2020 4 Familia
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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale di Classe A dal 2016
luglio - agosto 2020
D IRETTA DA SALVATORE PATTI Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA SULL’EFFICACIA NELL’ORDINAMENTO ITALIANO DI UN MATRIMONIO CANONICO STIPULATO ALL’ESTERO (PARERE PRO VERITATE) Salvatore Patti
LA PARTECIPAZIONE AGLI UTILI EX ART. 230-TER C.C Francesco Rossi
AFFIDAMENTO DEL MINORE, BIGENITORIALITÀ E ALIENAZIONE PARENTALE Mario Renna
Pacini
Indice Parte I Dottrina Francesco Rossi, La partecipazione agli utili ex art. 230-ter c.c.............................................................. p. 425 Mario Renna, Affidamento del minore, bigenitorialità e alienazione parentale......................................» 439 Matteo Ghione, Luci e ombre della l. n. 10/2020 in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem.............................................................................................................................» 457 Alberto Costa, La rinunzia alla prelazione ereditaria...............................................................................» 475 Parte II Giurisprudenza Stefania Flore, L’atto di nascita del figlio concepito mediante fecondazione eterologa effettuata all’estero da una coppia di donne (nota a Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2020, n. 8029 e Cass. civ., sez. I, 3 aprile 2020, n. 7668)....................................................................................................................» 487 Vincenzo Attademo, Testamento redatto dall’inabilitato e capacità a ricevere da parte del curatore (nota a Cass. civ., sez. II, 4 marzo 2020, n. 6709)....................................................................................» 515 Parte III L’opinione Salvatore Patti, Sull’efficacia nell’ordinamento italiano di un matrimonio canonico stipulato all’estero (parere pro veritate).........................................................................................................................» 529
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La partecipazione agli utili ex art. 230-ter c.c.* Sommario : 1. I principali problemi interpretativi che l’art. 230-ter c.c. pone relativamente alla partecipazione agli utili. – 2. La quantificazione degli utili. – 3. La liquidazione in denaro del diritto di partecipazione.
The essay examines the main problems of interpretation of Article 230-ter of the Italian Civil Code with regard to the cohabitant’s participation in the profits of the family business. Particular attention is paid to the identification, on the one hand, of the moment in which the cohabitee has the right to receive the profits, and, on the other, of the criteria to be adopted to determine the share due to him.
1. I principali problemi interpretativi che l’art. 230-ter c.c.
pone relativamente alla partecipazione agli utili.
Il diritto di partecipazione agli utili, riconosciuto al convivente di fatto dall’art. 230-ter c.c., sembra ricalcare sostanzialmente l’analogo diritto previsto per i familiari dall’art. 230bis c.c.; pertanto, l’indagine sulla plausibilità delle risposte fornite dagli interpreti ai quesiti che, con riferimento specificamente a tale diritto, suscita la nuova disposizione introdotta dall’art. 1, comma quarantaseiesimo, l. 20 maggio 2016, n. 76, non può non tenere in considerazione i risultati ai quali sono pervenuti gli studi aventi ad oggetto l’impresa familiare1.
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Il presente contributo è destinato agli Studi in onore di Francesco Santoni. Tra i numerosi AA. che, nelle indagini aventi ad oggetto l’impresa familiare inserite nei più prestigiosi trattati e commentari, si sono soffermati, negli anni più recenti, sul diritto di partecipazione agli utili, v. G. Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, t. II, Art. 230 bis, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 2004, 128 ss., spec. 136 ss.; F. Prosperi, Impresa familiare. Art. 230-bis, in Il codice civile. Commentario fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 193 ss.; A. Figone, L’impresa familiare, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da G. Ferrando, vol. II, Rapporti personali e patrimoniali, Bologna, 2008, 787 ss.; L. Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da G.
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Con riguardo all’istituto da ultimo richiamato, parte della dottrina sostiene che l’imprenditore ha l’obbligo di presentare annualmente il rendiconto, dal quale il familiare lavoratore può evincere gli utili maturati e quelli eventualmente reinvestiti nell’attività2, sui quali anche il convivente «potrebbe avanzare pretese, ove adducesse che la sua aspettativa all’utile è stata frustrata, per una o più annate o sorgesse contenzioso circa la misura della sua “partecipazione”»3. La menzione del sintagma «impresa familiare» nell’art. 230-ter c.c., proprio nella parte in cui viene disciplinata la partecipazione del convivente di fatto agli utili e agli incrementi, determina un rinvio alla disciplina degli stessi contenuta nell’art. 230-bis c.c. L’estraneità del convivente dall’àmbito dei familiari indicato dal terzo comma di tale articolo, e l’assenza di parametri che rapportino il lavoro di costui a quello degli altri partecipanti all’impresa non comportano che l’individuazione del valore della prestazione possa prescindere dal raffronto con quella degli altri collaboratori. È di tutta evidenza che la formula letterale dell’art. 230-ter c.c., secondo cui la «partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento», deve essere «commisurata al lavoro prestato», è più generica di quella contenuta nell’art. 230-bis c.c., che stabilisce che la medesima partecipazione va calcolata «in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato». Tuttavia, l’espressione utilizzata dal legislatore del 2016 è giudicata «più congrua, giacché si sgancia dalla disciplina prettamente lavoristica», scaturente dalla Carta costituzionale (art. 36), e riferita soprattutto al lavoro subordinato, che si sarebbe probabilmente rivelata «non del tutto propria»4. In dottrina viene puntualizzato che, mentre il criterio quantitativo fa riferimento, da un lato, al tempo che il convivente dedica allo svolgimento della prestazione lavorativa, a confronto con l’attività di lavoro svolta da chi esercita l’impresa e da coloro che collaborano nell’impresa familiare, e, dall’altro, al numero di prestazioni effettuate, posto in relazione con quello delle prestazioni degli altri, «il criterio qualitativo dovrà indurre a valutare il ruolo assunto dal convivente nell’organizzazione imprenditoriale, tenendo conto della sua competenza, della sua professionalità e del carattere, infungibile o meno, delle prestazioni eseguite, ancora una volta ponendolo a confronto, sotto tale punto di vista, con gli altri partecipanti agli utili»5.
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Alpa e S. Patti, Padova, 2009, 232 ss.; M. Paladini, L’impresa familiare, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, vol. II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 2016, 1762 ss. V., per tutti, L. Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, 248, cui si rinvia anche per le indicazioni sulla bibliografia essenziale in argomento. Così, G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1022, nota 44. P. Passalacqua, Profili lavoristici della L. n. 76 del 2016 su unioni civili e convivenze di fatto, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 320/2017, 20. Così, G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, cit., 1021.
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Premesso che il diritto agli utili nasce dall’atto della prestazione, «secondo il meccanismo tipico per cui l’ordinamento interviene ex post facto a regolare patrimonialmente l’assetto degli interessi»6, l’art. 230-ter c.c. retribuisce l’opera, effettuata a favore del convivente imprenditore, non in sé, ma unicamente in quanto abbia contribuito al miglioramento della produttività dell’impresa, ossia sulla base dell’utilità del risultato derivante dal lavoro prestato. Non sempre l’impresa produce utili, nonostante la proficuità del lavoro erogato dal convivente dell’imprenditore, a causa, ad esempio, di un indebitamento strutturale; il che rende maggiormente evidenti gli effetti della mancata previsione, nel medesimo articolo, del diritto al mantenimento, che, nella disciplina dell’impresa familiare, è connesso alla condizione patrimoniale della famiglia, ossia prescinde dal lucro conseguito dall’impresa, permettendo a chi abbia prestato lavoro in funzione di quest’ultima di soddisfare quantomeno le esigenze essenziali della vita. Dall’art. 230-ter c.c. emerge che il convivente, non essendo legittimato a prendere alcuna decisione di tipo amministrativo – a differenza dei familiari ex art. 230-bis c.c. partecipanti all’impresa, i quali decidono anche in materia di impiego dei ricavi –, non può verificare se l’impresa abbia prodotto utili ed eventualmente in quale misura, ed è dunque condizionato completamente dalle informazioni sull’andamento dell’attività rese dal partner imprenditore e dalle determinazioni degli anzidetti familiari. La partecipazione del convivente agli utili e agli incrementi sarebbe effettiva, soltanto qualora l’imprenditore fosse obbligato alla redazione del bilancio; in caso contrario, le difficoltà probatorie sarebbero notevoli, sebbene si discuta in dottrina sulla possibilità di riconoscere ai collaboratori dell’impresa familiare un vero e proprio diritto al rendiconto7. Come si è innanzi rilevato, la partecipazione agli utili è eventuale, non essendo certo che l’attività imprenditoriale li produca, e non necessariamente attuale, essendo frequente che questi ultimi vengano reinvestiti, come accade in mancanza di un patto di distribuzione periodica8. Relativamente al momento in cui sorge per il convivente il diritto agli utili, mentre l’art. 230-bis c.c. attribuisce, come si è rilevato, la scelta della loro utilizzazione alla maggioranza dei partecipanti all’impresa familiare – per cui è ragionevole pensare che alla stessa
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Cfr. M. Tola, Impresa familiare e convivenze, in Riv. dir. civ., 2019, 732, che richiama l’autorevole opinione sul contenuto degli atti reali di A. Falzea, L’atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, ivi, 2006, I, 28 s. Sul punto, v., per tutti, G. Oppo, Sub art. 230-bis, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di G. Cian, G. Oppo e A. Trabucchi, vol. III, Padova, 1992, 483, per il quale, come partecipante agli utili, «il collaboratore familiare avrà diritto a rendiconto da parte del gestore o dei gestori»; secondo il medesimo A., non sarebbe «configurabile invece un obbligo di periodica presentazione del rendiconto indipendentemente dalla richiesta degli interessati al riparto, fermo l’obbligo di sottoporre alla maggioranza le decisioni sulla destinazione degli utili e/o degli incrementi». Con riferimento alla distribuzione degli utili prodotti dall’impresa familiare, v., di recente, Cass., 2 dicembre 2015, n. 24560, in Mass. For. it., 2015, c. 815, secondo cui, in assenza di un siffatto patto, gli utili sono destinati al reimpiego nell’azienda o all’acquisto di beni. In precedenza, nello stesso senso, Cass., 8 marzo 2011, n. 5448, ivi, 2011, c. 201 s.
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maggioranza competa anche stabilire i tempi della loro distribuzione –, l’art. 230-ter c.c. (pure) su questo aspetto tace. In assenza di un accordo tra imprenditore e convivente, occorre valutare come si possano contemperare esigenze tanto differenti, quali si presentano quella dell’impresa di contare su adeguati mezzi di finanziamento e quella, non meno rilevante, del convivente lavoratore di ricevere quanto gli spetta per l’attività svolta. Dal quadro che si delineerà rapidamente si ricaverà che la gran parte delle soluzioni prospettate dagli interpreti non soddisfa le ragioni del convivente. Si potrebbe ritenere ragionevolmente che, nel caso di distribuzione differita degli utili, il convivente di fatto che abbia partecipato all’impresa familiare li riceva quando quest’ultima sia cessata oppure egli abbia terminato il proprio apporto lavorativo, analogamente a quanto accade per coloro che prestano attività lavorativa nell’impresa familiare. Sarebbe ipotizzabile pure che, data la natura di retribuzione che connota la partecipazione agli utili ai sensi dell’art. 230-bis c.c., il diritto alla loro percezione maturi, invece, alla fine di ogni esercizio economico. Appare incontestabile che, rispetto al convivente, i familiari collaboratori abbiano minore necessità di distribuzioni degli utili a brevi distanze l’una dall’altra e di anticipazioni degli utili stessi, giacché, ove prestino attività di lavoro in modo continuativo, possono esigere la corresponsione del mantenimento. Il convivente inoltre, stando innanzitutto alla lettera dell’art. 230-bis c.c. – che attribuisce ai partecipanti all’impresa familiare il potere di stabilire la destinazione degli utili –, deve sottostare, come si è rilevato, alle decisioni dei medesimi partecipanti sull’utilizzazione dei ricavi prodotti dall’impresa, e non è da escludere, anzi è probabile, che esse siano nel senso del loro reimpiego nell’azienda o nell’acquisto di beni. Non si deve trascurare, poi, che chi esercita l’attività d’impresa potrebbe porre in distribuzione esclusivamente gli utili spettanti ai familiari, sembrando ad accreditata dottrina «pacifico che le decisioni relative agli utili […] siano soltanto quelle aventi ad oggetto gli utili spettanti ai familiari ivi elencati e che, dunque, l’imprenditore, per effetto di una decisione adottata a maggioranza ex art. 230-bis c.c., non possa essere costretto a distribuire utili anche al suo convivente, di cui all’art. 230-ter c.c.»9. Invero, lasciare all’imprenditore la decisione sulla periodicità della corresponsione degli utili potrebbe comportare che questi stabilisca che la loro liquidazione vada rinviata alla data di cessazione dell’impresa; ciò implicherebbe un aggravio della posizione del convivente lavoratore, che, peraltro, potrebbe restare non soddisfatto anche da una periodicità annuale, non essendo beneficiario del diritto al mantenimento10. D’altro canto,
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Così, G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, cit., 1023, nota 47. G. Guerrieri, op. cit., 1023, osserva che il problema ricorda quello, analogo, che generalmente nasce nelle società di capitali fra soci di maggioranza e soci di minoranza, «fermo restando che, nell’ipotesi disciplinata dall’art. 230 ter c.c., gli utili non distribuiti rimangono a far parte del patrimonio del convivente imprenditore e il convivente non imprenditore vede semplicemente sorgere, a proprio favore,
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occorre osservare, da un lato, che al convivente lavoratore non è riconosciuto un diritto all’utile – altrimenti costui avrebbe una posizione più vantaggiosa di quella dei familiari elencati nell’art. 230-bis, comma terzo, c.c. –, e, dall’altro, che gli utili non devono essere tutti distribuiti, come si evince nitidamente dall’art. 230-ter c.c., nella parte in cui prevede la partecipazione del convivente ai beni acquistati con gli utili stessi. Va notato incidentalmente che l’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore spinge a ritenere che l’anzidetta partecipazione si riferisca a tutti i beni acquistati, sia aziendali che extraziendali, a prescindere dall’uso collettivo o individuale dei medesimi. Anche con riferimento al diritto in esame il convivente, dunque, è meno protetto dalla legge rispetto ai collaboratori dell’impresa familiare. Per il primo neppure può essere richiamata quella solidarietà che dovrebbe indurre la maggioranza dei partecipi ad attribuire al familiare collaboratore la liquidazione della parte di utili che gli spettano, qualora ciò fosse necessario per permettergli di fronteggiare esigenze di vita che il diritto al mantenimento non è in grado di soddisfare. Infatti, la posizione del convivente è per definizione esclusivamente individuale, nel senso che il rapporto si instaura con il solo partner imprenditore, per cui, «quand’anche il convivente fosse genitore dei figli-collaboratori dell’imprenditore, il rapporto d’impresa familiare (ex art. 230-bis) intercorrerebbe unicamente tra costui e i figli, non tra i figli e l’altro genitore che pur convive e collabora con l’imprenditore medesimo»11. Orbene, essendo possibile che venga assunta la decisione del reimpiego degli utili nell’azienda, oppure che i partecipanti all’impresa familiare si astengano dal richiederli annualmente, all’interprete si impone, alla luce della insindacabilità di tali scelte – reputate pienamente legittime, ai sensi dell’art. 41 della Carta costituzionale e dell’art. 16 della Carta di Nizza –, di verificare se esista uno strumento che eviti quella sorta di “abuso” della libertà di impresa, che scaturirebbe dal differimento sine die della distribuzione degli utili. Proprio al fine di attribuire protezione effettiva al convivente, è stato sostenuto – e non si può negare che la proposta interpretativa sia ragionevole ed equa – che le decisioni dell’imprenditore devono ispirarsi ai parametri della correttezza e della buona fede, oltre che al dovere di diligenza, per cui, in considerazione anche della mancata previsione del diritto al mantenimento a favore del convivente, si dovrebbe negare «non solo la possibilità di frustrare l’aspettativa all’utile per svariati anni consecutivi, ma anche quella di frustrarla nella singola annata, ove l’imprenditore sia consapevole che il suo convivente non ha altri mezzi liquidi con cui mantenersi (e salva, forse, l’ipotesi in cui l’imprenditore provveda
un diritto di credito nei confronti del primo». Il medesimo A. puntualizza, poi, che, «nel caso in cui un credito verso l’imprenditore sia già sussistente», esso aumenterà di valore, «fermi i diritti sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi, ove gli utili siano utilizzati dall’imprenditore per operare detti acquisti o accrescere di valore i beni aziendali» (ibidem, nota 50). Sull’entità del mantenimento nell’istituto di cui all’art. 230-bis c.c., v., per tutti, S. Patti, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in A. Maisano (a cura di), L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977, 211 ss.; Id., Diritto al mantenimento e prestazione di lavoro nella riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1977, II, 1356 ss. 11 Così, M. Tola, Impresa familiare e convivenze, cit., 735.
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altrimenti all’assistenza materiale al convivente in misura sufficiente a garantirgli un dignitoso tenore di vita)»12. Parimenti al fine di tutelare il convivente lavoratore, è stato ipotizzato che gli utili gli vengano corrisposti man mano che maturano, cioè ancor prima «che l’imprenditore e i suoi familiari possano deciderne la destinazione», così riconoscendogli un diritto analogo a quello di cui è titolare il socio, ai sensi dell’art. 2262 c.c., consistente nella pretesa al riparto periodico degli utili, che «neppure una deliberazione assunta a maggioranza potrebbe limitare»13. A supporto dell’ipotesi ora esposta è stato addotto che, se il suddetto diritto, contemplato in àmbito societario, non può essere derogato dalla decisione di coloro che sono accomunati dalla volontà di perseguire lo scopo comune, a fortiori il medesimo diritto non potrebbe venire compresso dalle volontà di estranei, quali sono i familiari collaboratori rispetto al rapporto tra convivente e partner imprenditore, peraltro non di rado ostili nei confronti del primo. Tali familiari, pertanto, non sarebbero legittimati a stabilire la destinazione degli utili del convivente dell’imprenditore. Non essendo questa la sede preposta all’allargamento dell’indagine all’àmbito societario, in particolare all’esame dell’art. 2262 c.c., che – si badi – fa salvo il patto contrario, sembra sufficiente rilevare che, ove si condivida l’opinione secondo la quale, nelle società di persone, prevale, nonostante l’assunzione del rischio, l’interesse del socio alla ripartizione immediata dell’utile sulle esigenze di espansione economica dell’impresa, si dovrà convenire che a maggiore ragione dovrebbe essere tutelato il medesimo interesse in un contesto, quale quello del lavoro erogato nell’impresa del partner, in cui analogo rischio non viene assunto in via diretta. In quest’ottica, viene osservato, «una volta chiuso l’inventario con la redazione del bilancio ex art. 2217 c.c. e con la registrazione dell’utile d’esercizio, il convivente collaboratore dovrebbe sempre incondizionatamente maturare il corrispondente diritto patrimoniale»14.
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Così, G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, cit., 1024, il quale precisa che l’interesse del convivente lavoratore a percepire gli utili non sarà soddisfatto, qualora questi ultimi siano diretti a coprire le perdite pregresse dell’attività imprenditoriale (ibidem, nota 55). 13 V. ancóra, anche per i virgolettati, M. Tola, Impresa familiare e convivenze, cit., 737. In questo senso, con riferimento all’art. 2262 c.c., v. già F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 1998, 74. 14 Così, M. Tola, op. cit., 738, la quale, alla luce delle caratteristiche innanzi descritte, ritiene che il rapporto di cui all’art. 230-ter c.c. sia accostabile a una «sorta» di associazione in partecipazione con apporto esclusivamente di lavoro. Ad escludere, però, la correttezza dell’avvicinamento tra i due istituti, pare sufficiente notare – come, del resto, rileva la stessa A. – la diversa fonte dei rapporti, che soltanto nella seconda fattispecie è negoziale. In ogni caso, va ricordato che la nuova formulazione dell’art. 2549, comma 2, c.c. ha vietato che l’associato persona fisica apporti, anche solo in parte, una prestazione di lavoro.
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2. La quantificazione degli utili. La quantificazione degli utili spettanti al convivente è operazione complessa, ancor più di quella riguardante la fattispecie di cui all’art. 230-bis c.c. Innanzitutto, è necessario determinare la parte di utili che compete a chi riveste il ruolo di titolare dell’impresa15. Sul punto, occorre osservare, sia pure incidentalmente, che una più attenta considerazione meriterebbero gli argomenti in base ai quali dottrina e giurisprudenza, pressoché all’unisono, escludono che l’attività di impresa cui si riferisce l’art. 230-ter c.c. possa essere esercitata in forma collettiva16. Infatti, l’affermata incompatibilità delle norme che disciplinano l’impresa familiare con quelle relative alle società, peraltro fondata su argomentazioni che la stessa dottrina reputa convincenti soltanto in parte17, postula erroneamente che l’esercizio collettivo dell’attività imprenditoriale coincida necessariamente con uno dei tipi societari18. Relativamente ai criteri da adottare per individuare la quota spettante al convivente, è necessario ribadire che il confronto tra il lavoro di quest’ultimo e quello dei familiari deve incentrarsi sulla valutazione della quantità e della qualità del lavoro erogato. Tale valutazione è alquanto complicata, alla luce della eterogeneità del contenuto dell’attività svolta nell’impresa (di lavoro intellettuale, manuale, organizzativo, esecutivo), e «ancor più difficile può diventare la comparazione quando il lavoro nell’impresa deve essere confrontato, come avviene per l’art. 230-bis c.c., con il lavoro svolto all’interno della famiglia»19.
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L’orientamento quasi unanime, secondo il quale la natura dell’impresa familiare è individuale, è stato ribadito, di recente, da Cass., S.U., 6 novembre 2014, n. 23676, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 350 ss., con nota di G.B. Barillà, Impresa familiare e forma societaria: due modelli incompatibili; in Giur. it., 2015, 34 ss., con nota di C. Cicero, La controversa struttura dell’impresa familiare; in Giur. comm., 2015, II, 518 ss., con nota di F. Corsi, Impresa in famiglia, impresa familiare e società; in Fam. dir., 2015, 768 ss., con nota di M. Martino, Sulla compatibilità tra impresa familiare e impresa societaria. Hanno commentato la medesima pronunzia anche L. Balestra, Esercizio dell’attività di impresa in forma societaria e disciplina di cui all’art. 230-bis c.c.: sull’asserita incompatibilità, in Dir. civ. cont., 7 gennaio 2015 (www.dirittocivilecontemporaneo.com); A. Scotti, Dalla Corte di cassazione un’occasione per tornare a riflettere sulla compatibilità tra impresa familiare e forme collettive di impresa, in Corr. giur., 2015, 1249 ss.; L. Di Tucci, L’impresa familiare ed il tipo societario, in Dir. fam. pers., 2016, 47 ss. 16 Tra i sostenitori della tesi della natura individuale dell’impresa familiare, non manca chi sottolinea la configurabilità di ipotesi in cui l’anzidetta impresa viene esercitata in forma collettiva (cfr. G. Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, t. II, Art. 230 bis, cit., 113 ss.; F. Prosperi, Impresa familiare. Art. 230-bis, cit., 42 ss.). Per una efficace sintesi delle diverse opinioni che sono state formulate dagli interpreti per negare la natura individuale dell’istituto de quo, v. Mar. Nuzzo, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia. Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, continuato da G. Bonilini, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007, 481 s. Tra gli AA. che criticano diffusamente ciascuno dei numerosi argomenti prospettati a conforto della tesi prevalente, v. M. Finocchiaro, Sub art. 89, in A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Commento sistematico della legge 19 maggio 1975, n. 151. Legislazione-dottrina-giurisprudenza, vol. I, Art. 1-89, Milano, 1984, 1242 s. Sulle ragioni per le quali l’impresa familiare non è sempre individuale, sia permesso il rinvio a F. Rossi, La natura dell’impresa familiare, Napoli, 2009, passim, spec. 70 ss.; Id., Il problema della compatibilità del patto di famiglia con la disciplina dell’impresa familiare, in Donazioni, atti gratuiti patti di famiglia e trusts successorii, a cura di E. del Prato, M. Costanza e P. Manes, Bologna, 2010, 494 ss. 17 V., da ultimo, L. Balestra, Esercizio dell’attività di impresa in forma societaria e disciplina di cui all’art. 230-bis c.c.: sull’asserita incompatibilità, cit.; F. Corsi, Impresa in famiglia, impresa familiare e società, cit., 522 ss.; nonché M. Martino, Sulla compatibilità tra impresa familiare e impresa societaria, cit., 771 ss. 18 Sul punto, sia consentito il rinvio a F. Rossi, La natura dell’impresa familiare, cit., spec. 94 ss. e 103 ss. 19 Così, G. Quadri, Le prestazioni di lavoro del convivente alla luce del nuovo art. 230 ter c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2017, 613.
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In dottrina, esclusa la possibilità di assimilare il diritto di partecipazione del convivente dell’imprenditore al credito retributivo del lavoratore subordinato che svolga analoghe mansioni20, è stato ipotizzato, per determinare in concreto la quota di utili da attribuire al convivente stesso, un accordo, eventualmente ricompreso nel contratto di convivenza, con il titolare dell’impresa, al pari di quanto è stato prospettato per la soluzione del problema, posto dall’art. 230-bis c.c., relativamente alla quantificazione degli utili prodotti dai collaboratori familiari21. Tale accordo, in sostanza, dovrebbe prevedere la misura dei diritti da riconoscere al partner, attraverso il riferimento a percentuali, fisse o variabili, sulla base di criteri prestabiliti. Il medesimo accordo tra i conviventi, però, dovrebbe tenere in considerazione non soltanto il carattere imperativo dell’art. 230-ter c.c. – per cui varrebbe tutt’al più come una sorta di «elemento presuntivo»22 –, ma anche la presenza dei familiari lavoratori, aventi parimenti diritto alla ripartizione degli utili23. A ulteriore conferma della complessità della quantificazione degli utili, bisogna avere presente, come si è rilevato in precedenza, da un lato, che i partecipanti all’impresa, a differenza del convivente, possono assumere le decisioni concernenti l’utilizzazione degli utili e degli incrementi, così incidendo sul diritto spettante a costui24, e, dall’altro, che il mantenimento al quale i familiari lavoratori hanno diritto, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., inevitabilmente si ripercuote sulla determinazione della quota di utili da assegnare al convivente. Proprio con riferimento al profilo da ultimo accennato, la dottrina si domanda25 se il convivente benefìci degli utili della gestione, che comprendono tra l’altro quelli reinvestiti nell’impresa, o se la sua partecipazione vada calcolata al netto di quanto erogato dall’imprenditore ai familiari collaboratori a titolo di mantenimento. Sembra più equo abbracciare la prima delle ipotesi prospettate. Infatti, l’accoglimento della seconda, che invero incontra ampi consensi tra gli interpreti con riferimento all’istituto di cui all’art. 230-bis c.c., comporta che il convivente, pur avendo contribuito con il proprio lavoro alla produzione di utili di impresa e, quindi, anche al mantenimento dei collaboratori familiari del partner, se posposto, rischi di non soddisfare le esigenze primarie della propria vita tutte le volte in
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V. ancóra G. Quadri, op. loc. ult. cit. e, per indicazioni essenziali relative alla dottrina e alla giurisprudenza che si sono espresse, in argomento, con riferimento all’istituto contemplato dall’art. 230-bis c.c., ibidem, note 85-86. 21 V., per tutti, M. Ghidini, L’impresa familiare, Padova, 1977, 42 s. 22 Così, con riguardo all’accordo tra i partecipanti all’impresa familiare, Cass., 17 giugno 2003, n. 9683, in Foro it., 2003, I, c. 2628 ss. Analogamente Cass., 16 marzo 2016, n. 5224, in Rep. Foro it., 2016, voce Famiglia (regime patrimoniale), 952, n. 56. 23 Con riferimento all’istituto di cui all’art. 230-bis c.c., cfr., ex multis, G. Vidiri, Profili giuslavoristici dell’impresa familiare, in Giur. it., 1988, IV, c. 292 s. 24 V., per tutti, M. Tola, Famiglia, famiglie e discriminazioni nell’impresa familiare, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 893 s., la quale rileva, più precisamente, che il diritto del convivente a ricevere gli utili è connesso non solo alle decisioni dei collaboratori familiari, ma anche alle informazioni dell’imprenditore, «nel senso che nei suoi riguardi sarà possibile ipotizzare un’effettiva partecipazione agli utili e agli incrementi solo se ed in quanto questi sia tenuto alla redazione del bilancio posto che, in caso contrario, il diritto potrà riconoscersi semplicemente nei limiti degli utili che l’imprenditore affermi di aver conseguito (basti pensare all’imprenditore agricolo che non ha obbligo di contabilità)». 25 V., da ultimo, M. Tola, Impresa familiare e convivenze, cit., 734.
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cui il mantenimento dei familiari abbia esaurito l’ammontare degli utili conseguiti. In altre parole, l’opera prestata all’interno dell’impresa, sebbene alla medesima giovevole, sarebbe priva di ogni compenso; il che non risulterebbe in sintonia con gli artt. 2, 3, 35 e 36 Cost.26. A tirare le fila del discorso, la posizione del convivente che presti attività di lavoro nell’impresa del partner sembra peggiore rispetto a quella non soltanto del coniuge e della persona unita civilmente, ma anche del lavoratore subordinato, pur se remunerato parzialmente a partecipazione, nonché del socio che abbia conferito la propria opera lavorativa, giacché – come è stato sottolineato di recente27 – gli artt. 2099, ultimo comma, 2102, e 2262 c.c. attribuiscono, quale corrispettivo del lavoro erogato, il diritto di partecipare agli utili d’impresa, e lasciano intendere che questi ultimi siano esigibili una volta approvato il bilancio o il rendiconto. Non è, pertanto, azzardato affermare che il legislatore del 2016 non ha attribuito al convivente una condizione che possa dirsi in sintonia col dettato della Carta costituzionale, in particolare con l’art. 36. Infatti, l’assenza della previsione del diritto al mantenimento non permette al convivente di avere a disposizione quel quid – che, almeno stando alla lettera dell’art. 230-bis c.c., è del tutto indipendente dall’andamento dell’attività imprenditoriale ed è legato esclusivamente alla condizione patrimoniale della famiglia – idoneo a soddisfare le esigenze basilari della vita di tutti i giorni. Per di più, come si è più volte posto in evidenza, il diritto di partecipazione agli utili di cui questi è titolare dipende completamente, se si abbraccia l’opinione dominante in dottrina, dalle decisioni che vengono assunte sull’impiego degli stessi e degli incrementi aziendali. In sintesi, il convivente rischia fortemente di non ricevere alcunché per l’opera prestata nell’impresa del partner o di ottenere comunque una retribuzione non adeguata al lavoro erogato. Con la conseguenza che la posizione del convivente è stata considerata «apparentemente assimilabile», almeno sul piano sostanziale, a quella del socio d’opera e a quella del prestatore di lavoro retribuito mediante partecipazione agli utili28. In conclusione, l’art. 230-ter c.c., se posto a confronto con l’art. 36 Cost., sembra non prevedere una tutela adeguata del convivente dell’imprenditore. Il giudizio negativo sulle scelte contenute al riguardo nella legge Cirinnà è dovuto soprattutto alla configurabilità di situazioni nelle quali, come non ha mancato di sottolineare la dottrina che da ultimo si è soffermata sul punto29, il convivente, pur avendo contribuito
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In questo senso, v. M. Tola, op. loc. ult. cit. Cfr. M. Tola, op. ult. cit., 739. 28 Cfr. M. Tola, op. ult. cit., 740, cui si rinvia anche per le differenze essenziali tra le figure richiamate nel testo e il collaboratore convivente (ibidem, note 139-140). L’A. puntualizza che, nella seconda, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fa sì che il lavoratore non possa subire gli effetti di un’attività in perdita, per cui il suo diritto alla retribuzione non può «degradare a mera aspettativa di guadagno svincolata dal criterio di proporzionalità», mentre, nella prima, poiché il compenso dipende direttamente dalla produttività dell’impresa, spesso le società retribuiscono i soci ogni mese con un acconto sugli utili erogato tramite “stipendio” fisso, che viene poi conguagliato con l’approvazione del rendiconto. L’insufficienza del meccanismo ora descritto nelle sue linee essenziali a garantire al lavoratore di poter soddisfare le proprie necessità di vita non merita ulteriori considerazioni, data l’evidenza. 29 Cfr. M. Tola, op. ult. cit., 741. 27
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con il proprio lavoro al miglioramento della condizionale patrimoniale della famiglia del partner, e quindi al mantenimento di coloro che collaborano nella famiglia o nell’impresa di costui, non otterrebbe alcun compenso o lo riceverebbe sì, ma non proporzionato al lavoro erogato, e comunque non accompagnato da quel mantenimento, previsto invece dall’art. 230-bis c.c., che è necessario per soddisfare i bisogni primari della propria esistenza. Le anzidette situazioni possono ricorrere giacché, come si è constatato nelle pagine precedenti, l’attività di impresa potrebbe non produrre utili o perché questi ultimi manchino, una volta corrisposto il mantenimento ai familiari collaboratori – qualora si sposi la seconda delle opinioni innanzi illustrate –, o ancóra perché costoro potrebbero deciderne il reimpiego nel processo produttivo o astenersi dal richiederne l’erogazione, così impedendone la distribuzione anche al di là o contro la volontà dell’imprenditore, che è l’unico ad avere un rapporto giuridico con il partner. In altri termini, i familiari collaboratori, assumendo decisioni nel senso ora indicato, potrebbero incidere sulla sfera patrimoniale del convivente, che subirebbe quello che potrebbe essere definito come un vero e proprio abuso. Occorrerebbe, pertanto, individuare uno strumento di tutela a favore del convivente, e innanzitutto verificare la configurabilità di un’azione di risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2043 c.c. In ogni caso, non si può trascurare di considerare, con riferimento al contenuto dell’art. 230-ter c.c., che quelle che vengono giudicate come scelte poco meditate del legislatore devono essere collocate nell’àmbito della distinzione che costui ha ritenuto di operare tra rapporti “formali” e quelli di fatto, distinzione che l’articolo da ultimo richiamato sembra confermare pienamente. L’art. 230-ter c.c. attribuisce al convivente che presti la propria opera stabilmente nell’impresa una partecipazione sia ai beni acquistati con gli utili, sia agli incrementi dell’azienda. Quanto ai primi, il legislatore ha inteso riferirsi ai beni (e ai diritti) che non rientravano nell’azienda al momento in cui è stato costituito il rapporto di lavoro tra i conviventi; i secondi, invece, consistono nell’aumento di valore dei beni già esistenti in quel momento. È necessario, pertanto, stabilire se il convivente diventi titolare di diritti reali, cioè comproprietario, pro quota, di quanto è acquistato con gli utili, e, relativamente agli incrementi, contitolare dei beni aziendali o dei diritti che su tali beni hanno chi riveste il ruolo di imprenditore e gli altri partecipi all’impresa familiare, nella misura in cui i medesimi beni abbiano avuto un incremento di valore. In sintonia con l’attribuzione all’impresa familiare della natura individuale, la dottrina considera l’(unico) imprenditore titolare esclusivo dei beni acquistati con gli utili, e il convivente quale beneficiario del diritto a riceverne il valore economico, sulla base del lavoro prestato, alla fine del proprio apporto individuale oppure dell’attività dell’impresa30. Tale
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Cfr. G. Quadri, Le prestazioni di lavoro del convivente alla luce del nuovo art. 230 ter c.c., cit., 616 s., che assegna al convivente esclusivamente un diritto di credito nei confronti dell’imprenditore, analogamente alla natura che la letteratura prevalente, con riferimento all’impresa familiare, attribuisce al diritto che vanta il familiare lavoratore con riguardo ai beni acquistati con gli utili dell’impresa (in questo senso, v., ex multis, V. Colussi, voce Impresa familiare, in Noviss. dig. it., App., vol. IV, Torino, 1983, 74 s.; L.
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soluzione non comporterebbe, secondo il medesimo indirizzo interpretativo, le difficoltà che deriverebbero dall’accoglimento della tesi del diritto reale spettante pro quota al convivente, ossia della tesi che, tra l’altro, attribuisce a questi la possibilità di domandare lo scioglimento della comunione in ogni momento. A conferma dell’orientamento dominante, viene addotto che, qualora si ipotizzasse la contitolarità sui beni acquistati con gli utili, occorrerebbe sia considerare l’imprenditore che effettua l’acquisto come rappresentante del convivente, sia superare le evidenti difficoltà, da un lato, di determinazione della quota che compete a quest’ultimo, e, dall’altro, derivanti dall’assenza di pubblicità della collaborazione lavorativa del convivente stesso, che potrebbe pregiudicare gli acquisti dei terzi ignari della collaborazione31. Nulla esclude che al convivente non imprenditore sia attribuito, in base a un accordo, la contitolarità dei beni acquistati con gli utili e di quelli per i quali si sono avuti incrementi, nella percentuale pattuita. In assenza di un siffatto accordo, la dottrina reputa che il convivente sia mero creditore di una somma di denaro, che corrisponda nel valore alla quota di beni a lui spettante in astratto. L’attribuzione della natura di diritto di credito alla partecipazione dei familiari elimina anche gli inconvenienti conseguenti a quegli acquisti per la cui opponibilità ai terzi la legge richiede determinate formalità32. Le conclusioni sopra esposte muterebbero radicalmente, qualora si aderisse alla tesi che attribuisce natura collettiva all’impresa familiare. Quanto al momento in cui il convivente di fatto può esercitare il proprio diritto sui beni acquistati con gli utili, è noto che discordanze tra gli interpreti si riscontrano relativamente all’analogo diritto nella fattispecie di cui all’art. 230-bis c.c., alla luce – anche in questo caso – del silenzio del legislatore sul punto33.
Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari, cit., 238 s.). In precedenza, v. le riflessioni sul punto di R. Costi, Impresa familiare, azienda coniugale e «rapporti con i terzi» nel nuovo diritto di famiglia, in Giur. comm., 1976, I, 8. 31 Cfr. ancóra G. Quadri, op. cit., 617. Con riferimento specificamente all’istituto di cui all’art. 230-bis c.c., C.M. Bianca, Diritto civile, II, La famiglia-le successioni, 4ª ed. rived. e aggiorn., Milano, 2005, 504, sostiene, in senso contrario all’opinione prevalente in dottrina, che i compartecipi sono comproprietari anche se l’acquisto è intestato a un determinato familiare: in questa ipotesi «l’esigenza di tutela dei terzi viene soddisfatta dall’applicazione dei principi del possesso di buona fede (1153 cc) e della pubblicità della trascrizione, che rende inopponibili all’acquirente i diritti derivanti da titoli che non siano stati anteriormente trascritti». 32 Cfr. G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, cit., 1025, il quale si riferisce «inter alia, alla trascrizione degli acquisti nei registri dei beni immobili e dei beni mobili registrati; in tal caso, aderendo alla teoria per cui al familiare deve essere riconosciuta la contitolarità di un diritto reale, si dovrebbe immaginare che, all’atto di acquisto, debbano prendere parte tutti i compartecipi, dichiarando di comune accordo di operare l’acquisto pro quota, nella misura indicata nell’atto, o che, ove questo non avvenga (come, in effetti, è ipotizzabile per molti casi), per procurarsi un titolo per la trascrizione a proprio favore, il convivente debba fare accertare (generalmente dall’autorità giudiziaria; ma trattasi di materia che potrebbe essere oggetto anche di un negozio di accertamento, o di una transazione, inter partes) che l’acquisto è avvenuto con utili a lui spettanti, ex art. 230-ter c.c.» (ibidem, nota 59). 33 V., per tutti, L. Balestra, L’impresa familiare, cit., 258. Per una ricostruzione radicalmente diversa, v. G. Ghidini, L’impresa familiare, cit., 28 ss. Relativamente al momento in cui sorge il diritto del familiare lavoratore agli incrementi di cui all’art. 230-bis c.c., individuato con quello in cui cessa il rapporto o, più in generale, l’impresa familiare, v. Id, op. cit., 33 s., favorevole a ricomprendere fra gli incrementi anche l’avviamento; nonché G. Amoroso, L’impresa familiare, Padova, 1998, 101. In precedenza, cfr. N. Florio, Famiglia e impresa familiare. Prestazione di lavoro e diritti del coniuge, dei parenti e degli affini, Bologna, 1977, 112, che individua l’anzidetto momento nella cessazione o dell’azienda o del lavoro del familiare.
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Con riguardo specificamente al diritto in questione ex art. 230-ter c.c., sembra meritevole di considerazione l’opinione secondo cui già all’atto dell’acquisto sarebbe legittimo l’esercizio di tale diritto, giacché gli utili investiti corrispondono a denaro anche del convivente non imprenditore, il quale, non essendo legittimato a decidere circa il loro impiego, subisce le altrui decisioni; donde sarebbe contrario a buona fede, come l’accantonamento degli utili per alcuni esercizi consecutivi, così la corresponsione di ciò cui il convivente lavoratore ha diritto soltanto alla cessazione del rapporto34.
3. La liquidazione in denaro del diritto di partecipazione. La diversa qualificazione del diritto sui beni acquistati con gli utili (e sugli incrementi) si riverbera sulle proposte interpretative dirette ad individuare la sorte degli utili nei casi di cessazione della prestazione del lavoro e di alienazione dell’azienda. A differenza dell’art. 230-bis c.c., che stabilisce che il diritto di partecipazione del familiare può essere liquidato in denaro35, l’art. 230-ter c.c. tace anche su quest’aspetto. Tale silenzio fa pensare a un’ulteriore, precisa scelta del legislatore di diversificazione tra la disciplina dell’impresa familiare e quella del convivente dell’imprenditore36. Tale diversificazione – l’individuazione delle cui ragioni meriterebbe senz’altro una trattazione ad hoc – si inserisce in un contesto in cui il legislatore stesso considera soltanto il matrimonio, ossia il fondamento del modello di famiglia cui fa riferimento la Carta costituzionale (art. 29), come fonte di diritti e di obblighi duraturi: elemento peculiare dell’impresa familiare, come disegnata dal legislatore nell’art. 230-bis c.c., è non la convivenza o la comunione di vita, ma il legame di coniugio, di parentela o di affinità previsto dal terzo comma di tale articolo, che costituisce una evidente novità rispetto all’àmbito soggettivo della comunione tacita familiare, comprendente parenti e affini più lontani di grado, nonché estranei, purché conviventi37. Proprio l’assenza dell’anzidetto legame verosimilmente spiega anche la mancata attribuzione al convivente del potere di partecipare alle decisioni relative alla vita dell’impresa familiare. Una volta ricordato rapidamente che nell’ottica, poco condivisa, secondo cui il convivente sarebbe titolare di un diritto reale sui beni acquistati con gli utili, tale diritto permarrebbe, e sarebbe opponibile erga omnes, anche nei due suddetti casi, chi ha preso in esame il profilo attinente alla liquidazione in denaro del diritto di partecipazione ha
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Cfr. G. Guerrieri, Convivenza di fatto e impresa familiare, cit., 1025 s. V., per tutti, G. Di Rosa, Sub art. 230 bis, in Id. (a cura di), Della famiglia, artt. 177-342 ter, in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, 2ª ed., Torino, 2018, 1726 ss. 36 V. diffusamente G. Di Rosa, Sub art. 230 ter, in Id. (a cura di), Della famiglia, artt. 177-342 ter, cit., 1743 ss. Inoltre, sia permesso il rinvio a F. Rossi, La disciplina dell’art. 230 ter c.c. e la sua (pretesa) lacunosità, in Riv. dir. priv., 2018, spec. 582 s. 37 G. Quadri, Le prestazioni di lavoro del convivente alla luce del nuovo art. 230-ter c.c., cit., 595.
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rilevato che la quantificazione, alla fine del rapporto di lavoro, degli utili maturati a favore del convivente, dei beni acquistati con essi e degli incrementi si presenta come operazione non più difficile della determinazione degli stessi nel corso del rapporto: essi costituiscono debiti del titolare dell’impresa nei confronti del convivente38. Infine, nell’ipotesi di alienazione dell’azienda, gli utili, se si accede alla loro considerazione in termini di debiti dell’imprenditore, devono essere inclusi fra le passività, applicandosi l’art. 2560 c.c. Sicché, come da ultimo è stato puntualizzato, «qualora l’azienda sia alienata senza che il cessionario assuma a proprio carico tutti i debiti e dette passività non risultino dai libri contabili obbligatori, il dovere di adempiere le obbligazioni in parola ricadrà, unicamente, sull’imprenditore (convivente) alienante»; se, invece, «l’acquirente si accolli i relativi debiti, la relativa responsabilità ricadrà sia su di lui, sia – e sempre che il convivente non lo abbia liberato – sullo stesso cedente»39.
