burocratizzazione potrebbe essere enunciare in esse «criteri di decisione più che [...] specifiche circostanze e terapie, [...] preferenze e convinzioni più che “disposizioni” in senso stretto» (ivi, 251). Non distante P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 179 ss., 192, 204 e 222, la quale ha buoni motivi per lamentare la larghezza di maniche nei confronti dei poteri sostitutivi di fatto dei familiari rispetto alle molteplici ingiustificate preoccupazioni che nel contesto medico-ospedaliero sorgono nei confronti dei poteri sostitutivi di diritto affidati a non familiari. L’art. 1, comma 3, in effetti, detta una regola di portata generale e, dunque, valevole sia per il consenso informato, sia per le DAT (sui rapporti tra il primo e le seconde torneremo infra nel testo del § 7.3 e alla nt. 82) Oppone resistenze D. Carusi, La legge “sul biotestamento”, cit., 300, ispirandosi a una «idea elementare o basica di personalismo» (ivi, 298), già da questi coltivata in Tentativi di legiferazione, 34 ss., 56, 80 ss., 90 ss. e 110 s., raccogliendo l’apprezzamento di V. Verdicchio, op. cit., 670 e v. altresì, nel contesto di [un accenno a] un discorso di più ampia circonferenza, L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 197 s. Rema contro S. Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico” e sul consenso ai trattamenti medici, in Riv. dir. civ., 2018, 997, a 1016 ss., per cui il fiduciario avrebbe poteri sostanzialmente esecutivi, richiamando, pur con un non celato grado di approssimazione, la figura dell’esecutore testamentario. La premessa è che il disponente dovrebbe esprimere una minuziosa previsione di casi che toccherebbe poi al fiduciario attuare e v. pure C. Romano, Le disposizioni anticipate di trattamento [studio CNN n. 136-2018/C1605], § 4.1 e 4.2, che parla di «ipotesi “virtuosa” di completezza delle DAT». La conclusione è che l’attribuzione di poteri in ordine alle scelte in materia sanitaria è compito che può essere attribuito soltanto al giudice, il quale vaglierà, ai sensi dell’art. 408 cod. civ., la designazione dell’interessato e, sempre che non ricorrano gravi motivi contrari [ma quali motivi? e gravi per chi?], nominerà il fiduciario amministratore di sostegno attribuendogli [non è chiaro con quali criteri] i relativi poteri ex art. 405 cod. civ., sovraintendendone l’esercizio. Bastino due brevi considerazioni. Davvero in un’epoca di degiurisdizionalizzazione si può dar credito a una giurisdizionalizzazione dell’esistenza? secondo quali convinzioni e secondo quale conoscenza [effettiva, s’intende] della identità e ipseità dell’interessato? Eppoi, fino a quando perdurerà questa lettura “istituzionalistica” delle misure di protezione e quando prenderemo invece atto che, a fianco delle misure legali, c’è spazio per alcune figure negoziali, che, a seconda delle circostanze, possono essere sia complementari sia alternative?
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te, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie»47. Gli studiosi della fiducia lo hanno intuito da tempo: più la fiducia è regolamentata più tradisce un palpabile sottofondo di sfiducia nella fiducia48. Certo, la fiducia non è solo fiducia data, ma anche fiducia attesa. Certo, il rischio che la fiducia data venga disattesa aumenta se non c’è una profonda conoscenza e un intimo e dedicato dialogo tra disponente e fiduciario49. Ma, per contrappunto, potremmo provare ad abbandonare per un attimo l’autocentrismo, girando il mappamondo dall’altro lato. Potremmo così scoprire che se è complicato affidarsi a qualcun altro, forse è ancor più complicato sostenere il peso della fiducia ricevuta, camminando un po’ come Enea, con il vecchio padre Anchise sulle spalle e il piccolo figlio Ascanio al seguito50. Non è solo un superbo gruppo scultoreo del Bernini; è un capitolo ancora tutto da scrivere sulle DAT.
6. La conservazione delle DAT. Proseguiamo. Il parere del Consiglio di Stato si sofferma quindi sulla questione relativa alla conservazione delle DAT e all’accesso alle stesse. Con l’art. 1, comma 418, legge 27 dicembre 2017, n. 205 (c.d. legge di bilancio 2018) è stata «istituita presso il Ministero della salute una banca dati destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento». L’art. 4, comma 7, legge 219/2017 dispone invece che «[l]e regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica
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P. Zatti e M. Piccinni, La faccia nascosta delle norme: dall’equiparazione del convivente una disciplina delle DAT, in Nuova giur. civ., 2017, II, 1283, segn. a 1284 ss., rilevano che, in situazioni di coniugio [/unione civile] e convivenza, per [comprensibili] ragioni d’affetto, si potrebbe tendere a risparmiare questo ruolo proprio al coniuge [/alla persona con cui si è uniti civilmente] e al convivente affidandolo a un figlio, un amico o al medico stesso. Nella medesima traiettoria L. Lenti, di cui La nuova disciplina della convivenza di fatto, cit., 100 ss. e Convivenze di fatto, cit., 934 ss., R. Campione, Commento all’Art. 1, c. 41, in M. Sesta [cur.], Codice dell’unione civile e delle convivenze, Milano, 2017, 1276, spec. a 1279, con rinvio al criterio di cui all’art. 410, comma 1, cod. civ. e M. BLASI, La disciplina delle convivenze omo e eteroaffettive, in AA. VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, 181, a 210; ma cfr. F. Mezzanotte, Commento ai Commi 40 e 41, in C.M. Bianca, Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. 5/2017; d.lgs. n. 6/2017; d.lgs. n. 7/2017, Torino, 2017, 523, a 530 ss. Gli interpreti ritengono che l’art. 4 della legge 219/2017 abbia abrogato l’art. 1, commi 40 e 41, della legge n. 76/2016, per incompatibilità ai sensi dell’art. 14 prel., con salvezza della sola lett. b) del comma 40: G. Buffone, Legge sul biotestamento: la mappa delle novità, consultabile all’indirizzo www.altalex.com e G. De Marzo, op. cit., c. 143, facendo, quest’ultimo A., saggiamente salva l’efficacia dei documenti atti ad esprimere le volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della legge 219/2017, come dispone il relativo art. 6. 48 Per qualche indicazione bibliografica v., s.v., A. Di Sapio, Gli strumenti contrattuali di cura e di protezione dei minori d’età portatori di handicap: un’esposizione, nel Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, vol. VI, Tutela civile del minore e diritto sociale della famiglia, a cura di L. Lenti, seconda edizione, Milano, 2012, 573, segn. a 636 (testo e nt. 189). 49 Inutile stare ad almanaccare, i dati raccolti nel report curato da A. Fagerlin e C.E. Schneider, Enough: The Failure of the. Living Will, Hastings Center Report 34, no. 2 (2004), reperibile all’indirizzo https://hods.org, sono eloquenti. 50 L’intreccio delle funzioni di cura fra queste tre generazioni, come constatato da S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 224 s., presenta riscontri statistici sempre minori. È però ancora una realtà.
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o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili»51. A fronte del mancato coordinamento dell’art. 1, comma 418, legge di bilancio 2018 con l’art. 4, comma 7, legge 219/2017, il Ministero della salute ha domandato al Consiglio di Stato se la banca dati nazionale sia uno strumento finalizzato solo ad annotare e attestare l’avvenuta espressione delle DAT e a indicarne il luogo di reperimento oppure se tale banca dati debba contenere essa stessa copia delle DAT. Il Consiglio di Stato, rilevata l’atecnicità del lemma «registrazione» (di cui all’art. 1, comma 418, legge di bilancio 2018) in riferimento al lemma «raccolta» (di cui all’art. 4, comma 7, legge 219/2017), conferma che «lo scopo indubbio della legge è quello di istituire un registro nazionale ove poter raccogliere le DAT». Precisa che «è opportuno che siano raccolte anche le DAT delle persone non iscritte al SSN: se, infatti, il registro regionale può raccogliere solo le DAT degli iscritti al SSN, l’unico modo per garantire i medesimi diritti fondamentali della persona umana anche a coloro che non sono iscritti al SSN è l’istituzione di un effettivo ed efficiente registro nazionale»52. Conseguentemente, «occorrerà prevedere, su richiesta dell’interessato, l’invio alla banca dati nazionale delle DAT da parte dell’ufficiale dello Stato civile o dalla struttura sanitaria ai quali sono state consegnate e del notaio che le ha ricevute. Detto incombente è necessario per consentire al medico, in caso di bisogno, di conoscere se il paziente ha reso o meno le disposizioni in questione»53. In definitiva, il registro nazionale delle DAT servirà a darne notizia. Ciò permetterà al medico di sapere se il paziente ha reso le DAT e di conoscerne il contenuto, che è presupposto indispensabile per poterlo curare e, soprattutto, per sapere “come” curarlo. Attenzione, però, a non farsi prendere la mano. Le esigenze di conservazione non degradano le DAT a mero atto; esse sono e rimangono la campitura di un rapporto54.
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È verosimile che, come ha notato D. Carusi, La legge “sul biotestamento”, cit., 296, la rinuncia della legge 219/2017 alla istituzione di un registro nazionale sia dipesa dalla clausola di invarianza finanziaria di cui all’art. 7. Ma, come aveva già notato S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma - Bari, 2016, 126, la produzione di solidarietà [e dunque la tutela della dignità] non è a costo zero. 52 Stiamo esaminando la risposta al primo dei cinque quesiti posti dal Ministero della salute. Nella risposta al secondo quesito, strettamente imparentato con il primo, il Consiglio di Stato puntualizza, convincentemente, «che i principi costituzionali [...] vadano nella direzione di imporre una lettura estensiva, aprendo il registro nazionale anche a tutti coloro che non sono iscritti al SSN. La tutela costituzionale garantita a questo diritto, infatti, non permette di subordinare il riconoscimento alla suddetta iscrizione». 53 Va dunque ribadito con fermezza che le DAT ricevute o autenticate dal notaio non devono essere inviate all’ufficio dello stato civile di residenza del disponente affinché siano annotate nell’apposito registro comunale, ove istituito ai sensi dell’art. 4, comma 6, come rimarcato dall’Ufficiale dello stato civile del comune di Pietrasanta nella risposta in data 27 dicembre 2018, id 1328822, prot. 45608, indirizzata a un notaio che ne aveva fatto inutile richiesta. 54 Conf. G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 47.
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7. La libertà di espressione delle indicazioni rese. Il Consiglio di Stato, su altro quesito del Ministero della salute55, ritiene di «escludere la possibilità di prevedere una vera e propria standardizzazione delle DAT a fini di conservazione elettronica». In «via generale», va quindi «mantenuta la possibilità di rendere le DAT senza un particolare vincolo di contenuto: l’interessato deve poter scegliere di limitarle solo ad una particolare malattia, di estenderle a tutte le future malattie, di nominare il fiduciario o di non nominarlo, ecc.»56. Il “contenuto libero” delle DAT va apprezzato. Di più: va promosso, soprattutto in ambito notarile, in cui è da almeno quattro secoli che s’invita a non far «arte meccanica»57. Di standardizzazioni è già sufficientemente gremito il mondo e il rischio – ben presente a chiunque si sia relazionato con le prime prassi – che le DAT si trasformino in un sordo e anonimo modulo a crocette andrebbe il più possibile evitato58. La libertà di espressione delle indicazioni del disponente domina sulle esigenze di conformismo catalogatorio, cui l’utilizzo di format tecnologici talora sembra indulgere59. Pluralismo è anche questo60.
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È il terzo quesito posto dal Ministero. Il parere del Consiglio di Stato mostra un frasario cerchiobottista allorché ipotizza «essere utile un atto di indirizzo – eventualmente adottato all’esito di un tavolo tecnico con il Ministero della giustizia, il Consiglio nazionale del notariato e il Ministero dell’interno – che indichi alcuni contenuti che possono essere presenti nelle DAT, allo scopo di guidare gli interessati sulle scelte da effettuare. Spetterà poi al Ministero di mettere a disposizione un modulo tipo, il cui utilizzo è naturalmente facoltativo, per facilitare il cittadino, non necessariamente esperto, a rendere le DAT». 57 Recita l’antica concessione del duca Carlo Emanuele I per i notai del Piemonte, del Contado di Nizza, Oneglia e Marro del 24 aprile 1614, «[c]he ogn’vno di loro, sì creato, che da crearſi, che hauerà eſſercito, & eſſercitarà all’auuenire bene, e ſenza macchia, ne facci arte mecanica, ſia tenuto per perſona honorata, nobile, & habile ad ogni grado à quale poſſi eſſer capace»: si legge in Editti antichi, e nuoui de’ Sourani Prencipi della Real Casa di Sauoia, delle loro Tutrici e de’ Magistrati di qua da’ monti, raccolti d’ordine di Madama Reale Maria Giouanna Battista. Dal Senatore Gio. Battista Borelli, con doppio indice, cioè vno de’ libri, e titoli, & altro delle materie, Torino, 1681, 1171 e v.ne il resoconto storico di M. Sossi, Del notariato. Trattato teorico-pratico2, vol. 1, Torino, 1845, 31 ss. 58 Conf. P. Rescigno, Living will e autodeterminazione, cit., 235, L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 198, A. Astone, Autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento nella legge 22 dicembre 2017 n. 219, in Dir. fam. pers., 2018, 1508, a 1537 e C. Casalone, Diritto sulla vita e valore della vita. Prospettiva etico-teologica, in V. Verduci [cur.], Il diritto sulla vita, cit., 37, a 50; venature critiche pure in E. Bilotti, op. cit., 101 e in L. Bozzi, op. cit., 1354, con riferimento anche alle «non meglio precisate regolamentazioni da parte delle regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico»; scorge invece benefici dalla uniformità di modello D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., 105, partendo però dal presupposto che le DAT siano raccolte dal medico. L’utilizzo di moduli multiple choice options crossword è diffusissimo oltre oceano: v., ad es., il modulo reperibile all’indirizzo www. uclahealth.org/Workfiles/site/AdvanceDirective_English.pdf. 59 G. Baldini, L. n. 219/2017 e Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), in Fam. dir., 2018, 803, segn. a 806 (nt. 22), dà notizie del diverso modello adattato in Danimarca, primo paese europeo ad aver introdotto le DAT, che sono redatte mediante compilazione di moduli prestampati e registrati negli archivi ospedalieri. Preziose indicazioni sul panorama normativo fuori dai confini nazionali possono trarsi dalle indagini di G. Giaimo, Riflessioni comparatistiche a margine delle scelte in tema di trattamento sanitario, in Eur. dir. priv., 2018, 1203, in part. a 1247 ss. e di M. Di Masi, La giuridificazione della relazione di cura e del fine vita. Riflessioni a margine della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. diritti comparati, 3/2018, 7 e dal Dossier predisposto dall’Ufficio ricerche sulle questioni del lavoro e della salute del Senato nel maggio 2017, n. 490, La disciplina del consenso ai trattamenti sanitari e delle dichiarazioni anticipate di volontà in alcuni Paesi (Francia, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti), consultabile all’indirizzo www.senato.it. 60 Analogo andamento in Foglia, Consenso e cura, cit., 88 ss., spec. 91; v. pure, in più ampio raggio, P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 108 s. e 152 ss. e G.M. Flick, op. cit., 31. 56
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8. L’acquisizione di adeguate informazioni. L’art. 4, comma 1, ci dice che il disponente, «dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari». I primi commentatori hanno dato molto rilievo all’incipit dell’art. 4, comma 1, ipotizzando che le informazioni mediche si trasformerebbero, in tema di DAT, da obbligo per il medico (art. 1) a onere per il disponente61. Su questo tacito convincimento – oggetto per vero di pungenti critiche62 – il Ministero della salute ha chiesto se l’acquisizione della predetta informativa possa emergere da una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà resa dal disponente, ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, contestualmente alle DAT63. La risposta del Consiglio di Stato è nel senso «che – anche in relazione alle possibili responsabilità del medico che si è attenuto alle DAT considerandole valide, e della struttura sanitaria in cui è eventualmente incardinato – appare necessario che vi sia certezza in ordine alla “adeguatezza” delle informazioni mediche acquisite dall’interessato e riguardanti le conseguenze delle scelte effettuate. Pertanto, pur non potendo rilevare sotto il profilo della validità dell’atto, sembra decisamente opportuno che tale circostanza venga attestata»64. Tocchiamo qui uno dei punti più delicati in tema di DAT. Si tratta di approfondire il significato e la portata del segnalato incipit dell’art. 4, comma 1. 8.1. Il significato delle «adeguate informazioni mediche».
Un diffuso orientamento ritiene che l’incipit dell’art. 4, comma 1, sia da interpretare nel senso che il disponente, prima di compiere le proprie scelte, dovrebbe necessariamente consultare un medico e tanto basterebbe per garantire, almeno nella fase iniziale, che le DAT possano essere attuate65.
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In questo senso S. Delle Monache, op. cit., 1012 s., il quale, con realismo, riconosce peraltro che il mancato assolvimento di quest’onere è, di fatto, destinato a rimanere privo di conseguenze dal momento che potrebbe risolversi «in un semplice passaggio formale, ovverosia dichiarando nelle DAT che la loro stesura è stata preceduta dall’ottenimento di adeguate informazioni in ordine ai trattamenti cui le stesse sono riferite». 62 P. Zatti, Brevi note sul testo approvato, cit., bolla infatti come una «sciocchezza» l’aver previsto che le DAT possano essere disposte da «[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere [...] dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte». Si chiede l’A., «[c]ome? e come si accerta o si esclude l’esistenza di questo pre-giudizio?». 63 È il quarto quesito posto dal Ministero della salute. 64 Il profilo un po’ cerchiobottista del parere, già sopra segnalato (nt. 56), si fa qui scopertamente formalistico. Il Consiglio di Stato, senza remore, invita a far emergere «tale circostanza [...] magari suggerendola nel modulo-tipo facoltativo che verrà predisposto dal Ministero della salute, così come evidenziato nella risposta al terzo quesito». La torsione e la controtendenza rispetto ai tanti ritriti discorsi sull’informazione effettiva e non modulistica è percepibile icto oculi. 65 Questo è, in sostanza, quanto si tende a far filtrare da molte trattazioni dell’argomento, che però manifestano qualche difficoltà a uscire dal vago. Spesso, infatti, si privilegia un linguaggio a contrario: ad es. E. Bilotti, op. cit., 94, per cui l’acquisizione di informazioni non potrebbe avvenire in maniera autonoma. Più espliciti S. Delle Monache, op. cit., 1012 ss., V. Verdicchio, op. cit., 658,
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Questo orientamento suscita perplessità. Il dettato dell’art. 4, comma 1, è ambiguo. Il sintagma «adeguate informazioni mediche» trova il proprio nucleo nel sostantivo «informazioni», intorno al quale ruotano i due aggettivi «adeguate» e «mediche». Dunque primo. L’aggettivo «mediche» non significa necessariamente “fornite dal medico”: esso, nella lingua italiana, può riferirsi tanto alla professione medica, quanto alla medicina in generale. In questa direttrice c’è spazio per ritenere che le adeguate informazioni mediche possono essere acquisite dal disponente non solo mediante il dialogo con un medico, ma anche mediante altri idonei canali d’informazione: un libro, un film, un documentario, una trasmissione televisiva, una trasmissione radiofonica, un podcast, un convegno, una conferenza, la visita di uno o più siti web, un filmato su Youtube, Facebook e altre piattaforme66. Questa – piaccia o no – è la modernità e gli studi di Zygmunt Bauman sono troppo noti per essere ricordati. Dunque secondo. Va respinta l’equazione “informazioni fornite dal medico” = “adeguate informazioni”: i due aggettivi «adeguate» e «mediche», sempre sul piano linguistico, hanno ciascuno una propria autonomia, significano cose diverse. Tanto basta per svelare quanto può essere semplicistico limitarsi a dire che il disponente, prima di compiere le proprie scelte, dovrebbe necessariamente consultare un medico. Affinché il messaggio lanciato da questo orientamento non suoni vuoto – con buone probabilità di sigillarlo nella bottiglia – occorrerebbe pertanto mettersi quantomeno prima d’accordo su quale medico consultare: il medico di famiglia67? uno specialista? e uno specialista in cosa? Si scoprirebbe così che questo intrigo narrativo-documentale apre una catena di interrogativi senza fine: ci si potrebbe chiedere, ad esempio, come sono state assunte tali informazioni (quali furono le domande rivolte al medico? quali furono le sue risposte? e cosa di esse è stato compreso?), dove s’è svolto l’incontro con il medico (in studio? nei corridoi di reparto? sulle scale dell’ospedale? a casa di amici durante una cena?), quanto è durato quell’incontro (davvero basta anche solo una [ipotetica] ora intera?). I paradossi di Eubulide – a ognuno il suo – sarebbero in agguato e così pure, on the field, sarebbe in agguato un possibile ammutinamento della normativa sulle DAT68.
671 e 673, L. Milone, Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, cit., 1399 e già P. Becchi, op. cit., 53 e D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., 100 e 103. Critica P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 222. 66 Prima di pensare che qui potrebbe radicarsi un’“ideologia antiscientifica” si potrebbe contare almeno fino a dieci. Il fatto che ci si fermi ai primi risultati utili che compaiono sui motori di ricerca non significa che gli altri non consultino il web rintracciandovi fonti attendibili e notizie preziose. Non sappiamo dire se Google Books contiene effettivamente il «più grande indice di testi integrali mai esistito». È sicuro che sono rintracciabili molti più testi scientifici di quanti se ne possano consultare in una biblioteca di provincia. Testi scientifici anche di altissima levatura, perché il discorso è di qualità più che di quantità delle informazioni che il disponente può acquisire in un luogo (eventualmente demedicalizzato) confacente alla sua riflessione e non, per usare un’immagine proposta da M. Foglia, Consenso e cura, cit., 33 s., in un “luogo [ospedaliero] di passaggio”. 67 Era questa l’indicazione dell’art. 4 del c.d. disegno di legge Calabrò, cit.: «le dichiarazioni anticipate di trattamento [...] sono raccolte esclusivamente dal medico di medicina generale che contestualmente le sottoscrive». V. anche D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., 105, non trascurando le conseguenze di questo possibile aggravio di competenze. 68 Si accosta, per certi versi, F.G. Pizzetti, Prime osservazioni sull’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento (dat) previsto
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Ciò detto, va però rimarcato che la tematica della dazione di senso dell’incipit dell’art. 4, comma 1, non può essere risolta alla maniera di Humpty Dumpty69. Occorre cercare argomentazioni più strutturate, che emergono analizzando la portata del segnalato incipit dell’art. 4, comma 1. 8.2. La portata documentale della attestazione di preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche».
Procediamo per gradi. Come visto, il Consiglio di Stato ritiene «decisamente opportuno» che le DAT diano evidenza della preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche» e ammette che tale circostanza possa essere attestata dal disponente con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Nella stessa orbita sembrano collocarsi alcune linee guida notarili, per cui le DAT ricevute o autenticate dal notaio dovrebbero mettere in evidenza, ex tabula, la preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche»70. Ora. Si può discutere sulla bontà dell’utilizzo di una dichiarazione sostitutiva, a rigore epifenomenica71.
dall’articolo 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in AA. VV., Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 54, in part. 55 s. U. Scarpelli, Il metodo giuridico, in Riv. dir. proc., 1971, 553, a 566 s. 70 Nel senso che il notaio dovrebbe verificare la preventiva acquisizione delle adeguate informazioni, anche richiamando o allegando documenti medici, v. C. Romano, di cui La legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento, cit., 19, il cui lessico si fa più sfumato nello studio per il Consiglio Nazionale del Notariato n. 136-2018/C1605, cit., § 4.1 (testo e nt. 23): «[a]ppare [solo più] opportuno che, nella stesura delle DAT», per atto di notaio, s’intende, «venga dato adeguato risalto alla preventiva acquisizione di informazioni mediche da parte del disponente» anche mediante semplice indicazione del nominativo del medico con cui il disponente s’è confrontato, con la precisazione che «appare altresì possibile che le DAT siano formulate alla presenza del medico curante: sul piano strutturale, l’intervento in atto del medico non sarebbe tale da alterare la essenziale natura unilaterale delle DAT, ma atterrebbe ad una fase preliminare delle stesse, costituendo prova di una adeguata fase istruttoria». Queste linee guida non persuadono. A tutto concedere, si passerebbe, in definitiva, dalle «adeguate informazioni mediche» acquisite dal disponente ai sensi dell’art. 4, comma 1, a una sorta di speculare «adeguato [loro] risalto» nel documento portante le DAT. Si tradirebbe però così lo spirito della legge 219/2017 di non imbrigliare le DAT in eccessivi vincoli formali e si rivitalizzerebbe l’art. 38 del Codice di deontologia medica [2014] che richiede «traccia documentale» dell’informazione medica: analogamente P. Borsellino, della quale Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 222 e “Biotestamento”, cit., 800. Sono infatti i principi di deontologia medica che devono adeguarsi alla legge e non viceversa, ma cfr., senza tenere sufficientemente conto degli artt. 1 e 15 preleggi, F.G. Pizzetti, op. cit., 56. Verrebbe altrimenti rialimentato quel rischio, già messo in trasparenza da P. Rescigno, Limiti e possibilità del diritto, cit., 15, di rimettere a soluzioni di «natura corporativa» i temi della bioetica e v. pure S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 279 s. Non parliamo poi della eventuale richiesta – arieggiata in alcuni lunghi corridoi notarili – di allegare alle DAT una sorta di “certificato ricognitivo”, in cui il medico attesti di aver fornito adeguate informazioni al disponente. Ora, ammesso che si trovi un medico disposto a rilasciare tale certificato, questa proposta – già in sé non accettabile e v. pure S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 278 s. – fa un gran minestrone giuridico-comunicativo. Come sappiamo, l’art. 1, comma 3, prescrive che l’informazione dev’essere «comprensibile» per il paziente, e sarà dunque questi (e non ovviamente il medico) a doverlo riconoscere. Il lato che interessa è dunque quello del “ricevente” (il disponente), non quello dell’“emittente” (il medico eventualmente disponibile a redigere e sottoscrivere il certificato ricognitivo). 71 In claris. L’uso della dichiarazione sostitutiva quale mezzo tecnico-giuridico per dare conto dell’avvenuta acquisizione delle «adeguate informazioni mediche» è una soluzione di ripiego – un po’ insincera, se vogliamo – che parte da una sopravvalutazione delle adeguate informazioni mediche elevate a sorta di “requisito” [non di validità, ma di vincolatività] delle DAT. Eppoi, primo. La dichiarazione sostitutiva è utilizzabile quando si tratta di attestare nei confronti della pubblica amministrazione 69
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V’è a ogni modo che la dichiarazione con cui il disponente attesta di avere ricevuto adeguate informazioni mediche, suggerita dal Consiglio di Stato, non è, né può diventare un elemento strutturale delle DAT, né può introdurre, a pena di invalidità72, una procedimentalizzazione che non è stata prevista e che, anzi, sin dalle prime discussioni sul tema, s’è voluta in ogni modo evitare73. Le implicazioni sull’attività notarile sono evidenti e va pertanto condiviso il pensiero di chi afferma che il notaio non può rifiutarsi di ricevere le DAT allorché il disponente si limiti a dichiarare di essere esaurientemente informato74. La differenza maiuscola tra l’attività del notaio e quella dell’ufficiale dello stato civile sta nel fatto che il primo deve farsi carico dell’indagine della volontà del disponente, mentre il secondo si limita alla presa in consegna delle DAT75. Non sono i formalismi cristallizzanti – a cominciare dalla pretesa di allegare all’atto notarile contenente le DAT la documentazione medica e da quella di assumere persino il medico quale testimone76 – che fanno apprezzare l’intervento notarile. Tutt’al contrario danno l’impressione di essere un mezzo per sfuggire da eventuali responsabilità. Riducono i compiti del notaio a registratore della volontà altrui e, soprattutto, non accrescono le garanzie offerte al disponente. Rischiano inoltre di gettare acqua sul fuoco di quel gioco
(non dei notai, né dei medici quindi), «in sostituzione delle normali certificazioni [...] stati, qualità personali e fatti» (art. 46 del d.P.R. 445/2000) ovvero «stati, qualità personali e fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato» (art. 47 stesso d.P.R.). Eppoi, secondo. L’art. 43 del d.P.R. 445/2000 pone a carico delle amministrazioni pubbliche l’obbligo di acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47. Occorrerebbe allora chiedersi come sia possibile per il notaio – che però non ha alcun obbligo in proposito e questo va detto a chiare lettere – verificare che il disponente abbia “effettivamente” acquisito adeguate informazioni mediche e attraverso quali mezzi. 72 Escludono che si tratti di un requisito che influisce sulla validità delle DAT, oltre al Consiglio di Stato, P. Borsellino, di cui Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 222 e “Biotestamento”, cit., 800, R. Calvo, La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento, in Studium Iuris, 2018, 689, a 693, S. Delle Monache, op. cit., 1012 e B. de Filippis, Biotestamento e fine vita. Nuove regole nel rapporto medico-paziente: informazioni, diritti, autodeterminazione, Milano, 2018, 120. 73 P. Zatti, Le «disposizioni del paziente», cit., 314. In sede di lavori parlamentari D. Carusi, nelle Considerazioni sul d.d.l. n. 2801 approvato dalla Camera dei deputati il 20 aprile 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, presentate alla Commissione Igiene e sanità del Senato il 19 giugno 2017, reperibili all’indirizzo www.senato.it, aveva invece paventato che la mancata acquisizione di informazioni anteriormente alla redazione delle DAT potesse «mettere in causa la loro validità», sollecitando la partecipazione di un medico alla redazione dell’atto, similmente a quanto previsto per la pianificazione condivisa delle cure (art. 5, comma 4) e v. altresì L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 199. Quest’idea, già manifestata in precedenza da D. Carusi (v.ne Tentativi di legiferazione, cit., 92, 99 ss. e 106 ss.), non è stata accolta dal legislatore e il suo punto di partenza è ora respinto dallo stesso Consiglio di Stato, il quale, come visto, senza amor di campanile, esclude che la preventiva acquisizione di adeguate informazioni possa riverberarsi sulla validità delle DAT: fece da apripista, in quest’ultimo senso, P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 222. Dunque, non sembra che il legislatore abbia fatto male i conti, come parrebbe adombrare D. Carusi, La legge “sul biotestamento”, cit., 300. Potrebbe essere invece che, anche qui, il legislatore abbia usato un calco diverso da quello solitamente utilizzato da una parte degli interpreti, forse perché consapevole di come in Italia, mediamente, si sviluppano i rapporti et medico/paziente et paziente/ medico e i rapporti tra medici posti a reciproco confronto. 74 S. Delle Monache, op. cit., 1013. 75 I dicta della circolare n. 1/2018 del Ministero dell’interno sono chiarissimi: «l’ufficiale [dello stato civile] non partecipa alla redazione della disposizione né fornisce informazioni o avvisi in merito al contenuto della stessa, dovendosi limitare a verificare i presupposti della consegna – con particolare riguardo all’identità ed alla residenza del consegnante nel comune – e a riceverla». 76 Una scelta [esotica, direbbero gli angloamericani] in rotta di collisione con la sec. 4674 (c) (1) del Probate Code della California il quale prevede l’incapacità di essere testimone per «[t]he patient’s health care provider or an employee of the patient’s health care provider».
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ottimamente descritto come «[i]l gioco delle ipocrisie, delle reticenze, del non detto, del palleggiamento delle responsabilità» usualmente praticato sul campo77. Ma possiamo fare qualche passo più avanti. 8.3. La portata sostanziale della preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche».
Escluso che la preventiva acquisizione delle «adeguate informazioni mediche» costituisca requisito di validità delle DAT, si è ipotizzato che la stessa, con la relativa prova documentale, sarebbe necessaria affinché le DAT non siano disattese dal medico78. L’ipotesi interpretativa è sguarnita di agganci normativi. L’art. 4, comma 5, come sappiamo, prevede infatti che le DAT «possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita»79. La mancata preventiva informazione non rientra nella tassonomia positiva, anche perchè, per il tramite di questo passe-partout, sarebbe facile incrementare situazioni di conflitto tra il medico e il fiduciario con una “messa in blocco” delle DAT e deferimento delle decisioni al giudice tutelare, che è invece l’extrema ratio della legge 219/201780. Qui sta il nocciolo della questione.
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S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 258. In arg. v. pure M. Foglia, Consenso e cura, cit., 66 ss. e 119 ss., tra i medici, L. Orsi, op. cit., 25 s. e, tra gli studiosi di antropologia, A. Gusman, op. cit., 164 ss., con significativo richiamo a quel “teatrino della dissimulazione” già ottimamente descritto da L.N. Tolstoj ne La morte di Iván Ilìc [consultando l’edizione per i tipi Rusconi, cit., spec. 48 ss.] e, si potrebbe aggiungere, già criticamente registrato in campo giuridico da G. Cattaneo, op. cit., 961, il quale oltre 60 anni fa notava che «il malato ha diritto alla verità». 78 R. Bono, Prime note sulla nuova legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in Federnotizie, 28 dicembre 2017, la quale, a quanto consta, per prima, ha assunto che il notaio deve dare atto nelle DAT della preventiva acquisizione di adeguate informazioni mediche da parte del disponente e ciò, appunto, «anche per evitare la disapplicazione da parte del medico». Sembra sfogliare le stesse pagine S. Delle Monache, op. cit., 1012, quando afferma che la mancata acquisizione di informazioni assumerebbe comunque «rilevanza sotto il profilo della responsabilità, facendo venire meno, eventualmente, la clausola di esonero a favore del medico di cui all’art. 1, comma 6». Percorre lo stesso selciato A. Astone, op. cit., 1534. 79 Anche qui il legislatore mostra di avere un certo gusto per la metonimia: «incongrue» o «non corrispondenti» non sono le DAT, ma le conseguenze delle scelte ivi espresse. La critica che G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 71, solleva alla scelta legislativa che affiora dall’art. 4, comma 5, è stimolante: vada per la sopravvenienza di terapie risolutive, così come la sopravvenienza di altre circostanze (es. il mutamento di religione), ma «[l]ascia invece perplessi il riferimento a ‹dichiarazioni palesemente incongrue› o ‹non corrispondenti alla situazione clinica attuale›: solo un eccesso di preoccupazione “burocratica” o di sospetto nei confronti delle DAT può aver suggerito l’espressa menzione di circostanze che non avrebbero dovuto neppure essere prese in considerazione nell’ottica del “pieno rispetto” delle volontà, della loro interpretazione e concretizzazione nel contesto di un rapporto fiduciario [tra medico e paziente], garante della identità e della dignità della persona». Le ipotesi sono in effetti assai differenti e solo per le terapie sopravvenute si può ragionare se le DAT debbano intendersi soggette di diritto alla clausola rebus sic stantibus come proposto da R. Calvo, op. cit., 694, salvo ovviamente mettersi d’accordo su quale tributo si vuole qui riconoscere – in modo, per carità, velato – a U. Grozio [De jure belli ac pacis, Amsterdam, 1735, tomo I, libro II, cap. XVI, n. XXV.2, 506 e tomo II, libro III, cap. XIX, n. II.2, 968] e agli epigoni del giusnaturalismo; cfr. però L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 197. 80 Per una presa di distanza di questo trasferimento al giudice della decisione sulle scelte di vita S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 252.
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Mettiamo da parte i drappeggi e le prestidigitazioni verbali. Siamo chiari: il disponente può decidere di non acquisire alcuna preventiva informazione sulle conseguenze delle sue scelte. Quali che ne siano i motivi, egli non è un incapace, che dev’essere protetto da e contro se stesso, né un irresponsabile, beninteso, secondo i suoi parametri di autoresponsabilità. È in gioco la sua vita, non la nostra e il discorso sulla sua identità e ipseità non ha nulla a che spartire con quei discorsi intrisi di retorica paternalistica che risuonano talvolta in materia. Oltre al diritto di avere diritti, c’è anche, specularmente, un diritto di non avere diritti: anch’esso va rispettato81. Un robusto aggancio positivo di questo diritto di non avere diritti è offerto dalla stessa legge 219/2017. Le DAT sono infatti strettamente legate al consenso informato di cui all’art. 1, che ne costituisce, secondo una comune e compatta convinzione, il presupposto su cui esse s’innestano, un presupposto etico prima che giuridico82. Bene. Leggiamo allora tutto d’un fiato l’art. 4, comma 1 e l’art. 1, comma 3. L’art. 4, comma 1, ci dice che «[o]gni persona [...], in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può» manifestare le proprie DAT. Sennonché, l’art. 1, comma 3, dopo aver previsto che «[o]gni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi», espressamente consente che la stessa «[p]uò rifiutare in tutto o in parte di ricevere le [predette] informazioni»83.
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L’intuizione che S. Rodotà ha tratto da H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., 413 e ha sviluppato negli scritti raccolti in Il diritto di avere diritti, cit., passim, può dunque essere così riformulata, pur nella consapevolezza che non tutti l’accolgono e v. R. Esposito, op. cit., 5 ss. G. Baldini, La legge 219/17 tra molte luci e qualche ombra, in www.dirittifondamentali.it, 1/2019, 8, parla invece di «diritto a sapere (e a non sapere)». Un primo referente storico del diritto di non avere diritti è offerto dalle parole rivolte da Gregorio IX a Chiara d’Assisi nel Sicut manifestum est [1228], consultabile all’indirizzo www.documentacatholicaomnia.eu: «[s]icut igitur supplicastis, altissimae paupertatis propositum vestrum favore apostolico roboramus, auctoritate vobis praesentium indulgentes, ut recipere possessiones a nullo compelli possitis» (ivi, § 2). La vicenda è accuratamente documentata da M. Bartoli, Chiara d’Assisi e il diritto di non avere diritti, in OPSIS, Catalão-GO, v. 17, n. 2, jul./dez. 2017, 142, segn. a 148 ss. Un faro d’attenzione sul tema è stato acceso nel campo dei rapporti giuridici tra conviventi posteriormente alla legge n. 76/2016. G. Amadio, La crisi della convivenza, in Nuova giur. civ., 2016, II, 1765, a 1774, auspica che sia garantito ai conviventi «oltre al diritto di avere diritti, anche la libertà di non averne». La vicenda giuridica dei rapporti tra conviventi non è tuttavia solo un love affair e occorrerebbe indagare se a questa libertà corrispondano dei doveri reciproci liberamente disattivabili e meditare bene perchè questo «intento giuridico negativo» debba essere un “privilegio” esclusivo delle persone conviventi, con esclusione quindi delle persone coniugate e di quelle unite civilmente. Ma questa è un’altra storia, che sarà approfondita in luogo più consono. 82 Il punto era stato già catturato da L. Balestra, Efficacia del testamento biologico e ruolo del medico, in AA. VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, cit., 89, spec. a 95, descrivendo il testamento biologico come «approdo logico del processo di progressiva valorizzazione del consenso informato». Si iscrivono nel medesimo filone S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 250 ss. e, più di recente, G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 70, G. De Marzo, op. cit., c. 142 s., G. Baldini, La legge 219/17 tra molte luci e qualche ombra, cit., 5 e M. Foglia, Consenso e cura, 190. 83 Per un primo inquadramento del tema v. M. Graziadei, Il consenso informato, cit., 256 ss. e P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 154 (nt. 8), 157 e 215.
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Si aprono due piste interpretative. La prima sgancia l’art. 4, comma 1, dall’art. 1, comma 3 secondo periodo, nel duplice senso che il disponente, a differenza del paziente, (i) deve necessariamente acquisire preventive adeguate informazioni sulle conseguenze delle sue scelte e, a tal fine, (ii) deve necessariamente consultare un medico. Questa prima lettura, patrocinata dall’orientamento sopra accennato, esalta una aporia tra le due norme in esame sezionando le due facce della stessa medaglia: da un lato il diritto di avere e rifiutare le informazioni in fase diagnostica e prognostica, dall’altro lato l’onere di acquisire adeguate informazioni dal medico in fase programmatica. La seconda pista interpretativa declina l’incipit dell’art. 4, comma 1, in continuità con l’art. 1, comma 3 secondo periodo: come il paziente può rifiutare in tutto o in parte di ricevere informazioni in fase diagnostica e prognostica, così il disponente può rinunciare ad acquisire adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte in fase programmatica. Questa seconda lettura ha il pregio di coordinare le due norme in esame mantenendo fermo il fil rouge di cui all’art. 1, comma 3 secondo periodo. Si potrebbe obiettare che così argomentando si rischia di minimizzare la portata dell’art. 4, comma 1, nella parte in cui profila la preventiva acquisizione di «adeguate informazioni mediche». Ma basterebbe allora guardare in gola al silenzio serbato dall’art. 4, comma 5, che non ricollega alcuna conseguenza alla mancata preventiva acquisizione di adeguate informazioni mediche, in linea con la relazione terapeutica valorizzata dall’art. 1, comma 2, che è un’opportunità prima che un diritto per il paziente, non un suo obbligo, né un suo onere84. Affermare che le DAT potrebbero essere disattese per il sol fatto che il disponente non ha acquisito preventivamente adeguate informazioni mediche – senza peraltro chiarire cosa deve intendersi per esse, su chi grava l’onere della prova e quali sono le circostanze rilevanti – significherebbe invece riaprire la porta a quel rapporto di subordinazione terapeutica che la legge 219/2017 ha espulso dalla finestra85. Non dà alcuna garanzia sulla
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Non si dica poi che la preventiva acquisizione di adeguate informazioni mediche sarebbe imprescindibile garanzia per evitare di redigere DAT “incerte” o “lacunose”. L’ambiguità e la vischiosità dei testi sta sì in chi li scrive, ma anche in chi li legge. 85 Si mostrano qui a bella posta le differenti vedute sulla questione, nodale, del residuo spazio di discrezionalità medica. Per C. Romano, La legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento, cit., 20 (e la stessa idea è riproposta in Id., Le disposizioni anticipate di trattamento [studio CNN n. 136-2018/C1605], § 7), si avrebbe una sorta di «vincolatività attenuata» delle DAT, «lasciando al medico una discrezionalità di valutazioni»: v. pure E. Bilotti, op. cit., 100, L. Milone, Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, cit., 1402 e, sostanzialmente, R. Bono, op. cit. Sennonché il tracciato positivo della legge 219/2017, come evidenziato nel testo, segue altri solchi e si muove in direzione differente, e ciò risulta confermato dalla decantazione dei copiosi lavori parlamentari, pareri e audizioni che hanno preceduto il varo della legge 219/2017, con la quale s’è voluto certamente superare l’impostazione del parere del Comitato nazionale per la bioetica del 18 dicembre 2003, cit. Un “privilegio terapeutico” del medico che offuscasse le scelte o gli indirizzi espressi dal disponente – e dunque la sua identità e ipseità – apparirebbe oggi quantomeno anacronistico e v. pure, in generale, P. Borsellino, della quale Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 219 ss., “Biotestamento”, cit., passim, segn. 790 ss., 793 s. e 801 s. e già La sfida di una buona legge in materia di consenso informato e di volontà anticipata sulle cure, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2016, 93, a 99, consultabile all’indirizzo www.biodiritto.org.
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condivisione da parte del medico curante del percorso informativo compiuto dal disponente con altro collega medico86. E, soprattutto, porterebbe, a sua volta, a minimizzare quella vera e propria rivoluzione culturale dei rapporti et medico/paziente et paziente/ medico di cui si è fatta promotrice la legge 219/2017, la quale ha intagliato il diritto all’autodeterminazione nella inviolabile libertà personale87 e ha riconosciuto valore pieno all’autoresponsabilità del paziente/disponente88. Ecco lo snodo del ragionamento. Le DAT non possono essere disattese (neppure per accordo [a posteriori] tra il medico e il fiduciario o l’amministratore di sostegno) sulla base della presunta convinzione che il disponente non abbia acquisito adeguate informazioni mediche. Il ragionamento è avvalorato dall’art. 4, comma 5, che ci offre la cartina di tornasole. Fermo ovviamente restando quanto previsto dal comma 6 dell’art. 1, le DAT sono vincolanti per il medico, salvo che, per quanto qui interessa, appaiano palesemente incongrue. Ciò che rileva non è dunque la mancanza di preventive adeguate informazioni mediche. Ciò che invece può eventualmente assumere rilievo è che la mancanza di preventive adeguate informazioni mediche si sia tradotta in una palese incongruità delle DAT89. Nella va-
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Il disponente dovrebbe pertanto mettere in conto una possibile contestazione postuma circa il tipo e la qualità di informazioni che gli sono state date e che ha ricevuto: la tematica è conosciuta in materia di interruzione volontaria di gravidanza e v. B. Liberati, Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi applicativi derivanti dalla concreta prassi applicativa?, in Riv. diritti comparati, 3/2017, 270, segn. 276, ove riferimenti. 87 Artt. 2 e 13 Cost.: in arg. si consulta con profitto la recente accurata analisi di F. Rescigno, L’autodeterminazione della persona: il faticoso cammino del diritto positivo, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 13, segn. 36 ss., ove un abbondante apparato bibliografico; cfr., per una lettura opposta, D. Carusi, Tentativi di legiferazione, cit., passim, segn. 35 e 106 ss. ed E. Bilotti, op. cit., 86 ss. 88 È l’autoresponsabilità il prezzo da pagare per emanciparsi dallo status in potestate, che è una storia molto antica: un primo ragguaglio in R. Esposito, op. cit., 94 ss., segn. 98 e 103 ss., segn. 105. 89 Il giudizio di congruità solleva più interrogativi di quanti ne risolva. La domanda cui occorre rispondere è semplice: le conseguenze delle scelte espresse nelle DAT devono apparire palesemente incongrue rispetto a cosa? La risposta non è immediata. L’utilizzo di una clausola generale sposta notoriamente il tema sugli standard valutativi e demanda al giudice – e in primis al giudice tutelare nell’ipotesi di cui all’art. 4, comma 5 secondo periodo – una funzione integrativa. Ancora. Le DAT, come visto, hanno contenuto variabile sicché non si può fare di tutta l’erba un fascio. È prevedibile che questo sarà il campo su cui si giocherà la partita più animata tra le interpretazioni “biologiche” e quelle “biografiche” e, lo sappiamo, nel diritto la strada più semplice per cortocircuitare una regola non è negarne validità, ma interpretarla e applicarla in modo che non abbia alcuna portata: si potrebbero citare intere biblioteche, ma basti il rinvio a T. Ascarelli, Antigone e Porzia, in Riv. int. fil. dir., 1955, 756, segn. 761 ss. Nel merito. Si è avanzata l’idea per cui il giudizio di congruità dovrebbe fondarsi su una valutazione clinica: B. de Filippis, op. cit., 128 e già, a più pieni polmoni, D. Carusi, Tentativi di legiferazione, 91 (nt. 4), 106 ss. e 112 (testo e nt. 26); allude al caso di una scelta «palesemente illogica [ma illogica per chi?] o estranea al quadro clinico [ma quale quadro clinico?]» che «si dimostri frutto di valutazioni erronee o di disinformazione» F.G. Pizzetti, op. cit., 59. L’ipotesi presuppone, in sostanza, che la congruità vada verificata rispetto alle possibili terapie e, in questo senso, inclina verso un’interpretazione biologica. Ma andrebbe allora riconosciuto che anche un giudizio meramente clinico è solo apparentemente oggettivo e non è immune da valutazioni discrezionali del medico, come s’avvede B. Liberati, op. cit., 274 e 281 e come scopertamente riconosce E. Bilotti, op. cit., 96, che sollecita addirittura qualche spazio per la «coscienza del medico». Si ripristina così però quel “privilegio terapeutico” che la legge 219/2017 si è lasciato alle spalle e, per di più, neppure può essere esclusa una sorta di “spirale terapeutica” allorché si ritenga che, come ipotizza L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, cit., 199 s., in caso di conflitto tra fiduciario e medico, il giudice tutelare «non potrà che nominare un CTU nella persona di un medico». Sembra in realtà auspicabile che in sede di concretizzazione giurisprudenziale di questa clausola generale si faccia largo un indirizzo più in armonia con le linee guida della legge 219/2017. La «palese incongruità» – perché non basta una incongruità qualsiasi – si
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lutazione dell’eventuale responsabilità medica occorrerà tener conto di questa significativa differenza. Siamo alle solite. Diceva Norberto Bobbio, «[c]apire prima di giudicare»90. Si può essere sordi a questo cambiamento in atto e si può pure cercare di immunizzarsi con la carta protocollo, ma il significato dell’art. 4, comma 5, è altro. Quando l’art. 4, comma 5, ci dice che, nei casi ivi espressamente previsti, il medico, in accordo con il fiduciario [o con l’amministratore di sostegno], può disattendere le DAT, ci dice, in realtà, che, in questi casi, il medico, in accordo con il fiduciario, deve conformare le DAT all’attuale situazione concreta. Ergo: l’art. 4, comma 5, non afferma che il disponente che si provi non avere acquisito adeguate informazioni è alla mercè del medico. La norma afferma invece che, come s’è osservato, il medico [sempre e solo nei casi ivi espressamente previsti e sempre e solo in accordo con il fiduciario] deve «individuare il senso di quanto manifestato dalla persona e scegliere la soluzione che, nelle condizioni date, meglio lo “rispetti”»91. Qui sta la ricucitura tra l’art. 4 e il manifesto culturale che l’art. 1, comma 2, ci espone, affermando, con parole dirette, che «[è] promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico». Avviamoci alla conclusione di questo paragrafo evitando fraintendimenti. Ben venga la preventiva acquisizione dal medico di adeguate informazioni, ma essa non può, neppure di fatto, diventare un fattore di discriminazione. A tacer d’altro, non tutti hanno la possibilità, anche economica, di rivolgersi privatamente a un medico e il ricorso alle DAT non può dipendere dalla circostanza che le aziende sanitarie di tutta la Penisola si attrezzino. Ben venga la preventiva acquisizione di adeguate informazioni mediche, ma essa non può porsi come condizione imprescindibile delle scelte espresse nelle DAT, che possono invece (legittimamente) dipendere da convinzioni religiose, spirituali, etiche o filosofiche
presta infatti meglio a essere riferita alle concrete conseguenze delle scelte espresse nelle DAT rispetto alla identità e ipseità del disponente. Nella maggior parte dei casi le scelte consistono nel rifiuto di determinati trattamenti e, in questa più desiderabile chiave di lettura, occorre verificare proprio le conseguenze di tale rifiuto raffrontando la loro adeguatezza alla persona del disponente e la loro appropriatezza clinica, con prevalenza della prima sulla seconda. Leviamo di torno ogni drappeggio retorico: il giudizio di palese incongruità può condurre al capovolgimento di una decisione presa dal diretto interessato, può comportare il passaggio da un rifiuto a un consenso e, in ultima analisi, può invertire la dinamica clinica ed esistenziale del disponente. Tuttavia ogni scelta diversa da quella (palesemente incongrua) espressa nelle DAT deve essere assunta perseguendo l’esclusivo e migliore interesse del disponente divenuto nel frattempo incapace di autodeterminarsi, verificando se le conseguenze che derivano da tale scelta assicurano una qualità della vita che l’interessato, se potesse scegliere personalmente, considererebbe effettivamente accettabile. Per approfondimenti cfr. P. Borsellino, della quale Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 219 ss. e “Norme in tema di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”, cit., 7, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 267 ss. e 281 ss. e A. Ruggeri, Fraintendimenti concettuali, cit., 99 ss. 90 N. Bobbio, [1989] Capire prima di giudicare, ora in Id., Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, 2014, 165. 91 P. Zatti, di cui La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 22 e Brevi note sul testo approvato, cit.: in tal senso va dunque registrata l’impropria espressione, utilizzata nell’art. 4, comma 5, per cui le DAT «possono essere disattese» e sulla stessa lunghezza d’onda v. pure C. Casalone, op. cit., 51.