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Cfr. G. Guerrieri, op. cit., 1027. G. Guerrieri, op. loc. ult. cit.
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Affidamento del minore, bigenitorialità e alienazione parentale* Sommario : 1. Interesse del minore, conflittualità e alienazione parentale. – 2. La
sindrome di alienazione parentale: elaborazione teorica e rischi applicativi. – 3. Alienazione parentale e regolazione dei conflitti. – 4. Alienazione parentale e affidamento del minore. – 5. Protezione del minore e bigenitorialità: l’ostacolo dei rimedi punitivi.
The crisis of parental ties often leads to parental alienation cases. This evokes the need of a conflict resolution that takes into account the personality of the minor and recognizes the effectiveness of the principle of co-parenting. According to the supranational and municipal regulation, the provisions regarding the custody of minors must pursue the best interest of the child: however, the European Court of Human Rights and Italian judges do not have the same positions on the impact of parental alienation syndrome.
1. Interesse del minore, conflittualità e alienazione parentale.
La crisi del legame genitoriale evoca la necessità di una risoluzione dei conflitti che tenga in esponente l’interesse del minore in presenza di condotte e fattispecie alienanti. Nei casi di rottura temporanea o di dissoluzione definitiva del vincolo affettivo, la regolazione sovranazionale ed europea condiziona l’adozione di ogni provvedimento sull’affidamento e sulla custodia dei minori al rispetto del principio del best interest of the child1.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Cfr. Ph. Marcus, Parental Alienation, Contact Refusal and Maladaptive Gatekeeping: A Multidisciplinary Approach to Prevention
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L’art. 9 della Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1989, stabilisce che gli Stati membri rispettino “il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse”. Un presidio di garanzia dell’effettività del rapporto bigenitoriale è costituito dal diritto individuale al rispetto della vita familiare, assicurato dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; ancora, un ulteriore referente normativo è rappresentato dall’art. 24, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ove si riconosce il diritto del bambino a “intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”2. Per quanto concerne il versante domestico, la Carta costituzionale, all’art. 30, comma 1, tratteggia con una formulazione elastica il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, educare ed istruire i figli, delineando situazioni giuridiche soggettive produttive di effetti in ogni fase della vita familiare; al contempo, spetta alla Repubblica assicurare protezione all’infanzia e alla gioventù, così come previsto dall’art. 31, comma 2, Cost. La protezione della personalità del minore e la salvaguardia dei diritti fondamentali relazionali in costanza di separazione o divorzio risulta di assoluto rilievo nell’interpretazione dell’odierno Capo II, Titolo IX, Libro I, del codice civile3: il minore vanta il diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, al fine di ricevere dai medesimi cura, educazione, istruzione e assistenza morale. L’effettività di tale diritto – agevolata dalla generale e unitaria previsione del regime di default dell’affidamen-
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of Contact Failure, in AA. VV., Family Law and Family Realities, The Hague, 2019, 349 ss.; S. Paricard, Le syndrome d’alienation parentale, catalyseur d’un conflit des droits de l’enfant, in C. Neirinck, M. Bruggeman (a cura di), La Convention internationale des droits de l’enfant (CIDE), une convention particulière, Paris, 2014, 71 ss. Cfr., per più ampi riferimenti, P. Pollice, L’interesse del minore, in Dir. giur., 2003, 17 ss.; A. Palazzo, La filiazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2013, 697 ss.; V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2018, 405 ss.; L. Lenti, La costituzione del rapporto filiale e l’interesse del minore, in juscivile.it, 2019, 4, 12; M. Dogliotti, Capacità, incapacità, diritti degli incapaci. Le misure di protezione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2019, 316 ss.; L. Delli Priscoli, The best interest of the child nel divorzio, fra affidamento condiviso e collocamento prevalente, in Dir. fam. pers., 2019, II, 262 ss., 278 ss.; E. Bilotti, Diritti e interesse del minore, in R. Senigaglia (a cura di), Autodeterminazione e minore età. Itinerari di diritto minorile, Pisa, 2019, 13 ss.; M. Di Masi, L’interesse del minore. Il principio e la clausola generale, Napoli, 2020. Per più ampi riferimenti a partire dal rapporto tra diritto di famiglia, disciplina interna e sovranazionale, v. N. Lipari, Riflessioni su famiglia e sistema comunitario, in AA. VV., Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, II, Milano, 2006, 329 ss.; S. Patti, Il principio famiglia e il diritto europeo della famiglia, in G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, I, in Tratt. Zatti, I, Milano, 2011, 71 ss.; M.R. Marella, G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, Roma-Bari, 2014, spec. 127 ss.; D. Busnelli, Il diritto della famiglia di fronte al problema della difficile integrazione delle fonti, in Riv. dir. civ., 2017, 1447 ss., 1463 ss.; F. Caggia, La complessità nei diritti fondamentali della famiglia tutelati nello spazio europeo, in Id., G. Resta (a cura di), I diritti fondamentali in Europa e il diritto privato, Roma, 2019, 145 ss. Cfr. T. Auletta, Sub Art. 337-ter, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia. Artt. 231-455, II, in Comm. Gabrielli, Milano, 2018, 1000 ss.; A. Arceri, La crisi della coppia genitoriale e gli effetti personali nei confronti dei figli, in M. Sesta, Ead., La responsabilità genitoriale e l’affidamento dei figli, III, La crisi della famiglia, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2016, 159 ss. Amplius, v. R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, Napoli, 2013, spec. 145 ss.; G. Ballarani, La responsabilità genitoriale e l’interesse del minore (tra norme e principi), in P. Perlingieri, S. Giova (a cura di), Comunioni di vita e familiari tra libertà, sussidiarietà e inderogabilità, Napoli, 2019, 317 ss., 354 ss.; nonché, in precedenza, Id., Sub Art. 155, in S. Patti, L. Rossi Carleo (a cura di), Provvedimenti riguardo ai figli, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2010, 28 ss., p. 40 ss.
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to condiviso4 nei casi previsti ora dall’art. 337-bis c.c.5 – trova concretizzazione nel vincolo finalistico dell’esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale che plasma i provvedimenti giudiziali a favore del minore, nonché nel riconoscimento del diritto del minore di anni dodici – o di età inferiore, purché capace di discernimento – a essere ascoltato, secondo quanto disposto dall’art. 337-octies c.c.6. L’adozione dei provvedimenti giudiziali è, dunque, vincolata dal riconoscimento della personalità del minore, nel rispetto della cui volontà, immune da vizi ed elementi perturbatori, devono essere assunte le misure opportune: in questo senso, anche la scelta preferenziale per l’affidamento condiviso con collocamento prevalente presso un genitore va, comunque, relativizzata alla luce delle opinioni genuinamente espresse dal minore7. Il diritto alla bigenitorialità è condizionato nell’ampiezza e nell’efficacia dal perseguimento del best interest of the child8: il rispetto degli interessi del minore, d’altro lato, costituisce un limite all’adozione di misure standardizzate o all’esecuzione di provvedimenti giudiziali in contrasto con il diritto inalienabile all’autodeterminazione individuale9. All’in-
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Sulla logica dell’affidamento condiviso, previsto dal codice civile a partire dalla l. 54/2006, cfr. S. Patti, Rilievi introduttivi, in Id., L. Rossi Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, Milano, 2006, 1 ss.; M. Dogliotti, Affidamento condiviso e diritti dei minori, in Id. (a cura di), Affidamento condiviso e diritti dei minori, Torino, 2008, 13 ss.; M. Mantovani, Sub Art. 1, commi 1°, 2° e 3°, in Ead. (a cura di), Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli (l. 8 febbraio 2006, n. 54). Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 2008, 95 ss. Cfr., altresì, G. Ferrando, L’affidamento dei figli, in Ead., L. Lenti (a cura di), La separazione personale dei coniugi, in Tratt. Alpa-Patti, Padova, 2011, 279, 282 ss.; M. Sesta, La nuova disciplina dell’affidamento dei figli nei processi di separazione, divorzio, annullamento matrimoniale e nel procedimento riguardante i figli nati fuori del matrimonio, in Id., A. Arceri (a cura di), L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, Torino, 2011, 3 ss., 17 ss.; C. Caricato, L’affidamento condiviso dei figli, in T. Auletta (a cura di), La crisi familiare, II, Il diritto di famiglia, IV, in Tratt. Bessone, Torino, 2013, 347 ss.; G.F. Basini, L’affidamento dei figli minori di età e le provvidenze per i figli maggiorenni non autosufficienti, in AA. VV., La separazione personale tra coniugi. Il divorzio. La rottura della convivenza more uxorio, in Tratt. Bonilini, III, Torino, 2016, 3101 ss. T. Auletta, Sub Art. 337-ter, cit., 1007 ss., 1012 ss. Già secondo A. Gorassini, Dall’indissolubilità del matrimonio all’indissolubilità della famiglia: un ritorno all’essenza dei fenomeni, in T. Auletta (a cura di), Bilanci e prospettive del diritto di famiglia a trent’anni dalla riforma, Milano, 2007, 259, la predilezione per l’affidamento condiviso nei casi di separazione, divorzio o nullità del matrimonio manifestava «formalmente l’unitarietà di valutazione assiologica voluta dal diritto positivo». V., per ulteriori spunti, M. Sesta, La famiglia tra funzione sociale e tutele individuali, in F. Macario, M.N. Miletti (a cura di), La funzione sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo, Roma, 2017, spec. 148 s. Sulla capacità di discernimento del minore, cfr., già, P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Napoli, 1975, spec. 374 ss.; P. Rescigno, Riforma del diritto di famiglia e condizioni dei minori, in Id., Matrimonio e famiglia. Cinquant’anni del diritto italiano, Torino, 2000, 294. In tema, successivamente, cfr. E. La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari. Contributo allo studio per uno statuto dei diritti dei minori, Milano, 2005, 205 ss., 281 ss.; G. Ballarani, La capacità autodeterminativa del minore nelle situazioni esistenziali, Milano, 2008; F. Ruscello, Minore età e capacità di discernimento: quando i concetti assurgono a “supernorme”, in Fam. dir., 2011, 404 ss.; D. Poletti, voce Soggetti deboli, in Enc. dir., Annali, VII, Milano, 2014, 972; nonché, F. Giardina, “Morte” della potestà e “capacità” del figlio, in Riv. dir. civ., 2016, 1615 ss.; R. De Meo, Le metamorfosi del diritto della filiazione e gli interrogativi dei giuristi, in F. Macario, A. Addante, D. Costantino (a cura di), Scritti in memoria di Michele Costantino, I, Napoli, 2019, 405 ss.; C. Irti, Persona minore di età e libertà di autodeterminazione, in Giust. civ., 2019, 642 ss. Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2017, 225; A. Morace Pinelli, I provvedimenti concernenti i figli in caso di crisi del matrimonio o dell’unione di fatto, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, Assago-Padova, 2015, 687 ss., 693 ss. V., in tema, G. Salito, L’affidamento condiviso dei figli nella crisi della famiglia, in AA.VV., Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, II, in Tratt. Autorino Stanzione, Torino, 2011, 374 ss. M. Sesta, L’emersione del diritto alla bigenitorialità nella crisi della famiglia, in Id. A. Arceri, La responsabilità genitoriale e l’affidamento dei figli, cit., 33 ss.; A. Nicolussi, Mediazione e affidamento condiviso, in P. Mazzamuto (a cura di), Mediazione familiare e diritto del minore alla bigenitorialità, Torino, 2019, 14 ss., p. 15, nt. 11. Per ulteriori spunti sulla concretizzazione della bigenitorialità, v. E. Giacobbe, Due non è uguale a uno più uno. Bigenitorialità e rapporti omoparentali, in Dir. fam. pers., 2019, II, 233 ss. P. Zatti, Tradizione e innovazione nel diritto di famiglia, in G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, I,
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terno di questa cornice, vanno esaminate e governate le fattispecie di alienazione parentale: il ricorso alla pluralità qualificatoria tende, sin da subito, a sgombrare il campo da ogni adesione alla controversa sindrome di alienazione parentale. La mancata riconduzione ad una patologia scientificamente riconosciuta non pregiudica, tuttavia, la possibilità di interpretare alcuni fatti e atti in termini di semplici condotte alienanti, ovvero di fattispecie stranianti pregiudizievoli per la stabilità psico-fisica e la crescita del minore. Il richiamo all’alienazione parentale connota, sempre più frequentemente, l’adozione dei provvedimenti volti a disciplinare l’affidamento dei minori: segnatamente, il rifiuto espresso dal minore nei riguardi delle visite o dei periodi di permanenza presso un genitore viene ritenuto addebitabile all’esistenza di un processo di alienazione avviato dal genitore collocatario, e come tale condizionante il processo deliberativo del minore. Tuttavia, il riferimento a comportamenti alienanti non deve esasperare i conflitti tipici delle situazioni di crisi, risolvendosi in uno strumento per indebolire il diritto soggettivo alla genitorialità: in tal senso, occorre proprio evitare di ricondurre il semplice diniego del minore di frequentare il genitore non collocatario ad un contegno “programmatorio” del genitore collocatario10. Il riconoscimento della sindrome di alienazione parentale ha sdoganato una tecnica di risoluzione dei conflitti tutt’altro che neutrale, ovvero quella dell’inversione della domiciliazione del minore, frequentemente, a detrimento del ruolo materno11: tale rimedio finirebbe per condurre a non denunciare evenutali abusi subiti, al fine di non incorrere nel rischio di essere qualificati alla stregua di genitori alienanti, cui sottrarre il minore affidato, limitando così l’impatto di ripercussioni rilevanti sull’esercizio della responsabilità genitoriale12. Appare, pertanto, necessario e decisivo procedere mediante uno scrutinio puntuale e dissociato da precomprensioni derivanti da teorie malferme che censuri le condotte abusanti, al contempo, nocive per il best interest of the child e pregiudizievoli per il diritto alla genitorialità13: al fine di non limitare l’effettività dei diritti riconosciuti a livello sovrana-
cit., spec. 51 ss. Cfr. P. Schlesinger, L’affidamento condiviso è diventato legge! Provvedimento di particolare importanza, purtroppo con inconvenienti di rilievo, in Corr. giur., 2006, 301 ss.; C. Irti, Affidamento condiviso e casa familiare, Napoli, 2010, spec. 9 ss., 15 ss. V., altresì, I. Grimaldi, L’ingresso della PAS nelle aule giudiziarie: incidenza, posizioni giurisprudenziali, conseguenze, in G. Cassano, P. Corder, Ead. (a cura di), L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie. Strumenti di contrasto e importanza dell’ascolto del Fanciullo nei procedimenti di diritto di famiglia, Santarcangelo di Romagna, 2018, 131 ss. 10 H. Smith, Parental Alienation Syndrome: Fact or Fiction? The Problem with Its Use in Child Custody Cases, in University of Massachusetts Law Review, 11 (2016), 64 ss.; S. Vaccaro, C. Barea, PAS. Presunta Sindrome di Alienazione Genitoriale. Uno strumento che perpetua il maltrattamento e la violenza, trad. it., Firenze, 2011, 169 ss. Puntualizza A. Astone, “L’autorità di diritto” dei genitori nel passaggio dalla patria potestà alla genitorialità responsabile, in P. Sirena, A. Zoppini (a cura di), I poteri privati e il diritto della regolazione. A quarant’anni da «Le autorità private» di C.M. Bianca, Roma, 2018, 120, che la sindrome di alienazione parentale esprime «un uso distorto dell’ufficio di genitore, ancorata all’idea del figlio inteso come “proprietà” esclusiva, in contrasto con il principio della c.d. bigenitorialità». 11 In giurisprudenza, cfr. Trib. Roma, 7 ottobre 2019; App. Firenze, 13 febbraio 2009. Secondo la pronuncia del Trib. Matera, 11 febbraio 2010, dinanzi all’ostracismo materno e al rifiuto del minore di incontrare il padre, risulta necessario disporre l’affidamento esclusivo nei confronti del genitore “alienato” e impossibilitato ad esercitare la genitorialità. 12 Cfr. I.D. Turkat, Divorce Related Malicious Mother Syndrome, in Journal of Family Violence, 10 (1995), 253 ss.; nonché, AA.VV., Child Custody Outcomes in Cases Involving Parental Alienation and Abuse Allegations, in GW Legal Studies Research Paper, 56 (2019), 1 ss. 13 In giurisprudenza, v. App. Venezia, Sez. III, 16 dicembre 2019. In dottrina, cfr. A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale,
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zionale e domestico, si impone un approccio basato sulla centralità dei diritti del minore e sulla valorizzazione della dimensione relazionale dell’assetto familiare entrato in crisi14.
2. La sindrome di alienazione parentale: elaborazione teorica e rischi applicativi.
La sindrome di alienazione parentale, teorizzata da Richard Gardner dal 1985, coincide con la tendenza del minore a rigettare ossessivamente ogni contatto con il genitore non affidatario o non collocatario, denigrando costantemente quest’ultimo e i suoi parenti e addebitando a costoro accuse di comportamenti abusanti e maltrattanti15. Tuttavia, nel caso in cui gli abusi siano comprovati, non è configurabile l’alienazione parentale, venendo intaccato uno dei postulati della sindrome, ovvero l’apoditticità della narrazione del minore. Ciò, peraltro, concorre a evidenziare la debolezza e la parziale attendibilità di una fattispecie sinora non ricompresa tra i disturbi elencati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, non essendo quindi riconoscibile tra i disturbi psicopatologici16, sebbene nell’undicesima versione dell’International classification of diseases, pubblicata dall’OMS, approvata nel maggio del 2019 e destinata a produrre effetti dal 2022, si faccia menzione del Caregiver-child relationship problem, meglio precisato come “substantial and sustained dissatisfaction within a caregiver-child relationship associated with significant disturbance in functioning”17. L’alienazione parentale potrebbe essere diagnosticata tramite indici sintomatici che coincidono con una “campagna” di denigrazione realizzata dal minore attraverso offese, allusioni e attacchi al genitore alienato. All’irrazionalità dell’ostilità filiale si accompagna la sostanziale mancanza di ambivalenza determinata da un sedimentato processo di indottri-
Assago-Padova, 2017, 452; E. Battelli, Conflittualità familiare ed adozione, in G. Cassano (a cura di), Il minore nel conflitto genitoriale, Milano, 2016, 418 ss. 14 Cfr. R. Amagliani, La nuova disciplina della filiazione (etichette, formule magiche e principi nel diritto di famiglia), in Giust. civ., 2018, 1035 ss.; L. Lenti, «Best interests of the child» o «best interests of children»?, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 161; nonché, successivamente, Id., Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, spec. 101 s. Sull’effettività del superiore interesse del minore, cfr. V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, cit., 408 ss.; M. Di Masi, L’interesse del minore. Il principio e la clausola generale, cit., 119 ss., p. 137 ss. In precedenza, per alcuni spunti a partire dall’interesse del minore, v. L. Mengoni, Affidamento del minore nei casi di separazione e divorzio, in Jus, 1983, 241 ss. 15 R.A. Gardner, Recent Trends in Divorce and Custody Litigation, in Academy Forum, 29 (1985), 3 ss.; nonché, successivamente, Id., Parental Alienation Syndrome vs. Parental Alienation: Which Diagnosis Should Evaluators Use in Child-Custody Disputes?, in American Journal of Family Therapy, 30 (2002), 93 ss. Sul tema, v. ora W. Bernet, Parental Alienation and Misinformation Proliferation, in Family Court Review, 58 (2020), 293 ss.; nonché, D. Lorandos, Parental Alienation in U.S. Courts, 1985 to 2018, ivi, 322 ss. 16 Sul tema, recentemente, si registra la Nota del Ministero della Salute del 29 maggio 2020, ove si denuncia l’inattendibilità scientifica della sindrome di alienazione parentale. Il Ministero segnala che, ogni qualvolta venga diagnosticata la sindrome di alienazione parentale da parte di un medico o di uno psicologo, costituendo quindi la base delle valutazioni tecniche nei procedimenti giudiziari per l’affidamento dei minori, gli Ordini professionali debbono verificare l’eventuale violazione delle regole deontologiche. 17 Per una critica, v. G. Vanacore, Sapere scientifico e processo giudiziario, in Danno resp., 2015, 653.
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namento da parte del genitore alienante: il genitore alienato incarna ogni fattore negativo da contrastare18. A ciò concorre il fenomeno dell’independent-thinker: il genitore alienante instilla nel minore il convincimento che ogni sentimento negativo espresso nei confronti del genitore respinto sia il frutto di una autonoma e libera espressione di coscienza e volontà del minore. È agevole constatare come la configurazione della sindrome di alienazione parentale richieda un ruolo attivo nell’opposizione minorile da parte dal genitore alienante19: quest’ultimo offre un supporto incondizionato all’edificazione di una idealizzazione in negativo del genitore non affidatario o non collocatario. Si delineano e si esteriorizzano borrowed scenarios, agevolati dai comportamenti manipolativi e distorsivi del genitore alienante che instaura con il minore un legame simbiotico disfunzionale che conduce quest’ultimo a un vero e proprio conflitto di lealtà20. La sindrome di alienazione parentale, quindi, risulterebbe veicolata da un’attività di condizionamento psicologico e di debilitazione complessiva del minore addebitabile al genitore alienante. Si tratterebbe di una autentica “programmazione” della personalità del minore, cui si affianca un processo di collusione e brainwashing teso a minare il rapporto tra il minore e il genitore alienato: l’avversione del minore e la sostanziale impossibilità di rendere coercibili i provvedimenti di visita disposti giudizialmente a favore del genitore alienato costituiscono i presupposti per la modifica delle misure regolatorie21. A seguito dell’accertamento dell’alienazione parentale, si renderebbe necessaria la revoca dell’affidamento in corso, nonché dell’eventuale collocazione prevalente disposta a favore del genitore reputato alienante: l’asserita patologia, affiancata al riscontro di una minorazione delle facoltà intellettive del minore, legittimerebbe l’immediato trasferimento del medesimo e l’adozione di un provvedimento che abiliti il genitore alienato a ricevere presso di sé il minore. Ciò costituisce un passaggio nodale nel contenimento degli effetti della sindrome di alienazione parentale, risultando deleteria, nonché inefficace per la garanzia del diritto di visita del genitore alienato, la prosecuzione della permanenza del minore presso l’abitazione del genitore alienante22.
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Per P. Perlingieri, Sui rapporti personali nella famiglia, in Dir. fam. pers., 1979, II, 1259, «l’interesse del minore si identifica anche nel raggiungimento di un’autonomia personale e di giudizio, che può essere garantita dall’esclusione di qualsiasi forma d’imposizione autoritaria e d’indottrinamento». Cfr., altresì, F.D. Busnelli, Capacità ed incapacità di agire del minore, in Dir. fam. pers., 1982, 54 ss.; P. Rescigno, I minori tra famiglia e società, ivi, 271 ss.; G. Giacobbe, Libertà di educazione, diritti del minore, potestà dei genitori nel nuovo diritto di famiglia, in Rass. dir. civ., 1982, 678 ss.; nonché, P. Zatti, Rapporrto educativo ed intervento del giudice, in M. De Cristofaro, A. Belvedere (a cura di), L’autonomia dei minori tra famiglia e società, Milano, 1980, 189 ss.; P. Stanzione, Il diritto all’educazione del minore, in comparazionedirittocivile.it, marzo, 2011. 19 Sul rapporto tra condotta inerte genitoriale e alienazione parentale, v. Trib. Venezia, 18 maggio, 2018, in Foro it., 2018, I, c. 2178 ss. 20 Per considerazioni critiche, v. C.L. Wood, The Parental Alienation Syndrome: A Dangerous Aura of Reliability, in Loyola of Los Angeles Law Review, 27 (1994), 1367 ss. 21 A. Viana, voce Illeciti di dolo, in Dig. civ., IX, Aggiornamento, Torino, 2014, 334. V., altresì, M. Casonato, Alienazioni parentali nella scissione della coppia, in Id., M.A. Mazzola, Alienazione genitoriale e sindrome da alienazione parentale (PAS), Vicalvi, 2016, 11. Sull’incoercibilità del diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario, v. Cass., Sez. I, 6 marzo 2020, n. 6471, con nota di B. Ficcarelli, Misure coercitive e diritto-dovere di visita del genitore non collocatario, in Fam. dir., 2020, 335 ss. 22 Per alcune considerazioni critiche sulla sindrome di alienazione parentale, v. C.S. Bruch, Parental Alienation Syndrome and Parental
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La sindrome di alienazione parentale, nel complesso, opacizza il bilanciamento previsto dal codice civile che consente di modulare i provvedimenti adottabili nella crisi di coppia assumendo come parametro l’interesse del minore: la scelta dell’affidamento condiviso o esclusivo, le opzioni eccezionali dell’affidamento familiare e dell’affidamento superesclusivo23, nonché la precisazione dei criteri di collocamento e delle modalità di visita, stilizzano la funzionalizzazione della responsabilità genitoriale verso il perseguimento del best interest of the child24. La sindrome di alienazione parentale, invero, esaspera situazioni conflittuali, contraddicendo lo spirito della normativa in materia, volta a ricomporre e contemperare le posizioni giuridiche soggettive distinte. La riconducibilità automatica di ogni condotta ostile del minore al paradigma dell’alienazione parentale sposta l’attenzione dalla protezione del minore alla ricerca di fattori di colpevolezza imputabili al genitore affidatario e collocatario25.
3. Alienazione parentale e regolazione dei conflitti. Il superamento della prospettiva afflittiva tracciata dalla sindrome di alienazione parentale invita a una valutazione delle condotte genitoriali coerente con il primato degli interessi del minore e con il bilanciamento relazionale offerto dalla disciplina prevista dal codice civile specialmente agli artt. 337-ter e successivi c.c.26: la regolazione giudiziale della crisi e della disgregazione familiare deve consentire di custodire e valorizzare il dispositivo
Alienation: Getting It Wrong in Child Custody Cases, in Family Law Quarterly, 35 (2001), 527 ss. In giurisprudenza, v. Trib. Castrovillari, 27 luglio 2018, n. 728. 23 Sull’affidamento super-esclusivo a favore del padre, disposto per contrastare l’intento alienante e manipolativo materno, v. il decreto del Trib. Castrovillari, 30 giugno 2020, n. 1218. Cfr. Trib. Milano, 20 marzo 2014, con nota di G. Savorani, L’affidamento superesclusivo in talune circostanze è l’unico mezzo per tutelare l’interesse del figlio minore, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 1184 ss.; Trib. Roma, 4 giugno 2018, con nota di R. Russo, Affidamento esclusivo e super esclusivo: l’interesse del minore richiede flessibilità, in Fam. dir., 2019, 892 ss., 898, nt. 35. In tema, cfr. O. Clarizia, La disciplina delle responsabilità genitoriali, in AA. VV., La nuova disciplina della filiazione, Santarcangelo di Romagna, 2014, 151 ss.; T. Auletta, Sub Art. 337-quater, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia. Artt. 231-455, II, cit., 1060, nt. 20. 24 Cfr. U. Breccia, voce Separazione, in Dig. civ., XVIII, Torino, 1998, 402; E. Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari, in Fam. dir., 2014, spec. 469; M. Paradiso, Lo statuto dei diritti del figlio tra interesse superiore della famiglia e riassetto del fenomeno familiare, in questa Rivista, 2016, spec. p. 218. Precisa G. Giacobbe, Affidamento condiviso e esclusivo, in G. Ferrando, M. Fortino, F. Ruscello (a cura di), Famiglia e matrimonio, II, in Tratt. Zatti, I, Milano, 2011, 1748, che «la valutazione dell’interesse morale e materiale della prole rileva con riguardo alla regolazione della situazione giuridica soggettiva nelle sue modalità concrete da parte del genitore non affidatario». Molto chiaramente, secondo A. Palazzo, La filiazione, cit., 721, «se si cessa di essere coniugi, si resta pur sempre madre e padre, e come tali si prosegue ad esercitare quelle scelte dirette a realizzare l’interesse superiore del figlio». In tema, v. anche M. Pingitore, A. Mirabelli, Cos’è l’alienazione parentale, in M. Pingitore (a cura di), Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, Milano, 2019, 16. 25 A. Mazzeo, Ragioni negatorie dell’esistenza scientifica di una sindrome di alienazione parentale e strategie per il contrasto della perizia, in G. Cassano (a cura di), Il minore nel conflitto genitoriale, cit., 205. 26 M.A. Mazzola, I diritti e il diritto dinanzi all’alienazione genitoriale, in M. Casonato, Id., Alienazione genitoriale e sindrome da alienazione parentale (PAS), cit., p. 173.
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tecnico-giuridico dell’interesse del minore, prevenendo e reprimendo i comportamenti genitoriali dannosi attraverso l’adozione di provvedimenti ben calibrati ed efficaci27. L’alienazione può ben discendere da abusi, maltrattamenti o da forme di sostanziale abbandono che vulnerano l’integrità psico-fisica e pregiudicano la crescita del minore; inoltre, uno stato di alienazione può essere connesso ad un contesto aspramente conflittuale maturato nel tempo tra i genitori. Ciò posto, la critica alla fondatezza della sindrome di alienazione parentale non conduce, de plano, alla negazione di ogni rilievo per le condotte genitoriali che integrino e alimentino problemi relazionali in costanza di separazione o divorzio28. Il rifiuto di un genitore da parte del minore può essere eziologicamente determinato da atti o fatti riconducibili al genitore esclusivamente affidatario o prevalentemente collocatario: risulta, dunque, essenziale procedere ad una gestione dell’affidamento fondata su puntuali riscontri oggettivi, prescindendo da titubanti classificazioni formali. La decisione giudiziale, supportata da asseverazioni tecniche e peritali, va basata su rilievi empirici e corredi probatori che permettano di interpretare correttamente l’atteggiamento e la personalità del minore e dei genitori29. Pertanto, non si tratta di preservare la bigenitorialità aprioristicamente, ma di evitare che attraverso l’ostilità nei confronti del genitore si strutturi una soggettività deviante e un’identità distorta30. S’impone, invero, la necessità di affidarsi a risultanze scientifiche scrupolose, diffidando di metodi non corroborati, per gravità, precisione e concordanza, da criteri operativi scientificamente accettati31: la mancanza di credibilità scientifica della sindrome di alienazione parentale non pregiudica, dunque, l’adozione di provvedimenti correlati all’accertamento di un eventuale straniamento del minore. Ciò conduce a rimodulare il sovrabbondante, e al contempo inefficace, rigore rimediale connesso alla sindrome di alienazione per pervenire a un approccio cooperativo e responsabilizzante nella gestione del conflitto familiare – ad esempio, agevolato dagli strumenti
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Sull’interesse del minore quale criterio sistematico, v. M. Di Masi, L’interesse del minore. Il principio e la clausola generale, cit., 74 ss., 140 ss. 28 Trib. Milano, 13 ottobre 2014, in ilcaso.it. 29 J.B. Kelly, J.R. Johnston, The Alienated Child: Reformulation of Parental Alienation Syndrome, in Family Court Review, 39(2001), 249 ss. 30 Sul tema dell’identità, v. S. Rodotà, Quattro paradigmi per l’identità, in Id., Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 198 ss. 31 Molto chiaramente D. Pajardi, M. Vagni, Relazioni conflittuali: quando il bambino rifiuta un genitore. Anche, ma non solo, alienazione parentale, in ilfamiliarista.it, 26 luglio 2016. Secondo le AA., «l’effettiva disponibilità e capacità di un genitore di garantire il libero accesso dovrebbe quindi essere oggetto di una indagine specifica e approfondita […]. Valutare come un genitore sia capace di dare accesso all’altro in termini di visite ma anche in termini di tutela dell’immagine dell’altro, di possibilità per il bambino di poter parlare dell’altro genitore, ecc., è porre l’accento su fattori protettivi e preventivi di un’alienazione parentale» (p. 4).
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della mediazione familiare32 o della coordinazione genitoriale33 – che consenta di mitigare i contrasti e colmare le deficienze relazionali34. A ciò si affianca l’eventuale prescrizione o raccomandazione dell’avvio di percorsi terapeutici di recupero tramite l’ausilio di figure professionali che puntino ad assicurare un ripristino del legame (virtuale e fisico) tra il minore e il genitore non affidatario o collocatario35. L’insieme di cautele tecnico-scientifiche potrà consentire di individuare motivatamente il modello di affidamento più adatto ad assicurare l’interesse morale e materiale della prole e i provvedimenti convenienti che incidono sulla responsabilità genitoriale (art. 330 e art. 333 c.c.)36. Il riscontro di condotte alienanti e manipolative riconducibili a un genitore a danno del minore, nonché dell’altro genitore, potrà legittimare l’assunzione dei provvedimenti giudiziali tesi a rimuovere o impedire l’aggravamento di una situazione pregiudizievole per il minore, senza tradursi in arbitrarie compressioni della responsabilità genitoriale37. I provvedimenti di decadenza, di sospensione temporanea o parziale della responsabilità genitoriale possono, dunque, essere adottati a seguito dell’accertamento della condotta alienante parentale e della gravità del pregiudizio cui è esposto il minore. Si tratta di un intervento graduato e cautelare, quindi, inidoneo a generare effetti irreversibili o a
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In questo senso, cfr. V. Di Gregorio, La mediazione familiare nel diritto di famiglia riformato, in Pol. dir., 2017, 637 ss.; A. Maniaci, L’affidamento condiviso fra legge (tradita), giuris(im)prudenza e prospettive (urgenti) di riforma, in P. Mazzamuto (a cura di), Mediazione familiare e diritto del minore alla bigenitorialità, cit., 79 s. Amplius, cfr. C. Rimini, Sul disegno di legge Pillon e sugli altri Dd.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, in Fam. dir., 2019, 68; A. Proto Pisani, Ancora su mediazione e conciliazione, in Foro it., 2016, V, c. 309 ss.; C. Irti, Gestione condivisa della crisi familiare: dalla mediazione familiare alla negoziazione assistita, in Dir. fam. pers., 2016, II, 665 ss.; nonché, tra gli scritti monografici, M.N. Bugetti, La risoluzione extragiudiziale del conflitto coniugale, Milano, 2015, spec. 177 ss.; P. Mazzamuto, La mediazione nella tutela della famiglia, Torino, 2013, spec. 75 ss. 33 Sulle funzioni e sul ruolo del coordinatore genitoriale, v. Trib. Catania, 16 dicembre 2019, in dejure.it; Trib. Bologna, Sez. I, 20 dicembre 2018, n. 10412, con nota di S. Cappuccio, Conflitto familiare e tutela del minore: il coordinatore genitoriale, in Fam. dir., 2020, spec. 164 ss.; 170, nt. 46; Trib. Mantova, Sez. I, 5 maggio 2017, con nota di F. Novello, Il coordinatore genitoriale: un nuovo istituto nel panorama giuridico italiano?, in questa Rivista, 2018, 361 ss.; Trib. Milano, Sez. IX, 29 luglio 2016, con nota di F. Danovi, Il coordinatore genitoriale: una nuova risorsa nella crisi della famiglia, in Fam. dir., 2017, 797 ss.; nonché, C. Rimini, Sul disegno di legge Pillon e sugli altri Dd.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, cit., 68; A. La Spina, La coordinazione genitoriale quale tecnica di gestione del conflitto familiare, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 749 ss. 34 M. Pingitore, G.B. Camerini, Provvedimenti giudiziali nei casi di alienazione parentale, in M. Pingitore (a cura di), Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, cit., 87 ss. V., inoltre, L. Perulli, Ragioni a sostegno dell’esistenza scientifica dell’alienazione parentale quale distorsione relazionale tra genitore e figlio, in G. Cassano (a cura di), Il minore nel conflitto genitoriale, cit., 149 ss. Precisa C. Caricato, L’affidamento condiviso dei figli, cit., 352, che la formula dell’interesse del minore indica, in positivo, «cioè come programma da realizzare, la necessità di un effettivo superamento della fase patologica del conflitto, mirando a costruire una rinnovata fisiologia del rapporto, che conservi, nell’interesse del minore e nei limiti del possibile, l’apporto personale di entrambi i genitori». 35 V., per alcuni spunti, Trib. Lucca, 18 marzo 2020, con nota di F. Danovi, Il giudice può raccomandare i percorsi di sostegno alla genitorialità: la finalità del processo di famiglia è orientata anche de futuro, in Fam. dir., 2020, 603 ss. 36 Cass., Sez. VI, 4 aprile 2019, n. 3206, in dejure.it. V., anche, Trib. Milano, Sez. IX, 11 marzo 2017, in ilcaso.it. 37 In tema, v. R. Senigaglia, Le misure di protezione dell’interesse del soggetto minore e di età tra autonomia ed eteronomia, in Id. (a cura di), Autodeterminazione e minore età. Itinerari di diritto minorile, cit., spec. 75. Cfr., altresì, M. Paradiso, Potestà dei genitori, abuso e «interesse morale e materiale della prole», in Riv. dir. civ., 2008, I, 207 ss., 216; E. Quadri, Il giudice nelle relazioni familiari: ruolo e caratteristiche, in Fam. pers. success., 2009, 952 ss.; F. Caggia, Capire il diritto di famiglia attraverso le sue fasi, in Riv. dir. civ., 2017, spec. 1583 ss.; F. Ruscello, Famiglia, responsabilità genitoriale e intervento pubblico, in Id. (a cura di), Famiglia, responsabilità genitoriale e intervento pubblico, Canterano, 2018, 9 ss.
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cristallizzare l’ampiezza della responsabilità genitoriale: i provvedimenti in questione sostanzialmente agiscono preventivamente e in via suppletiva, mitigando gli effetti dannosi derivanti dai comportamenti genitoriali, senza possedere una venatura sanzionatoria, poiché funzionalmente volti all’esclusiva protezione del minore38. La condotta del genitore affidatario o prevalentemente collocatario che determini nel minore un rifiuto nei confronti dell’altro genitore, ostacolando di fatto il rapporto con il figlio, compromette il diritto alla bigenitorialità e appare lesivo dell’integrità psico-fisica del minore39. Le misure in questione, contraddistinte da una attitudine anticipatoria e sussidiaria, potrebbero non essere del tutto idonee a rimuovere ogni nocumento sia patito dal minore per l’ingiusta lesione dei suoi diritti personali e relazionali, sia anche sofferto dal genitore non affidatario o non collocatario cui è risultato indebitamente precluso l’esercizio delle legittime responsabilità. In questa prospettiva può essere apprezzata la formulazione di un’istanza risarcitoria nei confronti del genitore alienante: lo strumento risarcitorio, come anche dimostra la previsione dell’art. 709-ter, comma 2, c.p.c.40, in necessario concorso con l’intervento giudiziale sulla responsabilità genitoriale, permette di riequilibrare la situazione conflittuale41, rappresentando un deterrente per le condotte illecite alienanti e conferendo centralità alla personalità del minore e ai diritti del genitore non affidatario o non collocatario nel quadro della solidarietà familiare42. Il ricorso alle regole della responsabilità civile costituisce un argine nei confronti delle condotte manipolative e alienanti e
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Cfr. L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, 1130; A. Bucciante, La potestà dei genitori, la tutela e l’emancipazione, in Tratt. Rescigno, IV, Persone e famiglia, III, Torino, 1997, 547 ss., 660 ss.; nonché, più recentemente, F. Ruscello, Sub Art. 330, in Id., Responsabilità dei genitori. I controlli. Artt. 330-335, in Comm. Schlesinger, Milano, 2016, 55 ss., 67 ss.; E. La Rosa, Sub Art. 330, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia. Artt. 231-455, II, cit., 877 ss.; Ead., Sub Art. 333, ivi, 908 ss.; M. Dogliotti, Capacità, incapacità, diritti degli incapaci. Le misure di protezione, cit., 427 ss. S. Patti e F.D. Busnelli, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 268, rimarcano come, già a seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975, l’istituto della decadenza dalla responsabilità genitoriale abbia assunto un carattere rimediale, sbiadendosi la coloratura sanzionatoria. Per G. Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 219, si sarebbe dinanzi a una reazione per l’inadempimento degli obblighi di solidarietà genitoriale configurabile alla stregua di una sanzione indiretta. Diversamente, si assegna una vera e propria natura sanzionatoria ai provvedimenti de potestate: cfr. L. Ferri, Sub Art. 316, in Id., Potestà dei genitori. Art. 315-342, in Comm. Scialoja-Branca, BolognaRoma, 1988, 27; nonché, A.C. Pelosi, Sub Art. 330, in Comm. Cian-Oppo-Trabucchi, IV, Padova, 1992, 402 ss. 39 Sulle misure ablative della responsabilità genitoriale adottate nei casi di sindrome di alienazione parentale, v. E. La Rosa, Sub Art. 330, cit., 887. 40 Sul rapporto tra fattispecie risarcitoria prevista dall’art. 709-ter, comma 2, c.p.c. e responsabilità per illeciti endofamiliari ai sensi dell’art. 2043 c.c., cfr. M. Paladini, Misure sanzionatorie e preventive per l’attuazione dei provvedimenti riguardo ai figli, tra responsabilità civile, punitive damages e astreinte, in Fam. dir., 2012, 583 ss.; L. Lenti, Violazione dei doveri familiari e responsabilità civile, in G. Ferrando, Id. (a cura di), La separazione personale dei coniugi, cit., 599 ss.; B. Lena, La responsabilità per violazione dei provvedimenti sull’affidamento, in M. Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 247 ss.; C. Padalino, Le controversie tra genitori sulla potestà, l’inadempimento e le sanzioni: l’art. 709-ter c.p.c., in M. Sesta, A. Arceri (a cura di), L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, cit., 876 ss. In tema, v. R. Donzelli, I provvedimenti nell’interesse dei figli minori ex art. 709-ter c.p.c., Torino, 2018. 41 A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, cit., 449. In giurisprudenza, v. Trib. Cosenza, Sez. II, 7 novembre 2019, n. 549, in dejure.it. Il giudice calabrese ha addebitato alla madre collocataria condotte pregiudizievoli per la relazione tra padre e figlio e, quindi, lesive del diritto del minore alla bigenitorialità e del diritto del padre ad esercitare effettivamente le proprie responsabilità. La madre è stata condannata a corrispondere a titolo di illecito endofamiliare 5.000 euro a ciascuno dei soggetti lesi. In precedenza, sempre a favore del rimedio risarcitorio per danno non patrimoniale da privazione della genitorialità, cfr. Trib. Messina, 5 aprile, 2007, con commento di G. Casaburi, in Foro it., 2008, I, c. 1689 ss.; Trib. Roma, Sez. I, 3 settembre 2011, in altalex.com. 42 G. Facci, La responsabilità dei genitori per violazione dei doveri genitoriali, in M. Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, cit., 229 ss.
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tende ad assicurare una riparazione per le lesioni inferte ai diritti fondamentali in ambito familiare43.
4. Alienazione parentale e affidamento del minore. La Corte di cassazione guarda con tendenziale disfavore alla sindrome di alienazione parentale quale fattore condizionante l’adozione di provvedimenti a favore della prole in costanza di crisi del rapporto genitoriale. I legami tra genitori e figli non possono essere condizionati (e viziati) dal solo rilievo di una sindrome priva di assoluta validità scientifica: diversamente, si rischierebbe di immettere nel circuito processuale postulati privi di fondamenti teorici condivisi e di tradire il dettato normativo vigente, ispirato dalla primaria salvaguardia degli interessi dei minori e del diritto alla bigenitorialità. La legittimità delle decisioni giudiziali transita, invero, da uno scrutinio scrupoloso delle dinamiche conflittuali, supportato dalle oggettive evidenze scientifiche. Le misure riguardanti l’affidamento del minore devono tenere conto della capacità autodeterminativa di quest’ultimo, preservandolo dal rischio di condotte collusive parentali che possano risolversi in un indebolimento della propria personalità e nell’edificazione di una soggettività deviata44. D’altro lato, dinanzi a un teorema privo di suffragate basi scientifiche, qual è appunto la sindrome di alienazione parentale, al giudice di merito spetta procedere a una decisione confortata da riscontri tecnici e professionali immuni da vizi di logicità: non possono, dunque, essere assunte misure “come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare”45.
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Cfr. S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984; A. Nicolussi, Obblighi familiari di protezione e responsabilità, in Eur. dir. priv., 2008, 929 ss.; nonché, M. Sesta, L’evoluzione delle relazioni familiari e l’emersione dei nuovi danni, in Id. (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, cit., XXI ss.; M. Paradiso, Famiglia e responsabilità civile endofamiliare, in Fam. pers. success., 2011, 14 ss. Più di recente, cfr. C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, Torino, 2015; L. Mormile, Vincoli familiari e obblighi di protezione, Torino, 2013. Inoltre, v. F. Scaglione, Violazione degli obblighi genitoriali e illecito endofamiliare, in A. Sassi, Id. e S. Stefanelli, La filiazione e i minori, in La persona e la famiglia, IV, in Tratt. Sacco, Torino, 2018, 588 ss., 598. Per una riflessione sull’incidenza degli illeciti endofamiliari e delle logiche patrimoniali sul diritto di famiglia, cfr. M.R. Marella, “Love will tear us apart”. Some thoughts on intrafamilial torts and family law modernization between Italy and Canada, in Comparative Law Review, 2016, 1 ss., 14 ss.; R. Senigaglia, Famiglia e rapporto giuridico non patrimoniale, in Giust. civ., 2019, 97 ss.; L. Balestra, La crisi della comunione di vita, in Giust. civ., 2020, 47 s. 44 Cass., Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041, con nota di C. Cicero, M. Rinaldo, Principio di bigenitorialità, crisi di coppia e sindrome di alienazione parentale, in Dir. fam. pers., 2013, I, 871 ss.; e di I. Musio, Gli effetti giuridici della “sindrome da alienazione parentale” (PAS), in comparazionedirittocivile.it. V., quale giudice del rinvio, App. Brescia, 17 maggio 2013, in Foro it., 2013, I, c. 1840. Per un commento ad ambedue i provvedimenti, v. F. Tommaseo, Affidamento d’un minore, consulenza tecnica d’ufficio e ricorso in Cassazione per vizi della motivazione, in Fam. dir., 2013, p. 752 ss. La Corte d’appello lombarda fa ricorso ad un approccio pragmatico: ovvero, non manca di richiamare la sindrome di alienazione parentale, pur rilevando come essa può costituire solo uno schermo verbale per fare riferimento a problemi relazionali connessi alla crisi della coppia. 45 C. Cicero, M. Rinaldo, Principio di bigenitorialità, crisi di coppia e sindrome di alienazione parentale, cit., spec. 883 s. Un mero richiamo alla sindrome di alienazione parentale è offerto da Cass., Sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847. In tema, v. M. Casonato, L’alienazione parentale nella sentenza n. 7041/2013 della Cassazione civile, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 433 ss. V., inoltre, Trib. Roma,
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Come emerge dalla giurisprudenza, possono reputarsi normativamente legittimi i provvedimenti adottati nell’interesse esclusivo del minore che siano corroborati da una valutazione concreta dell’idoneità di ogni genitore ad assolvere le rispettive responsabilità e a contribuire, anche a seguito della disgregazione del nucleo familiare, alla cura e alla protezione del figlio. Risulta dirimente, inoltre, accertare la capacità del genitore affidatario o collocatario di preservare e non ostacolare i legami parentali e le esigenze affettive del figlio, assicurando continuità alla dimensione relazionale antecedente alla crisi di coppia “al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa sull’altro genitore”46. La garanzia dell’effettività del diritto alla bigenitorialità e del diritto a una crescita sana ed equilibrata permette di modulare puntualmente i provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori e, d’altro lato, conduce a censurare le misure regolatorie che assumano a parametro esclusivo per il riparto dell’affidamento e del collocamento del minore la sindrome di alienazione parentale47. Nel caso in cui una consulenza tecnica manifesti adesione alla teoria della sindrome di alienazione parentale, al giudice di merito è demandata una verifica del riscontro peritale, in quanto fondato su presupposti controversi48. Risulta, quindi, necessario ricorrere ai comuni mezzi di prova, tra cui l’ascolto del minore, nonché a presunzioni, quale il comportamento simbiotico esistente tra il genitore alienante e il figlio, al fine di giustificare l’affidamento esclusivo al genitore alienato come “strumento utile ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed ad assicurare al medesimo assistenza e stabilità affettiva, sempre nell’ottica di assicurare l’esercizio del diritto del minore ad una effettiva bigenitorialità”49.
19 ottobre 2017, in Foro it., 2018, I, c. 1048 ss.; Cass., Sez. I, 28 novembre 2018, n. 30826, ivi, 2019, I, c. 1286 ss. Ora, v. A. Arceri, Affidamento e mantenimento dei figli, in AA. VV., La crisi delle relazioni familiari. Scioglimento del vincolo e cessazione della convivenza, Milano, 2019, 143. 46 Così, Cass., Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919, con nota di M. Carai, Affidamento condiviso del figlio minore e bigenitorialità, in questa Rivista on line, 3 maggio 2016. 47 Cass., Sez. I, 13 settembre 2017, n. 21215, con nota di C. Casale, Coniugi separati e litigiosi, la PAS e la Suprema Corte, in Dir. fam. pers., 2019, I, 14 ss. V., anche, Cass., Sez. VI, 28 settembre 2017, n. 22744, in dejure.it. Più in generale sulla priorità dell’affidamento condiviso e sulle circostanze eccezionali escludenti tale misura, v. Cass., Sez. I, 18 giugno 2008, n. 16593, con nota di M. Mantovani, (Presunta) omosessualità di un genitore, idoneità educativa e rilievo della conflittualità ai fini dell’affidamento, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 70 ss. Per ulteriori spunti, v. G.E. Napoli, Affidamento ad un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso, in Dir. fam. pers., 2015, II, 315, nt. 53. 48 Sulla c.t.u. nei casi di sindrome di alienazione parentale, v. F. Danovi, Il processo di separazione e divorzio, IV, La crisi della famiglia, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2015, 433, nt. 153. Secondo l’A., qualora la situazione risulti particolarmente grave, l’ascolto del minore potrebbe non rivelarsi sufficiente: «pare allora più opportuno procedere immediatamente attraverso una consulenza tecnica, allo scopo di assumere con piena cognizione degli elementi della vicenda le necessarie determinazioni sulle contrapposte pretese delle parti. Ciò anche allo scopo di evitare una innaturale cristallizzazione di dinamiche familiari patologiche e di scongiurare se possibile il verificarsi di forme anche cliniche di disagio o disturbo». Cfr. M. Pingitore, G.B. Camerini, La nuova consulenza tecnica di ufficio nei casi di alienazione parentale, in M. Pingitore (a cura di), Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, cit., 59 ss.; F. Prodromo, Ancora sulla Pas e dintorni… Il parere del Consiglio sanitario della Toscana e le affermazioni della Cassazione, in Minorigiustizia, 2013, 238 ss. 49 Cass., Sez. I, 16 maggio 2019, n. 13274, con nota di G. Cassano, I. Grimaldi, L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie: ragioni dei minori e decisioni irragionevoli tra giurisprudenza e normativa sovranazionale, in Corr. giur., 2020, 162 ss. V, anche, Trib. Cosenza, 29 luglio 2015, in personaedanno.it; Trib. Brescia, Sez. II, 22 marzo 2019, n. 385. Secondo i giudici lombardi, la responsabilità genitoriale deve essere considerata quale capacità di favorire e custodire le relazioni familiari nelle situazioni di crisi. Nel caso specifico, alla luce del comportamento materno ostacolante il rapporto tra la minore e il padre, l’affidamento condiviso e la collocazione prevalente della minore presso la madre costituiva una misura incompatibile con il best interest of the child.
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Da ciò si deduce, ancora una volta, come la promozione della personalità del minore sia connessa all’effettività del diritto alla bigenitorialità, la cui concretizzazione prescinde da una meccanica parificazione cronologica del rapporto tra il minore e ciascun genitore50 e coincide con una valorizzazione della presenza del singolo genitore in chiave funzionale alla stabilità esistenziale e alla crescita del minore51. In questa materia possono essere rilette alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo: piuttosto che assumere una posizione di favore o di chiusura nei riguardi della sindrome di alienazione parentale, la giurisprudenza convenzionale enfatizza l’effettività del best interest of the child e del diritto individuale inalienabile al rispetto della vita familiare52. Il minore, infatti, vanta il diritto a visitare e frequentare il genitore non affidatario e, ove ciò sia fattualmente impedito od ostacolato dalla condotta dell’altro genitore, spetta allo Stato l’adozione di ogni misura opportuna e proporzionata53. Non mancano alcuni arresti che censurano l’inerzia dello Stato nell’assicurare pienezza al diritto di ogni genitore a frequentare il figlio minore vittima di una potenziale sindrome di alienazione parentale54: i disagi relazionali necessitano di misure giudiziali che equamente contemperino i diritti coinvolti, risultando illegittima ogni misura astratta e stereotipata55. Non possono, pertanto, essere automaticamente considerate ininfluenti le condotte genitoriali che concorrono ad alienare il minore dal genitore non affidatario o non collocatario: si prospetta, in questi casi, un vulnus per l’esercizio della genitorialità, aggravato dalla negligenza e dall’intempestività delle autorità domestiche nel fronteggiare la dissoluzione del legame familiare e
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Cfr. S. Polidori, Affidamento dei figli minori in séguito alla crisi, diritto all’ascolto, responsabilità genitoriale, in Foro nap., 2014, 792, 794 nt. 20; A. Maniaci, Verso una riforma dell’affidamento condiviso, in Eur. dir. priv., 2019, 515-517. In giurisprudenza, v. Cass., Sez. VI, 23 settembre 2015, n. 18817, con commento di G. Casaburi, in Foro it., 2016, I, c. 902; Cass. Sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 25134, ivi, 2018, I, c. 3465; Cass., Sez. I, 10 dicembre 2018, n. 31902, con nota di F. Trubiani, Affidamento condiviso: il diritto alla bigenitorialità fra assolutezza del principio e relatività delle regole applicative, in questa Rivista, 2019, 757 ss. 51 Cfr. Cass., Sez. I, 17 luglio 2019, n. 19153; Cass., Sez. I, 8 aprile 2019, n. 9764, in diritto24.ilsole24ore.it; Cass., Sez. VI, 26 giugno 2018, n. 16738, in quotidianogiuridico.it. 52 Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. V, Tsikakis v. Germany, 10 febbraio 2011. 53 Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 29 gennaio 2013, Lombardo v. Italy. V., inoltre, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 13 luglio 2000, Elsholz. v. Germany, con nota di N. Paschetti, D. Gacobbe, Genitorialità negata e diritti del minore, in Fam. dir., 2002, 199 ss.; nonché, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 17 dicembre 2013 Santilli v. Italy; Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. IV, 17 novembre 2015, Bondavalli v. Italy. In tema, v. le riflessioni critiche di L. Lenti, L’interesse del minore nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: espansione e trasformismo, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 154. 54 Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. I, 23 giugno 2016, Strumia v. Italy. Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. V, 18 aprile 2007, Zavrel v. Czech Republic: secondo i giudici “la non-réalisation du droit de visite du requérant est donc imputable surtout à la tolérance de facto par les tribunaux de la résistance constante de la mère, et à l’absence de mesures visant à instaurer des contacts effectifs. Force est de constater que les autorités nationales n’ont pas fait preuve de la diligence qui s’imposait en l’espèce, et sont restées en deçà de ce qu’on pouvait raisonnablement attendre d’elles. Par ailleurs, étant donné les opinions des experts quant à la manipulation de l’enfant par (la mère) et aux capacités éducatives limitées de celle-ci, la question se pose de savoir si les tribunaux ont été inspirés dans leurs démarches par l’intérêt du mineur dûment établi”. 55 Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 2 novembre 2010, Piazzi v. Italy. Sulla necessità di provvedimenti giudiziali emessi sulla base di rilevanze scientifiche e peritali, volti a far emergere l’oggettività della conflittualità relazionale e dell’alienazione, v. l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Ress, condivisa dai giudici Pastor Ridruejo e Türmen, espressa in occasione della pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande chambre, 8 luglio 2003, Sommerfeld v. Germany.
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l’inasprirsi della conflittualità per via proprio di quelle condotte alienanti e manipolative poste in essere da un genitore a detrimento del minore e dell’altro membro della coppia56. La disciplina convenzionale esige una valutazione prudente dei comportamenti alienanti e una reazione sollecita attraverso misure che tendano al ripristino dell’equilibrio dei legami familiari e alla promozione della personalità del minore57: una soluzione conciliante e inclusiva che sconfessa in radice l’approccio rimediale escludente e afflittivo connesso al riconoscimento della sindrome di alienazione parentale58. A tutela della personalità del minore non risultano compatibili e funzionali le misure giudiziali coercitive o invasive – incapaci di disinnescare i contrasti e di assicurare un giusto bilanciamento tra i diritti in questione – né tantomeno i provvedimenti volti ad imporre una bigenitorialità “coatta”59. Il perseguimento del best interest of the child reclama un apprezzamento ponderato delle difficoltà relazionali che toccano il minore e legittima, esclusivamente, contromisure graduali e proporzionate, assunte dopo aver assicurato effettività al diritto all’ascolto del minore60: i provvedimenti riguardanti l’affidamento, pertanto, non possono essere assunti sulla scorta di un mero desiderio minorile alla bigenitorialità, né avallare un aprioristico sentimento di rifiuto del minore verso uno dei genitori, ma devono essere adottati in funzione del benessere del minore, ovvero del soddisfacimento delle
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V., ora, Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 29 gennaio 2020, Pisică v. the Republic of Moldova. Sul rilievo della sindrome d’alienazione parentale, v. Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. IV, 19 aprile 2016, G.B. v. Lithuania, con l’opinione dissenziente dei giudici Sajo e Motoc. 57 R. Pane, Dalla protezione alla promozione del minore, in Ead., Mutamenti sociali e itinerari del diritto di famiglia, Napoli, 2018, 173 ss. Cfr., altresì, G. Recinto, Le genitorialità. Dai genitori ai figli e ritorno, Napoli, 2018, 148 ss.; F. Ruscello, Il rapporto genitori-figli nella crisi coniugale, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 395 ss. 58 A. Lubrano Lavadera, S. Ferracuti, M. Malagoli Togliatti, Parental Alienation Syndrome in Italian Legal Judgments: An Exploratory Study, in International Journal of Law and Psychiatry, 35 (2012), 334 ss. Più in generale, cfr. C. Rimini, The day-by-day operation and enforcement of judgments relative to parental responsibilities. Some observations based on the Italian experience, in questa Rivista, 2016, 323; L. Rossi Carleo, Affidamento condiviso: bilanci e prospettive, in comparazionedirittocivile.it, 2013, 6, 9. 59 M.R. Marella, G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, cit., 90 ss. Cfr., altresì, T. Auletta, Riforme ed evoluzione del diritto di famiglia: riflessioni su un percorso di mezzo secolo, in questa Rivista, 2019, 269-271; U. Salanitro, La tutela del diritto del minore alla bigenitorialità, in P. Mazzamuto (a cura di), Mediazione familiare e diritto del minore alla bigenitorialità, cit., 34 ss., 41 ss.; E. Quadri, I figli nel conflitto familiare, in G. Ferrando, G. Laurini (a cura di), Genitori e figli: quali riforme per le nuove famiglie, Milano, 2013, spec. 204 ss. In tema, v. L. d’Avack, L’affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, in S. Patti, L. Rossi Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, cit., 13 ss. 60 E. Battelli, Conflittualità familiare ed adozione, cit., 419 ss. In giurisprudenza, v. App. Bari, 16 dicembre 2016; nonché, App. Bari, 15 luglio 2013, n. 794, per cui, anche se una perizia dovesse accertare condizionamenti alienanti esercitati dalla madre a danno del minore, nonché il conflitto di lealtà in atto, “non vi è dubbio che un radicale mutamento del collocamento […] potrebbe provocare sul suo corretto sviluppo psicologico conseguenze negative maggiori di quelle già causate dal fatto di avere ormai da tempo perso una figura genitoriale di riferimento”. Sul diritto all’ascolto, cfr. F. Parente, L’ascolto del minore: i principi, le assiologie, e le fonti, in Rass. dir. civ., 2012, 459 ss.; C.M. Bianca, Il diritto del minore all’ascolto, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 546 ss.; A. Palazzo, La filiazione, cit., 525 ss., 550; V. Di Gregorio, L’ascolto del minore nel quadro della riforma della filiazione, in G. Ferrando, G. Laurini (a cura di), Genitori e figli: quali riforme per le nuove famiglie, cit., 218 ss.; P. Virgadamo, L’ascolto del minore in famiglia e nelle procedure che lo riguardano, in Dir. fam. pers., 2014, II, 1664 ss.; A. Gorgoni, Filiazione e responsabilità genitoriale, cit., 115; G. Ballarani, Il diritto all’ascolto, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, cit., 129 ss.; R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, cit., 201 ss.; C. Lazzaro, Sub Art. 336-bis, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia. Artt. 231-455, II, cit., 942 ss.
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oggettive e irriducibili esigenze di cura, mantenimento, educazione, istruzione e assistenza morale e materiale61.
5. Protezione del minore e bigenitorialità: l’ostacolo dei rimedi punitivi.
Un recente disegno di legge (n. 735/2018), presentato nel corso della corrente Legislatura, ha posto l’attenzione sulla necessità di contrastare l’alienazione genitoriale, rinvigorendo, al contempo, il principio di bigenitorialità – inefficacemente tutelato dalla legislazione vigente – attraverso una parificazione aritmetica dei tempi di frequentazione del minore con ciascuno dei genitori “non potendosi più identificare un genitore collocatario, ma dovendosi prendere atto che il bambino potrà finalmente fare conto su «due case»”62. Secondo l’intenzione dei proponenti, occorre emanciparsi da una concezione nominalistica dell’alienazione parentale e apprezzare la dimensione fenomenica del rifiuto espresso dal minore rispetto a ogni forma di relazione con uno dei genitori: “alienazione, estraniazione, avversità, sono solo nomi mutevoli che non possono impedire al legislatore di prendersi cura di una delle condizioni più pericolose per il corretto e armonico sviluppo psicofisico del minore”. Tale condivisibile premessa, formulata nella relazione introduttiva al disegno di legge, viene poi sconfessata da una regolazione di marca autoritaria che, oltre a vanificare ogni sforzo mediativo e cooperativo di composizione dei conflitti, pur censito nella proposta stessa sotto le voci del ricorso obbligatorio alla mediazione familiare e del coordinatore genitoriale, sdoganerebbe la teoria pura della sindrome di alienazione parentale. In questo senso deve leggersi la proposta di modifica da parte dell’art. 16 d.d.l. n. 735/2018 dell’art. 337-octies c.c., ai sensi del quale dovrebbero risultare vietate, all’atto dell’ascolto del minore, le domande “manifestamente in grado di suscitare conflitti di lealtà da parte del minore verso uno dei genitori”. Di tal fatta, ovvero dalla cristallizzazione della sindrome di alienazione parentale, discenderebbe una delegittimazione e un affievolimento del genitore collocatario che intenda proteggere il minore e se stesso da con-
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V., già, A. Falzea, La separazione personale, Milano, 1943, spec. 16 e, ora, M. Bianca, Angelo Falzea e il diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 2017, 1071 s. In tema, v. anche S. Stefanelli, Responsabilità genitoriale e affidamento, in A. Sassi, F. Scaglione, Ead., La filiazione e i minori, cit., 676 s.; nonché, C. Camardi, Minore e privacy nel contesto delle relazioni familiari, in R. Senigaglia (a cura di), Autodeterminazione e minore età. Itinerari di diritto minorile, cit., 117 ss. In tema, v. E. Giacobbe, Procreazione, filiazione e famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, in Dir. fam. pers., 2006, II, 748 ss. 62 D.d.l. n. 735/2018 “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”. Per osservazioni critiche cfr. T. Auletta, Prospettive di riforma dell’affidamento condiviso, in questa Rivista, 2018, 581 ss.; M.R. Marella, Fra pulsioni punitive e rigurgiti proprietari. I molti pasticci del d.d.l. Pillon, in Riv. crit. dir. priv., 2019, 109 ss.; U. Salanitro, Il diritto del minore alla bigenitorialità e il d.d.l. “Pillon”, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 333 ss.; F. Romeo, Responsabilità genitoriale, conflitti e prospettive di riforma dell’affidamento condiviso (D.D.L. S/C. 735 del 1° agosto 2018), in Nuove leggi civ. comm., 2019, 528 ss., C. Rimini, Sul disegno di legge Pillon e sugli altri Dd.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, cit., 67 ss.
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dotte lesive dell’altro genitore, risultando, di fatto, pregiudicato nell’esercizio del diritto a richiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli (art. 337-quinquies c.c.)63. L’art. 17 del citato disegno di legge, attraverso l’addizione di un secondo comma all’art. 342-bis c.c., intende espandere i confini della fattispecie degli ordini di protezione contro gli abusi familiari: dinanzi all’alienazione o all’estraneazione del minore da uno dei genitori, pur in difetto di qualsivoglia condotta abusante dell’altro genitore, il giudice potrà adottare i provvedimenti tipici previsti dall’odierno art. 342-ter c.c.64. Il legislatore pone forzatamente al centro il principio di bigenitorialità, salvaguardando aprioristicamente i diritti relazionali del minore e degli altri familiari, rispetto all’adozione di contromisure calibrate e commisurate alla gravità della condotta genitoriale. Si tratterebbe tuttavia di espandere i margini applicativi degli ordini di protezione che verrebbero a tutelare il minore, il genitore alienato o estraniato e gli altri parenti dinanzi a fenomeni repulsivi anche in mancanza di una condotta abusante dell’altro genitore65. Come indicato dall’art. 18 d.d.l. n. 735/2018, pur in assenza di indici di abusività della condotta, il genitore collocatario potrebbe incorrere nella limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale66. La torsione punitiva radicata nel disegno di legge in rassegna emerge plasticamente all’art. 9 che mira a sostituire l’art. 709-ter c.p.c.: il giudice, in caso di gravi manipolazioni psichiche, ovvero di atti pregiudizievoli per il minore e ostativi al corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento – nonché “ove riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori” – potrà modificare i provvedimenti sull’affidamento, sino a pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale (inaudita altera parte)67. Ancora, a conferma della rigidità del trattamento rimediale dinanzi all’alienazione parentale, si colloca la misura dell’inversione della residenza abituale del figlio minore, nonché la limitazione dei tempi di permanenza del minore presso il genitore reputato inadempiente68, oppure ancora il collocamento
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M.R. Marella, Fra pulsioni punitive e rigurgiti proprietari. I molti pasticci del d.d.l. Pillon, cit., 122. Precisa l’A. che «al riguardo è molto evidente nel testo il tentativo di invertire i ruoli di ‘vittima’ e ‘carnefice’ allo scopo di intimidire il genitore – la madre – che intenda sottrarre se stessa e i figli alla minaccia della violenza». 64 In tema, v. A.G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, in T. Auletta (a cura di), Famiglia e matrimonio, I, Il diritto di famiglia, IV, in Tratt. Bessone, Torino, 2010, 483 ss.; G. Di Lorenzo, Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, in AA. VV., La filiazione e l’adozione, in Tratt. Bonilini, IV, Torino, 2016, 4243 ss.; G. Foti, Sub Art. 342-bis, in G. Di Rosa (a cura di), Della famiglia. Artt. 231455, II, cit., 1185 ss. 65 Cfr. A.G. Cianci, Gli ordini di protezione familiare, cit., 496 ss.; A. Renda, voce Abusi familiari (diritto civile). Profili soggettivi e oggettivi, in Enc. dir., Annali, VII, Milano, 2014, 5. 66 Per M.R. Marella, Fra pulsioni punitive e rigurgiti proprietari. I molti pasticci del d.d.l. Pillon, cit., 122, «qui l’atmosfera horror si colora di macabro». V., anche, F. Romeo, Responsabilità genitoriale, conflitti e prospettive di riforma dell’affidamento condiviso (D.D.L. S/C. 735 del 1° agosto 2018), cit., 549. 67 L’adozione dei provvedimenti inaudita altera parte in caso di alienazione parentale si ricava dalla lettura congiunta dell’art. 9 e dell’art. 18 d.d.l. 735/2018. Precisa G. Casaburi, «Aux armes, citoyens!» La soppressione della tutela del superiore interesse del minore in un recente disegno di legge, in Foro it., 2018, c. 3480, che «in questa fattispecie, è sufficiente il mero «riscontro» (termine atecnico di dubbia portata) di false accuse (dove la forma avverbiale, «evidentemente», sembra limitare, nel contesto della frase, il quantum di prova richiesto)». 68 Precisa M. Rizzuti, Che cosa rimane delle potestà familiari?, in P. Sirena, A. Zoppini (a cura di), I poteri privati e il diritto della regolazione. A quarant’anni da «Le autorità private» di C.M. Bianca, cit., 202, che con il passaggio dalla potestà alla responsabilità
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provvisorio del minore presso una apposita struttura specializzata “previa redazione da parte dei servizi sociali o degli operatori della struttura di uno specifico programma per il pieno recupero della bigenitorialità del minore, nonché dell’indicazione del responsabile dell’attuazione di tale programma”69. Nel complesso, dinanzi al pregiudizio per i diritti relazionali, si formalizzano tecniche di reazione e provvedimenti sull’affidamento che prescindono sia da un puntuale riscontro della condotta genitoriale e dell’attitudine a garantire un proficuo esercizio delle responsabilità che da uno stato patologico del minore tecnicamente asseverato, operando, di contro, per astrazione e presunzione70. I comportamenti respingenti del minore e il mancato esercizio del diritto di visita del genitore necessitano, invero, di provvedimenti sull’affidamento che stemperino i conflitti attraverso il supporto di mediatori e conciliatori familiari, nonché con il sostegno di mirati interventi volti al ripristino e alla conservazione di un equilibrato e continuativo rapporto tra genitori e figli, evitando di distorcere il principio di bigenitorialità mediante misure punitive che alterano l’impianto normativo di riferimento, comportano una retrocessione nei diritti civili e sviliscono l’interesse preminente del minore71.
genitoriale «quello che era stato il titolare di un potere si trasforma dunque in debitore, tenuto all’adempimento di prestazioni di cura, assistenza, mantenimento e così via, dedotte ad oggetto di un’obbligazione ex lege». V., altresì, E. Giacobbe, Il prevalente interesse del minore e la responsabilità genitoriale. Riflessioni sulla riforma “Bianca”, in Dir. fam. pers., 2014, II, 817 ss. 69 Secondo F. Romeo, Responsabilità genitoriale, conflitti e prospettive di riforma dell’affidamento condiviso (D.D.L. S/C. 735 del 1° agosto 2018), cit., 550, «appare di tutta evidenza che il problema della rottura dei rapporti tra genitori e figli non può risolversi “imprigionando” il figlio in una struttura specializzata. Siamo di fronte ad una misura particolarmente pervasiva che, di fatto, incide drasticamente sull’esistenza del minore. Inoltre, circostanza questa ancor più grave, i provvedimenti richiamati vengono assunti prima che venga svolta una “valutazione tecnica” sull’effettiva presenza di una situazione di “alienazione” e sulla condizione psichica del minore». Per G. Casaburi, «Aux armes, citoyens!» La soppressione della tutela del superiore interesse del minore in un recente disegno di legge, cit., c. 3481, si ripristina «(l)’arresto del figlio disobbediente, previsto dai codici ottocenteschi: il minore resta recluso (di questo, in fondo, si tratta) fino a che non “recupera” il rapporto con il genitore a torto o a ragione respinto». Su affidamento della prole e ordini di protezione contro gli abusi familiari, v. M. Paladini, voce Abusi familiari (diritto civile). Contenuto dell’ordine di protezione, in Enc. dir., Annali, VII, Milano, 2014, 18. 70 Per T. Auletta, Prospettive di riforma dell’affidamento condiviso, cit., 596, «una presunzione di colpevolezza appare del tutto ingiustificata già in linea di principio e ancor più in relazione alla gravità delle sanzioni comminate». Precisano G.M. Riccio, G. Giannone Codiglione, Sub Art. 342-bis, in Id., Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. Artt. 342-bis-342-ter, in Comm. Schlesinger, Milano, 2019, 92 s., che «l’abuso familiare si concreta pertanto in una condotta atipica cui seguono effetti tipici che investono i beni giuridici protetti indicati dalla norma, legati da un nesso eziologico». 71 In giurisprudenza v., recentemente, Cass., Sez. I, 19 maggio 2020, n. 9143, in dejure.it. In dottrina, cfr. M.R. Marella, The privatization of Family Law: limits, gaps, backlashes, in questa Rivista, 2017, 629 ss.; nonché, R. Senigaglia, Genitorialità tra biologia e volontà. Tra fatto e diritto, essere e dover-essere, in Eur. dir. priv., 2017, 953. Per C. Rimini, Sul disegno di legge Pillon e sugli altri Dd.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, cit., 72, si può «prevedere la figura di un “giudice di prossimità” a cui possano rivolgersi le parti, eventualmente anche senza formalità e senza il patrocinio di un avvocato, per qualsiasi controversia relativa all’applicazione, all’esecuzione e alla modifica del provvedimento vigente. Un giudice in grado di intervenir in tempi molto rapidi non appena il problema si presenta».
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Luci e ombre della l. n. 10/2020 in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem* Sommario : 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il contenuto del testo normativo. – 3. L’atto di manifestazione del consenso. – 4. La vicenda effettuale. – 5. Ulteriori aspetti controversi e criticità. – 6. Auspici futuri.
The article analyzes the content of Italian law n. 10/2020 regarding the use of the post mortem corpse for study, research and scientific training purposes, trying to highlight its fundamental aspects as well as the main critical issues. After an organic and reasoned reading of the legislation, it examines the discipline of the manifestation of consent deed and of the effectual event following the death of the settlor, proposing a consistent interpretation with the constitutional principles pursued by the law. Finally, the article proposes some concrete applicative solutions, hoping for the rapid enactment of the implementing decree as well as the consequent release of other related regulations.
1. Considerazioni introduttive. Nella Gazzetta Ufficiale n. 55 del 4 marzo 2020 è stata pubblicata la l. 10 febbraio 2020, n. 10 recante “Norme in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica”1.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Si precisa che, nel presente scritto, ove si farà riferimento a “la legge”, senza ulteriori specificazioni, ci si riferirà alla l. 10/2020.
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Il tema dell’utilizzo di cadaveri per finalità di studio e ricerca era già stato affrontato nelle precedenti Legislature2 e, di recente, si erano viste aperture a livello locale3, anche per far fronte alle pressanti richieste dei principali centri formativi e di ricerca italiani. Già nel corso di un convegno tenutosi a Milano il 10 ottobre 20174, numerosi professionisti sanitari hanno espresso l’esigenza di disporre di un maggior numero di cadaveri per finalità di ricerca, studio e formazione, evidenziando che tale pratica, oltre ad essere molto risalente nel tempo, è messa in atto in numerosi altri Paesi. In Italia, da decenni, questa pratica, ritenuta fondamentale per la formazione di futuri medici, è stata trascurata ed è oggi limitata a pochi centri d’eccellenza5: già in quell’occasione si riconducevano le cause ai vincoli legislativi e alle problematiche logistiche di natura economica e finanziaria legate all’attività settoria, completamente a carico delle strutture che accolgono il corpo. Inoltre, tecniche chirurgiche complesse o manovre chirurgiche salvavita, la cui corretta esecuzione è di fondamentale significato per la vita dei pazienti, sono conosciute e, pertanto, applicabili da un ristretto numero di professionisti, con pregiudizio sulla qualità delle cure6. Seppure lo sviluppo di nuove tecnologie nel campo della realtà virtuale hanno cercato di sopperire alle citate carenze, «continuano ad esistere ambiti nei quali la didattica e la formazione su cadavere hanno un impatto determinante sulla qualità dell’insegnamento dei medici e, di conseguenza, sulla qualità delle cure che godranno i pazienti di domani»7. Sulla scia di questi orientamenti e di queste esigenze manifestate a gran voce dai professionisti del settore, nel febbraio 2019, in sede di riforma della normativa funeraria locale8, la Regione Lombardia ha espressamente previsto anche la possibilità di mettere a disposizione il proprio corpo (rectius cadavere) dopo la morte, per finalità di studio e ricerca scientifica. In particolare, con l’introduzione del nuovo articolo 71 alla l. n. 33/2009, si è previsto che ciascun soggetto possa disporre – in vita – l’utilizzo del proprio cadavere per finalità di studio, ricerca e insegnamento; in tal caso, a seguito del decesso, i congiunti o conviventi ne danno comunicazione al comune, che autorizza il trasporto a
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Nel corso della XVII Legislatura, il Testo unificato delle proposte Binetti-Grassi-Dorina Bianchi è stato approvato in sede legislativa dalla XII commissione affari sociali della Camera. Dopo essere stato trasmesso al Senato (A.S. 1534), il provvedimento non è stato ulteriormente esaminato a causa dello scioglimento delle Camere. Il riferimento è alla riforma funeraria approvata dal Consiglio regionale della Lombardia nella seduta del 19 febbraio 2019, di cui si dirà a breve. Aveva davvero ragione Leonardo? La dissezione anatomica su cadavere nell’educazione medica e chirurgica, Milano, 10 ottobre 2017, Università degli Studi di Milano, Aula Magna di Anatomia Umana, organizzato con il dichiarato scopo di raccogliere le esperienze già in corso in Italia e in alcuni Paesi europei e di confrontarle con le realtà educative, istituzionali, scientifiche, sociali che hanno un ruolo nello sviluppo di questa particolare esigenza formativa. In quella sede, venivano riportate le esperienze già in atto in Italia presso l’Università di Brescia, l’Università “La Sapienza” di Roma, l’Università di Bologna, la Nicola’s Foundation Onlus – ICLO Teaching and Research Center di Arezzo e l’Università degli Studi di Milano. Cfr. C. Sforza, M. Zago, Aveva davvero ragione Leonardo?, cit., Appunti del Simposio, 5. C. Sforza, M. Zago, op. cit. Cfr. l.r. 4 marzo 2019, n. 4, Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30 dicembre 2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità): abrogazione del Capo III ‘Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali’ del Titolo VI e introduzione del Titolo VI bis ‘Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria, attività funebre’, in BURL n. 10, suppl. dell’8 marzo 2019.
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spese dell’istituto ricevente. A tali fini è stata prevista l’istituzione, presso ciascun comune del territorio regionale, di un registro degli enti autorizzati che abbiano fatto richiesta di utilizzare cadaveri o parti anatomiche riconoscibili per finalità di studio, ricerca o insegnamento9. Seppur carente sotto alcuni aspetti, quali le modalità di espressione del consenso o le finalità soggettive per cui può disporsi del proprio cadavere, la normativa regionale è stata accolta con favore dagli operatori del settore, i quali l’hanno vista come un nuovo traguardo per la libertà di ricerca scientifica10. Oltre che per le problematiche già evidenziate, una compiuta normativa in materia di disposizione del proprio cadavere per finalità di studio e ricerca si rendeva oltremodo opportuna almeno per un altro motivo. In Italia, la previgente normativa non vietava espressamente la donazione del proprio corpo – o parte di esso – post mortem, per finalità di ricerca, di formazione o di studio. Però, la lacunosa e carente disciplina, unita ad una scarsa informazione sul tema e sull’utilità della donazione in parola, hanno fatto sì che gli atti di disposizione finalizzati alla ricerca ed allo studio siano rarissimi. Di contro, all’estero la donazione è una pratica consolidata che consente agli studenti di medicina e ai medici di esercitarsi e di formarsi in maniera più completa. Da ciò si è giunti alla pratica, censurata dai fautori della riforma, di importare, a pagamento, cadaveri dall’estero e, in particolare, dagli Stati Uniti11. La l. 10/2020 è intervenuta in questo panorama normativo frammentato, lacunoso, carente e poco chiaro, con il duplice fine di dare una disciplina univoca e chiara alla materia nonché di implementare l’attività di informazione tra la popolazione, per cercare di ottenere un sempre maggior numero di “donazioni”, fondamentali per assicurare una formazione di maggior qualità ai futuri medici e per permettere di implementare l’attività di ricerca medico-sanitaria.
2. Il contenuto del testo normativo. La l. 10/2020 disciplina le finalità e le modalità con cui può essere rilasciata, in vita, la dichiarazione di consenso alla donazione post mortem del proprio corpo o dei tessuti, le modalità di conservazione e di consultazione di tali dichiarazioni e l’istituzione di Centri di riferimento per la conservazione e l’utilizzazione delle salme, monitorati dal Ministero della Salute.
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Come si vedrà, l’iter previsto dalla Regione Lombardia è quello che ora è stato esteso a tutta la nazione, con l’introduzione della legge in commento. 10 Così l’Associazione Luca Coscioni, Comunicato stampa, 28 febbraio 2019. 11 Un esempio è l’Aims Academy, centro di chirurgia mini invasiva all’ospedale Niguarda di Milano, che ogni anno importa circa 20 cadaveri, con costi che si aggirano attorno ai tremila euro a salma.
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In particolare, il dichiarato scopo della legge è quello di dettare norme in materia di disposizione del proprio corpo e dei tessuti post mortem a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica da parte di soggetti che hanno espresso in vita il loro consenso. Da queste parole emerge la consapevolezza del legislatore che, nel nostro ordinamento, la disciplina della materia fosse lacunosa ed incerta e che dunque si rendesse necessario emanare una normativa chiara e compiuta, che disciplinasse in maniera certa sia la liceità degli atti di disposizione del proprio corpo (rectius, cadavere) post mortem, sia le modalità con cui addivenire a questo risultato. Come si è visto, l’articolo 1 della l. 10/2020 indica le finalità – meritevoli di tutela – per le quali possa darsi luogo agli atti di disposizione in parola: lo studio, la formazione e la ricerca scientifica. In sede di audizione presso la XII Commissione Permanente «Igiene e Sanità» del Senato, il Comitato Nazionale per la Bioetica aveva evidenziato le possibili criticità cui potrebbe dar luogo l’utilizzo di termini a contenuto così ampio e generico12. I vocaboli “studio” e “ricerca scientifica”, difatti, aprono il campo a numerosi settori, non necessariamente di natura medico-sanitaria, e potrebbero dar luogo ad un utilizzo troppo diffuso dei corpi e dei tessuti, con distrazione degli stessi dalle finalità principali per le quali si è reso necessario emanare la disciplina in esame. Tali raccomandazioni, evidentemente, non sono state recepite nel testo definitivo della legge e pertanto, per evitare che l’esiguo numero di cadaveri a disposizione del settore medico non venga destinato ad usi differenti, si dovrà tener conto dei principi costituzionali che reggono l’istituto e operare una lettura organica dell’intero testo normativo. Sotto il primo profilo, emerge innanzitutto il disposto del secondo comma dell’articolo 1, secondo cui l’utilizzo di corpi e tessuti è informato ai principi di solidarietà e proporzionalità13. In particolare, quest’ultimo principio, secondo cui i mezzi impiegati devono essere adeguati e proporzionati allo scopo desiderato, richiede necessariamente che i cadaveri vengano utilizzati sì per finalità di studio e ricerca, ma solamente in quelle discipline per le quali sia assolutamente necessario – e non sostituibile con altri mezzi – il ricorso a tali strumenti di formazione empirica. Non risulta invece giustificato, in quanto non proporzionato, il ricorso a tali mezzi di studio – che comportano una limitazione, seppur il più lieve possibile, del diritto individuale al rispetto del proprio corpo post mortem – per finalità diverse e di rango “inferiore” alla ricerca medico-scientifica, alla sperimentazione terapeutica o alla didattica medica, che pertanto non rientra nell’ambito applicativo della legge in parola.
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Cfr. Audizione CNB presso XII Commissione Permanente «Igiene e Sanità» – Senato della Repubblica, Roma, 6 novembre 2018, documentazione fornita dal Prof. Lucio Romano, consultabile su www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/documenti/50386_ documenti.htm, dove si suggerisce l’utilizzo dei seguenti termini: «a fini di carattere medico-didattico o di ricerca e sperimentazione clinica o terapeutica». 13 L’introduzione del principio di proporzionalità è stato suggerito dal Comitato Nazionale per la Bioetica, op. cit., e recepito dal legislatore.
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Inoltre, l’articolo 7 dispone che l’utilizzo del corpo umano, di parti di esso, o dei tessuti post mortem non [possa] avere fini di lucro. Evidente il parallelo con le norme14 e con gli orientamenti dottrinari15 formatisi negli anni in materia di donazione di organi post mortem: in questa materia – da anni “bloccata”, come si vedrà, per l’assenza del regolamento attuativo – oltre a non essere possibile il perseguimento di fini lucrativi, è pacifico che non si possa perseguire nemmeno un “interesse individuale”. In altre parole, le dichiarazioni da cui emerge la volontà di disporre dei propri organi non possono in alcun modo essere condizionate alle cure di determinati soggetti individuati dal disponente, in quanto ciò sarebbe contrario ai principi fondamentali del nostro ordinamento: gli atti di disposizione devono essere incondizionati e la decisione in merito alla concreta destinazione dell’organo o del tessuto compete esclusivamente ai professionisti medici, a seguito della morte del disponente. È evidente che analoghi principi dovranno valere anche nella materia de qua: non si potrà disporre del proprio cadavere – o di parte di esso – condizionando la propria volontà all’utilizzo in determinati settori o da parte di determinati istituti indicati dal disponente; la concreta destinazione compete agli organi preposti, a favore di istituti determinati dallo Stato che, pertanto, avallerà, in ultima istanza, le finalità concretamente perseguibili, nel rispetto dei principi di proporzionalità e solidarietà, evitando che i cadaveri donati alla ricerca scientifica vengano destinati a finalità di rilievo inferiore. Proseguendo nel confronto con la disciplina di cui alla l. 91/1999, meritano particolare attenzione le disposizioni volte a promuovere – con risorse pubbliche disponibili – l’informazione sulla materia trattata, sia tra il personale medico-sanitario che tra i cittadini. L’articolo 2 della legge in commento, difatti, prevede iniziative di informazione, promosse dal Ministero della Salute, dalle Regioni e dalle aziende sanitarie locali, volte a diffondere, da un lato, la conoscenza delle disposizioni della legge tra il personale medico e, dall’altro lato, a divulgare tra i cittadini una corretta informazione sull’utilizzo del corpo umano e dei tessuti post mortem. Disposizioni analoghe sono previste anche dall’omologo articolo 2 della l. 91/1999 in merito alla c.d. “donazione degli organi”, seppur in modo più articolato e specifico. La spiccata analogia tra le due norme lascia, però, l’interprete stupito laddove si vadano a confrontare le finalità rispettivamente perseguite dalle due discipline. In materia di donazione di organi, nel momento in cui la relativa disciplina di legge potrà trovare compiuta applicazione16, ciascun cittadino sarà chiamato a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte e la mancata dichiarazione di volontà sarà considerata quale assenso alla donazione. È evidente la necessità di fornire un’adeguata informazione – con l’utilizzo
14
Il riferimento è alla l. 91/1999. Cfr. G. Capozzi, C. Ferrentino, A. Ferrucci, Successioni e donazioni, Milano, 2015, 822 ss. 16 Si ricordi che l’intera l. 91/1999 non può, nel momento in cui viene redatto il presente testo, trovare applicazione nel nostro ordinamento in quanto non è ancora stato emanato il decreto attuativo del Ministro della sanità (ora Ministero della Salute) che avrebbe dovuto essere emanato, ai sensi dell’articolo 5 della predetta legge, entro il 30 luglio 1999. 15
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di denaro pubblico – ai cittadini, i quali, stante la disciplina appena esposta, potrebbero altrimenti trovarsi, seppure post mortem, a dover “soggiacere” a trattamenti magari non voluti. Nel caso della “donazione” del proprio cadavere, invece, ove manchi una espressa disposizione in tal senso, nessuna conseguenza si può ripercuotere sul cittadino “ignaro”, in quanto è esclusa ogni attività di studio o ricerca sui corpi in assenza di espressa manifestazione di volontà. In questo caso è evidente che la finalità dell’attività di informazione è permettere agli istituti di formazione, studio e ricerca – i cc.dd. “Centri di riferimento” di cui si dirà amplius infra – di ottenere un sempre maggior numero di cadaveri su cui svolgere la propria attività empirica: finalità senza dubbio encomiabile ma che, probabilmente, sarebbe stato preferibile venisse svolta con l’utilizzo di risorse proprie dei predetti Centri di riferimento, anziché pubbliche. A supporto di questo assunto, va evidenziata l’assurda situazione che emerge dal raffronto tra gli articoli 2 e 6 della legge de qua, secondo cui i Centri di riferimento devono farsi carico, con proprie risorse e senza “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”17, di tutte le spese per il trasporto del corpo – dal decesso alla restituzione alla famiglia – nonché di quelle per la tumulazione e/o la cremazione, ma, di contro, l’attività informativa è sostenuta con risorse pubbliche centrali. Merita poi soffermarsi sulle tempistiche previste per l’utilizzo dei corpi a seguito del decesso. Va innanzitutto ricordato che la l. 578/1993 identifica “giuridicamente” la morte con la morte cerebrale, ossia con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Tale condizione può concretizzarsi sia per un arresto della circolazione sanguigna che si protragga per almeno 20 minuti, sia per una lesione definitiva dell’intero cervello. In quest’ultimo caso i medici sono tenuti ad eseguire accertamenti clinici accurati per stabilire quale sia la causa precisa della lesione nonché la presenza delle seguenti condizioni: stato di incoscienza; assenza di tutti i riflessi del tronco dell’encefalo; assenza di respiro spontaneo dopo la massima stimolazione (test di apnea); assenza di attività elettrica cerebrale dell’encefalogramma alle massime amplificazioni18. In ogni caso, la durata dell’osservazione ai fini dell’accertamento della morte non può essere mai inferiore alle sei ore per gli adulti e per i bambini di età superiore ai sei anni; negli altri casi, devono essere svolti ulteriori test di accertamento. L’art. 1, co. 3 e 4 della legge in commento richiede, per l’utilizzo dei corpi a fini di studio, ricerca e formazione, innanzitutto – e come appare ovvio – l’accertamento del decesso mediante certificato rilasciato ai sensi della citata normativa: tale espressa previsione risulta superflua dal momento che, in caso contrario, non potrebbe parlarsi né di “cadaveri” né di corpi e tessuti “post mortem”. Inoltre, è richiesto che, dopo il decesso e la dichiarazione di morte, il corpo del defunto debba restare all’obitorio per almeno ventiquattro ore prima di poter essere destinato allo studio, alla formazione e alla ricerca scientifica. Non vengono indicate le ragioni di questa “attesa”, né gli eventuali
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Cfr. art. 9, l. 10/2020. Cfr. D.M. 22 agosto 1994, n. 582 del Ministero della Sanità (“Regolamento inerente alle modalità per l’accertamento e la certificazione di morte”), aggiornato dal D.M. 11 aprile 2008, n. 136 del Ministro della Salute.