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rispetto alle quali l’informazione medica non presenta un valore aggiunto, e basti pensare al rifiuto di trasfusioni espresso dai Testimoni di Geova92. C’è infatti caso e caso. Il caso dei Testimoni di Geova sfugge, anch’esso, alle gabbie dogmatiche93. Ben venga la preventiva acquisizione di informazioni fornite dal Ministero della salute, dalle regioni e dalle aziende sanitarie – come prescrive l’art. 4, comma 8, che, pur essendo decorsi ben oltre sessanta giorni dalla entrata in vigore della legge 219/2017, emulando Godot, è ancora sostanzialmente in attesa di attuazione – ma il ricorso alle DAT non può essere condizionato dalla acquisizione di queste informazioni94. Si fa presto a ipotizzare oneri e doveri a carico del disponente. L’art. 4, comma 1, semplicemente dice che il disponente esprime le proprie DAT «dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche». In sostanza lo “invita” a un comportamento attivo, non lo onera, né lo obbliga. D’altro canto, se così fosse, si sarebbe dovuto prevedere un puntuale simmetrico obbligo a carico dei medici e delle strutture sanitarie di fornire, gratuitamente, tali informazioni e un correlativo diritto ad ottenerle, ma di tutto questo non c’è traccia nella legge95. Ormai possiamo intuire la risposta che cercavamo. Il cuore della questione è non tanto cosa la legge 219/2017 ci ha voluto dire, quanto cosa essa ci ha voluto dare. La legge 219/2017 ci ha dato un’opportunità senza filtrarla attraverso specifiche intermediazioni o attraverso appannaggi, nel presupposto, questo sì imprescindibile, della consapevolezza delle proprie scelte, che va presunta fino a prova contraria. C.v.d.: il disponente può decidere di non assumere adeguate informazioni mediche e anche questa scelta dev’essere rispettata.
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Accredita un generale rifiuto di trasfusione di sangue [con tutto il suo apparato di conseguenze] B. De Filippis, op. cit., 122. Cfr. P. Zatti, Brevi note sul testo approvato, cit., per cui l’art. 1, comma 5 [corrispondente al comma 7 del testo approvato dalla Camera], della legge 219/2017 delimita il campo di quanto è oggetto di legittimo rifiuto e questo limite «rende discutibile il caso di un divieto generale espresso nelle DAT». La questione giuridica risale nel tempo e v. già i fertili lavori di P. Rescigno, [1983] I trattamenti sanitari tra libertà e dovere (l’obiezione di coscienza dei testimoni di Geova), ora in Id., Persona e comunità. Saggi di diritto privato, II, (1967-1987), Padova, 1988, 298, La fine della vita umana, cit., 195 e [2001] Sulle concrete esperienze realizzate nel mondo contemporaneo, ora in Id., Danno da procreazione, cit., 237, a 238; proxime S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 252. 93 Viene a taglio l’osservazione di P. Zatti in «Parole tra noi così diverse», cit., 150: «[o]ffrire schemi giuridici presi dallo scaffale della dogmatica per regolare la situazione di sofferenza è dare sassi come fossero pane». 94 Cfr. G. Baldini, La legge 219/17 tra molte luci e qualche ombra, cit., 26. 95 Non si tiri in ballo l’art. 1, comma 9, ai sensi del quale «[o]gni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale». Questa ecumenica previsione non riconosce alcun diritto di ottenere quelle informazioni, ma, per converso, dipendendo tali informazioni da scelte organizzative (dunque da scelte discrezionali) delle strutture sanitarie, come ha osservato B. Liberati, op. cit., 273, «introduce un indubbio elemento di eccentricità, che sembra adombrare i (realistici) rischi della mancata effettiva applicazione della legge».
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9. La forma delle DAT e il tatuaggio DNR. È dunque tempo di responsabilità e, soprattutto, di autoresponsabilità, che va pari passo con la tutela della libertà del disponente di esercitare i propri diritti fondamentali. L’art. 4, comma 6, prescrive che «[l]e DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7». La forma scritta non è però l’unica possibile: infatti, «[n]el caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare»96. Negli Stati Uniti la scritta “DNR” (Do Not Resuscitate) tatuata sul petto di una persona non identificata e senza famiglia ha messo in crisi i medici del pronto soccorso e suscitato un ampio dibattito97. In Italia il salvagente della forma offre sempre ottimi servigi98. Ma anche quel tatuaggio è espressione di un’inequivoca identità e ipseità e di una conseguente volontà. Sono in gioco, come abbozzato, diritti fondamentali99. Dunque, non è detto che in
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Occorre sorvegliare il linguaggio: nel primo caso (atto pubblico o scrittura privata) le DAT sono «redatte»; nel secondo (utilizzo di una videoregistrazione o di altri dispositivi) sono «espresse». 97 Un quadro della tematica in A.E. Gordon, Do Not Resuscitate Tattoos, in The American Journal of Medicine, 2018, vol. 131, issue 6, 591 e G. Holt, B. Sarmento, D.h. Kett, K. Goodman, An unconscious patient with a DNR tattoo, in New England Journal of Medicine, 2017, vol. 377I, issue 22, 2192. 98 Pure sulla forma e sulla documentazione sarebbe meglio mettersi d’accordo e v. le stringenti considerazioni di P. Zatti, del quale La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 11 e 21 e Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 249 s. V. anche G. Ferrando, Rapporto di cura, cit., 70 e già S. Rodotà, di cui La vita e le regole, cit., 259 e, con maggior slancio, Il diritto di avere diritti, cit., 266 ss. e 277; ma cfr. P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 221. Fa piacere constatare che anche tra i notai ci sia chi non fa della forma scritta un vessillo: L. Milone, Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, cit., 1400. Punti di mappa per un confronto comparatistico sono reperibili in M. Foglia, Consenso e cura, 199 s.; a proposito dell’intervento notarile e della sottoscrizione digitale v. altresì la section 4673 (a3) e (b) del Probate Code della California. Il mancato rispetto delle regole di forma non svuota le DAT di contenuto. Il criterio cardine è quello fissato dall’art. 1, comma 4, che ben distingue la validità e la vincolatività per il medico del consenso informato dalla sua documentazione: il consenso informato deve essere «acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente»; esso «è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare». E questa documentazione, come si suole ripetere in tutte le salse, non è che la conclusione di un articolato cammino di formazione della decisione. Le DAT redatte in forma olografa (senza autentica notarile della sottoscrizione) e non depositate dal disponente presso l’ufficio dello stato civile oppure presso le strutture sanitarie hanno anch’esse rilevanza per il medico. Dice bene P. Zatti in La via (crucis) verso un diritto alla relazione di cura, cit., 22, «i [...] familiari avranno un onere di prova che non avrebbero con le DAT formali e depositate; ma in nessun modo un rifiuto di cure, protetto dall’art. 32 della Costituzione, se ragionevolmente certo, può essere ignorato dal medico». Il pericolo che la forma prevalga sulla sostanza e la oscuri, già segnalato da P. Rescigno in Sulle concrete esperienze, cit., 243 (ma v.ne pure [2003] Consenso informato e direttive anticipate, ora in Id., Danno da procreazione, cit., 247, a 248 s.) va evitato in tutti i modi. 99 Ce lo dimostra a usura Corte cost., [ord.] 16 novembre 2018, n. 207, cit.
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Italia un simile tatuaggio, in una situazione analoga a quella capitata ai medici statunitensi, possa essere ignorato100.
10. DAT e tutela del diritto alla riservatezza. Il tatuaggio recante la scritta DNR permette sicuramente una gestione personale della comunicazione delle proprie scelte. Poco ma sicuro, i medici non potranno non sapere di questa scelta; nei confronti dei terzi sarà l’interessato – e solo lui – a valutare se e quando scoprire il proprio petto mostrando quell’acronimo inequivoco. Le DAT redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata presso l’ufficio dello stato civile ai sensi dell’art. 4, comma 6, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7, pongono invece più articolate questioni di raccordo con la tutela della riservatezza del disponente, su cui pure il Ministero della salute ha chiesto lumi101. Il Consiglio di Stato, riconosciuta «la necessità che su tali profili si esprima il Garante per la protezione dei dati personali [...]», ha ritenuto «che: 1. alle DAT può accedere il medico che lo ha in cura allorché sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi del paziente; 2. deve potervi accedere il fiduciario sino a quando è in carica (nel senso che non è stato revocato, ex art. 4, comma 3, legge 219/2017) perché, ragionando diversamente, non avrebbe la possibilità di dare attuazione alle scelte compiute; va ricordato che in tal caso non sembra violato il diritto alla riservatezza del paziente perché l’art. 4, al comma 2, prevede espressamente che, dopo l’accettazione della nomina da parte del fiduciario, a quest’ultimo sia rilasciata una copia delle DAT»102. La tematica esibisce anche qui riflessi importanti sull’attività notarile. L’obbligo del notaio di rilasciare copia autentica degli atti pubblici da lui ricevuti deve trovare, con riguardo alle DAT, un temperamento. Ce lo chiede l’etica103. Ma, a ben guardare, ce lo dice, senza sbavature, anche il diritto, ovvero il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016. L’art. 6, paragrafo 1, lett. a) e d), del Regolamento prevede che il trattamento di questi dati così sensibili è lecito solo se e nella misura in cui (i) l’interessato ha espresso il pro-
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Diversamente M. Foglia, Consenso e cura, 104. È il quinto e ultimo quesito. 102 Dà il giusto peso alla tutela della riservatezza nella gestione dei modelli di relazione terapeutica P. Borsellino, Bioetica tra “morali” e diritto2, cit., 170 ss. V. però anche gli acconci interrogativi sollevati da L. Olivero, in Che fine hanno fatto i familiari?, cit., 139 ss. 103 Una pensosa premessa su “spazio pubblico” e “sfera privata” in H. Arendt, [1958] Vita activa, trad. it. S. Finzi, Firenze - Milano, 2017, 54 ss. 101
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prio consenso per una o più specifiche finalità e (ii) solo se è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato. Ancora, e soprattutto: l’art. 9 del Regolamento, dopo aver fatto divieto al paragrafo 1, di trattare dati relativi alla salute della persona, fa salvo, al paragrafo 2, lett. h), il caso in cui il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3. La normativa europea, tenuto conto di quanto disposto dall’art. 4 legge 219/2017, fa quindi propendere per il rilascio di copie esclusivamente al disponente, al fiduciario, al medico e, in ultima analisi, alla struttura sanitaria di sua appartenenza, oltre che su richiesta del giudice tutelare. Non ad altri, salvo che, naturalmente, il disponente (e, quanto alla dichiarazione di accettazione, il fiduciario) ne abbia(no) consentito il rilascio per una o altre specifiche finalità, nello stesso documento contenente le DAT o in un documento separato. Questa interpretazione può essere veicolata da un parallelismo, per lo specifico effetto non iperbolico, tra l’atto pubblico contenente le DAT e il testamento per ministero di notaio, copia del quale può essere rilasciata, ai sensi dell’art. 67, comma 2, legge not., durante la vita del testatore, solo al testatore medesimo o a persona munita di speciale mandato in forma autentica. Si è proposto di pensare a una sorta di confine diacronico tra il periodo della piena consapevolezza del disponente e quello dell’eventuale sopravvenuta incapacità, per limitare solo al primo arco temporale una giustificata restrizione del novero dei soggetti che possano ottenere copia delle disposizioni formulate dalla persona104. Non si può tuttavia ignorare che il diritto alla riservatezza involge la persona del disponente anche nella fase della sopraggiunta incapacità, e, anzi, in questa fase, la involge a fortiori ratione. Di conseguenza, può ritenersi che il rilascio di copie delle DAT ricevute per atto pubblico avrà ragion d’essere in funzione – e, si badi, solo in funzione – della loro concreta attuazione da parte di chi, per statuto legale o per opzione autodeterminativa, sia chiamato o tenuto a darvi attuazione – appunto, il disponente, il fiduciario, il medico e, in ultima analisi, la struttura sanitaria di sua appartenenza – oltre che su richiesta del giudice tutelare. Il discorso sin qui intessuto vale pari modo in ordine alle DAT per scrittura privata autenticata conservata nella raccolta degli atti del notaio autenticante. La riservatezza del disponente ha tuttavia un canale di maggiore tutela: il disponente ha facoltà di chiedere (e ottenere) che la scrittura privata contenente le sue DAT la cui sottoscrizione è autenticata da notaio gli sia rilasciata in originale105.
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C. Romano, Le disposizioni anticipate di trattamento [studio CNN n. 136-2018/C1605], § 8. L’art. 72, comma 3, legge not. prescrive che «[l]e scritture private, autenticate dal notaro, verranno, salvo contrario desiderio delle parti e salvo per quelle soggette a pubblicità immobiliare o commerciale, restituite alle medesime». Il documento autenticato dal notaio in
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11. A mo’ di conclusione. C’è una dignità nel vivere e una dignità nel morire106. Come lumeggiato recentemente dalla Corte costituzionale, anche la dignità nel morire non può essere valutata in astratto. Insomma, la dignità non può svolazzare al buio come la luce di una pila: va verificata in concreto e deve «corrispondere alla propria dignità nel
cui sono espresse le DAT non è evidentemente soggetto a pubblicità immobiliare o commerciale. Dunque, in applicazione dell’art. 72, comma 3, cit., dovrà essere restituito in originale al disponente, salvo che questi chieda al notaio di trattenerlo nella raccolta dei suoi atti. Esclude che la messa a raccolta delle DAT sia un obbligo per il notaio anche C. Romano, Le disposizioni anticipate di trattamento [studio CNN n. 136-2018/C1605], § 8, il quale, però, ne ritiene comunque auspicabile la conservazione (seguendo così l’impronta del CNN, Disposizioni anticipate di trattamento, prime indicazioni, in CNN Notizie, 5 marzo 2018), fermo restando che «il disponente possa esprimere – con una dichiarazione resa in atto – una volontà contraria (alla conservazione a raccolta) chiedendo il rilascio del documento in originale per motivi di riservatezza»: ma, se ben si è inteso, così si rischia, in concreto, di dar luogo a un capovolgimento della regola fissata dall’art. 72, comma 3, legge not. R. Bono, op. cit., ha battuto una pista differente: le DAT autenticate dovrebbero obbligatoriamente essere tenute a raccolta per ragioni funzionali legate al loro reperimento e al rilascio di copie. Un aggancio nel senso della necessaria tenuta a raccolta potrebbe, in effetti, scorgersi [epperò con tutte le intuibili conseguenze logiche connesse] nella norma transitoria di cui all’art. 6 legge 219/2018, ai sensi della quale «[a]i documenti atti ad esprimere le volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della presente legge, si applicano le disposizioni della medesima legge» (cors. agg.). Il discorso va calibrato diversamente. La scelta spetta al disponente. Da lui dipende se essere arbitro del futuro reperimento delle sue DAT, mantenendo in tal modo la piena libertà di rimangiarsi le direttive date senza ingessature formalistiche. La richiesta di rilascio dell’originale incontra questo interesse, che è un interesse molto sentito, come dimostra il report curato da A. Fagerlin e C.E. Schneider, Enough: The Failure of the. Living Will, cit. Il discorso si sposta sull’exit. Il legislatore dà l’impressione di conoscere questi pensieri che abitano in chi si appresta a redigere le proprie DAT. Il disponente potrebbe infatti non sentirsi sufficientemente rassicurato dalle forme di revoca previste dall’art. 4, comma 6: «atto pubblico», «scrittura privata autenticata» o [non autenticata, ma] «consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo [...] oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7» ovvero, nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca con tali forme, «dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni». Stiamo parlando dell’esistenza del disponente, non di un bargain. Certi ripensamenti non hanno bisogno della parola e delle sue liturgie. I fatti, almeno con riguardo a taluni ambiti e in certi contesti, contano di più delle verbalizzazioni (e qui il terreno si fa un po’ vischioso anche per l’approfondito lavoro di M. Foglia, Consenso e cura, cit., che sembra pagare qualche dazio di troppo alla “medicina verbale” e alle “manifestazioni di volontà espresse” [ivi, 25 s., 104 e 197 e 199], pur non trascurando la comunicazione non verbale [ivi, 39, 84 e sempre a 199 nella parte in cui allude all’eye-tracking]). Ecco perché l’opzionalità di manipolare il documento autenticato dal notaio attraverso la sua distruzione o il silenzio potrebbe offrire al disponente maggiori garanzie, che nessuna pretesa di classificazione e conoscenza può sterilizzare. Illuminante la pagina di R. Sacco. I tanti discorsi fatti a scuola sul diritto scritto non trovano corrispondenza nel diritto muto [i.e. muto, non tacito], che, anch’esso, costituisce parte integrante del nostro ordinamento giuridico: Id., di cui v. almeno Il fatto, l’atto, il negozio, nel Trattato di diritto civile diretto dallo stesso A., Utet, Torino, 2005, 141 s. e 307 ss. (ivi riferimenti e la traduzione di un passo notevole di C. Crome, System des deutschen burgerlichen Rechts, Tubingen - Leipzig, 1900) e, naturalmente, Il diritto muto, Bologna, 2015, passim, spec. 155 ss., ove l’approdo, sicuramente da partecipare, che il giurista parlante concettualizza e ignora il diritto regolato dai e con i fatti: «il dottore [che l’A. intende come doctor iuris, ma qui, per una sorta di dama linguistica, si potrebbe immaginare anche come medico] si vela gli occhi per non vedere». 106 Il tema, delicatissimo, ribolle da molti anni: cfr., per tutti, i contributi, ben strutturati, di P. Rescigno, La fine della vita umana, cit., 649 ss. e 655 s., G. Alpa, Il principio di autodeterminazione e le direttive anticipate sulle cure mediche, in Riv. crit. dir. priv., 2006, 83, passim, segn. a 95 ss. e L. D’Avack, Scelte di fine vita, cit., passim, spec. 51 ss., 55 ss. e 87 s. V. pure H. Küng e W. Jens, Della dignità del morire. Una difesa della libertà di scelta, Milano, 2010, pos. 165 dell’edizione digitale: « ‹[l]a dignità dell’uomo è inviolabile›: il primo articolo della costituzione tedesca vale anche in riferimento al nostro morire, e prenderci cura della qualità umana del morire dovrebbe essere il compito di tutta la nostra vita».
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morire»107. Che è una grammatica “a modo giuridico” per dire che deve corrispondere alla propria rappresentazione e narrazione di Sé. Gli occhi del Lord Cancelliere d’Inghilterra sono ancora lì che ci guardano: «[n]ay, further, I esteem it the office of a physician not only to restore health, but to mitigate pain and dolours; and not only when such mitigation may conduce to recovery, but when it may serve to make a fair and easy passage»108. La testimonianza dei fatti comanda sulle migliori intenzioni. Mette a nudo la retorica e il frequente utilizzo del chiasmo (per la carità, mai troppo complicato) d’invertire le premesse con le conclusioni. L’esempio dell’amministrazione di sostegno, parente alla lontana della fiducia autodeterminativa, è paradigmatico: fu pensata come vestito su misura109, ma poi tutti sappiamo come, in pratica, è andata a finire. Ecco un’altra ottima occasione, in attesa, per ora, di un effettivo riscontro operativo e operazionale. Siamo alla prova del nove: all’attuazione della legge 219/2017. Per dirla con Franz Rosenzweig, «[q]ui un assunto non consegue da quelli che lo precedono, ma semmai da quelli che lo seguono»110. Dunque, solo testando le DAT sul campo potremo scoprirne l’effettiva portata nel nostro contesto culturale, medico-ospedaliero e giuridico. Qui si gioca una delle partite più dense e sentite tra umanità e diritto e, specularmente, tra diritto e umanità. Una partita che riguarda i reciproci punti di saldatura e le reciproche fragilità. Una partita che ci mette davanti alla ineludibile complessità della nostra esistenza e che mette a nudo la reversibilità di molti interrogativi sul campo: non basta chiedersi di chi è l’ospedale111, ma occorre anche chiedersi di chi sono i tribunali e i consigli degli ordini professionali.
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Corte cost., [ord.] 16 novembre 2018, n. 207, cit. (considerando in diritto n. 9: cors. agg.). Tra gli studiosi più impegnati, in luogo di altri, L. D’Avack, Scelte di fine vita, cit., 52 e S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 209 ss. (e anche 169 ss. e 177 s.). 108 F. Bacon [1605]. Il passo è tratto da The two books of Francis Bacon: of the Proficience and Advancement of Learning, Divine and Human: un’ottima edizione è consultabile sul web: John W. Parker and Son, West Strand: Londra, 1852, 110. Detto en passant, per i cultori delle “adeguate informazioni”, il passo non è quindi tratto da La nuova Atlantide, come invece vorrebbero sovrabbondanti citazioni di seconda (o forse terza) mano, anche di insospettabili maestri. 109 P. Cendon, di cui nell’ampissima bibliografia sul tema v. almeno Un altro diritto per i soggetti deboli. L’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in G. Ferrando [cur.], L’amministrazione di sostegno, Giuffrè, Milano, 2005, 21, segn. a 49. 110 F. Rosenzweig, [1925] Il nuovo pensiero, in Id., La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, trad. it. G. Bonola, Roma, 1991, 257, segn 260. 111 La domanda, appropriatissima, è posta da L. Fontanella, op. cit., 15 ss., con garbata ironia su una certa pretesa usucapione da parte di chi abitualmente ne occupa gli spazi [si potrebbe aggiungere anche acustici]. L’ospedale è di tutti, è un luogo pubblico in cui ciascuno ha la propria utilità: Ead., op. cit., 9 s., 18 ss., 90 s., 92 ss. e 116 ss.
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Si parla molto di un diritto mite112 e gentile113. La storia ci insegna peraltro che ciò che conta, alla prova dei fatti, non è quanto declamiamo, ma quanto facciamo. È dal 1948 che la “dignità” e il “valore della persona umana” sono entrati nelle nostre carte fondamentali eppure, come s’è notato, le “morti indegne” non si sono placate114. La legge 219/2017 pone un tema di sempre. L’efficacia della sua iniezione di diritti e obblighi dipenderà dalla misura in cui le persone, le creature di carne, sangue e ossa, ne attiveranno le regole: che è un modo per soddisfare i propri bisogni e i propri desideri e per dimostrare le proprie competenze. Anzi, con-petenze.
112
Sul diritto mite, che punta a un accordo e a una sintesi degli interessi, i classici sono sempre i medesimi: N. Bobbio, Elogio della mitezza, ripubblicato in Id., Elogio della mitezza e altri scritti morali, cit., 29 (si tratta del testo della relazione presentata l’8 marzo 1983, su invito di Ernesto Treccani, in un ciclo di conferenze promosso dal gruppo milanese Corrente; il manoscritto fu pubblicato per la prima volta come allegato speciale fuori commercio al n. 88 [dicembre 1993] di Linea d’ombra: acconci ragguagli e qualche aneddoto in P. Polito, Dalla mitezza alla non violenza. Storia dell’Elogio della mitezza, ibidem, 179), G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, 1992, passim, segn. 11 ss. (v.ne anche È la mitezza la più impolitica delle virtù?, sempre in N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, cit., 219) e S. Rodotà, La vita e le regole, cit., 9 ss. 113 Sul diritto gentile, che punta all’ascolto evitando sia comandi e obbedienze imposte, sia quell’astrazione che proietta le categorie economico-contrattuali nel rapporto di cura, senz’altro, P. Zatti, di cui già Per un diritto gentile in medicina, cit., 2 e 4 e Id., Le «disposizioni del paziente», cit., 313 e, ancora, S. Rodotà, op. loc. ult. cit. 114 Il riferimento, oltre che alla nostra Costituzione, è, prima ancora, alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Sotto questo frangente R. Esposito, op. cit., 8 ss., 87 ss. e 91 ss., pone il dubbio se il generale fallimento in concreto dei diritti umani abbia avuto luogo non nonostante, ma in ragione dell’affermarsi dell’ideologia – non cambia se in tonalità laica o religiosa – della persona; se, per una sorta di rimbalzo prospettico, detto fallimento, più che dal fatto che non siamo ancora entrati a pieno nel regime di senso della persona, dipenda dal fatto che non ne siamo mai usciti. In effetti, rileggendo i passi di J. Maritain offerti in lettura dallo stesso Esposito, op. cit., 90 e 109 s. e 113 s., si smaschera la dicotomia “essere soldati altrui” vs “essere signori di se stessi e dei propri atti”: i termini risultano centripeti sullo stesso concetto di “libertà” (nelle mani altrui o proprie). Nessuno può chiedere al medico di staccargli un orecchio e una gamba per ricucirglieli l’uno al posto dell’altra. Proprio l’attuazione della legge 219/2017 ci consentirà di sondare non più soltanto quelle domande mai esaurite in letteratura, ma soprattutto le risposte praticabili in concreto nella nuova cornice normativa. La partita sul campo è appena cominciata. Dipenderà da noi se sfruttare questa formidabile occasione per riflettere sull’effettività [dei nostri luoghi di senso] di quella «nudità astratta dell’essere uomini e nient’altro che uomini» magistralmente affrescata da H. Arendt, in Le origini del totalitarismo, cit., 412 s.
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Certificato successorio europeo e tutela dei figli*
Sommario : 1. Scopo del certificato successorio europeo e tutela dei figli. – 2. La tutela dei figli in ambito successorio all’interno dell’Unione europea. – 3. Esclusione dei legittimari pretermessi dalla categoria dei soggetti «beneficiari» della successione. – 4. Segue. Inapplicabilità ai legittimari pretermessi degli strumenti di protezione riservati ai «beneficiari». – 5. Applicazione ai medesimi della tutela relativa ai terzi «interessati». - 6. Effetti del certificato. – 7. Conclusioni.
The European Certificate of Succession is for use by heirs who, in another Member State, need to invoke their status or to exercise their rights as heirs. According to the Italian law, the children are entitled to a «reserved» portion of the estate, but a testator may legally dispose of his entire estate. Furthermore, in accordance with the principles set forth by the Italian Supreme Court, the relatives entitled to a «reserved share» are not heirs until they have not contested the will. Therefore, there is the need to analyse if the children who have not received the «reserved share» are entitled to submit an application for a Certificate, to be informed both of an application then of the issue of the Certificate and to challenge the decisions taken by the issuing authority before a judicial authority.
1. Scopo del certificato successorio europeo e tutela dei figli. Per «certificato successorio europeo» si intende il certificato uniforme rilasciato dall’autorità competente di uno Stato appartenente all’Unione Europea, che attesti la qualità di
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Esso riproduce il contenuto della relazione svolta al Convegno “L’incidenza della successione a causa di morte sulla vita familiare”, tenutosi il 12 aprile 2019 presso l’Università Sapienza di Roma.
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erede, legatario, esecutore testamentario o amministratore d’eredità e i relativi diritti e/o poteri. Esso viene emesso sulla base della legge applicabile all’intera successione ovvero di quella che ne regola elementi specifici – leggi individuate secondo i criteri indicati nel reg. UE 4 luglio 2012, n. 650 – ed è destinato ad essere utilizzato in un altro Stato membro e a circolare nei territori dell’Unione Europea (con l’eccezione di Danimarca, Regno Unito e Irlanda), senza bisogno della legalizzazione o di altra formalità analoga. Scopo del certificato è di consentire ai soggetti sopra indicati di provare qualità e poteri nello Stato in cui si trovano beni ereditari, senza dover attivare una nuova procedura per dotarsi di un titolo di legittimazione conforme al diritto di questo Stato. Il certificato successorio europeo non è, quindi, uno strumento diretto di tutela dell’interesse dei figli del de cuius a ricevere da terzi il pagamento di debiti ereditari o la consegna di beni ereditari. Esso protegge, infatti, questo loro interesse soltanto nella misura in cui essi siano «beneficiari» della successione secondo la legge nazionale alla medesima applicabile. Su questo punto si tornerà oltre.
2. La tutela dei figli in ambito successorio all’interno dell’Unione europea.
La tutela dei figli del de cuius in ambito successorio è un principio consolidato nella maggioranza dei Paesi appartenenti all’Unione europea1. Essa si esprime principalmente attraverso il riconoscimento ai medesimi del diritto ad una quota di eredità loro riservata. Diversi ordinamenti riconoscono ai figli la qualità di legittimari in concorso con il coniuge. Si pensi a Italia, Francia, Germania, Spagna, Belgio, Bulgaria, Finlandia, Svezia. Alcuni Stati, invece – ad es. Lussemburgo, Repubblica Ceca, Paesi Bassi – attribuiscono la posizione di legittimari esclusivamente ai figli o, in loro mancanza, ai discendenti. Sono comunque minoritari gli ordinamenti che non tutelano la legittima. Si tratta, principalmente, di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. I primi due Stati, però, riconoscono ai soggetti che al momento della morte del de cuius risultavano a suo carico – i quali potrebbero benissimo essere i suoi figli – il diritto di ricevere l’assegnazione di beni ereditari. Pertanto, tra quelli citati, solo l’Irlanda del Nord non tutela in alcun modo gli interessi successori dei figli del de cuius. Il reg. UE n. 650/2012 prospetta l’esigenza di tutela dei diritti dei legittimari in due casi. Il primo è quello della scelta della legge che regolerà la successione, che il testatore può compiere ai sensi dell’art. 22 esclusivamente a favore della legge dello Stato di cui aveva la cittadinanza al momento della scelta o della morte. Il considerando n. 38 preci-
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Informazioni sulla disciplina successoria degli Stati dell’Unione europea sono disponibili all’indirizzo https://e-justice.europa.eu/.
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sa, infatti, che: «(Omissis) Tale scelta dovrebbe essere limitata alla legge di uno Stato di cui abbiano la cittadinanza al fine di assicurare un collegamento tra il defunto e la legge scelta e di evitare che una legge sia scelta nell’intento di frustrare le aspettative legittime di persone aventi diritto ad una quota di legittima». Il legislatore europeo ha presente, quindi, che la professio iuris potrebbe costituire uno strumento di lesione dei diritti dei legittimari ed al fine di evitare che ciò si verifichi restringe fortemente l’oggetto della scelta. Il secondo caso è relativo all’esercizio dei poteri degli amministratori dell’eredità, nei Paesi che ne prevedono la nomina obbligatoria. L’art. 29, ult. co., prevede infatti che detto esercizio debba avvenire nel rispetto dei diritti dei legittimari. Il legislatore europeo non si occupa, però, in modo diretto della tutela della legittima. Ciò si spiega con il fatto che l’armonizzazione delle norme sostanziali in materia di successioni non rientra nella competenza dell’Unione europea. Pertanto, sarà sempre la legislazione nazionale a regolare questioni come l’individuazione degli eredi e le quote ereditarie. Ciò è espresso chiaramente nell’art. 23, § 2, lett. b) reg. UE n. 650/2012. La protezione della legittima è rimessa, quindi, alla legge nazionale applicabile alla successione, la quale sarà in linea di principio la legge dello Stato di residenza abituale del de cuius al momento della morte.
3. Esclusione dei legittimari pretermessi dalla categoria dei soggetti «beneficiari» della successione.
In base all’art. 63, § 1, reg. UE n. 650/2012, «Il certificato è destinato a essere utilizzato dagli eredi, dai legatari che vantano diritti diretti sulla successione e dagli esecutori testamentari o amministratori dell’eredità (Omissis)». Eredi e legatari rientrano nella categoria dei «beneficiari» della successione, la quale in base al regolamento comprende tutti i soggetti che hanno diritto ai beni della successione in forza di una disposizione a causa di morte e/o per legge. Come già detto, è la legge nazionale applicabile a stabilire chi siano i soggetti «beneficiari» della successione. Nell’ordinamento italiano la posizione consolidata della Corte di Cassazione è nel senso che il legittimario pretermesso non abbia la qualità di erede e non sia legittimato ad esercitare i diritti e a proporre le azioni che presuppongono detta qualità, fino a quando non sia passata in giudicato la sentenza che abbia accolto la sua domanda di riduzione. Il principio è stato affermato, per esempio, con riferimento alla domanda di nullità della
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divisione disposta dal testatore per preterizione di un erede necessario2, alle domande di collazione e di divisione dell’eredità3 e all’accettazione ereditaria4. Nelle more egli può agire, in qualità di terzo, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, impugnando per esempio per simulazione un atto compiuto dal de cuius5. Si può affermare, quindi, che in base al diritto italiano vivente i legittimari pretermessi non rientrano nella categoria dei «beneficiari» della successione prevista dal reg. UE n. 650/2012.
4. Segue. Inapplicabilità ai legittimari pretermessi degli strumenti di protezione riservati ai «beneficiari».
Il reg. UE n. 650/2012 distingue la posizione dei «beneficiari» della successione da quella dei soggetti semplicemente «interessati» alla medesima. I beneficiari, come sopra individuati, sono parte del procedimento volto al rilascio del certificato, nel quale rivestono la qualifica di litisconsorti necessari. Il regolamento contiene una serie di disposizioni volte ad attuare nei loro confronti il principio del contraddittorio. Viceversa gli «interessati» sono i soggetti che subiscono le conseguenze indirette dell’accertamento contenuto nel certificato. Essi sono terzi rispetto al procedimento di rilascio del certificato, ma il regolamento riconosce loro un limitato interesse ad intervenire nel procedimento medesimo. In base al diritto italiano vivente i legittimari pretermessi, non avendo la qualità di eredi, non rientrano nella categoria dei «beneficiari» della successione, bensì in quella dei terzi «interessati». Questa tesi – che costituisce la logica conseguenza della posizione assunta dalla Cassazione sulla posizione giuridica del legittimario pretermesso – si presenta coerente sul piano sistematico. I legittimari pretermessi, essendo terzi nei giudizi tra coeredi, non hanno la qualità di parte nel procedimento di rilascio del certificato successorio europeo. Non si verifica, quindi, alcuna lesione del contraddittorio a loro danno. Ciò perché la tutela della legittima è una questione di diritto sostanziale prima che di diritto processuale.
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Cfr. Cass., 22.3.2018, n. 7178, in Foro it., 2018, I, 2076 ss. Cfr., Cass., ord. 16.11.2017, n. 27160, in b.d. Pluris. 4 Cfr. Cass., 26.10.2017, n° 25441, in b.d. Pluris. 5 Cfr. Cass., 30.5.2014, n. 12221, in Notariato, 2014, 391 ss. e in Fam. e dir., 2015, 23 ss., con nota di F.S. Mattucci. 3
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Ne segue che i figli del de cuius, che siano stati pretermessi nella successione perché questi ha disposto dell’intero suo patrimonio a favore di altri, tramite donazioni e/o testamento, non sono titolari dei diritti che il regolamento riserva ai «beneficiari». Innanzitutto, essi non hanno la legittimazione a presentare la domanda del certificato, la quale, in base al combinato disposto degli artt. 65, § 1 e 63, § 1, è riservata ai soggetti che in base alla legge nazionale applicabile abbiano la qualità di eredi (ovvero di legatari, esecutori testamentari o amministratori dell’eredità). Del resto il legittimario pretermesso non potrebbe ottenere un certificato a sé favorevole, essendo a tal fine necessario il previo acquisto della qualità di erede attraverso il passaggio in giudicato della sentenza che abbia accolto l’azione di riduzione. L’assenza di legittimazione processuale in capo al legittimario pretermesso è coerente, quindi, con la natura di volontaria giurisdizione del procedimento di rilascio del certificato. Invece, i figli del de cuius a cui sia stata attribuita una quota ereditaria inferiore a quella a cui hanno diritto, sono legittimati a presentare la domanda del certificato, ma per quanto detto potranno ottenere soltanto l’accertamento della minor quota in cui il testatore li ha istituiti. Secondariamente, l’autorità di rilascio – nel nostro ordinamento, il notaio6 – non è tenuta ad informare i legittimari pretermessi in merito alla presentazione della richiesta del certificato (cfr. art. 66, § 4) o all’avvenuto rilascio del certificato (cfr. art. 67, § 2). Ciò si spiega col fatto che detti soggetti, fino a quando non abbiano esperito vittoriosamente l’azione di riduzione, sono comunque esposti al rischio che gli eredi agiscano per avere la consegna di beni ereditari o il pagamento di debiti ereditari. In ultimo, i legittimari pretermessi, non avendo il diritto di chiedere il certificato, non sono neppure legittimati a impugnare le decisioni relative al certificato dinanzi all’autorità giudiziaria (cfr. art. 72, § 1). Ciò non vuol dire che detti soggetti siano totalmente privi di tutela dinanzi ad un certificato che pregiudichi i loro diritti. Essi hanno però l’onere di proporre l’azione di riduzione per poter chiedere in quella sede la sospensione, in via cautelare, degli effetti del certificato.
5. Segue. Applicazione ai medesimi della tutela relativa ai terzi «interessati».
I legittimari pretermessi sono destinatari della tutela limitata che il regolamento riserva agli «interessati» e che si esplica nella possibilità di essere ascoltati e di muovere delle
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Cfr., sulla scelta italiana, F. Padovini, Certificato successorio europeo e autorità di rilascio italiana, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 1099 ss., spec. 1101 ss.
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contestazioni, nel corso del procedimento, e nel diritto di impugnare il certificato davanti all’autorità di rilascio e di chiederne la sospensione degli effetti. L’autorità di rilascio è infatti obbligata a procedere all’audizione degli interessati, se necessario per l’accertamento degli elementi da certificare (cfr. art. 66, § 4). Il notaio perciò dovrà riscontrare l’eventuale necessità o opportunità di procedere all’ascolto dei legittimari pretermessi. Nel contesto dell’audizione oppure autonomamente, i legittimari pretermessi potranno muovere delle contestazioni. Tuttavia, le contestazioni avanzate da questi soggetti dinanzi all’autorità di rilascio e relative al fatto che non sia stata loro attribuita la quota che per legge gli spetta non avranno efficacia ostativa del procedimento. È vero, infatti, che ai sensi dell’art. 67, § 2, lett. a), l’autorità di rilascio non emette il certificato quando «gli elementi da attestare sono oggetto di contestazione». Tuttavia, in base all’art. 67, § 1, «L’autorità di rilascio emette senza indugio il certificato secondo la procedura di cui al presente capo quando gli elementi da certificare sono stati accertati a norma della legge applicabile alla successione o di un’altra legge applicabile a elementi specifici». Non c’è dubbio che, in base alla legge italiana – così come interpretata dalla Cassazione – fino a quando l’azione di riduzione proposta dai legittimari pretermessi o lesi non sia stata accolta con sentenza passata in giudicato, questi rispettivamente o non sono eredi o lo sono nella minor quota che gli sia stata attribuita. Pertanto, mentre in presenza di contestazioni rivoltegli da altri soggetti e che non siano manifestamente infondate il notaio è tenuto a rifiutare il rilascio del certificato, non è così nel caso in cui le contestazioni siano state avanzate dai legittimari pretermessi o lesi e riguardino l’attribuzione delle quote ereditarie. In questa eventualità il rifiuto del certificato sarà rimesso al prudente apprezzamento del notaio. Fa eccezione il caso che nel corso del procedimento il legittimario pretermesso o leso abbia proposto l’azione di riduzione dinanzi all’autorità giudiziaria, così determinando il sorgere di una litispendenza sugli elementi da accertare. Ciò perché si tratta di una contestazione «forte». In questo caso il notaio non emetterà il certificato. Nel caso in cui venga emesso un certificato in presenza di una lesione della legittima, la riducibilità delle disposizioni andrà indicata nel certificato tra le «restrizioni ai diritti degli eredi», al fine di informare i soggetti a cui verrà esibito il certificato del fatto che quanto nel medesimo attestato potrebbe essere successivamente messo in discussione nel caso di eventuale accoglimento di un’azione di riduzione7. A tal fine si potrà utilizzare il campo «Altre informazioni pertinenti o spiegazioni».
7
Cfr. E. Jacoby, Le certificat successoral européen, in Semaine Juridique Notariale, 2010, comm. 1122 (con riferimento al testo della «Proposta» di regolamento).
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Certificato successorio europeo e tutela dei figli
In ultimo, i legittimari pretermessi hanno il diritto di impugnare davanti all’autorità di rilascio il certificato che pregiudichi i loro interessi e di chiederne la sospensione degli effetti (cfr. artt. 71 e 73).
6. Effetti del certificato. L’incidenza che il rilascio del certificato può avere sulla posizione successoria dei figli del de cuius apparirà chiara dopo aver esaminato, sia pur brevemente, gli effetti del certificato medesimo. Esso produce effetti uniformi negli Stati membri dell’Unione europea – con l’eccezione di Danimarca, Regno Unito e Irlanda – in modo automatico, ossia senza che occorra fare ricorso ad alcun tipo di procedimento (art. 69, § 1). Discussa è la sua natura giuridica. Secondo un’opinione, si tratta di un atto pubblico sui generis 8. Credo che esso costituisca, piuttosto, una “decisione” emanata all’esito di un procedimento non contenzioso. Infatti, il certificato – diversamente dall’atto pubblico – non garantisce, fino a querela di falso, la veridicità di quanto il pubblico ufficiale attesta dichiarato dalle parti o dalle stesse compiuto in sua presenza, ma contiene un giudizio del pubblico ufficiale medesimo (il notaio) sull’assetto della successione, formulato in esito ad un procedimento di accertamento di tipo sommario, rientrante nella volontaria giurisdizione. Ne consegue che l’accertamento dei diritti e/o dei poteri dei beneficiari (eredi, legatari, esecutori testamentari o amministratori dell’eredità) contenuto nel certificato non ha forza di giudicato9. Tant’è vero che gli interessati possono sempre chiedere la revoca o la modifica del certificato medesimo, senza limiti di tempo. Esso determina, quindi, una presunzione relativa della titolarità dello status e/o dei poteri in esso accertati, con conseguente inversione dell’onere della prova10. Colui che contesti la veridicità del contenuto del certificato ha, infatti, l’onere di impugnarlo nei modi previsti dagli artt. 71 e 72 e di provare, nel relativo procedimento, l’inesattezza delle informazioni incluse nel certificato medesimo.
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Cfr. R. Barone, Il certificato successorio europeo, in Notariato, 2013, 427 ss., spec. 433. L’assenza di definitività dell’accertamento contenuto nel certificato è evidenziata anche da S. Patti, Il certificato successorio europeo nell’ordinamento italiano, in questa Rivista, 2016, 9 ss., spec. 16. 10 Dello stesso avviso C.M. Bianca, Certificato successorio europeo: il notaio come autorità di rilascio, in Vita not., 2015, 1 ss., spec. 2. Contra S. Patti, op. cit., 15, il quale osserva che: «Alla luce degli articoli 2727-2729 c.c., può pertanto dubitarsi che ricorra lo schema della presunzione, e sembra più corretto qualificare il certificato successorio europeo nei termini di un accertamento della qualità di erede (e delle altre previste), nell’ordinamento italiano affidato al notaio, che può essere contestato dai controinteressati facendo ricorso all’autorità giudiziaria allo stesso modo in cui al giudice, ad esempio, può fare ricorso, a seguito della stipula di un atto notarile di compravendita, colui il quale ritenga errato l’accertamento della qualità di proprietario in capo al venditore». 9
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Sebbene nel considerando n. 71 sia precisato che il certificato produce (solo) effetti probatori, analizzando le norme che tutelano i terzi che abbiano confidato sull’esattezza delle informazioni contenute nel certificato si nota che esso ha anche rilevanti effetti sostanziali. Il primo di questi si deduce dall’art. 69, § 3, il quale introduce una nuova figura di «creditore apparente», consistente in colui che è indicato nel certificato come legittimato a ricevere il pagamento. Il debitore che ha pagato nelle sue mani è liberato dal proprio debito, ai sensi dell’art. 1189 cod. civ. Analogamente è a dirsi per il soggetto che consegni beni ereditari al detentore del certificato. L’effettivo erede o legatario avrà quindi l’onere di provare, in sede contenziosa, la mala fede (o la grave negligenza) di colui che ha adempiuto a favore del detentore del certificato, al fine di ottenere che l’obbligato sia tenuto ad effettuare nuovamente il pagamento o la consegna nelle sue mani. Si noti, però, che gli effetti del certificato sono limitati dal fatto che esso non costituisce titolo esecutivo (cfr. considerando n. 71). Il terzo degli effetti indicati consiste nel fatto che si introduce un nuovo caso di acquisto a non domino. Infatti, il terzo che in buona fede ha acquistato un bene da colui che nel certificato successorio europeo era indicato come legittimato a disporne si vede attribuito il diritto nonostante la carenza di legittimazione dell’alienante11.
7. Conclusioni. In conclusione, il rilascio del certificato successorio europeo può ledere l’interesse dei figli, in via di fatto, se essi non abbiano ricevuto in tutto o in parte la quota ereditaria cui hanno diritto per legge, anche in ragione degli importanti effetti sostanziali che derivano dal certificato medesimo. Se si accolga la tesi, fatta propria dalla Cassazione, secondo la quale il legittimario pretermesso non è erede fino a quando l’azione di riduzione non sia stata accolta con sentenza passata in giudicato, il figlio che si trovi in questa situazione ha una tutela debole nel procedimento di rilascio del certificato europeo.
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Su questa fattispecie v., amplius, C. Benanti, Il certificato successorio europeo: ragioni, disciplina e conseguenze della sua applicazione nell’ordinamento italiano – Parte seconda, in Nuova giur. comm. comm., 2014, II, 85 ss., spec. 93 s.
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Considerazioni sul vincolo testamentario di destinazione*
Sommario : 1. Rilievi introduttivi e impostazione dell’indagine. – 2. Costituzione diretta del vincolo di destinazione, tra silenzio del legislatore e interpretazione funzionale. – 3. Nozione di interesse meritevole, rapporto con il giudizio di liceità e fattispecie destinatoria. – 4. Principio di equipollenza delle forme testamentarie e sue declinazioni.
The doctrine agrees in believing that the content of the will is not resolved in the institution of heir and in the legate. In this renewed framework, a really important space can be occupied by the destination testamentary disposition. The paper deals with the main issues related to the topic. At the end of the investigation there is a tendency for the direct constitution of the bond, for the irrelevance of the chosen testamentary form and, more generally, for the enhancement of the testamentary autonomy that must be directed towards interests that are both legitimate and worthy.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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1. Rilievi introduttivi e impostazione dell’indagine. Tra le questioni maggiormente discusse in tema di vincolo di destinazione1, in dottrina quanto in giurisprudenza, v’è senza dubbio il vincolo avente fonte nel testamento. Preme anzitutto precisare che la fattispecie controversa concerne la costituzione c.d. diretta, vale a dire quella nella quale la disposizione testamentaria origina il vincolo, essendo pacifica la costituzione c.d. indiretta od obbligatoria, nella quale il testamento funge da fonte dell’obbligo, il quale poi sorge per effetto di un atto tra vivi.
2. Costituzione diretta del vincolo di destinazione, tra silenzio del legislatore e interpretazione funzionale.
L’analisi del vincolo di destinazione testamentario non può che muovere dalla disamina del dato normativo, la cui intelligibilità non è scevra da criticità. Infatti, la lettera della legge discorre in maniera generica di «atti in forma pubblica», senza fare alcun esplicito riferimento al negozio mortis causa. La lacunosità del dettato legislativo ha fatto sì che in dottrina e in giurisprudenza non mancasse di consolidarsi un orientamento che nega la costituibilità del vincolo attraverso una disposizione testamentaria. A sostegno di tale impostazione si osserva, in primo luogo, che il disposto normativo in esame diverge da figure capaci di generare una destinazione e/o separazione, per le quali è fatto preciso richiamo alla costituzione per via testamentaria. Gli istituti evocati sono, come è noto, la fondazione (art. 14 c.c.), il fondo
1
Si rammenta che inizialmente l’art. 2645-ter c.c., introdotto con il d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in l. 23 febbraio 2006, n. 51, ha occasionato un acceso dibattito circa la sua natura giuridica. In particolare, poi, assai discussa era la valenza sostanziale della disposizione di legge, con la giurisprudenza che assumeva una posizione contraria. Sul punto v. Trib. Trieste, 7 aprile 2006 (in Riv. not., 2007, 367, con nota di Matano; in Trusts, 2006, 417; in Nuova giur. civ. comm., 2007, 524 ss., con nota di Cinque; in Notariato, 2006, 539 ss., con nota di Alessandrini Calisti). Quest’ultimo, per primo ha escluso la possibilità di individuare un contenuto sostanziale nella norma in oggetto, ravvisando nella stessa la statuizione di «un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione», il quale quindi non potrebbe che accedere a un diverso negozio avente causa propria; il giudice, infatti, non rileva alcuna disciplina specifica in detta «anomala disposizione normativa», con la conseguente inidoneità della stessa a configurare un nuovo tipo di atto ad effetti reali. Contro tale ricostruzione v. per tutti M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter c.c. notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, 187; G. Oberto, Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, in AA.VV., I contratti di destinazione patrimoniale, a cura di R. Calvo e A. Ciatti, 2014, 145 ss., per il quale «[s]e è vero […] che la formulazione della norma non è felice né precisa, ciò non sembra sufficiente a consentire all’interprete di ignorare le tracce di disciplina sostanziale […] in essa disseminate dal legislatore, sì da obliterarne l’evidente intento di delineare, sia pure in modo tanto rozzo, i contorni di un distinto istituto giuridico». Cfr. altresí V. Corriero, Autonomia negoziale e vincoli negli atti di destinazione patrimoniale, Napoli, 2015, 12, secondo la quale «il legislatore ha commesso un errore topografico, collocando una norma dal chiaro tenore sostanziale non nel luogo appropriato, ossia il libro IV, intitolato Delle obbligazioni, ma nel libro VI, intitolato Della tutela dei diritti». La stessa Corte di Cassazione ha riconosciuto la portata sostanziale della norma in Cass., ord. 25 febbraio 2015, n. 3886, rinvenibile su www.ilcaso.it, ove si afferma che l’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. è «un atto con effetto tipico, reale, perché inerente alla qualità del bene che ne è oggetto, sia pure con contenuto atipico purché rispondente ad interessi meritevoli di tutela, assurgendo per questo verso a norma sulla fattispecie».
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Considerazioni sul vincolo testamentario di destinazione
patrimoniale (art. 167 c.c.) e il trust (in argomento, si veda l’art. 2 Conv. dell’Aja 1° luglio 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364)2. Non sorprenda, allora, come da taluno sia stato affermato che il silenzio del legislatore deve essere interpretato «come un chiaro intento di escludere il testamento dal novero degli atti idonei a svolgere il ruolo di fonte negoziale del vincolo di destinazione»3, con l’inevitabile corollario di ammettere la (sola) possibilità di costituire il vincolo unicamente mediante atto pubblico inter vivos. Questa autorevole dottrina ha anche chiarito che il sintagma «atti in forma pubblica» non si presta a ricomprendere, alla stregua di un rapporto tra genus e species, il testamento pubblico, in ragione di una insanabile differenza strutturale tra gli atti tra vivi aventi contenuto patrimoniale e il testamento4. Tra gli argomenti addotti a sostegno della tesi che nega la costituzione testamentaria del vincolo è stata ravvisata anche la collocazione dell’art. 2645-ter c.c. In particolare, si è rilevato che tale disposto normativo si trova in posizione mediana tra la norma che disciplina la trascrizione del contratto preliminare (art. 2645-bis c.c.) e la norma che disciplina la trascrizione del contratto di divisione (art. 2646 c.c.), inferendosi, pertanto, da ciò che il legislatore intendesse circoscrivere l’utilizzabilità dell’istituto ai soli negozi tra vivi. Sempre poi muovendo da lacune di matrice codicistica, si è rilevata l’assenza di una norma analoga all’art. 2647, ult. cpv., c.c., che disciplina la trascrizione del vincolo derivante dal fondo patrimoniale costituito per testamento, e la mancata modifica dell’art. 2648 c.c., concernente – come è noto – la trascrizione dell’accettazione di eredità e dell’acquisto del legato, la cui mancanza precluderebbe di rintracciare la disposizione che legittima la trascrizione del vincolo costituito con atto mortis causa, svuotando di senso il ricorso all’istituto ove non possa assicurarsene l’opponibilità, vigendo nell’ordinamento il principio di tassatività delle forme e dei casi di pubblicità5. Le ragioni di contrarietà ad un vincolo di destinazione testamentario sono – come si è visto – molteplici, e tutte o quasi muovono dai lemmi adoperati dal legislatore. Un indice preclusivo è stato ad esempio individuato nell’inciso che attribuisce la legittimazione ad agire per la realizzazione del fine di destinazione in primo luogo «al conferente», al quale segue la precisazione che gli altri interessati possiedono la medesima legittimazione
2
M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., Padova, 2010, 195. 3 M. Ieva, La trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche (art. 2645-ter c.c.) in funzione parasuccessoria, in Riv. not., 2009, 1297, il quale a sua volta rinvia ad A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter, in Riv. not., 2007, 510. 4 In questi termini si esprime, sostanzialmente M. Ieva, o.c., 1297, il quale aggiunge che «la sussunzione del testamento pubblico nel genus atto pubblico sembra, come si suol dire, un argomento che prova troppo: bisognerebbe trarre come conseguenza che da quando sono ammissibili le costituzioni di società a responsabilità limitata e di società per azioni con unico socio (artt. 2463 e 2328 c.c.) dovrebbero potersi costituire srl e spa unipersonali con testamento pubblico. Un tentativo di approdare a tale risultato è stato fatto, ma i consensi riscossi sono stati, come è noto, alquanto limitati». 5 Così A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione, cit., 511.