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accertamenti o attività che debbano essere compiute durante questa fase di stallo. L’unica ragione che sembra potersi ricondurre a questa previsione è quella di accertare che non si sia trattato di un caso di c.d. “morte apparente”, mettendo così in dubbio il criterio della morte cerebrale, applicato dal nostro ordinamento positivo in base alle disposizioni della l. 578/199319. Se effettivamente la ragione – ed i relativi dubbi – sono questi, allora il legislatore non dovrebbe forse rivedere l’intero sistema di accertamento dei decessi, prevedendo periodi di osservazione maggiori per tutti i defunti, e non soltanto per coloro che hanno deciso di donare il proprio corpo alla scienza?
3. L’atto di manifestazione del consenso. L’aspetto più importante disciplinato dalla legge è la manifestazione, da parte di ciascun cittadino, del consenso all’utilizzo del proprio corpo per le finalità sopra analizzate. L’articolo 3, in particolare, disciplina in modo dettagliato la forma ed il contenuto della manifestazione di consenso (che nel prosieguo, per comodità espositiva, chiameremo anche MdC), non senza dare luogo, però, ad alcuni profili di criticità e di dubbio interpretativo. La citata norma rimanda espressamente all’art. 4, co. 6, l. 219/2017, dettato in materia di disposizioni anticipate di trattamento, che a sua volta dispone che le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, […] oppure presso le strutture sanitarie […]. Pertanto, la manifestazione del consenso all’utilizzo del proprio cadavere post mortem deve avvenire mediante un atto inter vivos – e non mortis causa, come avveniva in epoca passata, quando l’istituto non era ancora disciplinato, alla stregua di quanto accade tutt’oggi in merito alla donazione degli organi20 – che può rivestire la forma dell’atto pubblico, della scrittura privata autenticata oppure semplice. Non si comprende se, in quest’ultimo caso, il disponente debba consegnare l’atto sia all’ufficio dello stato civile che all’azienda sanitaria di appartenenza oppure solamente a quest’ultima, la quale è sempre obbligata a conservarla e a trasmetterne telematicamente i contenuti informativi alla banca dati di cui si dirà infra. Aderendo alla prima tesi21, si pone il problema della possibilità di produrre più originali della medesima dichiarazione ovvero del rilascio di copie conformi della stessa. In altre parole, se più enti devono conservare l’atto di manifestazione del consenso, il disponente dovrebbe essere chiamato a produrre più originali del medesimo atto – ma ciò non è espressamente ammesso e potrebbe dar luogo a dubbi in merito all’autenticità
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Cfr. C.A. Defanti, voce: “Morte cerebrale e coma” in Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, Roma, 2007. Cfr. Capozzi, Ferrentino, Ferrucci, op. cit. 21 Tesi che pare essere avallata anche dall’Ufficio Studi della Camera dei Deputati - Affari Sociali - Welfare, provvedimento 5 marzo 2020. 20
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e alla validità del documento – oppure dovrebbero essere prodotte delle copie autentiche dell’(unico) originale, con tutte le problematiche che tale tipo di documento genera22. Inoltre, secondo il tenore letterale della norma in esame, sembrerebbe che tutte le dichiarazioni rese ex art. 3, l. 10/2020, anche se redatte o autenticate da un Notaio, debbano essere consegnate all’azienda sanitaria, la quale dovrà conservarle e curarne la trasmissione telematica di cui si è detto. Anche in questo caso, dal momento che la norma non fa riferimento a “copie”, sembrerebbe che l’originale dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata debba essere conservato non dal Notaio, mediante inserimento nella propria raccolta a garanzia della certezza di conservazione, bensì dall’azienda sanitaria (con modalità non chiare e non disciplinate). Tale interpretazione, aderente alla lettera della norma, genera innanzitutto una seria incompatibilità con il disposto di cui agli articoli 66 e 70 della legge notarile, secondo cui il notaio può rilasciare in originale alle parti soltanto gli atti che contengono procure alle liti, o procure o consensi od autorizzazioni riguardanti gli atti necessari alla esecuzione di un solo affare, o delegazioni per l’esercizio del diritto di elettorato. Inoltre, appare senza dubbio più idoneo, in termini di garanzia per la corretta conservazione, che le originali manifestazioni di consenso siano conservate nella raccolta degli atti del Notaio rogante o autenticante. Si ritiene dunque preferibile applicare anche all’istituto in esame i principi generali in materia di conservazione: gli atti pubblici dovranno essere conservati necessariamente dal Notaio mediante inserimento nella propria raccolta; le scritture private autenticate – che dovrebbero essere rilasciate in originale, salvo contrario desiderio delle parti –, stanti le lacune normative in merito alla conservazione delle stesse, si ritiene preferibile che siano anch’esse conservate nel fascicolo degli atti del Notaio autenticante23. Si ricorda poi che, per espressa disposizione normativa, gli atti in parola sono esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. La dottrina ritiene che tale ampia formulazione comprenda anche l’esenzione dalla “tassa archivio” notarile e pertanto l’atto sconterà solamente i contributi ed i diritti da corrispondere alla Cassa ed al Consiglio Nazionale24. Oltre alla conservazione, anche per le manifestazioni di consenso è previsto l’obbligo di trasmissione alla Banca Dati istituita e regolata dall’art. 1, co. 418, l. 205/2017 e dal Decreto 10 dicembre 2019 n. 168. La Banca Dati DAT è predisposta per ricevere sia i dati relativi all’atto contenente le disposizioni, che una copia autentica informatica dell’atto stesso. Mentre per le DAT il disponente può acconsentire o meno all’invio della copia
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Cfr. art. 18 del D.P.R. 445/2000, in merito alla sola documentazione amministrativa; art. 1, l. 89/1913; art. 1 R.D.L. 1666/1937. In tutti i casi, non è pacifico che un Notaio, o un altro pubblico ufficiale abilitato, possa validamente rilasciare copia autentica di un documento portante la sola sottoscrizione di un privato, in quanto in questi casi non può aversi certezza in merito alla provenienza del documento stesso (se non a mezzo dell’autenticazione delle firme, che, come si è visto, integra una differente forma dell’originale documento). 23 Cfr., in materia di DAT, C. Romano, Le Disposizioni Anticipate di Trattamento, Studio del C.N.N. n. 136-2018/C. 24 Romano, op. cit.
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dell’atto, per le MdC non pare essere prevista tale facoltà: copia dell’atto deve sempre essere trasmessa da parte dell’azienda sanitaria competente. La trasmissione deve avvenire, con espressione mutuata dal codice civile, “senza indugio” (art. 3, co. 2 DM 168/19). La Banca Dati è alimentata, secondo le disposizioni del decreto attuativo citato, dagli ufficiali di stato civile dei comuni di residenza dei disponenti, o loro delegati, nonché dagli ufficiali di stato civile delle rappresentanze diplomatiche o consolari italiane all’estero; dai notai e dai capi degli uffici consolari italiani all’estero, nell’esercizio delle funzioni notarili; dai responsabili delle unità organizzative competenti. Tale assunto sembra essere derogato dall’art. 3 della legge in commento, laddove si prevede che la dichiarazione è consegnata all’azienda sanitaria di appartenenza cui spetta l’obbligo […] di trasmetterne telematicamente i contenuti informativi alla banca dati. Anche in questo caso non si comprende per quale motivo non possa essere il pubblico ufficiale rogante o autenticante (oppure l’ufficiale dello stato civile presso cui è depositata la MdC) a trasmettere i dati della stessa alla Banca Dati, ma debba essere previsto un ulteriore adempimento a carico del disponente, con maggior spendita di tempo e duplicazione del lavoro; sarebbe molto più semplice, economico e celere che il medesimo soggetto che riceve la dichiarazione (direttamente o indirettamente) provveda a trasmetterne la copia ed i dati all’organismo centrale, riducendo notevolmente gli oneri a carico del disponente. In ogni caso, dal tenore letterale della norma non pare che tali adempimenti (consegna e conservazione della copia della MdC e trasmissione alla Banca Dati) influiscano sulla validità e/o sull’efficacia della dichiarazione di volontà resa dal disponente, ma siano prescritte, con funzione analoga alle altre forme di “pubblicità-notizia” previste dall’ordinamento, solamente per rendere più semplice il reperimento dei dati e delle informazioni e la verifica dell’autenticità delle dichiarazioni rese in vita dal disponente. Conclusivamente, si ritiene che il contrasto tra le disposizioni contenute nel Decreto 10 dicembre 2019 n. 168 e l’art. 3 della l. 10/2020 sia dovuto ad un difetto di coordinamento: quando la legge in parola è stata emanata, difatti, il Decreto era appena stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e molto probabilmente non è stato possibile recepire nella prima le concrete modalità di funzionamento dettate dal secondo. Aderendo a questa tesi, nulla impedisce (ma, anzi, si rende preferibile) che siano proprio i Notai (o gli ufficiali di stato civile) e non le aziende sanitarie a trasmettere telematicamente le MdC alla Banca Dati: per tali soggetti infatti sono già dettate le norme da applicare e sono stati predisposti degli strumenti appositi per espletare tali adempimenti25, mentre per le aziende sanitarie, ad oggi, non sono disciplinate le modalità di trasmissione; pertanto, ove
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Si ricorda che per i Notai è stata predisposta un’apposita procedura per la trasmissione delle DAT tramite la Rete Unitaria del Notariato (portale web per i servizi notarili), mentre gli ufficiali di stato civile devono ricorrere ad un modulo elettronico compilabile online dal portale del Ministero, che al termine della compilazione genera un file crittografato da inviare via PEC contenente i dati necessari alla registrazione della DAT nella Banca dati nazionale, gli eventuali allegati e la DAT, se prevista. Non esiste, attualmente, una disciplina di procedure analoghe per le aziende sanitarie, rendendo concretamente inattuabile la prescrizione di cui al citato articolo della legge.
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non si ritenessero legittimati, in via concorrente e alternativa, anche gli ulteriori soggetti citati, l’intera normativa in esame non potrebbe trovare applicazione. Un ulteriore aspetto di particolare interesse è la necessaria nomina di un “fiduciario”. La designazione di tale soggetto, mentre nel caso delle DAT è facoltativa, non può invece mancare nelle MdC. Al fiduciario, che deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, spetta l’onere di comunicare l’esistenza del consenso specifico al medico che accerta il decesso. Esso deve necessariamente accettare l’incarico, che, in seguito, potrà poi sempre rifiutare, come potrà essere revocato dal disponente in qualsiasi momento. Dalla lettura delle norme che disciplinano la figura del fiduciario, sorgono due problematiche di difficile soluzione, che attengono alle ragioni della necessità della nomina di tale figura, da un lato, e dell’accettazione dell’incarico nel medesimo atto di manifestazione del consenso, dall’altro. Sotto il primo profilo, non si comprende per quale motivo non possa esistere una MdC senza la nomina di un fiduciario: merita ricordare che l’art. 4, co. 4, l. 219/2017 prevede espressamente la figura del fiduciario come facoltativa, laddove dispone che nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente. Una previsione analoga non è presente in materia di MdC ed appare irragionevole che un Notaio non possa ricevere o autenticare un atto in cui il disponente intenda limitarsi ad esprime il proprio libero consenso, senza procedere alla nomina del fiduciario, soprattutto alla luce del ruolo meramente strumentale che tale soggetto riveste nella fattispecie. Nel silenzio della norma, non pare che l’assenza di tale elemento comporti la nullità dell’atto e pertanto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 27 e 28 l. not., il Notaio non potrà rifiutarsi di ricevere un atto che contenga la sola manifestazione del consenso e, come si vedrà a breve, non pare che tale contenuto limitato possa essere affetto da cause di invalidità, in quanto giuridicamente autonomo. Si aggiunga che risulterebbe più ragionevole e giustificata la previsione di una nomina obbligatoria del fiduciario in ambito di DAT piuttosto che di MdC. Il fiduciario di un disponente ex l. 219/2017, difatti, deve relazionarsi con i medici curanti, esprimendo le volontà di una persona ancora in vita e prendendo decisioni in merito alle pratiche terapeutiche da mettere in atto o meno. Come si è visto, invece, il fiduciario di un disponente di MdC ha il mero ruolo di rendere nota – al medico che accerta il decesso – l’esistenza della manifestazione di consenso. È evidente che nel primo caso potrebbe essere giustificato l’obbligo normativo di nominare una persona di fiducia che agisca in nome e per conto del disponente, mentre nel secondo caso non si rintracciano fondati motivi che giustifichino la necessità della nomina di un fiduciario. In relazione al secondo problema, va premesso che nella disciplina delle DAT, l’accettazione del fiduciario – ove nominato – avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che è allegato alle DAT, mentre, ai sensi dell’art. 3, co. 3 della legge, l’accettazione della nomina da parte del fiduciario […] avviene attraverso la sottoscrizione della dichiarazione di consenso. Non si comprende, innanzitutto, la diversità di disciplina tra le omologhe figure nelle due norme e, in particolare, non si capisce per quale motivo
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il fiduciario – eventualmente non fisicamente presente nel momento, magari critico, in cui il disponente decide di manifestare la propria volontà – non possa accettare l’incarico in un momento successivo, con un differente atto collegato al primo. Anzi, tale aspetto potrebbe, in determinati casi, influire – limitandola – sulla libera determinazione del disponente, il quale dovrà scegliere un fiduciario che, in concreto, possa essere fisicamente presente al momento della manifestazione del suo consenso, per sottoscriverne il relativo atto. Dalla formulazione letterale della norma, poi, sembra che il rapporto tra disponente e fiduciario sia del tutto assimilabile a quello che intercorre tra mandante e mandatario26: se così è, allora l’atto in esame integra a tutti gli effetti un contratto, che si perfeziona con la (necessaria) accettazione del fiduciario. Risulta, però, eccessivo ritenere che il legislatore abbia voluto condizionare l’intero atto (composto da dichiarazione di consenso e nomina del fiduciario) all’accettazione di tale soggetto “strumentale”; tenendo a mente la ratio della legge, come ampiamente esposta in precedenza, non potrà dunque negarsi efficacia ad un atto formalmente valido che contenga solamente la manifestazione del consenso oppure anche la nomina del fiduciario non accompagnata dall’accettazione di quest’ultimo, qualora i medici e le autorità competenti possano venire a conoscenza dell’atto medesimo con altri mezzi, diversi dalla comunicazione del fiduciario. Da ciò discende che, secondo un’interpretazione per così dire “adeguatrice”, può ritenersi che la nomina (e accettazione) del fiduciario siano necessarie ai soli fini della certezza di conoscibilità della MdC in seguito alla morte del disponente, ma non ai fini della validità dell’intera manifestazione di consenso. Riassumendo, pertanto, l’atto disciplinato dall’articolo 3 della legge si compone di due parti: la dichiarazione unilaterale del disponente in merito alla volontà di destinare il proprio cadavere, parte di esso o i propri tessuti post mortem allo studio, ricerca e formazione scientifica, e il “contratto” di nomina ed accettazione del fiduciario; tali contenuti sono autonomi e, in particolare, l’invalidità o la mancanza del secondo non potrà, a parere di chi scrive, inficiare la validità e l’efficacia del primo. La disposizione contenuta nel comma 5, poi, nel riprodurre esattamente la disciplina in materia di DAT, prevede che il disponente [possa] revocare il consenso in qualsiasi momento con le modalità prescritte dal comma 1. […] Nei casi in cui ragioni di emergenza ed urgenza impedissero di procedere alla revoca del consenso già manifestato con le forme di cui al comma 1, essa può essere espressa con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni. Bisogna chiedersi perché la disposizione ribadisca la possibilità della dichiarazione verbale o della videoregistrazione – precisazione non necessaria in quanto sarebbe stato sufficiente il richiamo al comma 1, che a sua volta rimanda all’art. 4, co. 6, l. 219/2017 – e soprattutto come mai non sia stata
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Si ricordi che il Consiglio di Stato, nel parere n. 01991/2018 del 31 luglio 2018 resto in tema di DAT ha qualificato la nomina del fiduciario in termini di “mandato revocabile ad nutum” e che, a tale impostazione, ha aderito anche il Consiglio Nazionale del Notariato nel citato Studio n. 136-2018/C.
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riprodotta l’analoga fattispecie anche in merito alla manifestazione del consenso vera e propria, ma soltanto per la sua revoca. A voler interpretare la disposizione in maniera restrittiva, potrebbe concludersi che non sia consentito esprimere il proprio consenso in materia tramite dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico alla presenza dei testi – e dunque sarebbe impedito esprimere la propria volontà laddove circostanze di emergenza non consentissero il ricorso ai mezzi ordinari – ben potendosi, invece, revocare il consenso già prestato, utilizzando tali modalità. Il legislatore sembra preoccuparsi più di assicurare la possibilità di revocare un consenso già manifestato (impedendo così l’utilizzo del cadavere e/o dei tessuti post mortem) piuttosto che di permettere la libera espressione della volontà dei soggetti in qualsiasi circostanza, anche emergenziale o critica. Come si è visto, però, sembra necessario dover tenere sempre a mente la ratio e le finalità della norma: partendo, dunque, dal presupposto che il rimando all’art. 4, co. 6, l. 219/2017 contenuto nel comma 1 (e, indirettamente, nel comma 5) dell’art. 3 della legge non prevede nessuna limitazione o deroga, pare preferibile ritenere che sia la manifestazione del consenso che la sua revoca, in situazioni di emergenza e urgenza, possano essere espresse con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni27. Un ultimo cenno merita la disposizione di cui al comma 6 dell’articolo in commento, a norma del quale per i minori di età il consenso all’utilizzo del corpo o dei tessuti post mortem deve essere manifestato nelle forme di cui al comma 1 da entrambi i genitori esercenti la responsabilità genitoriale ovvero dai tutori o dai soggetti affidatari ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184. La revoca di cui al comma 5 è espressa anche da uno solo dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma. Anche in questo caso non può non porsi un interrogativo in merito all’effettiva necessità e opportunità di una disposizione siffatta. Innanzitutto deve ritenersi – nonostante la legge nulla disponga – che il consenso eventualmente manifestato dai genitori/tutori perda efficacia nel momento in cui il minore raggiunga la maggiore età; sarebbe, infatti, irragionevole che un soggetto, una volta divenuto pienamente capace di agire e di autodeterminarsi, restasse automaticamente sottoposto ad una manifestazione di consenso non proveniente da lui e magari a lui ignota. Se così è, allora non sarebbe più agevole se i genitori o i tutori fossero chiamati a esprimere la loro volontà solamente a seguito dell’eventuale decesso del minore e non in via anticipata, tramite MdC?28 La disciplina della manifestazione del consenso, così come quella in materia di DAT, si è resa necessaria perché, nel momento in cui concretamente deve attuarsi la volontà del soggetto, questo è impossibilitato ad esprimerla e pertanto è necessario che siano normate le modalità con cui lo stesso, in un momento precedente, possa manifestare il proprio consenso o dissenso, mediante una dichiarazione “ora per allora”
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Si noti che, aderendo a tale impostazione, non sarà possibile che nel medesimo “atto” sia contenuta la nomina ed accettazione del fiduciario: ciò non osta alla validità della disposizione, stando alla tesi e alle argomentazioni sopra esposte. 28 Un procedimento affine a quello qui proposto come preferibile è previsto dall’art. 3, l. 219/2017 in materia di DAT.
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che abbia efficacia pro futuro. Tali esigenze non sussistono nel caso dei minori, laddove la manifestazione del consenso debba comunque essere espressa dai legali rappresentanti del soggetto. In conclusione, si ritiene che la disposizione in parola, oltre ad essere di dubbia utilità, dia luogo a numerose criticità che dovranno essere risolte caso per caso, sempreché il legislatore non intenda intervenire sul punto. Oltre alla già accennata auspicabile revocazione automatica della MdC al momento del raggiungimento della maggiore età del minore, si pensi all’ipotesi in cui concretamente i genitori non abbiano manifestato il consenso de quo durante la vita del proprio figlio ma, a seguito del prematuro decesso di quest’ultimo, intendano comunque destinare il suo cadavere alla ricerca: la legge permette questa fattispecie, oppure è richiesto che la MdC espressa dai legali rappresentanti del minore sia sempre resa prima del decesso di quest’ultimo affinché sia efficace?
4. La vicenda effettuale. Le concrete modalità di “assegnazione” dei cadaveri per le finalità indicate sono disciplinate dagli articoli 4, 5 e 6 della legge. In primo luogo, vengono istituiti e disciplinati quelli che sono definiti “centri di riferimento” (in appresso anche CdR), ossia le strutture universitarie, le aziende ospedaliere di alta specialità e gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), individuati dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca29, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le regioni, cui spetta la conservazione e l’utilizzazione dei corpi dei defunti ai fini di cui alla legge in esame. Tali centri devono svolgere attività – che richiedono il ricorso al cadavere o ai suoi organi o tessuti – che siano conformi ai progetti di ricerca scientifica per i quali il comitato etico indipendente territorialmente competente abbia rilasciato parere favorevole, fatta eccezione per l’attività chirurgica di formazione in linea con i percorsi didattici dei centri di riferimento autorizzati, che non richiede il parere predetto ma la sola autorizzazione da parte della direzione sanitaria della struttura di appartenenza. L’elenco dei CdR è istituito presso il Ministero della salute ed è consultabile sul sito internet di tale ente. È altresì previsto che tale elenco sia aggiornato tempestivamente, al fine di rendere più completa ed agevole l’individuazione del centro volta per volta competente per territorio30.
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V’è da chiedersi se, a seguito dell’emanazione del D.L. 1/2020, convertito con modificazioni dalla l. 5 marzo 2020, n. 12, che ha istituito il Ministero dell’istruzione e il Ministero dell’Università e della ricerca ed ha conseguentemente soppresso il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, la competenza di cui alla disposizione in esame debba interpretarsi attribuita ad entrambi i nuovi dicasteri oppure solamente al Ministero dell’università e della ricerca; appare preferibile questa seconda impostazione, alla luce delle finalità e degli ambiti di concreta applicazione delle disposizioni in parola. 30 Come si vedrà, dunque, non è mai possibile per il disponente indicare un determinato centro di riferimento oppure una categoria di centri a cui destinare il proprio corpo: ciò si pone in linea con l’interesse pubblico perseguito dalla disciplina in esame e con la necessità che il consenso espresso per le finalità in parola sia “disinteressato” ed esclusivamente altruistico.
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A seguito del decesso del disponente, dunque, il medico che ne accerta la morte individua nell’elenco predetto il CdR competente, il quale, acquisita per il tramite della Banca Dati la prova del consenso espresso, provvede al prelievo del corpo, dandone notizia all’azienda sanitaria di appartenenza del disponente. Infine, a completamento delle attività cui il corpo è stato destinato, lo stesso deve essere restituito dal relativo CdR alla famiglia, in condizioni dignitose ed entro dodici mesi dalla data della consegna. La legge infine prevede espressamente che gli oneri per il trasporto del corpo dal momento del decesso fino alla sua restituzione e le spese relative alla tumulazione e per l’eventuale cremazione siano poste a carico dei centri di riferimento. Descritto brevemente l’iter previsto dalla legge tra il momento del decesso – con assegnazione del corpo al competente CdR – e la restituzione alla famiglia, vanno ora analizzati alcuni aspetti significativi delle disposizioni citate. Innanzitutto, merita soffermarsi sulle modalità di acquisizione (rectius accertamento, in quanto la “acquisizione”, letteralmente, si ha solo nel momento in cui il consenso viene espresso e “recepito” in un documento) del consenso espresso in vita dal disponente deceduto. Come si è visto, la legge prevede che il medico che accerta il decesso individui – tramite l’elenco nazionale – il CdR competente per territorio e che quest’ultimo accerti l’esistenza di una valida manifestazione del consenso, mediante consultazione della Banca Dati: nulla è detto riguardo al fiduciario e al suo ruolo. Si ricordi che l’articolo 3 prevede che la comunicazione dell’esistenza del consenso al medico che accerta il decesso sia l’unica funzione del fiduciario, al quale è rilasciata una copia della dichiarazione di consenso. Alla luce di questi elementi, risponderebbe forse maggiormente a criteri di economicità, certezza e semplificazione che il fiduciario fosse onerato di esporre al medico predetto la copia in suo possesso della MdC e che fosse quest’ultimo a consultare la Banca Dati, accertandosi dell’effettiva esistenza del consenso (non revocato) prima di individuare il CdR e di avviare la procedura di assegnazione. In secondo luogo, va evidenziato che sono posti a carico dei CdR assegnatari tutti gli oneri e le spese relativi al trasporto e alla sepoltura/cremazione del corpo: tale previsione, se è pacificamente condivisibile in relazione primo aspetto (trasporto), richiede un maggiore approfondimento per quanto attiene al secondo (tumulazione e cremazione). È evidente, difatti, la ragione che rende necessario – o quantomeno opportuno – che le spese per il trasporto al e dal CdR restino a carico di questo ente: ove non sussistesse il consenso de quo, tali spese non dovrebbero essere sopportate dalla famiglia e pertanto è logico e corretto che le stesse siano sostenute da chi trae beneficio dalla dichiarazione del disponente. Invece, in merito alle spese di tumulazione e, eventualmente, di cremazione, si può forse pensare che il legislatore abbia previsto che l’onere relativo alle stesse resti a carico dei CdR quale incentivo per i cittadini a manifestare il consenso per le finalità perseguite dalla legge. Inoltre, può ritenersi che le spese poste a carico del centro di riferimento vadano viste come riconoscimento per i benefici tratti dal medesimo nella propria attività e nel perseguimento dei propri scopi statutari e/o legali, grazie alla “donazione” del disponente. Infine, dalla lettura dell’articolo 8 della legge emerge che la famiglia del disponente possa richiedere di non vedersi restituito il corpo: in tal caso è evidente che la
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sepoltura resti a completo carico del CdR e pertanto, ove non fosse previsto che in tutti i casi le predette spese gravino sull’ente di ricerca, si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento e si genererebbe il rischio che le famiglie meno abbienti rinuncino a seppellire autonomamente il corpo pur di non doverne sopportare le relative spese. Un ultimo cenno merita il primo comma dell’articolo 6, laddove prevede che i CdR siano tenuti a restituire il corpo […] alla famiglia in condizioni dignitose entro dodici mesi dalla data della consegna. L’aggettivo utilizzato, non giuridico, più che alla condizione in cui può trovarsi un corpo morto, rimanda ad un sentimento ed attiene ai comportamenti messi in atto coscientemente da un soggetto per serbare intatta la propria dignità. Quest’ultima è definita31 quale condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo: con l’utilizzo di tale termine, allora, il legislatore ha voluto porre l’accento sulla necessità di non violare il decoro e la nobiltà morale di ciascun soggetto, nemmeno a seguito della morte, tutelandone il rispetto per la predetta condizione di dignità, appunto. Nonostante ciò, va detto che l’utilizzo di un termine così vago e di incerta interpretazione potrebbe dar luogo a numerose difficoltà per coloro che saranno eventualmente chiamati a valutare un’ipotetica violazione della norma da parte dei CdR, al fine di vagliare la responsabilità di questi ultimi in ambito civile e, forse, anche penale. Non è prevista, difatti, una specifica sanzione per il mancato rispetto della prescrizione predetta e pertanto un’eventuale violazione darebbe certamente luogo ai presupposti per il risarcimento del danno per responsabilità aquiliana nonché, probabilmente, nelle ipotesi di danno commesso con dolo, potrebbe integrare il reato di cui all’art. 410 c.p. Va infine evidenziato che, dalla lettura organica delle disposizioni citate, emerge che il legislatore, nel disciplinare l’iter di assegnazione dei corpi ai CdR, abbia voluto tutelare sia l’esigenza di evitare un utilizzo troppo diffuso dei corpi e dei tessuti – prevedendo che i centri autorizzati siano solo quelli i cui progetti di ricerca scientifica abbiano superato il positivo vaglio del comitato etico indipendente territorialmente competente – sia l’esigenza di bilanciare la tutela della persona e della dignità umana con il diritto alla ricerca scientifica – vietando implicitamente che si possa condizionare la manifestazione di consenso all’utilizzo del cadavere presso un centro di riferimento individuato dal disponente oppure scelto all’interno di una categoria di centri individuata dal medesimo. In altre parole, il consenso espresso dal disponente dovrà sempre essere “disinteressato” ed esclusivamente altruistico, per esigenze di uguaglianza, proporzionalità ma anche di economicità32.
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Cfr. Voci “dignità” e “dignitoso”, in Treccani, Vocabolario online. Dal momento che le spese per il trasporto sono a carico del CdR assegnatario, la norma tende a tutelare anche l’esigenza che il centro sia individuato in prossimità del luogo ove è avvenuto il decesso, a cui il cadavere potrà giungere in breve tempo e con costi contenuti.
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5. Ulteriori aspetti controversi e criticità. Restano da analizzare alcuni ulteriori elementi, contenuti nelle norme della legge, che generano taluni dubbi e perplessità. La prima di queste disposizioni è quella dettata dall’articolo 7, già analizzato, laddove prevede che l’utilizzo del corpo umano, di parti di esso, o dei tessuti post mortem non può avere fini di lucro: a tal riguardo, si è detto che, da tale assunto, si ricava che la concreta destinazione dei cadaveri compete agli organi preposti, a favore di istituti determinati dall’ordinamento e per le sole finalità pubblicistiche sopra esaminate. Esaminando più accuratamente la lettera della norma, ci si accorge però che il termine utilizzato dal legislatore può dare luogo ad un dubbio interpretativo: ciò che non può avere fine lucrativo è solamente l’utilizzo del corpo oppure anche la manifestazione di consenso a tale utilizzo? In altre parole, qualora un soggetto si determini a disporre del proprio corpo post mortem per trarre, dalla propria manifestazione di consenso, un lucro personale immediato ed attuale, tale finalità integrerebbe la causa o, comunque, il motivo determinante della disposizione: nulla è detto in merito alla validità di una disposizione espressa con tale scopo soggettivo. Come si è visto, sia la manifestazione del consenso che il concreto utilizzo del cadavere post mortem per finalità di ricerca, formazione o studio, per essere in linea con i principi costituzionali e non contrastare con l’ordine pubblico, devono risultare incondizionati, altruistici, liberi e puri: il perseguimento di un lucro soggettivo al momento della manifestazione del consenso non pare potersi conciliare con tali principi. Si deve però capire se un’eventuale MdC espressa solamente per scopo lucrativo, anche se non esplicitamente manifestato, debba comunque ritenersi valida oppure se sia affetta da nullità per illiceità della causa o del motivo determinante (per contrarietà all’ordine pubblico). Da una lettura organica delle norme in esame, emerge l’attenzione del legislatore nel tutelare la volontà libera e incondizionata del disponente, laddove si prevede la possibilità di revoca in ogni momento – anche tramite dichiarazione verbale – oppure la revocabilità del fiduciario senza obbligo di motivazione: tali elementi fanno propendere per la tesi dell’invalidità di una MdC di cui sia accertata l’illiceità della causa o del motivo determinante, come sopra analizzati, con conseguente impossibilità di utilizzo del cadavere del disponente. Ragionando diversamente, sarebbe comunque difficile ritenere che, ove una MdC sia stata accompagnata da un fine lucrativo, il successivo utilizzo del relativo cadavere non persegua, nemmeno indirettamente, tale finalità e pertanto, in ogni caso, si ricadrebbe nel divieto posto dall’art. 7 in parola. Un ulteriore aspetto critico è rappresentato dal combinato disposto degli articoli 6 e 9: il primo, come visto, dispone che gli oneri di trasporto e tumulazione/cremazione restino a carico dei CdR, che provvedono nell’ambito delle risorse destinate ai progetti di ricerca; la seconda norma prevede che dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni pubbliche interessate alla relativa attuazione vi provvedono con le sole risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. È evidente che tali disposizioni – unitamente al predetto
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divieto di perseguire finalità lucrative – costituiscano un ostacolo all’utilizzo dei cadaveri per le finalità indicate dalla legge e potrebbero portare all’assurda conseguenza che ci sia ipotetica disponibilità di cadaveri ma una concreta impossibilità di utilizzarli, per carenza di fondi economici in capo agli enti interessati. Sopperisce in parte a tale criticità la disposizione contenuta nell’art. 7, co. 2, secondo cui eventuali donazioni di denaro effettuate da privati a fini di studio, di formazione e di ricerca scientifica mediante uso dei corpi dei defunti o derivanti dalla finalizzazione di progetti di ricerca sono destinate alla gestione dei centri di riferimento. Infine, merita un approfondimento la previsione del regolamento attuativo di cui all’articolo 8, mediante il quale verranno: stabilite le modalità e i tempi per la conservazione, per la richiesta, per il trasporto, per l’utilizzo e per la restituzione del corpo del defunto; indicate le cause di esclusione dell’utilizzo dei corpi dei defunti; previste disposizioni di raccordo con l’ordinamento dello stato civile; disciplinate le iniziative informative per medici e cittadini. La prassi di demandare ad una successiva fonte secondaria del diritto le modalità pratiche di attuazione di una disposizione di legge è sempre più frequente nella produzione legislativa degli ultimi anni, nel nostro ordinamento. Spesso però, la mancata emanazione di tali regolamenti nei termini previsti – che sono meramente indicativi e ordinatori, mai perentori, non essendo nemmeno previste sanzioni o conseguenze per il ritardo – rende del tutto inapplicabili le disposizioni primarie33. Nel caso in esame, v’è da chiedersi se l’intera legge resti inapplicabile sino all’emanazione del predetto decreto oppure se alcune norme siano, per così dire, self-executing e pertanto possano essere da subito applicate. Mentre le disposizioni che attengono al concreto utilizzo dei cadaveri post mortem (articoli 4-7) necessitano sicuramente della predetta regolamentazione, non vi sono invece ragioni per non applicare immediatamente l’articolo 3: pertanto, si ritiene possibile ricevere atti di manifestazione di consenso in materia, pur essendo opportuno che il Notaio o l’ufficiale di stato civile rendano edotto il disponente in merito alla criticità generata dalla mancata emanazione del regolamento attuativo e pertanto che, allo stato attuale, non sarebbe possibile dare seguito alla dichiarazione di volontà dallo stesso espressa. Infine, in merito alle iniziative informative, seppure il decreto dovrà indicarne la disciplina, non pare vietato che gli enti preposti inizino sin d’ora autonomamente a rendere edotti il personale sanitario e i cittadini in merito al contenuto della legge.
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Si pensi, ex multis, alla citata l. 91/1999, in materia di donazione degli organi; alla l. 22 dicembre 2017, n. 219 (in materia di DAT) il cui Decreto attuativo è stato emanato solamente il 10 dicembre 2019; oppure ancora, in materia di Enti del Terzo Settore, al d.lgs. 117/2017, in relazione al quale il regolamento istitutivo del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore non è ancora stato emanato.
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6. Auspici futuri. L’emanazione della l. 10/2020 è stata vista con favore nell’ambiente medico-scientifico, in quanto volta a disciplinare un aspetto importante, quale la didattica e lo studio su materiale cadaverico, che per gli studenti di medicina e delle professioni sanitarie nonché per gli specialisti nelle discipline chirurgiche rappresenta ancora oggi una necessità ineludibile. Come si è visto, l’utilizzo di nuove tecnologie o della simulazione non può sostituire completamente il ruolo del cadavere per scopi di formazione, studio e ricerca e, quindi, per migliorare la qualità delle conoscenze e delle cure di cui godranno i pazienti di domani34. Le lacune e la nebulosità della disciplina previgente hanno reso questa pratica notevolmente trascurata ed inattuata nel nostro Paese, se non ricorrendo all’acquisto di cadaveri dall’estero, con un esorbitante utilizzo di risorse economiche. Se la legge ha il pregio di aver cercato di disciplinare in maniera organica e compiuta la materia, d’altro canto, però, la stessa genera numerose criticità e dubbi interpretativi, i principali dei quali sono stati analizzati nel presente lavoro. Si auspica che ad alcuni di essi sopperisca l’emanando decreto attuativo, previsto dall’articolo 8; si auspica altresì, e con maggior vigore, che tale regolamento sia pubblicato, se non entro i termini previsti35, comunque in tempi brevi per permettere di applicare la legge nella sua interezza al più presto. Infine, si può ottimisticamente auspicare che lo strumento utilizzato dalla legge in parola per l’espressione del proprio consenso, ossia il rimando all’atto di disposizione anticipata di trattamento di cui alla l. 219/2017, possa finalmente dare uno sprone al definitivo sblocco della stasi in materia di donazione degli organi, cui si sta assistendo dal 1999. Come si è visto, difatti, la l. 91/1999, che prevede che i cittadini siano tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte e che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione, non può ancora essere applicata in quanto le modalità di espressione del predetto consenso devono essere dettate da un decreto del Ministro della sanità (ora della salute) da adottarsi – secondo la lettera di tale legge – entro il 16 luglio 1999 e ad oggi ancora mancante. L’utilizzo di un procedimento affine a quello dettato dalla l. 10/2020 anche per queste disposizioni potrebbe rappresentare la svolta per addivenire all’applicazione delle predette norme e dunque per rendere effettiva la disciplina legale sulla donazione degli organi, materia di vitale importanza per la costante necessità di reperimento di organi e tessuti per la cura dei pazienti.
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Cfr. G. Bolino, Questionario: Legge 10/2020 donazione corpo alla scienza, consultabile su www.simlaweb.it/2020/05/23/questionariolegge-10-2020-mortui-vivos-docent-donazione-corpo-alla-scienza/ (ultima consultazione: 24 maggio 2020). 35 Il decreto avrebbe dovuto essere emanato entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge, e pertanto entro il 19 giugno 2020. Bisogna però considerare i ritardi e la diluizione di tempi dovuti al perdurare dell’emergenza sanitaria in atto (“Covid-19”).
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La rinunzia alla prelazione ereditaria* Sommario : 1. La prelazione del coerede. – 2. La ratio dell’istituto. – 3. La rinunzia alla prelazione e al riscatto. – 4. (Segue). La forma e gli effetti della rinunzia.
The hereditary pre-emption is the right of the co-heirs to be preferred over third parties if one of the other co-heirs decides to sell the entire inherited share or parts of it. Strengthened by the right to redeem the share from the buyers, it ensures the right of the co-heirs to have their inherited share extended by avoiding the fragmentation of the inheritance and the third parties’ participation in it. Since the rights to hereditary pre-emption and redeem the share from the buyers are meant to protect private interests, of which private parties can therefore freely dispose, the question of whether they can be waived by the co-heirs is usually answered in the positive. However, while the waiver is admissible before the co-heirs are notified of a proposal of alienation of the inherited share, it cannot take place before the opening of the succession.
1. La prelazione del coerede. L’art. 732 c.c. è notoriamente una disposizione a carattere eccezionale1, della quale è stata contestata la collocazione2, specificamente dettata in tema di comunione ereditaria
* 1
2
Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. In tal senso in dottrina G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2009, 1422; P. Forchielli-F. Angeloni, Della divisione, art. 713768, in Comm. Scialoja Branca, II ed., Bologna-Roma, 2000, 167 ss.; C. Coppola, La disponibilità della quota ereditaria. Il diritto di prelazione del coerede, in Tratt. dir. succ. e don., diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, 73; in giurisprudenza Cass., 23 febbraio 2007, n. 4224, in Notariato, 2007, 5, 492; Cass., 22 ottobre 1992, n. 11551, in Rass. dir. civ., 1995, 422. Essa non riguarda infatti la disciplina dettata in tema di divisione e va anche considerata una deroga alle normali regole in tema di comunioni ordinarie ove è specificamente prevista la libera trasferibilità delle quote (art. 1103 c.c.); a queste ultime non è quindi applicabile ai sensi dell’art. 1116 c.c. Al riguardo, in dottrina si vedano G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, in Rass. dir. civ., 1995, 235; G. Bonilini, La prelazione volontaria, Milano, 1984, 24; in giurisprudenza Cass., 21 maggio 2018, n. 12504,
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e le cui origini risalgono al Codice napoleonico, non riprodotta nel codice civile del 1865 poiché ritenuta eccessivamente stringente dell’autonomia negoziale3. Essa prevede un’ipotesi di prelazione legale propria in favore dei soggetti chiamati ad una medesima eredità non ancora divisa. Il coerede che voglia alienare ad un terzo estraneo (per tale dovendosi identificare chiunque non sia compartecipe all’eredità4) la propria quota (in tutto o in parte) è infatti tenuto a notificare la proposta di alienazione con l’indicazione del relativo prezzo agli altri coeredi, i quali hanno diritto di essere preferiti qualora intendano avvalersi del diritto previsto ex lege in loro favore. Per alienazione deve intendersi un atto traslativo a titolo oneroso riguardante uno scambio caratterizzato dalla fungibilità delle prestazioni5, avente ad oggetto la quota indivisa genericamente individuata e non uno specifico bene6. Ne discende la necessità di accertare se il coerede voglia alienare un singolo bene o se, invece, la cessione abbia ad oggetto il trasferimento (in tutto o in parte) della quota ereditaria7; solo in quest’ultimo caso sorge infatti il diritto di prelazione in esame8. Nello specifico, e purché non sia ancora intervenuta la divisione9, il coerede che intenda alienare la propria quota (o parte di essa) deve provvedere alla c.d. denuntiatio, che si sostanzia nella notificazione10 agli altri coeredi della proposta di alienazione, con l’indica-
in Notariato, 2018, 4, 414; Cass., 23 febbraio 2007, n. 4224, cit. Contra, a favore dell’applicazione estensiva dell’art. 732 c.c. alle comunioni ordinarie in forza del rinvio di cui all’art. 1106 c.c., M. Andreoli, Il retratto successorio, in Studi Senesi, vol. LX, 1946-1948, 192. L’art. 732 c.c. va invece sicuramente applicato se espressamente richiamato da un’altra norma, come nell’ipotesi dell’art. 203-bis, co. 5, c.c. in materia di impresa familiare. 3 G. Capozzi, La divisione ereditaria, in Succ. e don., II, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, Milano, 2015, 1401. 4 In dottrina A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Delazione ereditaria, in Tratt. dir. civ. comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, XLII, Milano, 1961, II ed., 375. In giurisprudenza, fra le altre, Cass., 28 gennaio 2000, n. 981, in Giust. civ., 2001, 10, 2503; Cass., 7 settembre 1978, n. 4048, in Foro it., 1979, I, c. 1036; Cass., 1° giugno 1964, n. 1467, in Giur. it., 1965, I, 1, c. 47. Non va invece considerato terzo estraneo un altro coerede, sicché l’alienazione in suo favore non è subordinata ad alcun obbligo di notifica: in tal senso Cass., 11 marzo 1972, n. 713, in Mass. foro it., 1972, c. 205. 5 Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 334; Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 169 ss. Conseguentemente, si ritiene che siano sottoposte all’obbligo della prelazione la vendita della nuda proprietà e la vendita con patto di riscatto, ma non la permuta, la datio in solutum (purché non abbia ad oggetto una somma di denaro o una prestazione fungibile), il negotium mixtum cum donazione, la costituzione di una rendita. Per un approfondimento sul tema si vedano G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2002, 742 ss.; M. D’Orazi, Della prelazione legale e volontaria, Milano, 1950, 265 ss. Diversamente, qualora l’interesse del coerede sia quello di far pervenire la sua quota ad un estraneo e per raggiungere tale scopo sia disposto a trasferirla a titolo gratuito, si ritiene che non sorga nessun obbligo di prelazione ereditaria: così Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 166. 6 In quest’ultimo caso l’alienazione, non essendo intervenuta la divisione e l’assegnazione dello specifico bene, riguarderebbe la vendita di un bene altrui e avrebbe quindi effetti obbligatori immediati, ma un’efficacia traslativa differita al momento della eventuale assegnazione. Così Cass., 15 marzo 2016, n. 5068, in Riv. not., 2016, 3, 242; Cass., 26 novembre 2015, n. 24151, in Fam. dir., 2016, 7, 655, con nota di A. Arfani, Prelazione ereditaria e retratto successorio, p. 757; Cass., 4 aprile 2003, n. 5320, in Guida dir., 2003, 25, 73; Cass. 2 agosto 1990, n. 7749, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 1220; Cass., 15 giugno 1988, n. 4092, in Arch. civ., 1988, 1302. 7 Cass., 19 gennaio 2012, n. 737, in Vita not., 2012, 2, 657; Cass., 4 gennaio 2011, n. 97, in Mass. giust. civ., 2011, 1, 13; Cass., 30 gennaio 2006, n. 1852, in Mass. giur. it., 2006; Cass., 7 agosto 2002, n. 11881, in Gius, 2003, 1, 67. 8 Cass., 4 gennaio 2018, n. 76, in Imm. e propr., 2018, 2, 122; Cass., 4 aprile 2003, n. 5320, cit. 9 Ci si riferisce alla divisone fra tutti i coeredi, non essendo invece rilevante l’intervenuto scioglimento della comunione nei confronti di uno o più coeredi. In tal senso Cass., 20 aprile 1994, n. 3745, in Vita not., 1995, 318. D’altro canto, va ritenuto che sia intervenuta una divisione e che non sia applicabile l’art. 732 c.c. nell’ipotesi in cui alla divisione medesima abbia provveduto il testatore: così Cass., 15 ottobre 1992, n. 11290, in Vita not., 1993, 274. 10 Non si reputa necessario che la notificazione richiesta dall’art. 732 c.c. debba avvenire in senso tecnico tramite pubblico ufficiale, bensì in maniera che si abbia la certezza che della medesima abbiano conoscenza i destinatati. In tal senso E.M. Barbieri, Esercizio,
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zione del prezzo pattuito e di tutti gli altri elementi essenziali dell’operazione, in modo che essi, edotti della volontà di alienare di un altro compartecipe all’eredità, possano valutare se esercitare o meno il diritto di preferenza previsto in loro favore. Invero la qualificazione giuridica della denuntiatio è stata oggetto di un vivace dibattito, sia in ragione del diffuso utilizzo di varianti terminologiche sia in considerazione della funzione che deve riconoscersi a tale atto nel complesso procedimento cui lo stesso dà avvio. A quest’ultimo riguardo, ad esempio, appare dubbio che il procedimento relativo alla prelazione legale possa aver luogo in assenza di una formale denuntiatio11. In accordo con la dottrina maggioritaria deve ritenersi che non sia possibile prescinderne e che essa non si sostanzi in una semplice comunicazione (mediante notificazione) della volontà di alienare, ma costituisca una proposta contrattuale ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1326 e seguenti c.c., della quale, quindi, debba avere tutte le caratteristiche12. Il positivo riscontro da parte di un altro coerede costituisce infatti accettazione della proposta medesima e comporta la conclusione del contratto. In seguito alla denuntiatio e nel termine prescrizionale di due mesi decorrente (a pena di decadenza) dall’ultima delle notificazioni, gli altri coeredi possono decidere se esercitare la prelazione o meno, accettando la proposta di alienazione; quest’ultima non è irrevocabile, sicché il coerede proponente può revocarla ai sensi dell’art. 1328 c.c. finché, non avendo ancora alcun coerede accettato, il contratto non sia stato concluso. La tutela del coerede, potenzialmente perseguita con la previsione dello ius prelationis, è ulteriormente garantita dal riconoscimento in suo favore del c.d. ius retractionis, esercitabile fin tanto che perduri lo stato di comunione, consistente nella possibilità che egli riscatti la quota venduta sia dall’acquirente che dai successivi aventi causa. Trattasi di due diritti diversi, il secondo conseguente al primo, azionabile nel caso della mancata notificazione della proposta di alienazione o dell’alienazione prima dell’accettazione e volto ad assicurare l’effettivo conseguimento dello scopo sotteso all’introduzione della
indivisibilità, disponibilità ed estinzione del diritto di retratto (art. 732 c.c.), in Corti Brescia e Venezia, 1955, 112. Contra C. Punzi, La notificazione degli atti nel processo civile, Milano, 1959, 180; P. Greco, Se l’art. 732 cod. civ. adoperi la parola “notificazione” nel significato tecnico di comunicazione scritta a mezzo di ufficiale giudiziario, in Sinossi giur., 1947, 29. 11 Con riferimento alla natura della denuntiatio si leggano G. Di Rosa, La prelazione legale e volontaria, in I contratti in generale, Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino, 2000, 282; Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 176 e Coppola, La disponibilità della quota ereditaria. Il diritto di prelazione del coerede, cit., 84, secondo i quali essa esteriorizza il contenuto del diritto di credito vantato dai coeredi. 12 Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 267; Coppola, La disponibilità della quota ereditaria. Il diritto di prelazione del coerede, cit., 85; V. Durante, Prelazione e riscatto, III, Retratto successorio, in Enc. giur., XXIII, 1990, 5. In tal senso, in giurisprudenza, Cass., 10 maggio 1957, n. 1632, in Foro it., 1957, I, c. 1785; Cass., 26 settembre 1951, n. 2579, in Foro it., 1952, I, c. 202; più di recente è intervenuta Cass., 19 gennaio 2017, n. 1358, in Mass. giust. civ., 2017, la quale ha chiarito che la denuntiatio, affinché si rientri nella fattispecie di cui all’art. 732 c.c., deve permettere al destinatario di venire a conoscenza dell’offerta e dei relativi elementi, al fine di poterne valutare la convenienza. Nella stessa direzione Cass., 18 aprile 2003, in Gius., 2003, 18, 1974. In senso opposto, vi è chi ha ritenuto che la denuntiatio assolva unicamente alla funzione di comunicare al prelazionario l’esistenza di un procedimento negoziale, consentendogli così di esercitare il diritto previsto dalla legge in suo favore; conseguentemente, in quest’ottica, la comunicazione del coerede di volersi avvalere della preferenza legale non costituirebbe accettazione. Così M. Nuzzo, La prelazione successoria tra storia e dogma, in Prelazione e retratto, a cura di G. Benedetti e L.V. Moscarini, Milano, 1988, 78; G. Furgiuele, Contributo allo studio della struttura delle prelazioni legali, Milano, 1984, 45.
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preferenza legale in ambito ereditario, consistente nella possibilità che i compartecipi all’eredità acquisiscano, in via prioritaria rispetto ai terzi, la quota del coerede che voglia alienare13. In particolare, il diritto di riscatto, altrimenti detto diritto di retratto (successorio), è un diritto potestativo che consente al coerede (il cui diritto di prelazione sia stato violato) di sostituirsi al terzo acquirente con effetti ex tunc14. Esso si esercita mediante una dichiarazione unilaterale recettizia (in forma scritta se la quota alienata abbia ad oggetto beni immobili15), in seguito alla quale il coerede retraente, subentrando automaticamente tramite una surrogazione soggettiva16, ha diritto di ottenere la titolarità della quota alienata, salvo il rimborso al terzo estraneo del prezzo pagato17. In tal senso può ritenersi che il diritto di prelazione e il riscatto siano riconducibili ad una fattispecie complessa, in cui la preferenza accordata dall’ordinamento è tutelata mediante un rimedio volto ad ottenere il medesimo obiettivo che si sarebbe conseguito nel caso della mancata violazione del diritto (di prelazione), garantendo così ai coeredi, il cui diritto di preferenza legalmente attribuito sia stato violato, una tutela effettiva18. Peraltro, a maggior garanzia di questi ultimi, con riferimento alla durata della prescrizione, diversamente dalla prelazione (il cui diritto come si diceva deve essere esercitato nel termine di decadenza di due mesi stabilito dall’art. 732 c.c.), nulla è previsto per il diritto di retratto, sicché deve ritenersi che il relativo termine sia quello ordinario decennale19, sempre che sussista lo stato di comunione. L’art. 732 c.c. mira, infine, a tutelare egualmente e contemporaneamente tutti i coeredi, essendo specificamente previsto al secondo comma che la quota vada assegnata in parti uguali nel caso in cui più coeredi vogliano esercitare il riscatto20.
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Di Rosa, La prelazione legale e volontaria, cit., 282; G. Bonilini-C. Coppola, Il retratto successorio, in Tratt. dir. succ. don., diretto da G. Bonilini, IV, Milano, 2009, 99; C. Sarasso, Lineamenti del patto di prelazione, Milano, 1968, 38. 14 In dottrina Di Rosa, La prelazione legale e volontaria, cit., 282; G. Bonilini, voce «Retratto successorio», in Dig. disc. priv. sez. civ., XVII, Torino, 1998, 430; Bonilini-Coppola, Il retratto successorio, cit., 110; B. Carpino, L’acquisto coattivo dei diritti reali, Napoli, 1977, 39. In giurisprudenza: Cass., 27 novembre 2006, n. 25041, in Vita not., 2006, 3, 1427; Cass., 12 maggio 1999, n. 4703, in Notariato, 2000, 1, 20. 15 Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 275; Durante, Prelazione e riscatto, III, Retratto successorio, cit., 5. In giurisprudenza Cass., 27 novembre 2006, n. 25041, cit. 16 In dottrina G. Bonilini-C. Coppola, Il retratto successorio, cit., 106. In giurisprudenza Cass., 28 aprile 1992, n. 5066, in Fallimento, 1992, 998. 17 Cass., 23 luglio 1986, n. 4695, in Vita not., 1986, 1218; Trib. Torino, 23 marzo 1984, in Giur. it., 1985, I, 2, c. 563. In dottrina si veda Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 277, secondo cui, peraltro, si tratta di un debito di valuta e il terzo acquirente ha diritto, oltre al rimborso del prezzo, alla restituzione delle spese sostenute. 18 Nuzzo, La prelazione successoria tra storia e dogma, cit., 57 ss. 19 L.V. Moscarini, Prelazione, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 993. Diversamente è stato sostenuto che il termine per l’esercizio del diritto di retratto in ambito ereditario debba coincidere con quello specificamente previsto in materia di prelazione agraria, cioè di un anno, pari a quello legislativamente previsto per la rescissione e per altre azioni per il cui esperimento si reputa congruo un termine inferiore. Così M. Bernardini, La prelazione urbana fra diritto comune e leggi speciali, Padova, 1988, 116. 20 Al riguardo si leggano M.L. De Luca e F. Morozzo Della Rocca, Legittimazione passiva e litisconsorzio nel retratto successorio, in Giur. mer., 1977, 297.
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2. La ratio dell’istituto. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad introdurre il diritto di prelazione, e, a maggior garanzia, quello di riscatto, sono riconducibili sostanzialmente ad un duplice ordine di motivazioni. Anzitutto, nell’avvertita e condivisibile esigenza di monitorare l’ingresso nella comunione ereditaria, allo scopo di garantire i coeredi in quanto legati da un vincolo meritevole di tutela, per tale non dovendosi intendere un vincolo esclusivamente in senso familiare, in quanto la comunione ereditaria ben potrebbe riguardare soggetti non legati da parentela21. Ciò al fine di scongiurare un incontrollato subingresso di terzi estranei nella comunione medesima, consentendo che la concentrazione dei beni ereditari rimanga nelle mani di pochi soggetti e preferibilmente di coloro che sono i “primi” partecipanti alla comunione22. Inoltre, la previsione della preferenza legale in ambito ereditario è da ricondursi alla necessità di garantire l’eventuale interesse dei coeredi all’estensione delle quote, riducendo contestualmente i rischi connessi a potenziali controversie e favorendo le attività divisionali23, disincentivando peraltro ulteriori suddivisioni del patrimonio ereditario, con finalità di salvaguardia, evitandone anche una probabile diminuzione di valore24. Il perseguimento degli interessi sottesi alla previsione della preferenza legale in ambito ereditario appare peraltro ulteriormente garantito da una significativa deroga alle regole sulla trascrizione25, in quanto il prelazionario che trascrive la domanda giudiziale ai sensi
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Bonilini, voce «Retratto successorio», cit., 424; A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1995, 746; P. Gallo, voce «Prelazione», in Dig. disc. priv. sez. civ., vol. XIV, Torino, 1996, 171; Coppola, La disponibilità della quota ereditaria. Il diritto di prelazione del coerede, cit., 77-78; U. M. Morello, Alienazione di quota e prelazione legale del coerede, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, 441. Contra Moscarini, Prelazione, cit., 981. 22 In dottrina N. Atlante, Il diritto di prelazione del coerede, in Tratt. breve succ. don., diretto da P. Rescigno, coordinato da M. Ieva, Padova, 2010, 191; Id., Il diritto di prelazione del coerede e il retratto successorio, in Succ. e don., diretto da G. Iaccarino, II, Milano, 2017, 1769; G. Minoli, Problemi di diritto intertemporale circa l’applicazione dell’art. 732 c.c., in Giur. it., 1943, I, 2, c. 231; A. De Cupis, Sull’applicabilità della prelazione ereditaria all’erede del coerede, in Riv. dir. civ., 1988, II, 613 ss.; M.L. Loi, voce «Retratto», in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 25. In giurisprudenza Cass., 26 novembre 2015, n. 24151, cit.; Cass., 12 marzo 2010, n. 6142, in Fam. pers. succ., 2011, 4, 262, con nota di L. Ghidoni, La prelazione ereditaria tra profili d’incostituzionalità, secrets de famille, tradizione e luoghi comuni, in cui, peraltro, viene stabilito che è da escludere che l’art. 732 c.c. abbia lo scopo di tutelare la famiglia come intesa dagli artt. 29, 30 e 31 Cost; Cass., 7 dicembre 2000, n. 15540, in Rep. foro it., 2000, n. 21; Cass., 28 gennaio 2000, n. 981, cit.; Cass., 22 ottobre 1992, n. 11551, cit.; Cass., 24 luglio 1974, n. 2008, in Giust. civ., 1965, 127; Cass., 25 maggio 1973, in Giust. civ., 1974, 31. Ciò emerge anche dalla Relazione della Commissione reale, ove si legge “… contro il principio troppo assoluto del diritto del coerede di disporre liberamente della sua quota, debba prevalere il concetto di evitare che nei rapporti fra coeredi, il più delle volte legati da vincoli di familiari che possano influire nel senso di attenuare i contrasti, si intromettano gli estranei, portati dall’intransigenza dell’interesse di sfruttare il più possibile l’intento speculativo perseguito con l’acquisto della quota”. 23 M.R. Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, in Giust. sist. civ. e comm., Torino, 1998, II ed., 72; Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 232; Bonilini, voce «Retratto successorio», cit., 424; P. Vitucci, Sul fondamento della prelazione successoria, in Riv. dir. civ, 1985, I, 606; Gambaro, Il diritto di proprietà, cit., 746; M. Andreoli, Il retratto successorio, cit., 177 ss. In giurisprudenza Cass., 7 aprile 1949, n. 445, in Giur. compl. cass. civ., 1949, 346. 24 Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., p. 333 ss.; Capozzi, La divisione ereditaria, cit., 1401; contra ForchielliAngeloni, Della divisione, cit., 166; G. Azzariti, La divisione, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 6, Torino, 1991, 367; P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1996, 941; G. Brunelli-C. Zappulli, Il libro delle successioni e donazioni, Milano, 1951, 532. 25 F. Gazzoni, La trascrizione immobiliare (artt. 2643-2645), I, in Comm. cod. civ. diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, 614.
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dell’art. 2652, numero 3, c.c., oppure l’atto con cui eserciti il riscatto, ha diritto di essere preferito al terzo acquirente che abbia trascritto anteriormente, oltre che dalla possibilità che al prelazionario sia riconosciuto (anche in seguito all’esercizio del riscatto) il risarcimento del danno26. Da quanto sopra emerge inoltre la natura personalissima del diritto di prelazione di cui all’art. 732 c.c., che trova la propria ragion d’essere nel legame tra la massa ereditaria e la qualifica di coerede del titolare della prelazione: si tratta di un diritto relativo e, specificamente, di un diritto di credito, la cui osservanza il prelazionario può pretendere nei confronti del coerede alienante27. Conseguentemente, esso spetta solo al coerede e non ai suoi successori e non è quindi trasmissibile mortis causa28 (salvo quanto a breve si dirà per la sostituzione e la rappresentazione). Peraltro, si reputa che, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., il soggetto che succeda (in via ereditaria) al coerede subentri nell’eventuale giudizio29 già introdotto dal coerede stesso al fine di ottenere il retratto30, perché il successore del coerede non sarebbe in tale ipotesi colui che esercita il diritto, bensì il soggetto subentrante in un procedimento a seguito del già avvenuto esercizio del diritto da parte del titolare. In accordo con parte della giurisprudenza31 e della dottrina32 deve ritenersi che siano coeredi ai sensi dell’art. 732 c.c., titolari quindi dei diritti di prelazione e riscatto, anche coloro che subentrino a uno degli “originari” coeredi per sostituzione o rappresentazione, in quanto, in tali ipotesi, colui che subentra va considerato successore del de cuius della cui eredità si tratta (e non del coerede premorto). Da ultimo, le motivazioni che hanno indotto all’introduzione della preferenza legale in ambito ereditario e la natura personalissima del relativo diritto non consentono di ritenere
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N. Fabiano, Prelazione e retratto nella dinamica dell’art. 732 c.c.: una fattispecie a formazione progressiva, in Rep. foro it., I, 1996, 1019; Carpino, L’acquisto coattivo dei diritti reali, cit., p. 35. 27 Capozzi, Successioni e donazioni, 2002, cit., 737; Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 237. 28 Cass., 16 marzo 2012, n. 4277, in Giur. it., 2013, 2, c. 525; Cass., 11 maggio 1993, n. 5374, in Giust. civ., 1994, I, 1369; Cass., 22 ottobre 1992, n. 11551, cit.; Cass., 13 luglio 1983, n. 4777, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1786. Da ultimo è intervenuta in materia Cass., 22 gennaio 2019, n. 1654, in Mass. giust. civ., 2019, secondo la quale, qualora la quota facente (inizialmente) parte della comunione ereditaria sia stata alienata non dal coerede, bensì dal successore di quest’ultimo, non si rientra nella fattispecie di cui all’art. 732 c.c. e pertanto non sorge nessun diritto di retratto, poiché la norma va interpretata in senso letterale, non potendola così ritenere applicabile all’erede del coerede. Invero, l’intrasmissibilità del diritto di prelazione ereditaria non è stata sempre pacificamente sostenuta, potendosi infatti pensare che l’erede del coerede non sia un soggetto completamente estraneo alla compagine ereditaria e, per altro verso, ritenendo che l’art. 732 c.c. abbia ad oggetto diritti patrimoniali (come tali) liberamente trasmissibili mortis causa. In merito si leggano L. Cariota Ferrara, Trasmissibilità del diritto di prelazione ai successori a titolo universale del coerede, in Foro it., 1951, I, c. 116; G. Azzariti, In tema di retratto successorio, in Giur. it., 1975, c. 119; G. Iudica, Ancora sulla trasmissibilità del diritto di prelazione ereditaria, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 907; G. Iudica, Diritto dell’erede del coerede alla prelazione ereditaria, in Riv. dir. civ., 1981, II, 478. 29 Si ritiene che si tratti di un giudizio di accertamento, la cui azione ha natura personale: in tal senso si vedano Durante, Prelazione e riscatto, cit., 5; A. Mora, Commento all’art. 732 cod. civ., in Cod. ipert. succ. e don., a cura di G. Bonilini e M. Confortini, Torino, 2007, 949. 30 Cass., 26 novembre 2015, n. 24151, cit.; Cass., 15 gennaio 2015, n. 594, in Notariato, 2016, 2, 112; Cass., 29 aprile 1992, n. 5181, in Vita not., 1993, 252 ss. 31 Cass., 5 febbraio 1974, n. 309, in Giur. it., 1975, I, c. 111. 32 G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, 651; A. Ciatti, La comunione ereditaria e la divisione, in Dir. succ., a cura di R. Calvo e G. Perlingieri, Napoli, 2009, II, 1176.
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possibile escludere la prelazione medesima per via testamentaria, essendo invece possibile unicamente, come a breve meglio si approfondirà, che i titolari vi rinunzino33.
3. La rinunzia alla prelazione e al riscatto. Tra le questioni di maggior interesse, e anche tra le più dibattute, vi è quella della rinunzia ai diritti di prelazione e riscatto (o retratto), costituendo il relativo atto una forma (ordinariamente preventiva) di preclusione da parte del titolare della possibilità (sussistendone i relativi presupposti) di esercitare il proprio diritto. Una volta esclusa, in termini generali, la non ammissibilità della rinunzia, avendo la stessa ad oggetto diritti liberamente disponibili perché posti a tutela di interessi privatistici, e in tal senso appare orientata la prevalente dottrina34, deve circoscriversi l’area di interesse al momento a partire dal quale detti diritti possano essere oggetto di rinunzia. Anzitutto non appare possibile una rinunzia antecedente al sorgere del diritto di prelazione, non essendo generalmente ritenuta ammissibile la rinunzia ad un diritto non ancora sorto35, e ciò a maggior ragione in ambito ereditario, ove vige il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. È allora necessario individuare il momento in cui il diritto di prelazione viene ad esistenza affinché esso sia rinunziabile. Secondo una prima ricostruzione il diritto di prelazione sorgerebbe unicamente in presenza di un concreto progetto di alienazione delineato nelle sue caratteristiche essenziali alla stregua di una proposta contrattuale e nel momento della comunicazione del medesimo, quindi con la denuntiatio, essendo quest’ultima il mezzo per consentire ai coeredi di esercitare la preferenza legale, edotti di tutte le caratteristiche dell’operazione, a parità di condizioni. Ne deriva che una rinunzia prima della notificazione della proposta, cioè appunto della denuntiatio, sarebbe inammissibile, in quanto si incorrerebbe nel vizio della nullità per indeterminatezza dell’oggetto ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c.36. Tale visione
33
Bonilini, voce «Retratto successorio», cit., 425. Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 281; A. Palazzo, Le successioni, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica e P. Zatti, vol. II, Milano, 2000, II ed., 971; G. Capozzi, Successioni e donazioni, 2009, 745; L. Ponti-P. Panella, La «preferenza» nel diritto societario e successorio, Milano, 2003, 258; P. Fanile, Rinunzia alla prelazione ex art. 732 c.c. e contratto preliminare, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1975, 1136. La sanzione prevista nel caso della deroga all’art. 732 c.c., cioè l’esperibilità del riscatto e non la nullità, consente infatti di confermare che esso non detta una norma di ordine pubblico e che, conseguentemente, sia derogabile e ne sia ammessa la rinunziabilità. 35 Al riguardo si legga C. Coppola, La rinunzia ai diritti futuri, Milano, 2005, 209 ss.; contra F. Regine, Sulla rinunzia alla prelazione ereditaria, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 502 ss., il quale ritiene ammissibile la rinunzia a diritti futuri sulla base della generale ammissibilità nel nostro ordinamento dei negozi aventi ad oggetto beni futuri (art. 1348 c.c.). 36 Tale ricostruzione è rinvenibile unicamente in alcune pronunce di merito, le quali si sono rifatte a decisioni inerenti alla rinunzia in materia di prelazione agraria, fra cui Cass., 30 novembre 2005, n. 26079, in Vita not., 2006, 275; Cass., 29 aprile 2005, n. 8997, in Vita not., 2005, 965; Cass., 29 gennaio 1991, n. 872, in Mass. giur. it., 1991; Cass., 10 agosto 1988, n. 4920, in Riv. dir. agr., 1989, II, 158; Cass., 3 settembre 1985, n. 4590, in Vita not., 1986, 176; Cass., 13 novembre 1984, n. 5727, in Giur. agr., 1985, 342. Tali conclusioni specificamente riferite alla prelazione agraria sono state anche avallate da parte della dottrina, fra cui si legga M. Ciancio, Prelazione e acquisto di fondi rustici, Padova, 1978, 21. Invero, però, sempre con riferimento alla prelazione agraria, altra parte della dottrina si è 34
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non appare condivisibile, in quanto invero il diritto di prelazione esiste a prescindere e indipendentemente dalla denuntiatio, trovando solo quest’ultima il proprio fondamento normativo nell’art. 732 c.c., dal quale appunto scaturisce il relativo obbligo37. Concordemente alla successiva evoluzione giurisprudenziale sembra infatti doversi ritenere che il diritto di prelazione sorga nel momento in cui si instaura la comunione ereditaria all’apertura della successione, seppur poi diventi attuale e concreto con la denuntiatio38. Deve quindi distinguersi il momento genetico, in cui il diritto nasce ma non può essere oggetto di esercizio (ma, come si vedrà, di rinunzia), da quello funzionale, in cui esso può essere esercitato in seguito alla comunicazione della specifica proposta di alienazione. Simile ricostruzione non comporta una duplicazione del diritto, cioè una differenziazione tra un diritto di prelazione ereditaria “astratto” (contestuale all’instaurarsi della comunione ereditaria) e uno “concreto” (coevo alla denuntiatio), trattandosi piuttosto di un diritto unitario del quale vanno differenziati il momento in cui sorge da quello in cui esso può essere fatto valere39. La rinuncia, quale negozio meramente abdicativo, non richiede necessariamente che la situazione giuridica concreta si sia perfezionata (mediante notifica della concreta proposta di alienazione), essendo ammissibile che il titolare voglia dismettere il diritto anche se sorto solamente in astratto, a prescindere da ogni successiva effettiva possibilità di esercizio. Non sembra quindi che vi siano argomentazioni per ritenere inammissibile una rinunzia anteriore alla denuntiatio nel caso in cui il coerede voglia dismettere la preferenza legale in suo favore, e in tal senso si è espressa autorevole dottrina40. Si tratta della rinunzia c.d. preventiva, cioè successiva al sorgere del diritto ma precedente alla denuntiatio, la cui ammissibilità appare confermata dalla giurisprudenza in alcune condivisibili pronunce41, ove la Suprema Corte è concorde nell’ammettere l’ammissibilità della rinunzia antecedente alla possibilità di esercizio del diritto (cioè antecedente ad una concreta denuntiatio).
discostata, ritenendo ammissibile una rinunzia anteriore alla denuntiatio, alla luce della preesistenza della preferenza legale rispetto alla comunicazione della concreta proposta di alienazione: si vedano in tal senso A. Palermo, In tema di esclusione del diritto di prelazione nei casi di permuta, in Giur. agr., 1974, 82; nella stessa direzione anche alcune pronunce giurisprudenziali, fra cui Cass., 5 maggio 1993, n. 5189, in Mass. giur. it., 1993; Cass., 13 giugno 1992, n. 7250, in Giust. civ., 1993, I, 688. In materia di prelazione urbana l’inammissibilità della rinunzia anteriore alla denuntiatio emerge invece espressamente dall’art. 79 della l. 392/1978, ove prevede la nullità dei patti volti ad attribuire al locatore vantaggi in contrasto con le disposizioni della medesima legge. Con riferimento alla rinunzia alla prelazione urbana si legga in dottrina E. Caputo, Il diritto di prelazione nella nuova disciplina delle locazioni urbane, Padova, 1987, 6; in giurisprudenza Cass., 24 settembre 1996, n. 8444, in Riv. giur. ed., 1997, I, 484. 37 Cass., 22 gennaio 1994, n. 624, in Riv. not., 1994, 1028. 38 Cass., 4 agosto 2016, n. 16314, in Notariato, 2017, 1, 37, con commento di S. Uttieri, L’ammissibilità della preventiva rinuncia alla prelazione ereditaria, 40; Cass., 14 gennaio 1999, n. 310, in Notariato, 2000, 3, p. 252; Cass., 22 gennaio 1994, n. 624, cit. 39 Coppola, La disponibilità della quota ereditaria. Il diritto di prelazione del coerede, cit., 92. Contra Regine, Sulla rinunzia alla prelazione ereditaria, cit., 501. 40 G. Bonilini, La rinunzia al diritto di prelazione ereditaria, e di retratto successorio, in Fam. pers. succ., 2009, 2, 163; ForchielliAngeloni, Della divisione, cit., 282; Loi, voce «Retratto», cit., 25; Durante, Prelazione e riscatto, III, Retratto successorio, cit., 1 ss.; Regine, Sulla rinunzia alla prelazione ereditaria, cit., 500. 41 Cass., 4 agosto 2016, n. 16314, cit.; Cass., 14 gennaio 1999, n. 310, cit.; Cass., 22 gennaio 1994, n. 624, cit.
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Seppur nelle decisioni sopra richiamate la Corte di Cassazione abbia giudicato in relazione a casi concreti in cui l’alienazione era stata progettata nelle linee essenziali, ragion per cui ha ritenuto possibile escludere a priori una nullità della rinunzia per indeterminatezza dell’oggetto, i medesimi giudici affermano con chiarezza che “tale diritto si acquista insieme con la qualità ereditaria”42. Anche da parte della giurisprudenza sembra quindi non ravvisarsi alcun impedimento in ordine all’ammissibilità della rinunzia preventiva che prescinda, oltre che dalla denuntiatio, dall’esistenza di ogni qualsivoglia progetto di alienazione. Si tratta, infatti, di una dismissione da parte del titolare del diritto quando esso è sorto (al momento dell’apertura della successione) e che comporta l’impossibilità di esercitarlo in futuro. Nulla infatti impedisce che il coerede decida anticipatamente di non avvalersi del diritto di prelazione previsto in suo favore, a prescindere da ogni futura denuntiatio (e dalle relative condizioni) o dalla conoscenza di altrui piani di alienazione. Una volta apertasi la successione non si tratta più infatti di un diritto futuro, bensì di un diritto attuale e disponibile, anche se non ancora suscettibile di esercizio43. In seguito all’instaurarsi della comunione ereditaria sussiste infatti la condizione per rinunziare al diritto, a prescindere da ogni (futura) concreta possibilità di avvalersene. Questa soluzione è stata adottata dalla Suprema Corte nelle pronunce già richiamate, ritenendosi anzi che solo quella preventiva sia una rinunzia tipica o in senso tecnico, diversamente da quella “successiva” (alla denuntiatio) che invece, come si diceva, corrisponde al mancato esercizio del diritto o, meglio, a un rifiuto ad esercitare la prelazione44. Diversamente, può ritenersi che nessun problema particolare si pone per la dichiarazione di rinunzia del titolare che segua alla denuntiatio (quale momento a partire dal quale il diritto può essere esercitato), trattandosi infatti in questo caso di mancato esercizio del diritto, da qualificarsi specificamente quale rifiuto della proposta o mancata accettazione. Appurata la possibilità di rinunziare al diritto di prelazione, per le medesime ragioni, non vi sono perplessità nell’ammettere la rinunziabilità al diritto di riscatto, purché, come sopra rilevato anche per il diritto di prelazione, ciò avvenga successivamente all’apertura della successione, per non incorrere nel divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. Il diritto di riscatto (o retratto) può essere dismesso contestualmente al diritto di prelazione oppure autonomamente, fermo restando in ogni caso che la rinunzia al riscatto non impedisce al coerede (rinunciante) danneggiato di agire successivamente per il risarcimento del danno, qualora sia stato violato il diritto di prelazione45. Con riferimento alla prima ipotesi, cioè alla contestuale dismissione dei diritti di prelazione e riscatto, deve anzitutto ritenersi che la rinunzia alla prelazione comporti automati-
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Cass., 4 agosto 2016, n. 16314, cit. In tal senso Bonilini, La rinunzia al diritto di prelazione ereditaria, e di retratto successorio, cit., 165; Capozzi, Successioni e donazioni, 2009, cit., 1406; Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, cit., 91; Regine, Sulla rinunzia alla prelazione ereditaria, cit., 502; Capozzi, Successioni e donazioni, 2009, cit., 1424; Palermo, In tema di esclusione del diritto di prelazione nei casi di permuta, cit., 82. 44 Cass., 4 agosto 2016, n. 16314, cit.; Cass., 14 gennaio 1999, n. 310, cit. 45 Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 283. 43
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camente rinunzia al riscatto46. Non si deve dunque distinguere tra la rinunzia preventiva e la rinunzia coeva alla denuntiatio, in quanto in entrambe le ipotesi il coerede che decida di rinunziare non può poi avvalersi del riscatto. La volontà di dismettere il diritto di preferenza legale comporta infatti necessariamente l’impossibilità di avvalersi del rimedio (del riscatto appunto) previsto dall’art. 732 c.c. per il caso della violazione. Il diritto di riscatto può anche essere oggetto di autonoma rinunzia, indipendente e separata dalla (eventuale) dismissione del diritto di prelazione47. Il coerede, trattandosi di diritti liberamente disponibili e derogabili perché posti a tutela di interessi non di ordine pubblico, può decidere di non dismettere la preferenza legale prevista in suo favore, ma di non avvalersi del rimedio del retratto. Quest’ultimo è infatti un rimedio di natura reale azionabile solo in un secondo momento, cioè qualora si violi il diritto di prelazione di cui all’art. 732 c.c. Se la rinunzia alla prelazione, sia preventiva che contestuale alla denuntiatio, comporta la dismissione di un diritto attuale, la rinunzia al riscatto comporta la decadenza dalla possibilità di avvalersi di un rimedio sussidiario, la cui attivazione è possibile solo qualora i diritti del coerede titolare della preferenza legale siano stati violati. Si tratta quindi della rinunzia a un diritto non ancora azionabile, ma non futuro in quanto sorto contestualmente alla comunione ereditaria e (seppur in via sussidiaria) a quello di prelazione. Al riguardo, non può però non richiamarsi la posizione dottrinale di chi, diversamente, fondandosi sulla sussidiarietà del diritto di riscatto rispetto a quello di prelazione (in quanto il primo sorge in seguito ad un’effettiva violazione di quest’ultimo), ritiene che la rinunzia al retratto abbia ad oggetto un diritto futuro48. In merito sembra però potersi rilevare che il retratto sorge contemporaneamente alla prelazione medesima, a prescindere dalla effettiva azionabilità e, come sopra rilevato, sembra così possibile ammetterne l’autonoma rinunziabilità49.
4. (Segue). La forma e gli effetti della rinunzia. La rinunzia (preventiva), quale negozio abdicativo non riguardante direttamente la dismissione dei beni oggetto della quota, bensì unicamente i relativi diritti (di prelazione e riscatto), non richiede una predeterminata forma. Essa dunque può essere manifestata sia espressamente che tacitamente per facta concludentia; in quest’ultimo caso mediante un fatto dal quale sia possibile desumere la volontà di rinunziare (si pensi ad esempio al caso in cui il coerede sia consenziente alla stipula di un contratto preliminare con un estraneo avente ad oggetto la quota di un altro partecipante all’eredità)50.
46
Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 335. Ponti-Panella, La «preferenza» nel diritto societario e successorio, cit., 283. 48 Bonilini-Coppola, Il retratto successorio, cit., 112. 49 Vedi supra, nota 35. 50 Forchielli-Angeloni, Della divisione, cit., 282. Diversamente, unicamente con riferimento al riscatto, è richiesta la forma scritta qualora 47
484
La rinunzia alla prelazione ereditaria
Per quel che concerne la rinunzia espressa, avendo essa ad oggetto un diritto di credito e riguardando unicamente il potenziale acquisto dei beni ereditari, ma non comportandone il trasferimento, bisogna ritenere che nessuna forma particolare sia richiesta e che neppure in presenza di beni immobili sia necessaria la forma scritta, in quanto non si rientra nelle ipotesi di cui all’art. 1350 c.c.51. Alle medesime conclusioni è possibile giungere con riferimento alla mancata accettazione di una concreta denuntiatio (cioè al rifiuto). Pur ricostruendo quest’ultima alla stregua di una proposta contrattuale, non vi sono indici per ritenere che sia necessaria una forma vincolante per il relativo rifiuto, poiché la forma prescritta per l’accettazione di una proposta contrattuale non è richiesta per la manifestazione della volontà in senso contrario52. D’altro canto, la natura patrimoniale dei diritti di prelazione e di riscatto conduce a ritenere che la relativa rinunzia possa avvenire anche dietro corrispettivo53. La rinunzia (preventiva) è un atto individuale di ciascun coerede, irrevocabile e non recettizio, che quindi si perfeziona a prescindere dalla conoscenza che ne abbiano gli altri coeredi54. Va invece ritenuto che il rifiuto, quale mancata accettazione della proposta oggetto di una denuntiatio, sia un atto revocabile ai sensi dell’art. 1328, co. 2, c.c. e che la revoca produca i suoi effetti dal momento in cui giunga a conoscenza del destinatario (o, ai sensi dell’art. 1335 c.c., dal momento in cui si reputa vi sia giunta); esso è inoltre un atto recettizio in quanto destinato ad un soggetto determinato e come tale, affinché produca i suoi effetti, deve essere portato a conoscenza del proponente, cioè del coerede alienante. La rinunzia comporta, quale effetto principale, il venir meno dell’obbligo della denuntiatio nei confronti di chi abbia preventivamente rinunziato da parte del coerede che voglia alienare. Quest’ultimo infatti acquisisce la piena e libera disponibilità della sua quota, sicché può liberamente disporne, ma unicamente in presenza di un altro solo coerede (il rinunciante), essendo invece necessario procedere con la denuntiatio in presenza di altri coeredi non rinuncianti che potrebbero esercitare la prelazione. Differentemente, nell’ipotesi del rifiuto ad una denuntiatio, trattandosi di una mancata accettazione della specifica proposta contrattuale e non della volontà di dismettere il diritto di preferenza legale in assoluto, i coeredi rimangono obbligati ad una nuova denuntiatio ogni qualvolta sorga una nuova proposta o sia sottoposta a modifiche la proposta già oggetto di mancata accettazione. In questa ipotesi infatti il coerede rinunciante non è pregiudicato dal poter decidere se esercitare o meno la prelazione in ordine a successive alienazioni di quote ereditarie in comunione o alla medesima, ma a condizioni diverse.
si ritenga che si tratti di rinunzia a un diritto futuro. Così Bonilini-Coppola, Il retratto successorio, cit., 112. Capozzi, Successioni e donazioni, 2009, cit., 1425; Capozzi, La divisione ereditaria, cit., 1425; Regine, Sulla rinunzia alla prelazione ereditaria, cit., 502. Contra F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, 584. 52 G.B. Ferri, Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, Milano, 1960, 10 ss. 53 Al riguardo si veda Cass., 28 luglio 1986, n. 4825, in Giur. agr., 1987, 475, le cui conclusioni, seppur riferite alla prelazione agraria, si reputa siano condivisibili anche in materia di prelazione ereditaria. 54 L. Bozzi, voce «Rinunzia», in Nuov, dig. it., vol. XV, Torino, 1968, 1146. 51
485
Alberto Costa
La libera cedibilità della quota, quindi, nel caso di rinunzia preventiva prescinde dalla denuntiatio nei confronti del coerede che ha rinunziato, ma non esonera il coerede alienante dalla notifica della proposta agli altri coeredi che non abbiamo rinunziato (se ve ne siano) e dipende dalla accettazione o (viceversa) dal rifiuto di questi ultimi. Nel caso in cui non vi sia rinunzia preventiva il coerede alienante deve invece notificare la proposta a tutti i coeredi, che possono accettarla o rifiutarla e solo in quest’ultimo caso egli potrà disporne. In particolare, il terzo cui è stata ceduta la quota (in tutto o in parte) dal coerede acquisisce contestualmente al trasferimento la qualità di condividente e, quindi, il diritto di partecipare alla divisione55. Egli peraltro acquisisce i diritti del suo dante causa e in solido con quest’ultimo risponde dei debiti (salvo apposito patto contrario liberatorio)56.
55 56
A. Mora, I soggetti e l’oggetto della divisione, in Tratt. dir. succ. e don., diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, 185. Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, cit., 94.
486
Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 3 aprile 2020, n. 7668; Giancola Presidente – Lamorgese Relatore Filiazione – Minore nato in Italia – Fecondazione eterologa eseguita all’estero – Domanda di rettificazione dell’atto di nascita – Madre biologica e madre intenzionale – Indicazione delle due donne quali genitori – Rigetto – Fondamento Non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva.
(Omissis) Fatti
di causa
1. La Corte d’appello di Venezia, con decreto del 10 maggio 2018, ha rigettato il reclamo delle signore S.D. e C.F. avverso il decreto del Tribunale di Treviso che, a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile, aveva rigettato la loro richiesta di ricevere la dichiarazione congiun-
2. C.F. e S.D. ricorrono per cassazione, sulla base di sette motivi, illustrati da memoria, notificato al PG presso la Corte d’appello di Venezia. Ragioni
della decisione
1. La preliminare richiesta del Procuratore Generale di rimessione alle Sezioni Unite non può essere accolta, avendo il ricorso ad oggetto una tipologia di controversia, in tema di diritti della
ta di riconoscimento della bambina, C.L., nata a
persona, sulla quale la Sezione può esercitare ap-
(Omissis) da fecondazione assistita praticata all’e-
pieno la funzione nomofilattica di cui all’art. 65
stero da C.F..
ord. giud.
1.1. La Corte, premesso che la domanda aveva
2. Il decreto impugnato, laddove – per esclu-
ad oggetto la rettifica, inammissibile nei termini
dere il potere dell’ufficiale di stato civile di modi-
richiesti, di un atto di nascita formato in Italia, ha
ficare l’atto di nascita di C.L. nel senso invocato,
osservato che l’ufficiale di stato civile non aveva il potere di inserire in un atto dello stato civile dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle consentite dalla legge (art. 11, comma 3) – come
inserendovi il riferimento alla doppia maternità delle signore C. e S. – ha osservato che si trattava di atti redatti secondo formule e modalità tipiche e predeterminate con decreti del Ministero dell’interno, ha in realtà inteso implicitamente e, per
quella relativa alla presunta filiazione tra la nata
quanto si dirà, correttamente – pronunciarsi sul
e la S., quale seconda madre –, ostandovi il D.P.R.
fondo della domanda. La quale sostanzialmente
3 novembre 2000, n. 396, che vieta di manipolare
contestava la “corrispondenza” “dell’atto di nasci-
o integrare gli atti dello stato civile.
ta del figlio con la realtà generativa” (cfr. Cass.
487
Giurisprudenza
n. 13000 del 2019, n. 21094 del 2009) e chiedeva
Il quarto motivo denuncia violazione e falsa
di ripristinarla, emendando l’atto medesimo da
applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000 cit., art.
un presunto vizio relativo all’esatta indicazione
11, comma 3 e art. 12, comma 1, per avere af-
dei genitori, ciò non essendo precluso dal tipo
fermato che l’ufficiale di stato civile non ha il
di procedimento instaurato, di rettificazione degli
potere-dovere di adeguare le formule ministeriali
atti dello stato civile, che anche nella disciplina
previste per la redazione dell’atto di nascita, in-
vigente, dettata dal D.P.R. n. 396 del 2000, è volto
serendovi le annotazioni necessarie in relazione
ad eliminare le “difformità tra la situazione di fat-
alle circostanze della fattispecie concreta.
to, qual è o dovrebbe essere nella realtà secondo
Con il quinto motivo, che denunciano viola-
la previsione di legge, e quella risultante dall’atto
zione e falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del
dello stato civile, per un vizio comunque o da
2000 cit., art. 11, comma 3 e art. 12, comma 1,
chiunque originato nel procedimento di forma-
anche in relazione all’art. 451 c.c., le ricorrenti
zione di esso” per un vizio dell’atto stesso (cfr.
assumono che la Corte di merito avrebbe igno-
Cass. cit.).
rato il principio secondo cui gli atti dello stato
Nel suddetto procedimento, infatti, l’autori-
civile devono rispecchiare la disciplina sostanzia-
tà giudiziaria dispone di una cognizione piena
le degli status che è posta a base degli effetti
sull’accertamento della corrispondenza di quanto
giuridici da certificare, disconoscendo la liceità
richiesto dal genitore in relazione alla completez-
del percorso riproduttivo seguito dalle ricorrenti;
za dell’atto di nascita del figlio rispetto alla realtà
di conseguenza, sarebbe stata somministrata al
generativa e di discendenza genetica e biologica
nato una tutela dimidiata solo perchè il partner
nonchè, come nella specie, alla prospettata realtà
consenziente e convivente della partoriente era
fattuale derivante dal consenso prestato dalla S.
di sesso femminile, con violazione del principio
come madre (intenzionale).
di bigenitorialità.