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«anche durante la vita del conferente stesso». La dottrina che ha analizzato tale fraseggio normativo ha sottolineato come il legislatore sembri presupporre l’esistenza in vita dell’autore della destinazione, rendendo di fatto un non-senso una disposizione testamentaria costitutiva del vincolo6. Accanto a motivazioni che si reggono sulla littera della legge, la tesi che nega l’ammissibilità di un vincolo di destinazione disposto per testamento principia dall’incompatibilità tra meritevolezza dell’interesse perseguito ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c. e testamento. Secondo tale linea di pensiero, infatti, il negozio mortis causa non potrebbe essere subordinato al giudizio di liceità di cui all’art. 1322, co. 2, c.c., atteso che a tale giudizio sarebbero soggetti i contratti e gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (ai sensi dell’art. 1324 c.c.) e non anche il testamento7. La tesi negatrice testè riportata è riuscita a valicare la giurisprudenza, ed in particolare è stata fatta propria dal Tribunale di Roma8, il quale ha dichiarato inefficace il vincolo di destinazione costituito mediante testamento pubblico sottoposto al suo vaglio, aggiungendo, agli argomenti letterali e sostanziali di cui si è dapprima dato conto, la necessità di interpretare il silenzio del legislatore quale esclusione di ammissibilità della fattispecie costitutiva mortis causa. È importante notare come tale giudicante non abbia ritenuto di poter procedere ad un’interpretazione estensiva della disposizione, dal momento che «attraverso l’atto di destinazione ex art. 2645-ter si deroga al principio della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. e, dunque, non appare consentita un’interpretazione estensiva, oltre i limiti tracciati dalla norma»9. Le argomentazioni della tesi che nega la costituzione diretta mortis causa del vincolo ex art. 2645-ter c.c. non appaiono persuasive. Va anzitutto rilevato che all’interno della categoria degli “atti in forma pubblica” non sembrano sussistere ragioni per negare posto al testamento, quale «atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse» (art. 587 c.c.)10.
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S. Bartoli, Riflessioni sul «nuovo» art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Giur. it., 2007, 700 ss. 7 A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione, cit., 512. 8 Trib. Roma, 18 maggio 2013, con nota critica di R. Calvo, Vincolo testamentario di destinazione: il primo precedente dei tribunali italiani, in Fam. dir., 2013, 783 ss.; M.F. Giorgianni, N.Fibbi, Riflessioni sull’ammissibilità del vincolo di destinazione costituito per testamento, in Rivista Notarile, 4/2013, 3 ss.; A. Azara, La disposizione testamentaria di destinazione, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 83 ss.; C. Romano, Vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645 ter c.c.: spunti per ulteriori riflessioni, in Notariato, 2014, 63 ss. 9 Una condivisibile disamina della sentenza è svolta da A. Fusaro, Prospettive di impiego dell’atto di destinazione per i conviventi, in Riv. not., 2014, 1, il quale critica la sentenza affermando che «tanta fedeltà alla legge è indubbiamente commendevole, ma poco coerente con la linea interpretativa ad oggi prevalsa presso le corti, dal momento che in tema di patrimoni autonomi è stato sin qui complessivamente osservato l’opposto canone ermeneutico. Basti pensare all’atteggiamento di grande favore che è stato riservato al cosiddetto trust interno, ma anche all’apertura verso l’impiego dell’atto di destinazione per congiunture che non coinvolgevano incapaci». 10 In tal senso A.A. Carrabba, Testamento e destinazione patrimoniale (l’art. 2645 ter c.c. e il momento negoziale), in Riv. not., 2014, 1124, il quale rileva che «il testamento risulta definito nell’art. 587 c.c. dallo stesso legislatore proprio come atto»; V. Barba, Disposizione testamentaria di destinazione, in Il Foro Napoletano, 2016, 333, per il quale, anzi, «l’uso dell’espressione “atti”, in una norma come
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Considerazioni sul vincolo testamentario di destinazione
Anzi, proprio il generico richiamo agli atti in forma pubblica esplicita la volontà del legislatore di favorire il requisito formale rispetto alla natura del negozio, senza porre in essere alcuna irragionevole discriminazione11. A tacer del resto, quando il legislatore ha inteso vietare una qualche disposizione testamentaria lo ha fatto espressamente, come accade nell’art. 2821 c.c. che vieta la costituzione di ipoteca per testamento12. Venendo poi al certamente più rilevante tema della ricerca della disposizione normativa che ne legittimi la trascrizione, è stato affermato che l’assenza di riferimento all’interno dell’art. 2648 c.c. è dovuta a un mero difetto di coordinamento, superabile attraverso il richiamo ivi contenuto ai nn. 1), 2) e 4) dell’art. 2643; si è chiarito che «l’effetto di separazione patrimoniale costituisce, infatti, un minus, rispetto a quello traslativo della proprietà o costitutivo di diritti reali»13, e pertanto non sussiste alcun motivo per escluderne la trascrivibilità, la quale è allora possibile in virtú dei predetti riferimenti normativi14.
quella in parola, è quanto mai appropriato, perché ha la capacità e la forza di raccogliere, in unità, la pluralità di singoli tipi di atti giuridici, con i quali la destinazione può, in concreto, essere realizzata (negozio unilaterale inter vivos, contratto, atto di ultima volontà, testamento)». 11 Per R. Calvo, Vincolo testamentario di destinazione, cit., 787, il riferimento agli “atti in forma pubblica” «non può realisticamente legittimare alcuna discriminazione tra negozi inter vivos e di ultima volontà, se non ricorrendo a infecondi arbitri oppure ad invasioni di campo e di competenze (la cui rigorosa delimitazione permette di separare il potere deliberante da quello giudicante)». Nello stesso senso cfr. G. Perlingieri, Il controllo di «meritevolezza» degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in Il Foro Napoletano, 2014, 91; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 164, secondo il quale «non si riesce a rinvenire un’adeguata giustificazione di tale disparità di trattamento, posto che nulla sembra distinguere gli atti a causa di morte rispetto agli atti tra vivi, sotto il profilo dell’effetto de quo»; R.S. Bonini, Destinazione di beni ad uno scopo, cit., 71, secondo la quale «escludere la forma testamentaria equivale a legittimare una discriminazione tra atti inter vivos e atti mortis causa che non appare assolutamente giustificabile». 12 A.A. Carrabba, Testamento e destinazione patrimoniale, cit., 1124. 13 F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, in Fam. pers. succ., 2011, 387; in tal senso v. anche F. Patti, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter c.c., in Vita not., 2006, 983. 14 Esistendo nella fattispecie in esame una duplicità di effetti, traslativo e destinatorio, è necessaria una doppia trascrizione: a) l’una a carico del defunto e in favore dell’assegnatario, ai sensi dell’art. 2648 c.c., per pubblicizzare la cessione del bene; b) l’altra a carico dell’assegnatario, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., per determinare l’effetto separativo (in tal senso G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 192; F. Patti, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter c.c., cit., 988 ss.; S. Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano, 2011, 264 ss. Sostiene invece che la trascrizione ex art. 2645-ter c.c. debba essere effettuata contro l’attributario e a favore del beneficiario U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., in Riv. not., 2007, cit., 1069 ss.). La presunta difficoltà di consentire la seconda trascrizione in virtú dell’atto mortis causa può essere superata ricordando che il c.d. principio di tassatività non riguarda gli atti, ma gli effetti suscettibili di pubblicizzazione, giacché «oggetto della pubblicità immobiliare non è di per sé l’atto, quanto il suo effetto, nel senso che la trascrizione dell’atto è solo strumentale al fine dell’opponibilità ai terzi della vicenda circolatoria che all’atto si ricollega» (Trib. Trieste, giud. tav., 23 settembre 2005, cit., 83). Pertanto, se la destinazione di beni a uno scopo è un effetto ormai acquisito dall’ordinamento in conseguenza dell’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c., il titolo in virtú del quale si produce detto effetto dovrebbe essere sottratto dalla rigidità del sistema pubblicitario, con la conseguenza che, a prescindere che si tratti di un atto inter vivos o mortis causa, sarà possibile procedere con la relativa trascrizione ai sensi della norma citata. Con riferimento al principio di tipicità, riferibile agli effetti e non agli atti, cfr. F.M. Del Bene, Acquisti mortis causa, trascrizione e apparenza, Milano, 2000, 27 ss.: «si ritiene comunemente che la trascrizione abbia ad oggetto il mutamento giuridico (trasferimento del diritto di proprietà, costituzione di diritti reali, ecc.) e come questo venga pubblicizzato in quanto influente direttamente sulla legittimazione a disporre del soggetto contraente; ai terzi, infatti, interessa conoscere se e che cosa possono acquistare, trattando con il disponente, ovvero sia se e di cosa egli sia legittimato a disporre. Questo principio è valido anche per le successioni, quindi per gli acquisti a titolo di erede o di legato, in relazione, rispettivamente, alla posizione dell’erede o del legatario. Il richiamo alla “legittimazione a disporre”, ci permette di comprendere come la trascrizione non possa riguardare il titolo – di erede o di legato – in sé considerato, ma soltanto l’acquisto di beni determinati, singolarmente individuati. […] Si deve, perciò, sceverare l’oggetto della trascrizione dal titolo per la stessa: ciò che si trascrive è l’effetto giuridico – acquisto –; il fatto giuridico – accettazione, per l’eredità, il testamento, per il legato – costituisce il titolo in base al quale si effettua la trascrizione».
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Si diceva che i sostenitori della tesi negativa intravedevano un argomento capace di suffragare la loro posizione nell’attribuzione al disponente della legittimazione ad agire. Tale rilievo non può avere valenza universale, in quanto esso può solo fare riferimento a una delle molteplici configurazioni della vicenda destinatoria, e precisamente quella in cui essa sia disposta per atto tra vivi, ma ciò non può di per sé escludere la possibilità che il programma trovi attuazione dopo la morte del disponente. Si consideri, inoltre, che là dove la destinazione trovi fonte in un atto inter vivos, la morte del suo autore non può incidere sulla sopravvivenza del vincolo, con la conseguenza che, analogamente all’ipotesi di costituzione mortis causa, il potere di agire per l’effettiva realizzazione del fine destinatorio sarà demandato agli eredi (e agli altri interessati)15. La confutazione della tesi negativa inevitabilmente passa per il superamento di quello che è stato definito «l’argomento piú spinoso»16, il vero nodo gordiano dell’intera fattispecie di cui all’art. 2645-ter c.c., vale a dire la presunta inconciliabilità tra canone di meritevolezza di interessi e disposizioni di ultima volontà.
3. Nozione di interesse meritevole, rapporto con il giudizio di liceità e fattispecie destinatoria.
A questo punto dell’indagine, si deve affrontare il vero banco di prova della tematica, consistente nella definizione di interesse meritevole di tutela. Tale disamina, tra l’altro, è strumentale a perimetrare i margini entro i quali può estrinsecarsi l’autonomia testamentaria17.
In
proposito rileva quanto affermato da L. Ferri - P. Zanelli, La trascrizione immobiliare, in Comm. cod. civ. A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1995, 262 «la lettera della legge non ci deve dunque trarre in inganno: la formula “trascrivere l’accettazione (dell’eredità) che importa acquisto ecc.” va risolta nell’altra “trascrivere l’acquisto dell’eredità sulla base dell’accettazione”». 15 Proprio in detto inciso A.C. Di Landro, I vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. Alcune questioni nell’interpretazione di dottrina e giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 2014, cit., 743, ha ravvisato un elemento normativo a sostegno dell’ammissibilità del vincolo testamentario di destinazione, consistente nella previsione per cui «i terzi interessati possono agire per l’attuazione del fine anche durante la vita del conferente; il che evidentemente implica la possibilità che essi agiscano anche dopo la morte del medesimo» (corsivi originali). Invero, come arguito da A.A. Carrabba, Pianificazione successoria, disposizioni testamentarie e destinazioni, Pianificazione successoria, disposizioni testamentarie e destinazioni, in Aa.Vv., Libertà di disporre e pianificazione ereditaria”, Atti del 11° Convegno Nazionale, 5-6-7 maggio 2016, (Grand Hotel Vesuvio - Napoli), Napoli, 2017, 458, «negare l’ammissibilità di una destinazione patrimoniale strutturata per testamento implicherebbe […] una incoerenza sistematica. Sarebbe possibile destinare un patrimonio per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela per un lunghissimo periodo di tempo dopo la propria morte attraverso un atto inter vivos e non sarebbe possibile raggiungere lo stesso risultato attraverso il veicolo testamentario. Siffatto veicolo, rispetto a una diversa strutturazione della destinazione patrimoniale, aggiungerebbe, a ben vedere, un termine di efficacia iniziale, proponibile peraltro anche nel negozio non di ultima volontà, che non sembra di per se stesso poter essere elemento decisivo per una soluzione negativa della considerata problematica». 16 In questi termini, C. Romano, Vincolo testamentario di destinazione, cit., 74. 17 Sul rapporto tra autonomia privata e testamento v., tra gli altri, G. Bonilini, Autonomia negoziale e diritto ereditario, in Riv. not., 2000, 797 e A. Natale, In tema di autonomia privata nel diritto ereditario, in Fam. pers. succ., 2011, 10, 645 ss., il quale sottolinea che i princípi enunciati agli artt. 41 e 42 Cost. rappresentano le linee guida anche in materia di diritto ereditario, ferma l’esigenza di individuare le modalità con cui realizzare la trasmissione della titolarità del patrimonio. Per una disamina di sistema, v. P. Perlingieri,
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Il concetto di meritevolezza dell’interesse compare nelle fonti legislative solo col codice vigente. La ragione di ciò, come autorevolmente rilevato18, risiede nella propensione ad assecondare il dirigismo economico del regime totalitario fascista, che mirava ad improntare i rapporti privatistici alla tutela di preminenti interessi pubblicistici. In altri termini, il regime aveva bisogno di esplicitare anche normativamente le proprie direttive. Non deve stupire, allora, che di interesse meritevole nella predetta accezione vi sia traccia non solo nell’art. 1322 c.c., dove è più marcato il riferimento a una funzione socialmente apprezzabile, ma anche nell’art. 1379 c.c., in tema di divieto convenzionale di alienazione, e nell’art. 1411 c.c., nell’ambito del contratto a favore di terzo. A fronte di tale indicazione legislativa, va segnalato che fino ai primi anni del ventunesimo secolo la giurisprudenza è stata a dir poco refrattaria nel recepire tale spunto, ritenendo bastevole il giudizio di liceità per gli atti di autonomia privata, senza doverne anche verificare l’utilità sociale. Il trend è mutato in tempi recenti, potendosi ragionevolmente affermare che si è assistito a un generale revirement, dovuto non da ultimo all’influsso della Costituzione sul diritto civile. Si pensi, ad esempio, alle vicende che hanno interessato il contratto di finanziamento “4 you”19 in materia di intermediazione finanziaria o ancora al controverso tema delle clausole claims made20. La traiettoria contemporanea sembra dunque suggerire la distinzione tra liceità e meritevolezza. In argomento, pare utile ricordare come già il giurista romano Paolo ritenesse che «non omne quod licet honestum est», con ciò evocando una diversità tra i concetti di lecito e meritevole. Il tema presenta certamente un notevole fascino e – prima di verificare in cosa consista la meritevolezza destinatoria dell’art. 2645-ter c.c.21 – impone di effettuare qualche generale notazione sui rapporti tra meritevolezza e atto di ultima volontà.
La funzione sociale del diritto successorio, in Rass. dir. civ., 2009, 135 ss. G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, I, 321. 19 Il riferimento è alle complesse fattispecie negoziali autonome, riconducibili alla categoria degli strumenti finanziari, ex art. 1, comma 2, lett. j, d. lg. 24 febbraio 1998, n. 58; cosí li definisce, Cass., 3 febbraio 2012, n. 1584, in Banca borsa tit. cred., 2013, 2, 153, con nota di F. Accettella, Ancora sui contratti di collocamento di strumenti finanziari conclusi fuori sede ex art. 30, comma 6°, t.u.f. Sul punto v. Trib. Brindisi, 8 luglio 2008, n. 489, in Giur. merito, 2008, 3113 ss., con nota di V. Sangiovanni, Il caso «my way» e il contratto aleatorio unilaterale; Trib. Brindisi, 21 giugno 2005, in Contratti, 2006, 884 ss., con nota di V. Velluzzi, «4 you»: c’è «spazio» per il contratto immeritevole di tutela? 20 Il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura assicurativa è subordinata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un successivo arco temporale circoscritto, qualora sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema loss occurrence o di «insorgenza del danno», sul quale è conformato il modello delineato nell’art. 1917 c.c., la copertura assicurativa opera in relazione a tutte le condotte potenziali fonti di domande risarcitorie, realizzate durante il periodo contrattuale. Cfr. in Banca borsa tit. cred., 2016, 656, con nota di P. Corrias, La clausola claims made al vaglio delle Sezioni unite: un’analisi a tutto campo. Nella dottrina, v. R. Calvo, Clausole claims made fra meritevolezza e abuso secondo le sezioni unite, in Corr. giur., 2016, 921. Nel senso che non occorre un vaglio di meritevolezza, v. Cass., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437. 21 Si v., nella letteratura più recente, la densa e puntuale pagina di C. Cicero, La meritevolezza nei negozi di destinazione, in Riv. not., 2018, 6, 1327 ss. 18
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Deve anzitutto premettersi che la tesi che esclude l’assoggettabilità delle disposizioni testamentarie al controllo di meritevolezza del loro contenuto (ex art. 1322, co. 2, c.c.)22 si fonda su una peculiare lettura dell’art. 1324 c.c., a mente della quale il riferimento ivi previsto ai soli atti unilaterali tra vivi precluderebbe l’applicazione delle norme che regolano il contratto anche al negozio testamentario. Prima di analizzare la condivisibilità o meno di tale affermazione, è possibile rilevare che il testamento è sí negozio dotato di una disciplina normativa autonoma, ma ciò non esclude che si possa fare ricorso a norme che, pur essendo dedicate al contratto, siano compatibili con esso, allo scopo di completarne la disciplina23. Sul punto, si condivide la posizione di quella dottrina24 che ha affermato che, da un lato, è necessario che vi sia un dialogo reciproco tra libro II e libro IV del c.c. «che tenga conto della possibile affinità qualitativa degli interessi protetti con il singolo atto dispositivo», e, dall’altro, occorre riconoscere l’unitarietà del controllo di liceità e di meritevolezza degli atti di autonomia negoziale, consistente «in un giudizio di conformità dell’atto di autonomia all’ordine pubblico costituzionale», sí che non potrà ravvisarsi una limitazione della libertà di testare nell’applicazione, anche in sede testamentaria, del divieto di perseguire interessi illeciti ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c.25 Si intuisce che il problema del vincolo di destinazione disposto per testamento è quello del se per esso si richieda un giudizio di meritevolezza della destinazione che si risolve nel giudizio di liceità o se, invece, esso reclami un quid pluris rispetto al giudizio di liceità, con l’evidente conseguenza di decretare, aderendo all’una o all’altra impostazione, il successo o l’insuccesso dell’istituto. L’ulteriore passaggio è quello di verificare se tale vaglio incida o meno sulla validità della disposizione testamentaria destinatoria, ovvero se rilevi solamente ai fini dell’opponibilità della medesima.
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In questo senso, per tutti, G. Bonilini, voce Testamento, in Dig. IV. Sez., civ., vol. XIX, Torino, 1999, 343, secondo il quale la disposizione di cui all’art. 1322, cpv. c.c., non sarebbe applicabile al testamento, in quanto alla libertà testamentaria sarebbe riservato uno spazio insuscettibile di verifica in termini di socialità dell’intenzione e dello scopo. Già in G. Bonilini, La prelazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1984, I, 247, l’A. aveva espresso il suo pensiero per cui, il fatto che il testamento abbia scontato a livello legislativo il giudizio di liceità, non richiederebbe la verifica concreta della dimensione sociale della singola disposizione. 23 Nel senso indicato nel testo è R. Calvo, Recensione a F. Sangermano, Presupposizione e causa nel negozio testamentario, in Rass. dir. civ., 2013, 624 ss., il quale rileva che «l’art. 1324 c.c. anziché impedire l’estensione delle regole enumerate nel quarto libro ai negozi mortis causa, intende semplicemente stabilire che esse sono direttamente applicabili agli atti unilaterali tra vivi privi di una disciplina ad hoc. Stando così le cose, il riferimento esplicito agli atti tra vivi si giustifica in quanto il testamento è dotato di uno statuto normativo autonomo; ma l’additata autonomia non implica autosufficienza», ben potendo trovare applicazione «talune regole dedicate al contratto in quanto compatibili con la natura del negozio di ultima volontà». 24 G. Perlingieri, La revocazione delle disposizioni testamentarie e la modernità del pensiero di Mario Allara. Natura della revoca, disciplina applicabile e criterio di incompatibilità oggettiva, in Rass. dir. civ., 2013, 766. 25 All’uopo R. Calvo, Recensione a F. Sangermano, cit., 624, afferma che «tollerare l’eventuale “frivolezza” del testatore non significa […] che l’ordinamento debba assecondare le sue strategie antisociali» con la conseguenza che «la meritevolezza dell’interesse funge da nervatura mediana degli atti di gestione del patrimonio (arg. ex art. 2 cost.) orientando l’autodeterminazione dei singoli in funzione della sua equilibrata coesistenza con gli interessi generali».
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Quanto al primo interrogativo, di recente si è sostenuto che l’art. 2645-ter c.c. legittima la trascrizione di ogni atto di destinazione il cui fine non sia contrario a una norma imperativa, così da far coincidere i giudizi e i concetti di liceità e meritevolezza26. Tale prospettiva convince poco. L’incentivo all’autonomia privata non può essere sganciato da un rapporto di comparazione tra gli interessi in gioco, di guisa che alcuni – reputati prevalenti – vengano valorizzati in luogo degli altri che vengono sacrificati. La meritevolezza si deve perciò apprezzare in chiave assiologica, non arrestandosi al giudizio di non illiceità. In questo senso, e venendo al secondo interrogativo sopra riferito, l’esito negativo del giudizio di meritevolezza non andrà ad incidere sulla validità dell’atto, ma ne impedirà (solamente) l’opponibilità, con conseguente inefficacia della separazione patrimoniale, con l’ovvia precisazione che un tale giudizio andrà effettuato quando il creditore vorrà far valere le proprie ragioni, contrastanti con la destinazione impressa sui beni27. In altri termini, la disposizione testamentaria che istituisce una destinazione patrimoniale lecita e meritevole ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c., ma non meritevole ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. – giudizio, quest’ultimo, diverso da quello di cui all’art. 1322, co. 2, c.c., al quale è sottoposto ogni negozio, tipico o atipico che sia28 –, determinerà comunque l’effetto destinatorio, senza però produrre l’ulteriore effetto separativo nel patrimonio del soggetto assegnatario dei beni vincolati. Qui si pone un ulteriore quesito in ordine al soggetto incaricato di effettuare il sindacato di meritevolezza. In tema, le prospettive percorribili paiono ridursi a due soltanto. Se certamente è ipotizzabile che un tale compito venga svolto dal giudice, non è peregrino prefigurare un vaglio ad opera del notaio29. Nella consapevolezza che un tale scenario
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A. Guarneri, voce Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg., XI, Torino, 2018, 353. V. Barba, Disposizione testamentaria di destinazione, cit., 346, «Se la meritevolezza di destinazione serve soltanto ai fini della separazione, il superamento di questo controllo non tocca la validità della disposizione, ma la sola opponibilità e il notaio che dovesse ricevere la disposizione testamentaria, ove pure al momento dell’apertura della successione, il vincolo di destinazione fosse incapace di superare il vaglio di meritevolezza di cui all’art. 2645 ter c.c., avrà confezionato, pur sempre, una valida disposizione testamentaria». Contra, R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contr. impr., 2006, 1746, che all’esito del negativo controllo della meritevolezza dell’interesse propone l’operatività della disciplina di cui all’art. 1424 c.c., in materia di conversione del negozio nullo; M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., 205, ricollega l’interesse meritevole al profilo della validità dell’atto di destinazione. 28 Si è osservato, inoltre, che se i due giudizi di meritevolezza coincidessero, il principio di responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c. sarebbe svuotato dall’opponibilità ai creditori di ogni atto non illecito. In questi termini, G. Perlingieri, Il controllo di “meritevolezza” degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in Foro nap., 2014, 63; F. Gigliotti, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 373. 29 In merito alla diversa competenza dei controlli attinenti alla fattispecie in esame, cfr. G. Perlingieri, Il controllo di “meritevolezza” degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., 94 ove si legge che «il pubblico ufficiale che accerti la liceità e la meritevolezza dell’operazione ex art. 1322 c.c. (la sua validità ed efficacia inter partes) non può rifiutare il proprio ministero, anche qualora la destinazione dovesse apparire inidonea a configurare la separazione patrimoniale. Si pone invece a carico del notaio, in qualità di professionista (art. 1176, co. 2, c.c.), l’obbligo di informare le parti della probabile non meritevolezza, ex art. 2645-ter, dell’atto sul piano dell’opponibilità ai terzi. Tuttavia, la competenza sulla meritevolezza dell’art. 2645-ter spetta prevalentemente al giudice e non al notaio, né tanto meno ai «conservatori (data la tassatività delle ipotesi di legittimo rifiuto di cui all’art. 2674 c.c.)”».
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adombra il superamento del controllo di (stretta) legalità incombente sul professionista ex art. 28 l. not.30, pare ragionevole gravare quest’ultimo dell’obbligo di rendere edotto il disponente del difetto di opponibilità del vincolo di destinazione (solo) lecito31. Rimarcata la differenza tra liceità e meritevolezza32, nel senso che la prima è presupposto della seconda, occorre definire la cifra qualitativa della meritevolezza. Parte della dottrina ritiene che il passaggio da un interesse lecito ad un interesse meritevole di tutela richieda la sussistenza di una finalità di utilità pubblica33, se non proprio di uno scopo solidale34. Una autorevole dottrina notarile ritiene invece che l’interesse suscettibile di destinazione possa essere assimilabile ad altro che trova regolamentazione nel nostro ordinamento35. Dal canto suo la giurisprudenza36 sembra allinearsi a quella copiosa dottrina37, secondo la quale l’interesse meritevole di tutela non può essere egoistico e riferibile al conferente, tacciando come inammissibili le ipotesi in cui coincidono le figure di conferente e beneficiario ovvero anche di cessionario del bene e beneficiario. In queste situazioni, l’assenza di un interesse meritevole di tutela condurrebbe ad un difetto di causa nella costituzione del vincolo e alla conseguente declaratoria di nullità del medesimo38. Il quadro è assai variegato e allo stato pare difficile affermare quale impostazione risulti al contempo prevalente e preferibile. Si può però sottolineare un aspetto: il successo della fattispecie destinatoria ex art. 2645-ter c.c., se non può contentarsi per le ragioni suindicate di un vaglio di liceità, non può nemmeno reclamare il riscontro di una meritevolezza che – ritenendo sussistente tale carattere solo per quegli interessi ritraibili dal dettato costituzionale –, ne restringa l’area di operatività al punto di esautorarla del tutto. Occorre allora pervenire a un equilibrio che favorisca un adeguato contemperamento degli opposti
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A. Gentili, Atti notarili «proibiti» e sistema delle invalidità, in Riv. dir. priv., 2005, 255 ss.; G. Perlingieri, Funzione notarile e clausole vessatorie. A margine dell’art. 28 l. 16 febbraio 1913, n.89, in Rass. dir. civ., 2006, 825. 31 C. D’Aprea, Negozi di destinazione: ruolo e responsabilità del notaio, in Riv. not., 2011, 824 ss. 32 G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico,Milano, 1966, 406. 33 M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., 208 ss. 34 F. Gazzoni, Osservazioni sull’art.2645 ter cod. civ., in Giust.Civ., 2006, 2, 170. 35 G.A.M. Trimarchi, Gli interessi riferibili a persone fisiche in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata. Atti del convegno, in I quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 2007, 274. Per un’ampia elencazione degli interessi perseguibili, v. anche AA. Vv., Studio Civilistico del Consiglio Nazionale del Notariato n. 357/2012/C, Atti di destinazione Guida alla redazione, 45 ss 36 In tema, almeno Trib. Santa Maria Capua Vetere ord. 6 marzo 2014, ord. 28 novembre 2013; Trib. Bari 23 maggio 2014, Trib. Trieste dec. 7 aprile 2006; Trib. Reggio Emilia ord. 12 maggio 2014, dec. 27 gennaio 2014, dec. 26 novembre 2012, dec. 22 giugno 2012, ord. 23-26 marzo 2007. 37 F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter cod. civ., cit., 175; M. Bianca, M. D’Errico, A. De donato, c. Priore, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, Milano, 2006, 29; G.A.M. Trimarchi, Gli interessi riferibili a persone fisiche in Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata. Atti del convegno, in I quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, cit., 268. Contra, invece, M. Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., 187 ss. 38 F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter cod. civ., cit., 175; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, 2, 177; contra M. Bianca, M. D’Errico, A. De donato, c. Priore, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, cit., 23, i quali lo ritengono valido ma senza effetto segregativo e senza opponibilità ai terzi.
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interessi, senza indulgere in aprioristiche prese di posizione che confinerebbero l’istituto nell’area dell’irrilevanza. Prescelta la prospettiva per cui il testatore può procedere recta via alla costituzione diretta mortis causa del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., l’interprete è posto dinanzi a un altro, non meno rilevante, quesito. È da verificare, infatti, se rimanga operante il principio di equipollenza delle forme testamentarie ovvero se, in subiecta materia, il campo di applicazione della fattispecie vada circoscritto al testamento pubblico.
4. Principio di equipollenza delle forme testamentarie e sue declinazioni.
Il quesito nasce dalla formula «atti in forma pubblica» impiegata dal legislatore nella norma in discorso, rendendo necessario precisare la funzione assolta dalla forma solenne nel nostro istituto. In altri termini, v’è da chiedersi se l’atto pubblico sia necessario ai fini della validità del negozio (forma ad substantiam) ovvero se il requisito di forma sia prescritto solo per rendere l’atto trascrivibile e, dunque, opponibile ai terzi (forma ad transcriptionem). Nel senso da ultimo indicato si muove chi argomenta dalla collocazione sistematica della norma, appunto inserita nel titolo dedicato alla trascrizione39, nonché sulla base della formula impiegata dal legislatore secondo cui gli atti in forma pubblica «possono essere trascritti», come a dire che la forma sia richiesta unicamente per l’eventualità che si voglia opporre ai terzi un vincolo già efficace inter partes40. Parte della dottrina ha giustificato il ricorso al testamento pubblico quale strumento di bilanciamento delle istanze dei terzi, stante il carattere reale del vincolo che si imprime sui beni, senza che ciò precluda un atto testamentario di destinazione in forma diversa, avente tuttavia effetti (meramente) obbligatori inter partes41. Di contrario avviso è altra dottrina, la quale sostiene che la forma pubblica sia richiesta per la validità dell’atto di destinazione. Gli studiosi che aderiscono a tale impostazione osservano che la collocazione della disposizione non ne impedisce la qualificazione nei termini di norma di fattispecie, con la conseguenza che «tutti gli elementi che la disposizione indica sono elementi sostanziali e tra questi v’è pure la forma»42.
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In tal senso Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in ReForo it., 2007, voce Trascrizione, nn. 55-57. M. Manuli, L’art. 2645-ter. Riflessioni critiche, cit., 386; R.S. Bonini, Destinazione di beni ad uno scopo, cit., 106, secondo la quale «la norma sembra confermare che un “vincolo di destinazione” possa già in qualche senso dirsi validamente costituito tra le parti, pur non essendo lo stesso ancora opponibile ai terzi». 41 G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 164. 42 M. Ceolin, Il punto sull’art. 2645 ter a cinque anni dalla sua introduzione, in Nuova giur. civ. com., 2011, 371. 40
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A suffragio di tale ricostruzione si è aggiunto che il legislatore impone la forma pubblica ad substantiam «non solo quando si voglia garantire la pubblica fede ed il controllo di legalità dell’atto, ma anche quando si voglia assicurare un esame approfondito della volontà delle parti, mirando alla protezione dei terzi e delle parti stesse»43, circostanza che risulta essenziale nella fattispecie in commento, stante la complessità e la rilevanza degli interessi coinvolti. Il problema della forma del vincolo di destinazione disposto per testamento, tuttavia, non sembra posto nei giusti termini. A dire il vero, nella fattispecie in discorso è necessario distinguere l’effetto destinatorio dall’effetto separativo e verificare per quale di essi il dettato normativo reclama il requisito formale. Mentre il primo è il risultato dell’obbligo assunto dal disponente di beneficiare un soggetto terzo delle utilità ricavabili dal bene, il secondo presuppone la trascrizione dell’atto e la sua conseguente opponibilità erga omnes44. Il dato normativo sembra allora richiedere la forma pubblica soltanto al fine di far acquisire alla destinazione valenza esterna, vale a dire al fine di poter procedere con la relativa trascrizione, e non anche per la valida assunzione dell’obbligo di destinazione. V’è poi una notazione sistematica, in quanto non è pensabile che la facoltatività disposta dal legislatore (là dove afferma che «gli atti in forma pubblica […] possono essere trascritti») riguardi la trascrivibilità dell’atto notarile, sì da contrastare con l’art. 2671 c.c., ma deve giocoforza riferirsi alla configurazione che il disponente intende imprimere all’operazione negoziale45, la quale varierà a seconda che si sia scelta la forma pubblica, idonea alla costituzione della fattispecie di cui all’art. 2645-ter c.c., ovvero un’altra forma, idonea a produrre effetti destinatori inter partes46. La forma pubblica, pertanto, funge da requisito necessario non già della destinazione, quanto invece per dar vita alla separazione patrimoniale di cui all’art. 2645-ter c.c. Bisogna ora trasporre tale affermazione in àmbito testamentario, al fine di verificarne le ricadute nell’ipotesi al vaglio. In argomento, la dottrina prevalente47 ritiene che la fattispecie in discorso costituisca un’eccezionale deroga al principio di equipollenza delle forme
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F. Patti, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter c.c., cit., 982. Si rammenti, infatti, che il risultato della segregazione patrimoniale «reclama non soltanto l’opponibilità del vincolo, ma anche una scelta legislativa, la quale stabilisca, oltre all’inefficacia dei diritti dei terzi acquistati sul bene, o sui beni vincolati, anche la separazione di quello, o di quelli, dal patrimonio del suo autore», così V. Barba, Negozî post mortem ed effetti di destinazione. Interferenze con la disciplina dei legittimari: la riduzione delle liberalità indirette, in Riv. dir. priv., 2016, 54. 45 In tal senso G. Palermo, I negozi di destinazione nel sistema di diritto positivo, in Rass. dir. civ., 2011, 90; M. Ceolin, Il punto sull’art. 2645 ter a cinque anni dalla sua introduzione, cit., 371, il quale tuttavia evidenzia come il vincolo di destinazione valido solo inter partes è riconducibile «ad altre regole – segnatamente agli artt. 1322 e 1379 cod. civ. – restando del tutto estraneo il disposto dell’art. 2645 ter»; S. Bartoli, Riflessioni sul «nuovo» art. 2645 ter c.c., cit., 5, secondo il quale «un negozio qualificato come “negozio di destinazione” ma non contenuto in un atto pubblico, pertanto, non trovando il supporto di alcuna diversa disposizione normativa dovrebbe, a tutto concedere, esser ritenuto nullo e/o eventualmente venire riqualificato come negozio fiduciario». 46 Per S. Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, cit., 66, «un negozio di destinazione a rilevanza solo obbligatoria (in quanto privo dell’effetto di separazione) appare “altro” rispetto al nuovo istituto introdotto dalla norma in esame». 47 In tal senso v. per tutti G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, cit., 336; F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, cit., 387; A. Azara, La disposizione testamentaria di destinazione, cit., 87. 44
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testamentarie, dal momento che il tenore letterale della disposizione circoscriverebbe le opzioni percorribili dal costituente. Tale eccezionale deroga viene ad essere giustificata osservando che l’intervento del notaio deve ritenersi ineludibile – anche in sede di costituzione mortis causa del vincolo – dovendosi assicurare e realizzare il controllo di legalità degli interessi perseguiti48, il riscontro di una consapevole volontà destinatoria49 ed anche al fine di una corretta redazione dell’atto di destinazione50. Si rileva, inoltre, che l’intervento notarile nella fase genetica della formazione del vincolo di destinazione non potrebbe essere proficuamente posticipato alla pubblicazione del testamento olografo, per l’ovvia ragione che in tale momento il pubblico ufficiale accerta l’esistenza di una volontà privata51 e non è possibile alcuna interlocuzione in ordine al riscontro della meritevolezza dell’interesse destinatorio. La perentorietà di tale conclusione desta qualche perplessità. Si è detto, in precedenza, che la forma pubblica non è richiesta ai fini della validità dell’atto di destinazione, bensí per la sua trascrizione, e dunque per l’opponibilità del vincolo. Il testamento non pubblico che contenesse la disposizione destinatoria deve ritenersi quanto meno idoneo a generare una destinazione valida ed efficace nei confronti dei soggetti da essa direttamente coinvolti, vale a dire l’assegnatario dei beni e il beneficiario della destinazione. È possibile, però, compiere un ulteriore sviluppo. Infatti, si consideri che il principio di equipollenza delle forme testamentarie conduce ad ammettere un fondo patrimoniale e una fondazione disposti in un testamento olografo o segreto, quando nella contrattazione tra vivi il legislatore reclama – pena l’invalidità dell’atto – la forma pubblica. Pare pertanto del tutto irragionevole l’approccio volto a configurare, nell’ipotesi in esame, una deroga al principio di equipollenza delle forme52, priva di una giustificazione razionale.
48
A.C. Di Landro, I vincoli di destinazione ex art. 2645ter c.c., cit., 743; F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, cit., 387, afferma che «si richiede l’intervento del notaio, perché verifichi la sussistenza del requisito di meritevolezza» (ritenuto dall’autore coincidente con il giudizio di liceità). 49 C. Romano, Il trust e l’atto di destinazione testamentario, cit., 194, il quale rileva che in detto frangente «l’attività di adeguamento del notaio si palesa piú delicata in quanto la vicenda destinatoria si proietta in un tempo in cui il conferente testatore, avendo cessato di vivere, non potrà verificare la compiuta attuazione del vincolo». 50 F. Patti, Gli atti di destinazione e trust nel nuovo art. 2645 ter c.c., cit., 983. 51 Così A. De Donato, Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in AA.VV., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, Milano, 2007, 46, il quale sostiene che «il testamento olografo non sembra poter supportare quella affidabilità richiesta nella fase genetica della formazione del vincolo di destinazione, in relazione al particolare rilievo che l’ordinamento riconosce al ministero notarile, caratterizzato da quella terzietà ed imparzialità che, esperita l’indagine della volontà del testatore e la conseguenziale attività di informazione e chiarimento in ordine al contenuto precettivo ed agli effetti della disposizione testamentaria, possa conformare la stessa all’indirizzo normativo fissato dall’articolo in esame». 52 In tal senso cfr. R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., 1725, nota n. 25, per il quale «nel nostro ordinamento […] appare assolutamente incontestabile il principio dell’assoluta fungibilità delle forme testamentarie e non pare che, in relazione alla materia della destinazione patrimoniale, esso possa essere messo in discussione»; né, secondo l’a., sarebbe necessario garantire il controllo notarile al momento della redazione, poiché «se tale fosse la preoccupazione, essa dovrebbe sussistere in relazione a tutta una serie di altri atti in cui parimenti sarebbe opportuno servirsi di un professionista qualificato. Basti pensare, al riguardo, proprio all’ipotesi del negozio di fondazione », la cui costituzione testamentaria è indubbiamente ammissibile «qualunque sia la forma prescelta». Nello stesso senso A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione, cit., 513,
453
Francesco Meglio
Un tale approccio, per altro verso, comprime la libertà di testare e muove da una valutazione astratta di inadeguatezza, senza tener conto della concreta disposizione redatta dal testatore e in particolare della sua rispondenza all’art. 2645-ter c.c.53 Per quanto detto, non sembrano sussistere valide ragioni per ritenere derogato il principio di equipollenza delle forme testamentarie nel vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. disposto per testamento.
il quale, pur manifestando perplessità in merito alla liceità del vincolo testamentario di destinazione, afferma che «appare piú corretta un’interpretazione estensiva dell’inciso “atti in forma pubblica” che riconosce la liceità di una costituzione del vincolo di destinazione anche attraverso lo strumento del testamento olografo e del testamento segreto, facendo appello alla regola, non codificata nel nostro ordinamento, di equiparazione, sotto il profilo dell’efficacia, di tutte le forme testamentarie». A tal fine cfr. altresí G. Perlingieri, Il controllo di “meritevolezza” degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., 81, nota n. 79; V. Barba, Disposizione testamentaria di destinazione, cit., 331, nota n. 15. 53 Del resto, si ricordi che in sede di costituzione del vincolo di destinazione al notaio compete il generale controllo di conformità dell’atto alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (essendo il controllo di meritevolezza ex art. 2645-ter c.c. esterno al negozio di destinazione), con la conseguenza che non sussiste alcuna ragione per assoggettare la disposizione in esame a un trattamento differente rispetto a qualunque altra disposizione mortis causa, subordinata, dopo la pubblicazione del testamento, all’ordinaria indagine di validità del suo contenuto.
454
Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2019, n. 1887; Schirò Presidente - Iofrida Relatore Stato di abbandono – Adozione – Ascolto del minore Il giudizio sulla situazione di abbandono deve fondarsi su una valutazione quanto più possibile legata all’attualità, considerato il versante prognostico.
(Omissis)
que non significative), emergeva una situazione
Fatto. La Corte d’appello di Roma, Sezione
di disagio in entrambi i minori, anche se per il
per i minorenni, con sentenza n. 2922/2017, ha
più piccolo meno grave, nonché comportamenti
confermato la sentenza del novembre 2016 del
materni disfunzionali nella cura, anche elementa-
Tribunale per i minorenni che - all’esito di una
re, dei figli ed il rifiuto sistematico del sostegno
prima procedura, di verifica della responsabilità
pubblico (soprattutto per due episodi verificatisi
genitoriale, avviata, con affidamento temporaneo
nell’aprile e nel maggio 2014 in ambito scolasti-
esclusivo dei minori ai servizi sociali e loro inseri-
co, che avevano coinvolto il minore F., che, suc-
mento in una struttura pubblica, nel 2014 (con un
cessivamente, non era stato più portato a scuola
ritardo di quattro mesi, a causa dell’irreperibilità
dalla madre); allo stato, non vi era, quanto alla
dei minori, fatti allontanare dalla madre), definita
madre, alcun segnale di recupero della capacità
con provvedimento di “non luogo a provvede-
genitoriale, gravemente compromessa (apparen-
re”, e di un successivo procedimento avviato, su
do la stessa “affetta da un disturbo della persona-
richiesta del PM, nel dicembre 2015 - ha dichia-
lità, di tipo paranoideo”, strutturato nel tempo),
rato lo stato di adottabilità dei minori R.F., nato il
e, anche ove possibile, lo stesso recupero richie-
(omissis) da R.S. e padre che non aveva effettuato
derebbe tempi talmente lunghi da essere incom-
il riconoscimento, e di G.F., nato il (omissis), da
patibile con le esigenze dei due minori.
R.S. ed G.A., con divieto di rapporti tra i minori ed i parenti.
La Corte d’appello ha osservato, inoltre, che non era fondata la doglianza relativa alla mancata
La Corte d’appello ha evidenziato che, dal-
convocazione di uno zio materno dei minori, non
la documentazione in atti (in particolare: la Re-
avendo quest’ultimo mai manifestato, per tutto il
lazione del T.S.M.R.E.E. del maggio 2014, con
giudizio di primo grado, alcuna volontà di man-
successivo aggiornamento trasmesso alla Corte
tenere un rapporto effettivo e costante con i mi-
d’appello; una Relazione redatta dagli operatori
nori, con i quali la frequentazione si era protratta
dei servizi sociali, a seguito dell’inserimento dei
per un breve periodo e quindi non esistevano
minori in una Casa Famiglia, con un’articolata va-
rapporti significativi, e non essendo, oltretutto,
lutazione, protrattasi da marzo a novembre 2015,
neppure ipotizzabile un collocamento dei minori
che aveva coinvolto, i minori, la madre, il padre
presso lo stesso zio, che attualmente viveva, per
di Francesco, uno zio materno; le dichiarazioni
lavoro, a Pordenone. Anche la censura inerente
rese dalla R., nel corso del giudizio), non effica-
al mancato ascolto dei minori è stata respinta,
cemente contrastata dalla documentazione pro-
avendo la Corte territoriale rilevato che gli stes-
dotta dalla R. (dichiarazioni rese da conoscenti,
si, infradodicenni, erano stati sentiti ed esaminati
genitori di ex compagni di classe dei figli, etc...,
dal Centro Bambini nel Tempo e che non era ob-
prive di valenza probatoria formale e comun-
bligatorio o opportuno disporre la loro audizione
455
Giurisprudenza
dinanzi al Collegio; in ultimo, si rilevava che non
sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c., in relazione all’o-
era neppure percorribile l’ipotesi di mantenere
messo ascolto dei minori, in violazione e/o falsa
la responsabilità genitoriale in capo al padre di
applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., della L. n.
Francesco, assente volutamente dalla vita del fi-
184 del 1993, art. 15, comma 2, art. 12 Conven-
glio dal dicembre 2014, in mancanza di impu-
zione di New York del 20 novembre 1989, art. 6
gnazione, da parte dello stesso della sentenza di
Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1986;
primo grado.
4) con il quarto motivo, la violazione e/o falsa
Avvero la suddetta sentenza, comunicata via
applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., della L. n. 184
PEC il 4 maggio 2017, R.S. propone ricorso per
del 1983, art. 12, in relazione alla mancata con-
cassazione, con atto notificato il 31 maggio 2017,
vocazione dello zio materno, denunciando altresì
affidato a quattro motivi, nei confronti del Comu-
un vizio di motivazione circa l’assenza di rapporti
ne di Roma, in persona del Sindaco p.t. e della
significativi tra quest’ultimo ed i minori.
delegata Dott.ssa C.S., quale tutore dei minori R.F. e G.F. (che resiste con controricorso), e di G.A. (che non svolge attività difensiva e nei cui confronti la notifica è stata effettuata, tramite UG, il 7 giugno 2017, a seguito di un primo tentativo, in data 29 maggio 2017, non andato a buon fine per trasferimento del destinatario), oltre che del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Roma. È stata accolta istanza di sollecita definizione del procedimento. La ricorrente ha depositato memoria. Diritto. 1. La ricorrente lamenta,: 1) con il primo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., della L. n. 1984 del 1983, artt. 1 e 8, in relazione al mancato accertamento della irreversibilità della situazione di disagio rilevata a carico dei minori e della sussistenza del-
2. I primi tre motivi, che possono essere unitariamente trattati, sono fondati. 2.1. La Corte d’appello ha evidenziato, sulla base della documentazione in atti (i verbali delle udienze, le relazioni redatte dal TSMREE tra il 2015 ed il 2017), che la R., incapace di comprendere la situazione di disagio dei figli e le loro esigenze di sviluppo equilibrato, tanto da negarne la stessa sussistenza, abbia rifiutato ogni sostegno ed aiuto (anche attraverso un percorso psicoterapeutico) offertole dai servizi sociali e dal TSMREE. Anzi, la Corte d’appello ha rilevato che l’abbandono del percorso di valutazione terapeutica comprovasse ulteriormente le difficoltà personali della ricorrente e la presenza, nella sua psiche, di una “perdurante divaricazione fra la realtà dei fatti e la sua interpretazione soggettiva”.
lo stato di abbandono, non avendo la Corte, tra
Il fatto che essa avesse iniziato, dal gennaio 2017,
l’altro, dato rilievo al percorso avviato, con l’aiuto
un ciclo di sedute da una psicologa, non appar-
di una psicologa, dalla R., in assenza, oltretut-
tenente a struttura pubblica, risultava insufficien-
to, di iniziative di sostegno pubblico al recupero
te, tardivo e strumentale: “la laconica attestazione
della capacità genitoriale della madre; 2) con il
della Dott.ssa F. non consente una valutazione
secondo motivo, la violazione e/o falsa applica-
del percorso che si dice essere in corso, né tanto
zione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., della L. n. 184 del
meno se un qualche obiettivo e beneficio psico-
1993, art. 15, comma 2, art. 12 Convenzione di
logico sia stato raggiunto ovvero sia raggiungibi-
New York del 20 novembre 1989, 6 Convenzione
le ed in quali tempi con riferimento al recupero
di Strasburgo del 25 gennaio 1986, in relazione
delle competenze genitoriali”.
al mancato ascolto dei minori, capaci di discer-
Ad avviso della Corte territoriale, non era
nimento; 3) con il terzo motivo, la nullità della
dunque ipotizzabile un recupero delle capacità
456
Mario Renna
genitoriali della R. con tempistiche compatibili
un più grave pregiudizio ed assicurargli assisten-
con le necessità dei minori.
za e stabilità affettiva (Cass. 7115/2011).
2.2. In generale, questa Corte ha costantemen-
Il giudizio sulla situazione di abbandono deve
te ribadito che il giudice di merito, nell’accertare
fondarsi su una valutazione quanto più possibi-
lo stato di adottabilità di un minore, deve in pri-
le legata all’attualità, considerato il versante pro-
mo luogo esprimere una prognosi sull’effettiva
gnostico. Il parametro, che ci perviene anche dai
ed attuale possibilità di recupero, attraverso un
principi elaborati dalla Corte di Strasburgo (cfr. in
percorso di crescita e sviluppo, delle capacità e
particolare la sentenza del 13 ottobre 2015 caso
competenze genitoriali, con riferimento, in primo
S.H. contro Italia), è divenuto un principio fermo
luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di
anche nella giurisprudenza di legittimità, come
un progetto, anche futuro, di assunzione diret-
può rilevarsi dalla pronuncia n. 24445 del 2015:
ta della responsabilità genitoriale, caratterizzata
“In tema di adozione del minore, il giudice, nella
da cura, accudimento, coabitazione con il mino-
valutazione della situazione di abbandono, quale
re, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed
presupposto per la dichiarazione dello stato di
avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali
adottabilità, deve fondare il suo convincimento
(Cass. n. 14436/2017).
effettuando un riscontro attuale e concreto, ba-
Il diritto del minore di crescere nell’ambito
sato su indagini ed approfondimenti riferiti alla
della propria famiglia d’origine, considerata l’am-
situazione presente e non passata, tenendo conto
biente più idoneo al suo armonico sviluppo psi-
della positiva volontà di recupero del rapporto
cofisico, è tutelato dalla L. n. 184 del 1983, art. 1,
genitoriale da parte dei genitori”.
ragione questa per cui il giudice di merito deve,
Solo un’indagine sulla persistenza e non solo
prioritariamente, tentare un intervento di soste-
sulla preesistenza della situazione di abbandono,
gno diretto a rimuovere situazioni di difficoltà o
svolta sulla base di un giudizio attuale, in par-
disagio familiare e, solo quando, a seguito del
ticolare quando vi siano indizi di modificazioni
fallimento del tentativo, risulti impossibile preve-
significative di comportamenti e di assunzione
dere il recupero delle capacità genitoriali entro
d’impegni e responsabilità da parte dei genitori
tempi compatibili con la necessità del minore di
biologici, può condurre ad una corretta valuta-
vivere in uno stabile contesto familiare, è legit-
zione del parametro contenuto nella L. n. 184 del
tima la dichiarazione dello stato di adottabilità
1983, art. 8 dovendosi tenere conto del diritto del
(Cass. 22589/2017; Cass. 6137/2015).
minore a vivere nella propria famiglia di origine,
Ne consegue che, per un verso, compito del servizio sociale incaricato non è solo quello di ri-
così come indicato nella L. n. 184 del 1983, art. 1 (Cass. 22934/2017).
levare le insufficienze in atto del nucleo familiare,
In particolare, la norma, anche alla luce della
ma, soprattutto, di concorrere, con interventi di
progressiva elaborazione compiuta dalla giuri-
sostegno, a rimuoverle, ove possibile, e che, per
sprudenza di legittimità e dai principi introdotti
altro verso, ricorre la “situazione di abbandono”
dalla Corte Europea dei diritti umani, fissa rigo-
sia in caso di rifiuto ostinato a collaborare con i
rosamente il perimetro all’interno del quale deve
servizi predetti, sia qualora, a prescindere dagli
essere verificata la sussistenza della condizione
intendimenti dei genitori, la vita da loro offerta
di abbandono. Si deve trattare di una situazio-
al figlio sia inadeguata al suo normale sviluppo
ne non derivante esclusivamente da condizioni
psico-fisico, cosicché la rescissione del legame
di emarginazione socio economica (disponendo
familiare è l’unico strumento che possa evitargli
l’art. 1 che siano intraprese iniziative di soste-
457
Giurisprudenza
gno nel tempo della famiglia di origine), fondata
e potenzialità non si disinteressa dei figli ed è
su un giudizio d’impossibilità morale o materia-
profondamente legata agli stessi. Emerge altresì
le caratterizzato da stabilità ed immodificabilità,
un rapporto conflittuale tra la stessa R. ed i servi-
quanto meno in un tempo compatibile con le esi-
zi sociali, i quali sono stati con lei rigidi e severi,
genze di sviluppo psicofisico armonico ed ade-
non offrendole il necessario sostegno (calibrato
guato del minore, non dovuta a forza maggiore
sulla situazione psicologica della medesima) nel
o a un evento originario derivante da cause non
percorso di recupero delle capacità genitoriali.
imputabili ai genitori biologici (cfr. sentenza Ce-
La sentenza di appello non sviluppa adeguate
du Akinnibuson contro Italia sentenza del 16 lu-
e convincenti argomentazioni sull’inidoneità del-
glio 2015), non determinata soltanto da compor-
la madre, sull’impossibilità del recupero in tempi
tamenti patologici ma dalla verifica del concreto
ragionevoli della situazione e sull’adeguatezza/
pregiudizio per il minore (Cass. 7193 del 2016).
inadeguatezza dell’apporto di sostegno fornito
Da ultimo, questa Corte ha chiarito che “in
dai servizi, in una situazione di forte criticità dei
tema di adozione di minori d’età, sussiste la si-
rapporti tra la R., la quale aveva dimostrato di
tuazione d’abbandono, non solo nei casi di ri-
essere consapevole del proprio stato psicologico
fiuto intenzionale dell’adempimento dei doveri
di forte disagio e di volere cooperare, sia pure
genitoriali, ma anche qualora la situazione fami-
attraverso il ricorso ad una psicologa privata, ed i
liare sia tale da compromettere in modo grave
Servizi sociali; si aggiunga che la R. aveva docu-
e irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico
mentato di avere una buona posizione lavorativa,
del bambino, considerato in concreto, ossia in
di avere trovato un nuovo compagno, disposto
relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche
a prendersi cura dei minori; in un tale contesto,
fisiche e psicologiche, alla sua età, al suo grado
la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica
di sviluppo e alle sue potenzialità; ne consegue
è stata dalla corte territoriale respinta, stante la
l’irrilevanza della mera espressione di volontà
sufficienza della relazione svolta dagli operatori
dei genitori di accudire il minore in assenza di
della Casa Famiglia e l’atteggiamento non colla-
concreti riscontri” (Cass.4097/2018; conf. Cass.
borativo tenuto dalla R..