3. In tal senso definita la materia del conten-
Il sesto motivo denuncia violazione e falsa ap-
dere, sulla quale è calibrata l’effettiva ratio deci-
plicazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione
dendi enucleabile dalla decisione impugnata, le
agli artt. 8 e 14 della Cedu, in tema di tutela della
ulteriori argomentazioni motivazionali – circa l’i-
vita privata e familiare e di non discriminazio-
potizzata nullità della procura alle liti per conflit-
ne, e dell’art. 3 della Convenzione Onu sui diritti
to di interessi di C.F., quale rappresentante della
dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata il 20
minore, e il difetto di legittimazione ad agire di
novembre 1989 e ratificata dall’Italia il 27 maggio
quest’ultima – sono svolte dalla Corte veneziana
1991.
in via incidentale e ad abundantiam. Si spiega
Il settimo motivo denuncia omessa pronuncia
dunque perchè i primi tre motivi di ricorso sia-
sulla domanda di rettificazione dei dati personali,
no inammissibili per difetto di interesse, appun-
ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 7,
tandosi su argomentazioni prive di influenza sul
comma 3, lett. b) e art. 13 del Regolamento UE
dispositivo della decisione impugnata (cfr. Cass.
n. 2016/679 del Parlamento Europeo e del Con-
n. 8755 del 2018, n. 22380 del 2014, n. 23635 del
siglio, del 27 aprile 2016, e violazione del diritto
2010).
alla corretta rappresentazione dei dati personali.
4. Gli altri motivi, dal quarto al settimo, de-
4.1. I suddetti motivi, pur cogliendo in parte
vono essere esaminati congiuntamente, essendo
la ratio decidendi a sostegno della decisione im-
reciprocamente connessi.
pugnata, sono infondati.
488
Stefania Flore
Premesso che una delle ricorrenti, entrambe cittadine italiane conviventi, è madre biologica della piccola L. (che ha partorito) e della quale ha la responsabilità genitoriale ( C.F.) e che l’altra ( S.D.) dichiara di essere genitrice intenzionale per avere dato il consenso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita cui si è sottoposta la C., la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del divieto per le coppie formate da persone “di sesso diverso” di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) cui possono accedere solo le “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi” (L. n. 40 del 2004, art. 5), rafforzato dalla previsione di sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie “composte da soggetti dello stesso sesso” (art. 12, comma 2). Tale divieto – desumibile anche da altre disposizioni (cfr. D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, comma 1; D.P.R. 17 luglio 2015, art. 1, comma 1, lett. c, che ha sostituito del D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, art. 7, comma 1, lett. a) che implicitamente (ma chiaramente) postulano che una sola persona abbia diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato – è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa. La Corte costituzionale lo ha ritenuto conforme a Costituzione con la sentenza n. 221 del 2019. La quale ha premesso che “la possibilità dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un “diritto a procreare” (o “alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come
diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale”, ma al suddetto interrogativo la Corte ha dato risposta negativa seguendo “due idee di base”. La prima “attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o in fertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”. La seconda “attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre”. La validità delle suddette conclusioni non è inficiata dai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – ampiamente richiamati dalle ricorrenti – sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali (cfr. Cass. n. 12962 del 2016) e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso (cfr. Cass. n. 19599 del 2016, n. 14878 del 2017). Ed infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, “vi è (...) una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela (...) l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base
489
Giurisprudenza
al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va ve-
anche il sistema del diritto internazionale priva-
rificato in concreto (...) La PMA, di contro, serve
to, alla luce dell’art. 117 Cost., comma 1. E ciò
a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza
diversamente dalle coppie omosessuali maschili,
a una coppia (o a un singolo), realizzandone le
per le quali la genitorialità artificiale passa ne-
aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve
cessariamente attraverso la pratica distinta della
ancora nascere: non è, perciò, irragionevole (...)
maternità surrogata (o gestazione per altri) che
che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle
è vietata da una disposizione (L. n. 40 del 2004,
che, secondo la sua valutazione e alla luce degli
art. 12, comma 6) che si è ritenuta espressiva di
apprezzamenti correnti nella comunità sociale,
un principio di ordine pubblico, a tutela di va-
appaiono, in astratto, come le migliori condizioni
lori fondamentali, quali la dignità della gestante
‘di partenza’”.
e l’istituto dell’adozione, non irragionevolmente
Per altro verso, “il solo fatto che un divieto
ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del
possa essere eluso recandosi all’estero non può
minore, salva la possibilità di conferire comun-
costituire una valida ragione per dubitare della
que rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ri-
sua conformità a Costituzione» (in tal senso, Cor-
corso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione
te Cost. n. 221 del 2019). La possibilità di ottenere
(Cass., sez. un., n. 12193 del 2019).
il riconoscimento in Italia di atti stranieri dichia-
Non è dunque pertinente il riferimento, sul
rativi del rapporto di filiazione da due donne del-
quale le ricorrenti insistono, alla nozione ristretta
lo stesso sesso si giustifica in virtù del fatto che
di ordine pubblico, essendo l’atto di nascita che
diverso è il parametro normativo applicabile. A
si chiede di rettificare formato in Italia (dove la
venire in rilievo, in tal caso, è il principio di ordi-
bambina è nata) e non rilevando che la pratica
ne pubblico (L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 16 e
fecondativa medicalmente assistita sia avvenuta
art. 64, comma 1, lett. g) con il quale si è ritenuto
all’estero.
non contrastare il divieto normativamente impo-
5. Il ricorso è rigettato. Le spese sono com-
sto in Italia alle coppie formate da persone “di
pensate, in considerazione della complessità e
sesso diverso” di accedere alle PMA, in relazione
novità delle questioni dibattute.
ad atti validamente formati all’estero per i quali è impellente la tutela del diritto alla continuità
P.Q.M.
(e conservazione) dello “status filiationis” acqui-
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
sito all’estero, unitamente al valore della circo-
In caso di diffusione del presente provvedi-
lazione degli atti giuridici, quale manifestazione
mento, omettere le generalità e gli altri dati iden-
dell’apertura dell’ordinamento alle istanze inter-
tificativi.
nazionalistiche, delle quali può dirsi espressione
490
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2019.
Stefania Flore
Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2020, n. 8029; Giancola Presidente – Mercolino Relatore Filiazione omogenitoriale – Procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero – Nascita del minore in Italia – Riconoscimento del figlio da parte del genitore d’intenzione – Atto di nascita con doppia maternità La circostanza che il concepimento di un minore si sia realizzato mediante ricorso, da parte di due donne, alla procreazione eterologa all’estero, con inseminazione artificiale di una e prestazione del consenso dell’altra, non consente l’indicazione, nell’atto di nascita redatto in Italia, di entrambe le donne come genitori, a ciò ostando l’interpretazione sistematica degli artt. 8 e 9, l. n. 40/2004, da effettuarsi conformemente alle direttive della legge medesima, volte a escludere le coppie omosessuali dall’accesso alle tecniche.
(Omissis) Fatti
di causa
1. N.B., in proprio e nella qualità di genito-
2. Il reclamo proposto dal Pubblico Ministero è stato rigettato dalla Corte d’appello di Firenze con decreto del 19 aprile 2019.
re esercente la responsabilità nei confronti di
A fondamento della decisione, la Corte ha
N.E., e L.G.D. proposero ricorso al Tribunale di
dichiarato innanzitutto ammissibile l’intervento
Pistoia, per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto
spiegato in appello dal Ministero dell’interno e
opposto dall’ufficiale di stato civile del Comune
dalla Prefettura di Pistoia, osservando che nel
di (Omissis) alla ricezione della dichiarazione di
procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000,
riconoscimento del minore quale figlio naturale
art. 95, la legittimazione passiva spetta al Pub-
di entrambe le donne. Premesso di essere unite civilmente fin dal mese di (Omissis), le ricorrenti esposero che il minore, nato a (Omissis) e partorito dalla N., era stato dalla stessa concepito mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all’estero senza alcun apporto biologico della L., la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all’intervento. 1.1. Con decreto del 17 luglio 2018, il Tribu-
blico Ministero, titolare del potere di iniziativa e portatore del correlato interesse pubblico, ma precisando che nulla impedisce all’ufficiale di stato civile di intervenirvi ad adiuvandum, per far valere l’interesse pubblico sotteso alla condotta censurata, ed affermando pertanto la legittimità dell’intervento del Ministero, al quale spetta il potere d’impartire istruzioni all’ufficiale di stato civile, e del Prefetto, al quale spetta la vigilanza sugli uffici di stato civile. Nel merito, premesso che la L. 19 febbraio
nale di Pistoia accolse la domanda, dichiarando
2004, n. 40, vieta il ricorso a tecniche di procrea-
illegittimo il rifiuto dell’ufficiale di stato civile e
zione medicalmente assistita di tipo eterologo, ha
disponendo la rettificazione dell’atto di nascita
rilevato che, nonostante la dichiarazione d’illegit-
del minore, ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000,
timità costituzionale di tale divieto per le coppie
n. 396, art. 95, mediante la sostituzione di quello
alle quali sia stata diagnosticata una patologia
esistente e la formazione di un nuovo atto di con-
che costituisca causa d’infertilità assoluta ed irre-
tenuto analogo, ma con l’indicazione di entram-
versibile o e per quelle portatrici di malattie ge-
be le ricorrenti in qualità di madri e l’attribuzione
netiche trasmissibili, è rimasta inalterata l’impo-
al minore dei relativi cognomi.
stazione di fondo della legge, la quale consente
491
Giurisprudenza
il ricorso alla procreazione medicalmente assistita soltanto a coppie formate da persone maggiorenni, di sesso diverso, coniugate e conviventi, in età potenzialmente fertile ed ancora viventi, purchè sia accertata l’impossibilità di rimuovere la causa impeditiva della procreazione, sussista il consenso informato di entrambi i componenti della coppia, e la procedura si svolga presso strutture pubbliche o private autorizzate dalla Regione. Ha osservato peraltro che la stessa normativa esclude la punibilità di coloro che si siano sottoposti alle predette tecniche, confermando il divieto di anonimato per la madre biologica e il divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso, ed escludendo l’acquisto di diritti da parte del terzo donatore di gameti. Ha ritenuto pertanto che dalla predetta disciplina possa desumersi il riconoscimento della preminenza, rispetto alla sua violazione, dell’interesse del minore alla genitorialità completa ed al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’assunzione di responsabilità da parte di entrambi i genitori e della procreazione assistita di uno di essi, affermando conseguentemente l’incongruenza di un’interpretazione sistematica che a causa dell’illegittima condotta dei coniugi o conviventi non punisca gli stessi ma recida ogni rapporto tra il figlio biologico di uno di essi e l’altro coniuge o convivente che abbia prestato il proprio consenso alla nascita. Ha aggiunto che, in assenza di una specifica previsione, tale risultato ermeneutico, riguardante l’illegittimo ricorso alla procreazione medicalmente assistita nel territorio dello Stato, può essere esteso, pena un’inammissibile disparità di trattamento, anche all’ipotesi in cui tale condotta sia tenuta all’estero, in un Paese in cui la predetta pratica sia consentita, con garanzie analoghe a quelle dell’ordinamento italiano. Quanto poi alla possibilità di estendere il predetto riconoscimento alla coppia omosessuale,
492
la Corte ha richiamato le norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo e la pari dignità sociale di tutti i cittadini davanti alla legge, nonchè l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà dei cittadini ed impediscono il pieno sviluppo della persona umana, evidenziando l’apertura delle predette disposizioni a nuove fattispecie, e la conseguente emersione di nuovi diritti, derivanti dall’evoluzione della coscienza sociale, nonchè l’esigenza di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo degli stessi, che costituiscano frutto di contrapposte valutazioni etiche. Premesso che in materia di genitorialità la predetta esigenza si pone da un lato con riguardo al diritto alla salute, alla procreazione ed all’integrità personale, coinvolti nella procreazione medicalmente assistita, dallo altro con riguardo al diritto all’identità di ciascun individuo, in particolare all’identità sessuale, correlato alle unioni civili, ha affermato che la tutela degli stessi, ormai entrati a far parte del patrimonio culturale e giuridico dello Stato, risulta condizionata dal rispetto di valori di rango superiore alla cui luce vanno letti, con l’unico limite della lesione di antagonisti diritti di uguale rango. Ha escluso peraltro la necessità di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, affermando la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sulla valutazione della fattispecie in questione alla stregua di un bilanciamento fra principi di pari rango, costituiti rispettivamente dal diritto del concepito alla completa genitorialità, dal diritto alla famiglia, alla salute ed alla procreazione della coppia che abbia acceduto ad una pratica di procreazione medicalmente assistita e dal diritto della coppia omosessuale legata da un’unione civile a dispiegare in tale unione la propria personalità anche attraverso un progetto di genitorialità condivisa, e comunque a non essere discriminata per ragioni legate alla propria inclinazione sessuale. Ciò posto, e rilevato che la scienza e la coscienza
Stefania Flore
sociale da tempo non reputano più patologica la condizione di omosessualità, ha evidenziato che lo stesso Giudice delle leggi ravvisa nell’unione omosessuale una formazione sociale idonea a consentire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, aggiungendo che la giurisprudenza ha ormai ammesso la possibilità che tale formazione sociale si estenda fino ad includere progetti di genitorialità legale, attraverso l’adozione di un minore. Ha escluso che il riconoscimento del diritto alla bigenitorialità possa comportare, nel caso di specie, un’incontrollata diffusione di una genitorialità meramente intenzionale, dal momento che la genitorialità legale resta subordinata ad una specifica assunzione di responsabilità della coppia, al previo consenso informato e ad una disciplina complessiva della procreazione medicalmente assistita conforme all’ordine pubblico interno. Ha ritenuto infine inappropriato il richiamo al principio di tipicità della trascrizione di atti dello stato civile, osservando che gli stessi costituiscono ricezione e mera attestazione di eventi sostanziali, la cui conformità alla legge esclude l’ammissibilità di un rifiuto. 3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Ministero dell’interno e l’Ufficio Territoriale del Governo – Prefettura di Pistoia per tre motivi. La N. e la L. hanno resistito con controricorso, illustrato anche con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano l’eccesso di potere giurisdizionale, affermando che, nell’ordinare la trascrizione nei registri dello stato civile di una piena genitorialità omosessuale riguardante un individuo nato in Italia, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discre-
zionalità politica spettante al legislatore. Premesso che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall’assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, rilevano che la possibilità di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico è espressamente esclusa dalla legge; affermano che tale divieto non comporta alcuna discriminazione, essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale indipendentemente dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all’eliminazione di qualsiasi disparità di trattamento. Precisato inoltre che l’eventuale contrarietà di tale disciplina ai principi costituzionali dovrebbe essere denunciata mediante la proposizione della questione di legittimità costituzionale, osservano che la Costituzione non prevede una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, e che la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che la stessa possa esercitarsi senza limiti; aggiungono che, come riconosciuto dalla Corte EDU, il divieto della fecondazione eterologa non comporta una violazione dell’art. 8 della CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità garantito agli Stati, e non risultando tutelato il semplice desiderio di fondare una famiglia; evidenziano che anche la prevalenza dell’interesse del minore non ha carattere assoluto, comportando una deroga alle preclusioni derivanti dalla contrarietà all’ordine pubblico, e dovendo quindi trovare applicazione secondo canoni di proporzionalità e bilanciamento; sostengono comunque che nel caso in esame non è in gioco l’interesse del mi-
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Giurisprudenza
nore, dal momento che il rifiuto opposto dall’uf-
le ipotesi di filiazione, derivante dall’introduzione
ficiale di stato civile non è idoneo a pregiudicare
della disciplina della procreazione medicalmente
la stabilità del contesto familiare in cui si svolge
assistita, resta finalizzato esclusivamente a con-
la vita di relazione dell’interessato.
sentire la filiazione a coppie che in astratto po-
2. Con il secondo motivo, i ricorrenti dedu-
trebbero procreare ma che in concreto ne sono
cono la violazione e/o la falsa applicazione del
impedite, rilevano che per le coppie omosessuali
D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, art. 269 c.c. e della
l’impedimento deriva invece da un limite natura-
L. n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12, sostenendo che
le, che rende impossibile la generazione di figli
la norma che regola la formazione dell’atto di
se non attraverso il ricorso a pratiche mediche
nascita va letta congiuntamente con le disposi-
richiedenti la cooperazione di terzi: negano per-
zioni del codice civile che disciplinano la filia-
tanto la sussistenza della disparità di trattamento
zione, le quali non solo postulano la diversità di
prospettata dal decreto impugnato, ponendo in
sesso tra i genitori, ma attribuiscono la qualità di
risalto la diversità delle situazioni poste a con-
madre esclusivamente a colei che partorisce. Tali
fronto, ed evidenziando che la materia della fi-
disposizioni dimostrano che il substrato sostan-
liazione e dell’adozione non ha trovato spazio
ziale dell’attribuzione giuridica della maternità è
neppure nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale,
costituito dal rapporto genetico di discendenza,
nell’ammettere le unioni civili fra individui dello
quale fatto oggettivo accertabile in sede giudizia-
stesso sesso, ha escluso l’applicabilità delle re-
le, ed escludono pertanto la possibilità di ricolle-
lative disposizioni al di fuori dell’ambito espres-
gare l’assunzione della predetta qualità ad un at-
samente previsto. Affermano, per converso, che
to volitivo-negoziale, così come la possibilità che
dare copertura giuridica a situazioni giuridiche
esistano due madri aventi la medesima relazione
formatesi all’estero comporterebbe una dispari-
giuridica con il figlio.
tà di trattamento rispetto a quelle sorte in Ita-
3. Con il terzo motivo, il ricorrenti insistono
lia, incentivando comportamenti non solo elusivi
sulla violazione e/o la falsa applicazione della L.
dell’ordinamento italiano, ma posti in essere in
n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12, osservando che,
dispregio delle norme interne. Ribadiscono inol-
nel ritenere consentita la genitorialità omoses-
tre che il mancato riconoscimento della doppia
suale, sulla base di un’interpretazione costituzio-
genitorialità non comporta alcuna lesione dell’in-
nalmente orientata delle predette disposizioni, il
teresse del minore, avendo quest’ultimo già una
decreto impugnato non ha tenuto conto del di-
madre riconosciuta dal nostro ordinamento, e
vieto della procreazione medicalmente assistita,
non sussistendo alcuna norma che preveda la
dalle stesse imposto alle coppie omosessuali. So-
necessità di due genitori non aventi con lui alcun
stengono che la valorizzazione della genitorialità
legame biologico. Contestano la pertinenza del
condivisa apre il varco ad una concezione del
richiamo al diritto del minore alla conservazione
tutto svincolata dalle regole biologiche, facendo
dell’identità familiare acquisita ed alla continuità
dipendere esclusivamente dalla volontà la sua
dei rapporti affettivi, osservando che il ricono-
attuazione e spostando su un piano meramente
scimento della prevalenza dello stesso sul favor
potestativo l’attribuzione dello status filiationis,
veritatis, normalmente riguardante lo status fi-
finora pacificamente ritenuto sottratto alla dispo-
liationis derivante da un atto di nascita legitti-
nibilità delle parti. Premesso che, anche a seguito
mamente formato, nella specie si risolverebbe in
della parziale dichiarazione d’illegittimità costitu-
una mera presa d’atto della volontà dei genitori
zionale della L. n. 40 del 2004, l’ampliamento del-
e dello stato di fatto dagli stessi imposto, e nel
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conseguente consolidamento di una situazione familiare contra ius. Sostengono infine che il riconoscimento di un rapporto di filiazione svincolato dalle sue radici naturali, oltre a porsi in contrasto con l’interesse del minore a conoscere l’effettivo genitore biologico, quale dato rilevante della sua identità personale, comporterebbe gravi rischi sotto il profilo sanitario, precludendo la conoscenza di eventuali patologie ereditarie sia fisiche che psichiche, con conseguente pregiudizio per le possibilità di cura. 4. Il primo motivo è infondato. L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore ricorre infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. Tale vizio non è ravvisabile nel decreto impugnato, il quale, nel dichiarare ammissibile il riconoscimento di un minore nato da una donna unita civilmente ad un’altra donna come figlio naturale di entrambe, nonostante l’assenza di un legame biologico con una di esse, ha fornito, a sostegno di tale conclusione, un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. n. 40 del 2004, secondo cui la violazione del divieto di applicare tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali non comporta l’esclusione di ogni rapporto tra il minore ed il convivente del genitore che abbia prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche, dovendosi ritenere prevalenti l’interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis ed il suo diritto alla bigenitorialità, realizzabile anche nello ambito delle unioni omosessuali, quali formazioni sociali idonee a consentire il libero sviluppo della personalità umana. In quanto ancorato a precisi indici normativi e puntuali richiami giurisprudenziali, tale percorso argomentativo, in-
dipendentemente dalla sua condivisibilità, consente di escludere che la Corte d’appello abbia ecceduto i limiti del proprio potere giurisdizionale, risultando piuttosto difficile distinguere, nell’ambito del predetto ragionamento, gli aspetti prettamente interpretativi da quelli eventualmente creativi, la cui estraneità all’esercizio della giurisdizione dev’essere peraltro valutata anche alla luce del margine di creatività intrinsecamente proprio dell’attività ermeneutica: è noto d’altronde che alla figura dell’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera di attribuzioni del legislatore questa Corte ha riconosciuto una portata eminentemente teorica ed astratta, escludendone la configurabilità allorquando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la regula iuris applicabile al caso concreto attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in iudicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068). 5. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono invece fondati. È opportuno premettere che nella fattispecie in esame non possono trovare applicazione i principi enunciati in una recente sentenza, con cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno dichiarato inammissibile il riconoscimento dell’efficacia nel nostro ordinamento di un provvedimento giurisdizionale straniero avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale cittadino italiano, affermando che tale riconosci-
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mento trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). L’atto di nascita del quale è stata chiesta la rettificazione nel presente giudizio riguarda infatti un minore in possesso della cittadinanza italiana, in quanto nato in Italia da una donna cittadina italiana, e la modifica richiesta consiste nell’attribuzione della qualità di genitore ad un’altra donna, anch’essa in possesso della cittadinanza italiana, legata da unione civile alla madre del minore: la fattispecie deve ritenersi pertanto assoggettata interamente alla disciplina dell’ordinamento italiano, non presentando alcun elemento di estraneità rispetto allo stesso, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, per stabilire se nella decisione della controversia possa darsi ingresso a norme o istituti appartenenti ad altri ordinamenti. Nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza, risultante dal decreto impugnato, che il minore, pur essendo venuto al mondo in Italia, sia stato concepito in Spagna, a seguito del consenso ivi prestato dalla genitrice intenzionale alla sottoposizione della convivente a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33, lo stato di figlio è infatti determinato dalla legge nazionale di quest’ultimo, o, se più favorevole, da quella dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita, restando pertanto ininfluenti il luogo e le modalità del concepimento. Non merita dunque accoglimento la richiesta di rimessione della causa alle Sezioni Unite, avanzata dal Pubblico Ministero per l’ipotesi in cui questa Corte avesse ritenuto di non dover recepire la nozione di ordine pubblico risultante dalla sentenza citata, al fine di ottenere l’esclusione dell’applicabilità della legge straniera, la cui
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inoperatività è invece ricollegabile all’applicazione delle norme ordinarie di diritto internazionale privato. 5.1. Ciò posto, non può condividersi l’interpretazione della L. n. 40 del 2004, fornita dal decreto impugnato, secondo cui il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione di quanto disposto dall’art. 5, comporterebbe esclusivamente l’irrogazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12, comma 2, a carico di chi ne abbia fatto applicazione, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del partner che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche. Lo stesso decreto impugnato pone in risalto le scelte di fondo sottese alla disciplina in esame, consistenti da un lato nell’escludere il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall’altro nello assoggettare a precisi requisiti soggettivi ed oggettivi l’accesso alle altre tecniche. Il primo principio, originariamente enunciato in termini assoluti dall’art. 4, ha subito un parziale temperamento per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno dichiarato illegittima la predetta disposizione nella parte in cui estendeva il divieto del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche alle coppie alle quali fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili. Il secondo principio, rimasto invece invariato, trova a sua volta espressione nell’art. 5, il quale consente l’accesso alle
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tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, nell’art. 6, il quale subordina l’utilizzazione delle predette tecniche al consenso informato di entrambi i richiedenti, e nell’art. 10, il quale riserva la realizzazione degli interventi in questione alle strutture pubbliche o a strutture private autorizzate. L’osservanza di tali principi è presidiata dall’art. 12, il quale eleva al rango d’illeciti amministrativi le relative violazioni, prevedendo sanzioni pecuniarie a carico di chiunque, a qualsiasi titolo, utilizzi a finii procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (comma 1) o applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie prive dei requisiti soggettivi prescritti dall’art. 5 (comma 2) o senza aver raccolto il consenso secondo le modalità prescritte (comma 4) o presso strutture diverse da quelle autorizzate (comma 5), ma escludendo la punibilità dell’uomo o della donna ai quali siano state applicate le tecniche in esame (comma 8). Il sistema trova poi il suo completamento nell’art. 8, che attribuisce ai nati lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle predette tecniche, e nell’art. 9, che, oltre a stabilire il divieto dell’anonimato per la madre biologica, esclude, in caso di violazione del divieto di ricorrere a tecniche di tipo eterologo, la facoltà del coniuge o del convivente il cui consenso sia ricavabile da atti concludenti di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o d’impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità, precludendo inoltre al donatore dei gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione parentale con il nato. 5.1. È proprio l’esame degli artt. 8 e 9, ritenuto idoneo ad evidenziare la prevalenza dell’interesse del nato ad una genitorialità completa, e quindi al riconoscimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’evento
intenzionale dei genitori, ad aver indotto la Corte territoriale ad affermare che l’illegittimità della condotta dei coniugi o dei conviventi, che abbiano prestato il proprio consenso all’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita in assenza dei requisiti oggettivi o soggettivi prescritti dalla legge, non consente di escludere l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il minore messo al mondo da uno di essi e l’altro convivente, pur in assenza di un rapporto biologico tra gli stessi; e tale conclusione è stata ritenuta estensibile anche all’ipotesi in cui la nascita del minore costituisca il risultato dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo effettuata su richiesta di una coppia omosessuale, in virtù dell’orientamento ormai prevalente nella coscienza sociale e giuridica, che ravvisa nelle unioni omosessuali formazioni sociali idonee a favorire il libero sviluppo della persona, e del conseguente diritto delle predette coppie a realizzare in tali unioni un progetto di genitorialità condivisa. La tesi in esame costituisce indubbiamente il portato delle citate pronunce d’incostituzionalità, che, introducendo un limite al divieto assoluto del ricorso a tecniche di tipo eterologo, hanno reso configurabili nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate da un rapporto biologico con il nato, in tal modo aprendo la strada ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale riguardante la possibilità di riconoscere la sussistenza di un rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso alle predette tecniche non perché affette da sterilità o infertilità patologiche o da malattie genetiche trasmissibili, ma perché fisiologicamente incapaci di generare o per l’età avanzata o per difetto di complementarità biologica dei componenti. La predetta tematica è stata affrontata dalla Corte costituzionale in una recente pronuncia, con la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004,
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artt. 5 e 12, nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, essa ha precisato la portata ed i limiti dei precedenti interventi, in tal modo pervenendo all’esclusione da un lato della possibilità di ravvisarvi una generalizzata legittimazione del ricorso alle predette tecniche, dall’altro dell’utilizzabilità delle stesse per la soddisfazione delle aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali. Ha infatti osservato che le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, pur avendo comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, hanno lasciato inalterate le coordinate di fondo della predetta legge, costituite dalla configurazione di tali tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e dall’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre. Premesso che l’ammissione delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita richiederebbe la sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le linee guida della relativa disciplina, ha rilevato che quest’ultima non presenta alcuna incongruenza interna, non essendo l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive. Pur confermando che nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., rientra anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso, ha ricordato che, come già affermato nella sentenza n. 162 del 2014, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, ribadendo che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza li-
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miti. Precisato inoltre che la possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone il problema di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, ovvero se sia giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate, soprattutto in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del nato, ha affermato che il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un equilibrio tra le diverse istanze, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi allo interno del tessuto sociale nel singolo momento storico, spetta in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale; in proposito, ha rilevato che la scelta espressa dalle disposizioni censurate non eccede il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce nella materia in esame, non potendosi per un verso considerare irrazionale ed ingiustificata la preoccupazione di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato, e dovendosi per altro verso escludere, pur a fronte di soluzioni di segno diverso, l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato, e ciò indipendentemente dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale o della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019; al riguardo, v. anche sent. n. 237 del 2019). 5.3. La perdurante operatività, emergente dalle predette considerazioni, delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, confermando da un lato la piena vigenza del divieto di ricorso alle tecniche di procrea-
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zione medicalmente assistita di tipo eterologo, salvi i casi d’infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, dall’altro l’esclusione della possibilità di avvalersi delle predette tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro ed i richiedenti, si pone in radicale contrasto con l’interpretazione sistematica prospettata dal decreto impugnato, secondo cui sarebbero proprio le norme in esame a consentire, anche al di fuori dei predetti casi, l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, e ciò in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita. Non può condividersi, in particolare, il tentativo di astrarre il disposto dell’art. 9, dal contesto in cui è collocato, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale: se è vero, infatti, che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dall’atto sessuale, è anche vero però che l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane tuttora saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice. In tal senso depongono chiaramente l’art. 269, comma 3, il quale identifi-
ca la madre con la donna che ha partorito colui che si pretende essere figlio, l’art. 231, in virtù del quale il marito si presume padre del figlio concepito o nato in costanza di matrimonio, l’art. 243-bis, che richiede l’esercizio di un’apposita azione per dimostrare l’insussistenza del rapporto di filiazione, l’art. 250, che attribuisce la legittimazione a riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio alla madre o al padre, l’art. 263, che consente l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 269, che consente di ottenere giudizialmente la dichiarazione di paternità o maternità nei casi in cui è ammesso il riconoscimento. La stessa Corte costituzionale, pur avendo posto in risalto la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori, ha d’altronde riconosciuto che tale valore dev’essere bilanciato con altri valori costituzionalmente protetti, soprattutto quando, come nella specie, si discuta della scelta di ricorrere a tecniche che, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29,30 e 31 Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019, cit.), oltre a quella del codice civile. In contrario, non appare sufficiente il richiamo del decreto impugnato alla disciplina delle unioni civili ed agli orientamenti da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, che riconoscono i diritti delle coppie omosessuali ed escludono la legittimità di condotte ingiustificatamente discriminatorie nei confronti delle stesse, ravvisando in tali unioni un fenomeno meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., quali formazioni sociali idonee a consentire il pieno dispiegamento della personalità umana: il riconoscimento, ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale, della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, cresce-
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re ed educare figli, che ha condotto a ritenere ammissibile l’adozione del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962), nonchè la trascrizione dell’atto di nascita validamente formato all’estero dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599), non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico, nè giustifica la prospettazione di un meccanismo d’instaurazione del relativo rapporto alternativo a quello fondato su tale dato, non dovendo la predetta genitorialità esprimersi necessariamente nelle medesime forme giuridiche previste per il figlio nato dal matrimonio o riconosciuto, a condizione, ovviamente, che al minore accolto dalla coppia omosessuale sia assicurata una tutela comparabile a quella garantita a quest’ultimo. Non è un caso, d’altronde, che la L. n. 76 del 2016, nel dettare la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, si sia limitata a far salvo “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (art. 1, comma 20), senza richiamare in alcun modo la disciplina della procreazione medicalmente assistita, rimasta immodificata a seguito di tale intervento normativo. 5.4. L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non contrasta in alcun modo neppure con la giurisprudenza della Corte EDU: quest’ultima, infatti, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia;
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28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria). Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). 5.5. Può quindi concludersi che il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle
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predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto. Tale conclusione non si pone in alcun modo in contrasto con i precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorchè una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): “indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dell’atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti” così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico. Tale compatibilità, com’è noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonchè del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
La nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento. Tale disparità di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sè causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019). L’esclusione dell’ammissibilità del riconoscimento consente poi di ritenere legittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, o comunque come figlio naturale della donna che si è limitata a prestare il proprio consenso alla fecondazione eterologa, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 42, che, subordinando il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, consente di escluderne l’operatività nella ipotesi in cui, come nella specie, la costituzione del rapporto di filiazione trovi ostacolo nella disciplina legale della procreazione medicalmente assistita. 6. Il decreto impugnato va pertanto cassato, in applicazione del principio enunciato, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi
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dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda. La natura della causa e la peculiarità della questione trattata, tuttora oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale, giustificano l’integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio. P.Q.M. Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il terzo motivo, cassa il decreto impugnato, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.
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Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza. Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a). Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020. Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020.
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L’atto di nascita del figlio concepito mediante fecondazione eterologa effettuata all’estero da una coppia di donne*
Sommario : 1. Il caso. – 2. Riflessioni preliminari e delimitazione della questione. – 3. Gli argomenti a sostegno della tesi favorevole accolta nei giudizi di merito. – 4. Gli argomenti a sostegno della tesi contraria sposata dalla Corte. – 5. L’interpretazione degli artt. 8 e 9 della l. 40/2004 nell’ambito della fecondazione effettuata da coppie eterosessuali in violazione della legge medesima. – 6. L’auspicabile estensione degli articoli 8 e 9 della l. 40/2004, in nome della necessaria prevalenza dell’interesse del minore.
With two judgments, one rendered shortly after the other, the Supreme Court addresses, for the first time, the issue of the content of the birth certificate drawn up on the occasion of a birth in Italy, but following a conception abroad by means of heterologous fertilization requested by two women. Having cleared the field of precedents relating to the transcription of the birth certificate or of the foreign measures certifying double maternity, the Supreme Court states that, applying domestic law, the necessary conclusion is to exclude the possibility to fill out a birth certificate indicating as a parent not only the woman who gave birth, but also the so-called intended parent. This is because a systematically oriented interpretation of the articles 8 and 9 of the Law no. 40/2004 requires that their application should not be extended to heterologous fertilization carried out by couples formed by persons of the same sex.
1. Il caso. Le vicende dei due provvedimenti che si commentano sono sostanzialmente analoghe. Per comodità di trattazione, si esporrà solo la vicenda oggetto della sentenza più recente. Una coppia formata da due donne, unite civilmente in Italia, si rivolge a una clinica spagnola per effettuare un trattamento di procreazione eterologa: una porta avanti la gravidanza, mentre l’altra è priva di ogni legame biologico col nascituro. Tornate in Italia,
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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dove avviene il parto, sorge il problema del contenuto dell’atto di nascita. L’ufficiale di stato civile rifiuta la dichiarazione della coppia e indica come madre la sola partoriente. Le due donne ricorrono quindi ai sensi dell’art. 95 DPR 396/001, entrambe in proprio e la prima anche in qualità di rappresentante del minore, per ottenere la rettificazione dell’atto, in modo da menzionare la maternità di entrambe. Il Tribunale di Pistoia accoglie il ricorso, disponendo la rettifica dell’atto di nascita. Il decreto viene poi confermato dalla Corte d’Appello di Firenze2, la quale osserva che un’interpretazione costituzionalmente orientata degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004 impone l’estensione degli stessi anche all’eterologa effettuata da coppie dello stesso sesso. In considerazione, quindi, del rilievo della genitorialità di intenzione e dell’impossibilità di revocare il consenso al legame genitoriale col nato, legame che dev’essere anzi preservato a tutela del minore, nulla osta alla formazione dell’atto di nascita che indichi, quali genitori, le due donne. Ricorrono in Cassazione il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Pistoia, sulla base di tre motivi. Si rileva, in primis, un eccesso di potere giurisdizionale, per aver invaso la sfera di discrezionalità politica del legislatore e non aver investito la Corte Costituzionale della questione. Tale motivo viene rigettato, confermando che la Corte d’Appello ha compiuto un’interpretazione ancorata a dati normativi, potendosi semmai discutere di un error in iudicando3. Con il secondo e terzo motivo, si denuncia che le norme sulla formazione dell’atto di nascita siano state interpretate senza tener conto della legge 40/2004 e della normativa del codice civile in materia di filiazione, che postulano, rispettivamente, la diversità di sesso tra genitori e il favor veritatis, sicché la madre è sempre colei che partorisce, avente un legame biologico col nato. L’interpretazione della Corte d’Appello, invece, slegandosi dal dato biologico, sposterebbe l’attribuzione dello status “su un piano meramente potestativo”, risolvendosi in una “presa d’atto della volontà dei genitori”. Si afferma, infine, che il mancato riconoscimento del legame genitoriale col genitore d’intenzione non violerebbe il diritto del minore alla vita privata e familiare, avendo questi già un legame
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Sulla natura del procedimento ex art. 95 DPR 396/00, si veda Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2019, n. 13000, in Fam. e dir., 2020, 1, 27, con nota di Giunchedi. La Corte ha affermato che l’impugnazione, per asserita illegittimità, del rifiuto di rettificazione dell’atto di nascita, non si atteggia «come giudizio di costituzione diretta di uno status filiationis, bensì di verifica della corrispondenza alla verità di una richiesta attestazione». Ha specificato, inoltre, che il giudice dispone a tal fine di una cognizione piena e può avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitegli dalla parte. Sviluppo diametralmente opposto segna il ricorso sfociato nel primo dei provvedimenti che si commenta: la Corte d’Appello di Venezia conferma il decreto del Tribunale di Treviso che conferma l’impossibilità di rettificazione poiché l’indicazione della doppia maternità colliderebbe con il principio di tipicità degli atti dello stato civile e con l’obbligo di redigere i medesimi secondo formule e modalità tipiche e predeterminate con decreti del Ministero dell’Interno. In senso contrario si è espressa la recente Corte cost., 15 novembre 2019, n. 237, in Fam. e dir., 2020, 4, 325, con nota di Sesta. La Consulta, facendo riferimento alla struttura complessiva della legge 40/2004, alla legge 76/2016 e riallacciandosi alla sua recente sentenza n. 221/2019, con la quale ha confermato la legittimità del divieto di accesso alla PMA per le coppie formate da due donne, ha affermato che l’articolo 8 della legge 40/2004 è applicabile solo alla PMA effettuata da coppie di sesso diverso, seppur in violazione dei requisiti soggettivi. Una diversa interpretazione non sarebbe ricavabile, a ciò ostando i sopra richiamati dati normativi.
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con un genitore e non sussistendo alcuna norma che preveda la necessità di un legame giuridico con un genitore privo di un legame biologico. Anzi, riconoscere tali legami significherebbe incentivare le pratiche fecondative illecite, le quali, a dire dei ricorrenti, lederebbero i diritti del minore a identificare il proprio genitore biologico, e solleverebbero altresì il rischio di non poter conoscere eventuali patologie ereditarie. La Suprema Corte accoglie tali doglianze, riprendendo sostanzialmente le ragioni esposte dal Ministero e dalla Prefettura. La motivazione riserva inoltre ampio spazio alla questione, seppur non strettamente attinente, della conferma della legittimità del divieto di accesso alle tecniche di procreazione assistita per le coppie omosessuali, sancita di recente dalla Corte Costituzionale4.
2. Riflessioni preliminari e delimitazione della questione. Per stabilire se sia possibile formare, in Italia, un atto di nascita indicante una doppia maternità, occorre verificare quale sia lo status filiationis del nato, in base all’ordinamento interno; status del quale l’atto medesimo farà prova. È necessario sottolineare che non vi è alcun elemento di estraneità nella fattispecie. Infatti, nessun rilievo, come afferma la Corte, può avere la circostanza che il minore sia stato concepito in Spagna. La soluzione, da ricercare coi soli strumenti del diritto interno, sarà quindi applicabile anche ai casi di inseminazione artificiale “casalinga” effettuati in Italia5, cui talvolta ricorrono le donne per realizzare il loro progetto di genitorialità condiviso con la partner dello stesso sesso. Ciò, però, si badi bene, solo ove sia possibile provare, al pari che per la PMA eseguita all’estero, il consenso del genitore intenzionale e la rispondenza della fecondazione a un comune progetto genitoriale della coppia6. Occorre, inoltre, sgombrare il campo dai precedenti relativi al riconoscimento di atti o provvedimenti internazionali7. I suddetti precedenti, infatti, riguardano l’applicazione del filtro dell’ordine pubblico internazionale, che ha maglie più larghe di quello interno.
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Il riferimento è a Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221, in Foro it., 2019, 12, 1, 3782. Da atto della diffusione e delle modalità di attuazione della pratica l’inchiesta del 28.11.2013 di A. Sciotto sul giornale Espresso, dal titolo Fecondazione eterologa “fai-da-te”: dilagano i donatori su internet, consultabile al link https://espresso.repubblica.it/ inchieste/2013/11/28/news/fecondazione-eterologa-dilaga-il-fai-da-te-1.143296 Come chiarito da Cass. civ., sez. I, 15 maggio 2019, n. 13000, cit., occorre infatti provare la corrispondenza di quanto richiesto dal genitore “con la realtà generativa”. Tanto è necessario, inoltre, onde scongiurare il rischio che la formazione di un atto di nascita con doppia maternità rimesso alla mera volontà della coppia possa ostacolare il riconoscimento del figlio da parte del vero padre biologico, il quale abbia avuto rapporti con una donna omosessuale nell’inconsapevolezza di dover soddisfare il desiderio di genitorialità di quest’ultima, solo successivamente condiviso dalla partner. Relativamente al riconoscimento del provvedimento estero che dichiara la doppia maternità di un minore, si vedano Cass. civ., 30 settembre 2016, n. 19599, in Corriere giur., 2017, 2, 181 e Cass. civ., 15 giugno 2017, n. 14878, in Fam. e dir., 2018, 1, 5. Relativamente alla contrarietà all’ordine pubblico internazionale del riconoscimento di un legame di filiazione non biologico originato da maternità
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Ancora, occorre sottolineare che la questione all’esame della Corte attiene all’individuazione dello status filiationis del figlio nato in seguito a procreazione eterologa effettuata all’estero su iniziativa di una coppia formata da due donne. Restano escluse, invece, le coppie formate da uomini, la cui genitorialità si attua mediante la diversa pratica della maternità surrogata, per la quale non possono valere i riferimenti relativi all’eterologa8. Giova, infine, precisare che la Corte neppure accenna alla questione, pure analizzata in un caso analogo9, relativa all’applicabilità, ai fini della determinazione dello status filiationis, delle norme generali sulla filiazione contenute nel codice civile oppure di quelle racchiuse nella legge 40/2004. Questione che poteva essere ugualmente trattata, in considerazione del fatto che i ricorrenti, nel secondo caso che si commenta, denunciano la contrarietà dell’indicazione della doppia maternità all’articolo 269 c.c., il quale imporrebbe l’indicazione della maternità della sola partoriente. Nei provvedimenti in commento, invece, la Corte, nel risolvere la questione sullo status, si interroga solamente sull’ambito applicativo degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004. La ragione risiede probabilmente nel fatto che la stessa Corte, dopo aver sviscerato la questione in un precedente, ha concluso affermando che occorre “considerare le tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, un sistema alternativo, speciale, e non possono, di conseguenza, trovare applicazione i meccanismi di prova presuntiva del codice civile riferibili alla generazione biologica naturale”10. La questione si circoscrive, quindi, alla possibilità di interpretare in via analogica il combinato disposto degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004, relativi allo status del figlio, al divieto di disconoscimento e al divieto di parto anonimo stabiliti a tutela del nato, consentendo la loro estensibilità alle coppie omosessuali.
surrogata, si veda Cass. civ., Sez. Un., 8 maggio 2019, n. 12193, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 4, 737. La stessa Suprema Corte, in un suo precedente, ha sottolineato come l’attuazione del progetto di genitorialità della coppia formata da due donne sia assimilabile alla fecondazione eterologa. Si veda Cass. civ., 30 settembre 2016, n. 19599, cit., la quale ha altresì specificato che il caso in cui la partner che non porta avanti la gravidanza fornisca l’ovulo, non si possa assimilare alla maternità surrogata. 9 Il riferimento è a Cass. civ., sez. I, 15 maggio 2019, n. 13000, cit., avente oggetto la determinazione dello status del figlio generato mediante fecondazione omologa post mortem, parimenti eseguita in Spagna. In quella occasione, la Corte ha affermato di poter escludere l’applicabilità delle norme codicistiche sulla filiazione, le quali avrebbero comportato l’impossibilità di indicare il marito defunto come padre del minore, essendo trascorsi oltre 300 giorni dal concepimento e dalla nascita di quest’ultimo. La Cassazione ha invece deposto a favore dell’applicabilità delle norme in tema di status racchiuse nel capo III della l. n. 40/2004, la quale si qualifica come un “sistema alternativo” di filiazione. Questa conclusione, che valorizza il consenso e la genitorialità d’intenzione, è stata guidata dall’interesse del minore e, considerate le circostanze del caso concreto, dal legame biologico dello stesso col marito della madre, seppur defunto. 10 Ibidem, punto 7.8.7 8
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3. Gli argomenti a sostegno della tesi favorevole accolta nei giudizi di merito.
Entrambi i giudizi di merito hanno deposto a favore della formazione di un atto di nascita con doppia maternità, che ricomprenda non solo la partoriente, ma anche il genitore d’intenzione. Le ragioni che hanno indotto la Corte d’Appello a propendere per tale interpretazione – che si assume costituzionalmente orientata11 – del combinato disposto degli articoli 8 e 9, sono molteplici. Innanzitutto, dalla stessa legge 40/2004 si desumerebbe l’assenza di sanzioni per i genitori e per i minori nati da pratiche di procreazione assistita contrarie alla legge, giacché tale circostanza non escluderebbe l’operatività degli articoli 8 e 9. Una diversa interpretazione, che recida il legame tra i genitori e i minori, sarebbe incongruente, nonché preclusa dalla preminenza, rispetto alla violazione della legge, dell’interesse del minore alla genitorialità completa ed al mantenimento di uno status filiationis “corrispondente al complessivo esito dell’assunzione di responsabilità da parte di entrambi i genitori”. A questo ragionamento, forse in sé già sufficiente, la Corte d’Appello aggiunge varie considerazioni che giustificherebbero ulteriormente il risultato di questa interpretazione. Cita, infatti, il divieto di discriminazione degli omosessuali, l’esigenza di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della loro personalità, il riconoscimento della coppia omosessuale come formazione sociale ex art. 2 Cost. e la possibilità di imporre limiti alla genitorialità solo per prevenire la lesione di diritti antagonisti di pari rango12. Ricorda, inoltre, come l’orientamento ormai prevalente nella coscienza sociale e giuridica consideri le unioni omosessuali un luogo idoneo alla crescita del minore e a favorire il libero sviluppo della sua personalità13. La Corte d’Appello ha, infine, escluso di dover sollevare questione di legittimità costituzionale, data la possibilità di ricavare un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, fondata sul bilanciamento tra i seguenti principi: diritto del minore alla completa
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La Corte Costituzionale ha invece escluso la possibilità di effettuare un’interpretazione in tal senso, come approfondito in nota 3. Il riferimento è al principio affermato in Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Giur. it., 2014, 12, 2827, con nota di La Rosa. In tale occasione la Corte ha affermato che la scelta della coppia di diventare genitori e di formare una famiglia anche con figli, è riconducibile alla sfera privata e familiare ed è garantita dagli artt. 2, 3 e 31 Cost. Questa affermazione ha amplificato il dibattito relativo alla configurabilità di un diritto alla procreazione. In tema, per i contributi più recenti, si veda B. Liberali, Problematiche costituzionali nelle scelte procreative. Riflessioni intorno alla fecondazione medicalmente assistita e all’interruzione volontaria di gravidanza, Milano, 2017, 699 ss.; A. Valongo, Nuove genitorialità nel diritto delle tecnologie riproduttive, in Quaderni di diritto delle successioni e della famiglia, vol. 18, Edizioni scientifiche italiane, 2016, 34 ss. 13 Tale principio è stato affermato in particolare a partire da Cass. civ., 11 gennaio 2013, n. 601, in Giur. it., 2013, 4, 789. In tale occasione la Corte ha chiarito che in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza, non può dirsi, salvo incappare in un mero pregiudizio, che crescere in una famiglia omosessuale sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino. 12
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genitorialità, diritto alla famiglia, alla salute, alla procreazione e diritto della coppia omosessuale alla genitorialità e alla non discriminazione14.
4. Gli argomenti a sostegno della tesi contraria sposata dalla Corte.
Si analizzerà in questa sede il secondo dei due provvedimenti, poiché è più ampiamente motivato. La Cassazione afferma che una corretta interpretazione sistematica degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004 impone di tener conto dei principi che informano la legge medesima. Tali principi, ben individuati dalla recente sentenza della Corte Costituzionale15 che ha confermato la legittimità dell’esclusione degli omosessuali dall’accesso alle tecniche di PMA, sono i seguenti: il principio della famiglia ad instar naturae come luogo idoneo allo sviluppo della personalità del minore e la finalità terapeutica della PMA, che esclude le ipotesi di cosiddetta infertilità sociale o fisiologica, riguardante le coppie omosessuali. Nello sconfessare l’interpretazione della Corte d’Appello, la Cassazione, forse trascurando eccessivamente il principio dell’interesse del minore, riconduce tale soluzione interpretativa alle ultime sentenze della Corte Costituzionale16. Tuttavia, prosegue la Corte, proprio la Consulta ha risolto tale dibattito, confermando il divieto di accesso alla PMA per gli omosessuali e sostenendo che le due linee direttrici della legge 40, come sopra illustrate, sono razionali e ragionevoli. Inoltre, la Cassazione si fa forte dell’interpretazione degli articoli 8 e 9 contenuta in un’altra recentissima sentenza della Corte Costituzionale17, la quale ha chiaramente affermato che l’articolo 8 si applica “sempreché quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie di sesso diverso”.
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Si ricordi che il decreto della Corte d’Appello, reso nell’aprile 2019, non può tener conto degli assunti contenuti nella successiva Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221, cit., che afferma, con argomentazione discutibile, che la preclusione, per le coppie omosessuali formate da due donne, delle tecniche di PMA eterologa, non comporta una discriminazione in base al sesso. La sentenza sconfessa altresì la portata generale delle precedenti affermazioni sulla garanzia della libertà di procreazione, circoscrivendole alla coppia eterosessuale nel caso specificamente trattato e sostenendo, anzi, che il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie può essere limitato a tutela dei diritti del concepito e del futuro nato. Tali diritti vengono identificati, in particolare, nella garanzia di quelle che, secondo la valutazione del legislatore, considerata dalla Corte razionale e ragionevole, “appaiono, in astratto, come le migliori condizioni “di partenza””: ossia la nascita e lo sviluppo in una famiglia eterosessuale. 15 Ibidem. Il provvedimento risulta, ad oggi, commentato solo da G. Recinto, La legittimità del divieto per le coppie same sex di accedere alla PMA: la Consulta tra qualche “chiarimento” ed alcuni “revirement”, in Corriere giur., 2019, 12, 1460, con nota favorevole. La sentenza presenta in realtà diversi profili critici, in gran parte evidenziati nel commento all’ordinanza di rimessione di A. G. Grasso, Stato civile – è possibile formare in Italia un atto di nascita con due genitori dello stesso sesso?, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 11, 1569. 16 La Corte accenna in particolare a Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, cit., che ha aperto il dibattito sulla possibilità di accesso all’eterologa per le coppie omosessuali. 17 Corte cost., 15 novembre 2019, n. 237, cit.
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La Suprema Corte prosegue richiamando ulteriormente la sentenza della Corte Costituzionale sulla conferma del divieto di accesso alla PMA per gli omosessuali. Richiami, forse, non strettamente necessari: formare un atto di nascita con una duplice maternità, non implica una valutazione sulla legalità delle pratiche di eterologa tra coppie di donne. Non si controverte, infatti, sulla illiceità o meno di tali pratiche in Italia, bensì, unicamente, sulla disciplina in tema di filiazione da applicarsi al soggetto, nato sul territorio nazionale per effetto di una tale pratica. La Corte sente, tuttavia, il bisogno di riaffermare che la libertà della scelta genitoriale deve essere bilanciata con i diritti del concepito e del nato. Nel riprendere tali affermazioni di principio dalla Corte Costituzionale, però, la Suprema Corte non si preoccupa di specificarle, tant’è che non è dato comprendere quali siano i diritti del concepito o del nato che verrebbero lesi dalla procreazione eterologa tra due donne18. Prosegue, ancora, affermando l’interpretazione restrittiva avallata non è contraria alla CEDU, che, in un celebre precedente19, ha dichiarato che eccede il margine di apprezzamento statale, e lede il diritto dei minori al rispetto alla vita privata e familiare, solo il mancato riconoscimento del legame di filiazione col genitore biologico. La Cassazione sembra, infine, esplicitare i timori posti alla base del proprio verdetto: afferma infatti che l’intera disciplina della filiazione rimane ancora saldata alla necessità di un rapporto biologico20 e che l’esclusione di questo causerebbe squilibri e richiederebbe radicali modifiche di sistema, non realizzabili dall’interpretazione del giudice. Quali siano tali squilibri e tali modifiche radicali, non è specificato.
5. L’interpretazione degli artt. 8 e 9 della l. 40/2004 nell’ambito della fecondazione effettuata da coppie eterosessuali in violazione della legge medesima.
Di fronte alla formazione dell’atto di nascita, la prima norma che viene in rilievo è l’articolo 29 del DPR 396/00. Stupisce che nessuna delle parti sottolinei21 che la sua formula-
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Non essendo attinente all’oggetto del presente commento criticare la sentenza della Corte Costituzionale in riferimento ci si limita a rilevare come sia pacifico, sia che la crescita con due genitori dello stesso sesso non pregiudica lo sviluppo della personalità del minore, sia che è possibile, nel nostro ordinamento, consentire la fecondazione eterologa, con i conseguenti rischi legati all’identità biologica del nato. 19 Si tratta delle sentenze gemelle Corte Edu, 26 giugno 2014, Mennesson e Labassee c. Francia, reperibili nella banca dati ufficiale <https://www.echr.coe.int.>, la prima delle quali è annotata in Nuova giur. civ. comm., 2014, 12, 11122. La Corte EDU ha aggiunto che ogni altra violazione dell’articolo 8 per i minori è esclusa ove sia assicurata alla famiglia omogenitoriale la possibilità, in concreto, di vivere in maniera analoga alle altre famiglie, senza pericolo di venir separati dalle autorità o essere allontanati dal territorio statale. 20 Affermazione in realtà non attinente, considerato che si verte nell’ambito della filiazione da PMA, la quale, come già rilevato, configura secondo la stessa Cassazione un sistema a sé, con regole proprie anche relativamente allo status filiationis; regole all’evidenza non sempre rette dal favor veritatis. 21 Come peraltro rilevato da Trib. Bologna, decr. 3 luglio 2018. Si noti che, sebbene non sussistano precedenti specifici in termini
509
Giurisprudenza
zione non pone alcun ostacolo al riconoscimento della doppia maternità. Rileva, invece, la Corte, nel primo dei due provvedimenti in commento, che l’art. 30 del DPR 396/00, relativo alla dichiarazione di nascita, “implicitamente (ma chiaramente)” postulerebbe che una sola persona ha diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita22. Relativamente all’interpretazione del combinato disposto degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004, la Cassazione, forse sentendo il peso della loro lettura resa nel recente precedente della Corte Costituzionale23, nonché della sentenza confermativa della legittimità del divieto di accesso alla PMA per le coppie same-sex, sembra focalizzarsi nell’intento di scoraggiare l’accesso a tali pratiche, piuttosto che nella risoluzione del caso concreto. Non si tratta, infatti, di sdoganare l’accesso all’eterologa per le coppie formate da due donne, bensì, fermo l’impianto sanzionatorio dell’articolo 12 e gli altri divieti della l. 40/2004, di consentire, a tutela del minore, la formazione di un atto di nascita con doppia maternità. E proprio la tutela del minore e il perseguimento del suo interesse avrebbe dovuto determinare una soluzione diversa. Gli articoli 8 e 9 della l. 40/2004, sono sempre stati applicati con riguardo a pratiche di fecondazione assistita vietate dalla legge italiana. Era il caso, ad esempio, (prima dell’abolizione del divieto di cui all’articolo 4, terzo comma, della legge medesima), dell’eterologa effettuata dai coniugi all’estero: il consenso scritto nei moduli della clinica, non potendo essere acquisito a tale titolo nel nostro ordinamento, vi faceva ingresso come “atto concludente”24. Il tutto a garanzia dello status di figlio del nato, onde evitare che, a seguito del pentimento di un coniuge, questi si trovasse privo del legame genitoriale paterno.
nella giurisprudenza di legittimità, si registrano, invece, vari precedenti di segno contrario nella giurisprudenza di merito. In primis Trib. Bologna, decr. 3 luglio 2018, ammette un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 8 e 9 della l. 40/2004, volta ad estenderne l’applicabilità alle coppie omosessuali, in nome del superiore interesse del minore. Depone a favore della rettificazione dell’atto di nascita anche Trib. Genova, decr., 8 novembre 2018, che riguardava però il caso di due donne aventi entrambe un legame biologico col figlio, avendo una donato l’ovulo e l’altra portato avanti la gravidanza. Curioso il caso di Trib. Agrigento, decr., 15 maggio 2019, in Foro it., 2019, 10, 1, 3346: l’ufficiale di stato civile aveva proceduto direttamente con la formazione dell’atto di nascita con indicazione della doppia maternità per un minore concepito in Danimarca con procreazione eterologa su iniziativa di una coppia di donne. Il ricorso, infine rigettato, è stato invece avviato dal Pubblico Ministero, allo scopo di rettificare l’atto e sostituire le diciture “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”. Hanno sollevato questione di legittimità costituzionale, in casi analoghi a quello trattato in commento, Trib. Venezia, ord. 3 aprile 2019, in Foro it., 2019, 6, 1, 1953 e Trib. Pisa, ord., 15 marzo 2018, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 11, 1569. Quest’ultima è sfociata in Corte cost., 15 novembre 2019, n. 237, cit., che ha concluso per l’inammissibilità della questione. Occorre, però, specificare che, benché il minore fosse nato in Italia, il giudice remittente aveva sollevato la questione facendo perno su un elemento di estraneità, ossia la cittadinanza statunitense dello stesso e della madre biologica, lamentando che la legge italiana impedisse di creare un atto di nascita con doppia maternità, nonostante l’art. 33 della legge sul diritto internazionale privato consenta di stabilire la filiazione in base alla legge nazionale del figlio o di cui uno dei genitori è cittadino. La questione è stata dichiarata inammissibile per indeterminabilità delle norme oggetto di censura. Non si è infatti chiarito se le norme di cui il rimettente auspicava la caducazione, norme, a suo dire, di applicazione necessaria, fossero relative all’eterogenitorialità o fossero norme regolatrici dell’attività amministrativa dell’ufficiale di stato civile. 22 Interpretazione che non convince, sia perché esorbita dal tenore letterale della disposizione, sia perché non tiene conto del fondamentale principio dell’interesse del minore, che deve guidare l’interprete in tutte le norme che lo riguardano. 23 Corte cost., 15 novembre 2019, n. 237, cit., depositata appena due mesi prima della stesura della seconda delle sentenze in esame e due mesi dopo la stesura del primo provvedimento. 24 Mi sia permesso rinviare a S. Flore, Ammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità del nascituro nella filiazione da fecondazione assistita, in Rivista giuridica Sarda 3, 2017.
510
Stefania Flore
Tale interpretazione è pacifica e lo è sempre stata per le coppie eterosessuali, ed è ancora valida per le residue ipotesi di violazione della legge, non essendo l’articolo 9 espunto da quest’ultima. Anche di recente, la Cassazione25 ha confermato l’applicabilità degli articoli 8 e 9 a un caso di fecondazione effettuata all’estero in violazione dei requisiti soggettivi; si trattava, nel caso di specie, di fecondazione omologa post-mortem. Benché tale sentenza concluda dando parecchio peso al legame biologico tra il defunto e il nato, la stessa contiene altresì l’importante affermazione di principio, rilevante anche per il caso in esame, secondo la quale l’articolo 8 sarebbe applicabile, in generale, ai casi di PMA effettuati in violazione dei requisiti soggettivi della legge italiana. Ciò in quanto “la norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5 [...] così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro”. Tale ultima affermazione acquista tanto più peso se si contestualizza nel caso concreto, nel quale l’interesse del minore, che veniva concepito già orfano di padre, veniva leso in maniera ben più significativa rispetto ai casi portati all’attenzione della Suprema Corte nei provvedimenti in commento. La medesima sentenza, inoltre, nel consentire il legame col genitore defunto, sottolinea l’assoluta centralità del consenso, che si qualifica come fattore determinante la genitorialità per i nati mediante tecniche di PMA.
6. L’auspicabile estensione degli articoli 8 e 9 della
l. 40/2004, in nome della necessaria prevalenza dell’interesse del minore.
La suesposta giurisprudenza, volta ad applicare il combinato disposto degli articoli 8 e 9 della legge 40 per determinare lo status filiationis del nato a seguito di PMA effettuata in violazione dei requisiti soggettivi imposti dalla legge italiana, è necessariamente applicabile anche alle coppie omosessuali. E ciò, a pena di un’inammissibile disparità di trattamento, si badi, non della coppia, ma del minore. Questa interpretazione non è solo costituzionalmente orientata, ma costituzionalmente obbligata, in quanto ispirata alla tutela del minore e al suo best interest, prima ancora che alla tutela e alla non discriminazione delle coppie omosessuali26.
25
Cass. civ., sez. I, 15 maggio 2019, n. 13000, cit. La Suprema Corte, nel domandarsi se lo status filiationis del nato dovesse determinarsi applicando le norme generali del codice civile o le norme speciali della legge 40/2004, ha evidenziato come fosse fondamentale, a tal fine, capire se si dovesse “considerare le tecniche di P.M.A. come un metodo alternativo al concepimento naturale, oppure alla stregua di un trattamento sanitario”. In altri termini, la Corte si è domandata se la PMA fosse qualificabile come un mero trattamento terapeutico, a seguito del quale, per determinare lo status filiationis, applicare il codice civile, oppure come un vero e proprio sistema alternativo rispetto alla filiazione naturale, con regole sue proprie anche riguardo lo status del soggetto nato mediante tali tecniche. La Corte ha abbracciato quest’ultima soluzione. 26 Per approfondire i diritti delle coppie omosessuali in tema di genitorialità, si veda G. Salvi, Percorsi giurisprudenziali in tema di omogenitorialità, in Diritto delle successioni e della famiglia, Quaderni, Edizioni scientifiche italiane, 2018; B. De Filippis-R. Baiocco-A.
511
Giurisprudenza
Depone in questo senso, innanzitutto, la rubrica del capo III, nel quale è inserito l’art. 9, intitolata “Disposizioni concernenti la tutela del nascituro”. Si aggiunga che procreazione eterologa eseguita in spregio dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge 40/2004, è punita con sanzione amministrativa e non con sanzione penale, come la maternità surrogata27. Ma è soprattutto l’interesse del minore ad essere dirimente nella soluzione. Questo, infatti, si atteggia come stella polare che deve guidare l’interprete nella ricostruzione delle norme che lo riguardano. Ogni interpretazione diversa da quella che consente la formazione dell’atto di nascita con doppia maternità, infatti, non lo tutela. Anzi, lo lede sotto vari aspetti, alcuni dei quali evidenziati dalla Corte EDU28 anche con riguardo al legame col genitore d’intenzione, sebbene questi aspetti non siano stati ritenuti sufficienti a giustificare la condanna dello Stato per eccesso dal proprio margine di apprezzamento, relativamente al mancato riconoscimento del legame tra il figlio e il genitore d’intenzione in rapporto alla lesione dell’art. 8 CEDU. Si tratta degli aspetti concernenti la tutela del diritto alle origini29, che comprende quello alla doppia genitorialità, nonché l’interesse alla salvaguardia dei diritti ereditari, giacché il minore potrebbe ereditare dall’altro genitore solo con un legato. La salvaguardia dei suddetti diritti porta la Corte EDU ad affermare che il divieto di registrazione dell’atto di nascita nei confronti di entrambi i genitori, dunque anche del genitore d’intenzione, non lede solo questi ultimi, ma anche i minori, creando una “grave questione di compatibilità” di tale situazione con l’interesse del minore, che deve orientare tutte le decisioni che lo riguardano. Nei provvedimenti in commento, la Cassazione perde, quindi, l’occasione di attuare i principi della Corte EDU anche oltre il loro nucleo essenziale, relativo al margine massimo d’apprezzamento statale e limitato al riconoscimento del genitore biologico.
Busacca, Unioni civili e genitorialità: le nuove frontiere della giurisprudenza: Interesse del minore e genitorialità same sex, Padova, 2018. 27 Specificamente, l’art. 12, comma 8, l. 40/2004, esclude le sanzioni per i membri della coppia, mentre rimangono sanzionabili solamente i medici che abbiano effettuato il trattamento. L’argomento della differente natura delle sanzioni è stato sviscerato in Cass. civ., Sez. Un., 8 maggio 2019, n. 12193, in Fam. e dir., 2019, 7, 653, con nota critica di Ferrando. Le Sezioni Unite, in particolare, hanno osservato che la sanzione penale riservata alla pratica della maternità surrogata è indice del carattere costituzionalmente necessario del divieto. Tale considerazione non vale invece per il divieto di eterologa per le coppie same-sex, che costituisce semplicemente frutto dell’esercizio della discrezionalità del legislatore in un dato momento storico, come pure affermato da Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221, cit. 28 Corte Edu, 26 giugno 2014, Mennesson e Labassee c. Francia, cit. La sentenza, pur contenendo varie affermazioni di principio che sottolineano l’importanza, per il minore, del legame con entrambi i genitori, conclude affermando che solo il mancato riconoscimento del legame col genitore biologico esorbita dal margine di apprezzamento statale. È importante, però, sottolineare che nel caso all’esame della Corte EDU la limitazione al diritto alla vita privata e familiare era giustificata dalla tutela del minore e della madre surrogata, ragioni che non possono estendersi al caso della fecondazione eterologa. Vale la pena di notare, inoltre, che nel caso all’esame della Corte Europea i minori potevano vantare un legame giuridico con entrambi i genitori, sebbene negli Stati Uniti. Nei casi in commento, invece, precludendo la formazione dell’atto di nascita con doppia maternità si priva del tutto il figlio del legame con il genitore d’intenzione. 29 Si veda in tema G. Rossolillo, L’identità personale tra diritto internazionale privato e diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., 2007, 1028, e Id., Identità personale e diritto internazionale privato, Padova, 2009.
512
Stefania Flore
Vale la pena menzionare, infine, gli ulteriori aspetti lesivi del minore che emergono in conseguenza dell’interpretazione sposata dalla Suprema Corte. Il partner omosessuale che voglia venir meno agli obblighi relativi al progetto genitoriale condiviso, potrebbe giovarsi di detta tesi interpretativa, abbandonando il figlio all’altro genitore biologico; il che finirebbe per tutelare un comportamento illecito, a discapito del minore. Ancora, si consideri il pregiudizio del minore al diritto al rispetto dei rapporti con i soggetti appartenenti al ramo parentale del genitore d’intenzione. Alla via dell’adozione ex art. 44, lett. d), da sempre indicata dalla Corte come ultima spiaggia per la tutela dei figli di coppie omosessuali30, può accedersi, infatti, solo dopo l’instaurazione di stabili legami; quindi, dopo anni. In ogni caso, tale istituto genera gli effetti di un’adozione non legittimante, senza l’instaurazione di rapporti tra adottato e famiglia dell’adottante. Invero, anche la seconda delle sentenze che si commenta sembra suggerire tale opzione, laddove afferma che la tutela del minore non deve “esprimersi necessariamente nelle medesime forme giuridiche previste per il figlio nato da matrimonio o riconosciuto, a condizione [...] che al minore accolto dalla coppia omosessuale sia assicurata una tutela comparabile a quella garantita a quest’ultimo”31. Stefania Flore
30
Il riferimento è innanzitutto a Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Giur. it., 2016, 12, 2573, con nota di Spadafora, Rivera. È la via suggerita anche da Cass. civ., Sez. Un., 8 maggio 2019, n. 12193, cit. 31 Punto 5.3.
513
Giurisprudenza Cass. civ., sez. II, 4 marzo 2020, n. 6709; Tedesco Presidente – Oliva Relatore Inabilitazione – Curatore dell’inabilitato – Capacità a succedere del curatore – Capacità a ricevere per testamento del curatore – Amministratore di sostegno – Tutore – Protutore Il curatore dell’inabilitato, in favore del quale la persona inabilitata abbia disposto mediante testamento, è da ritenersi soggetto capace a succedere nonché a ricevere per testamento, al pari dell’amministratore di sostegno assistenziale il quale abbia ricevuto per testamento da parte del soggetto beneficiario, non potendo trovare applicazione per il curatore le norme sull’incapacità relativa a succedere del tutore, protutore e amministratore di sostegno sostitutivo o misto.
(Omissis) Svolgimento
la madre del testatore. A sostegno della domandel processo
da, gli attori deducevano che il loro padre aveva
Con atto di citazione notificato l’8.11.2005
redatto la scheda testamentaria in condizioni di
A.G., L. e S. evocavano in giudizio innanzi il Tri-
incapacità naturale o comunque in quanto de-
bunale di Palermo D.M. e C.B. chiedendo che
terminato da errore, violenza o dolo; sosteneva-
fosse dichiarata aperta la successione legittima di
no inoltre che il curatore del soggetto inabilitato
Ag.Gi., previa la dichiarazione di nullità o l’an-
doveva essere ritenuto incapace di succedere al
nullamento del testamento olografo redatto dal
proprio assistito.
de cuius in data 27.2.2003, con il quale il testatore, inabilitato, aveva istituito erede il proprio
Si costituivano i convenuti resistendo alla domanda.
curatore D.M. attribuendogli l’intera quota dispo-
Con sentenza n. 2737/2011 il Tribunale rigetta-
nibile dell’asse, devoluto alla propria convivente
va la domanda ritenendo non raggiunta la prova,
C.B. una rendita vitalizia annuale pari alla metà
tanto dell’incapacità naturale che del vizio della
dei frutti della predetta quota disponibile, e riser-
volontà. Considerava inoltre non pertinente il ri-
vato ai figli la sola quota di legittima, al netto del-
chiamo all’art. 596 c.c. e quindi insussistente la
le elargizioni già ricevute da questi ultimi in vita
dedotta incapacità del D. a succedere al defunto.
del testatore, nonché di quanto dai medesimi di-
Avverso detta decisione interponevano ap-
rettamente trattenuto senza titolo sull’eredità del-
pello A.L. e G. Si costituivano in seconde cure,
515
Giurisprudenza
con separate comparse, D.M. e C.B., resistendo
inabilitato. Resiste con controricorso D.M. C.B.,
al gravame e concludendo per la conferma della
A.S. e A.L., intimati, non hanno svolto attività di-
decisione di prime cure. Restava invece contu-
fensiva in questo giudizio di legittimità.
mace A.S. Con la sentenza oggi impugnata, n. 288/2017,
La parte controricorrente ha depositato memoria.
la Corte di Appello di Palermo rigettava il gravame condannando gli appellanti alle spese del
Motivi
grado. Riteneva la Corte territoriale che non fosse
Con il primo motivo la ricorrente censura la
stata raggiunta la prova del vizio della volontà
sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di
del testatore, e che la sua dedotta incapacità na-
Appello non ha ritenuto manifestamente fondata
turale fosse invece esclusa in radice dalla sen-
la questione – riproposta anche in questa sede –
tenza del 21.3.2012 con la quale il Tribunale di
di legittimità costituzionale degli artt. 596, 597 e
Palermo aveva revocato la precedente interdizio-
598 c.c., in relazione all’art. 3 Cost., nella parte
ne del defunto, dichiarandolo soltanto inabilita-
in cui dette norme non prevedono l’incapacità a
to, sul presupposto della sua capacità di autoge-
succedere per testamento del curatore dell’inabi-
stirsi, accertata all’atto della predetta pronuncia.
litato che, nel periodo della curatela e al tempo
Inoltre, la Corte palermitana valorizzava gli esiti
della redazione del testamento, abbia assolto la
della C.T.U. disposta in seconde cure, che aveva
funzione di amministrare e gestire il patrimonio
confermato la capacità del testatore all’atto della
dell’amministrato che non sia parente, anche con
redazione della scheda testamentaria oggetto di
riferimento all’art. 411 c.c., il quale prevede in-
causa. Infine, riteneva manifestamente infonda-
vece – ad avviso della ricorrente – l’incapacità a
ta l’eccezione di costituzionalità della norma di
succedere per testamento dell’amministratore di
cui all’art. 596 c.c., che prevede l’incapacità del
sostegno, oltre il quarto grado di parentela, che
tutore e protutore di succedere per testamento
abbia amministrato il patrimonio del beneficiato.
al proprio assistito, sotto il profilo della irragio-
La censura, e con essa la questione di legitti-
nevole disparità di trattamento rispetto alla figura
mità costituzionale degli artt. 596, 597 e 598 c.c.,
del curatore dell’inabilitato, per il quale la legge
è manifestamente infondata.
della decisione
non contempla analogo divieto: eccezione che
La tesi prospettata da parte ricorrente, invero,
era stata formulata dagli appellanti, in relazione
si fonda sulla ritenuta paragonabilità tra gli istituti
all’art. 3 Cost., anche alla luce del fatto che l’art.
della tutela dell’interdetto, della curatela dell’ina-
596 c.c., è espressamente richiamato dall’art. 411
bilitato e dell’amministrazione di sostegno, non-
c.c., per l’amministratore di sostegno, il quale si
ché sul presupposto logico che alle predette for-
occuperebbe di gestire situazioni di gravità infe-
me di assistenza corrispondano gradi crescenti di
riore a quelle oggetto dell’istituto dell’inabilita-
inattitudine a curare i propri affari, o di infermità,
zione.
del soggetto beneficiato.
Ricorre per la cassazione di detta decisione
L’assunto non è coerente con il quadro nor-
S.A., in qualità di procuratrice generale di A.G.,
mativo e con i precedenti di questa Corte, la
affidandosi a quattro motivi, con il primo dei
quale ha espressamente escluso la possibilità di
quali ripropone l’eccezione di incostituzionalità
configurare l’istituto dell’amministrazione di so-
dell’art. 596 c.c., nella parte in cui detta norma
stegno come un quid minus rispetti ai preesisten-
non prevede l’incapacità a succedere al proprio
ti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. In
assistito anche in capo al curatore del soggetto
particolare, si è affermato il principio, che que-
516
Vincenzo Attademo
sto collegio condivide ed al quale intende da-
ta compatibile con le finalità e le caratteristiche
re continuità, secondo cui “L’amministrazione di
dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. Il
sostegno – introdotta nell’ordinamento dalla L. 9
che esclude che si possa ritenere – come invece
gennaio 2004, n. 6, art. 3 – ha la finalità di offrire
vorrebbe la ricorrente – l’automatica estensione
a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale
anche all’amministratore di sostegno di tutte le
o temporanea, di provvedere ai propri interes-
prescrizioni contenute nelle norme oggetto del
si uno strumento di assistenza che ne sacrifichi
rinvio, inclusa quella relativa all’incapacità di
nella minor misura possibile la capacità di agire,
succedere all’assistito.
distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli
A tal riguardo vanno infatti nettamente di-
altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdi-
stinte le diverse ipotesi dell’amministrazione di
zione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo
sostegno cd. sostitutiva o mista e dell’amministra-
modificati dalla stessa legge attraverso la novella-
zione puramente di assistenza. Nel primo caso
zione degli artt. 414 e 427 c.c. Rispetto ai predetti
l’amministrazione di sostegno presenta caratteri-
istituti, l’ambito di applicazione dell’amministra-
stiche affini alla tutela, poiché l’amministrato, pur
zione di sostegno va individuato con riguardo
non essendo tecnicamente incapace di compiere
non già al diverso, e meno intenso, grado di in-
atti giuridici, non è comunque in grado di deter-
fermità o di impossibilità di attendere ai propri
minarsi autonomamente in difetto di un interven-
interessi del soggetto carente di autonomia, ma
to, appunto sostitutivo ovvero di ausilio attivo,
piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumen-
dell’amministratore. Nel secondo caso, invece,
to ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto,
l’istituto dell’amministrazione di sostegno si av-
in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore
vicina alla curatela, in relazione alla quale l’or-
agilità della relativa procedura applicativa. Ap-
dinamento non prevede i divieti di ricevere per
partiene all’apprezzamento del giudice di merito
testamento e donazione che, al contrario, sono
la valutazione della conformità di tale misura alle
previsti per tutore e protutore dagli artt. 596, 599
suindicate esigenze, tenuto conto essenzialmen-
e 779 c.c.
te del tipo di attività che deve essere compiuta
Dal che discende che, in assenza di divieto
per conto del beneficiario e considerate anche
previsto dalla legge, nel caso dell’amministrazio-
la gravità e la durata della malattia, ovvero la na-
ne di mera assistenza il beneficiato è pienamente
tura e la durata dell’impedimento, nonché tutte
capace di disporre del suo patrimonio, anche per
le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie”
testamento e con disposizione in favore dell’am-
(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 22332 del 26/10/2011,
ministratore di sostegno, a prescindere dalla cir-
Rv. 619848; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18171
costanza che tra i due soggetti (amministratore
del 26/07/2013, Rv. 627498).
e beneficiato) sussistano vincoli di parentela di
Da quanto precede deriva l’infondatezza ma-
qualsiasi genere, o di coniugio, ovvero una sta-
nifesta dello stesso presupposto logico della que-
bile condizione di convivenza – la quale ultima
stione di costituzionalità posta con il motivo in
è stata evidentemente ritenuta dal legislatore, ai
esame.
fini che qui interessano ed in funzione del suo
Va inoltre osservato che l’art. 411 c.c., comma 2, rinvia agli artt. 596, 599 e 779 c.c., “in quanto
connotato di stabilità e del vincolo affettivo che essa implica, assimilabile al rapporto coniugale.
compatibili”. Trattandosi di rinvio a carattere re-
In tale contesto, non rileva il fatto che dell’art.
siduale, esso vale per la sola parte delle dispo-
411 c.c., comma 3, prescriva soltanto che “Sono
sizioni contenute nei predetti articoli che risul-
in ogni caso valide le disposizioni testamentarie
517
Giurisprudenza
e le convenzioni in favore dell’amministratore di sostegno che sia parente entro il quarto grado del beneficiario, ovvero che ne sia coniuge o persona che sia stata chiamata alla funzione in quanto con lui stabilmente convivente” senza nulla dire circa le disposizioni e le convenzioni eseguite in favore di parenti oltre il quarto grado. Dalla mancata inclusione di dette disposizioni nella norma in esame, invero, non si può farne discendere la loro automatica invalidità o inefficacia, né l’esistenza di un divieto che, in funzione del contesto generale in cui l’art. 411 c.c., è inserito, non è previsto dalla legge. Del pari infondato è l’ulteriore argomento proposto da parte ricorrente, secondo cui l’art. 411 c.c., prevedrebbe l’incapacità a succedere per testamento dell’amministratore di sostegno, oltre il quarto grado di parentela, che abbia in concreto amministrato il patrimonio del beneficiato; la norma, infatti, non prevede affatto tale limitazione. In definitiva, è vero esattamente il contrario di quanto ritenuto da parte ricorrente, ovvero che all’amministratore di sostegno, in linea generale, non è preclusa la capacità di succedere per testamento al proprio assistito, potendosi configurare un simile limite soltanto con riguardo ai casi di amministrazione mista o sostitutiva, in coerenza con la normativa prevista in tema di tutela. Non potendosi quindi, conclusivamente, ravvisare un rapporto di inferiorità dell’amministrazione di sostegno rispetto all’inabilitazione o all’interdizione, posto che i detti istituti, pur tesi tutti ad assicurare la protezione del soggetto debole, rispondono ad esigenze diverse che non sempre sono suscettibili di essere collocate su una scala unitaria di crescente gravità del disagio dell’assistito, né potendosi condividere la tesi di parte ricorrente, secondo cui il rinvio residuale operato dall’art. 411 c.c., comma 2, estenderebbe in via automatica all’amministratore di sostegno il divieto di succedere espressamente previsto
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dall’art. 596 c.c., comma 1, solo per il tutore e protutore, e non invece per il curatore dell’inabilitato, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 596, 597 e 598 c.c., va dichiarata manifestamente infondata. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 196 c.p.c., nonché l’omesso esame della richiesta di rinnovazione della C.T.U., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perché la Corte territoriale avrebbe erroneamente deciso la causa sulla scorta della consulenza tecnica agli atti del giudizio, senza nulla provvedere in merito all’istanza di rinnovazione della stessa che era stata proposta dall’odierna ricorrente in seconda istanza. Con il terzo motivo, inoltre, quest’ultima lamenta l’ulteriore profilo di violazione dell’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, perché la Corte di Appello non avrebbe, prima di decidere nel merito l’impugnazione, valutato le richieste istruttorie proposte dalla ricorrente e provveduto sulle stesse. Le due censure, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, sono inammissibili, in quanto esse si risolvono nella richiesta di riesame del merito e di rivalutazione del compendio istruttorio e – in particolare – del giudizio di rilevanza e concludenza dei singoli mezzi istruttori reso, anche in via implicita, dal giudice di merito. Giova sul punto ribadire il principio secondo cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio con-
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vincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330). Va altresì evidenziato che la sentenza impugnata è ampiamente ed adeguatamente motivata, poiché la Corte di Appello ha ritenuto che la prova del vizio della volontà dedotto dall’odierna ricorrente non fosse stata dalla stessa fornita; ha valorizzato la circostanza che il Tribunale di Palermo avesse, con sentenza resa nel 2012, revocato l’interdizione del defunto disponendone l’inabilitazione, avendolo ritenuto capace di autodeterminarsi; ed infine ha dato atto che la C.T.U. esperita in seconde cure aveva confermato la capacità del testatore al momento della redazione della scheda contestata. La prima delle predette affermazioni, relativa alla mancata dimostrazione del vizio della volontà, non risulta peraltro neppure specificamente attinta dai motivi in esame, che di conseguenza non appaiono sufficientemente specifici, posto che in essi la ricorrente non deduce di aver fornito la prova ritenuta mancante dalla Corte di merito, né indica in quale atto e momento del processo di merito ciò sarebbe avvenuto.
Con il quarto motivo la ricorrente si duole infine del governo delle spese operato dal giudice di merito. La censura, che neppure è idonea ad integrare un motivo autonomo, stante la natura accessoria della condanna alle spese, rispetto alla statuizione sul merito dell’impugnazione e dunque sul merito della domanda, rimane comunque assorbita dal rigetto del primo motivo e dalla dichiarazione di inammissibilità del secondo e terzo motivo. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità, determinate come da dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.
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Testamento redatto dall’inabilitato e capacità a ricevere da parte del curatore* Sommario : 1. Il caso. – 2. La capacità di disporre per testamento dell’inabilitato, nonché taluni cenni sul formalismo testamentario. – 3. La capacità a ricevere, per testamento, del curatore: tra interpretazione assiologico-sistematica dell’istituto della curatela e struttura negoziale dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione. – 4. Osservazioni conclusive.
This contribution, studying in depth the ability to test of the disabled, the negotiating structure of the act he put in place, as well as the care function of the curator, intends to enhance, in the light of constitutional principles, the person and the dignity of disabled persons as well as freedom of negotiating, underlining, at the same time, that the interpreter needs an axiological vision of the legal system.
1. Il caso. La sentenza in commento trae origine dal procedimento instaurato da Tizio, Caio e Sempronio, figli del de cuius Filano, i quali con atto di citazione evocavano in giudizio Seio e Caia, per sentire pronunciare dal Tribunale adìto la dichiarazione di nullità o l’annullamento del testamento olografo redatto dal proprio genitore, nel lontano 2003, onde pervenire ad una successione legittima, in luogo di quella testamentaria. In particolare, Filano, soggetto inabilitato all’epoca della redazione della scheda testamentaria (la cui interdizione era stata revocata solo con sentenza del 21 marzo 20121), aveva istituto erede
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Più precisamente, la giustificazione di un tale iato temporale tra la redazione della scheda testamentaria e la revoca dell’interdizione, non emergendo dalla sentenza in commento, deve ritenersi, in via ricostruttiva, derivante dal fatto che il de cuius Filano, soggetto inizialmente interdetto, sia stato, previa istanza di revoca dell’interdizione, in un successivo giudizio promosso ai sensi dell’art. 432 c.c. (norma rubricata “Inabilitazione nel giudizio di revoca dell’interdizione”), dichiarato inabilitato, dal Tribunale adìto, in virtù del potere di conversione demandato al giudice, il quale lo ritenne capace di autogestirsi, seppur limitatamente. Di conseguenza, la data del 21 marzo 2012 deve intendersi quale data di passaggio in giudicato del giudizio di revoca dell’interdizione, e non già quale data di pubblicazione della sentenza di primo grado dichiarativa dell’inabilitazione, da cui consegue per l’inabilitato, ai sensi dell’art. 432, co., 3 c.c., la possibilità di compiere tutti gli atti non eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché di compiere quegli atti personalissimi quali la redazione della scheda testamentaria, preclusi all’interdetto.
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il proprio curatore Seio, attribuendogli l’intera quota disponibile della massa relitta, nonché la propria convivente Caia, devolvendole una rendita vitalizia annuale pari alla metà dei frutti della predetta quota disponibile ed, infine, ai propri figli aveva attribuito la sola quota di legittima. Gli attori, in primo luogo, sollevavano questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento, in relazione alle norme disciplinanti l’incapacità a ricevere per testamento del tutore e del protutore (art. 596 c.c.), nonché dell’amministratore di sostegno (art. 411, co. 2, c.c.), nella parte in cui le predette norme non estendono siffatto divieto anche nei confronti del curatore dell’inabilitato, alla luce delle forti similitudini tra gli istituti in questione. Si dolevano, altresì, del fatto che il loro padre, all’epoca della redazione della scheda testamentaria, versasse nella condizione d’incapacità naturale prevista dall’art. 428 c.c., con conseguente necessità di dichiararlo incapace di testare. Infine, deducevano l’esistenza dei vizi propri della volontà testamentaria, come l’errore, la violenza o il dolo, i quali inficiavano, di fatto, la stessa scheda testamentaria. Tali doglianze venivano rigettate sia nel giudizio di prime cure, sia nel giudizio di appello, in quanto l’attività istruttoria spiegata, nel corso del processo, aveva confermato la capacità di agire del de cuius e come la stessa fosse immune da vizi della volontà all’atto della redazione della scheda testamentaria. La Corte di Cassazione, infine, nel confermare le decisioni dei giudici di merito, ha rigettato la pretesa questione di costituzionalità, riproposta dagli attori anche in sede di legittimità, dichiarandola manifestamente infondata, sottolineando come non sussista alcun divieto, nel nostro ordinamento, di ricevere per testamento, da parte dell’inabilitato, in capo al curatore, muovendo tale conclusione proprio dalla figura dell’amministratore di sostegno, il quale alla luce dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 411, co. 2, c.c. può ricevere per testamento dal beneficiario, solo qualora sia di mera assistenza (figura quest’ultima che, i giudici di legittimità, assimilano a quella del curatore dell’inabilitato) Nel fare ciò, tuttavia, la Suprema Corte non ha indagato a pieno la funzione svolta dall’istituto della curatela dell’inabilitato nell’ordinamento vigente, né ha sottolineato la struttura negoziale dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione posto in essere dall’inabilitato, sulla quale si sarebbe potuto argomentare più compiutamente per pervenire, comunque, alle medesime conclusioni, ma nell’ottica di una lettura assiologico-sistematica2 dell’istituto della curatela, soprattutto alla luce dei princìpi costituzionali.
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Su cui v., autorevolmente, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo comunitario delle fonti, I, Diritto e politica, metodi e scuole. Unitarietà dell’ordinamento e pluralità delle fonti, Napoli, 2006, III ed., 157 ss.; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo comunitario delle fonti, II, Interpretazione sistematica e assiologica. Situazioni soggettive e rapporto giuridico, Napoli, 2006, III ed., 535 ss.; Id., Complessità e unitarietà dell’ordinamento giuridico vigente, in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, Napoli, 2012, 23 ss.; Id., L’interpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, in Id., Interpretazione e legalità costituzionale. Antologia per una didattica progredita, cit., 127 ss.; Id., L’interpretazione giuridica e i suoi canoni. Una lezione agli studenti della Statale di Milano, in Rass. dir. civ., 2014, 405 ss.