26624/2018, in ordine alla irrilevanza della dispo-
La decisione impugnata non spiega dunque
nibilità, meramente dichiarata, a prendersi cura
per quale ragione l’adozione, nella specie, co-
dei figli minori, che non si concretizzi in atti o
stituirebbe l’unico strumento utile ad evitare ai
comportamenti giudizialmente controllabili, tali
minori un più grave pregiudizio ed ad assicurare
da escludere la possibilità di un successivo ab-
loro assistenza e stabilità affettiva.
bandono).
2.4. La Corte d’appello, in ordine poi all’a-
2.3. La Corte d’Appello ha esaminato la ca-
scolto dei due minori, infradodicenni, al mo-
pacità genitoriale della madre ed ha formulato
mento del giudizio di appello ( F., 11 anni, Fr.,
un giudizio radicalmente negativo sulla volontà
otto anni), ha rilevato che: il quadro probatorio
della stessa di recupero del rapporto genitoria-
esaminato evidenziava “un grave disagio a carico
le, sulla base essenzialmente dell’insuccesso del
di entrambi i minori, i quali, a proprio modo,
programma di sostegno alla genitorialità (inter-
hanno chiesto e continuano a chiedere segnali
rotto dalla ricorrente).
di stabilità e serenità, invece trovando una madre
Tuttavia, emerge altresì dagli atti che la sign.ra
focalizzata su sentimenti di rancore verso le isti-
R., la quale ha sicuramente delle difficoltà psico-
tuzioni, inaffidabile, pericolosamente altalenante
logiche e caratteriali, nei limiti delle sue capacità
nei comportamenti, manipolatrice, rabbiosa, de-
458
Mario Renna
nigrante, senza la minima effettiva attenzione alle
del gravame è tenuto a procedere alla sua audi-
loro esigenze”; su incarico giudiziale, è stata ese-
zione, “riflettendo tale obbligo una nuova consi-
guita, da marzo a novembre 2015 (con successivo
derazione del minore quale portatore di bisogni
aggiornamento trasmesso alla Corte d’appello nel
ed interessi che, se consapevolmente espressi,
2017), un’articolata valutazione da parte del Cen-
pur non vincolando il giudice, non possono es-
tro Bambini nel Tempo e dalla relativa relazione,
sere ignorati”.
a seguito di una serie di incontri, che avevano
Vero che la L. n. 184 del 1983, art. 15, laddove
anche coinvolto i minori, emergeva uno stato di
statuisce che il minore di età inferiore ai dodi-
sofferenza e di disagio emotivo; l’ascolto degli
ci anni, se capace di discernimento, deve essere
stessi, da parte del Collegio, non era obbligato-
sentito in vista della dichiarazione di adottabilità,
rio, essendo i minori infradodicenni, e neppu-
conferisce al giudice un potere discrezionale di
re opportuno, essendo stati comunque gli stessi
disporne l’ascolto, anche al fine di verificarne la
sentiti dalla struttura sociale incaricata.
capacità di discernimento, senza tuttavia imporgli
Come chiarito da questa Corte (Cass. 6129/2015),
di motivare sulle ragioni dell’omessa audizione,
l’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 della
salvo che la parte abbia presentato una specifica
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è
istanza con cui abbia indicato gli argomenti ed i
divenuta un adempimento necessario nelle proce-
temi di approfondimento, ex art. 336-bis, com-
dure giudiziarie che li riguardino ed, in particolare,
ma 2, c.c., su cui ritenga necessario l’ascolto del
in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai
minore (Cass. 5676/2017); invero, può sempre il
sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del
giudice indicare specificamente la sussistenza di
25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003,
particolari ragioni che ne sconsiglino l’audizio-
nonché dell’art. 315’bis cod. civ. (introdotto dalla
ne, ove essa possa essere dannosa per il minore
L. n. 219 del 2012) e degli artt. 336’bis e 337’octies
stesso, tenuto conto, altresì, del suo grado di ma-
cod. civ. (inseriti dal D.L.vo n. 154 del 2013, che
turità (Cass. 3319/2017); l’audizione del minore
ha altresì abrogato l’art. 155’sexies cod. civ.), cosic-
infradodicenne, capace di discernimento, implica
ché “l’ascolto del minore di almeno dodici anni, e
l’obbligo del giudice di specifica e circostanziata
anche di età minore ove capace di discernimento,
motivazione – tanto più necessaria quanto più
costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di rico-
l’età del minore si approssima a quella dei do-
noscimento del suo diritto fondamentale ad essere
dici anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale
informato e ad esprimere le proprie opinioni nei
dell’ascolto – non solo se ritenga il minore in-
procedimenti che lo riguardano, nonché elemento
fradodicenne incapace di discernimento ovvero
di primaria importanza nella valutazione del suo
l’esame manifestamente superfluo o in contrasto
interesse”.
con l’interesse del minore, ma anche qualora il
L’obbligatorietà dell’ascolto (Cass. 15365/2015)
giudice opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un
del minore, che abbia compiuto dodici anni ‘o
ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o
anche di età inferiore, se capace di discernimen-
demandato ad un esperto al di fuori di detto in-
to’ in vista della dichiarazione di adottabilità,
carico, (Cass. 12957/2018, in tema, peraltro, non
esprime un principio che, benché inserito nella
di adozione, ma di separazione e di provvedi-
disciplina del giudizio di primo grado, va esteso
menti correlati di affidamento dei minori).
al giudizio di adottabilità nel suo complesso, co-
Nella specie, la Corte d’appello ha succinta-
sicché, ove l’adottando abbia compiuto i dodici
mente concluso nel senso della non necessità
anni al tempo del giudizio di appello, il giudice
(stante la documentazione acquisita, dalla quale
459
Giurisprudenza
emergeva come i minori erano stati sentiti dai
“in tema di dichiarazione dello stato di adotta-
tecnici/esperti incaricati, nel corso del giudizio di
bilità del minore, i genitori dell’adottando, ove
adottabilità) e della non opportunità di procede-
esistenti, sono le sole parti necessarie e formali
re all’ascolto dei due minori. Ma proprio perché
dell’intero procedimento e quindi litisconsorti ne-
si trattava di minori di undici (attualmente 13)
cessari anche nel giudizio di appello, quand’an-
ed otto anni (attualmente dieci), capaci di discernimento anche se affetti da varie problematiche psicologiche, risultava necessario procedere al loro ascolto, anche considerato che l’ultima relazione aggiornata della Casa Famiglia, i cui opera-
che in primo grado non si siano costituiti, nonché unici soggetti a dover essere obbligatoriamente sentiti, poiché la convocazione dei parenti entro il quarto grado è richiesta solo in mancanza dei
tori avevano proceduto a sentire la madre con i
genitori e sempre che tali familiari abbiano rap-
minori, risaliva al 2015.
porti significativi con il minore, sicché, ove i ge-
3. La quarta censura è infondata.
nitori del minore siano stati già sentiti nel corso
Con riguardo alla presenza ed alla disponibi-
del giudizio, la mancata audizione di parenti en-
lità a prendersi cura dei minori dello zio materno
tro il quarto grado (nella specie, la nonna mater-
(fratello della ricorrente), la Corte territoriale ha
na), per di più in difetto di specifiche indicazioni
rilevato che lo stesso non aveva mai mostrato nè
circa la sussistenza di rapporti significativi intrat-
una significativa relazione con i minori né alcuna
tenuti con il minore, non può avere conseguenza
disponibilità ad occuparsi dei minori (trovandosi, peraltro, lontano per esigenze di lavoro) n a sopperire alle carenze materne (non avendo mai manifestato, in occasione degli incontri con il servizio sociale, “la volontà, il desiderio o l’intenzione di chiedere l’affidamento dei nipoti”, né avendo impugnato la decisone d primo grado o avendo spiegato intervento in appello).
alcuna sulla legittimità del procedimento”. La valutazione espressa dalla Corte territoriale risulta pertanto, sul punto, conforme ai predetti principi di diritto ed esente da vizio di omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 n. 5 c.p.c. 4. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento dei primi tre motivi del ricorso, respinto il
Ora, questa Corte ha precisato che “lo stato di
quarto motivo, va cassata la sentenza impugnata,
abbandono dei minori non può essere escluso in
con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’appello
conseguenza della disponibilità a prendersi cu-
di Roma, in diversa composizione. Il giudice del
ra di loro, manifestata da parenti entro il quarto
rinvio provvederà anche alla liquidazione delle
grado, quando non sussistano rapporti significa-
spese del presente giudizio di legittimità.
tivi pregressi tra loro ed i bambini, e neppure possano individuarsi potenzialità di recupero dei rapporti, non traumatiche per i minori, in tempi compatibili con lo sviluppo equilibrato della loro personalità” (Cass. 9021/2018; Cass. 3915/2018, ove si evidenzia che il giudizio debba essere
P.Q.M. La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso, respinto il quarto, cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, alla
espresso sulla base di dati oggettivi, quali l’os-
Corte d’appello di Roma in diversa composizio-
servazione da parte dei servizi sociali). In ordine
ne. Dispone che, ai sensi dell’art. 52,D.L.vo n. 198
poi alla necessità di convocazione, nel giudizio
del 2003 siano omessi le generalità e gli altri dati
di adottabilità, dei parenti entro il quarto grado,
identificativi, in caso di diffusione del presente
questa Corte ha affermato (Cass. 15369/2015) che
provvedimento.
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Lo stato di abbandono nell’adozione: oggettività e interesse del minore* Sommario : 1. Il fatto e i profili giuridici; 2. L’abbandono come fattispecie oggettiva; 3. I vincoli procedimentali e la dichiarazione di adottabilità; 4. Stato di abbandono e interesse esclusivo del minore.
The paper intends to examine the state of child abandonment during legal adoption procedures with reference to the ruling of the Court of Cassation. In accordance with the supranational and Italian rules on family and children’s rights, it is necessary to find objective parental unfitness before declaring the state of adoptability.
1. Il fatto e i profili giuridici. La Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza n. 2922/2017, emessa dalla Corte d’appello di Roma, in virtù della quale veniva decretato, conformemente a quanto deciso dal giudice di prime cure, lo stato di adottabilità di due minori. La sentenza della Corte d’appello di Roma, comunicata via PEC il 4 maggio 2017, aveva evidenziato una situazione di disagio per i minori, nonché comportamenti materni disfunzionali nella cura degli stessi, oltre che il rifiuto da parte della madre del sostengo pubblico. Tali indici pregiudicavano il recupero della capacità genitoriale; inoltre, il giudice di secondo grado aveva reputato infondata la doglianza della madre ricorrente circa la mancata convocazione di uno zio materno, poiché questi non aveva mai manifestato una concreta volontà di mantenere un rapporto costante con i minori. Ancora, la Corte d’appello aveva ritenuto non obbligatorio e non opportuno disporre una audizione dei minori infradodicenni; infine, aveva escluso di mantenere la responsabilità genitoriale in capo al padre di uno dei minori, deliberatamente incurante nei confronti del minore stesso (così come evinto dalla mancata impugnazione della sentenza di primo grado).
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Giurisprudenza
Il ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello ha puntato a contestare la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1 e 8 l. n. 184/1983 (sin d’ora, l. ad.), circa il mancato accertamento della reversibilità della situazione di disagio patita dai minori e, quindi, della non configurabilità dello stato di abbandono. Quanto diversamente statuito dalla Corte d’Appello veniva contestato anche alla luce di un percorso riabilitativo avviato dalla madre con l’ausilio di una psicologa, così rimarcando, d’altro lato, l’assenza di idonee misure di sostegno pubblico pur previste dalla l. ad. (v. spec. art. 1, co. 2, l. ad.). La ricorrente, inoltre, lamentando il mancato ascolto dei figli minori capaci di discernimento, ha insistito per la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 15, co 2, l. ad., dell’art. 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, nonché dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, e ha conseguentemente chiesto la nullità della sentenza. L’ultima doglianza si è appuntata attorno alla mancata convocazione dello zio materno, con conseguente violazione dell’art. 12 l. ad. Dinanzi alla doglianza attinente la mancata integrazione dello stato d’abbandono, la Corte di Cassazione ha ricordato che l’accertamento dello stato di adottabilità del minore deve passare attraverso un giudizio attuale e prognostico circa l’effettiva possibilità di recupero delle capacità genitoriali1. Tale valutazione è strettamente connessa al diritto del minore a crescere e vivere nell’ambito della propria famiglia d’origine; diversamente, ove ciò sia impossibile, poiché conclamato attraverso riscontri fattuali chiari e precisi2, si legittima la dichiarazione di adottabilità3. L’interpretazione dell’art. 8 l. ad., anche per come affinatasi in seno alla giurisprudenza convenzionale4, deve tendere a una valutazione reale dello stato di abbandono. Esso non corrisponde a un contesto di mera emarginazione socio-economica, né discende dal mero rifiuto di esercitare la responsabilità genitoriale, ma deve tradursi in un’impossibilità morale e materiale stabile e insuperabile, tale da porre a repentaglio lo sviluppo armonico del minore5. Tale ricostruzione ha consentito alla Corte di Cassazione di censurare quanto disposto dai giudici d’appello, poiché essi non hanno offerto convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre a curare i figli, sull’impossibilità del recupero della medesima in tempi ragionevoli e sulla reale funzionalità dell’apporto fornito dai servizi sociali. La Corte di Cassazione, pertanto, cassa la decisione impugnata, in quanto “non spiega dunque per quale ragione l’adozione, nella specie, costituirebbe l’unico strumento utile ad evitare ai minori un più grave pregiudizio ed ad assicurare loro assistenza e stabilità affettiva”.
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Tale principio è espresso da Cedu, S.H. c. Italia, 13 ottobre 2015. Nella giurisprudenza domestica, v. Cass., sez. I, 29 settembre 2017, n. 22934; Cass., sez. I, 9 giugno 2017, n. 14436; Cass., sez. I, 1° dicembre 2015, n. 24455. La Corte precisa che al servizio sociale incaricato non spetta solo rilevare le insufficienze addebitabili al nucleo familiare, ma, attraverso interventi mirati, concorrere a rimuoverle. Cass., sez. I, 27 settembre 2017, n. 22589; Cass., sez. I, 26 marzo 2015, n. 6137. Cedu, Akinnibosun c. Italia, 16 luglio 2015. Cass, sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4197.
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La Corte di Cassazione, quindi, si è soffermata sulla portata del diritto del minore a essere ascoltato nell’ambito dei procedimenti adottivi, richiamando le disposizioni sovranazionali e domestiche in materia. I giudici di legittimità hanno ribaltato la decisione della Corte d’Appello di Roma, ove veniva verbalizzata la mancata necessità, nonché l’inopportunità, dell’ascolto dei minori infradodicenni6. Per la Corte di Cassazione occorre procedere a uno scrutinio il più possibile aggiornato della situazione e raccogliere, nei limiti prescritti dall’art. 15, co. 2, l. ad., le impressioni dei minori capaci di discernimento, al fine di tratteggiare un quadro reale che legittimi il giudizio sull’adottabilità e ponga la connessa pronuncia al riparo da rischi di nullità7. L’accoglimento delle pretese attoree non è però completo. Dinanzi al quarto motivo di ricorso, con cui veniva lamentata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 l. ad. per la mancata convocazione dello zio materno, la Corte di Cassazione ha dapprima riconosciuto che i parenti entro il quarto grado non sono parti necessarie laddove figurino i genitori dell’adottando; quindi, in linea con quanto precisato dai giudici d’appello, si è ritenuto inconsistente il legame oggettivo tra lo zio materno e i nipoti, negando così pregio alla doglianza della ricorrente. La pronuncia invita a riflettere sullo stato di abbandono e sulla conseguente necessità di collocare la personalità del minore in posizione apicale. L’interpretazione oggettiva dello stato di abbandono, coerentemente con lo spirito della l. ad., rappresenta una concretizzazione del diritto del minore a una famiglia; l’assicurare uno sviluppo armonico ed equilibrato al minore deve transitare da un vaglio concreto e aggiornato dei legami esistenti, senza avviare fallaci meccanismi di comparazione con rapporti eventuali8.
2. L’abbandono come fattispecie oggettiva. L’individuazione dello stato di abbandono rappresenta un momento cruciale nella vicenda adottiva e merita di essere esaminato tenendo in esponente il preminente diritto dei minori ad una famiglia9, ovverosia a un nucleo familiare capace di garantire educazione,
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Per la Corte di Cassazione, invece, escludere l’audizione del minore infradodicenne, capace di discernimento, impone l’obbligo del giudice di specificare tale diniego. La motivazione, proseguono i giudici, appare tanto più necessaria quanto più l’età dei minori si avvicina a quella dei dodici anni. Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12957. Alcuni recenti spunti sono offerti dal commento alle sentenze Cass., sez. I, 19 gennaio 2018, n. 1431 e Cass., sez. I, 14 febbraio 2018, n. 3594, con nota di C.M. Bianca, Quando possiamo togliere legittimamente un bambino alla sua famiglia?, in Foro it., 2018, I, 817 ss.; G. Casaburi, Molto rumore per nulla. Le tre volte in Cassazione di una pronuncia di adottabilità, ivi, 812 ss.; C. Caricato, L’incerto diritto del minore alla propria famiglia, in questa Rivista, 2018, 409 ss. Tale concetto è precisato anche da Cass., sez. I, 5 gennaio 2005, n. 212, per cui la dichiarazione di adottabilità è un rimedio estremo dinanzi alla situazione di abbandono e non un espediente per assicurare al minore condizioni di vita teoricamente migliori e con un nucleo familiare differente rispetto a quello originario; nonché da Cass., sez. I, 22 novembre 2013, n. 26204. In questo senso, già, Trib. Perugia, 20 luglio 1998. Cfr. M. Bessone-G. Ferrando, voce Minori e maggiori di età (adozione dei), in Noviss. dig. it., Appendice, V, Torino, 1984, 82 ss.; C.M.
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Giurisprudenza
cura e crescita10. Ciò, tuttavia, non deve risolversi in un eccessivo allargamento ermeneutico delle maglie dell’abbandono - che potrebbe essere veicolato dalla formulazione elastica dell’art. 8 l. ad.11-, equiparando ogni situazione di carenza affettiva, nonché di disagio patrimoniale, a un irreversibile fenomeno di privazione dei diritti fondamentali alla crescita e allo sviluppo della personalità12. Stando alla lettera dell’art. 8, co. 1, l. ad., l’abbandono legittimante la dichiarazione di adottabilità ricorre innanzi all’accertamento di una mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché ciò non sia connesso a una causa di forza maggiore di carattere transitorio13. Da una prima lettura ne potrebbe derivare un concetto relativo che lascia aperti ampi margini di discrezionalità; invece, i presupposti per l’accertamento dello stato di abbandono vanno individuati all’interno dell’intera trama della l. ad. che colloca al centro il diritto del minore a una famiglia, a crescere e a essere educato all’interno della medesima, ed esclude ogni trattamento sanzionatorio nei riguardi dei genitori e, in subordine, degli ulteriori parenti che non onorano le responsabilità di cui sono gravati (v. art. 1 l. ad.)14.
Bianca, La famiglia, in Diritto Civile, 2.1, Milano, 2017, 459 ss. [nonché sulle implicazioni tra diritto a crescere nella propria famiglia d’origine e adozione, già, v. Id., Sub Art. 1 l. n. 184/1983, in Id. - F.D. Busnelli - G. Franchi - S. Schipani (a cura di), Commentario alla l. n. 184/1983, in Nuove leggi civ. comm., 1984, 2; Id., Il diritto a crescere nella propria famiglia. Un diritto ancora alla ricerca della propria identità e tutela, in AA. VV., Liber amicorum per Francesco Donato Busnelli, II, Il diritto civile tra principi e regole, Milano, 2008, 45 ss.]. V., anche, i contributi di A. Giusti, L’adozione di minori di età, in Tratt. Bonilini, IV, La filiazione e l’adozione, Torino, 2016, 3871 ss.; L. Fadiga, L’adozione legittimante dei minori, in Tratt. Zatti, II, Filiazione, Milano, 2012, 833 ss. Sul tema, inoltre, E. Giacobbe, Adozione e affidamento familiare: ius conditum, “vivens”, condendum, in Dir. fam. pers., 2016, 237 ss., 243, 253; G. Recinto, Stato di abbandono morale e materiale del minore: dichiarazione e revoca della adottabilità, in Rass. dir. civ., 2011, 1161 ss. 10 In tema, F.D. Busnelli, Sub Art. 1 l. n. 184/1983, in C.M. Bianca - Id. - G. Franchi - S. Schipani (a cura di), Commentario alla l. n. 184/1983, cit., 6 ss., 11. Cfr. le ricostruzioni di M.R. Marella, voce Adozione, in Dig. civ., Aggiornamento, I, Torino, 2000, 24; G. Sciancalepore, Il diritto del minore alla propria famiglia, in G. Autorino, P. Stanzione (a cura di), Le adozioni nella nuova disciplina. Legge 28 marzo 2001, n. 149, Milano, 2001, spec. 39 ss.; L. Barbera, L’idoneità affettiva tra interesse del minore e rapporti familiari: spunti sistematici, in M. Trimarchi (a cura di), Adozione, Milano, 2004, 21 ss., ove si discorre di diritto alla famiglia capace; nonché, F. Panarello, Il diritto del minore alla propria famiglia, ivi, spec. 134 ss. Inoltre, cfr. le recenti considerazioni di M. Sesta, voce Filiazione (diritto civile), in Enc. Dir., Annali, VIII, Milano, 2015, 452; nonché, L. Rossi Carleo, Diritto del minore di crescere in famiglia tra realtà sociale e regolamentazione, in AA. VV., Studi in onore di Pasquale Stanzione, II, Napoli, 2018, 961 ss. 11 C.M. Bianca, La famiglia, cit., 462, sottolinea come occorra rigore nella valutazione delle condizioni preliminari attestanti lo stato d’abbandono. Da un’altra prospettiva, v. M.R. Marella, voce Adozione, cit., 24. 12 Cfr. P. Morozzo della Rocca, L’adozione dei minori e l’affidamento familiare. Presupposti ed effetti, in G. Ferrando (trattato diretto da), Il nuovo diritto di famiglia, Bologna, 2007, 587 ss. a 600; P. Sirena, Il diritto del figlio minorenne di crescere in famiglia, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, Assago, 2015, 119 ss. V., inoltre, M.G. Ivone, L’adozione in generale: l’adozione legittimante, di maggiore di età, in casi particolari, in G. Autorino Stanzione (diretto da), Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza. Trattato teorico-pratico, IV, Torino, 2011, 405 s. V., già, L. Lenti, Qualche riflessione sui modelli di affidamento e di adozione accolti nell’ordinamento italiano, in Minorigiustizia, 2001, 3/4, pp. 86-89. 13 Per un commento, v. S. Ciccarello, Sub Art. 8 l. n. 184/1983, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi, VI, 2, Padova, 1993, 82 ss.; M. Dogliotti - F. Piccaluga, L’art. 8 della legge sull’adozione prima e dopo la riforma del 2001, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 593 ss.; nonché, più recentemente, M. Piccinni, Sub Art. 8 l. n. 184/1983, in Comm. Gabrielli, III, Della famiglia. Leggi collegate, Assago, 2018, 597 ss.; C. Ciraolo, La specificazione del concetto di abbandono (art. 15, comma 1, lett. C., l. n. 184/1983, come modificato dall’art. 100, comma 1, lett. L. del d.lgs. n. 154/2013), in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, cit., 1079 ss. Cfr., inoltre, V. Barela, L’adozione all’indomani della legge n. 219/2012, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013, 4 ss., 8 ss. In riferimento alla disciplina previgente dell’adozione speciale, v. M. Bessone-G. Ferrando, voce Adozione speciale, in Noviss. dig. it., Appendice, I, Torino, 1980, 85. 14 Cfr. M. Dogliotti, Adozione e affidamento, in Tratt. Bessone, IV, Filiazione, adozione, alimenti, Torino, 2011, 429, per cui non rilevano i comportamenti dei genitori in sé per sé, ma le ripercussioni sulla personalità del minore. Amplius, v. L. Lenti, L’adozione, in Tratt. Zatti, Le riforme, II, Il nuovo diritto della filiazione, Milano, 2019, 381 ss.; L. Rossi Carleo, L’affidamento e le adozioni, in Tratt.
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Lo stato di abbandono non è conseguenza di una mancanza morale e materiale episodica o di una debolezza relazionale contingente15. L’ordinamento, infatti, dapprima impedisce che le condizioni di indigenza genitoriali costituiscano ostacolo all’esercizio del minore alla propria famiglia, prevedendo di conseguenza mirati interventi di sostegno e aiuto e, successivamente, gradualizza le misure di protezione dei minori a partire dall’affidamento (art. 2 l. ad.) per poi, in caso di irrecuperabilità manifesta del rapporto con la famiglia di origine, procedere alla dichiarazione di adottabilità16. Ciò permette di valorizzare, sin da subito, la dimensione oggettiva dell’abbandono17, di cogliere la sua reale entità nell’accezione fenomenica, senza passare dalla previa individuazione dei titoli soggettivi di responsabilità delle azioni o delle omissioni18. L’angolatura oggettiva impressa all’accertamento dello stato d’abbandono esige un’analisi attuale e prognostica dei fatti, in modo da apprezzare il reale stato del rapporto tra il minore e i genitori naturali, le eventuali alterazioni e le possibilità di ricomposizione di un legame equilibrato e positivo. La privazione dell’assistenza morale e materiale, ai sensi dell’art. 8 l. ad., deve possedere i connotati della definitività, ovvero tradursi in una mancanza irreversibile non giustificabile da una causa temporanea di forza maggiore19. Ciò conduce a esaminare le mancanze a livello morale e materiale non sulla base di generiche soglie parametriche, ma facendo precipuo riferimento al rapporto tra genitori e figli attuale e potenziale20. La valutazione dell’assistenza morale e materiale non deve, inoltre, favorire l’approdo verso un’analisi preconcetta, delle modalità di cura genitoriale: non può, quindi, pervenirsi alla dichiarazione d’adottabilità solo sulla scorta della personalità dei genitori,
Rescigno, IV, Persone e famiglia, III, Torino, 1997, 354 ss. In giurisprudenza, il difetto di carattere sanzionatorio della dichiarazione di adottabilità è sostenuto da App. Roma, 17 maggio 2002. 15 L’insufficienza di un isolato atto omissivo comporta che l’abbandono non possa discendere dalla mancata impugnazione da parte dei genitori e dei parenti indicati della sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità del minore. In tema, v. M. Dogliotti, Adozione e affidamento, cit., 427. 16 Cfr. le considerazioni critiche di P. Morozzo della Rocca, voce Adozione, in Dig. civ., Aggiornamento, I, A-E, Torino, 2003, 48 s. Per alcuni approfondimenti, v. D. Achille, Irrecuperabilità delle capacità genitoriali e stato di adottabilità del minore, in M. Bianca (a cura di), Filiazione. Commento al decreto attuativo. Le novità introdotte dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, Milano, 2014, 277 ss. Sull’affidamento, v. P. Perlingieri - A. Procida Mirabelli di Lauro, L’affidamento del minore nella esegesi della nuova disciplina, Napoli, 1983; C. Ciraolo, Il minore in affidamento. Situazioni soggettive e tecniche di tutela, Milano, 1993; E. Quadri, L’affidamento del minore: profili generali, in Fam. dir., 2001, 653 ss.; nonché, ora, G. Autorino Stanzione, Adozione e affidamento familiare: nuove definizioni e nuove tensioni, in www.comparazionedirittocivile.it, 2016, 1 ss. 17 Cass., 9 giugno 2005, n. 12168; Cass., sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1837. Tra la giurisprudenza di merito più recente, v. App. Catanzaro, sez. I, 14 gennaio 2019. 18 G. Cattaneo, voce Adozione, in Dig. civ., I, Torino, 1987, 103; nonché A. Trabucchi, voce Adozione, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1988, 16. Sul tema, v. A. Procida Mirabelli di Lauro, Dell’adozione di persone maggiori di età. Art. 291-314, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1995, 107 ss.; R. Pane, Delle adozioni e dintorni: spunti critici a margine della riforma della filiazione, in Ead. (a cura di), Il nuovo diritto di famiglia, Napoli, 2015, spec. 219 ss. Per una valutazione dell’abbandono a partire dalla distinzione tra atti e fatti, v. E. Giacobbe, Adozione e affidamento familiare: ius conditum, “vivens”, condendum, cit., 259 s.; S. Stefanelli, Gradi di accertamento e titoli costitutivi, in A. Sassi - F. Scaglione - Ead., La filiazione e i minori, in Tratt. Sacco, Torino, 2018, 290. 19 Precisa C. Spaccapelo, Il procedimento per l’adozione di un minore d’età, in Tratt. Bonilini, IV, La filiazione e l’adozione, cit., 3906, che il discrimine tra forza maggiore e stato d’abbandono è dato dal danno reale o potenziale che il minore può patire continuando a vivere in casa. 20 S. Ciccarello, Sub Art. 8 l. n. 184/1983, cit., 85.
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dei loro problemi psichici o fisici, della loro età, nonché delle declinazioni ideologiche21. Essa, invero, deve limitarsi a considerare la capacità di esercitare la responsabilità genitoriale, quindi di assicurare per lo meno quel minimo di cure materiali, calore affettivo e aiuto psicologico indispensabile per lo sviluppo e la formazione del minore22. Appare, inoltre, opportuno considerare unitamente l’assistenza morale e quella materiale, essendo necessario il concorso di tali momenti di sostegno al fine della buona cura del minore23. Le mancanze morali e materiali, tuttavia, solo laddove assumano una certa regolarità cronologica e pregiudichino penosamente la relazione tra genitori e figli minori24, sì da renderla intollerabile, legittimano la dichiarazione di adottabilità25. La dichiarazione di adottabilità deve tenere conto delle problematiche psichiche, fisiche, relazionali che colpiscono i genitori e si ripercuotono negativamente sui figli minori e perseguire esclusivamente il best interest del minore26: da ciò discende che essa non possa essere subordinata all’accertamento dell’animus dereliquendi, ovvero a rintracciare una precisa volontà genitoriale di abdicare alle proprie responsabilità e privare il minore di cura e affetto27. Da un’analisi coordinata delle regole codicistiche in materia di responsabilità genitoriale e della disciplina adozionale, può asserirsi come alla pronuncia di adottabilità siano estranee finalità repressivo-punitive28: in tal senso, infatti, non è legittimo decretare de
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Per M.R. Marella, voce Adozione, cit., 24, «c’è allora il rischio che la clausola generale dello stato d’abbandono possa di volta in volta formare il proprio contenuto di regola del caso concreto attraverso valutazioni riguardanti lo stile di vita, le modalità di relazione, l’adesione o la distanza da un modello educativo dato […]». In tema, v. C.M. Bianca, La famiglia, cit., 460. In giurisprudenza, v. Cass., sez. I, 13 febbraio 2001, n. 2010. 22 Recentemente, Cass., sez. I, 22 agosto 2018, n. 20954, con nota di L. Lenti, L’adozione e la Corte europea dei diritti dell’uomo. A proposito di Cass. 20954/2018, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 61 ss.; e prima Cass., sez. I, 4 maggio 2000, n. 5580; Cass., sez. I, 19 marzo 2002, n. 3988. In dottrina, cfr. L. Rossi Carleo, L’affidamento e le adozioni, cit., 355 s.; M. Dogliotti, Adozione e affidamento, cit., 429. 23 M. Dogliotti, Adozione e affidamento, cit., 428; P. Morozzo della Rocca, L’adozione dei minori e l’affidamento familiare. Presupposti ed effetti, cit., 601. 24 Per C.M. Bianca, La famiglia, cit., 459, l’assistenza morale si traduce nel diritto all’amore (a essere amati), mentre l’assistenza materiale concerne il soddisfacimento dei normali bisogni di vita e crescita del minore. La mancanza, quindi, di assistenza materiale e morale si configura allorquando il minore non riceve quel minimo di cure e affetto per una crescita sana ed equilibrata. In giurisprudenza, v. Cass., sez. I, 5 novembre 1998, n. 11112. 25 A. Trabucchi, voce Adozione, cit., 16; G. Cattaneo, voce Adozione, cit., 103, precisa che la «situazione di abbandono non postula necessariamente una loro esplicita e definitiva volontà di non provvedere alle esigenze del figlio, né comunque una loro condotta colpevole. Pertanto tale situazione può verificarsi anche quando la mancanza di assistenza deriva — per esempio — dal fatto che il genitore sia costretto ad occuparsi esclusivamente dei propri figli legittimi o del proprio coniuge, oppure da malattia mentale o da grave tossicodipendenza del genitore o da una sua “irrimediabile limitatezza mentale e culturale”». 26 Amplius, v. lo studio monografico di R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, Napoli, 2013, spec. 137 ss., 163 ss.; nonché, i saggi di V. Scalisi, Il superiore interesse del minore. Ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2018, 405 ss.; M.R. Marella The privatization of Family Law: limits, gaps, backlashes, in questa Rivista, 2017, 629 ss. Cfr., inoltre, A.C. Nazzaro, Tutela del minore e unificazione degli status, in Dir. succ. fam., 2016, 671 ss.; G. Sicchiero, La nozione di interesse del minore, in Fam. dir., 2015, 72 ss.; E. Moscati, Il minore nel diritto privato, da soggetto da proteggere a persona da valorizzare (contributo allo studio dell’“interesse del minore”), in Dir. fam. pers., 2014, 1141 ss. 27 La dichiarazione di adottabilità si conferma per essere un pronunciamento reso sulla base di evidenze oggettive, di riscontri fattuali, senza passare per una valorizzazione di un presunto atto di rinuncia liberatoria al munus genitoriale. Cfr. M.R. Marella, voce Adozione, cit., 25; C. Mazzù, La famiglia degli affetti, in S. Mazzarese, A. Sassi (a cura di), Diritto privato. Studi in onore di Antonio Palazzo, II, Torino, 2009, 543 ss. Questo profilo è ben messo in risalto da P. Pazé, Informare sull’abbandono, in Minorigiustizia, 2000, 4, 115. 28 A. Trabucchi, La «forza maggiore» nel contrasto fra l’interesse del minore all’adozione speciale e i pretesi diritti di sangue del genitore,
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plano come inidonei al ruolo genitoriale soggetti temporaneamente detenuti a seguito di condanna o destinatari di misure cautelari custodiali, nonché soggetti alle prese con problemi di tossicodipendenza o alcolismo o altre patologie rispetto a cui, però, risultino in atto processi finalizzati al recupero delle piene capacità genitoriali29. Al contempo, la pronuncia non deve atteggiarsi a mera sanzione di condotte riconducibili a un determinato contesto sociale e culturale30. Essa deve esclusivamente “reagire” dinanzi a situazioni con-
in Riv. dir. civ., 1980, II, 270, precisa che la situazione non deve essere valutata come se l’abbandono sia un atto responsabile da perseguire. Essa, invero, deve risultare da una deprecabile situazione di fatto che contraddice i diritti del minore. Precisa M.R. Marella, voce Adozione, cit., 25, che «davanti alla “devianza” della famiglia d’origine sorge talora nel giudice la tentazione, autorevolmente denunciata di recente di sottrarle il figlio al fine di garantirgli un livello di vita “ottimale”, secondo gli standard della società consumistica, in una visione omologante del best interest del minore che traduce il distacco dalla famiglia d’origine in un’operazione di “eugenetica socio-familiare”». 29 Cass., sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1837. In dottrina, proprio riguardo a eventuali malattie che colpiscono i genitori e che irrimediabilmente impossibilitano i medesimi a esercitare le proprie responsabilità, si chiede E. Giacobbe, Adozione e affidamento familiare: ius conditum, “vivens”, condendum, cit., 261, se ciò «rappresenti ragione sufficiente per recidere il legame tra figlio e genitore, cancellandosi anche quel “barlume” di solidarietà familiare cui pure il figlio è blandamente tenuto verso il proprio genitore ai sensi dell’ultimo comma art. 315-bis cod. civ.? Possibile che di fronte alla malattia l’ordinamento non sappia fare altro che chiudere le porte in faccia al malato”?». 30 V. P. Morozzo della Rocca, Stato di abbandono, ordine pubblico ed esercizi di multiculturalismo giudiziario, in Minorigiustizia, 2006, 1, 42 ss. e giurisprudenza ivi richiamata. Per l’A. l’accertamento dello stato d’abbandono deve evitare di incorrere in quattro rischi: a) il rischio giustificazionista, ove si finirebbe per sminuire, a causa dell’identità culturale familiare, «fatti che denotano oggettivamente una situazione di maltrattamento o di abbandono»; b) il rischio negazionista, ovvero l’individuazione esasperata di stati d’abbandono «dove invece, magari, vi sono piuttosto un diverso stile di vita e una differente percezione della morale familiare»; c) il rischio classista, laddove s’impone nell’accertamento dell’abbandono un certo «disprezzo del giudicante per persone stigmatizzate da una evidente marginalità sociale»; d) il rischio declamatorio, «vale a dire l’abitudine a esaltare il dato della differenza culturale, come se questa avesse giocato un ruolo, nella decisione del giudice, che invece è stata determinata da ben altre considerazioni». In giurisprudenza, v. Trib. Napoli, 14 novembre 1994, per cui «ritenuto che, in caso di rituale affidamento familiare, richiesto dai genitori biologici, può essere dichiarato lo stato di adottabilità solo allorché venga data prova rigorosissima che i genitori di sangue si siano del tutto sottratti, con l’affidamento, ai loro doveri parentali, non essendo la delega agli affidatari giustificata dalle notevoli difficoltà che, sole, legittimano l’affidamento stesso, e ritenuto, altresì, che la condotta di genitori appartenenti ad una etnìa e ad una cultura diverse dalla nostra (siano essi, o meno, extracomunitari) va valutata, in un contesto sociale ormai sempre più multirazziale qual è quello italiano, con riferimento ai costumi, alla sensibilità ed ai modi di agire caratterizzanti la cultura e l’etnìa stesse e, quindi, alla valenza diversa che ad una determinata condotta va riconosciuta a seconda della matrice etnica e culturale d’appartenenza, non sussistono né gli estremi legali per la decadenza dalla potestà né, tanto meno, lo stato di abbandono qualora genitori, aventi una matrice culturale ed etnica profondamente diverse dalla nostra, affidino ritualmente a terzi la figlia in tenerissima età, mantenendo con quest’ultima sporadici contatti sia per motivi di lavoro e di ambientamento, sia per la convinzione, peraltro fondata, che alla minore non mancasse l’assistenza (ottimale) degli affidatari, sia per l’abitudine, tipica della loro etnìa e cultura, di diradare i contatti con la prole una volta accertato il suo stato di benessere presso terzi: la recisione dei rapporti con i genitori biologici, così come la loro decadenza dalla potestà parentale lederebbero il fondamentale diritto della minore a rimanere ed a crescere in seno alla etnìa ed alla cultura di nascita»; nonché, Trib. Napoli, 17 ottobre 1990, laddove si legge che «pur quando i genitori, sostanzialmente nomadi e di nazionalità extraeuropea (nella specie, iraniani), dopo aver ritualmente affidato la figlia in tenerissima età ad una coppia di coniugi italiani, abbiano per lungo tempo quasi continuativamente trascurato l’infante, da essi, in buona sostanza, ignorata e vista solo pochissime volte e per brevissimo tempo, mutando sovente dimora senza alcun avviso, non osservando le disposizioni giudiziali tendenti a provocare e favorire la ripresa di normali rapporti tra la figlia ed i genitori, ed arrivando, una volta, perfino a sottrarre arbitrariamente la minore agli affidatari, per riconsegnarla, a guisa d’oggetto, perché incalzati da stringenti ricerche di polizia, se tuttavia i genitori medesimi hanno ripetutamente richiesto il riaffidamento della figlia, mostrando in tal modo di non avere abdicato in modo definitivo ed integrale alle loro funzioni parentali, non va dichiarato lo stato d’abbandono della piccola ai fini della l. n. 184/1983: tenendo conto anche delle costumanze e della mentalità della etnìa di loro appartenenza, va disposta soltanto la decadenza dalla potestà parentale e la prosecuzione, a tempo indeterminato, dell’affidamento in atto, in attesa di poter rivedere, in futuro, la posizione dei genitori di sangue anche alla luce di eventuali scelte che la minore, una volta cresciuta, possa consapevolmente compiere circa la propria destinazione avvenire; i genitori potranno intanto visitare due volte al mese la bambina presso la sede del servizio sociale del luogo di residenza degli affidatari, servizio che sovraintenderà agli incontri, relazionando, su di essi, ove occorra, al tribunale per i minorenni».
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clamate di disagio la cui reiterazione, ragionevolmente31, si ritiene insuperabile o foriera di ulteriori ripercussioni negative per la personalità del minore32. A favore di una lettura eminentemente oggettiva dello stato d’abbandono, inoltre, depongono i commi 2 e 3 dell’art. 8 l. ad. All’accertamento dell’abbandono non osta la concomitante previsione di affidamento familiare o di collocazione dei minori presso istituti di assistenza pubblici o privati o presso comunità di tipo familiare (art. 8, co. 2, l. ad). La sistemazione temporanea assicurata al minore attraverso le predette modalità non deve coincidere con una neutralizzazione definitiva della responsabilità genitoriale, favorendo, invece, il recupero del legame tra genitori e figli. La provvisorietà delle misure, se da un lato cristallizza la centralità del diritto del minore al rapporto con la propria famiglia d’origine, nonché il diritto dei genitori a (ri)esercitare pienamente le proprie responsabilità, d’altro canto non pregiudica la possibilità di comprovare eventuali situazioni d’irrecuperabilità definitiva del legame tra genitori e figli33. I genitori devono, infatti, collaborare fattivamente con i soggetti collocatari o affidatari, al fine di agevolare un corretto ripristino del rapporto con i minori, lasciando emergere il superamento delle deficienze e criticità che hanno condotto all’adozione dei provvedimenti di tutela temporanei34. Nella medesima direzione si colloca l’impossibilità di procedere alla dichiarazione di adottabilità qualora la mancanza di assistenza morale e materiale sia connessa ad una causa di forza maggiore di carattere transitorio35. La forza maggiore assume i connotati di una nozione da intendere in senso effettuale, ovvero assumendo come riferimento l’oggettiva impossibilità di badare al minore36. La legge, infatti, non lascia che la forza maggiore costituisca una scusante indistintamente invocabile: essa deve essere di carattere temporaneo e assume effetto “esimente” laddove non consista in un rifiuto ingiustificato delle misure
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Amplius, G.D. Ruggiero, Riflessioni in tema di ragionevolezza e proporzionalità nel diritto di famiglia, in G. Perlingieri, A. Fachechi (a cura di), Ragionevolezza e proporzionalità nel diritto contemporaneo, II, Napoli, 2017, 983 ss. 32 V. G. Cattaneo, voce Adozione, 103; nonché, R. Pane, Delle adozioni e dintorni: spunti critici a margine della riforma della filiazione, cit., 219 ss.; V. Sciarrino, Tutela del minore e comunità familiari nel sistema delle adozioni, Napoli, 2003, 7, nt. 2, 23. In giurisprudenza, v. Cass., sez. I, 5 maggio 1989, n. 2101; Cass., sez., I, 26 aprile 1999, n. 4139. 33 In tema, v. G. Cattaneo, voce Adozione, cit., 104, P. Morozzo della Rocca, voce Adozione, cit., 48 s.; C.M. Bianca, La famiglia, cit., 463. Cfr., ora, le criticità di L. Lenti, L’adozione, cit., 381 ss. 34 Tra la recente giurisprudenza di merito, cfr. App. Milano, 14 gennaio 2019; App. Bari, 18 aprile 2013; Trib. Palermo, 16 ottobre 2010, n. 166; Trib. Genova, 21 settembre 2009. 35 A. Trabucchi, La «forza maggiore» nel contrasto fra l’interesse del minore all’adozione speciale e i pretesi diritti di sangue del genitore, cit., 267 ss.; M. Dogliotti, S. Boccaccio, La problematica della forza maggiore nell’adozione dei minori, in Dir. fam. pers., 1992, 1207 ss. Cfr., inoltre, la pronuncia di Corte Cost., 7 marzo 1974, n. 76, ove fu ritenuta razionale, nella disciplina previgente (art. 314/4, co. 1, c.c.), la previsione della forza maggiore quale criterio atto a comporre il conflitto tra interesse del minore e quello della famiglia d’origine. Sul punto, G. Dinacci, L’adozione: dall’interesse dell’adottante al diritto del minore, in M. Sesta, V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, pp. 660-663. 36 A. Trabucchi, La «forza maggiore» nel contrasto fra l’interesse del minore all’adozione speciale e i pretesi diritti di sangue del genitore, cit., 271, 273. Secondo P. Morozzo della Rocca, L’adozione dei minori e l’affidamento familiare. Presupposti ed effetti, cit., 605, la forza maggiore va intesa in senso esperienziale e non interpretata attraverso i canoni della disciplina della responsabilità civile come esimente. Per l’A. appare opportuno, più che riflettere sul carattere volontario, interrogarsi sugli effetti di un’azione destinata a durare nel tempo. Cfr., inoltre, C.M. Bianca, La famiglia, cit., 461.; R. Pane, Delle adozioni e dintorni: spunti critici a margine della riforma della filiazione, cit., 220 s.
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di sostegno offerte dai servizi locali “anche all’esito della segnalazione di cui all’art. 79bis, l. ad.” (art. 8, co. 3, l. ad.)37. Il supporto economico fornito dalle pubbliche istituzioni ai nuclei familiari indigenti, dietro segnalazione del giudice, impedisce che situazioni di disagio economico, possano di per sé sole, tradursi in stato di abbandono38; il legislatore del 2013, con l’introduzione dell’art. 79-bis l. ad., ha voluto conferire centralità al rapporto tra i figli e la famiglia d’origine, svincolando lo stato d’abbandono dal rilievo della mera debolezza finanziaria o dell’inadeguatezza patrimoniale39. Tuttavia, i genitori beneficiari di provvidenze economiche non devono rifiutare ingiustificatamente le misure di ausilio ricevute40; l’eventuale diniego genitoriale potrebbe determinare una sottrazione dinanzi alle rispettive responsabilità, nonché una perpetuazione o recrudescenza di scenari d’indigenza pregiudizievoli per il minore e come tali rilevanti ai fini della dichiarazione dello stato di abbandono41. Ciò posto, nel caso in esame, la Corte di Cassazione ha valorizzato l’interpretazione oggettiva dello stato di abbandono e puntualizzato la persistenza di un legame d’affetto tra i figli minori e la madre. Quest’ultima appare consapevole delle difficoltà e intenzionata a recuperare un proprio equilibrio psichico per poter riesercitare la responsabilità genitoriale42. La pronuncia, quindi, ha reputato non dirimente l’insuccesso di un precedente programma di sostegno alla genitorialità e attraverso un esame attuale e una valutazione prognostica del rapporto genitoriale ha cassato la precedente dichiarazione dello stato di abbandono43. Quest’ultima è, quindi, risultata contrastante con la logica della legge, poiché l’adozione non ha rappresentato nel caso di specie uno rimedio utile a evitare ulteriori pregiudizi e ad assicurare ai minori assistenza e stabilità affettiva.
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Per C.M. Bianca, La famiglia, cit., 464, «la disposizione è destinata ad avere un impatto importante perché essa varrà ad instaurare un canale di collegamento fra i tribunali e gli enti locali, attraverso il quale la segnalazione dei tribunali darà presumibilmente luogo all’apertura di un’istruttoria presso l’ente locale, intesa ad esaminare il caso segnalato e ad accertare se quella famiglia abbia diritto all’intervento di sostegno. Se l’ente locale non è in grado d’intervenire, la segnalazione varrà quanto meno a verificare questa impossibilità e a mettere in evidenza che una famiglia non ha ricevuto l’aiuto dovutole». Cfr., M. Dogliotti, Sub Art. 79-bis l. n. 184/1983, in M. Sesta (a cura di), Codice della famiglia, Milano, 2015, 2286 ss. 38 F. Ruscello, Relazione introduttiva, in Id. (a cura di), Diritto alla famiglia e minori senza famiglia, Padova, 2005, 13. 39 A tal proposito, A. Luminoso, Diritto di famiglia: incertezze, criticità e lacune, in Id. (a cura di), Diritto e crisi, Milano, 61, ritiene sia «una soluzione “barbarica” la dichiarazione dello stato di adottabilità nei confronti di figli di persone la cui unica colpa è quella di trovarsi in una situazione di grave povertà, ma che amano i loro figli e sarebbero perfettamente in grado di educarli e assicurarne l’istruzione». 40 C.M. Bianca, La famiglia, cit., 464. 41 P. Sirena, Il diritto del figlio minorenne di crescere in famiglia, cit., 121; A. Giusti, L’adozione di minori di età, cit., 3828 ss., 3880. Sul rapporto tra povertà e forza maggiore, v. M. Dogliotti, Adozione e affidamento, cit., 433. In tema, G. Recinto, Stato di abbandono morale e materiale del minore: dichiarazione e revoca della adottabilità, cit., 1770. 42 In questa direzione, v., recentemente, Cass., sez. I, 29 gennaio 2019, n. 9763; nonché, in precedenza, Cass., sez. I, 27 settembre 2017, n. 22589; Cass., sez. I, 26 marzo 2015, n. 6137. In questo senso, v. anche, Cass., sez. I, 14 maggio 2005, n. 10126, con nota di G. Ballarani, Brevi note sulle valutazioni dello stato di abbandono ai fini della dichiarazione di adottabilità, in Dir. fam. pers., 2006, 68 ss.; Cass., sez. I, 14 aprile 2006, n. 8877, 43 Cfr. Cass., sez. I, 9 giugno 2017, n. 14436; Cass., sez. I, 29 settembre 2017, n. 22934. Diversamente, per una valutazione dello stato d’abbandono in virtù degli avvenimenti passati, e come tale indifferente rispetto a propositi futuri, v. Cass, 14 aprile 1981, n. 2216, con nota di A. Trabucchi, Le Sezioni unite e la configurazione del concetto di abbandono dopo l’intervento della Corte costituzionale in tema di adozione speciale, in Giur. it., 1981, I, 1763 ss.
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3. I vincoli procedimentali e la dichiarazione di adottabilità. La dichiarazione di adottabilità è soggetta a prescrizioni preliminari precise, così come delineate dall’art. 15 l. ad. Si tratta della partecipazione al procedimento di genitori e parenti entro il quarto grado, nonché della valutazione del comportamento di questi soggetti, e dell’ascolto del p.m., del rappresentante legale del minore e del minore stesso. Alla luce dell’art. 15, co. 2, l. ad., l’ascolto è obbligatorio per i minori che abbiano compiuto dodici anni e discrezionale, poiché collegato alla capacità di discernimento effettivo, per i minori infradodicenni44. Valorizzando il dato normativo sovranazionale (art. 12 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, nonché dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, senza tuttavia dimenticare l’art. 24, co. 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e nazionale (spec. art. 336-bis c.c.), si è addivenuti a un’interpretazione estensiva dell’ascolto del minore nella vicenda adottiva, non solo limitato al giudizio di primo grado, ma esteso anche alla cognizione in sede d’appello45. La pienezza del diritto soggettivo del minore a essere ascoltato46 testimonia, da un lato, il ruolo attivo riconosciuto al minore all’interno del procedimento per la verifica dello stato d’abbandono e, d’altro lato, impedisce l’assunzione di provvedimenti astratti e indifferenti alle reali esigenze espresse47. Dinanzi a minori infradodicenni, il giudice deve preminentemente considerare l’opportunità e la proficuità dell’ascolto in ragione del grado di discernimento, così preservando la capacità autodeterminativa dei minori48. Ovvero dovrà determinare se e quali siano le modalità attraverso cui pervenire al parere dei minori, salvaguardando l’incolumità degli
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Sulla capacità di discernimento, cfr. P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Napoli, 1975, spec. 374 ss.; e, successivamente, Id., Persona minore di età e salute, diritto all’autodeterminazione, responsabilità genitoriale, in www. comparazionedirittocivile.it, 2013, 1 ss.; Id., Capacità, legittimazione, status, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2017, 131 ss. In tema, v. E. La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari. Contributo allo studio per uno statuto dei diritti dei minori, Milano, 2005, spec. 205 ss., 281 ss.; G. Ballarani, La capacità autodeterminativa del minore nelle situazioni esistenziali, Milano, 2008; F. Ruscello, Minore età e capacità di discernimento: quando i concetti assurgono a “supernorme”, in Fam. dir., 2011, 404 ss. 45 L’art. 17, co. 1, l. ad. demanda al giudice d’appello la possibilità di effettuare ogni altro opportuno accertamento in merito allo stato di adottabilità. In giurisprudenza, v. Cass., 22 luglio 2015, n. 15365. 46 Amplius, C.M. Bianca, Il diritto del minore all’ascolto, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 546 ss.; A. Palazzo, La filiazione, in Tratt. CicuMessineo, Milano, 2013, 525 ss., 550; A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, Assago, 2017, 115; M.A. Iannicelli, La crisi della coppia genitoriale e il «diritto» del figlio minore di essere ascoltato, in questa Rivista, 2016, 87 ss.; G. Ballarani, Il diritto all’ascolto, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, cit., 129 ss.; R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, cit., 201 ss. Cfr., già, F. Ruscello, La tutela del minore nella famiglia, in P. Perlingieri (a cura di), Temi e problemi della civilistica contemporanea. Venticinque anni della Rassegna di diritto civile, Napoli, 2005, 25. 47 V., già, Cass., sez. I, 23 luglio 1997, n. 6899; Cass., sez. I, 26 luglio 2000, n. 9802. 48 Recentemente sul tema, G. Recinto, Stato di abbandono morale e materiale del minore: dichiarazione e revoca della adottabilità, cit., 1166; C. Scognamiglio, La legge dei sentimenti. Famiglie e nuovo diritto. Crisi della convivenza e diritti dei figli, in F. Macario A. Addante - D. Costantino (a cura di), Scritti in memoria di Michele Costantino, II, Napoli, 2019, 1286 s.; F. Scaglione, Situazioni giuridiche soggettive e capacità, in A. Sassi - Id. - S. Stefanelli, La filiazione e i minori, cit., 560 ss.; M. Porcelli, Minori di età e rapporti giuridici non patrimoniali, in Dir. fam. pers., 2018, 581 ss. Già, P. Rescigno, Riforma del diritto di famiglia e condizioni dei minori, in Id., Matrimonio e famiglia. Cinquant’anni del diritto italiano, Torino, 2000, 294, rilevava che l’audizione del minore costituisse la forma più elementare di partecipazione. Cfr., ancora, R. Pane, Le adozioni tra innovazioni e nuovi dogmi, Napoli, 2003, 122; E. La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari. Contributo allo studio per uno statuto dei diritti dei minori, cit., 241 ss.
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stessi. Inoltre, la motivazione di un eventuale diniego deve essere rafforzata e circostanziata, come correttamente precisato dalla Corte di Cassazione, man mano che l’età del minore si approssima alla soglia del dodicesimo anno di età49. Dalla lettura della sentenza ne discende una corretta interpretazione delle regole disciplinanti il diritto all’ascolto del minore nella vicenda adottiva e, in pieno ossequio della ratio normativa, si è rimarcata la necessità di suffragare l’accertamento dello stato di abbandono tramite riscontri il più possibile puntuali. Diversamente, invece, la Corte d’Appello aveva ritenuto sufficiente la documentazione acquisita, attestante un ultimo colloquio tra la madre e i minori risalente al 2015, non disponendo un ulteriore e aggiornato ascolto del minore. Corretta appare, infine, l’interpretazione dell’art. 12 l. ad., laddove si individuano quali parti eventuali del procedimento i parenti entro il quarto grado che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore50. Il riferimento alla significatività dei rapporti intercorrenti tra i parenti e i minori avvalora la più generale tesi di una connotazione squisitamente oggettiva dello stato d’abbandono; i parenti, infatti, al fine di assurgere e al ruolo di litisconsorti e di impedire la dichiarazione dello stato di adottabilità devono aver dimostrato una reale volontà di curare e crescere i minori51. Si tratterebbe di una speciale funzione di responsabilità vicaria, rimessa alla libera scelta dei parenti, proprio in assenza di un esplicito obbligo di legge. La disponibilità di questi soggetti, quindi, non è di per sé bastevole alla pronuncia di non luogo a procedere, ma deve essere comprovata da riscontri oggettivi attraverso osservazioni e pareri rilasciati dai servizi sociali e da eventuali altri soggetti investiti di tale ruolo a seguito di apposite prescrizioni giudiziali52. Una preesistente dimensione relazionale costituisce sia una condizione di applicabilità dell’art. 12, sia un indice di affidabilità dei parenti; tuttavia, ponendo sempre al centro l’interesse del minore, occorre evitare l’ingenerarsi di una eccessiva fiducia nel recupero del nucleo familiare e favorire, di contro, una rigorosa analisi che coniughi le intenzioni parentali con i bisogni e la personalità del minore53.
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Per approfondimenti, v. F. Giardina, Procedimento giudiziale e capacità di discernimento dell’adottato, in M.F. Tommasini (a cura di), La filiazione tra scelta e solidarietà familiare, Torino, 2003, 87 ss. Sul ruolo del giudice minorile come soggetto chiamato a comporre i conflitti in gioco, v. E. Seminara, L’abbandono in famiglia e la garanzia della continuità interna della storia familiare, in Minorigiustizia, 2015, 3, 142 ss. 50 S. Stefanelli, Gradi di accertamento e titoli costitutivi, cit., 291; M. Piccinni, Sub Art. 8 l. n. 184/1983, in Comm. Gabrielli, III, Della famiglia. Leggi collegate, cit., 645 ss.; V. Barela, L’adozione all’indomani della legge n. 219/2012, cit., 11. 51 G. Cattaneo, voce Adozione, cit., 104; A. Giusti, L’adozione di minori di età, cit., 3881. 52 Cfr. C.M. Bianca, La famiglia, cit., 461; L. Lenti, L’adozione, cit., 384; P. Morozzo della Rocca, L’adozione dei minori e l’affidamento familiare. Presupposti ed effetti, cit., 607 ss. a 609. 53 Cass., sez. I, 9 maggio 2002, n. 6629, con nota di M. Dogliotti, Stato di abbandono, forza maggiore, posizione dei parenti nell’adozione dei minori, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 660 ss.; Cass., sez. I, 11 agosto 2009, n. 18219. E, più recentemente, Cass., sez. I, 29 settembre 2017, n. 22934; Cass., sez. I, 16 febbraio 2018, n. 3915; Cass., sez. I, 11 aprile 2018, n. 9021.
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4. Stato di abbandono e interesse esclusivo del minore. La pronuncia in commento consente di formulare delle valutazioni conclusive. L’accertamento dello stato di abbandono obbedisce a parametri squisitamente oggettivi, vincolando il giudice a una ricostruzione dei fatti che faccia emergere la realtà e consenta di apprezzare, in chiave prognostica, la fecondità del rapporto tra minori e genitori54. La recisione del legame con la famiglia d’origine e l’instaurazione del vincolo familiare attraverso l’istituto adozionale continua a rappresentare una misura sussidiaria, ossequiosa del diritto al rispetto della vita familiare (ex art. 8 CEDU) e, quindi, espressione di una tutela che si legittima in casi di acclarata dannosità della relazione naturale55. Tuttavia, l’adozione, quale vincolo familiare costituito sull’affettività, concretizza il diritto del minore a ricevere cura e assistenza. È proprio la posizione del minore a costituire il basamento dell’intera disciplina della l. ad.: l’oggettività dell’abbandono, la partecipazione dei genitori e quella degli eventuali parenti entro il quarto grado al procedimento, il diritto all’ascolto del minore comprovano l’attenzione dell’ordinamento per la stabilità psichica e fisica del minore e per il suo armonico sviluppo56. Corretta appare, quindi, la ricostruzione resa dalla Corte di Cassazione. La considerazione del potenziale recupero del rapporto tra madre e minori risulta coerente con la ratio della disciplina in materia di accertamento dello stato d’abbandono. Il riscontro di un percorso personale riabilitativo, l’assenza di un disinteresse pregiudizievole e di una condizione di degrado irriducibile rappresentano sicuri indici per non procedere con la dichiarazione dello stato d’abbandono.
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Precisa C.M. Bianca, La famiglia, cit., 463, che il minore non deve essere tolto dalla famiglia alla quale sia unito da un valido legame affettivo. Cfr., inoltre, L. Lenti, L’adozione, cit., 3281 ss.; G.E. Napoli, Il diritto di crescere nella propria famiglia, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, cit., 1124 s. 55 V. nella giurisprudenza Cedu i seguenti casi: Schmidt c. Francia, 26 luglio 2007; Clemeno e altri c. Italia, 21 ottobre 2008; Errico c. Italia, 24 febbraio 2009; Zhou c. Italia, 2 giugno 2014; Akinnibosun c. Italia, cit.; S.H. c. Italia, cit.; Soares de Melo c. Portogallo, 16 febbraio 2016; Barnea e Caldararu c. Italia, 22 giugno 2017. 56 In tema, già, E. Quadri, L’interesse del minore nel sistema della legge civile, in Fam. dir., 1999, spec. 93 s. Ora, v. A. Sassi, Accertamento e titolarità nel sistema della filiazione, in Id. - F. Scaglione - S. Stefanelli, La filiazione e i minori, cit., 39 ss.; L. Rossi Carleo, Diritto del minore di crescere in famiglia tra realtà sociale e regolamentazione, cit., 964 ss. Per una sintesi, v. G. Sciancalepore, Il minore e il procedimento di adozione, in P. Stanzione, Id., Minori e diritti fondamentali, Milano, 2006, 85 ss.
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Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 14 maggio 2018, n. 11696; Tirelli Presidente - Acierno Relatore Matrimonio – Matrimonio civile – Matrimonio tra persone dello stesso sesso (celebrazione all’estero del) – Cittadino italiano – Cittadino straniero – Atti dello stato civile – Registri dello stato civile – Trascrizione – Effetti – Applicazione della legge nel tempo – Status familiae (circolazione dello) – Modello di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso (libertà di scelta, da parte del legislatore, circa il) Il matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero, tra un cittadino italiano e uno straniero, è trascrivibile in Italia, e indi potrà produrre i relativi effetti, per il tramite dell’art. 32-bis della Legge 31 maggio 1995, n. 218. Tale disposizione può essere applicata anche ai rapporti sórti precedentemente alla propria entrata in vigore, atteso che con il matrimonio o con l’unione civile – od istituto analogo – si costituisce uno status tipicamente a natura non istantanea, destinato a durare nel tempo, per cui, in tema di riconoscimento degli effetti di esso in un ordinamento diverso rispetto a quello in cui il vincolo è stato contratto, deve senz’altro trovare applicazione il regime giuridico vigente al momento della pronunzia, non essendo costituzionalmente compatibile una soluzione che, solo in virtù di una preclusione temporale, potrebbe impedire il riconoscimento degli effetti giuridici, all’interno del nostro ordinamento, a cittadini italiani e stranieri. Per giunta, è l’intrinseca ratio della novella – con la quale, fra le altre, s’è inserito, nella Legge n. 218/1995, l’art. 32-bis – in uno con la mancanza della delimitazione, in seno allo stesso art. 32-bis, della propria efficacia temporale del meccanismo legislativo di conversione o di equiparazione degli effetti, che non consente una restrizione temporale della definizione degli effetti del matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani. Peraltro, una previsione diversa avrebbe determinato un’ingiustificata, nonché irragionevole, disparità di trattamento per i cittadini italiani che abbiano contratto matrimonio od unioni civili all’estero prima dell’entrata in vigore dell’art. 32-bis, ai quali, dunque, si sarebbe preclusa, in via generale, l’applicazione delle nuove norme di diritto internazionale privato, vòlte proprio ad evitare soluzioni di continuità e disomogeneità di condizioni di riconoscimento e tutela all’interno del nostro ordinamento, con riferimento a situazioni omogenee.
(Omissis) Fatti
di causa.
assoluta di legislazione nazionale. Il matrimonio 1. La Corte d’Appello di Milano,
tra persone dello stesso sesso non corrisponde al
confermando la sentenza di primo grado, ha re-
modello matrimoniale delineato dal nostro ordi-
spinto il ricorso proposto da P.D. e F.C.H. vòlto
namento e, di conseguenza, la trascrizione di un
a far dichiarare l’illegittimità del rifiuto di trascri-
atto estero di tale contenuto determinerebbe un
zione del loro matrimonio celebrato in Brasile il (omissis) e, successivamente, con rito civile in Portogallo il (omissis). 2. A sostegno della decisione la Corte territoriale ha affermato che alla luce del complessivo quadro costituzionale e convenzionale i singoli
quadro d’incertezza incompatibile con l’assetto e la funzione della trascrizione. 3. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione P.D. e F.H. sulla base di due motivi. Ha resistito con controricorso e ricorso in-
Stati membri del Consiglio d’Europa conserva-
cidentale il sindaco di Milano come Ufficiale del
no la libertà di scegliere il modello di unione
Governo ed ha proposto controricorso adesivo
(tra persone dello stesso sesso) giuridicamente
l’associazione “Rete Lenford”. Hanno depositato
riconosciuta nell’ordinamento interno e che in
memoria i ricorrenti e i controricorrenti adesivi
ordine a tale modello deve rinvenirsi una riserva
“Rete Lenford”.
473
Giurisprudenza
Ragioni
della decisione.
4. Deve rilevarsi, pre-
artt. 84 ss. c.c. Nessuna di tali norme contiene
liminarmente, che nelle more del giudizio per
riferimenti testuali diretti od indiretti alla diversità
cassazione è intervenuta la l. n. 76 del 2016 ed i
di sesso dei coniugi. Una volta soddisfatti i re-
decreti legislativi delegati previsti dall’art. 1, com-
quisiti sostanziali di stato e capacità previsti dalla
ma 28, lett. b) riguardanti l’adeguamento delle
legge italiana il matrimonio del cittadino italiano
disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in
celebrato nel rispetto della lex loci ha immedia-
materia di iscrizioni, trascrizioni ed annotazioni
ta validità nel nostro ordinamento. Alla luce di
nonché delle norme in materia di diritto interna-
queste premesse, una volta superata anche dalla
zionale privato. Sono stati, infatti, emanati rispet-
giurisprudenza di legittimità la tesi dell’inesisten-
tivamente i decreti legislativi 19 gennaio 2017 n.
za giuridica del matrimonio contratto tra persone
5 e 7 del 2017.
dello stesso sesso e la vigenza dell’art. 9 della
4.1. L’illustrazione dei motivi di ricorso verrà,
Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione euro-
conseguentemente completata dalle integrazioni
pea e 12 della CEDU rimane priva di fondamento
contenute nelle memorie depositate, dovendosi
l’intrascrivibilità del predetto matrimonio. Se la
affrontare, tra gli altri, il profilo dell’applicabilità
differenza di sesso tra i nubendi non è un re-
della nuova disciplina normativa anche ai rap-
quisito necessario per la esistenza e validità del
porti sórti prima dell’entrata in vigore del nuovo
matrimonio non può neanche incidere sulla sua
complesso sistema legislativo, ed ai giudizi in-
efficacia. Né può più ritenersi la contrarietà al
staurati anteriormente ad esso.
parametro dell’ordine pubblico del matrimonio
5. Nel primo motivo di ricorso viene dedotta
in questione ex art. 16 l. n. 218 del 1995, essendo
la violazione e falsa applicazione del principio
tale impedimento escluso dalla giurisprudenza
generale del favor matrimonii in relazione agli
di legittimità ed essendo applicabile il principio
artt. 2, 3 e 29 Cost., nonché del principio di tas-
secondo il quale i matrimoni celebrati tra cittadi-
satività e tipicità delle fattispecie, del principio
ni italiani e stranieri hanno immediata rilevanza
della conservazione degli atti, del diritto alla vi-
nel nostro ordinamento sempre che essi risultino
ta familiare e del divieto di discriminazione. In
celebrati secondo le forme previste dalla legge
particolare, le parti contestano che il matrimonio
straniera e sempre che sussistano i requisiti di
tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero
capacità previsti dalla legge nazionale.
sia inidoneo alla produzione di effetti giuridici
6. Nel secondo motivo viene dedotta specifi-
nel nostro ordinamento e che viga il principio
camente la violazione del divieto di discrimina-
di tassatività in ordine alla trascrizione degli atti.
zione in ordine all’affermazione della Corte d’Ap-
Viene rilevato che l’art. 63, secondo comma, del
pello secondo la quale il matrimonio tra persone
d.p.r. n. 396 del 2000, stabilisce che i matrimo-
dello stesso sesso non corrisponde alla tipologia
ni celebrati all’estero, davanti all’autorità locale,
di matrimonio delineato nel nostro ordinamento
secondo le leggi del luogo, devono essere tra-
e perciò non è trascrivibile. La trascrizione ha so-
scritti nei registri dello stato civile e che l’art. 27
lo efficacia certativa e non costitutiva di un atto
della l. n. 218 del 1995 afferma che la capacità
che è immediatamente valido ed efficace tanto
matrimoniale e le altre condizioni per contrarre
che non sarebbe consentito un secondo matri-
matrimonio sono regolate dalla legge nazionale
monio di uno dei componenti l’unione coniugale
del nubendo. Infine l’art. 115 c.c. richiama per il
in questione ex art. 116 c.c. Inoltre il ricorrente di
cittadino italiano le norme nazionali sulle condi-
nazionalità brasiliana, ha ottenuto il rilascio del
zioni per contrarre matrimonio contenute negli
permesso di soggiorno per motivi familiari pro-
474
Marco Ramuschi
prio in considerazione dell’unione matrimoniale.
privato, determinando una situazione di disparità
Alla luce della giurisprudenza Cedu in tema d’in-
di trattamento tra coppie dello stesso sesso stra-
terpretazione degli artt. 8, 12 e 14 della Conven-
niere coniugate all’estero e coppie unite all’este-
zione non si riscontra alcuna proporzionalità nel-
ro da un vincolo diverso dal matrimonio. Da tale
la soluzione adottata dalla Corte d’Appello. Essa
indicazione è sórta la formulazione dell’art. 32-
vìola la vita privata e famigliare dei ricorrenti, la
bis della l. n. 218 del 1995, che stabilisce solo per
loro libertà individuale e li discrimina in ragione
i cittadini italiani dello stesso sesso che abbiano
del loro orientamento sessuale.
contratto matrimonio all’estero la produzione nel
7. Le ragioni dei ricorrenti sono state corroborate anche dal controricorso adesivo dell’Associa-
nostro ordinamento degli effetti dell’unione civile.
zione “Rete Lenford”, in particolare sotto il profilo
La norma è applicabile soltanto nell’ipotesi in
dell’insussistenza dell’impedimento dovuto alla
cui entrambi i nubendi siano italiani. La conclu-
contrarietà all’ordine pubblico da intendersi co-
sione è suggerita dalla relazione accompagnato-
me ordine pubblico internazionale, attualmente
ria che riferisce la soluzione al matrimonio con-
del tutto aperto al riconoscimento giuridico delle
tratto all’estero, ove si tratti di cittadini italiani
unioni tra persone dello stesso sesso. La scelta
dello stesso sesso. La norma sulla trascrizione
del modello è rimessa al legislatore interno e non
applicabile, pertanto, è l’art. 125, comma 5, r.d.
entra nella valutazione di compatibilità posta dal
n. 1238 del 1939 che prescrive la trascrizione nei
limite dell’ordine pubblico internazionale.
registri di matrimonio degli atti di matrimonio ce-
8. Nella memoria delle parti ricorrenti è stata
lebrati all’estero.
evidenziata l’entrata in vigore della legge n. 76
Dunque la legge italiana non può più regolare
del 2016 e la previsione nell’art. 1, comma 28 lett.
situazioni, quali quella dedotta in giudizio, ante-
b), della delega al Governo per l’emanazione di
cedenti il 5 giugno 2016 (data di entrata in vigore
decreti attuativi in ordine alla materia del diritto
della l. n. 76 del 2016).
internazionale privato “prevedendo l’applicazio-
9. Nella memoria dell’associazione “Rete Len-
ne della disciplina dell’unione civile tra persone
ford” viene affrontata specificamente la categoria
dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle
delle coppie cd. miste, ovvero composte da un
coppie formate da persone dello stesso sesso che
cittadino italiano ed un cittadino straniero con
abbiano contratto all’estero matrimonio, unione
matrimonio celebrato all’estero. Questa tipologia
civile o altro istituto analogo”.
di unione coniugale non può produrre gli effetti
Nella relazione illustrativa era stato sostenuto
dell’unione civile, in quanto il citato art. 32-bis l.
che “per quanto riguarda il matrimonio tra per-
n. 218 del 1995 limita tale peculiare effetto solo ai
sone dello stesso sesso celebrato all’estero, la solu-
matrimoni contratti dai cittadini italiani. La con-
zione obbligata è quella per cui lo stesso produce
ferma della correttezza dell’inapplicabilità della
in Italia gli effetti dell’unione civile regolata dalla
limitazione degli effetti alle coppie miste deriva
legge italiana, indipendentemente dalla cittadi-
dal confronto tra lo schema di decreto legislati-
nanza (italiana o straniera) delle parti”. Succes-
vo trasmesso una prima volta al Parlamento, che
sivamente, tuttavia, la Commissione affari Costi-
si riferiva genericamente al matrimonio contratto
tuzionali del Senato e le Commissioni Giustizia
all’estero da persone dello stesso sesso, e il te-
di Camera e Senato hanno rilevato che questa
sto effettivamente adottato che si riferisce invece
formulazione così ampia contraddicesse i prin-
a “cittadini italiani dello stesso sesso”. Il rinvio
cìpi generali in materia di diritto internazionale
esclusivo alla legge italiana avrebbe impedito
475
Giurisprudenza
l’applicazione delle regole di diritto internaziona-
specie, deve essere prospettata eccezione d’ille-
le privato il cui scopo è il coordinamento con gli
gittimità costituzionale delle seguenti norme:
ordinamenti stranieri.
- art. 1, comma 28, lettera b) l. n. 76 del 2016
Nella memoria viene, infine, sottolineato il di-
nella parte in cui prevede anche per i matrimoni
fetto di coordinamento normativo tra l’art. 125,
formati all’estero da una coppia formata da un
comma 5, n. 1, del r.d. n. 1238 del 1939, che
cittadino italiano e da uno straniero l’applicazio-
prescrive la trascrizione nei registri di matrimo-
ne della disciplina dell’unione civile;
nio celebrati all’estero e l’art. 134-bis, introdotto
- l’art. 134-bis, comma 3, lettera a) del r.d. n.
dal d.lgs. n. 5 del 2017, secondo il quale tutti
1238 del 1939 nella parte in cui prevede che nel
gli atti di costituzione delle unioni civili avvenute
registro delle unioni civili di cui all’art. 14 n. 4-bis
all’estero e gli atti di matrimonio tra persone del-
del r.d. n. 1238 del 1939 debbano trascriversi tutti
lo stesso sesso avvenuti all’estero devono essere
gli atti di matrimoni tra persone dello stesso ses-
trascritti nel registro delle unioni civili. Si tratta di una dimenticanza del legislatore delegato, come sottolineato anche dal Consiglio Nazionale del Notariato. Deve pertanto ritenersi che il citato art. 134-bis sia applicabile soltanto ai matrimoni contratti da soli cittadini italiani all’estero in quanto non è plausibile che una tipologia di matrimonio che secondo le norme di diritto internazionale privato può essere trascritto come tale debba subire, per una disposizione relativa ad una fase meramente certativa, una sòrte diversa. I matrimoni composti da coppie miste non sono stati celebrati all’estero con un intento elusivo, costituendo l’esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto dall’art. 12 Cedu e 9 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’unione matrimoniale dedotta nel presente giudizio non solo è coerente con la lex loci, ma ha un elemento di transnazionalità che non è stato creato ad hoc ma
so avvenuti all’estero. L’eccezione viene prospettata in relazione agli artt. 2, 3, 29 e 117 Cost. nonchè in relazione agli artt. 8 e 14 Cedu. L’interpretazione censurabile sarebbe infatti fondata soltanto sul sesso e sull’orientamento sessuale dei coniugi così violando il principio di uguaglianza. In assenza dell’impedimento costituito dalla contrarietà all’ordine pubblico internazionale non è ragionevole ed è discriminatoria la disparità di trattamento tra matrimonio contratto all’estero da coppia eterosessuale e dello stesso sesso nell’ipotesi di matrimonio cd. misto. 10. Eccezioni preliminari d’inammissibilità del ricorso. Preliminarmente devono essere affrontate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso per cassazione prospettate dall’Avvocatura dello Stato in rappresentanza e difesa del Sindaco in qualità di Ufficiale del Governo.
è agganciato alla legge nazionale di uno dei co-
10.1 In primo luogo è stato dedotto il difet-
niugi, e, dunque, nell’esercizio di un diritto fon-
to di notifica del ricorso per cassazione al Pro-
damentale. In conclusione, l’art. 32-bis l. n. 218
curatore generale presso la Corte di cassazione.
del 1995 non è applicabile alla fattispecie.
Le parti ricorrenti hanno depositato all’udienza
9.1. L’applicazione del cd. downgrading (ov-
del 30 novembre 2017 la copia dell’avviso di ri-
vero l’applicazione della disciplina normativa
cevimento dell’atto regolarmente notificato al
delle unioni civili) anche ai matrimoni cd. misti
suddetto Procuratore generale. Deve, peraltro,
determinerebbe una violazione dell’art. 3 Cost.
evidenziarsi che il ricorso non deve essere no-
Ove si ritenga, contro il chiaro dato testuale, che
tificato al Procuratore generale presso la Corte
l’art. 32-bis sopra citato sia applicabile alla fatti-
di Cassazione ma soltanto all’Ufficio della Procu-
476
Marco Ramuschi
ra generale presso la Corte d’Appello, in quanto
si al riguardo che si tratta dell’esercizio di una
parte del giudizio che ha dato luogo al provvedi-
funzione certificativa a carattere dichiarativo del
mento impugnato. La giurisprudenza costante di
tutto priva di discrezionalità amministrativa, in
questa Corte, ha, al riguardo, stabilito che anche
quanto regolata esclusivamente da norme legi-
tale ultima omissione sia priva di rilievo ove le
slative o regolamentari che ne pongono in luce
conclusioni del P.G. presso la Corte d’Appello si-
la vincolatività. Il potere di rifiuto della trascrizio-
ano state accolte dalla sentenza impugnata e il
ne dell’atto, se contrario all’ordine pubblico, si
controllo di legittimità sia stato assicurato dalla
colloca all’interno dell’esercizio di una funzione
partecipazione al procedimento davanti la Corte
amministrativa vincolata dal momento che il pa-
di cassazione del Procuratore generale che abbia,
rametro alla luce del quale verificare la coerenza
come nella specie, rassegnato le sue conclusioni
o la non conformità a tale canone deriva da un
(Cass. n. 11211 del 2014).
complesso tessuto costituzionale, convenzionale
10.2 Il Procuratore generale, all’udienza pub-
e legislativo e più specificamente, per gli ufficiali
blica del 30 novembre 2017, ha concluso per il
di stato civile, dalle prescrizioni, per essi cogenti,
rigetto del ricorso, richiamando gli orientamenti
contenute nelle circolari del Ministero degli In-
già espressi da questa Corte ante legge n. 76 del
terni al riguardo. L’ulteriore indice della natura
2016, ed ha ritenuto la fattispecie dedotta in giu-
vincolata della funzione svolta e della correlata
dizio, ratione temporis, non regolata dalla nuova
situazione di diritto soggettivo del richiedente la
legge.
trascrizione si può cogliere nella giurisdizione
11. È stato prospettato dalla parte controricor-
del giudice ordinario e nell’articolazione del rap-
rente anche un unico motivo di ricorso inciden-
porto tra organo giudicante e ufficiale dello stato
tale vòlto alla dichiarazione di nullità della sen-
civile così come previsto dalla norma. Al riguar-
tenza impugnata e di tutto il procedimento per
do, a fronte del rifiuto alla trascrizione dell’atto,
effetto della mancata notifica del ricorso intro-
il richiedente può proporre ricorso giurisdiziona-
duttivo e del reclamo al Sindaco del Comune di
le nei modi indicati nell’art. 95, comma 1, d.p.r.
Milano in qualità di Ufficiale del Governo presso
n. 396 del 2000 e ai sensi del successivo art. 96
l’Avvocatura di Stato. Presumibilmente il ricorso
comma 1: “Il tribunale può, senza particolari for-
ed il reclamo sono stati notificati direttamente al
malità, assumere informazioni, acquisire docu-
Sindaco e non presso l’Avvocatura di Stato, tra-
menti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello
scurando la sua qualità di Ufficiale del Governo
stato civile. 2. Il tribunale, prima di provvedere,
nella specie, ma il giudice del merito, sia in pri-
deve sentire il procuratore della Repubblica e gli
mo che in secondo grado, non ha disposto la
interessati e richiedere, se del caso, il parere del
rinnovazione della notificazione.
giudice tutelare”.
11.1 La censura deve essere disattesa. Tra le
L’audizione dell’ufficiale dello stato civile, ha,
attribuzioni del sindaco nei servizi di competen-
pertanto, natura eventuale, in quanto conseguen-
za statale, l’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 in-
te alle valutazioni relative alle esigenze istruttorie
clude specificamente alla lettera a) la tenuta dei
formulate dal Tribunale e non è, di conseguenza,
registri dello stato civile. Questa funzione pubbli-
idonea a predeterminare una partecipazione ne-
ca viene svolta dal sindaco in qualità di Ufficiale
cessaria dell’ufficiale dello stato civile al giudizio.
del Governo. L’eccezione prospettata richiede il
12. Applicabilità della l. n. 76 del 2016 e dei
preventivo esame della natura dell’attività svolta
decreti legislativi delegativi n. 5 e 7 del 2017 al
dal Sindaco in tale peculiare ruolo. Può osservar-
giudizio.
477
Giurisprudenza
Pregiudiziale all’esame dei singoli motivi di ri-
che la disciplina delle trascrizioni dei matrimoni
corso è la verifica dell’applicabilità alla fattispecie
o delle unioni giuridicamente riconosciute di na-
dedotta in giudizio della nuova disciplina nor-
tura omoaffettiva contratte all’estero. Il legislatore
mativa relativa alle unioni civili tra persone dello
ha avvertito l’inadeguatezza della regolazione dei
stesso sesso. Nella specie il matrimonio di cui si
rapporti di famiglia contenuti nel Titolo III, capo
chiede la trascrizione è stato contratto prima del
IV della l. n. 218 del 1995 ed ha introdotto gli
5 giugno 2016, giorno in cui è entrata in vigore
artt. 32-bis, ter, quater, quinquies. Gli artt. 32-ter
la l. n. 76 del 2016 ed anche il giudizio è stato
e quater hanno ad oggetto l’individuazione della
instaurato anteriormente a tale data.
giurisdizione e della legge applicabile in ordine
La giurisprudenza di legittimità, in relazione a
alla capacità e alle condizioni per contrarre ma-
un caso analogo (matrimonio contratto all’estero
trimonio e allo scioglimento delle unioni civili.
da due cittadini italiani dello stesso sesso), con la
Gli artt. 32-bis e quinquies riguardano, invece,
sentenza n. 4124 del 2012 ha escluso la legittimità della trascrizione e, successivamente, con la sentenza n. 2400 del 2015 ha ritenuto inapplicabile il modello matrimoniale alle unioni omoaffettive, in una fattispecie sórta dal rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali, nonostante la indubitabile riconducibilità di tali unioni tra le formazioni sociali che godono di pieno riconoscimento e protezione ex art. 2 Cost. In entrambe le decisioni è stato evidenziato come sia l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia l’art. 12 Cedu, non impongano agli Stati l’adozione del modello matrimoniale per il riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive al loro interno, ferma la necessità di garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali sórti da tali unioni tendenzialmente omogeneo a quelle coniugali.
specificamente il tema degli effetti nel nostro ordinamento dei matrimoni e delle unioni civili (o istituti analoghi come precisa l’art. 32-quinquies) contratte all’estero da cittadini italiani. La definizione degli effetti rispettivamente del matrimonio e dell’unione civile (o istituto analogo) contratti all’estero da cittadini italiani non può essere temporalmente limitata, proprio in virtù dell’intrinseca ratio della novella, alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute, contratte dopo l’entrata in vigore della legge italiana né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio. Nessuna delle due norme contiene la delimitazione dell’efficacia temporale del meccanismo legislativo di conversione (nell’ipotesi del matrimonio contratto all’estero) o di equiparazione degli effetti (nell’ipotesi dell’unio-
La conseguenza, prospettata dal Procuratore
ne contratta all’estero) e, del resto, una previsio-
Generale nella propria requisitoria, della inap-
ne diversa avrebbe determinato un’ingiustificata
plicabilità del nuovo regime giuridico introdotto
ed irragionevole disparità di trattamento per i cit-
dalla l. n. 76 del 2016, anche alla luce delle pro-
tadini italiani che abbiano contratto matrimoni o
nunce n. 138 del 2010 e 170 del 2014, è la radi-
unioni all’estero prima dell’entrata in vigore della
cale intrascrivibilità del matrimonio contratto da
nuova legge, ai quali sarebbe preclusa in via ge-
una coppia omoaffettiva all’estero.
nerale l’applicazione delle nuove norme di diritto
Tale conclusione, tuttavia, non può essere in-
internazionale privato, vòlte proprio ad evitare
tegralmente condivisa, dal momento che la legge
soluzioni di continuità e disomogeneità di condi-
n. 76 del 2016 oltre ad introdurre un peculiare
zioni di riconoscimento e di tutela all’interno del
modello giuridicamente riconosciuto per le unio-
nostro ordinamento, con riferimento a situazioni
ni omoaffettive, ha regolato specificamente an-
omogenee.
478
Marco Ramuschi
L’applicazione delle nuove norme ai rapporti sórti prima della sua entrata in vigore non co-
13.1 Il giudizio di riconoscimento degli atti e dei provvedimenti giurisdizionali esteri.
stituisce una deroga al principio d’irretroattività
Secondo il consolidato orientamento di que-
della legge, ma una conseguenza della specifica
sta Corte, il sindacato giurisdizionale deve esse-
funzione di coordinamento e legittima circolazio-
re rivolto agli effetti che possono prodursi nel
ne degli status posta alla base della loro intro-
nostro ordinamento a causa del riconoscimento
duzione nell’ordinamento. L’esigenza primaria,
o, nella specie, della trascrizione dell’atto, senza
indicata anche nel comma 28 dell’art. 1 della l.
che lo stesso possa essere sottoposto ad un sin-
n. 76 del 2016, nel quale è definito l’àmbito della
dacato contenutistico (Cass. n. 15343 del 2016) o,
delega al Governo nella materia, deve rinvenir-
nel caso si tratti di una sentenza straniera, senza
si proprio nella necessità di fornire un regime
che si debba verificare la correttezza della solu-
giuridico uniforme alle coppie che abbiano (già)
zione adottata dal giudice straniero in relazione
contratto all’estero un matrimonio, unione civile
alla disciplina di diritto positivo interno (cfr. Cass.
od altro istituto. Poiché con il matrimonio o con
n. 9483 del 2013, sulla irrilevanza della diversità
l’unione civile od istituto analogo si costituisce
del regime patrimoniale coniugale vigente negli
uno status tipicamente a natura non istantanea,
Stati Uniti rispetto a quello italiano).
ma destinato a durare nel tempo quanto meno
Neanche l’accertamento dell’esistenza (o della
fino all’eventuale suo scioglimento, deve essere
mancanza) di analogo istituto nell’ordinamento
applicato, in tema di riconoscimento degli effetti
italiano costituisce, in linea generale, un ostacolo
di esso in un ordinamento diverso da quello in
impeditivo al riconoscimento, come è accaduto
cui il vincolo è stato contratto, il regime giuridico
nelle pronunce che hanno riconosciuto provve-
vigente al momento della decisione, non essen-
dimenti e sentenze straniere di divorzio ancor-
do costituzionalmente compatibile una soluzione
ché negli ordinamenti di provenienza non fosse
che, solo in virtù di una preclusione tempora-
conosciuta la separazione personale. Il limite ef-
le, potrebbe impedire il riconoscimento di effetti
fettivo, in ordine ai rapporti di famiglia, è costi-
giuridici all’interno del nostro ordinamento a cit-
tuito dal complesso dei princìpi anche di natu-
tadini italiani e stranieri.
ra valoriale, costituzionale e convenzionale che,
13. La trascrizione del matrimonio contratto
sul fondamento della dignità della persona, della
all’estero da un cittadino italiano e da un cittadi-
uguaglianza di genere e della non discriminazio-
no straniero.
ne tra generi ed in relazione all’orientamento ses-
Premessa l’astratta applicabilità del nuovo re-
suale, determinano l’orizzonte non oltrepassabile
gime di diritto internazionale privato alla fattispe-
dell’ordine pubblico internazionale. Un atto o
cie dedotta in giudizio, ed in particolare degli
provvedimento straniero che sia rispettoso di ta-
artt. 32-bis e quinquies, specificamente riguar-
le limite merita di essere riconosciuto nel nostro
danti il riconoscimento di matrimoni o unioni
ordinamento con riferimento specifico agli effetti
riconosciute contratte all’estero, deve in primo
che è destinato a produrre.
luogo essere definito l’oggetto dell’accertamen-
13.2 La peculiarità della domanda.
to relativo al riconoscimento dell’efficacia di at-
L’applicazione dei princìpi sopra esposti alla
ti, provvedimenti o sentenze straniere nel nostro
fattispecie dedotta nel presente giudizio presenta
ordinamento secondo gli artt. 64 e ss. della l. n.
delle peculiarità che meritano di essere sintetica-
218 del 1995.
mente rilevate.
479
Giurisprudenza
Le parti ricorrenti hanno richiesto la trascrizio-
determinazione degli effetti nonché delle condi-
ne dell’atto di matrimonio come tale. Esse, come
zioni e capacità matrimoniali che, anche ai fini
ribadito anche in tutti gli atti difensivi dimessi in
della legge applicabile, sono regolate dal crite-
giudizio, richiedono il riconoscimento della loro
rio della legge nazionale dei contraenti (art. 27).
unione coniugale come matrimonio e non come
Quest’ultima, ove diversa, darà luogo ad àmbiti
unione civile. Non ritengono legittima l’applica-
di riferimento giuridico diverso, rispetto ai quali
zione del cd. downgrading ovvero la conversione
non viene indicato un criterio di prevalenza.
della loro unione matrimoniale in unione civile.
Nel caso di specie, la non contrarietà all’or-
Non ritengono, di conseguenza, sufficiente che
dine pubblico internazionale, così come inter-
mediante la trascrizione negli atti del registro del-
pretato dal legislatore della l. n. 76 del 2016 e
le unioni civili del loro matrimonio si produca-
dei decreti delegati, del riconoscimento del ma-
no automaticamente nel nostro ordinamento gli
trimonio e delle unioni civili o istituti analoghi
effetti giuridici previsti dalla l. n. 76 del 2016 e
contratti all’estero, è consacrata dagli artt. 32-bis
la conseguente, tendenziale, equiparazione del-
e quinquies della l. n. 218 del 1995. Gli atti di
le tutele a quelle previste per l’unione coniugale
matrimonio e di unioni riconosciute producono
con i limiti in essa indicati e salva la clausola di
senz’altro effetti giuridici nel nostro ordinamento
salvaguardia per i diritti già riconosciuti in sede
secondo il regime di convertibilità stabilito dalle
giurisdizionale, contenuta nel comma 20 dell’art.
nuove norme.
1 della l. 76 del 2016. Alla peculiarità della domanda proposta dal-
13.3 L’esame del quadro giuridico di riferimento.
le parti ricorrenti corrisponde specularmente la
La norma cardine per stabilire entro che limiti
complessità del sistema giuridico ad essa astratta-
può essere riconosciuto nel nostro ordinamento
mente applicabile. Deve rilevarsi, al riguardo, che
l’atto di matrimonio dedotto nel presente giudi-
le norme di diritto internazionale privato (artt.
zio è l’art. 32-bis della l. n. 218 del 1995.
64 e ss. l. n. 218 del 1995; per i provvedimen-
La norma dispone che “Il matrimonio contrat-
ti ed atti in materia di famiglia, artt. 65 e 66),
to all’estero da cittadini italiani con persona del-
come già evidenziato, concernono il riconosci-
lo stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile
mento degli effetti dell’atto. L’impedimento co-
regolata dalla legge italiana”. La formulazione
stituito dalla contrarietà all’ordine pubblico, nella
vigente è frutto di una modifica del testo iniziale,
configurazione sopra delineata, coerente con gli
dovuta all’intervento correttivo sollecitato dalle
orientamenti di questa Corte (Cass. n. 11599 del
Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia sul
2016 e Cass., S.U., n. 16601 del 2017), riguarda gli
testo precedente che non prevedeva la limitazio-
effetti e non la qualificazione dell’atto. A tal pro-
ne della conversione in unione civile ai matri-
posito deve precisarsi che la disciplina contenuta
moni contratti da “cittadini italiani” all’estero ma
nell’art. 28 della l. n. 218 del 1995, relativa alla
si riferiva genericamente ai matrimoni contratti
validità formale del matrimonio, riguarda la legge
all’estero, comprendendovi anche i cittadini stra-
applicabile e non il riconoscimento o la trascri-
nieri. Tale estensione è stata ritenuta ingiustificata
zione dell’atto formato all’estero. Ai fini dell’indi-
rispetto alla ratio antielusiva posta a base del-
viduazione della legge applicabile per la validità
la nuova norma. In particolare si è ritenuto che
formale dell’atto, in via generale, concorre con
quando il matrimonio è stato contratto all’estero
gli altri criteri anche quello del luogo della ce-
da cittadini stranieri non può ravvisarsi in esso al-
lebrazione ma tale disposizione non incide sulla
cun intento di aggiramento della l. n. 76 del 2016
480
Marco Ramuschi
e del modello di unione civile vigente nel nostro
Come già rilevato, le nuove norme regolative
ordinamento, così da doversi escludere la neces-
della trascrizione (e della conseguente produ-
sità di derogare alle regole generalmente appli-
zione degli effetti nel nostro ordinamento) delle
cabili di diritto internazionale privato in relazione
unioni matrimoniali (o delle unioni civili) omoaf-
alla legge applicabile a tale relazione coniugale.
fettive contratte all’estero sono l’art. 32-bis e l’art.
In tale peculiare ipotesi non può essere ignora-
32-quinquies.
to il carattere intrinsecamente transnazionale del
Dall’esame coordinato di esse può essere ri-
rapporto matrimoniale contratto tra cittadini stra-
cavato in primo luogo il principio, definito effi-
nieri, in quanto caratterizzato da un sufficiente
cacemente dalla dottrina di ordine pubblico “po-
grado di estraneità rispetto al nostro ordinamen-
sitivo” di netto favor in ordine al riconoscimento
to, con conseguente operatività dei criteri di col-
giuridico delle unioni omoaffettive ed all’acces-
legamento stabiliti negli artt. da 26 a 30 della l. n.
so alle unioni civili ex l. n. 76 del 2016. L’art.
218 del 1995 o, ove applicabili, dei regolamenti
32-quinquies contiene una clausola di salvaguar-
UE in materia matrimoniale (Regolamento CE n.
dia secondo la quale le unioni civili o altri istituti
2201 del 2003 e 1259 del 2010).
analoghi, anche se non dotati di un complesso di
L’art. 32-bis, in conclusione, non trova applica-
strumenti di tutela equiparabili a quelli contenuti
zione diretta nell’ipotesi in cui venga richiesto il
nella l. n. 76 del 2016, producono gli stessi effetti
riconoscimento di un’unione coniugale contratta
delle unioni civili regolate dalla legge italiana. La
all’estero tra due cittadini stranieri. Il matrimonio
norma stabilisce la prevalenza della legge italia-
dovrebbe essere trascritto, in questa ipotesi, co-
na rispetto a leggi straniere che non tutelino in
me tale, senza operare alcuna conversione ancor-
maniera equivalente tali unioni e costituisce uno
ché il r.d. n. 1238 del 1939, così come modificato
degli indicatori della centralità e l’esclusività del-
dal d.lgs. n. 5 del 2017, non preveda un registro
la scelta adottata dal legislatore italiano in ordine
dei matrimoni contratti da cittadini stranieri dello
al riconoscimento delle unioni omoaffettive.
stesso sesso all’estero ma, al contrario, per questa
L’art. 32-bis completa, pertanto, il quadro de-
ipotesi stabilisca, verosimilmente per un difetto
gli effetti che possono produrre le diverse tipo-
di coordinamento con l’altro d.lgs. n. 7 del 2017,
logie di unioni formate da coppie omoaffettive
all’art. 63, comma 2, lett. c-bis, che anche tali atti
nel nostro ordinamento, in quanto stabilisce an-
vadano trascritti nel registro delle unioni civili.
che per l’ipotesi dell’unione coniugale contratta
Tale profilo critico, tuttavia non incide sull’appli-
all’estero quantomeno la produzione degli effetti
cazione della regola sostanziale della lex fori, in
dell’unione civile ex l. n. 76 del 2016.
considerazione della funzione meramente certifi-
Deve, in conclusione, ritenersi che il legisla-
cativa della trascrizione di un atto che sia idoneo
tore italiano abbia inteso esercitare pienamente
a produrre effetti nell’ordinamento ove ciò sia
la libertà di scelta del modello di riconoscimento
stato richiesto in forza di una norma di legge o di
giuridico delle unioni omoaffettive coerentemen-
un provvedimento giurisdizionale.
te con il quadro convenzionale (artt. 8 e 12 Cedu)
Il testo dell’art. 32-bis lascia tuttavia irrisolta
e con quello derivante dal sistema anche costi-
la questione, formante oggetto del presente giu-
tuzionale dell’Unione Europea (art. 9 Carta dei
dizio, relativa alla trascrizione in Italia del matri-
diritti fondamentali dell’Unione Europea).
monio tra persone dello stesso sesso, di cui una
È stato prefigurato un sistema di riconosci-
sia cittadino italiano e l’altro cittadino straniero,
mento delle unioni omoaffettive, contratte all’e-
contratto all’estero.
stero, fondato sulla preminenza del modello
481
Giurisprudenza
adottato nel diritto interno delle unioni civili. Con
dello stesso. Il riconoscimento dell’atto deter-
la l. n. 76 del 2016 il legislatore ha colmato il
mina il regime giuridico applicabile secondo le
vuoto di tutela che caratterizzava l’ordinamento
norme di collegamento di diritto internazionale
interno, così come richiesto dalla Corte Cost. con
privato elaborate dal d.lgs. n. 7 del 2017 (preva-
la sentenza n. 170 del 2014 e dalla Corte Europea
lentemente coerenti con quelle preesistenti salve
dei diritti umani nella sentenza Oliari contro Ita-
le esigenze di adeguamento dovute al nuovo isti-
lia (sentenza del 21 luglio 2105 ricorsi n. 18766 e
tuto dell’unione civile).