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2. La capacità di disporre per testamento dell’inabilitato, nonché taluni cenni sul formalismo testamentario.
Secondo l’ordinamento vigente, il soggetto inabilitato3 – il quale, a séguito della dichiarazione giudiziale di inabilitazione, subisce una deminutio della propria capacità di agire – può testare, vale a dire, può porre in essere un atto personalissimo, quale è il testamento4, senza una preventiva autorizzazione del giudice tutelare o il necessario consenso del curatore5, e senza incorrere in un particolare divieto. Difatti, il divieto di disporre per testamento, previsto dall’art. 591 c.c., è riferito al solo interdetto per infermità di mente (art. 414 c.c.); a colui il quale – sebbene non interdetto – abbia versato, al momento della redazione della scheda testamentaria, in condizioni di incapacità naturale (art. 428 c.c.); nonché, infine, al minore, vale a dire a colui che non abbia ancóra compiuto la maggiore età. In relazione a codesto ultimo caso, giova osservare come il divieto di testare si estenda, altresì, alla figura del minore emancipato (art. 390 c.c.), il quale, sebbene presenti evidenti analogie con la figura dell’inabilitato – traendo tale ultima figura buona parte della propria disciplina giuridica in tema di curatela dall’istituto di cui all’art. 390 c.c. –, è privo della capacità di testare per l’assenza, in capo al medesimo, della capacità di agire nella sua pienezza6. In particolare, si ritiene, in dottrina, come il minore emancipato non possa redigere una scheda testamentaria, in quanto la capacità di testare è una delle prerogative della capacità di agire (art. 2 c.c.), la quale si acquista solamente con il compimento del diciottesimo anno di età7. Chiarito, pertanto, come l’inabilitato possa disporre per testamento, essendo le norme
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Sull’istituto dell’inabilitazione, per un primo approccio, v. almeno: D. Barbero, Sistema del diritto privato italiano, I, Torino, 1965, VI ed., 696 ss.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, XIX ed., 137 ss. Amplius, v. E.V. Napoli, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione. Artt. 414-432, in Cod. civ. Comm., diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991. A. Butera, Il Codice civile italiano commentato secondo l’ordine degli articoli. Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, 222; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 205 ss.; A. Cicu, Testamento, 1951, Milano, II ed., 16 ss.; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1952, II ed., 31 ss.; C. Giannattasio, Delle successioni. Successioni testamentarie, in Comm. cod. civ., a cura di magistrati e docenti, t. II, Torino, 1961, 1 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2016, VIII ed., 259-261. In quanto atto personalissimo, il testamento non può essere redatto con l’ausilio di un soggetto terzo, a meno che quest’ultimo non funga da mero nuncius del de cuius. Sulla possibilità, da parte di un curatore speciale, di raccogliere la volontà, mediante redazione di un testamento olografo, di un soggetto incapacitato a scrivere a causa della sua malattia, si veda per esteso V. Barba, Testamento olografo scritto di mano dal curatore del beneficiario di amministrazione di sostegno, in Fam. pers. succ., 2012, 436 ss. Di dissimile avviso, è Giu. Azzariti, Le successioni e le donazioni. Libro secondo del Codice Civile, Padova, 1982, 425. Già nel diritto romano, il curatore, il quale assisteva i pazzi (furiosi), i minori puberi e i prodighi, non poteva compiere atti personalissimi, quali gli atti di liberalità e il negozio testamentario, a riprova di come quest’ultimo sia stato sempre ritenuto atto non delegabile. Sul punto, v., almeno, E. Cantarella, Persone, Famiglia e parentela, in Diritto privato romano. Un profilo storico, a cura di A. Schiavone, Torino, 2010, 186. Il minore emancipato, di contro, può contrarre matrimonio e proseguire l’esercizio dell’impresa commerciale, ai sensi dell’art. 397 c.c. M. Gambini, sub art. 591 c.c., in AA.VV., Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Delle successioni. Artt. 565-712, a cura di V. Cuffaro e F. Delfini, Torino, 2010, 210-211
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testé menzionate di natura tassativa8, è emerso in dottrina la questione se lo stesso soggiaccia a precisi limiti in tema di forma testamentaria, alla luce della particolare situazione in cui egli versa. In altri termini, la dottrina si è interrogata in relazione al problema se la scheda testamentaria debba essere redatta per atto pubblico, o se, invece, sia da ritenersi sufficiente anche la forma autografa. Sebbene, in relazione al problema della forma testamentaria, non sia ricavabile, per il lettore, nel provvedimento di cui si discorre, il fatto da cui gemmò l’inabilitazione, tuttavia, si evince, chiaramente, come l’inabilitato dispose mediante testamento olografo. In relazione al formalismo testamentario, parte della dottrina ritiene come lo stesso debba essere valutato tenuto conto del tipo di infermità che affligge l’inabilitato, non potendosi dare per l’interprete, in via astratta, una risposta soddisfacente9. L’ammissibilità di una forma variabile a seconda del grado e del tipo di infermità di cui soffrirebbe l’inabilitato, fa sì che, anche in àmbito successorio, si assista all’emersione di una specifica forma ad substantiam del negozio testamentario, con funzione protettiva del disponente. Un tale orientamento, peraltro, condurrebbe alla conseguenza pratica secondo la quale, qualora il giudice tutelare abbia individuato la causa d’inabilitazione e abbia pronunciato sentenza, il medesimo possa, al contempo, indicare sia gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione – per i quali è necessario il consenso del curatore, onde consentirgli di esplicare quella necessaria valutazione dell’incidenza dell’atto negoziale sul patrimonio dell’inabilitato –, sia prescrivere una particolare forma, in ispecie l’atto pubblico, per la redazione della scheda testamentaria, da parte del soggetto debole. L’atto pubblico, difatti, in virtù della sua solennità e formandosi alla presenza di due testimoni, potrebbe, in alcuni casi, offrire una maggiore tutela in relazione alla corretta formazione della volontà testamentaria dell’inabilitato rispetto alla forma del testamento olografo, il quale, essendo redatto di proprio pugno, potrebbe risentire dell’influsso, di pressioni o condizionamenti posti in essere da terzi, tra i quali è, senza dubbio, annoverabile lo stesso curatore10.
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In questo senso, si veda G. Capozzi, Successioni e donazioni, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, t. I, Milano, 2015, IV ed., 670-671. Sulla natura, non solo tassativa, ma altresì eccezionale, delle norme menzionate, v. C. Gangi, op. cit., 344. 9 Si veda V. Tagliaferri, La capacità di disporre per testamento, in AA.VV., Successioni e donazioni, a cura di G. Iaccarino, t. I, Torino, 2017, 468, la quale ritiene possa ritenersi preclusa l’applicazione della forma autografa del testamento per il cieco e il sordo. In senso contrario, in quanto poco persuasiva appare tale strada per i soggetti anziani e vulnerabili, si veda A. Spatuzzi, Le ultime volontà del testatore anziano e vulnerabile, in Corr. giur., 2020, 210. 10 Sul problema delle persone “fragili” di subire condizionamenti, in sede di redazione della scheda testamentaria, si veda M. Girolami, I testamenti suggeriti, in Riv. dir. civ., 2016, 562 ss. Si veda, altresì, S. Patti, Testamento della persona “vulnerabile”, principio di conservazione e ragionevolezza, in questa Rivista, 2017, 635 ss.
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3. La capacità a ricevere, per testamento, del curatore: tra
interpretazione assiologico-sistematica dell’istituto della curatela e struttura negoziale dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione.
Sul presupposto dell’incapacità a ricevere per testamento del tutore e del protutore11 (art. 596 c.c.12), nonché dell’amministratore di sostegno – quest’ultimo, in virtù del rinvio operato dall’art. 411, co. 2, c.c.13, alle norme di cui agli artt. 596, 599 e 779 c.c. –, gli attori sollevavano giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 596, 597 e 598 c.c., in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui codeste norme non contemplano, tra i soggetti incapaci a ricevere per testamento, la figura del curatore dell’inabilitato, al contrario degli istituti testé menzionati, con evidente violazione del principio di parità di trattamento, stante la «paragonabilità degli istituti» e la precipua funzione di assistenza che accomuna i medesimi, i quali divergerebbero solo in relazione al diverso grado «di inattitudine a curare i propri affari, o di infermità, del soggetto beneficiato». La ratio di tali divieti, che introducono fattispecie di incapacità relativa a succedere nel nostro ordinamento, sono individuabili nell’esigenza di impedire che la particolare situazione giuridica, ricoperta dal tutore, dal protutore, o dall’amministratore di sostegno, possa influenzare, o comunque condizionare, la volontà testamentaria dell’interdetto o del beneficiario minandone la sua libertà di disporre per testamento. La Corte di Cassazione, nella pronunzia in commento, nel ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, disattendendo un’interpretazione teleologicamente orientata dell’istituto della curatela, si è limitata ad operare, in primo luogo, una distinzione, di matrice prima dottrinale e poi giurisprudenziale, tra l’amministratore di sostegno, così detto “sostitutivo” o “misto” – ipotesi in cui l’amministratore opera attivamente a favore del beneficiario, il quale non è in grado di attendere autonomamente ai propri bisogni e ai propri affari –, che, secondo i giudici di legittimità, presenta caratteristiche affini alla tutela, e l’amministratore di sostegno così detto “assistenziale”, ove la figura dell’amministratore presenterebbe forti similitudini con l’istituto della curatela14.
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Sul punto, v. G. Capozzi, op. cit., 676. Fonda il divieto per il tutore sulla «sospetta influenza esercitata sull’animo del testatore o per abuso della fiducia» che il testatore ripone sulla persona nominata F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), vol. VI, Milano, 1962, IX ed., 150-151. 12 La norma, a ben scorgere, sanziona con la nullità le disposizioni testamentarie dell’interdetto a favore del tutore. 13 È bene precisare come detta norma, che estende il divieto di ricevere per testamento all’amministratore di sostegno del beneficiario, trovi un’espressa eccezione, nel successivo comma, nei casi in cui l’amministratore di sostegno sia un coniuge, convivente o parente entro il quarto grado del beneficiario, onde evitare che tale divieto possa rappresentare motivo di rifiuto di ricoprire tale munus da parte dei predetti soggetti. Al riguardo, v. G. Bonilini, sub art. 411, in G. Bonilini-F. Tommaseo, Dell’amministrazione di sostegno. Artt. 404-413, in Cod. civ. Comm., fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2018, II ed., 443 ss. 14 La distinzione tra l’ipotesi di amministratore di sostegno così detta sostitutiva o mista e l’ipotesi di amministrazione di sostegno puramente assistenziale è sòrta, prima, in dottrina, e poi recepita in giurisprudenza, onde consentire una lettura più stringente e
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Da tale distinzione, in ordine alla diversa funzione che l’istituto dell’amministrazione di sostegno può rivestire, stante la sua connaturata eterogenesi, declinabile ad opera del giudice alla luce delle specifiche esigenze concrete del beneficiario e della natura e del grado dell’infermità o vulnerabilità del soggetto debole, consegue una differente applicazione del divieto di ricevere per testamento per l’amministratore di sostegno, divieto che si estenderebbe, secondo il giudizio degli Ermellini, alla sola ipotesi di amministratore di sostegno “sostitutiva” o “mista”, e non già a quella puramente assistenziale. Secondo i giudici della nomofilachia, dunque, il rinvio operato dall’art. 411, co, 2, c.c., alle norme sulla incapacità a ricevere per testamento del tutore e del protutore, si estenderebbe alla sola ipotesi di amministratore di sostegno sostitutivo o misto, non anche all’amministratore di sostegno assistenziale, in virtù dell’assenza di un espresso divieto sul punto. Ne conseguirebbe che, stante tale interpretazione restrittiva della norma in esame, l’invocato divieto non potrebbe riguardare il curatore dell’inabilitato, figura che i giudici della legittimità assimilano a quella dell’amministratore di sostegno assistenziale. Orbene, tale iter argomentativo avrebbe necessitato, alla luce di un’interpretazione tendente a valorizzare la finalità sottesa all’istituto della curatela, nonché di riflesso la persona dell’inabilitato, di porre in luce il differente modo o grado di “assistere” del curatore o dell’amministratore di sostegno così detto “assistenziale”, rispetto al tutore o amministratore di sostegno così detto “sostituivo”, i quali, esercitando anche poteri di rappresentanza del soggetto debole, si surrogano al medesimo. Proprio in relazione alla funzione di assistenza, che caratterizza il ruolo del curatore (e, appunto, dell’amministratore di sostegno così detto “assistenziale”), occorre osservare come lo scopo principale di tale istituto – che svolge il suo operato in funzione protettiva del patrimonio dell’inabilitato – risieda nella necessità di valutare l’incidenza che l’atto negoziale, posto in essere dal soggetto debole, eccedente l’ordinaria amministrazione, spieghi nel patrimonio dello stesso, e, conseguentemente, qualora tale atto non riverberi effetti pregiudizievoli o dannosi per l’inabilitato, esprimerne il consenso15. Il complesso meccanismo negoziale si compone, quindi, di due distinti passaggi: il compimento da parte dell’inabilitato di un atto negoziale, eccedente l’ordinaria amministrazione, e il consenso del curatore. Appare chiaro, dunque, come l’inabilitato conservi la propria capacità di agire, capacità che, tuttavia, in relazione a determinati atti individuati nella sentenza dichiarativa di
restrittiva dell’art. 411, co. 2, c.c., il quale estende anche all’amministratore di sostegno l’impossibilità a ricevere per testamento; divieto il quale, come asserito e ribadito dalla sentenza in commento, si estenderebbe al solo caso di amministrazione sostitutiva. Sul punto, si veda G. Bonilini, Le norme applicabili all’amministrazione di sostegno, in G. Bonilini-A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007, II ed., 283. 15 In tema di rinuncia all’eredità si ritiene che sia necessaria l’assistenza del curatore nonché l’autorizzazione del giudice tutelare, essendo un atto di straordinaria amministrazione. Al riguardo, v. C. Coppola, I soggetti legittimati alla rinunzia, in G. Bonilini-V. Barba-C. Coppola, La rinunzia all’eredità e al legato, in Nuova giur. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, diretta da G. Alpa-G. Bonilini-U. Breccia-O. Cagnasso-F. Carinci-M. Confortini-G. Cottino-A. Jannarelli-M. Sesta, Torino, 2012, 64.
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inabilitazione, non è considerata sufficiente a far consolidare gli effetti dell’atto negoziale, posto in essere dal medesimo, senza il necessario consenso del curatore. In altri termini, si può affermare come l’atto negoziale, posto in essere dal solo inabilitato, resti valido, ma sia, tuttavia, passibile di caducità, previo ricorso esperibile dallo stesso inabilitato, dai suoi eredi e dagli aventi causa, mercé l’art. 427, co. 3, c.c.16 (il quale esclude tra i soggetti legittimati proprio il curatore). Proprio la difficoltà di un tale costrutto dogmatico, in merito ad un siffatto meccanismo operazionale, ha condotto parte della dottrina ad evidenziare come si discorra, dal punto di vista strutturale, di atto complesso ineguale, poiché il consenso del curatore si aggiungerebbe a quello dell’inabilitato17. La figura dell’atto complesso ineguale, la quale trova compiuta menzione nella teoria generale del diritto, ricorre allorquando le dichiarazioni di volontà di più soggetti (in codesto caso dell’inabilitato e del curatore) non siano equivalenti, ma una delle due sia subordinata all’altra sebbene occorrano entrambe per rendere produttivo di effetti il negozio giuridico posto in essere. Ne discende, nel caso per cui si discorre, che l’impulso volitivo è sempre rimesso al soggetto inabilitato, là dove, invece, la manifestazione di volontà del curatore è ad esso subordinata. Dal punto di vista della struttura negoziale, parrebbe ritenersi, quindi, che il consenso del curatore partecipi quale elemento costitutivo del negozio giuridico e l’assenza di esso conduca, sul piano patologico, alla nullità del negozio medesimo, per mancanza della manifestazione di volontà del curatore, nonostante, in questo caso, tale volontà sia comunque da qualificarsi come “subordinata” (art. 1418, co. 2, c.c.). Tale orientamento, tuttavia, non ha persuaso, in quanto non in linea con il dettato normativo e, pertanto, altra parte della dottrina18 ha ritenuto che l’intervento del curatore, mediante il proprio consenso, resti al di fuori del negozio giuridico posto in essere dall’inabilitato, negozio che, di per sé, è già perfetto, manifestandosi come un’autorizzazione di diritto privato. L’autorizzazione, al pari di quella, a noi nota, del diritto amministrativo, è tesa a rimuovere un limite legale posto dalla legge, ampliando, di fatto, le facoltà e i poteri propri e insiti nella sfera giuridica dell’autorizzato: talché, è possibile osservare come il consenso del curatore si ponga «come un requisito esterno di validità che rimuove il limite legale»19, nello specifico caso, posto a carico dell’inabilitato. Per tali ragioni, si afferma come la mancanza del consenso del curatore, essendo un
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A. Spangaro, sub art. 427 c.c., in Comm. cod. civ., diretto da E. Gabrielli, Della famiglia Artt. 231-455, a cura di G. Di Rosa, t. II, Torino, 2018, 1680-1681. 17 In questo senso, v. C. Ruperto, voce Curatela, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 449. Sulla nozione di atto complesso ineguale, si vedano, specialmente, F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, III ed., 426 ss.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, IX ed., 212. 18 Così, C.M. Bianca, Diritto civile, I, La norma giuridica e i soggetti, Milano, 2012, III ed., 262 ss. 19 Così, C.M. Bianca, op. cit., 246.
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elemento esogeno alla struttura negoziale dell’atto, non determini una nullità, come nell’ipotesi di mancanza di volontà dell’inabilitato, ma, tutt’al più, un caso di annullabilità20. Sulla scorta di tale considerazione ed in accordo con autorevole dottrina21, sarebbe preferibile, anche dal punto di vista terminologico, discorrere di “assenso” del curatore, in luogo di “consenso”, per le ragioni poc’anzi espresse. Tale ultimo orientamento, il quale al pari del primo ha inteso indagare la vera struttura negoziale dell’atto posto in essere dall’inabilitato, conduce, di riflesso, a una maggiore valorizzazione della persona e della libertà di autodeterminazione dell’inabilitato, la quale trova fondamento, altresì, alla luce di un’attenta analisi delle norme del Codice civile. Difatti, la capacità da parte dell’inabilitato di poter compiere l’atto eccedente l’ordinaria amministrazione è resa manifesta dal legislatore proprio all’art 427, co. 3, c.c., il quale, sanzionando con l’annullabilità il predetto atto, posto in essere dall’inabilitato senza il rispetto delle formalità necessarie, ha ritenuto l’assenso del curatore non necessario per il compimento e la validità dell’atto, limitandosi a disciplinarne solo l’aspetto patologico dello stesso, inerente i soli effetti, e non anche il momento genetico. Appare maggiormente chiaro, quindi, come la qualificazione della manifestazione di volontà del curatore debba considerarsi quale assenso, non essendo essa un elemento costitutivo del negozio giuridico posto in essere dall’inabilitato. Ciò considerato ne consegue, necessariamente, come la funzione del curatore non sia quella di sostituirsi all’inabilitato nel compimento di un negozio giuridico, il quale è sempre il precipitato logico della volontà negoziale di quest’ultimo, ma sia quella di offrire al soggetto inabilitato un ausilio ulteriore, mediante l’espressione di un proprio assenso, onde assisterlo in particolari atti giuridici per i quali è richiesta prudenza e capacità di giudizio in virtù degli effetti pregiudizievoli che essi potrebbero dispiegare nel patrimonio dell’inabilitato. La lettura della riferita norma, nonché dell’istituto della curatela, nell’ottica di un’interpretazione assiologico-sistematica dell’ordinamento giuridico, cui l’interprete deve tendere, concorre a valorizzare la persona dell’inabilitato, la sua libertà di autodeterminazione e la sua dignità22 (art. 2 e 3 Cost.).
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C. M. Bianca, op. cit., 246, il quale afferma, in tema di minore emancipato, che «il consenso del curatore si configura come un’autorizzazione privata, in quanto il curatore non è parte del negozio o del giudizio: l’atto è diretto a consentire che il minore compia il suo atto negoziale o eserciti la sua azione». Altra autorevole dottrina ritiene come l’assenso del curatore, anziché fungere da elemento di un più ampio atto complesso, funga, invece, da mero atto di controllo, tale per cui l’assistenza del curatore sia un “elemento estraneo alla intima struttura dell’atto fondamentale, ma legato ad esso sotto il profilo funzionale”. Sul punto, si veda S. Pugliatti, Tutela e Curatela (diritto civile), in Id., Scritti Giuridici 1937-1947, vol. II, Milano, 2010, 493. Dello stesso avviso M. Dogliotti, voce Tutela e curatela, in Dig. Disc. priv. Sez. civ., XIX, Torino, 1999, 477. 21 G. Cattaneo, voce Emancipazione, in Dig. Disc. priv., Sez. civ., VII, Torino, 2002, 422 ss. Sul punto, si veda, altresì, F. Messineo, op. cit., 239. 22 Sul punto, specialmente, v. l’Opera di P. Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972.
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Giurisprudenza
4. Osservazioni conclusive. In conclusione, con la sentenza in commento, il Supremo Collegio, rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata dagli attori, non ha inteso valorizzare un’interpretazione assiologico-sistematica dell’istituto della curatela, ma ha posto attenzione, nel suo iter argomentativo, più che all’istituto della curatela, alla figura dell’amministratore di sostegno e ad un’interpretazione squisitamente letterale (e giurisprudenziale), benché restrittiva, dell’art. 411, co. 2, c.c., alla luce del quale non vi sarebbe un espresso divieto nel caso di amministratore di sostegno di mera assistenza a ricevere per testamento dal beneficiario, dalla quale norma farebbe conseguire, a fortiori, quella a ricevere per testamento, steso da parte dell’inabilitato, del curatore. Tuttavia, la pronunzia in commento, nell’omettere d’indagare compiutamente la funzione assistenziale della curatela nonché la struttura negoziale dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione posto in essere dall’inabilitato ha, al contempo, mancato di sottolineare come il curatore non si surroghi mai al soggetto inabilitato, e, di conseguenza, non possa soggiacere a quei particolari divieti imposti dal legislatore, in relazione al tutore o all’amministratore di sostegno sostitutivo, la cui ratio è rinvenibile proprio nell’evitare che la particolare posizione rivestita da tali soggetti possa rappresentare un pregiudizio per la libera e corretta formazione della volontà testamentaria dei soggetti rappresentati, esercitando i primi poteri di rappresentanza del soggetto debole, anche in ambiti di natura strettamente personale. Nel ribadire, dunque, come un’interpretazione assiologico-sistematica dell’istituto della curatela sarebbe stata auspicabile, onde valorizzare la persona e la dignità dell’inabilitato nonché evitare d’incidere oltremodo sulla sua libertà di autodeterminazione negoziale (di cui è espressione quella testamentaria23), è bene concludere come l’affermazione di un divieto a ricevere per testamento da parte del curatore avrebbe pregiudicato, di riflesso, in maniera irragionevole, la libertà testamentaria dello stesso soggetto inabilitato. Lì dove non vi è sostituzione, invero, vi è libertà. Vincenzo Attademo
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Sull’autonomia negoziale in àmbito testamentario, v. specialmente N. Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970; G. Bonilini, Autonomia negoziale e diritto ereditario, in Riv. not., 2000, I, 789 ss.; A. Natale, Autonomia privata e diritto ereditario, Padova, 2009.
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Opinione di Salvatore Patti Sull’efficacia nell’ordinamento italiano di un matrimonio canonico stipulato all’estero (parere pro veritate)
(Omissis) Sono stato richiesto di esprimere il mio parere sulla idoneità dell’atto di ratifica, rogato dal notaio […], a consentire l’«acquisizione piena dello status giuridico di coniuge […] e dei relativi diritti alimentari e successori», nell’ordinamento giuridico italiano, in capo al signor […], elementi necessari per la eventuale configurazione del reato di truffa (art. 640 c.p.) a carico di quest’ultimo. La suddetta «acquisizione piena dello status giuridico di coniuge» determinerebbe il «profitto ingiusto» del soggetto agente, con correlativo danno per la persona offesa, a carico della quale sarebbero sorti gli obblighi derivanti dal matrimonio. In particolare, dalla documentazione consegnatami risulta che, con l’atto del […], la signora […] ha ratificato «l’attività svolta in sua rappresentanza dalla signora […], […] relativamente alla procura speciale in data […] avanti il Notaio […], di cui la signora dichiara di avere copia semplice, utilizzata con produzione dei relativi effetti giuridici il […]». *** I. Per rispondere al quesito, occorre in primo luogo accertare l’utilità e l’idoneità dell’atto di ratifica per la (autonoma) produzione dei suddetti effetti giuridici – status giuridico di coniuge – che avrebbero determinato un ingiusto profitto per il soggetto agente e un correlato danno per la «vittima» dell’asserito raggiro. Dalla documentazione a mia disposizione risulta che i nubendi hanno stipulato, in data […] e alla presenza di tre testimoni, un atto (denominato «Scrittura privata») con il quale hanno manifestato la loro intenzione di contrarre matrimonio canonico, espressamente prevedendo, per le ragioni indicate nello stesso, che il matrimonio non avrebbe dovuto produrre effetti civili. Prima della promessa di matrimonio, gli interessati avevano richiesto all’Autorità ecclesiastica il nulla osta per la celebrazione del solo matrimonio canonico, dalla stessa assentito. Con la procura speciale del […] – che, sulla scorta dei dati documentali in mio possesso, nonché di quanto riferitomi verbalmente, assumo qui esser valida – la signora […] ha provveduto a nominare, disgiuntamente, due procuratori speciali affinché manifestassero, in suo nome, il consenso matrimoniale per la celebrazione del «matrimonio civile e/o canonico». Al riguardo, deve precisarsi che l’attribuzione di questi poteri è stata effettuata nel presupposto che il matrimonio canonico fosse celebrato in Spagna e che una eventuale richiesta per la produzione degli effetti civili venisse avanzata in quello Stato. Alla luce delle considerazioni che precedono, nonché della validità della procura del […], la ratifica in esame manifesta la sua assoluta inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico. In base alla disciplina dettata dal codice civile italiano, infatti, la ratifica indica la dichiarazione con cui, in caso di rappresentanza senza potere, il rappresentato si appropria degli effetti del negozio concluso dal rappresentante al quale alcun potere era stato in precedenza conferito, ovvero che ha agito esorbitando i poteri ricevuti (art. 1399 cod. civ.). Analoghe norme, in primo luogo quella dettata in tema di mandato (art. 1711 cod. civ.), identificano nella ratifica la dichiarazione mediante la quale l’autore dell’atto assume nella propria sfera giuridica un
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Opinione di Salvatore Patti
atto che un altro soggetto aveva compiuto eccedendo i poteri precedentemente attribuiti o senza avere alcun potere. La ratifica serve quindi a rendere efficace nella propria sfera giuridica un atto che inizialmente ad essa risultava estraneo. La sua funzione consiste pertanto nel consentire al dichiarante di far propri gli effetti di un atto che un altro soggetto ha compiuto senza essere stato precedentemente abilitato. Per quanto interessa in questa sede, possono trattarsi unitariamente le ipotesi di atto concluso senza potere o eccedendo il potere conferito, in quanto anche nella seconda ipotesi la ratifica serve alla produzione di effetti che altrimenti (per la parte non «coperta» dalla procura) non si sarebbero verificati (v. in tal senso Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., IV, 2, Torino, 1980, p. 394). In definitiva, l’utilità della ratifica consiste nel rendere opponibile un atto che altrimenti non avrebbe prodotto alcun effetto per il soggetto nel cui nome è stato compiuto. L’atto compiuto dal rappresentante senza poteri, anche prescindendo dalla tesi di una parte della dottrina secondo cui deve considerarsi nullo per la mancanza di un essenziale elemento di validità consistente nella dichiarazione dell’interessato (per tutti, Betti, Teoria del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da Vassalli, XV, 2, Torino, 1955, p. 598), è in ogni caso inefficace (v., diffusamente, Bianca, Diritto civile, 3. Il contratto, II ed., Milano, 2000, p. 107 ss.; e, nella più recente giurisprudenza, Cass. civ., 21 ottobre 2015, n. 21455). L’art. 1398 cod. civ. parla di invalidità e la dichiarazione del soggetto che ratifica serve pertanto a «sanare» tale invalidità, realizzando una fattispecie di collegamento negoziale tra l’atto posto in essere dal rappresentante senza potere – che altrimenti resterebbe res inter alios acta – e il negozio di ratifica (in tal senso, la giurisprudenza, con riguardo all’atto del falsus procurator, discorre di «negozio a formazione successiva»: da ultimo, Cass. civ., 8 febbraio 2016, n. 2403). In definitiva, si ribadisce, la ratifica serve a consentire la produzione di effetti giuridici che altrimenti non potrebbero verificarsi, in quanto il negozio posto in essere dal falsus procurator «non può realizzarsi perché manca la predeterminazione del destinatario» (Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1979, p. 279). Ciò posto, con riferimento al caso in esame, dalla documentazione a me consegnata, risulta che la signora […] in data […] aveva conferito una (valida) procura in forma notarile alla signora […] e alla signora […], attribuendo a ciascuna di esse (disgiuntamente) il potere di «celebrare matrimonio civile e/o canonico (rectius: intervenire nella celebrazione), dando in suo nome il consenso matrimoniale, con il signor […]». Il matrimonio risulta essere stato celebrato, nella forma e con gli effetti di un matrimonio canonico in data […] a Barcellona (Spagna) e il consenso matrimoniale manifestato dal procuratore della signora […] è idoneo alla valida celebrazione del matrimonio nell’ordinamento canonico. Anche l’ordinamento canonico, infatti, individua espressamente tra le forme di celebrazione del matrimonio quella per procura (cfr. can. 1104 § 1, c.j.c.) e il vigente codex, a differenza di quello Pio Benedettino, consente che la procura, oltre a quella formata nell’ordinamento canonico (rogata dall’ordinario diocesano, o da un sacerdote da questi delegato, alla presenza di almeno due testimoni), possa formarsi con un atto autenticato ai sensi delle disposizioni vigenti nello Stato. Alla luce di quanto esposto, la ratifica dell’originaria procura speciale è inefficace e, pertanto, inidonea alla configurazione di qualsiasi effetto nell’ordinamento giuridico italiano. Posta la validità della procura rogata in data […], il procuratore della signora […] disponeva dei poteri rappresentativi per celebrare il matrimonio. La successiva ratifica deve dunque considerarsi un atto del tutto privo di effetti. II. Nella vicenda sottoposta al mio esame, anche nell’ipotesi in cui dovesse accertarsi che la procura rilasciata in data […] non è valida, l’atto di ratifica del […] non potrebbe comunque produrre effetti giuridici (in particolare, non sarebbe idoneo a far acquistare lo status di coniuge nell’ordinamento italiano al signor […]). Ciò per un concorrente ordine di ragioni, attinenti sia alle regole del diritto civile italiano (II.1), sia ai principi dell’ordinamento canonico (II.2).
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II.1. Nell’ordinamento italiano, che parimenti all’art. 111 cod. civ. prevede la possibilità di una «celebrazione per procura» del matrimonio, le ipotesi eccezionalmente previste dalla norma sono interpretate dalla dottrina più autorevole nel senso di riconoscere al procuratore non già la posizione di rappresentante, bensì quella di un mero nuncio (v. Finocchiaro, Del Matrimonio, II, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1993, p. 93 s.; Ferrando, voce Matrimonio civile, in Digesto disc. priv. sez. civ., XI, Torino, 1994, p. 257; di recente, Vitali, Il matrimonio per procura, in Il diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, I, II ed., Torino, 2007, p. 172) e in questi termini si è espressa anche la Corte di Cassazione (cfr., ad es., Cass. civ., 14 febbraio 1975, n. 569, secondo cui «nel caso di procura ad nuptias […] l’incaricato assume la figura di mero nuncius, essendo il suo compito limitato a presenziare alla cerimonia, trasmettere la volontà del delegante e contrarre matrimonio con quella determinata persona»). Per quanto interessa in questa sede, la stessa qualificazione del procuratore si rinviene nell’ordinamento canonico (cfr., già molto tempo prima dell’entrata in vigore del vigente codice canonico, Ganini, L’istituzioni canoniche, Napoli, 1761, p. 157; e, in epoca attuale, Vitali-Berlingò, Il matrimonio canonico, III ed., Milano, 2007, p. 58 s.). Nel diritto civile, come si evince dalla sentenza da ultimo citata, la figura del nuncio si distingue tradizionalmente da quella del rappresentante: a differenza di quest’ultimo (legittimato ad esprimere una propria volontà contrattuale, di per sé idonea a perfezionare un negozio), il primo non emette una propria dichiarazione di volontà, limitandosi a riferire ad una parte la volontà di un’altra. Il che rende l’atto del nuncio una semplice comunicazione avente ad oggetto una volontà altrui. Ciò determina una conseguenza di non poco conto in caso di mancanza o di eccesso di procura: in questi casi, la dichiarazione del falso nuncio deve essere considerata non già inefficace, ma irrimediabilmente nulla, non essendo giuridicamente riferibile ad alcun soggetto (non al nuncio, privo di capacità di esprimerla; non al dominus, estraneo per definizione alla stessa). Su queste basi, la dottrina maggioritaria considera inapplicabile al falso nuncio la disciplina codicistica in tema di ratifica dei suoi atti (v. per tutti Bianca, Diritto civile, 3. Il contratto, cit., p. 77, nt. 83, il quale richiama Vittoria, Il «falsus nuncius», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1973, p. 530). Nel caso di specie, ciò implica che allorché la procura rilasciata nel 2010 in Spagna dovesse considerarsi invalida, la successiva ratifica – avente ad oggetto l’attività di un nuncio nella conclusione per procura di un matrimonio canonico – non potrebbe in radice produrre gli effetti di cui all’art. 1399 cod. civ. II.2. Analoghe conclusioni si raggiungono peraltro in forza dei principi dell’ordinamento canonico. La procura speciale è stata rogata in data […] e il matrimonio canonico è stato celebrato il […] dello stesso anno (pertanto, nel vigore della stessa). Qualora la procura non fosse valida e comunque fosse inidonea ad attribuire il potere di manifestare la volontà matrimoniale, l’atto di ratifica dei poteri del procuratore intervenuto successivamente alla celebrazione del matrimonio […], come è accaduto nella presente fattispecie, sarebbe inidoneo a dar vita a un valido matrimonio canonico per le ragioni che seguono. Per il diritto canonico, in applicazione di una norma di diritto divino naturale, formalizzata nel vigente codex al canone 1057, § 1. “Matrimonium facit partium consensus inter personas habiles legitime manifestatus, qui nulla humana potestate suppleri valet”. Tale principio, per il suo fondamento nel diritto divino naturale, non può essere contraddetto da alcuna autorità umana, neppure quella ecclesiastica posta al vertice dell’ordinamento canonico (cfr., sul tema, l’unanime dottrina canonistica, tra cui Fedele, Contributi alla teoria canonistica dei vizi del consenso matrimoniale, Firenze, 1941; Giacchi, Il consenso nel matrimonio canonico, Milano, 1968; più di recente, cfr. Vitali-Berlingò, Il matrimonio canonico, cit., pp. 60-70; Lo Castro, Matrimonio, diritto e giustizia, Milano, 2003, pp. 69-95). Conseguentemente, sebbene il diritto canonico preveda espressamente la possibilità della celebrazione del matrimonio per procura, l’attribuzione del potere di rappresentanza deve preesistere alla manifestazione del consenso matrimoniale e non deve venir meno fino alla manifestazione della volontà
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Opinione di Salvatore Patti
matrimoniale. Qualora il rappresentato, per circostanze sopravvenute, dovesse esser privo della capacità naturale anche soltanto temporaneamente (il diritto canonico, quanto all’incapacità giuridica, prevede soltanto l’amentia) prima che il procuratore manifesta la volontà matrimoniale, nonostante l’altro nubente e lo stesso procuratore non ne fossero a conoscenza, il matrimonio celebrato sarebbe radicalmente nullo per difetto del consenso (cfr. can. 1105, § 4, c.j.c. e, in dottrina, Finocchiaro, Il matrimonio nel diritto canonico, Bologna, 1989, p. 67, secondo cui in tale ipotesi l’invalidità del matrimonio canonico è correlata al venir meno della c.d. «contemporaneità morale» della manifestazione di volontà delle parti, la quale può sussistere solo ove persista la volontà manifestata dal mandante con il rilascio della procura). Lo stesso avviene nei casi in cui il mandante prima della stipulazione del contratto abbia revocato il mandato (Vignali, voce Matrimonio canonico (forma), in Enc. dir., XXV, Milano, 1975, p. 946). Uno dei corollari connessi al canone 1057, § 1, è quello secondo cui il consenso deve essere manifestato in maniera legittima e, sempre secondo la formula adottata nel citato canone, non può essere supplito da alcun potere umano. La volontà di contrarre dell’uno deve incontrarsi con la medesima volontà di contrarre dell’altro e ciò deve avvenire nella forma e nei modi previsti dal diritto (di qui, il significato dell’espressione legitime manifestatus contenuta nel predetto canone) (Bertola, voce Matrimonio religioso, in Noviss. dig. it., X, Torino, 1964, p. 452 s.). L’assenza di una valida procura rende il matrimonio invalido e a nulla rileva l’eventuale successiva ratifica dell’operato del procuratore. Ne consegue che, per il diritto canonico, il quale attribuisce alla volontà dei nubendi rilevanza decisiva per la valida costituzione del rapporto matrimoniale, non opera l’effetto retroattivo tipico della ratifica della procura (secondo il meccanismo che, nell’ordinamento italiano, è sotteso all’art. 1399 cod. civ.), giacché in tal modo si farebbe luogo alla non consentita supplenza del consenso matrimoniale che difetta in occasione della celebrazione del matrimonio. La volontà del mandante deve persistere dal momento del rilascio della procura fino al momento della celebrazione del matrimonio. Ove, la procura sia da considerare invalida ab origine, deve ritenersi assente la volontà dello sposo e il matrimonio celebrato non può che considerarsi invalido. A conclusione dell’analisi svolta in questo paragrafo, si deve quindi rilevare che, pur assumendo che il matrimonio celebrato in Spagna nel […] non si fondi su una preesistente valida procura rilasciata dalla signora […], l’atto di ratifica del […] sarebbe comunque da considerare del tutto irrilevante da un punto di vista giuridico, perfino inidoneo a produrre il limitato effetto di stabilizzare tra le parti gli effetti di un matrimonio (non civile ma esclusivamente) canonico. Oltre a quanto si dirà infra sub III, anche nell’ambito dell’ordinamento giuridico spagnolo in cui sarebbe stata astrattamente possibile la trascrizione di un matrimonio canonico nel registro dello stato civile, il signor […] non potrebbe in alcun modo acquistare lo status di coniuge. III. L’idoneità dell’atto di ratifica a costituire nel nostro ordinamento lo status di coniuge deve essere esclusa per l’ulteriore e decisiva circostanza che oggetto della fattispecie in esame è un matrimonio canonico, privo di effetti civili anche nell’ordinamento del Paese (Spagna) in cui il rito è stato celebrato. Dalla documentazione consegnata (cfr. certificazione negativa del Registro dello stato civile di Barcellona) risulta, infatti, che quel matrimonio canonico non è produttivo di effetti civili nell’ordinamento spagnolo, onde lo stesso, in applicazione delle disposizioni in tema di diritto internazionale privato, non può essere considerato in Italia alla stregua di matrimonio produttivo di effetti civili. Per mera completezza argomentativa, si rileva che a diverse conclusioni si dovrebbe pervenire ove quel matrimonio canonico fosse produttivo di effetti civili. Esso, in tal caso, ben potrebbe essere iscritto, al pari di quelli civili celebrati all’estero, nella serie C della parte seconda dei registri di matrimonio ai sensi dell’art. 125 dell’ord. stato civ. e a quella stregua essere ritenuto in Italia un matrimonio produttivo di effetti civili. Non così, tuttavia, nel caso in esame. Né è ipotizzabile che la produzione degli effetti civili di quel matrimonio canonico celebrato all’estero possa conseguirsi in applicazione delle disposizioni di cui all’Accordo del 1985 di modifica del Concordato tra la S. Sede e l’Italia del 1929. Invero, come affermato
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dalla più autorevole dottrina (cfr., per tutti, Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, 2004, pp. 443-445) e dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., 28 aprile 1990, n. 3599), le norme di derivazione concordataria, alla stregua di disposizioni nascenti da Accordi aventi natura di Trattato internazionale, possono applicarsi ai fatti verificatisi nel territorio dello Stato italiano intervenuti tra cittadini italiani. Nella presente vicenda difettano entrambi i requisiti, tenuto conto che il matrimonio canonico è stato celebrato all’estero tra soggetti di cui uno soltanto (la signora […]) ha la cittadinanza italiana. Quel matrimonio, pertanto, potrebbe essere riconosciuto in Italia come matrimonio civile solo qualora lo stesso producesse effetti civili in Spagna, evenienza questa che deve escludersi per quanto in precedenza esposto. In ogni caso, quand’anche si dovesse astrattamente ritenere trascrivibile in Italia quel matrimonio canonico celebrato all’estero, in applicazione di un remoto orientamento della Suprema Corte (cfr. Cass. civ., 27 luglio 1962, n. 2168; Cass. civ., 25 gennaio 1979, n. 557), criticato dalla dottrina più autorevole (cfr., per tutti, Finocchiaro, Del matrimonio, I, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 444, sulla base della logica considerazione che una celebrazione valida per il diritto canonico non integra necessariamente tutti i requisiti di forma necessari perché segua la trascrizione nei registri dello stato civile), la trascrizione, nel caso di specie, non sarebbe comunque possibile. Invero, tenuto conto che non potrebbe farsi luogo alla c.d. trascrizione tempestiva, essendo trascorsi più di 5 giorni dalla celebrazione del matrimonio canonico, dovrebbe farsi ricorso all’istituto della trascrizione tardiva che può essere richiesta in ogni tempo. Tuttavia, questa trascrizione deve essere richiesta da entrambi i coniugi, oppure anche da uno soltanto di essi purché risulti la conoscenza e la non opposizione dell’altro coniuge. IV. Conclusivamente, deve negarsi l’idoneità dell’atto di ratifica oggetto del presente parere a produrre effetti nell’ordinamento giuridico italiano, e in particolare quello di costituire lo status di coniuge in capo alle parti del matrimonio canonico celebrato in Spagna nel […]. In primo luogo, se anche il matrimonio de quo avesse conseguito effetti civili, alla luce di quanto affermato sub I, questi sarebbero derivati dalla celebrazione avvenuta sulla base della procura sottoscritta dalla signora […] in data […] e non quale effetto della successiva ratifica sottoscritta in data […]. La ratifica, pertanto, non ha prodotto alcun effetto, data l’assenza di un presupposto essenziale, consistente nella mancanza di potere in capo al rappresentante. In secondo luogo, in virtù di quanto esposto supra sub II, anche ove la procura fosse ritenuta invalida, tanto i principi generali dell’ordinamento giuridico italiano che le norme del codice canonico (in particolare, quelle contenute nel canone 1057, § 1, impedirebbero l’acquisto dello status giuridico di coniuge in capo al signor […]. Il matrimonio canonico celebrato sulla base di una procura invalida non può essere ratificato ex post e deve considerarsi radicalmente invalido, sia, da un punto di vista civilistico, per l’inammissibilità di una ratifica dell’attività del falso nuncius (II.1), sia in quanto, per diritto canonico, l’attribuzione del potere di rappresentanza deve preesistere alla manifestazione del consenso matrimoniale e non deve venir meno fino alla manifestazione della volontà matrimoniale (II.2). In terzo luogo, vale il rilievo, analizzato supra sub III, per cui quello celebrato tra il signor […] e, per procura, dalla signora […] è stato un matrimonio esclusivamente canonico, inidoneo a produrre effetti civili nell’ordinamento italiano. In ultima analisi, l’atto di ratifica rogato in data […], a prescindere dalla mancata produzione di effetti civili del matrimonio celebrato in Spagna, non appare idoneo a produrre alcun effetto nell’ordinamento giuridico italiano e, pertanto, non quello di far acquisire al signor […] lo status di coniuge nel medesimo ordinamento giuridico nazionale. Salvatore Patti
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