36030 del 2011), operando una scelta diversa da
Nel caso di specie occorre stabilire se trova
quella di molti altri Stati, fondata, invece sull’a-
applicazione la limitazione degli effetti stabilita
dozione del modello matrimoniale. Tale scelta è
nell’art. 32-bis alla fattispecie peculiare dedotta
stata il frutto dell’esercizio di una discrezionalità
in giudizio o se l’atto in oggetto può essere tra-
legislativa del tutto rientrante nel “potere di ap-
scritto come unione matrimoniale (e non come
prezzamento degli Stati” indicato dalla giurispru-
unione civile).
denza della Corte Edu proprio con riferimento
La specialità della normazione introdotta con
all’interpretazione dell’art. 12 (Sentenza Schalk
il d.lgs. n. 7 del 2017, nel sistema previgente di
e Kopf del 3 giugno 2010, ricorso n. 30141 del
diritto internazionale privato, determina l’appli-
2004) e della precisa indicazione proveniente
cazione di questo peculiare regime giuridico de-
dalla citata sentenza n. 170 del 2014. Per le unio-
gli effetti degli atti formati all’estero, nell’àmbito
ni omoaffettive è stato scelto un modello di rico-
delle unioni omoaffettive. La disciplina generale
noscimento giuridico peculiare, ancorché in larga
contenuta negli artt. 24 e seguenti della l. n. 218
parte conformato, per quanto riguarda i diritti ed
del 1995 è integrata da quella puntuale sopra in-
i doveri dei componenti dell’unione, al rapporto
dicata e il rispetto del limite costituito dall’ordine
matrimoniale. Alla diversità della “forma” dell’u-
pubblico internazionale non deve essere oggetto
nione civile rispetto al matrimonio corrisponde,
di un esame specifico, essendo già stato oggetto
peraltro, un’ampia equiparazione degli strumen-
della valutazione operata dal legislatore all’inter-
ti di regolazione, realizzata attraverso la tecnica
no del nuovo regime giuridico di carattere specia-
del rinvio alla disciplina codicistica del rapporto
le ex art. 1, comma 28, della l. n. 76 del 2016. Le
matrimoniale da ritenersi, anche in ordine alla
unioni omoaffettive nel nostro ordinamento non
funzione adeguatrice della giurisprudenza, il pa-
contrastano con l’ordine pubblico internaziona-
rametro di riferimento antidiscriminatorio.
le e, conseguentemente, anche quelle contratte
13.4 Il riconoscimento del matrimonio forma-
all’estero devono essere riconosciute ed assistite
to all’estero da cittadino italiano e cittadino stra-
da un sistema di tutele adeguato. La compatibili-
niero.
tà dei modelli adottati all’estero (matrimonio od
Prima di procedere all’esame del nuovo siste-
unione civile) nel nostro ordinamento trova una
ma di diritto internazionale privato relativo agli
regolazione puntuale con i meccanismi di con-
effetti dei matrimoni e delle unioni contratte all’e-
versione elaborati dal legislatore del d.lgs. n. 7
stero da cittadini dello stesso sesso, è necessario
del 2016. Tale complesso di regole definisce, tut-
ribadire che all’esito del rifiuto della trascrizione
tavia, anche il perimetro all’interno del quale tali
dell’atto (o in virtù dell’opposizione al riconosci-
unioni producono effetti nel nostro ordinamento.
mento di un titolo giurisdizionale estero), il sin-
La libertà di scelta del modello di unione omoaf-
dacato giurisdizionale riguarda gli effetti dell’atto
fettiva rimessa ai singoli Stati si estende, a fini
o del provvedimento e non è limitato alla forma
antielusivi e di coerenza antidiscriminatoria del
482
Marco Ramuschi
sistema di regolazione interna, anche alla pro-
all’estero ove non si adottasse la soluzione inter-
duzione degli effetti degli atti formati all’estero,
pretativa dell’art. 32-bis cui si è acceduto.
salva l’ipotesi della totale transnazionalità di essi
Si deve, inoltre, rilevare, che se l’art. 32-bis si
(matrimonio contratto all’estero da cittadini en-
applicasse anche ai cd. matrimoni “misti”, ovvero
trambi stranieri).
contratti da un cittadino italiano e da un cittadino
All’interno del quadro che si è delineato non
straniero, si determinerebbe una discriminazione
risulta disagevole l’interpretazione dell’art. 32-bis
cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno
della l. n. 218 del 1995.
contratto matrimonio all’estero e possono “tra-
Sul piano strettamente testuale, come è stato
sportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro
rilevato anche dalla dottrina, si può cogliere una
ordinamento e quelli che hanno contratto un’u-
differenza rilevante tra la formulazione dell’art.
nione civile in adesione al modello legislativo ap-
32-bis e quella dell’art. 32-quinquies. Nella pri-
plicabile nel nostro ordinamento.
ma norma l’àmbito soggettivo di applicazione del nuovo regime riguarda in generale “il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani” mentre l’art. 32-quinquies, che estende il sistema di tutele previsto dalla l. n. 76 del 2016 anche ad istituti analoghi, si riferisce ad unioni costituite all’estero “tra cittadini italiani”, oltre a richiedere l’ulteriore requisito dell’abituale residenza in Italia. La differenza testuale ha un significato logicogiuridico chiaro. L’art. 32-bis esprime la nettezza della scelta legislativa verso il modello dell’unione civile, limitando gli effetti della circolazione di atti matrimoniali relativi ad unioni omoaffettive a quelle costituite da cittadini entrambi stranieri, come rileva l’indicatore costituito dall’uso del “da”, rispetto alla diversa opzione adottata dall’art. 32-quinquies che ha una ratio estensiva del regime giuridico di riconoscimento e tutela
13.5 Le eccezioni d’illegittimità costituzionale. Alla luce del quadro costituzionale, convenzionale e di diritto interno delineato, non possono essere accolte le eccezioni d’illegittimità costituzionale formulate dall’interveniente Associazione Rete Lenford. Premessa l’applicabilità diretta dell’art. 32bis l. n. 218 del 1995, in quanto norma diretta proprio a regolare la circolazione ed il riconoscimento degli effetti degli atti di matrimonio contratti da coppie omoaffettive all’estero, così come richiesto dalla delega contenuta nell’art. 1, comma 28 della l. n. 76 del 2016, la non trascrivibilità dell’atto di matrimonio formato da un cittadino straniero ed un cittadino italiano non costituisce il frutto di un quadro discriminatorio per ragioni di orientamento sessuale o un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente incompatibile con il limite antidiscriminatorio, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso
contenuto nella l. n. 76 del 2016 a tutti i cittadini
sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio
italiani, ancorché abbiano dato vita all’estero ad
d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli
un vincolo munito di un grado inferiore di diritti.
Stati membri, salva la definizione di uno standard
La soluzione indicata è coerente anche con
di tutele coerenti con l’interpretazione del diritto
il regime giuridico di diritto internazionale pri-
alla vita familiare ex art. 8 fornita dalla Corte Edu.
vato relativo alla capacità e alle condizioni per
La discriminazione tra cittadini italiani non è rav-
contrarre matrimonio. L’art. 27, applicabile nel-
visabile ed anzi, come rilevato, un profilo di di-
la specie, rinvia alla legge nazionale di ciascuno
scriminazione inversa potrebbe individuarsi nella
dei nubendi. Tale criterio nella specie creerebbe
scelta ermeneutica contraria. La discriminazione
un conflitto non risolvibile in ordine alla forma
per orientamento sessuale dei cittadini stranieri in
ed agli effetti della trascrizione dell’atto contratto
ordine alla libertà di circolazione e di stabilimento
483
Giurisprudenza
è del pari non rilevabile dal momento che l’unione omoaffettiva riconosciuta all’estero secondo il paradigma matrimoniale non è priva di effetti nel nostro ordinamento e la regolazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i componenti dell’unione rimane disciplinata dal sistema generale di diritto internazionale privato (artt. 26 e ss.). Infine la specialità del nuovo regime giuridico come illustrato evidenzia, da un lato, che non può essere valutato il limite dell’ordine pubblico internazionale in astratto, disancorato dalle nor-
me di diritto internazionale privato concretamente in vigore, e, dall’altro, che la scelta legislativa è del tutto compatibile con tale parametro. 13.6 In conclusione il ricorso deve essere rigettato. La assoluta novità della questione impone la compensazione delle spese processuali del presente giudizio. P.Q.M. (la Corte) rigetta il ricorso. Compensa le spese processuali del presente giudizio.
Sul matrimonio celebrato all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero del medesimo sesso* Sommario : 1. Il caso. – 2. Effetti e trascrizione del matrimonio celebrato all’estero tra persone del medesimo sesso, nel caso in cui uno dei coniugi sia straniero. – 3. L’astratta applicabilità, al caso di specie, dell’art. 32-bis L. n. 218/1995. – 4. Segue: status familiae e rilevanza della sua circolazione. – 5. La concreta applicabilità, al caso di specie, dell’art. 32-bis L. n. 218/1995. – 6. Intorno alla libertà di scelta del legislatore, circa il modello di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone del medesimo sesso. – 7. Alcune notazioni conclusive.
The Court, with its judgment, first of all gives a very not clear exegesis of the article 32-bis L. n. 218/1995, for both the abstract and the concrete application. Moreover, the Court wrongly declares that, in our legal system, the effects of a marriage between two same-sex person depends on a prior transcription activity of its legal act. In this regard, we will try to demonstrate our humble opinion, concerning the main legal issues of the judgment taken into consideration.
*
Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
484
Marco Ramuschi
1. Il caso. Con la sentenza in epigrafe, il Supremo Collegio ha avuto modo di affrontare diverse questioni giuridiche di nodale importanza, le quali, per migliore comprensione, devono necessariamente essere analizzate movendo dalla descrizione della fattispecie oggetto della pronunzia. In particolare, la vicenda nasce dalla richiesta, proveniente da due soggetti del medesimo sesso, di trascrivere, come tale, il proprio atto di matrimonio, le cui nozze sono state celebrate, dapprima, in Brasile, e successivamente in Portogallo con rito civile. A séguito della mancata trascrizione, i coniugi hanno proposto ricorso giudiziale, il quale, sia in primo grado, sia in appello, è stato respinto. Successivamente alla pronunzia d’appello, i coniugi propongono ricorso per Cassazione. Tra gli altri motivi di ricorso, è d’uopo porre in luce quelli che, ai fini specifici degli effetti e della trascrizione del matrimonio celebrato all’estero tra persone del medesimo sesso, rilevano quali motivi principali. I ricorrenti, a sostegno della propria richiesta, adducono – fra gli altri motivi – la violazione del divieto di discriminazione, avendo la Corte d’Appello affermato come il matrimonio tra persone del medesimo sesso non corrisponda al tipo di matrimonio previsto dal nostro ordinamento, il quale, com’è noto, prevede la diversità di sesso dei nubendi. Sul punto, la Suprema Corte ha prontamente rilevato l’insussistenza di alcuna discriminazione, rilevando, invece, come la non trascrivibilità dell’atto di matrimonio tra persone del medesimo sesso non dipenda affatto dall’esistenza di un quadro discriminatorio, bensì derivi dalla libera scelta del legislatore, in merito al tipo di unione riconosciuta che si deve rannodare ad un’unione formata da due persone dello stesso genere, scelta che, per gli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa (tra cui, appunto, l’Italia), è rimessa al mero apprezzamento degli Stati stessi1. Per giunta, i ricorrenti ebbero a rilevare come l’attuale disciplina italiana, in materia di unioni civili, non possa essere applicata a situazioni antecedenti al 5 giugno 2016, giorno di entrata in vigore, com’è noto, della Legge 21 maggio 2016, n. 76. Sul punto, come si dirà infra2, pur non essendo, in punto di diritto, le motivazioni addotte dalle parti particolarmente persuasive3, a parere di chi scrive non può che ritenersi parzialmente corretta, in sé e per sé, l’apparente, asserita, irretroattività della legge, e in specie sia della L. n. 76/2016, sia delle disposizioni che da essa derivano (tra cui l’art. 32-bis, Legge 31 maggio 1995, n.
1
V., infra, § 6. V., infra, § 3. 3 A modo di esempio, giova rammentare come i ricorrenti abbiano asserito, a noi pare a torto, come l’art. 32-bis trovi solo applicazione per il caso di matrimonio celebrato tra soli cittadini italiani, e non anche tra un cittadino italiano ed uno straniero. Come si vedrà infra al § 5, siffatta disposizione ci pare bensì applicabile anche nel caso in cui il matrimonio sia contratto tra un cittadino italiano e uno straniero. 2
485
Giurisprudenza
218). La Cassazione, al riguardo, ha invece ritenuto applicabili le nuove disposizioni, con talune motivazioni che, se vagliate attentamente, ci paiono anch’esse piuttosto opinabili4. È da ultimo, ma non per rilevanza, necessario osservare come nella pronunzia in commento affiori – ciò lo si arguisce sia da talune motivazioni dei ricorrenti, sia, limpidamente, dalle motivazioni addotte dalla Suprema Corte – la commistione tra gli effetti giuridici del matrimonio-atto e la trascrizione del medesimo, giacché si fanno erroneamente dipendere, come proveremo, umilmente, a dimostrare nel paragrafo seguente, gli effetti dalla trascrizione.
2. Effetti e trascrizione del matrimonio celebrato all’estero tra persone del medesimo sesso, nel caso in cui uno dei coniugi sia straniero.
Giova porre in luce, anzitutto, come la Suprema Corte, mercé la pronunzia in commento, abbia affermato il principio per il quale solo a séguito della trascrizione5, in Italia, dell’atto di matrimonio6, contratto tra persone dello stesso sesso e celebrato all’estero, esso potrà produrre i propri effetti nel nostro ordinamento. Sicché, la Corte pare ritenere che gli effetti dei matrimoni (celebrati con rito civile), contratti all’estero tra persone dello stesso genere, debbano per forza farsi discendere dalla preventiva trascrizione dei loro atti di celebrazione. Dal che, s’inferisce come la Corte abbia posto in essere, nel caso di specie, una commistione tra gli effetti7, rilevanti sul piano del diritto internazionale privato e riguardanti il matrimonio-rapporto, e la pubblicità, rilevante, invece, sul piano interno
4
V., infra, §§ 3 e 4. Sulla nozione di trascrizione, v. almeno F.S. Gentile, voce Trascrizione, in Noviss. Dig. it., XIX, Torino, 1973, 517: «Trascrizione è la riproduzione letterale su pubblici registri ad hoc di un documento (la cosiddetta nota) contenente tutti gli estremi di un negozio giuridico o di un provvedimento, la cui conoscenza, da parte di terzi, sia ritenuta rilevante o comunque utile». In generale, sulla pubblicità dei negozi, v. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, Milano, 1957, IX ed., 513 ss. 6 Sulla situazione antecedente all’entrata in vigore della L. n. 76/2016, e indi dei relativi decreti attuativi, v. almeno M. Gattuso, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, vol. I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, t. I, Relazioni familiari - Matrimonio - Famiglia di fatto, Milano, 2011, II ed., 793 ss.; C.M. Mazzoni, Lo stato civile, in C.M. Mazzoni - M. Piccinni, La persona fisica, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2016, 373-374 s. 7 Diversi sono i capoversi della sentenza in cui si denota la presenza di siffatta commistione. A guisa d’esempio, si leggano, tra gli altri, sia il capoverso in cui, con riferimento beninteso all’atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, la Corte discorre di «effetti che possono prodursi nel nostro ordinamento […] a causa […] della trascrizione dell’atto», sia il capoverso in cui, parlando delle «nuove norme [tra cui, appunto, viene indicato l’art. 32-bis] regolative della trascrizione [del matrimonio]» (sic!), la Corte afferma che da esse deriva «la conseguente produzione degli effetti [del matrimonio] nel nostro ordinamento». La Corte, inoltre, in due punti della sentenza pare contraddirsi: in un punto, infatti, è a ritenere come la norma racchiusa nell’art. 32bis sia norma regolatrice della trascrizione delle unioni matrimoniali contratte all’estero tra persone del medesimo sesso; in un altro, invece, è a ritenere – in questo caso, però, a noi pare giustamente – come la norma racchiusa nell’art. 32-bis sia norma regolatrice degli effetti prodotti, nel nostro ordinamento, dai matrimoni (tra persone dello stesso genere) contratti all’estero. 5
486
Marco Ramuschi
dei meri adempimenti di stato civile8, i quali pertengono il solo atto di matrimonio9. Il matrimonio-atto e il matrimonio-rapporto10, dunque, giusta l’art. 32-bis L. n. 218/1995, sono sottoposti a due leggi dissimili11: la legge dello Stato di origine, disciplina gli aspetti relativi alla creazione della situazione (il matrimonio-atto), mentre la legge designata dal sistema di diritto internazionale privato dello Stato ove tale atto viene riconosciuto, disciplina gli effetti, del matrimonio-atto, che ancóra non si sono prodotti12. La Corte, per di più, arriva anche a ritenere, a noi pare erroneamente, come la norma racchiusa nell’art. 32-bis sia regolatrice della trascrizione delle unioni matrimoniali contratte all’estero tra persone dello stesso sesso. Sul punto, è necessario muovere da quanto, in generale, previsto nell’ordinamento giuridico italiano, in seno al quale la «pubblicità di diritto» rappresenta un insieme di meccanismi, approntati dall’ordinamento stesso, destinati a rendere possibile, senza particolari difficoltà, la conoscenza, a chi ne abbia desiderio, di atti od eventi produttivi di conseguenze giuridiche13.
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La funzione secondaria dell’ufficio (e dell’ufficiale) di stato civile consta nella custodia degli atti di stato civile (tra cui, giustappunto, l’atto di matrimonio) e il relativo rilascio di copie, estratti o certificati: cfr. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 363. 9 C. Coppola, La costituzione dell’unione civile con uno straniero, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. V, Unione civile e convivenza di fatto, Torino, 2017, 54. V. anche, prima dell’emanazione della L. n. 76/2016, oltreché di tutte le leggi ad essa correlate, L. Tomasi, La tutela degli status familiari nel diritto dell’unione europea. Tra mercato interno e spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Padova, 2007, 232 (ma v. pure 255), ad avviso della quale, «La validità […] del matrimonio non impone […] la trascrizione del relativo atto di celebrazione, poiché validità e trascrizione sono questioni distinte e non direttamente correlate». Cfr. anche R. Cafari Panico, Lo stato civile ed il diritto internazionale privato, Padova, 1992, 57, ad avviso del quale, le norme di diritto internazionale privato attengono «al riconoscimento di efficacia [nel nostro ordinamento] della situazione giuridica [il matrimonio] creata nell’ordinamento straniero»; per converso, la trascrizione dell’atto di matrimonio, ad avviso dell’A. (ibidem), «attiene ad una certificazione autonoma nel nostro ordinamento», fondata sulla base del mero matrimonio-atto, formatosi, appunto, in uno Stato terzo. Si badi: a nostro credere, può discorrersi, se si vuole, anche di “diritto privato internazionale”. Anzi: a rigore, a noi pare più corretta tale ultima locuzione, ché, come ebbe brillantemente a ritenere F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, Milano, 1962, IX ed., 686, con una locuzione di tal fatta si pone «l’accento logico sull’aspetto sostanziale di esso [del diritto internazionale privato], in quanto, appunto, è rivolto a dirimere il conflitto tra più ordinamenti giuridici, che si assumono – ciascuno – come competenti a disciplinare, prevalentemente, rapporti di diritto privato […], e a fissare quella che, con altra terminologia, si chiama la norma regolatrice dei singoli rapporti giuridici». Cfr., più di recente, F. Mosconi - C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, vol. I, Parte generale e obbligazioni, Torino, 2017, VIII ed., 1-3. 10 En passant: A. Pino, Diritto di famiglia, Padova, 1998, III ed., 24; F. Galgano, Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2002, II ed., 579. 11 D. Damascelli, La legge applicabile ai rapporti patrimoniali tra coniugi, uniti civilmente e conviventi di fatto nel diritto internazionale privato italiano ed europeo, in Riv. dir. int., 2017, 4, 1115 e 1116, ad avviso del quale (ivi, 1116), a ben ragione, l’applicazione della legge dello Stato di origine (del matrimonio) dev’essere limitata ai soli aspetti riguardanti «la creazione della situazione» (alias: la creazione del matrimonio), in guisa da lasciare alla legge individuata dal sistema di norme di conflitto, dettate dallo Stato in cui il matrimonio dev’essere riconosciuto, «la disciplina degli effetti non ancora prodottisi». 12 D. Damascelli, op. cit., 1116. 13 In questi termini, si veda S. Pugliatti, La trascrizione, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, vol. XIV - I, t. I, La pubblicità in generale, Milano, 1957, 194 s. Sul punto, giova richiamare, giocoforza, le non pedestri parole di M. d’Amelio, voce Pubblicità nei negozi giuridici, in Nuovo Dig. it., X, Torino, 1939, 974: «La pubblicità nei negozi giuridici è la divulgazione del rapporto, che dall’intimità gelosa e talvolta misteriosa in cui le parti l’hanno posto, essa trae e fa palese a tutti coloro, che possono avere interesse a conoscerlo. Questa divulgazione giova alla sincerità dell’atto […]. I terzi non hanno altro modo di conoscere la condizione giuridica di coloro, con cui trattano, e che è pure loro dovere di conoscere […]. In difetto di una forma di pubblicità, quella che conta è l’apparenza del diritto […]. Ma dove esiste la pubblicità, l’apparenza del diritto cede alla realtà […]. Ed ecco perchè ogni nuova prescrizione di pubblicità rende il diritto più sicuro
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Con particolare riferimento alla pubblicità dello stato delle persone fisiche14, in seno a questa vi rientra, senz’altro, la pubblicità riguardante i rapporti di famiglia, i quali derivano, principalmente, dal primiero atto con cui si costituisce il consorzio familiare: il matrimonio15. Lo strumento cardine di pubblicità del matrimonio è oggidì rappresentato dall’apposito archivio informatico degli atti di stato civile, previsto dall’art. 10 del Decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000, n. 39616; sicché, in un caso come quello di specie, dovrebbe astrattamente trovare applicazione l’art. 63, co. 2, lett. c)-bis17, del dianzi menzionato D.P.R., il quale prevede la trascrizione, nell’archivio informatico, degli atti dei matrimoni celebrati all’estero tra persone del medesimo sesso. Sennonché, tale disciplina normativa, pur abrogando il precedente regio Decreto 9 luglio 1939, n. 1238, ne ha mantenuto in vita talune disposizioni, fintantoché, così dispone il combinato disposto tra l’art. 109, co. 2, e l’art. 10, co. 2, del D.P.R. n. 396/2000, il Presidente del Consiglio dei Ministri non emani apposito decreto18, che preveda le modalità tecniche per l’iscrizione, la trascri-
e più aderente alla realtà […]». V. altresì R. Corrado, voce Pubblicità degli atti giuridici, in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1967, 518 ss., spec. 519, nonché A. Burdese, Manuale di diritto privato italiano, Torino, 1974, 101 ss., spec. 101: «Oggetto di pubblicità sono i più svariati fatti, in quanto produttivi di effetti giuridici, relativamente sia all’esistenza, all’individuazione e alle varie condizioni (o status) delle persone fisiche […]». 14 Tale funzione, come correttamente ebbero ad affermare M. Stella Richter - V. Sgroi, Delle persone e della famiglia. Filiazione - Tutela degli incapaci - Alimenti - Atti dello stato civile, in Comm. Cod. civ., Libro I, t. II, Torino, 1958, è garantita proprio dal tratto essenziale dei registri dello stato civile: la pubblicità, ex art. 450, co. 1, c.c. 15 Cfr. S. Pugliatti, La trascrizione, cit., 196. Matrimonio che, quale negozio giuridico familiare, avente struttura bilaterale (cfr.: S. Pugliatti, Istituzioni di diritto civile, III, L’attività giuridica, Milano, 1935, II ed., 82 e 188; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., 182 s.; R. de Ruggiero - F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, Milano-Messina, 1955, VIII ed., 262; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 471; A. Bertola, voce Matrimonio (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., X, Torino, 1964, 345 e 353; F. Finocchiaro, Del matrimonio. Art. 79-83, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, BolognaRoma, 1971, 30 ss.; Id., Del matrimonio. Art. 84-158, t. II, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1993, 5 ss.; Id., Matrimonio civile. Formazione, validità, divorzio, Milano, 1997, III ed., 2 ss.; A. De Cupis, Il diritto di famiglia, Padova, 1988, 19, 21 e 35; A. Pino, op. cit., 35-37; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 579-582; G. Musolino, L’inesistenza del negozio matrimoniale, nota a Trib. Latina, 10 giugno 2005, in Riv. not., 2006, 3, 734 ss., spec. 742; T. Auletta, Diritto di famiglia, Torino, 2016, III ed., 26; G. Bonilini, Il matrimonio, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. I, Famiglia e matrimonio, Torino, 2016, 124-127; Id., Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2018, VIII ed., 53; A. Natale, Il matrimonio civile, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. I, Famiglia e matrimonio, Torino, 2016, 151 (testo e nt. 1); M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2016, III ed., 34. Più in generale, cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. XV, t. II, Torino, 1955, II rist. corretta della II ed., 297), rientra pienamente in seno all’oggetto della trascrizione: cfr. D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, Introduzione - Parte preliminare - Parte generale - Diritti della personalità - Diritto di famiglia - Diritti reali, Torino, 1965, VI ed., 185 e 522, ma v. anche, e soprattutto, 596. 16 Registro di matrimonio che rientra nel più ampio novero dei registri dello stato civile, i quali sono da considerarsi, senza dubbio alcuno, i classici «strumenti e meccanismi pubblicitari» previsti dal nostro ordinamento (S. Pugliatti, La trascrizione, cit., 212, cui adde F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 362). 17 Disposizione inserita in seno al D.P.R. dall’art. 1, lett. m), n. 2, lett. d), del Decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5. 18 Il quale, però, ad oggi, non è ancóra stato emanato.
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zione, l’annotazione, la trasmissione e la tenuta degli atti dello stato civile19 nell’archivio informatico20. Tra le disposizioni del r.D. n. 1238/1939 che troveranno, quindi, passeggera applicazione, v’ha da annoverarvi, per il caso di trascrizione di matrimonio celebrato all’estero, dinanzi all’autorità locale, tra un cittadino italiano e uno straniero dello stesso genere, l’art. 134-bis21, il quale prevede, al co. 3, lett. a), che i matrimoni contratti all’estero tra persone del medesimo sesso debbono essere trascritti nella parte seconda del registro delle unioni civili, istituito temporaneamente22 – finché, appunto, non troverà piena attuazione l’archivio informatico – dall’art. 2, co. 1, lett. a), D.lgs. n. 5/201723. Si badi bene: l’art. 134-bis, co. 3, lett. a), non è da riferirsi solamente ai matrimoni di cui all’art. 32-bis: quest’ultima disposizione, invero, non incide sul piano reale (non “converte”, cioè, il matrimonio in unione civile), bensì sul mero piano effettuale24. Nel caso di specie, dunque – e prescindendo ora, per migliore intelligenza, dalla data di celebrazione25 –, il matrimonio può senz’altro trovare pacifica trascrizione26, ex art. 134-bis, co. 3, lett. a), nel registro delle unioni civili (e non già, come richiesto invece dai coniugi, nei registri dei matrimoni ex art. 125 r.D. n 1238/193927, disposizione, codesta, rimasta comunque transitoriamente in vita, giusta l’art. 109, co. 2, D.P.R. n. 396/2000). Orbene, fatte queste dovute, seppur stringate, premesse, e ricollegandoci a quanto affermato nella pronunzia in commento, riteniamo necessario rilevare nuovamente come la Corte, facendo appunto dipendere gli effetti dell’atto di matrimonio dalla sua trascrizione, non abbia fatto alcuna distinzione – la quale, invece, a noi pare sia giocoforza da effettuarsi – tra la produzione di effetti giuridici e la pubblicità dell’atto28. Per vero, la trascrizione
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Sugli atti e i registri dello stato civile – tenendo comunque sempre conto delle modifiche legislative intervenute – v. almeno: F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 362 ss.; M. Stella Richter - V. Sgroi, op. cit., 644 ss.; G. Azzariti, voce Stato civile, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 295 ss.; L. Ferri, Degli atti dello stato civile. Art. 449-455, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1973; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2012, IX ed., rist., 32-33; C.M. Mazzoni, op. cit., 344 ss. 20 Cfr. anche, a guisa di completezza, il combinato disposto tra la Circolare del Ministero dell’Interno del 26 marzo 2001, n. 2, e il D.M. 27 febbraio 2001 (spec. art. 13). 21 Disposizione normativa introdotta ex novo dall’art. 2, co. 1, lett. c), D.lgs. n. 5/2017. Questa previsione normativa, giova sottolinearlo, non è ben chiara, dacché, il prevedere la trascrizione del matrimonio celebrato all’estero tra persone del medesimo sesso nel registro delle unioni civili, collide con tutto quanto detto in tema di non convertibilità del matrimonio, il quale, dall’unione civile, ne mutua solamente gli effetti. Critico, sull’art. 134-bis, è D. Damascelli, op. cit., 1118 (nt. 53), il quale opina come siffatta disposizione paia «il frutto di un travisamento». 22 Anche tale registro, invero, verrà sostituito dall’archivio informatico di cui all’art. 10 D.P.R. n. 396/2000 (v., segnatamente, il suo co. 1, in seno al quale, mercé l’art 1, co. 1, lett. c), D.lgs. n. 5/2017, sono state inserite, dopo le parole «i matrimoni», le parole «le unioni civili»). 23 C. Coppola, op. cit., 55. 24 D. Damascelli, op. cit., 1118 (testo e nt. 53). 25 Sul punto v., infra, § 3. 26 Cfr. pure, seppur con asciuttezza, F. Mosconi - C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, vol. I, cit., 278. 27 Tale disposizione, se letta in combinato disposto con l’art. 126 dello stesso regio Decreto, nella parte in cui prevede che l’atto di matrimonio, fra gli altri, debba indicare «la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie [corsivo aggiunto da noi]», pare sia da applicarsi solamente ai matrimoni eterosessuali celebrati all’estero. 28 Distinzione, invece, attentamente già lumeggiata da C. Coppola, op. cit., 56 e 57. Cfr. anche, nella manualistica, G. Bonilini, Manuale
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dell’atto di matrimonio (si badi: matrimonio civile) ha, per sua natura, una mera funzione certificativa29, e non già costitutiva, di un atto che, atteso il principio locus regit actum (arg. ex art. 28 L. n. 218/199530), è già di per sé valevole31, per cui l’immediata rilevanza giuridica (alias: gli effetti prodotti dall’atto) del matrimonio non è condizionata dalla trascrizione nell’apposito registro dello stato civile32 (esso è valido, invero, per la lex loci celebrationis). Di conseguenza, il matrimonio oggetto della pronunzia in epigrafe, giusta l’art. 32-bis, potrebbe produrre i propri effetti nel nostro ordinamento, a prescindere da una preventiva attività di trascrizione33. Tali effetti, si badi bene, sarebbero i medesimi che originano dall’unione civile. A corroborare quanto testé affermato, si può bensì richiamare il com-
di diritto di famiglia, cit., 452. V. pure, più in generale ed en passant, S. Pugliatti, La trascrizione, cit., 215. 29 Al riguardo, giova ricordare le parole di S. Pugliatti, La trascrizione, cit., 421, il quale, a séguito di un’ampia trattazione e di ampi ragionamenti giuridici – ai quali, per ragioni di economia espositiva, si rinvia –, ebbe a ritenere che il legislatore, nonostante abbia organizzato la pubblicità al fine di «rendere possibile l’acquisizione della conoscenza effettiva», non ha potuto «lasciar dipendere il verificarsi di effetti giuridici che interessano la sfera di diversi soggetti», e che senza meno generano problemi di notevole rilevanza sociale, «da un evento così strettamente individuale e intimo come la conoscenza dei singoli soggetti». Adde F.S. Gentile, op. cit., 518, ove l’A., nell’affermare la natura composita dell’istituto della trascrizione, ne individua, fra le altre, una funzione di «pubblicitànotizia»; e, più in generale, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 186, nonché G. Azzariti, op. cit., 299. Nella fattispecie in analisi, per completezza, occorre rammentare come le parti ricorrenti abbiano a ragione sottolineato, nel secondo motivo di ricorso, come la trascrizione, nella specie, abbia una mera «efficacia certativa» (sic!) e non già «costitutiva». Sulla natura certificativa, e non costitutiva, della trascrizione del matrimonio, cfr., ex plurimis, Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Riv. not., 1999, 6, 1600, nonché Cass., 17 settembre 1993, n. 9578, in Giust. civ., 1994, 1, 79. Anche T. Ballarino, Diritto internazionale privato, Padova, 2011, VII ed., 156, ritenne che la trascrizione, di un matrimonio celebrato all’estero con rito civile, allorquando uno dei due coniugi sia italiano, abbia natura dichiarativa e di pubblicità, e non già costitutiva. 30 Il quale è, altresì, espressione del principio del così detto favor validitatis (T. Ballarino, op. cit., 155; L. Panella, Il matrimonio del cittadino all’estero e dello straniero nello stato, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, vol. I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, t. I, Relazioni familiari - Matrimonio - Famiglia di fatto, Milano, 2011, II ed., 737 s.; F. Mosconi - C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, vol. II, Statuto personale e diritti reali, Torino, 2016, IV ed., 98 s.), in ordine, in tal caso, all’atto di matrimonio. Giova sottolineare, al riguardo, come per la fattispecie in esame non possa trovare concreta applicazione la disciplina del «Rinvio», scolpita in seno all’art. 13, co. 1, L. n. 218/1995, dacché l’applicazione di tale alinea è espressamente escluso dal co. 2, lett. b), della stessa disposizione, con «riguardo alle disposizioni concernenti la forma degli atti» (com’è, appunto, nel caso di specie). 31 C. Coppola, op. cit., 452. In siffatti termini, cfr. anche C.M. Mazzoni, op. cit., 370 s.; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 452. 32 Anche la giurisprudenza di legittimità, movendo dall’art. 28 L. n. 218/1995, ha grandemente avuto modo di pronunziarsi sul tema, affermando, in più occasioni, che «Il principio di immediata rilevanza del matrimonio celebrato all’estero secondo le forme previste dalla legge straniera non è […] condizionato dalle norme italiane relative alla trascrizione: questa, infatti, non ha natura costitutiva, ma meramente certificativa, e scopo di pubblicità, di un atto già di per sé valido in base al principio locus regit actum»: così, Cass., 18 luglio 2013, n. 17620, in banca dati DeJure. In analoghi termini, v. anche, fra le altre, Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Giust. civ., 2012, 7-8, 1691 ss., con nota di M.M. Winkler - F. Chiovini, Dopo la Consulta e la Corte di Strasburgo, anche la Cassazione riconosce i diritti delle coppie omosessuali e in Giur. cost., 2012, 2, 1520, con nota di F. Angelini, La Corte di cassazione su unioni matrimoniali omosessuali: nell’inerzia del legislatore la realtà giuridica si apre alla realtà sociale; nonché Cass., 19 ottobre 1998, n. 10351, in Fam. dir., 1999, 1, 79. In dottrina, v.: F. Finocchiaro, Matrimonio civile. Formazione, validità, divorzio, cit., 48; E. Giacobbe, Il matrimonio, t. I, L’atto e il rapporto, in Tratt. dir. priv., diretto da R. Sacco, 3, Le persone e la famiglia, Torino, 2011, 172 s.; F. Santosuosso, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, in Nuova giur. dir. civ. e comm., fondata da W. Bigiavi, diretta da G. Alpa - G. Bonilini - U. Breccia - O. Cagnasso - F. Carinci - M. Confortini - G. Cottino - A. Iannarelli - M. Sesta, Torino, 2011, 238; C.M. Mazzoni, op. cit., 370 s.; G. Puma, Trascrizione degli atti di matrimonio omosessuale celebrato all’estero alla luce della CEDU, in Dir. pubb. comp. eur., 2016, 2, 398; I. Queirolo, sub art. 115, in AA.VV., Matrimonio. Art. 79-158, a cura di G. Ferrando, in Comm. cod. civ. e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2017, 445. Cfr. anche F.S. Gentile, op. cit., 518: «la trascrizione non è un elemento dell’atto trascritto. Questo sta a sé, con tutte le sue vicende e i suoi eventuali vizi». 33 D’altronde, è noto come «le norme di diritto internazionale privato […]» concernano «il riconoscimento degli effetti dell’atto»: così, a ragione, la Corte nella pronunzia in epigrafe.
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binato disposto tra l’art. 32-bis – il quale discorre sì di «effetti», ma non subordinandoli ad alcuna trascrizione – e l’art. 28 L. n. 218/1995. Rimanendo pur sempre nell’àmbito della disciplina degli effetti, e traslando, a guisa di completezza, l’attenzione sul piano esegetico dell’art. 32-bis, è necessario soggiungere come balzi all’occhio l’opinione, da più parti invalsa34, secondo la quale lo stesso art. 32bis, oltre ad estendere gli effetti dell’unione civile al matrimonio tra persone dello stesso genere, determini addirittura una riqualificazione (o una “conversione”) di quest’ultimo in unione civile. Siffatto assunto è fuor di dubbio incidente sul piano genetico del rapporto matrimoniale35. Al riguardo, è sufficiente36 qui rilevare come l’art. 32-bis, così come formulato, abbia implicitamente affidato, all’ordinamento dello Stato ove si è celebrato il matrimonio, il controllo sia sulla competenza a costituire il matrimonio, sia sulla validità, in ottica sostanziale e di diritto internazionale privato, del medesimo37. Il fatto che il matrimonio rispetti le norme dell’ordinamento giuridico (d’origine) entro il quale è costituito, rappresenta il presupposto essenziale affinché esso possa essere riconosciuto in Italia, sì da poter produrre effetti che, come già sottolineato, sono gli stessi dell’unione civile38. In definitiva, e a corollario di quanto poco innanzi esposto, non può revocarsi in dubbio, a nostro sommesso parere, come l’art. 32-bis non collida con le norme previste in materia di trascrizione, in specie con l’art. 134-bis r.D. n. 1238/1939, giacché diversi, come abbiamo visto, sono i piani operativi sui quali operano39.
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Discorrono di “riqualificazione”, o anche di “conversione”: G. Biagioni, Unioni same-sex e diritto internazionale privato: il nuovo quadro normativo dopo il d.lgs. n. 7/2017, in Riv. dir. int., 2017, 2, 498; C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2017, 1, 41; M.G. Cubeddu Wiedemann, Il matrimonio contratto all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso, in AA.VV., Diritto di famiglia. I decreti attuativi delle unioni civili, a cura di M.G. Cubeddu Wiedemann e P. Corder, Milano, 2017, 37; O. Lopes Pegna, Effetti dei matrimoni same-sex contratti all’estero dopo il « riordino » delle norme italiane di diritto internazionale privato, in Riv. dir. int., 2017, 2, 525 ss. (passim); F. Pesce, La legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato alla prova della nuova disciplina sulle unioni civili, in GenIUS, 2017, 2, 93; I. Viarengo, Effetti patrimoniali delle unioni civili transfrontaliere: la nuova disciplina europea, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2018, 1, 38. V. altresì F. Mosconi - C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, vol. II, cit., 117, i quali discorsero di «downgrade recognition», non già con riferimento all’art. 32-bis, in quanto, al tempo, non era ancóra stato emanato, bensì con riferimento alla disposizione albergata nell’art. 28, lett. b), L. n. 76/2016. Anche la stessa Corte, nel decisum de quo, discorre, con riferimento al matrimonio tra persone del medesimo sesso, di «meccanismo legislativo di conversione», o, pure, di «regime di convertibilità stabilito dalle nuove norme [tra cui l’art. 32-bis]». Osserva – a noi pare a ragione – D. Damascelli, op. cit., 1126, come il downgrade riguardi solamente la disciplina (vale a dire gli effetti), e non già la qualificazione, dell’atto di matrimonio. 35 D. Damascelli, op. cit., 1113. 36 Si rimanda il lettore a quanto brillantemente illustrato da D. Damascelli, op. cit., 1112 ss. 37 Sul punto, v. D. Damascelli, op. cit., 1114. 38 Si badi bene, tuttavia, che il matrimonio contratto all’estero tra persone del medesimo sesso, al fine di essere riconosciuto (e quindi di produrre effetti) entro l’ordinamento italiano, non dovrà affatto integrare uno degli impedimenti previsti dall’art. 1, co. 4, L. n. 76/2016, il quale trova applicazione per il tramite del combinato disposto tra gli artt. 32-bis e 32-ter, co. 1, terzo periodo, L. n. 218/1995, che lo ritiene norma di applicazione necessaria. Cfr. anche D. Damascelli, op. cit., 1117. 39 Per contro, ritiene presente una disarmonia tra l’art. 32-bis e le norme sulla trascrizione, presupponendone quindi l’operatività su di uno stesso piano, O. Lopes Pegna, op. cit., 548, la quale afferma come l’art. 32-bis L. n. 218/1995 e l’art. 134-bis r.D. n. 1238/1939 mal si concilino, poiché l’art. 134-bis «sembrerebbe imporre la trascrizione sul registro delle unioni civili di tutti i matrimoni fra persone dello stesso sesso avvenuti all’estero, anche quelli non oggetto di riqualificazione», là dove l’art. 32-bis «porterebbe invece a ritenere soggetti a trascrizione nel registro delle unioni civili soltanto i matrimoni contratti da cittadini italiani con persona dello stesso sesso».
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Giurisprudenza
3. L’astratta applicabilità, al caso di specie, dell’art. 32-bis
L. n. 218/1995.
Giova, ora, rammentare, come nelle more del giudizio di Cassazione sia stata emanata, dapprima, la Legge n. 76/2016, la quale prevede la «Regolamentazione delle unioni civili tra persone del medesimo sesso e disciplina della convivenze», e, successivamente, il D.lgs. n. 7/2017, adottato dal Governo in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, co. 28, lett. b), L. n. 76/2016, recante l’introduzione, nella L. n. 218/1995, fra gli altri, dell’art. 32-bis40. Prima di analizzare quelli che ictu oculi rilevano quali dubbi interpretativi derivanti dall’applicazione concreta, alla fattispecie in esame, dell’art 32-bis, è d’uopo analizzare quanto affermato dalla Suprema Corte, circa la possibile retroattività sia della L. n. 76/2016, sia, indi, del D.lgs. n. 7/201741. A tal ultimo riguardo, a corroborazione della retroattività, oltreché della L. n. 76/2016, anche dell’art. 32-bis, la Corte adduce talune motivazioni principali sulle quali è doveroso soffermarsi. La prima motivazione – che a noi pare, così come formulata, una mera petizione di principio – germoglia dal principio, formulato dalla Corte, secondo cui l’art. 32-bis non contiene alcuna «delimitazione» della propria «efficacia temporale» in merito al «meccanismo legislativo di conversione [da matrimonio ad unione civile]» (sic!) previsto42; dal che, la Corte afferma come «La definizione degli effetti […] del matrimonio» contratto «all’estero da cittadini italiani» non possa essere «temporalmente limitata […] alle relazioni coniugali […] contratte dopo l’entrata in vigore della legge italiana» (alias: della L. n. 76/2016 e delle disposizioni che da essa derivano). Quest’ultima affermazione, a parere di chi scrive, dev’essere vagliata movendo, in primis, da riflessioni di carattere generale, e, in secundis, da considerazioni inferite dal generale principio d’irretroattività della legge. Più precisamente, rilevante è, nel nostro caso, il tempo di efficacia della norma (alias: dell’art. 32-bis), ovverosia l’individuazione del complesso delle fattispecie nei confronti delle quali la disposizione normativa rannoda talune, determinate, conseguenze giuridiche43. In altri e più precisi termini, con “tempo di efficacia di una norma” s’intende il periodo temporale entro cui deve verificarsi una specifica fattispecie, in conseguenza della quale si produrranno determinati effetti giuridici44. È, dunque, all’efficacia (nel tempo)
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Per un’oculata prospettazione dello stato della giurisprudenza italiana prima dell’emanazione della L. n. 76/2016, si compulsi, ex multis, O. Lopes Pegna, op. cit., 529-533. 41 Invero, il matrimonio oggetto della sentenza è stato contratto antecedentemente all’entrata in vigore delle disposizioni testé indicate. Di qui, è sin ovvio rilevare che è dall’applicabilità in astratto, o no, di siffatta disciplina, che deriva, di conseguenza, il dubbio circa l’applicabilità in astratto, o no, dell’art. 32-bis. La Corte, all’esito della soluzione di tale dubbio, lo ha ritenuto astrattamente applicabile. 42 Sul “meccanismo di conversione” v., poco sopra, § 2. 43 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. I, t. 1, Milano, 1998, 174. 44 Deve pertanto escludersi, a corollario, il lasso temporale entro il quale la disposizione normativa può, o deve, essere applicata. Cfr.
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della norma, che, seppur incidentalmente, la Suprema Corte fa riferimento, lì ove discorre di «delimitazione dell’efficacia temporale». È d’uopo avvertire, a guisa di completezza, come si debba por mente alla differenza, non sempre d’emblée manifesta, tra il lasso di tempo in cui una disposizione normativa può essere applicata e il lasso temporale entro il quale debbono giocoforza verificarsi le fattispecie previste e disciplinate dalla disposizione stessa45. Una volta presa contezza della differenza testé cennata, è doveroso soffermarsi sul suo corollario principale, ovverosia l’irretroattività prevista dall’art. 11, co. 1, disp. prel. c.c.46. Codesta disposizione prevede come, in generale, una disposizione normativa non possa che trovare applicazione – e, dunque, produrre i relativi effetti giuridici – nei confronti di una fattispecie sviluppatasi dopo la propria entrata in vigore47. Se è vero quanto or ora affermato, è allora altrettanto vero come il giudice, di regola, non debba applicare le norme che siano entrate in vigore dopo la realizzazione della fattispecie oggetto della decisione, salvo che il legislatore non abbia espressamente previsto la loro retroattività48. Orbene, poste queste debite premesse, occorre sottolineare che, da qui in poi, si discorrerà della retroattività con riferimento alla sua accezione maggiormente fioca, vale a dire alla così detta “retroattività debole”, la quale, rannodata ad una specifica norma, ne prevede l’applicazione ad una particolare controversia – si badi bene, non ancóra decisa – sórta anteriormente alla sua entrata in vigore49. A rigore di termini, dunque, stante il principio generale richiamato, e atteso che l’art. 32-bis nulla prevede espressamente circa la propria retroattività, l’affermazione della Corte ci pare, rispettosamente, un po’ ardita, dacché, come detto, il matrimonio oggetto del
R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., 175 e 177. Al riguardo, per migliore intelligenza, è necessario figurare due esempi, formulati, con accorta ed innegabile chiarezza, da R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., 175 e 177): «[…] se entra oggi in vigore una norma che punisce un atto compiuto ieri, il tempo di applicabilità della norma in questione non può ovviamente avere inizio prima di oggi, ma il suo ambito di efficacia si estende fino a ieri: nel senso che la norma connette una conseguenza giuridica ad atto compiuto ieri»; si supponga, «ad esempio, che una norma stabilisca una esenzione fiscale per chi abbia subito danni da un terremoto verificatosi il 31 dicembre 2001. Ebbene, l’ambito temporale di efficacia di questa norma è il 31 dicembre 2001, nel senso che la conseguenza giuridica “esenzione fiscale” si applica solo alla fattispecie “danni da terremoto verificatosi il 31 dicembre 2001” (sebbene la norma sia ovviamente al 2001, possa essere applicata solo dopo la sua promulgazione, e la sua eventuale violazione possa essere fatta valere in sede giurisdizionale anche molti anni più tardi)». 46 Oltreché, chiaramente, dall’art. 25 Cost. 47 Cfr. anche C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, Milano, 2002, II ed., 112. 48 Sul punto v., ampiamente e brillantemente, R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., 182, il quale, altresì, ebbe ad asserire come il principio d’irretroattività abbia, per il legislatore, mero valore «direttivo» (non essendo, a rigore, un principio pregno di valenza costituzionale), mentre, per il giudice, abbia valenza senz’altro vincolante. Ovviamente, è sin ovvio rilevare come la legge, eventualmente retroattiva, non debba essere, però, di natura penale. Adde, sul punto, C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, cit., 115. 49 Contrapposta alla “retroattività debole” è la “retroattività forte”, cioè a dire la retroattività che prevede che una determinata norma venga applicata ad una precisa controversia, sórta sì anteriormente alla propria entrata in vigore, ma (la controversia) già decisa. Sul punto v., amplius, R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., 178 ss., il quale, a ragione, soggiunge (ivi, 178 e 181) come una retroattività di tal fatta (ossia “forte”) sia senz’altro incostituzionale, giacché violerebbe la riserva di funzione giurisdizionale prevista implicitamente dall’art. 102, co. 1, Cost. Adde C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, cit., 116. 45
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giudizio (anch’esso instaurato, si ripete, prima dell’entrata in vigore dell’art. 32-bis) è stato celebrato precedentemente all’entrata in vigore della disposizione de qua. Quanto all’ulteriore motivazione50 addotta dalla Corte, vale a dire quella per cui «La definizione degli effetti […] del matrimonio» contratto «all’estero da cittadini italiani» non può essere «condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio», anch’essa, sulla base di quanto or ora affermato, pare integrare una mera petizione di principio, ragion per cui non può essere accolta. Invero, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ebbe modo di affermare come la retroattività, eventuale, di una legge, non può, data la preminenza del diritto ed il rispetto dell’equo processo (giusta l’art. 6 Cedu), «influenzare la risoluzione di una controversia [già in essere]», «salvo che per ragioni imperative di interesse generale»51. Il Giudice di legittimità, poi, afferma: «L’esigenza primaria, indicata anche nel comma 28 dell’art. 1 della l. n. 76 del 2016, nel quale è definito l’àmbito della delega al Governo nella materia, deve rinvenirsi proprio nella necessità di fornire un regime giuridico uniforme alle coppie che abbiano (già) contratto all’estero un matrimonio, unione civile od altro istituto»52. Ebbene, la principale questione interpretativa – a nostro sommesso parere – riguarda, com’è evidente, l’avverbio «(già)», utilizzato dalla Corte per ricomprendere, entro l’applicazione dell’art. 32-bis, anche i matrimoni già contratti. Ora, stante quanto detto sino ad ora in materia di retroattività della legge, i matrimoni già contratti, di per sé, non potrebbero essere ricompresi entro l’àmbito applicativo dell’art. 32-bis. Difatti, nonostante il richiamo, da parte della Corte, dell’art. 1, co. 28, L. n. 76/2016, spec. lett. b)53, ove si discorre di «coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio»54, non è ben terso se la norma – nel prevedere princìpi e criteri direttivi cui il Governo ha dovuto dare séguito attraverso, fra gli altri, il D.lgs. n. 7/2017 – abbia voluto considerare, o no, i matrimoni già contratti. Stante i princìpi
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Non solo. La Cassazione, poi, manifesta il principio per cui «La definizione degli effetti […] del matrimonio» contratto «all’estero da cittadini italiani non può essere temporalmente limitata, proprio in virtù dell’intrinseca ratio della novella». Al riguardo, la stessa ritiene che «L’applicazione delle nuove norme ai rapporti sórti prima della sua entrata in vigore non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione nell’ordinamento». 51 Così, Corte Europea dei diritti dell’uomo, 7 giugno 2011, n. 43549, “Agrati e altri contro Italia”, in www.giustizia.it. Il principio enunciato dalla Corte dovrebbe essere analizzato profusamente – ma, per ragioni di economia espositiva, non è certo questa la sede più opportuna – con riferimento al caso di specie, in merito alle «ragioni imperative di interesse generale». È indubbio, infatti, che il matrimonio necessiti, tra gli altri, del requisito della diversità di sesso tra i nubendi, il quale, quindi, nell’ottica della Corte, potrebbe forse essere ricondotto alle ragioni imperative cennate e giustificare, dunque, l’applicazione ad un matrimonio tra persone dello stesso sesso, quale quello oggetto del giudizio, delle nuove norme dettate in materia di unioni civili. 52 Corsivo aggiunto da noi. 53 Il quale, testualmente, recita: «modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo»; donde, il matrimonio – pur restando, nel nostro ordinamento, costituibile tra persone di sesso differente –, se costituto all’estero tra persone del medesimo sesso, produrrà, entro l’ordinamento giuridico italiano, i medesimi effetti delle unioni civili: così, F. Mosconi - C. Campiglio, Diritto internazionale privato e processuale, vol. II, cit., 117. 54 Corsivo aggiunto da noi.
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generali in materia d’irretroattività della legge, quindi, è da escludersi, anche in tal caso, una possibile applicazione a ritroso della normativa, giacché, come detto, la retroattività dev’essere espressamente prevista, là dove, nella specie, invece non la è55. Ciò nondimeno, la Corte ha provveduto ad addurre un’ulteriore motivazione a sostegno dell’astratta applicabilità, alla fattispecie, dell’art. 32-bis. Invero, essa ha affermato, lapidariamente, come non sia «costituzionalmente compatibile una soluzione che, solo in virtù di una preclusione temporale, potrebbe impedire il riconoscimento di effetti giuridici all’interno del nostro ordinamento a cittadini italiani e stranieri». Ebbene, mediante tale ultima notazione, la Cassazione pare, quindi, aver fatto ricorso ad un’interpretazione conforme56 a Costituzione, dell’art. 32-bis, senza, tuttavia, specificare a quali norme della Carta s’informi tale esegesi57: è noto, difatti, come in un’interpretazione conforme a Costituzione si debba interpretare sia la fonte sottordinata, sia la fonte sovraordinata, non essendo ragionevole la conformazione ad un paradigma sconosciuto nella sua specifica portata precettiva58, come, per converso, pare aver fatto la Corte, per corroborare la propria interpretazione. D’altra parte, è doveroso sempre por mente al principio per cui il ricorrere ad un’interpretazione conforme a Costituzione non possa affatto legittimare l’interprete a fuoriuscire dai confini del dato testuale; un’interpretazione di tal fatta, invero, permette solamente di scegliere, tra le diverse interpretazioni affioranti dal testo, quella idonea ad evitare di ritenere illegittima la disposizione interpretata59. Se quanto testé esposto è, in generale, accreditabile, non lo è, a noi pare, nel caso di specie; il richiamo ad un’interpretazione conforme, infatti, presupporrebbe un potenziale contrasto tra due o più interpretazioni e il dettato costituzionale; contrasto, codesto, che non è dato rilevare nella fattispecie, giacché il ritenere una norma irretroattiva non è punto collidente con la Costituzione.
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Cfr., sul fatto che una norma (civile) debba espressamente prevedere l’eventuale propria retroattività, Cons. Stato, 3 marzo 2016, n. 882, in banca dati DeJure. 56 Si veda M. Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Milano, 2016, 445, il quale è a definire l’interpretazione conforme (anche a Costituzione) come l’obbligo «di desumere dalle norme di una fonte interpretazioni che siano in armonia con le interpretazioni desunte dalle norme di altra fonte, che stia con la prima in uno specifico rapporto condizionante». 57 Per un’accorta e profusa discettazione della materia, si legga, ex multis, M. Luciani, op. cit., 391 ss., spec. 445 ss., nonché G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a costituzione, Milano, 2006, spec. 106 ss. Adde A. Pace, I limiti dell’interpretazione “adeguatrice”, nota a Corte cost., 4 luglio 1963, n. 117, in Giur. cost., 1963, 1066 ss., spec. 1070 e 1071, che, brillantemente, ebbe ad affermare come l’interpretazione adeguatrice non sia altro che il riflesso del «principio interpretativo di conservazione dell’atto [legislativo]», già lumeggiato in àmbito contrattuale – ma non v’ha dubbio che un tale principio permei il nostro intero ordinamento (cfr.: C. Grassetti, voce Conservazione (principio di), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, 173; Id., L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova, 1983, rist. anastatica, 27 (nt. 46) e 162; M. Pennasilico, L’operatività del principio di conservazione in materia negoziale, cit., 702 ss., cui adde, per un’analisi in ottica europea, Id., La regola ermeneutica di conservazione nei «Princípi di diritto europeo dei contratti», in Rass. dir. civ., 2003, 1-2, 268 ss.) – dal noto art. 1367 c.c. 58 M. Luciani, op. cit., 440. 59 M. Luciani, op. cit., 451. Si compulsi, altresì, G. Sorrenti, op. cit., 57 ss. L’interpretazione conforme, in definitiva, è quell’esegesi (o, se si vuole, quel modus operandi) che, allorquando da un testo normativo germoglino due o più possibili interpretazioni, delle quali solo una sia aderente al dettato costituzionale, consente al giudice di preferire senz’altro quest’ultima interpretazione.
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Volgendo ora lo sguardo all’angolo visuale di un’interpretazione conforme al «diritto pattizio» (in specie, con riguardo alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), l’affermazione della Suprema Corte non pare, anche in codesto caso, facilmente avvalorabile. Al riguardo, giova rammentare come l’assunzione delle fonti pattizie a «paradigma interposto di costituzionalità» imponga, necessariamente, un’interpretazione (conforme) così detta «bifasica»60; la quale, anzitutto, deve muoversi in un’ottica costituzionalmente orientata all’art. 117, co. 1, Cost., cioè a dire – più precisamente – alle fonti pattizie che la predetta norma eleva a paradigma interposto61. Tali fonti pattizie, a loro volta, dovendo rispettare il dettato costituzionale, devono essere interpretate in conformità alla Costituzione. Dal che, l’interprete dovrà svolgere «due attività intellettuali», tra loro necessariamente in sequenza62: la prima, consistente nell’interpretare le norme pattizie (di derivazione, nel caso di specie, comunitarie) in maniera conforme a Costituzione; la seconda, una volta superato positivamente tale “vaglio”, consistente nell’interpretare le norme interne («subcostituzionali») conformemente alle norme pattizie63. Orbene, come emerso dal principio testé esposto – il quale, per sua natura, a tutta prima può apparire bizantino –, nonostante la Corte miri ad un’interpretazione costituzionalmente orientata in un’ottica “comunitaria”, è evidente come un’esegesi di questo tipo sia pur sempre da considerarsi un’esegesi che, di necessità, deve rispettare i princìpi dettati dalla Carta costituzionale. L’interpretazione conforme alle norme pattizie, dunque, non è altro che una species del genus “interpretazione conforme a Costituzione”, la quale, in definitiva, e per i motivi succitati, non può legittimare un’applicazione retroattiva di una norma. Tra i motivi che la Corte ha provveduto ad addurre a sostegno dell’(astratta) applicabilità dell’art. 32-bis, manca, forse, quello che più di tutti avrebbe meritato particolare zelo, in quanto idoneo a poter disvelare la legittima applicabilità di siffatta disposizione alla fattispecie oggetto del giudizio. In particolare, se è vero che per irretroattività delle legge s’intende, sostanzialmente, l’impossibilità per il dettato normativo d’influire sul fatto compiutosi prima della sua entrata in vigore, è altrettanto vero, tuttavia, che la nuova legge può regolare gli effetti, presenti, del fatto già compiutosi. Pertanto, in siffatto caso gli effetti del presente matrimonio, seppur contratto all’estero e precedentemente all’entrata in vigore dell’art. 32-bis, potreb-
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Così, M. Luciani, op. cit., 457. Il richiamo all’interpretazione conforme trova ragion d’essere, come notato, solamente per il caso in cui, nell’interpretare una particolare disposizione normativa, delle due o più possibili esegesi solo una sia prettamente conforme col dettato costituzionale; di conseguenza, l’interprete dovrà, verosimilmente, seguire l’interpretazione conforme. 61 M. Luciani, op. cit., 457. 62 M. Luciani, op. cit., 457, il quale sottolinea, circa le due attività intellettuali, come esse debbano giocoforza porsi «logicamente in sequenza; donde, l’A. (ibidem) attentamente non esclude la possibilità che siffatte attività possano, in concreto, intrecciarsi, «condizionandosi a vicenda». 63 V., sul punto, M. Luciani, op. cit., 457.
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bero essere regolati da quest’ultima norma. Se così non fosse, si badi bene, il matrimonio sarebbe stato regolato solamente dalla precedente disciplina, la quale avrebbe, quindi, manifestato la propria ultrattività64. Quanto dianzi prospettato è involto nel più ampio concetto della successione delle leggi nel tempo, la quale è fondata sulla distinzione tra disciplina del fatto generatore (degli effetti) e disciplina propria degli effetti stessi. La nuova legge vale solamente per gli effetti, e non anche per il fatto generatore stricto sensu considerato; essa (la legge, appunto) troverà quindi applicazione solamente nei confronti di quei fatti, status e situazioni esistenti o sopravvenute, quantunque conseguenti ad un fatto passato, allorquando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sé e per sé, prescindendo dal collegamento col fatto generatore, dimodoché resti esclusa, attraverso tale applicazione, la modificazione della disciplina giuridica del fatto generatore65. Alfine, nonostante questo non rappresenti certo il luogo in cui approfondire i corollari, positivi e negativi, originanti dalle considerazioni appena svolte, giova rilevare come in punto di diritto, a parere di chi scrive, la questione trattata dalla Corte avrebbe, forse, meritato un’argomentazione intessuta di una maggiore dovizia di elementi giuridici (considerando, altresì, la delicata questione ermeneutica derivante dalla fattispecie).
4. Segue: status familiae e rilevanza della sua circolazione. Per dare ulteriore vigore all’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32-bis, e quasi per cristallizzare la giustificazione relativa all’astratta, asserita, applicabilità della disposizione medesima alla fattispecie oggetto del giudizio, la Corte è a scrivere, inoltre, come un’ulteriore ragione giuridica, a sostegno della soluzione positiva, derivi dal più generale principio compendiato nel diritto alla libera circolazione degli status familiari66.
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Si espresse in questi termini, con limpide parole, F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. I, Le categorie generali. Le persone. La proprietà. La famiglia. Le successioni. La tutela dei diritti, a cura di N. Zorzi Galgano, Padova, 2010, III ed., 109. 65 Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità, v., fra le altre: Cass., 3 luglio 2013, n. 16620, in banca dati Leggi d’Italia; Cass., 28 settembre 2002, n. 14073, in banca dati Leggi d’Italia; Cass., 3 marzo 2000, n. 2433, in banca dati Leggi d’Italia; Cass., SS.UU., 12 dicembre 1967, n. 2926, in Foro it., 1968, c. 1254 ss. V. altresì Cass., 6 gennaio 1981, n. 40, in Giust. civ., 1981, 5, 1061 ss., spec. 1066 s. Nella giurisprudenza di merito v., ex plurimis, più di recente, Trib. Novara, 7 marzo 2018, in banca dati DeJure. 66 V., sul tema, amplius: L. Tomasi, op. cit., passim; J. Long, Le fonti di origine extranazionale, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, vol. I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, t. I, Relazioni familiari – Matrimonio – Famiglia di fatto, Milano, 2011, II ed., 185 ss. Sul concetto di status, in termini generali e con varietà di accenti, v. almeno, nella più autorevole letteratura: F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1940, 250 e 251; A. Cicu, voce Azione di stato, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 937-939; Id., Il concetto di « status », in Scritti minori di Antonio Cicu, vol. I, Scritti di teoria generale del diritto. Diritto di famiglia, t. I, Milano, 1965, 181 ss.; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 136 s.; Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, Milano, 1965, IX ed., 3; P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., I, 1973, 209 ss., ove altresì emerge un’attenta distinzione tra il concetto di “situazione” e il concetto di “status”; F. Prosperi, Rilevanza della persona e nozione di status, in Rass. dir. civ., 1997, 4, 801 ss.; L. Lenti, voce Status, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XIX, Torino, 1999, 29 ss.; G. Alpa, Introduzione, in G. Alpa - A. Ansaldo, Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Cod. Civ. Comm.,
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Si afferma, difatti, che col matrimonio, anche tra persone del medesimo sesso, non si costituisce già «uno status tipicamente a natura istantanea», ma uno status «destinato a durare nel tempo», al quale, perciò, dev’essere senz’altro astrattamente applicata – in ordine al riconoscimento degli effetti del matrimonio in un ordinamento, quello italiano, differente rispetto a quello di origine, ossia l’ordinamento brasiliano, e di poi portoghese – la nuova disciplina in materia di unioni civili67, e pur anche, quindi, la disposizione racchiusa nell’art. 32-bis. Tale ultima disposizione, invero, consente di garantire il riconoscimento dello status di coniuge, e più in generale dello status familiae68, derivante dal matrimonio omosessuale celebrato all’estero, solamente allorquando siffatto matrimonio venga contratto validamente nello Stato di celebrazione69. Il concetto di status, dal diritto romano fino ai nostri giorni, in specie in seno a talune branche dell’elaborazione scientifica, è stato, ed è tuttora, oggetto di talune diverse connotazioni, le quali, a livello interpretativo, hanno contribuito a connaturare tale concetto di una rilevante fumosità70. Fra le diverse sfumature di questo concetto, rilevante, nel caso quivi analizzato, è ovviamente lo status familiae, vale a dire la posizione giuridica germogliante dalla presenza dell’individuo all’interno di una comunità non organizzata71, quale è la famiglia72. Non è
fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2013, II ed., 98 ss., spec. 109-115 s. Adde V. Frosini, voce Situazione giuridica, in Noviss. Dig. it., XVII, Torino, 1970, 468-471. Si v., inoltre, l’interessante trattazione, con alcuni spunti storici e comparatistici, di P. Stanzione, Capacità, legittimazione, status, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Il soggetto, II, Milano, 2017, 11 ss. Per quanto attiene, invece, ad una dissertazione generale del concetto di status, fondata, però, principalmente su di una prospettiva storica e comparatistica, v. G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari, 1993, 3-62, secondo il quale (ivi, VI), a ragione, riflettendo «sui caratteri distintivi della persona in un ordinamento moderno, proprio di una società complessa […]», non ha ragion d’essere la «reductio alla forma giuridica dello status familiare», non sufficiente essendo, siffatto status, «a comprendere la natura, l’origine e la funzione delle differenze tra i soggetti». Sicché, movendo da tale asserto, ben si può affermare come il tema inerente lo status e, segnatamente com’è a dire la Suprema Corte, la «legittima circolazione degli status» richiederebbe una più ampia analisi di quanto, in questa sede, per ragioni di economia espositiva, si possa fare. 67 Anche per il caso di mera unione civile celebrata all’estero, nonostante l’art. 1, co. 1, L. n. 76/2016 – nello stabilire che l’unione civile rappresenti una «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione» – paia evocare il principio per cui tali unioni siano sì riconosciute meritevoli di protezione e riconoscimento, epperò prive del “classico” status familiae, ad un’attenta interpretazione dell’intero tessuto della L. n. 76/2016 (si pensi, a guisa d’esempio, all’art. 1, co. 10; all’art. 1, co. 12) anche queste unioni sono senz’altro da considerarsi portatrici dello status familiae tipico della famiglia fondata sul matrimonio, prevista dall’art. 29 Cost. V., sul punto, funditus, F. Azzarri, Unioni civili e convivenze, in Enc. dir., Annali, vol. X, Milano, 2017, 1006 s. 68 Solleva taluni dubbi, sul fatto che la nozione di status possa oggidì essere rannodata al concetto di famiglia strettamente intesa, C.M. Mazzoni, op. cit., 330. Per una più che stringata analisi storica, epperò d’immediato intelletto, v. R. Orestano, voce Status libertatis, civitatis, familiae, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, 383 e 384 s. 69 Cfr. altresì D. Damascelli, op. cit., 1152. V. altresì, supra, § 2. 70 Milita nel senso di una vaghezza dell’espressione status, A. Cicu, Il concetto di « status », cit., 181, il quale ritenne che «il concetto che essa [l’espressione status] vuol rendere è rimasto sempre fra i più vaghi nella elaborazione scientifica dei concetti giuridici». Adde, con sicura densità di contenuto, F. Prosperi, op. cit., 810-816. V. pure L. Lenti, op. cit., 30, nonché C.M. Mazzoni, op. cit., 311 e 329. 71 Cfr., in termini generali, D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 143. 72 A. Cicu, Il concetto di « status », cit., 182, il quale, per giunta, mercé la contrapposizione tra «comunità organizzata» (ad esempio, lo Stato) e «comunità non organizzata» (ad esempio, come asserito, la famiglia), addivenne lucidamente alla così detta quadripartizione degli status e a concepire «in maniera unica rispetto alla struttura giuridica», entro tutte le collettività, la posizione giuridica della persona. L’A. (ivi, 186), quindi, ritenne limpido come all’espressione status faccia séguito un «concetto nettamente individuabile», il
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dubitale, quindi, il fatto che il fenomeno giuridico (alias: la posizione dell’individuo all’interno della famiglia) venga connesso, intimamente, al fenomeno dell’aggregamento sociale entro cui l’individuo viene ad assumere la specifica posizione di membro; posizione, questa, che viene bensì designata dalla parola status73. Nella fattispecie oggetto della sentenza si denota come venga in rilievo la principale dimensione dello status, id est: la dimensione – o, se si preferisce, la concezione – così detta “comunitaria” (alias: la dimensione entro una determinata comunità, rappresentata, nel nostro caso, dalla famiglia), secondo la quale l’individuo viene considerato come parte di un gruppo74 (nella specie, si ripete, la famiglia, intesa come aggregazione sociale di cui l’individuo fa parte)75; è noto come lo status “comunitario”, in una delle sue accezioni, corrisponda allo status familiare, noto fin dall’epoca romana e di poi evoluto nei vari ordinamenti fino ai giorni nostri76. Ora, se per quanto attiene alla “durata” dello status l’affermazione della Corte dev’essere considerata, da questo punto di vista, senz’altro ragionevole77 – essendo noto, peraltro, come lo status richiami l’idea di una condizione personale destinata a durare nel tempo78, condizione idonea a giustificare una pluralità di vicende inerenti l’attività e la vita di una persona79 –, è idoneo, invece, a suscitare nell’interprete qualche riserva, il nesso tra la libera circolazione dello status familiare (nonché coniugale) e l’applicazione retroattiva della legge. Primieramente, movendo da considerazioni d’indole generale80 inferite dal «diritto comunitario dei rapporti familiari»81, si può rilevare come, in linea di principio, ogni Stato membro, quanto al proprio diritto di famiglia, abbia una propria disciplina peculiare e
quale ben può essere riferito alla collocazione della persona nello Stato, o, com’è nel caso de quo, nella famiglia. V. inoltre, con diverse tonalità: R. de Ruggiero - F. Maroi, op. cit., 185; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. I, cit., 136; Id., Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 39 s.; L. Ferri, Degli atti dello stato civile, cit., 9-11, spec. 11 (ma v. anche 12); P. Rescigno, op. cit., 214-217; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 24; C.M. Mazzoni, op. cit., 329-332. Cfr. pure P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, Interpretazione sistematica e assiologica. Situazioni soggettive e rapporto giuridico, Napoli, 2006, III ed., 669. Adde A. De Cupis, op. cit., 5. 73 A. Cicu, Il concetto di « status », cit., 186. 74 A. Corasaniti, voce Stato delle persone, in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, 948. L’A., parallelamente al concetto di status comunitario, individua lo status individuale. Rispetto alla duplice bipartizione del concetto di status, così come inverata dal Corasaniti, sollevò non poche riserve G. Alpa, op. cit., 42, il quale, efficacemente, osservò come codesta bipartizione risulti essere «illusoria»; per vero, l’A. (ibidem) affermò, in modo cartesiano, come lo status abbia una sua propria ragion d’essere solamente ove considerato in rapporto agli altri soggetti, nonché solamente ove esso sia idoneo a raffigurare la posizione del singolo nell’aggregato sociale, e quindi anche nella famiglia. In definitiva, l’A. arrivò a ritenere come fosse «fin troppo ovvio […] che status è per necessità una nozione relazionale». 75 Cfr. anche G. Alpa, op. cit., 41. 76 G. Alpa, op. cit., 41. 77 Cfr. G. Puma, op. cit., 412 ss. (ove ampi riferimenti giurisprudenziali), spec. 416 e 417, il quale, giudiziosamente, richiama l’art. 8 Cedu, quale caposaldo per il rispetto, oltreché della vita familiare, persino dello status familiare validamente acquisito all’estero. 78 P. Rescigno, op. cit., 212. 79 V., al riguardo, le efficaci ed intuitive parole di G. Alpa, op. cit., 36. 80 Apparentemente prive di connessione col caso di specie, essendo stato, il matrimonio, ab origine celebrato in Brasile. 81 Siffatta locuzione è utilizzata, fra gli altri, da L. Tomasi, op. cit., passim.
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tipica, la quale potrebbe bensì differire dalla nozione di famiglia enucleata in senso al Diritto dell’Unione europea, posto anche il noto pluralismo che oggi, ancor più di prima, connatura i modelli familiari previsti in ogni Stato membro82. Al lume di tale pluralismo, il meccanismo di operatività del principio del libero riconoscimento e della libera circolazione degli status, all’interno, si badi bene, della sola Unione europea, affiora dal rapporto intercorrente tra il diritto internazionale privato di ogni Stato membro e il mutuo riconoscimento comunitario tra gli stessi83. In particolare, il riconoscimento di diritto privato e la libera circolazione degli status delle unioni familiari (quindi, anche delle unioni tra persone del medesimo sesso) vanno raggiunti per il tramite dei normali strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale privato84 dello Stato in cui gli interessati richiedono il riconoscimento del proprio status familiae, cercando, comunque, di garantire le «esigenze imperative» dell’ordinamento giuridico85. Si badi bene, per giunta, di come incidano profondamente, sul libero riconoscimento e sulla libera circolazione degli status entro i confini comunitari, sia il diritto al rispetto della vita privata e familiare, sia la libera circolazione e il libero soggiorno delle persone in seno agli Stati membri dell’Unione europea, sia il principio di reciproca fiducia tra gli Stati membri 86. Orbene, nel caso di specie, giova mettere, nuovamente, in rilievo, come la situazione contempli un matrimonio celebrato ab origine in uno Stato extracomunitario (il Brasile, appunto), situazione che pare non essere stata considerata profondamente dalla Corte, là dove essa è a discorrere di «legittima circolazione degli status». In siffatto caso, infatti, a noi pare che l’utilizzo di una locuzione di tal fatta non possa che ben attagliarsi alla situazione intra comunitaria (il matrimonio, nella specie, successivamente celebrato, con rito civile, in Portogallo), dacché, per quanto concerne le situazioni extracomunitarie, la soluzione non è affatto di facile intelletto; difatti, il principio della libera circolazione degli status può oggidì ben confarsi agli Stati membri, e non già agli Stati terzi, atteso che è notorio come non sia univocamente riconosciuta l’applicabilità – tra gli altri – del principio di libera circolazione delle persone rispetto a situazioni createsi in Stati siti al di fuori dell’Unione europea87. Nondimeno – tralasciando l’analisi, tuttora irrisolta, circa il libero riconoscimento, o no, di status creatisi in Stati terzi –, stante l’assenza di elementi normativi contrari, il principio del libero riconoscimento e della libera circolazione degli status potrebbe comunque, in astratto, applicarsi anche al caso di specie, vale a dire al caso in cui vi sia una situazione
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L. Tomasi, op. cit., 5. L. Tomasi, op. cit., 245. 84 Quali sono le norme di conflitto e le norme sul riconoscimento dei provvedimenti stranieri. Al riguardo, v. L. Tomasi, op. cit., 245. 85 L. Tomasi, op. cit., 245 e 252 ss. 86 Per vero, «il principio di mutuo riconoscimento opera per neutralizzare gli ostacoli alla realizzazione delle libertà di circolazione» nell’àmbito dell’Unione europea: così, L. Tomasi, op. cit., 237. Cfr. anche D. Damascelli, op. cit., 1153. 87 L. Tomasi, op. cit., 247 (nt. 136). 83
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giuridica (il matrimonio) creata, originariamente, in uno Stato terzo rispetto all’Unione europea88. Non solo. Secondo parte della dottrina, una possibile soluzione al dubbio circa l’applicabilità, o no, del libero riconoscimento degli status anche alle situazioni createsi in Stati terzi (89), deriverebbe, a sua volta, dalla definizione del dubbio germogliante dalla scelta del “tipo” di riconoscimento: vale a dire, è sufficiente un mero riconoscimento «sic et simpliciter» della situazione creatasi in uno Stato terzo, oppure è necessario «un intervento dell’autorità pubblica di riconoscimento dello status creato in uno Stato extracomunitario, che consenta di considerare lo Stato membro del riconoscimento “Stato di origine” dello status»90? Orbene, posto ciò, non dev’essere mancato di osservare come tutti questi dubbi possano, di primo acchito, essere risolti movendo dal concetto di status poco innanzi rammentato, vale a dire quel particolare rapporto o vincolo giuridico che unisce la singola persona ad un determinato aggregato91; aggregato il quale, stante i princìpi sopraddetti92, e a prescindere, quindi, dall’estendervi gli effetti dell’unione civile, è comunque considerabile come matrimonio93; oggidì, dunque, indiscussa è la qualificazione di «vita familiare» attribuita ai matrimoni tra persone del medesimo sesso. Da tutto quanto testé, succintamente, esposto, è possibile evincere, per l’interprete, l’esistenza – alla luce dell’attuale normativa di diritto internazionale privato (rectius: dell’art. 32-bis) – di un particolare status familiae per «chi ha preferenze sessuali per individui dello stesso sesso»94? In caso di risposta positiva, tali soggetti debbono avere uno status particolare, oppure il medesimo status proprio di coloro i quali, avendo sesso differente, si siano uniti in matrimonio?95. Questioni, codeste, non sempre di agevole e celere soluzione. In definitiva, rannodando tutto quanto ora esposto alla ragione addotta dalla Suprema Corte, ossia al richiamo della libera circolazione degli status quale “giustificazione giuridi-
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Cfr., sul punto, L. Tomasi, op. cit., 247. Si veda, funditus, R. Baratta, Recognition of foreign personal and family status: a rights based perspective, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2016, 2, 413 ss. 90 Così, plasticamente, L. Tomasi, op. cit., 247. La richiesta di “cristallizzazione” nello Stato d’origine – attraverso l’intervento di un’autorità pubblica che consacri il matrimonio in un atto destinato all’iscrizione in un pubblico registro, al fine di poter riconoscere tale fattispecie matrimoniale nel nostro ordinamento – è prospettata autorevolmente, en passant, da D. Damascelli, op. cit., 1115. 91 A. Cicu, Il concetto di « status », cit., 192. 92 V., supra, § 2. 93 Si badi bene, tuttavia, come in passato, e prima di mutare orientamento (v., infra, § 6), la Corte europea, negando la qualifica di «vita familiare» alle unioni tra persone del medesimo sesso, contribuì ad impedire di rannodare alla famiglia fondata tra persone del medesimo sesso la nozione di status (familiae), escludendone, di conseguenza, tutti i relativi benefici che ne derivano. Si legga, al riguardo, Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 maggio 2001, “Mata Estévez contro Spagna”, in www.echr.coe.int, secondo la quale il rifiuto di concedere, ad un convivente dello stesso sesso, i medesimi benefici di cui gode il coniuge, è giustificato dall’esistenza di un legittimo obbiettivo, per gli Stati che intendono perseguirlo, di tutela della famiglia fondata sul matrimonio. Sul punto, v. anche en passant, mutatis mutandis, Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 maggio 2002, “Fretté contro Francia”, in Recueil des arrêts et décisions, 2002-I, punto 34. 94 Così, G. Alpa, op. cit., 39. 95 G. Alpa, op. cit., 39. 89
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ca” alla richiamata, ed applicata, interpretazione retroattiva dell’art. 32-bis, riteniamo che tale elemento – attesa, non di rado, la propria dimostrata complessità esegetica – non possa essere ritenuto sufficiente per integrare un’interpretazione di tal fatta. Per di più, è noto come la trascrizione – intorno alla quale muove la Corte – dell’atto costitutivo di matrimonio non incida più, oramai, sulla libera circolazione dello status di coniuge (o, meglio, di partner) omosessuale, poiché il difetto di pubblicità non ricade affatto sul riconoscimento degli status derivanti da un matrimonio tra persone dello stesso sesso96. La Corte, dunque, sul punto, ha un po’ difettato, a nostro umile giudizio, di addurre sufficienti argomentazioni giuridiche, essendo ancóra oggi, il concetto di status e il suo riconoscimento, dei gineprai dommatici entro i quali non è semplice muoversi, tenuto conto, inoltre, del fatto che la fattispecie oggetto della sentenza in commento presenta anche elementi di terzietà rispetto alla stessa Unione europea, i quali non aiutano affatto a facilitare, ma a rendere maggiormente inerpicata, l’attività interpretativa.
5. La concreta applicabilità, al caso di specie, dell’art. 32bis L. n. 218/1995.
L’art. 32-bis97, rubricato «Matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso», compendia in sé un principio che a posteriori, come sopra cennato, suscita nell’interprete un particolare dubbio98, circa il proprio àmbito soggettivo99 di applicazione, dubbio il quale, nell’analisi del caso, non si può mancare di analizzare. Segnatamente, codesta disposizione prevede come «Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso» produca «gli [stessi] effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana»; in primo luogo, mette appena conto rilevare – come del resto è a dire la Suprema Corte100 – che con l’introduzione della disposizione de qua il legislatore ha voluto prendere una recisa posizione in favore del modello dell’unione civile, e non già del matrimonio tra persone del medesimo sesso. Non solo. Mercé tale norma, il legislatore ha voluto impedire il fenomeno del così detto system shopping101, cioè a dire, nel nostro caso, il fenomeno per cui taluni cittadini italiani, i quali intendano contrarre
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Al riguardo, assorbenti paiono le parole di L. Tomasi, op. cit., 255, alle quali si rinvia. Si compulsino, per una prima disamina dell’art. 32-bis: C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, cit., 41 ss.; E. Calò, Le norme di conflitto nelle unioni civili e nelle convivenze, in Notariato, 2017, 4, 400; D. Damascelli, op. cit., 1109 ss.; O. Lopes Pegna, op. cit., 534 ss.; F. Pesce, op. cit., 92 ss. Adde C. Coppola, op. cit., 56 s., nonché G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 451 s. 98 Cfr. altresì C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, cit., 42. 99 O. Lopes Pegna, op. cit., 535. 100 Nella pronunzia in epigrafie, invero, la Corte afferma tersamente che «L’art. 32 bis esprime la nettezza della scelta legislativa verso il modello dell’unione civile». 101 Cfr. anche F. Mosconi - C. Campiglio, Diritti internazionale privato e processuale, vol. I, cit., 16. 97
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matrimonio col proprio partner dello stesso sesso, decidano di recarsi all’estero, al fine di sottrarsi agli effetti della L. n. 76/2016102. Orbene, preso atto del ragionamento giuridico seguìto dalla Cassazione, circa l’astratta applicabilità dell’art. 32-bis – che, per le ragioni sopra esposte103, non è facilmente avvalorabile –, è d’uopo ora individuare se siffatta disposizione possa persino trovare, sempre nel caso de quo, concreta applicazione. Movendo dal primo, possibile, ostacolo applicativo, vale a dire la differente nazionalità dei coniugi, è giocoforza individuare, da un punto di vista, come dire, “oggettivo”, quali matrimoni involga l’art. 32-bis, dacché, com’è noto, non v’ha altra disposizione all’interno dell’ordinamento giuridico, al di fuori di quella testé cennata, che disciplini gli effetti del matrimonio celebrato all’estero tra persone del medesimo sesso104. Più precisamente, soffermandosi su un’interpretazione basata principalmente sulla littera legis105, si evince tersamente, ictu oculi, come il legislatore abbia utilizzato una formulazione che, per taluni, potrebbe risultare sbiadita, idonea quindi a rendere l’attività esegetica maggiormente complicata; per vero, non è affatto ignoto, alla teoria del generale del diritto, il fatto che i testi normativi, spesso per loro natura, generino equivocità, la quale è intrinsecamente foriera di dubbi e querelle interpretative, attuali o potenziali106. Del resto, nello stesso art. 32-bis107 s’ingenera un apparente contrasto tra la propria intitolazione (rectius: tra la propria rubrica legis) e il proprio testo normativo; difatti, secondo la rubrica, esso parrebbe da applicarsi al matrimonio celebrato all’estero tra soli cittadini italiani108, in aperto contrasto con quanto previsto, invece, dal rispettivo contenuto normativo (v. infra).
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I. Viarengo, op. cit., 38. V., supra, § 3. 104 V. anche O. Lopes Pegna, op. cit., 536. In particolare, questa nuova disposizione s’inserisce, perfezionandolo, in seno ad uno dei princìpi affermati oramai da tempo dalla Corte di Cassazione; essa, invero, ebbe ad affermare (Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2015, 2, 660 e in Foro it., 2016, 1, 296, con nota di G. Casaburi, In tema di riconoscimento giuridico del matrimonio tra coppie dello stesso sesso) come «l’operazione» di così detta «omogeneizzazione» fosse compito del giudice, di guisa che il nucleo affettivo e relazionale, caratterizzante l’unione tra persone del medesimo sesso, potesse «acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale […]». Ebbene, ben si può affermare come l’art. 32-bis, per il tramite dell’estensione degli effetti dell’unione civile al matrimonio contratto all’estero tra persone del medesimo sesso, dia oggi piena attuazione alla dianzi indicata attività di omogeneizzazione, tanto auspicata dal Supremo Collegio. 105 La quale – movendo da quanto affermato, a ragione, da E. Russo, L’interpretazione dei testi normativi comunitari, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2008, 195 ss., con riguardo, tuttavia, ai soli testi normativi comunitari –, a nostro sommesso parere, anche in materia di diritto civile dev’essere la principale attività interpretativa a cui l’interprete, in un primo momento, deve ricorrere. Regola, questa, che quasi 40 lustri or sono venne considerata da M. Agresti, Osservazioni sulla interpretazione e sulla redazione delle leggi, Napoli, 1828, 5, come una regola residuale, dettata dalla mera prassi: «Generalmente, in teoria, si conviene che, nell’interpretazione delle leggi, si deve ricercare, non il loro senso letterale, ma la mente del legislatore»; tuttavia, soggiunse l’A. (ibidem), «Nella pratica» si segue, «più spesso, la regola opposta». 106 R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2004, 64. 107 È d’uopo soggiungere che in dottrina, movendo dal medesimo contenuto dell’art. 32-bis, v’è chi ha recisamente dedotto come siffatta norma abbia il compito di circoscrivere, «in via preliminare, il campo di applicazione della disciplina di diritto internazionale privato delle unioni civili»: in questi termini v. M.G. Cubeddu Wiedemann, op. cit., 37. 108 D. Damascelli, op. cit., 1110. 103
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A tal ultimo riguardo, occorre richiamare il noto brocardo rubrica legis non est lex, il quale, com’è noto, palesa il principio per cui l’intitolazione della norma non risulti affatto vincolante: vale a dire, essa non esprime «norme giuridiche»109. Siffatta affermazione, movendo, di necessità, dalla tematica delle fonti, si riflette, di conseguenza, in seno all’àmbito dell’interpretazione, dimodoché, di regola, ciascun interprete, nell’attribuire un determinato significato ad uno specifico documento normativo, dovrà prescindere dalle parti del documento (com’è, nella specie, la rubrica) che non disvelano norme110. Sicché, a corollario di quanto or ora affermato, e a nostro sommesso parere, la norma, così come formulata, pare sia da applicarsi anche ai matrimoni contratti all’estero da due soggetti, di cui almeno uno sia cittadino italiano: non è necessario, pertanto, che entrambi i nubendi siano cittadini italiani, poiché è sufficiente che solo uno possieda la cittadinanza italiana111. D’altro canto, movendo dal mero dato letterale112 – per vero, è lo stesso art. 12 disp. prel. c.c.113 a prevedere come, nell’applicare la legge, l’interprete non possa ad essa attribuire altro significato rispetto a quello palesato sia dal significato proprio delle parole114 (significato da cui, ad ogni modo, seppur con le dovute sfumature, l’interprete non può agevolmente rifuggire), mercé la loro rispettiva connessione115, sia dall’intenzione del
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G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. I, t. 2, Milano, 1980, 103. Cfr., sul punto, anche D. Damascelli, op. cit., 1110 (nt. 21). 110 Cfr. G. Tarello, op. cit., 104. Lo stesso A. (ivi, 105), inoltre, se da un lato prende atto che è oramai assodato, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, il principio rubrica legis non est lex, dall’altro lato, nondimeno, afferma senza indugio alcuno che «l’abitudine di pretermettere […] le rubriche nell’attribuire significato ai documenti legislativi nel settore civilistico è incancrenita (quantunque forse non ragionevole)»; tuttavia, soggiunge l’A., «l’interprete […] non può che tenerne conto». 111 È d’uopo avvertire, si badi bene, che allorquando la legge nazionale del nubendo non italiano consenta la celebrazione del matrimonio fra persone del medesimo sesso, siffatto matrimonio dovrà comunque produrre, in seno al nostro ordinamento, gli effetti dell’unione civile, giusta l’art. 32-bis. In codesti termini v. D. Damascelli, op. cit., 1110. Al riguardo, è necessario soggiungere come un’interpretazione orientata verso l’esclusione, dall’art. 32-bis, del matrimonio tra persone del medesimo sesso celebrato all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero, porterebbe a privare di ogni effetto, nel nostro ordinamento, il matrimonio medesimo, poiché esso risulterebbe viziato, giusta il combinato disposto tra l’art. 27 L. n. 218/1995 e l’art. 115 c.c., dall’incapacità a contrarre matrimonio da parte del cittadino italiano, sì da integrare, quindi, il così detto impedimento doppio, atteso ch’esso, l’impedimento appunto, involge l’altro nubendo. Sul punto, v. anche D. Damascelli, op. cit., 1110 e O. Lopes Pegna, op. cit., 535. 112 Al riguardo, interessante è l’affermazione di C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, cit., 44 (nt. 42), la quale, con accorta acribìa, è ad affermare che «sarebbe stato preferibile dissipare ogni dubbio» – per individuare, ci permettiamo di aggiungere, il campo soggettivo di applicazione dell’art. 32-bis – attraverso l’utilizzo de «il singolare “dal cittadino italiano con persona dello stesso sesso”». In consimili termini, si legga anche O. Lopes Pegna, op. cit., 536 (nt. 37), secondo la quale «sarebbe stato preferibile formulare la disposizione eliminando il plurale», cioè a dire, il legislatore avrebbe dovuto riferirsi «al matrimonio contratto all’estero “da cittadino italiano”». 113 Per una succinta, ma comunque esauriente, disamina dell’art. 12 disp. prel. c.c., si leggano M. Rotondi, voce Interpretazione della legge, in Noviss. Dig. it., VIII, Torino, 1962, 894 ss., e N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano, 2008, 211 ss. 114 Si compulsi, sul significato proprio delle parole, l’eccelsa disamina di R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 147 ss. 115 Cfr. M. Rotondi, op. cit., 898 (l’A. discorse, anziché d’interpretazione letterale, d’«interpretazione grammaticale»). V. anche R. de Ruggiero - F. Maroi, op. cit., 47 s.
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legislatore116 (per una più ampia interpretazione logica117) – il dettato normativo non pare lasciare dubbio alcuno, giacché la locuzione118 «[…] da cittadini italiani con persona dello stesso sesso […]»119 non consente altre ragionevoli interpretazioni120. Nondimeno, onde evitare (eventuali) giuste critiche mosse dal principio per cui, nell’interpretare la legge121, l’interprete non possa fermarsi al mero e solo significato letterale122, è necessario soggiungere che, al di là della mera accezione delle singole parole, persino secondo un’interpretazione funzionale123 – ossia secondo quell’interpretazione che considera primieramente la ragione della norma, e quindi l’interesse specifico ch’essa tutela – e sistematica124 – id est: quel tipo d’interpretazione funzionale che non si focalizza sulla singola norma, ma la esamina nel suo complesso, considerando anche la cornice legislativa entro cui la stessa s’inserisce – si evince limpidamente come l’art. 32-bis trovi applicazione anche nei confronti dei matrimoni in cui uno dei coniugi sia cittadino straniero. Ben si può affermare, al riguardo, come l’interpretazione fondata sull’intenzione del legislatore sia spesso impiegata, nell’esegetica, quale strumento ausiliario dell’interpretazione letterale125. Tuttavia, opiniamo che l’interpretazione fondata sul significato proprio delle parole
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Giova por mente che, per «intenzione del legislatore», ci si deve riferire ad una delle due varianti raggruppate, secondo R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 150, nell’alternativa «volontà “del legislatore” vs. volontà “della legge”»: in particolare, per volontà del legislatore ci si riferisce non già alla volontà di coloro che hanno concorso a emanare la norma (ovverosia alla così detta teoria soggettiva), bensì all’intento obbiettivo della legge (così detta teoria della volontà obbiettiva), vale a dire allo scopo, alla «ragione» cui tende la legge. Cfr. anche, sul punto, C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, cit., 96. Adde E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici. Teoria generale e dommatica, a cura di G. Crifò, Milano, 1971, II ed., 265, per il quale «l’“intenzione del legislatore” sta ad indicare il problema pratico, del quale la norma da interpretare rappresenta la soluzione». 117 V., in generale, R. de Ruggiero - F. Maroi, op. cit., 48 e M. Rotondi, op. cit., 898 e 899. 118 Sul concetto di enunciato, quale minima unità linguistica portatrice di un proprio completo significato, v. G. Tarello, op. cit., 106 ss. 119 Corsivo aggiunto da noi. 120 Cfr.: G. Biagioni, op. cit., 498 e 508; E. Calò, op. cit., 400; C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, cit., 44, la quale, giustamente, è ad asserire come «la […] formulazione» dell’art. 32-bis consenta «di argomentare su base logica», e in specie «il dato sintattico (da… con)» permette di affermare come anche il matrimonio contratto all’estero, tra un cittadino italiano e uno straniero, possa produrre gli stessi effetti, in Italia, dell’unione civile. A corollario, l’A. discorre (ivi, 46), a ragione, di una necessaria «interpretazione estensiva dell’art. 32-bis»; C. Coppola, op. cit., 57; O. Lopes Pegna, op. cit., 536; F. Pesce, op. cit., 93; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 452; I. Viarengo, op. cit., 38. Di dissimile avviso, cioè a dire nel senso di un’interpretazione maggiormente restrittiva della disposizione, pare M.G. Cubeddu Wiedemann, op. cit., 37 ss., spec. 37 e 38, la quale sostiene come l’art. 32-bis si riferisca ai soli matrimoni contratti all’estero «fra cittadini italiani» (corsivo aggiunto da noi). 121 Ossia, nell’espletare quell’attività attributiva «di significato a un documento legislativo da parte di un soggetto interprete»: così, G. Tarello, op. cit., 106. 122 Cfr., limpidamente, P. Perlingieri, op. cit., 573 ss., spec. 578 e 579. 123 «Non sembra […] esatto il dire che l’interprete dovrebbe acquietarsi di fronte al significato letterale del testo se questo non presenta dubbi interpretativi. Anche un testo apparentemente chiaro può in realtà offrire un significato più appropriato alla ragione giustificativa della legge, e quindi occorre sempre verificare tale ragione. L’interpretazione letterale, dunque, è solo il primo momento dell’atto interpretativo che si completa con la ricerca e la verifica della ragione della norma»: così, autorevolmente, C. M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, cit., 96. V. anche P. Perlingieri, op. cit., 577 ss. Cfr. pure R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 150 s. 124 Difatti, ben si può affermare come l’interesse normativo, che germoglia dalla singola disposizione (nella specie, dall’art. 32-bis), non possa essere contemplato da solo, ma dovrà essere interpretato anche alla luce della rilevanza interpretativa riconosciuta agli altri interessi affioranti dal sistema normativo.. V., al riguardo, C.M. Bianca, Diritto civile, 1, La norma. I soggetti, cit., 97. 125 R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 150.
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debba essere preferita126, nel caso di eventuale contrasto, al criterio interpretativo fondato sull’“intenzione del legislatore”, giacché, se si seguisse sempre e comunque l’“intenzione del legislatore”, i giudici avrebbero un’eccessiva discrezionalità nel poter allontanarsi dal significato proprio delle parole127; dal che, siffatta disposizione può ben trovare la propria applicazione concreta al caso di specie128.
6. Intorno alla libertà di scelta del legislatore, circa il
modello di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone del medesimo sesso. Con la pronunzia in epigrafe, la Cassazione ha avuto modo, altresì, di confermare un principio oramai consolidatosi, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, inerente la libertà di scelta, da parte del legislatore, del modello di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone del medesimo sesso. Più precisamente, è a dirsi come, al lume di uno dei motivi addotti dalle parti129, la Corte abbia avuto la possibilità, ancóra una volta130, di addurre, a sostegno della predetta e asserita libertà di scelta, sia elementi fattuali, derivanti da note pronunzie giurisprudenziali, sia, seppur en passant, princìpi da tempo enunziati nella dottrina più autorevole. Quanto agli elementi fattuali, richiamata è la nota sentenza “Oliari e altri contro Italia”131, per il tramite della quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto modo di condannare l’Italia per la manifesta violazione – o, per meglio dire, per eccesso di discrezionalità nell’attuazione – dell’art. 8 della Cedu132, poiché il Governo italiano eccedette oltre il limite
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In siffatto senso, v. anche R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 190. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., 190. 128 La Cassazione, anche su tale punto, pare, a nostro sommesso credere, contraddirsi: per vero, essa afferma, in un primo momento, «[…] che se l’art. 32-bis si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti”, ovvero contratti da un cittadino italiano e da un cittadino straniero, si determinerebbe una discriminazione […]» (corsivo aggiunto da noi), lasciando, dunque, chiaramente intendere come tale disposizione non sia da applicarsi al caso concreto, ove, appunto, il matrimonio è contratto tra un cittadino italiano e uno straniero; in un secondo momento, invece, essa è ad asserire come l’art. 32-bis trovi «applicabilità diretta» al caso di specie. 129 Vale a dire il secondo motivo di ricorso, col quale le parti lamentano la «violazione del divieto di discriminazione», atteso che la Corte d’Appello, nel rigettare il loro ricorso, provvide ad affermare, peraltro a ben ragione, come nell’ordinamento giuridico italiano il matrimonio tra persone dello stesso sesso non collimi colla tipologia di matrimonio previsto dal legislatore. 130 L’altra cognita fattispecie trova collocazione nella notoria sentenza “Schalk e Kopf contro Austria”, che si cennerà infra. 131 Il testo della pronunzia, del 21 luglio 2015, n. 18766, è reperibile in www.echr.coe.int. Sui primi commenti a siffatta pronunzia, si compulsino, ex multis, P. Bruno, Oliari contro Italia: la dottrina degli “obblighi positivi impliciti” al banco di prova delle unioni tra persone dello stesso sesso, nota a Corte eur. Dir. uomo, 21 luglio 2015, n. 18766, in Fam. dir., 2015, 12, 1073 ss.; R. Lenti, Prime note in margine al caso “Oliari c. Italia”, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 10, 575 ss.; G. Casaburi, Il disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso: verso il difficile ma obbligato riconoscimento giuridico dei legami omosessuali, in Foro. it., 2016, 1, 10 ss. Per quanto attiene, inoltre, ad un’oculata descrizione della vicenda, sia dall’angolo visuale dei ricorrenti, sia dal lato del dispositivo della sentenza, si veda D. Rudan, L’obbligo di disporre il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso: il caso Oliari e altri c. Italia, in Riv. dir. int., 2016, 1, 190 ss. 132 V., diffusamente, C. Pitea - L. Tomasi, sub art. 8, in Comm. breve alla Convenzione europea dei diritto dell’uomo, a cura di S. Bartole, P. De Sena e V. Zagrebelsky, Padova, 2012, 297 ss. Cfr. anche G. Puma, op. cit., 410 s. 127
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del proprio margine di discrezionalità, a causa, specificamente, dell’inerzia del legislatore, il quale mancò di ottemperare all’obbligo positivo di garantire alle coppie omosessuali un distintivo quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela della loro unione133. In siffatta pronunzia, la Corte europea ha rammentato, incisivamente, il principio secondo cui gli Stati godono di un certo margine di discrezionalità, in ordine ai mezzi di riconoscimento giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso. Principio, codesto, corroborato da quanto già dapprima affermato dalla medesima Corte europea nella nota sentenza “Schalk e Kopf contro Austria”134, la quale ebbe modo di far emergere come spetti alla legislazione nazionale dei singoli Stati contraenti se permettere, o no, l’unione coniugale omoaffettiva135. Non solo. La Corte europea riconobbe sì tale discrezionalità136, ma provvide – quasi a voler introdurre una “clausola di salvaguardia” ad un eventuale, eccessivo, ricorso alla discrezione – comunque a dare àdito al principio per cui anche le coppie omosessuali hanno il diritto ad unirsi in matrimonio e, a fortiori, di fondare una famiglia137, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 9 della CdfUe138 e l’art. 12
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Sul tema, vale a dire sul riconoscimento in capo alle persone omosessuali del diritto di poter vivere liberamente come coppia, entro, però, i «tempi» e i «modi» stabiliti dalla legge, si pronunciò, già tempo addietro, la Corte costituzionale (con la sentenza 15 aprile 2010, n. 138, in Dir. fam. pers., 2011, 1, 3, con nota di V. Tondi della Mura, Le coppie omosessuali fra il vincolo (elastico?) delle parole e l’artificio della “libertà”; in Resp. civ. e prev., 2010, 7-8, 1491, con nota di L. Morlotti, Il no della Consulta ai matrimoni gay; in Foro it., 2010, 6, 1701, con nota di M. Costantino, Individui, gruppi e coppie (libertà illusioni passatempi); in Giur. cost., 2010, 2, 1604, con nota di R. Romboli, Il diritto “consentito” al matrimonio ed il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la Corte dice “troppo” e “troppo poco” e con nota di B. Pezzini, Il matrimonio same sex si potrà fare. La qualificazione della discrezionalità del legislatore nella sent. n. 138 del 2010 della Corte costituzionale; in Giust. civ., 2010, 6, 1294 – per la cui disamina, succinta ma di sicuro e immediato intelletto, v. almeno M. Gattuso, op. cit., 810 ss.), la quale ebbe ad affermare come nella nozione di formazione sociale – intesa come «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – sia da annoverarvi anche «l’unione omosessuale intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia». Per giunta, la Corte aveva affermato che è inammissibile, dacché diretta ad ottenere una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata e, per di più, implicante scelte meramente discrezionali rimesse al legislatore, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156 c.c. (nella parte in cui essi, «sistematicamente interpretati», non consentono affatto, alle persone del medesimo sesso, di poter contrarre matrimonio) in relazione agli artt. 2, 3, 29 e 117, co. 1, Cost., ed in rapporto agli artt. 8, 12 e 14 Cedu e agli artt. 7, 9 e 21 CdfUe. Al riguardo, assorbenti sono le parole di G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 446, ad avviso del quale, la L. n. 76/2016 «mira a rimediare a un vuoto di lunga data», oltreché a «rispondere alla messa in mora del nostro legislatore manifestata dagli organismi, anche giudiziali, europei». V. inoltre S. Patti, I diritti delle persone omosessuali e il mancato riconoscimento del matrimonio contratto all’estero, in Fam. pers. succ., 2012, 6, 456 (ma pure 458), il quale discorse di «“isolamento” dell’ordinamento giuridico italiano rispetto agli ordinamenti europei che hanno esteso l’istituto del matrimonio alle persone omosessuali o hanno elaborato una regolamentazione della loro convivenza […]». 134 Il testo della sentenza è reperibile in www.articolo29.it. In dottrina, si v. la nota, a tale pronunzia, di M.M. Winkler, Le famiglie omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 11, 1137 ss. 135 Nella specie, si asserì come il precludere, alle persone del medesimo sesso, la possibilità di contrarre matrimonio, non violasse l’art. 12 della Cedu, ché, com’è noto, il matrimonio è un istituto giuridico grandemente ancorato alle origini storiche e culturali dello Stato. 136 V. anche, sulla discrezionalità circa il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso, Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 maggio 2001, “Mata Estévez contro Spagna”, cit., la quale riconobbe l’esistenza di un’area «in which they [gli Stati contraenti] still enjoy a wide margin of appreciation». 137 Sul punto, assorbenti sono le parole di P. Perlingieri, op. cit., 441: «[…] nella prospettiva che ogni formazione sociale deve considerarsi meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico quando concorra al pieno e libero sviluppo della persona, non è possibile escludere a priori la meritevolezza di unioni diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio, ma realizzate pur sempre nel rispetto della dignità umana e frutto di libere scelte secondo i princípi costituzionali (si pensi alle unioni more uxorio, paraconiugali, omosessuali)». 138 Il quale, testualmente, recita: «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che
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della Cedu139; si badi bene, però, soggiunge la Corte, come sebbene non sia da revocarsi in dubbio quest’ultimo diritto, esso, comunque, non rifugge da limiti. Difatti, esso può esercitarsi entro i confini delle leggi nazionali che regolano la materia matrimoniale, il cui appannaggio di disciplina è di ciascun singolo Stato. Segnatamente, la Corte ritiene, ad onta di quanto sostenuto dai ricorrenti140, che lo Stato goda di un certo contorno di discrezionalità, per quanto attiene al conferimento del particolare status derivante dal mezzo di riconoscimento alternativo, relativamente all’unione omoaffettiva141. Ulteriore elemento addotto dalla Corte, per corroborare l’asserita «discrezionalità legislativa» in materia, è rappresentato dal richiamo ad una nota pronunzia, recente, della Corte costituzionale142, la quale, per il tramite di una sentenza “additiva di principio”, nel riaffermare, affinché vi sia matrimonio, la necessaria diversità di sesso tra i nubendi143, ha chiaramente provveduto a rammentare come l’unione omosessuale abbia sì diritto ad essere rannodata alla nozione di «formazione sociale»144, prevista e tutelata dall’art. 2 Cost., ma nei tempi e nei limiti tratteggiati dal legislatore145. Da un mero punto di vista dommatico, quanto sostenuto dalla Suprema Corte non può che essere riconosciuto di tutta evidenza. Per vero, nel nostro ordinamento è stato costan-
ne disciplinano l’esercizio». Al riguardo, giova certo rilevare, per corroborare quanto sopra sostenuto, come la formulazione di siffatta disposizione risenta sicuramente dell’evoluzione del diritto di famiglia in seno ad ogni Stato dell’Unione europea. Invero, è noto come nell’ultimo ventennio diversi Stati membri abbiano provveduto a codificare nuove forme di unione familiare, differenti dal matrimonio, e financo aperte a coppie del medesimo sesso. Pertanto, così come asserito brillantemente da L. Tomasi, op. cit., 27, «La portata della nozione comunitaria di famiglia, in astratto ampia e pluralistica, è dunque suscettibile di rimanere tale, o di restringersi in concreto, a seconda delle caratteristiche del diritto di famiglia di ciascuno stato membro». Si compulsi, altresì, V. Scalisi, Studi sul diritto di famiglia, Padova, 2014, 33 ss. Adde F. Azzarri, op. cit., 1016 (nt. 136). 139 Il quale, testualmente, recita: «A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto». In merito a tale disposizione, ben si può affermare, come ebbe giustamente a dire L. Tomasi, op. cit., 28, come essa integri una norma, per così dire, meno «progressista» dell’art. 9 CdfUe; l’art. 12 Cedu, per vero, tutela solamente la famiglia fondata sul matrimonio, il quale deve necessariamente essere costituto da persone di sesso differente. Sul punto, si legga quanto asserito dalla pronunzia della Corte europea dei diritti dell’uomo, “Rees contro Regno Unito”, 17 ottobre 1986, in www.echr.coe.int. 140 I quali, com’è noto, ebbero a sostenere come lo Stato, ove decidesse di riconoscere, per il tramite di un mezzo giuridico alternativo, l’unione omosessuale, dovrebbe conferire a tali unioni il medesimo status, sì denominato diversamente, tuttavia corrispondente, in tutto, al matrimonio eterosessuale. 141 Assorbente, in merito al combinato disposto tra le sentenze “Schalk e Kopf contro Austria”; Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, cit.; Cass., 13 marzo 2012, n. 4184, cit., è quanto ritenuto da G. Ferrando, Il diritto al matrimonio delle coppie dello stesso sesso: dalla discriminazione alla pari dignità, in Politica del diritto, 2014, 3, 364 e 365, la quale, tra gli altri princìpi enunziati, afferma, a ragione e senza tema di smentita, che «la scelta di estendere il modello matrimoniale anche ad unioni diverse da quelle eterosessuali è rimessa al legislatore ordinario». 142 Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170, in Dir. fam. pers., 2014, 3, 1018; in Foro it., 2014, 10, 2674, con nota di S. Patti, Il divorzio della persona transessuale: una sentenza di accoglimento che non risolve il problema e R. Romboli, La legittimità costituzionale del “divorzio imposto”: quando la Corte dialoga con il legislatore, ma dimentica il giudice. 143 Di poi – sulla scia di quanto asserito dalla Corte costituzionale –, la Corte di Cassazione (con la pronunzia del 13 marzo 2012, n. 4184, cit.) ebbe modo anch’essa di pronunziarsi in materia, sottolineando come «la diversità di sesso dei nubendi» sia, «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio […] come atto giuridicamente rilevante»; questa affermazione muove, tra gli altri, da quanto previsto dall’art. 107, co. 1, c.c., per il quale, durante la celebrazione del matrimonio, le parti debbono dichiarare che «si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie». 144 Sul punto v., seppur en passant, P. Barcellona, voce Famiglia (dir. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 781 e 782. 145 V. anche G. Ferrando, Il diritto al matrimonio delle coppie dello stesso sesso: dalla discriminazione alla pari dignità, cit., 367 e 368.
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temente, a ragione, profilato il noto principio per cui il matrimonio civile, quale modello principale di unione familiare, persiste eleggibile da persone di differente sesso146. Codesto presupposto, pur non essendo espressamente previsto dalla legge147, costituisce, per il nostro legislatore, un elemento necessario, al fine di rendere valida la costituzione del matrimonio148: si pensi, a guisa d’esempio, agli artt. 89, co. 2, 107, co. 1, 108, co. 1, 143,
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Nella ricca letteratura, si compulsi: R. de Ruggiero - F. Maroi, op. cit., 266; A.C. Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, vol. III, t. I, fasc. I, Torino, 1961, rist. III ed., 49; A. Bertola, op. cit., 360; D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, cit., 583; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. II, cit., 42 ss. (passim); F. Santosuosso, sub art. 84, in B. Liguori - N. Distaso - F. Santosuosso, Disposizioni sulla legge in generale. Delle persone e della famiglia. (Artt. 1-230), in Comm. Cod. civ., redatto a cura di magistrati e docenti, Libro I, t. I, Torino, s.d., ma 1966, 415; F. Finocchiaro, Del matrimonio. Art. 84-158, t. II, cit., 16 e 17; Id., Matrimonio civile. Formazione, validità, divorzio, cit., 11; A. De Cupis, op. cit., 19; L. Bove, Il matrimonio civile, in AA.VV., Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 2, Persone e famiglia, t. I, Torino, 1999, II ed., 874 (nt. 3) e 878; G. Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. V, t. I, Milano, 2002, 277; F. Galgano, Il negozio giuridico, cit., 579; G. Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modelli o unità categoriale?, in Dir. fam. pers., 2006, 3, 1229-1234, spec. 1231 e 1232; E. Giacobbe, op. cit., 131; F. Santosuosso, Il matrimonio. Libertà e responsabilità nelle relazioni familiari, cit., passim, spec. 93; M.R. Spallarossa, Le condizioni per contrarre matrimonio, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, vol. I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando, M. Fortino e F. Ruscello, t. I, Relazioni familiari - Matrimonio - Famiglia di fatto, Milano, 2011, II ed., 761; C. Sgobbo, Il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso: la Cassazione abbandona la qualifica di «atto inesistente» approdando a quella di «non idoneo a produrre effetti giuridici nell’ordinamento interno», nota a Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Giust. civ., 2013, 10, 2185 (nt. 3); T. Auletta, Diritto di famiglia, cit., 25; G. Bonilini, Il matrimonio, cit., spec. 108-110; Id., La fonte dell’unione civile, in AA.VV., Tratt. dir. fam., diretto da G. Bonilini, vol. V, Unione civile e convivenza di fatto, Torino, 2017, 4; Id., Manuale di diritto di famiglia, cit., passim, spec. 48 (ma anche 66), il quale ben osserva che, nel nostro ordinamento giuridico, «è necessaria, perché si abbia matrimonio, la diversità di sesso dei nubendi»; A. Natale, op. cit., 159 ss.; M. Sesta, op. cit., 37; C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2017, VI ed, 19; D. Damascelli, op. cit., 1112; G. Palmeri, sub art. 84-92, in AA.VV., Matrimonio. Art. 79-158, a cura di G. Ferrando, in Comm. cod. civ. e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2017, 309 s. (testo e nt. 19) e 313 ss.; I. Queirolo, op. cit., 454. In giurisprudenza, sulla necessaria diversità di sesso dei nubendi, v., ex plurimis: Cons. Stato, 26 ottobre 2015, n. 4899, in Fam. dir., 2016, 1, 64, con nota di G. Iorio, Trascrizione dei matrimoni omosessuali esteri e poteri del prefetto; Cass., 21 aprile 2015, n. 8097, in Corr. giur., 2015, 8-9, 1048, con nota di S. Patti, Divorzio della persona transessuale e protezione dell’unione “ancorché non più matrimoniale”; in Nuova giur. civ. comm., 2015, 9, 777, con nota di M. Azzalini, Dal “divorzio imposto” al matrimonio “risolutivamente condizionato”: le bizzarre ed inique sorti del matrimonio della persona transessuale; Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, cit.; Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, cit.; Cass., 9 giugno 2000, n. 7877, in Giust. civ., 2000, 11, 2897 ss., con nota di L. Lacroce, Concezione giuridica del matrimonio e vecchie e nuove forme di celebrazione; Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Fam. dir., 1999, 4, 327, con nota di V. Zambrano, Ordine pubblico e matrimonio contratto all’estero secondo il rito mussulmano; Cass., 22 febbraio 1990, n. 1304, in banca dati DeJure. Nella giurisprudenza di merito, v., almeno, Trib. Venezia, 3 aprile 2009, in Fam. dir., 8-9, 823, con nota di M. Bonini Baraldi, “Comizi d’amore” in tempo di crisi; in Nuova giur. civ. comm., 2009, 9, 911, con nota di G. Buffone, Riconoscibilità del diritto delle persone omosessuali di contrarre matrimonio con persone del proprio sesso; nonché Trib. Latina, 10 giugno 2005, cit. Sul punto, riteniamo di dover prendere le distanze da quanto ebbe ad asserire F. Finocchiaro, voce Matrimonio civile, in Enc. dir., XXV, Milano, 1975: «l’unione omosessuale stabile è in contrasto col il concetto dominante di buon costume»; l’A., molto probabilmente, ebbe a risentire delle costumanze permeanti la società dell’epoca, le quali, ci permettiamo di affermare, in materia di unioni omosessuali risultavano essere piuttosto retrive. Al riguardo, v. anche l’esemplare disamina – come, del resto, tale A. è solito fare – di V. Barba, La tutela della famiglia formata da persone dello stesso sesso, in GenIUS, 2018, 1, 68 ss. 147 M. Sesta, op. cit., 37. 148 V. anche G. Ferrando, Il matrimonio, cit., 277 e 279, per la quale, a ben ragione – alla luce anche di quanto oggi è previsto dalla L. n. 76/2016 – «è la coppia eterosessuale quella entro cui si costituisce, nel nostro ordinamento, un matrimonio valido». Adde Id., Il diritto al matrimonio delle coppie dello stesso sesso: dalla discriminazione alla pari dignità, cit., 359. Sul tema, di meridiana evidenza risulta essere quanto ritenuto da App. Milano, 6 novembre 2015, n. 2286, in Dir. fam. pers., 2017, 1, 82, la quale, con acribìa, ebbe modo di asserire come se è vero che la diversità di sesso dei nubendi, per la celebrazione del matrimonio, non sia espressamente prevista da veruna disposizione di legge, è altrettanto vero come non possa condividersi un approccio interpretativo meramente «atomisco», vale a dire fondato sull’analisi letterale dei singoli articoli, giacché siffatta materia richiede «una lettura sistematica del quadro giuridico di riferimento, peraltro nella irrinunciabile consapevolezza che per il legislatore del 1942 l’introduzione della diversità di sesso tra i requisiti elencati all’articolo 84 c.c. sarebbe stata quasi fuor d’opera, essendo quella diversità, nella realtà sociale, culturale e giuridica dell’epoca, un presupposto implicito dell’istituto matrimoniale». Per giunta,
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co. 1, 143-bis, nonché alle disposizioni albergate negli artt. 231 ss., c.c., ove il legislatore ha scolpito i termini «marito» e «moglie». Orbene, premesso, a rigore, come un attento interprete della legge non possa esimersi, durante la propria attività esegetica, ora da un’interpretazione complessiva dell’ordinamento giuridico149 (ivi compresa la rilevanza ermeneutica della normativa comunitaria150), compulsando pertanto tutte le fonti costituenti l’ordinamento medesimo151, ora da un’oculata analisi delle pronunzie giurisprudenziali nazionali e sovranazionali, è d’uopo rilevare come senz’altro spetti al legislatore la scelta del modello di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali, e, più precisamente, che ciò che osta, al riconoscimento giuridico del matrimonio contratto all’estero tra persone del medesimo sesso, è la mera scelta compiuta dall’ordinamento giuridico italiano, vale a dire le norme ed i princìpi, connaturanti quest’ultimo, in materia matrimoniale152. Si pensi, invero, all’art. 29 Cost. – e, anche in parte, all’art. 30 Cost. – il quale, così come interpretato dalla Corte costituzionale, rimane il «nemico»153 principale del matrimonio tra persone del medesimo sesso, essendo esso inteso, anche oggidì, esclusivamente con riferimento al matrimonio eterosessuale154. La stessa L. n. 76/2016, al co. 27, prevedendo, apertis verbis, che in caso di rettificazione anagrafica di sesso di uno dei coniugi, là dove entrambi abbiano palesato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, esso (il matrimonio) debba comunque essere automaticamente convertito in unione civile, permette di desumere la
la Corte afferma come «la diversità di sesso, seppur non indicata espressamente agli articoli 84 e seguenti del codice civile tra le condizioni necessarie per contrarre matrimonio», trovi nondimeno «riferimento in numerose altre norme la cui struttura richiama lessicalmente i due contraenti del matrimonio, indicati per l’appunto come “marito” e “moglie”»; si tratta, in generale, di multipli riferimenti normativi i quali consentono all’interprete di desumere come il matrimonio, nella propria accezione stricto sensu intesa, sia solamente quello tra uomo e donna. 149 Al riguardo, terse e vibranti paiono le parole di V. Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale, in Fam. dir., 2014, 10, 867, nota a Corte. cost., 11 giugno 2014, n. 170, ad avviso del quale il giurista non può «sottrarsi a una valutazione d’assieme dell’ordinamento giuridico, la quale abbia a considerare tutte le fonti di cui esso si compone e, non soltanto quella governate dall’antico e nobile criterio della territorialità statale, mi pare che le norme sovranazionali […] non soltanto non consentano il risultato atteso da quanti assumano che dalle medesime possa togliersi la conclusione che debba riconoscersi, in tutti gli Stati, il matrimonio omosessuale, ma, addirittura, finiscono per rimandare ogni valutazione normativa circa il matrimonio omosessuale entro i confini e nelle regole proprie di ciascun ordinamento nazionale, denunciando esse stesse la loro incompetenza a statuire su questa materia». Sul punto, più in generale, v. anche P. Perlingieri, op. cit., 563 ss. 150 P. Perlingieri, op. cit., 592-596. 151 Cfr. G. Bonilini, Rettificazione di attribuzione di sesso, e scioglimento automatico del matrimonio ai sensi dell’art. 31 d.lg. n. 150/2011, in Fam. pers. succ., 2011, 12, 805 ss., passim (ma spec. 809), il quale asserisce, giustamente senza tema di smentita, come la diversità di sesso dei nubendi rappresenti, nel nostro ordinamento, un postulato che «permarrà saldo, sino a quando resteranno in vigore, nella formulazione attuale, le norme racchiuse nell’art. 29 Cost., e negli articoli del Codice civile, che chiaramente presuppongono codesta diversità». 152 Al riguardo, è d’uopo richiamare nuovamente le parole di V. Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale, cit., 869, secondo cui, apertis verbis, «Il diritto positivo è […] il frutto della scelta compiuta da uomini, ai quali il singolo ordinamento consegna o rende le chiavi delle officine del diritto»; dal che, soggiunge l’A. (ibidem), il diritto positivo è dunque «Artificiale, perché i suoi contenuti sono il frutto di una pura scelta umana». 153 Così, V. Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale, cit., 871. 154 Cfr. F. Finocchiaro, Del matrimonio. Art. 84-158, t. II, cit., 16 s. e 23; G. Giacobbe, op. cit., 1231 e 1232. Adde A. Pino, op. cit., 9. Sul punto, si compulsi anche F. Azzarri, op. cit., 1013 e 1014. Sul fatto che i princìpi costituzionali dettati con riferimento al matrimonio debbano essere applicati anche alle unioni civili, v. V. Barba, La tutela della famiglia formata da persone dello stesso sesso, cit., 77.
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tersa scelta legislativa in ordine al mantenimento e riconoscimento del matrimonio quale unione tra persone di differente sesso. Da tutto quanto esposto, si desume la legittimità costituzionale della scelta del legislatore circa le forme ed i modelli entro i quali predisporre, per le unioni tra persone dello stesso sesso, «uno statuto di diritti e doveri coerente con il rango costituzionale di tali relazioni»155. In definitiva, dunque, giova sottolineare come alla base della scelta del legislatore, di non prevedere l’istituto del matrimonio omosessuale, non vi sia alcuna «preclusione logica» o «una scelta ideologica a sé stante», ma solamente una «mera scelta positiva», la quale può bensì essere oltrepassata unicamente con una specifica modifica costituzionale (segnatamente, dell’art. 29 Cost.)156.
7. Alcune notazioni conclusive. Come si è avuto modo di percepire dal commento alla sentenza in epigrafe, le questioni esegetiche originanti dall’oggetto della pronunzia della Corte sono tutt’altro che di rapida e tersa soluzione. Vista la novità della questione trattata157, ancóra in fieri soprattutto nel panorama giurisprudenziale, e vista la difformità di opinioni, specificamente sull’interpretazione dell’art. 32-bis, invalsa nella dottrina che più si è occupata del tema, su vari punti della sentenza non è certo stato facile prendere giudizio. Quanto alle questioni principali trattate in punto di diritto, ad opinione di chi scrive, è emerso come la Corte abbia, in alcuni punti, effettuato una commistione tra diverse questioni giuridiche che, come già detto, paiono, a nostro credere, operare su piani giuridici dissimili. Il Giudice di legittimità, avendo in più punti asserito, espressamente o implicitamente, come l’art. 32-bis disciplini anche la trascrizione dell’atto di matrimonio, rischia di
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Così, plasticamente, Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, cit. In questi autorevoli termini, si esprime V. Barba, Artificialità del matrimonio e vincoli costituzionali: il caso del matrimonio omosessuale, cit., 871 e 872. Per l’A. (ivi, 867), inoltre, anche dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, germoglia il principio per cui «l’idea di matrimonio […] è di tipo eterosessuale». V. anche T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia?, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 3, 378 s. Adde C. Grassetti, voce Famiglia (diritto privato), in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, 49 e 50. In giurisprudenza, sulla necessità, al fine di estendere il matrimonio alle coppie omosessuali, di una modifica dell’art. 29 Cost., v. già Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, cit., nonché Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170, cit. Muovono, invece, in una diversa ottica, circa la lettura dell’art. 29 Cost., G. Ferrando, Il diritto al matrimonio delle coppie dello stesso sesso: dalla discriminazione alla pari dignità, cit., 365 e 366, e F. Azzarri, op. cit., 1018 ss. V. pure, en passant, G. Puma, op. cit., 405 e 423. Adde G. Cardaci, Sull’efficacia –– automatica, seppur “interinale” –– del matrimonio tra persone dello stesso sesso nell’ordinamento giuridico italiano e sulla trascrizione del relativo certificato nell’archivio di stato civile, in Dir. fam. pers., 2017, 1, 257. 157 La stessa Corte è a riconoscere questa novità, là dove, nello statuire sulle spese della lite, dispone che «La assoluta novità della questione impone la compensazione delle spese processuali […]» (corsivo aggiunto da noi). 156
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Giurisprudenza
generare nel lettore, sol che si rifletta un poco, un’idea fondata su un’interpretazione, dello stesso art. 32-bis, di carattere “omnicomprensivo”, vale a dire una norma regolatrice sia degli effetti del matrimonio-rapporto celebrato all’estero, sia della sòrte della pubblicità del matrimonio-atto, che, si rammenta, ha mera funzione certificativa, e non già costitutiva158. Sicuramente, l’astratta e concreta applicazione dell’art. 32-bis alla fattispecie oggetto della pronunzia, di là delle varie considerazioni dommatiche svolte sul tema159, contribuisce a garantire la continuità della circolazione degli status familiari creatisi all’estero, in ottemperanza, altresì, a quanto stabilito, già da tempo, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (nel rispetto degli artt. 8 e 12 Cedu) e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea160. Senza addentrarci nel merito, ben si può convenire, in definitiva, con l’affermazione, feconda d’importanti corollari, secondo la quale i diritti fondamentali dell’individuo dirigono gli Stati, sempre più, verso il pieno riconoscimento e rafforzamento dei rapporti di famiglia (alias: dello status familiae) sórti al di fuori dei confini nazionali; tutto ciò, attraverso la predisposizione di un sistema di diritto internazionale privato capace di assicurare, tra gli altri, il riconoscimento, mediante appositi strumenti, degli atti pubblici formati entro l’ordinamento giuridico di Stati terzi, sì da garantire la continuità degli status personali e familiari oltre il perimetro nazionale161. Si tenga bene a mente, poi, che anche volendo seguire la tesi sposata dalla Corte – secondo la quale, ripetiamo per amor di chiarezza, l’art. 32-bis, riguardante altresì la trascrizione del matrimonio, ne vieterebbe l’iscrizione, nei registri dello stato civile, del rispettivo atto costitutivo –, la libera circolazione di qualsivoglia status germogliante dal matrimonio, in generale, non sarebbe comunque preclusa. Marco Ramuschi
158
Si veda, seppur en passant, L. Tomasi, op. cit., 255. V., supra, §§ 3, 4 e 5. 160 Cfr. D. Damascelli, op. cit., 1152, e ivi la copiosa giurisprudenza, di ambedue le Corti, richiamata. Garantendo la circolazione degli status familiari (e personali), viene dunque garantito l’effettivo rispetto per il singolo e la propria famiglia, rispetto che produce senz’altro un «direct impact in the domestic legal order in the sense that individuals enjoy rights that national judges are expected to guarantee […]»: così, R. Baratta, op. cit., 433. 161 R. Baratta, op. cit., 442. 159
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Opinione di Paolo Pollice Il superamento del verticalismo familiare nel Codice civile italiano*
1. Uno studioso del diritto positivo può prendere la parola in un convegno di storici avendo la duplice consapevolezza che l’indagine sul passato non è che “l’ombra di un’interrogazione rivolta al presente” e che “ogni spirito conoscente è spirito contemporaneo”. Siamo nei margini concettuali della comparazione diacronica e delle sue componenti ermeneutiche che hanno come loro metodica il canone del divenire storico, il cui esito epistemologico è il rinvenimento nei rapporti giuridici esistenti del loro passato prossimo col quale confrontarsi alla luce dei nuovi processi che investono la vita, con i suoi itinerari umani e culturali. Relazione da non intendersi, come suggerisce l’analisi weberiana, legata in modo meccanicistico. Il diritto come funzione o tecnica autonoma conserva, infatti, con non poche probabilità una dimensione idealistica. Su altro punto, occorre mettere in guardia da quelle vedute che, sulla base di una topica ricavata dalla dogmatica moderna, intendono stabilire rapporti immediati e speculari con esperienze remote, nel senso di un’illusoria continuità che finisce per evocare una presupposta comune natura degli uomini: è questo uno schema che si appartiene alla teoria del diritto naturale, che alimenta, specie nel diritto di famiglia, l’ingenua persuasione di un tendenziale immobilismo contenutistico. In realtà, il dialogo con la storia è sempre molto più complesso di quanto non sembri ad un osservatore di superficie. Il ripetersi di formule e schemi che sono frutto di un procedimento di astrazione può indurre, infatti, all’arbitraria trasposizione di un dato, determinato nel tempo o nello spazio, in una simultaneità temporanea e spaziale destinata a produrre una sorta di artificiosa ontologia della corrispondenza. Il rischio è quello di assistere a una reificazione del processo di astrazione inverato, senz’altra giustificazione, alle dinamiche della storia. In una tale prospettiva, la famiglia ottocentesca “borghese” – non essendo più in grado di risolvere le differenze storiche – diviene il telos dell’intera vicenda umana. Più acconcia spiegazione sul tema dell’astrazione potrebbe essere ritrovata in una continuità ideale con formule teoriche che si appartengono al linguaggio dei giuristi di ogni tempo e di ogni luogo, senza per questo implicarne l’universalità. Non è un puro interesse antiquario o filologico quello che (per noi occidentali) raccomanda la conoscenza delle origini romanistiche del nostro diritto vigente; ciò che in realtà seduce non è il commentario, la narrazione con le sue manifestazioni erudite; semmai, quel processo logico e dialettico che ha interessato la formazione del diritto romano e la sua evoluzione in relazione agli assetti produttivi, sociali, religiosi di quella società; nonché il confronto del dato con il concetto. Da questo punto di vista, il senso della comparazione diacronica ci proviene dalla elaborazione delle fonti in sistema che è, poi, la vera “fatica” della scienza del diritto. Direi che a considerazioni analoghe conduce anche la comparazione sincronica, specie se si supera la più limitata prospettiva eurocentrica. Il confronto con l’attualità – cioè con gli ordinamenti stranieri
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Relazione svolta al Convegno “Patres/Patria Religione, violenza e diritto tra famiglia, città e stato”, promosso dal Centro Sudi sui Fondamenti del Diritto Antico, Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”, Napoli, 22 maggio 2019. Il presente lavoro è destinato agli Studi per Francesco Santoni.
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Opinione di Paolo Pollice
vigenti – serve ad acuire lo sguardo critico e non deve tradursi nella proposta di ingombranti quanto innaturali trapianti. Insomma, per dirla in breve, la comparazione c’insegna che tutti gl’istituti giuridici, come quello della famiglia che oggi ci occupa, debbono essere pensati nel loro tempo e nel contesto in cui operano. Va aggiunto, infine, che nessun attento giurista positivo intende e può rinunciare alla tradizione che ci proviene da una “intellettualità antica” nella misura in cui questa può ancora fornire risposte ai bisogni pratici. 2. Posta questa premessa, si può ora iniziare ad esaminare il tema oggetto di questa mia breve comunicazione che riguarda il superamento del verticalismo familiare che aveva ispirato la disciplina della famiglia nella versione originaria e non più vigente del Codice del 1942. Per il legislatore del 1942, la famiglia è una comunità / istituzione che ha l’ordine immanente di servire l’interesse primario della nazione: cioè di essere funzionale e coerente ai compiti che lo Stato assolve: la famiglia, pertanto, non rappresenta un momento della mediazione tra gl’interessi dei suoi componenti (o, se si vuole, dell’interesse proprio) e quelli dello Stato proprio perché si pone in continuità immediata con questi ultimi. Usando formule schmittiane (e non a caso!) dalla teoria dello Stato come “compito” si giunge parimenti alla teoria della famiglia come “compito”. In questo contesto, il singolo, l’individuo, ha importanza solo come funzionario o servitore dello Stato. Da qui deriva la superiore dignità della famiglia rispetto all’individuo, la cui posizione giuridica soggettiva degrada e finisce per configurarsi alla stregua di uno status: posizione giuridica soggettiva che rappresenta un relitto della pre – modernità delle diseguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e eguaglianza dei diritti fondamentali. Nella nozione di status è prevalente, infatti, l’elemento del “dovere” rispetto al “diritto” in quanto riconducibile all’idea di “funzione sociale”. Sintomatico di siffatta prospettiva è quell’orientamento dottrinale che assegna il diritto di famiglia alla categoria del diritto pubblico. Il codice del 1942 è strettamente collegato ad un quadro normativo più ampio. Pensiamo, ad esempio, al sistema corporativo e, per la famiglia, alle interdizioni razziali che ne fanno una comunità caratterizzata in termini di Blut und Boden, risultato cioè di successioni genealogiche radicate in un determinato territorio e aventi identità religiosa. Il mito dell’appartenenza etnica rappresenta un artefatto del nazionalismo e determina una concezione della famiglia come comunità chiusa non in grado di rapportarsi alla diversità. In tale prospettiva, il modello disciplinare della famiglia ripete nella sostanza quello applicato alle altre comunità e istituzioni nazionali. Esso è caratterizzato dall’affermarsi di ruoli disposti tra loro in posizione gerarchica con processi sistemici che inducono all’obbedienza “senza particolari motivazioni” se non quelle della lealtà, del valore, delle scelte fatte da un “capo” nell’interesse della comunità. Ruolo esemplare è in tal senso quello del padre di famiglia in cui sono riassunti autorità e poteri rispetto agli altri componenti della famiglia. Un immediato parallelismo può essere fatto con la figura del “duce” nell’organizzazione statale. Conclusivamente si può dire che nella famiglia regolata dal codice del 1942 è ben riconoscibile l’ideologia fascista che persegue l’illusione di una famiglia stabile, nucleare, etero sessuale che serve da puntello ideologico di una serie di accozzaglie di valori e pratiche. Di qui, l’esclusione del divorzio, il divieto dell’aborto, la condanna decisa dell’omosessualità, l’affermazione della supremazia della razza. In tale direzione finiscono per muovere anche i movimenti tradizionalisti cattolici che, con la strenua opposizione al modernismo, riesumano un passato immaginario, perché mai esistito nella realtà. È intuitivo che non è possibile ridurre a poche battute la complessità di una vicenda che – rotto ogni legame con le pur timide aperture risorgimentali – trova punti di riferimento nella più ampia cornice normativa dell’epoca: si pensi al Concordato con la Chiesa cattolica, che finisce per marginalizzare il matrimonio civile; al codice penale Rocco, che “rafforza” la tutela penale del vincolo matrimoniale sottraendolo definitivamente al suo carattere privato e civile; ovvero, infine, a quella vergogna nazionale
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che furono le leggi razziali e di salvaguardia della stirpe1. 3. Con l’entrata in vigore della Costituzione, a seguito della caduta del fascismo, l’impianto della famiglia disciplinato dal codice del 1942 entra in conflitto con i nuovi principi costituzionali, che, però, troveranno non poche difficoltà ad affermarsi. L’inizio di un cambiamento radicale si avrà con le prime decisioni della Corte Costituzionale degli anni Sessanta del secolo scorso, con la legge sul divorzio, la legge sull’aborto, con la riforma del 1975 e con le leggi successive che interesseranno la crisi della famiglia, la disciplina dei minori e, più di recente, i patti di convivenza, ecc. Non credo sia utile, perché si tratta di cose ben note, ricostruire questo difficile percorso normativo e giurisprudenziale: difficile perché ha visto posizioni dottrinali, culturali e politiche sovente in contrasto. Preferirei, invece, soffermarmi su di un discorso più morfologico che analitico – ricostruttivo, adottando la prospettiva dell’individuo nella famiglia e, quindi, il “suo porsi” in quest’ordinamento particolare – che possiamo per ora anche definire di “gruppo” pensando però più ad un fenomeno sociologico che a una qualificazione giuridica – in relazione all’ordinamento generale. Raccomanda questa logica espositiva la circostanza che nel nostro diritto positivo, a partire dalla normativa costituzionale (artt. 2 e 3), è riservato all’individuo un posto centrale col pieno riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana, tra i quali i diritti della donna, dei minori, alla salute, all’istruzione, e così via. Le stesse articolazioni della società civile – le associazioni, i sindacati, i partiti politici – sono concepite al servizio della persona umana. Rispetto al sistema precedente siamo in presenza di una vera e propria rivoluzione copernicana nei rapporti tra Stato e individuo che si riflettere sull’ordinamento della famiglia, non più chiamata a svolgere i “compiti” che erano propri dello Stato nazionalista e autoritario. La linea di continuità tra Stato – famiglia e individuo è ormai invertita; il principio di parità tra uomo e donna non consente più che vi sia un rapporto gerarchico all’interno della famiglia e il modello organizzativo diventa quello consensuale. Muovono in tal senso nella riformata disciplina del codice civile l’art. 143 dettato in tema di diritti e doveri reciproci dei coniugi; nonché l’art. 144 sull’indirizzo della vita familiare. Evidentemente non è solo il mutato quadro normativo – che pur riflette importanti momenti della cultura e della coscienza nazionale – ad avere influito sui profondi cambiamenti che hanno investito la famiglia a partire dal secondo dopoguerra. Il cambiamento normativo s’inscrive, infatti, in un incisivo processo di trasformazione economico – sociale della società italiana. Questa, infatti, passa, prima, da una società agricola, connotata da forme di produzione autarchiche di tipo pre – capitalistico; a una società industriale, con sempre più largo impiego della donna del mondo del lavoro, con forte espansione dei consumi, con consistente mobilità territoriale dal Mezzogiorno al Nord. Caratteri questi ultimi destinati anch’essi rapidamente a cambiare con l’introduzione dell’informatica, la robotizzazione, l’ampiamento del terziario, la globalizzazione dei processi produttivi e del commercio, ecc. Par chiaro che rispetto a questi profondi cambiamenti delle strutture economiche e della società civile non può più corrispondere un concetto generale di famiglia, un modello ipostatizzato, rispetto al quale porre di volta in volta un giudizio di ascrivibilità – non ascrivibilità. Se è difficile tracciare un concetto generale di famiglia, possiamo dire che nell’attuale contesto questo concetto potrebbe servire da cornice per dare rilievo alla compresenza di due nuclei di discipline
1
Non mancarono, di certo, elementi di novità apprezzabili in linea di principio – cioè al di là della positiva disciplina – come, ad esempio, l’introduzione nel nostro ordinamento, col r. d. 20 luglio 1934, n. 1404 di un organo giudiziario specializzato in tutti gli affari riguardanti i minori; ovvero la creazione di enti pubblici destinati al sostegno dell’infanzia e della maternità. Da tale angolo visuale bisogna, tuttavia, essere molto attenti a non intraprendere operazioni di mistificazione culturale e tentare così di accreditare al legislatore dell’epoca un’accentuata sensibilità ai bisogni della società civile ed una curvatura dogmatica nella sostanza tecnica, dotta e neutrale appena scalfita dall’istanza politica dell’epoca.
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con contorni abbastanza definiti: una che riguarda i rapporti patrimoniali tra i coniugi e, quindi, la successoria mortis causa; l’altra, relativa ai rapporti con lo Stato, soprattutto con gli Enti previdenziali. Non a caso si tratta di temi, di grande concretezza, che hanno interessato la discussione sui contratti di convivenza. Tali discipline hanno la caratteristica di essere storicamente determinate nel tempo e nello spazio – nel senso che non sono sempre esistite e non esistono negli ordinamenti vigenti di molti altri paesi – e di potere essere modificate dal legislatore senza per questo abolire la fattispecie famiglia, per chi la condivide come figura autonoma. Vi è, in realtà, un terzo nucleo di disciplina – credo di maggiore rilievo rispetto ai precedenti – rappresentato dalla protezione assicurata dagli ordinamenti occidentali all’interesse dei figli minori. Ritengo, tuttavia, che il presupposto di operatività di tale disciplina sia la genitorialità e non l’esistenza di una famiglia (art. 30 Cost.; art. 315 c.c.). A questo punto il discorso diviene molto più complesso in quanto innesta il connesso tema dell’interesse dei minori a cui non è possibile in questa sede far cenno per motivi di tempo. Si è detto che manca oggi un concetto generale di famiglia rispetto alla precedente normativa nella quale era presente una rigida tipizzazione frutto della diffusa convinzione che si trattasse di una verità tanto solare quanto indiscutibile. La realtà si è profondamente modificata tanto che autorevoli studiosi, pensando alla pluralità delle formule del vivere insieme, richiamano la metafora dell’arcipelago per designare una realtà ormai variegata e mutevole. Sicuramente, volendo indicare un filo conduttore in grado di orientarci nella materia, si può osservare che il Costituente ha affermato il carattere privato – cioè consensuale – della famiglia, con base fondativa nei cosiddetti diritti personalistici e nel principio d’eguaglianza. Da tale angolo visuale, la famiglia recupera, per così dire, un prospettiva antropocentrica: nel senso che alla sua base vi è l’uomo ed i suoi bisogni. In particolare, merita essere segnalata la completa scomparsa di elementi finalistici o funzionali (cioè, il perseguimento di scopi etici); nonché, il riequilibrio, attraverso il principio d’eguaglianza, della posizione della donna. Malgrado le profonde trasformazioni che si sono viste a partire dal secondo dopoguerra, si sono sviluppate forti correnti “antimoderniste”, sia nel mondo cattolico che in quello mussulmano (con cui è oggi necessario fare i conti in Europa), la cui spinta fondamentale sta nel rifiuto delle recenti trasformazioni dell’economia globale; della crescita della mobilità sociale; della intensificazione dei fenomeni di ibridazione culturale ed etnica. Si assiste ad un ritorno al premoderno (anche se il fenomeno, contraddittoriamente, rappresenta ormai un aspetto della postmodernità) in cui l’illusorio ritorno alla famiglia tradizionale ne è un puntello ideologico. 4. Vorrei, a questo punto, riprendere un discorso a cui ho fatto prima cenno parlando del ruolo centrale che nel nostro ordinamento ha l’individuo. Ciò, a mio avviso, contrasta con l’idea della famiglia come “comunità” o “formazione sociale”: termini questi che tradotti nel linguaggio dei privatisti finiscono col corrispondere alla figura dell’associazione. Il discorso ha notevole complessità e trova un primo consistente ostacolo in una dato testuale costituito dall’art. 29 della Costituzione che nel 1° comma parla della famiglia “come società naturale fondata sul matrimonio”; abbinata a tale enunciazione si riscontra nel 2° comma l’affermazione sull’esistenza di “diritti della famiglia”, che dovrebbero, cioè, essere diversi da quelli che fanno capo ai singoli componenti della stessa. Entrambe le disposizioni hanno indotto a ritenere che per il Costituente la famiglia rappresenti un centro autonomo d’imputazione di rapporti giuridici, come tale munito di una personalità di tipo speciale nel senso di essere “giuridicamente più limitata, ma socialmente più elevata”. L’opinione riferita ci lascia perplessi anche se non è questa la sede per controllarne la solidità in quanto si dovrebbe “aggredire” un tema, come quello dell’interpretazione dell’art. 29 della Costituzione, sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro e si sono confrontate molteplici contrastanti soluzioni. Par
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lecito, tuttavia, registrare, con tutte le cautele del caso, qualche iniziale impressione critica. Non vi è dubbio che a prima vista la formula adoperata dall’art. 29 sembri testimoniare l’esistenza di una (incerta) autonoma personalità della famiglia. Non è chiaro, tuttavia come una società naturale, riconosciuta come tale dal Costituente, debba essere fondata, sul matrimonio, che è un atto formale disciplinato dal legislatore ordinario (quindi di contenuto mutevole nel tempo) e che sicuramente rappresenta un posterius rispetto alla “società naturale”. Invertendo i termini, è probabilmente il matrimonio – cioè la disciplina che in concreto il legislatore ordinario detta in relazione alle dinamiche della società civile – a dirci che cos’è la famiglia. In altri termini, la “società naturale” è la società storicamente determinata nel tempo. Vediamo a questo punto in quale misura possa avere credito la tesi, che prende spunto dal richiamato 2° comma dell’art. 29 Cost. secondo cui la famiglia ha una identità propria distinta da quella del suoi componenti: identità trasfusa nell’ambito degli schemi della soggettività privata. In realtà, questo richiamo alla soggettività privata non è chiarissimo anche se serve a sganciare definitivamente la famiglia da ipotetici interessi pubblicistici. Col conforto della disciplina portata dalla riforma del 1975, in particolare con riguardo alla rilevanza che assumerebbe l’indirizzo della vita familiare di cui parla l’art. 144 c., si è avanzata le tesi che la famiglia sia un gruppo associativo tipico, dotato di specifico codice organizzativo destinato allo svolgimento di un’attività comune. Questo concetto di “attività comune”, strettamente connesso a quello di scopo comune, è senza alcun dubbio suggestivo in quanto ben si presta a collocare il profilo della collaborazione tra i coniugi in uno possibile atteggiamenti del fenomeno associativo. A tale scopo ben si presta la formula adoperata dall’art. 144 c. c. secondo cui: “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare”. Ora, se intendiamo affinare i concetti impiegati dalle tesi appena riferite ci accorgiamo che utilizzano strumenti non del tutto coerenti che le finalità costruttive che si propongono. Ciò per due ordini di motivi:
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perché, l’aspetto della soggettività unitaria – cioè una organizzazione come ordinamento della programmazione interna – non è di alcuna utilità nei rapporti reciproci tra i membri della famiglia giacché governati dallo schema dell’obbligo e, quando a contenuto patrimoniale, dell’obbligazione; perché, passando dal piano descrittivo a quello tecnico, è facile accorgersi che l’accordo dei coniugi circa l’indirizzo da dare alla loro vita familiare non può costituire un criterio di identificazione di una struttura associativa, in quanto non riesce a fissare il distacco tra la dimensione associativa e la dimensione individuale dell’accordo. Insomma, quando si passa dalla descrizione alla comprensione della formula contenuta nell’art. 144cod. civ, ci s’imbatte in una disciplina convenzionale dei comportamenti dei coniugi, che non si traduce in un regime non individuale (id.est: associativo) dell’attività.
5. Il modello organizzativo della famiglia contrassegnato – a tenore delle teorie prima criticate – da una soggettività autonoma rispetto alla posizione dei singoli componenti della famiglia – rappresenta l’antecedente sistematico della teoria che costruisce la potestà genitoriale secondo lo schema dell’ufficio (privato). E’ intuitivo il referente compositivo che è alla base della nozione di ufficio privato, alla quale, a mo’ di corollario, è connessa quella di autorità privata. Essa serve, infatti, a segnalare nella struttura della famiglia la presenza di profili funzionali, nella specie, quello della congruenza del comportamento dei genitori rispetto all’interesse protetto del minore (su altro ma concorrente versante, fonda la condizione di legittimità della stessa potestà genitoriale). L’utilità immediata di un approccio in chiave di funzione si manifesta sul piano del riscontro della conformità/difformità dell’azione al fine e presuppone l’estraneità del controllante all’attività. E’ di tutta evidenza come questo strumento concettuale si presti bene a spiegare l’intervento
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del giudice nella soluzione dei conflitti riguardanti l’indirizzo della vita familiare (arg. ex art. 145 c. c.) e nell’adozione dei provvedimenti di decadenza dalla potestà genitoriale (arg. ex art. 330 cod. cìv.); ovvero, nei casi meno gravi, di limitazione della stessa (arg, ex art. 332 c. c.); ovvero, ancora, di rimozione dal l’amministrazione dei beni del minore (arg. ex art.334 c. c.) Tale costruzione, suggestiva per la sua semplicità e linearità, si avvale, in realtà, di concetti alquanto oscuri: anzitutto, quello di ufficio la cui genesi risiede nella teoria dei modelli e dei poteri di organizzazione della pubblica amministrazione che – nascondendo una ipostasi (pensiamo alla soggettività dell’ufficio) non dimostrata per la famiglia – traduce in funzioni quelli che nel codice sono costruiti come obblighi (arg. ex artt. 147, 148, 261 c. c.). Ora, per potere condividere la richiamata impostazione, si dovrebbe almeno dimostrare, senza perdersi in astratti parallelismi, che in tali obblighi risiede un concetto autonomamente significativo di funzione, e conciliare la sfera individuale di valutazione degli interessi in gioco con i criteri della discrezionalità che caratterizzano la titolarità dell’ufficio. Non sfugge, da tale angolazione, che il potere attribuito dalla funzione non è inerente alla cura di un interesse proprio e I o alieno, ma riguarda esclusivamente l’interesse che sta alla base dell’investitura dell’ufficio. In altri termini, la prospettiva che muove dalla sequenza funzione – potestà – ufficio non dà affatto conto, nella materia che ci occupa, né dell’interesse proprio che i genitori hanno all’esercizio della relativa potestà (alludiamo ai “diritti” di cui parla l’art. 30 Cost.) né dell’interesse del minore che viene immesso in un circuito, nel quale il suo essere persona umana è solo una conseguenza dell’attribuzione dell’ufficio. Per chiarire ancor meglio il punto, è sufficiente riflettere sul fatto che la collocazione funzionale della potestà genitoriale, trascritta in termini di ufficio privato, presuppone che l’interesse curato sia in primo luogo quello pubblico (interest rei publicae rem pupilli salvam fare). Ciò non appaia strano in quanto occorre porre in relazione siffatta prospettiva con quella ormai remota veduta che incorpora la famiglia (come “cellula”) nelle strutture dello Stato. Se si pone, invece, l’accento sull’interesse del minore come criterio di valutazione aperto nel quale confluiscono l’attuazione e la protezione dei suoi diritti personalistici, ci si può ben sottrarre alla tentazione di formulare una teoria unitaria in cui collocare la potestà genitoriale e limitarsi, quindi, a riconoscere l’esistenza di un luogo normativo, cioè un sistema di disciplina, i cui referenti fiduciali sono costituiti dal novero di diritti e obblighi, che muovono intorno allo sviluppo della personalità del minore. 6. Lo svolgimento del discorso ha cercato di contrastare la prospettiva di separare la famiglia, intesa come entità autonoma, dai membri che la compongono e di intravedere nei rapporti familiari un contenuto schiettamente individuale e privato. Occorrerebbe, a questo punto, un controllo delle ragioni sistematiche di tale scelta col ripercorrere la complessa trama delle disposizioni costituzionali che riguardano la famiglia ed i minori (artt. 29 30, 31 Cost.); nonché il loro intreccio con altre (artt. 2, 3, 34, 37, 38, 42, 4° co., 47 Cost.) che, peraltro, involgono aspetti fondamentali del nostro sistema costituzionale. Sennonché, l’economia del presente lavoro non consente un tale approfondimento Con rapidissima sintesi, può dirsi che l’intero impianto costituzionale della famiglia si avvale di poche direttive: quella del riconoscimento della sola famiglia fondata sul matrimonio e ordinata sulla base dell’eguaglianza dei coniugi (art. 29, 1° e 2° co. Cost.); e, l’altra, del riconoscimento di una speciale protezione accordata ai minori nella famiglia e nella società (art. 30 Cost.). La base interpretativa di tali regole si fonda sul principio personalistico (arg. ex art. 2 Cost.) in base al quale i diritti della persona umana e le forme della loro positiva espressione – tra le quali, ad esempio la libertà individuale di scelta – sono intangibili, sì che anche la disciplina della famiglia deve a questo uniformarsi. Ai fini del nostro discorso, gli scarni rilievi sino ad ora svolti consentono di trarre due brevi osservazioni conclusive: la prima riguarda il carattere dei principi costituzionali appena richiamati nel senso che essi conservano nel nostro ordinamento giuridico un ufficio di macro-clausole generali, come tali dotate
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Il superamento del verticalismo familiare nel Codice Civile italiano
di notevole elasticità e suscettibili di lettura polivalente da parte del legislatore ordinario. La seconda deve riconoscere che – specie dopo la riforma del diritto di famiglia che ha mutato l’originaria disciplina del codice – la legislazione ordinaria è divenuta il vero “cuore” della materia, in quanto traduce le direttive costituzionali nel concreto regime giuridico della famiglia. Riprendendo il filo conduttore di queste osservazioni, va osservato, a mò di conclusione, che ancor oggi esistono aree della disciplina della famiglia, riguardanti soprattutto gli aspetti economici, non rimosse o solo limitatamente depotenziate (penso alla complicata vicende dei patti di famiglia ex artt. 768 bis ss. c.c.), che furono alle origini della concezione che ispirò il legislatore del 1942. Queste aree muovono su di un terreno ambiguo e conflittuale rispetto alle logiche del sistema. In esse risuonano, in varie maniere e in contesti differenti, istanze partigiane e ideologiche. Va da sé, che sullo sfondo di una più generale architettura sistematica, non s’intende negare una ricostruzione della soggettività come relazione con altri; tuttavia, ogni relazione con l’alterità (l’essere, appunto, con altri) – la cui percezione è certamente attraversata da una tensione volta alla costruzione della comunità (familiare) – non può frantumare la configurazione del soggetto come individuo e indurre a una ingiustificata limitazione delle libertà individuali. Di un altro problema è opportuno far cenno indicando sinteticamente la nostra posizione in coerenza col discorso sin qui sviluppato. Alcuni Autori ritengono che nell’ambito della famiglia le situazioni soggettive siano riconducibili al concetto di rapporto. È necessario, per ragioni di tempo, prescindere in questa sede dalla relazione che corre tra diritto soggettivo e rapporto giuridico, che in una certa prospettiva sono null’altro che due modi diversi d’intendere e costruire una medesima realtà giuridica. Rileva, invece, il fatto che questo concetto, in sé non chiarissimo, è servito nella sua tradizionale accezione per descrivere, più che spiegare, la sintesi delle posizioni assunte in ordine a un determinato bene (venduto) e la modalità di composizione del conflitto d’interessi (in breve, dell’atto). Col rapporto si finisce per cristallizzare tanto l’obbligazione di una parte che quella della controparte. Quando, poi, all’interno del rapporto si allude al “comportamento dovuto” non si va oltre lo schema, in sé chiuso e definito, dello stesso (credito/debito). Nel campo non negoziale il concetto di rapporto – il più delle volte utilizzato con disarmante genericità – è del tutto inadeguato a esprimere posizioni individuali non correlate ad un atto avente contenuto patrimoniale. Occorrerebbe pensare, invece, un’autonoma categoria giuridica dell’agire coerente al momento individualistico dell’esperienza familiare dominata dallo svolgimento di fatti il cui timbro e ritmo non può essere ricostruito secondo l’ordine concettuale dell’avere. Ciò posto, mi limito a indicare, senza poterne argomentare gli svolgimenti, due questione che in concreto intralciano le dinamiche familiari per il fatto di porre significativi vincoli alle scelte individuali. La prima è relativa alla materia della successione mortis causa ove è ancora presente l’anacronistica figura dei legittimari il cui unico punto di riferimento è oggi il ceto medio e la cui funzione è di alimentare e sostenere un sistema di relazioni intersoggettive nelle quali la volontà del de cuius non è né autonoma, né in grado di autodeterminarsi. La seconda è legata a quell’ipocrisia della solidarietà post – coniugale (variamente graduata nella irrazionalità della coppia separazione – divorzio) che altro non è che il riconoscimento della partecipazione, in concreto determinata, alla produzione degli effetti economici realizzati con la vita in comune. In entrambi i casi siamo all’interno di un contesto giuridico e al di fuori di un progetto etico che appartiene, come un tempo c’insegnava Arturo Carlo Jemolo, a una diversa dimensione dell’essere.
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Recensione di Salvatore Patti Jens M. Scherpe (ed.), European Family Law, 4 volumi, Cheltenham, UK-Northampton, MA, USA, 2016
L’opera (ormai diffusa e molto apprezzata) curata da Jens M. Scherpe, Senior Lecturer di diritto della famiglia nell’Università di Cambridge, offre un quadro completo e stimolante del diritto di famiglia nei vari paesi europei ma soprattutto del diritto di famiglia quale diritto europeo in formazione. Il primo volume, dedicato all’«impatto» delle istituzioni e delle organizzazioni europee sul diritto di famiglia contiene contributi di alcuni dei migliori specialisti del vecchio continente tra cui Dagmar Coester-Waltjen, Nigel Lowe, Walter Pintens, Katharina Boele-Woelki e Dieter Martiny. Di particolare interesse e rilevanza pratica il capitolo dedicato all’influenza esercitata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sull’evoluzione del diritto di famiglia, a cui viene paragonata quella della Corte di giustizia e della Commissione sullo stato civile. Peraltro, con probabile sorpresa di molti lettori, viene segnalato altresì il rilevante «impatto» di un lavoro accademico, quello dei Principles elaborati dalla Commission on European Family Law (CEFL) per quanto concerne l’armonizzazione del diritto di famiglia in Europa e in particolare l’evoluzione della legislazione di alcuni paesi europei tra cui il Portogallo, la Norvegia e la Cechia. Molto originale, ancora, l’ultimo capitolo dedicato all’influenza della religione sul diritto di famiglia, in cui Jane Mair esamina l’odierno ruolo della religione fornendo diversi esempi, tra cui quello molto attuale e drammatico che concerne i matrimoni poligami degli immigrati e il diritto al ricongiungimento familiare. Il secondo volume dell’opera è dedicato alla mutata concezione della famiglia nei diversi paesi europei. Ogni capitolo analizza un singolo ordinamento giuridico e non mancano gli spunti di diritto comparato. Il quadro complessivo permette di affermare che, nonostante innegabili e a volte marcate differenze, la famiglia si evolve nel vecchio continente in maniera uniforme. Da ciò può ricavarsi una conferma sulla possibilità di una unificazione o almeno di una maggiore armonizzazione del diritto di famiglia, proseguendo e rafforzando l’impegno della European Commission on Family Law. Anche in questo volume l’alto livello degli autori – tra i quali Laurence Francoz-Terminal, Orsolya Szeibert, Maria Giovanna Cubeddu Wiedemann e Ingeborg Schwenzer – ha consentito di offrire contributi di grande interesse e di agevole lettura, utili per lo studioso del diritto di famiglia curioso in particolare di comprendere le relazioni tra cultura e famiglia nelle diverse regioni europee, ma altresì per l’operatore pratico che cerca le informazioni per il caso concreto da affrontare. Ancor più utile (soprattutto) per gli avvocati il terzo volume, dedicato al matrimonio, al divorzio ed alle sue conseguenze economiche, alle famiglie di fatto, alle relazioni tra persone dello stesso sesso, al benessere dei bambini e delle persone anziane all’interno della famiglia, alla responsabilità genitoriale e all’adozione. Nei settori suddetti, come mette in luce soprattutto Masha Antokolskaia, emergono, ovviamente, differenze, anche rilevanti. Ma i saggi mettono altresì in luce comuni linee di tendenza, sia per quanto riguarda lo scioglimento del matrimonio, sempre più «semplice» e veloce nonché basato sulla decisione degli interessati. Molto attuale, infine, la problematica relativa alla maternità surrogata. Gli autori (Katarina Trummings e Paul Belmont) svolgono utili considerazioni su una problematica che ha già impegnato le Corti su-
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Recensione di Salvatore Patti
preme di molti paesi europei – tra cui Francia, Germania e Italia – nonché la Corte europea dei diritti dell’uomo. Negli ordinamenti europei la gestazione per conto d’altri è generalmente vietata, ma si pone il problema di consentire o meno la registrazione di dati contenuti nei certificati di nascita rilasciati nei paesi in cui essa è permessa ed è stata effettuata, nei quali quindi risultano genitori del nato coloro che hanno incaricato la gestante. Il quarto volume chiude l’opera offrendo una analisi comparativa che tiene conto degli scritti contenuti negli altri volumi, approfondendo la comparazione tra i diversi contributi «nazionali» e facendo emergere una distinzione tra un «institutional» ed un «organic» european family law. Il secondo termine, poco usuale, indica la parte meno «tangibile» del diritto di famiglia europeo frutto di riforme suggerite, tra l’altro, dai lavori della European Commission on Family Law e già in grado comunque di costituire una base adeguata per il futuro diritto di famiglia europeo.
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