2018 5 Familia
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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
settembre - ottobre 2018
Diretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Maria Giovanna Cubeddu, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
www.rivistafamilia.it
IN EVIDENZA Considerazioni introduttive in tema di rapporti patrimoniali nella famiglia Enrico Quadri
Identità dei figli tra cognome, status filiationis e diritto di conoscere le proprie origini biologiche
Giovanna Savorani
L’ordinamento interno alla prova dell’omogenitorialità, tra ordine pubblico e interventi delle corti
Caterina Murgo
Pacini
Indice Parte I Dottrina Enrico Quadri, Considerazioni introduttive in tema di rapporti patrimoniali nella famiglia............ p. 487 Giovanna Savorani, Identità dei figli tra cognome, status filiationis e diritto di conoscere le proprie origini biologiche.......................................................................................................................................» 499 Antonio Mondini, L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito................................................................................................................» 527 Caterina Murgo, L’ordinamento interno alla prova dell’omogenitorialità, tra ordine pubblico e interventi delle corti..................................................................................................................................» 543 Parte II Giurisprudenza Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2018, n. 9178 (con nota di Valerio Brizzolari, Danno da morte del convivente: la coabitazione non è presupposto necessario per ottenere il risarcimento Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2018, n. 9178)...............................................................................................................» 563
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Considerazioni introduttive in tema di rapporti patrimoniali nella famiglia* Sommario : 1. La “stagione delle riforme” ed il silenzio in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia. – 2. Principio costituzionale di parità e rapporti patrimoniali nella famiglia. – 3. Il sistema complessivo dei rapporti patrimoniali nella famiglia e le sue criticità. – 4. Possibili rimedi tra principio contributivo e regime patrimoniale. – 5. Crisi familiare e autonomia degli interessati in campo patrimoniale. – 6. Assetti economici conseguenti alla crisi familiare e salvaguardia della parità delle parti.
Unlike other sectors of family law, the issue of property relationships has not been affected by any reform over recent years. However, the need has been felt to intervene also in this field, in order to ensure the full implementation of the constitutional principle of equality of the parties provided for in Article 29 of the Constitution. Interventions should concern both patrimonial relationships during cohabitation and patrimonial relationships as a consequence of the family crisis. The goal, therefore, is to create a comprehensive system that balances the value of freedom with those of responsibility and solidarity.
1. La “stagione delle riforme” ed il silenzio in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia.
Questo Convegno si pone su di una linea di ideale continuità con il precedente organizzato nel 2006 nella stessa prestigiosa sede. Si trattò, allora, di fare il punto sul trentennio
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Lo scritto riprende le considerazioni svolte come introduzione alla sessione dedicata a “I rapporti patrimoniali”, nell’ambito del Convegno “Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme: rapporti di coppia e ruolo genitoriale”, Catania, 27-29 settembre 2018.
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trascorso dalla riforma del diritto di famiglia, al fine di trarne “bilanci e prospettive”. Oggi, a distanza di un periodo lungo ma non lunghissimo in termini temporali, di verificare l’incidenza sul “sistema del diritto di famiglia” di quella che nel titolo del Convegno viene descritta come “stagione delle riforme”. Dalle sedute precedenti, è emerso con chiarezza, a volerne rozzamente sintetizzare i risultati, che – anche senza certamente sminuire il peso epocale delle riforme degli ultimi decenni del secolo scorso – nulla è più come prima. Così, dopo la sofferta svolta divorzista, alla disciplina della crisi della coppia è stata impressa una curvatura caratterizzata dalla ricerca di strumenti atti a realizzare una piena attuazione dell’affermatosi “diritto ad interrompere la convivenza”, pure in vista del “diritto alla costituzione di una nuova famiglia” dopo il fallimento della precedente: ciò attraverso il susseguirsi, in un breve torno di tempo, di interventi, legati da una medesima logica, come quelli del divorzio breve e della possibile degiurisdizionalizzazione delle procedure. Ma, ovviamente, il passo forse più radicale è stato rappresentato dall’apertura dell’ordinamento – alquanto tardivamente e sotto la spinta di univocamente orientate correnti sovranazionali – nel senso del conferimento di una diffusamente richiesta adeguata dignità anche giuridica a rapporti di coppia fino ad un recente passato, se non osteggiati, almeno ignorati o, comunque, solo frammentariamente presi in considerazione: apertura notoriamente condizionata dall’avvertita necessità di delicate mediazioni ideologiche, ma che fa intravedere ulteriori possibili approdi futuri. Anche alla disciplina della materia della filiazione a misura del perseguimento dell’interesse del minore – pur nell’indiscutibile difficoltà della relativa individuazione e realizzazione nel delicato bilanciamento con altri interessi – è stata impressa una spinta decisiva, pure al di là della già conseguita equiparazione sostanziale, con l’unificazione dello stato di figlio e delle conseguenti responsabilità genitoriali, con i relativi riflessi pure in caso di crisi familiare. Ed il solo apparentemente limitato intervento in tema di affidamento e adozione sembra aprire la via ad una prossima rimodulazione dello strumentario a disposizione in vista della tutela del minore coinvolto in situazioni di inadeguatezza del suo ambiente familiare. A fronte dell’impetuoso vento di riforma che ha investito la generalità delle altre problematiche familiari, sembra fare singolare contrasto, allora, la sostanziale staticità del quadro che l’ordinamento offre con riguardo al regime dei rapporti patrimoniali nella famiglia. Qui, in effetti, il tempo sembra essersi fermato e, nonostante gli anni passati dal precedente incontro catanese, la riflessione, assai più che rivolgersi ad una realizzata evoluzione del contesto ordinamentale, insomma a bilanci, sembra doversi – come, del resto, già allora – indirizzare soprattutto all’individuazione di criticità e di conseguenti prospettive di riforma, invero sicuramente rese, rispetto ad allora, ancora più urgenti proprio in conseguenza del mutato contesto generale della disciplina delle relazioni familiari. Che questo sia stato – e pare quasi inevitabilmente – il punto di vista da cui si è mosso chi ha organizzato il Convegno pare emergere con assoluta chiarezza dal programmato susseguirsi delle tematiche oggetto dei diversi interventi nella sessione dedicata ai rapporti patrimoniali. Con riguardo a tutte, assordante è stato, in effetti, il silenzio del legislatore,
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ogni anelito di cambiamento essendo restato confinato al solo intervento giurisprudenziale. Ciò, evidentemente, a scapito di quell’esigenza di, almeno tendenziale, certezza, la quale, non pare quasi il caso di sottolinearlo neppure, particolarmente avvertita si presenta quando in gioco sono relazioni, come quelle familiari, in cui gli aspetti economici sono destinati ad intersecare quelli di carattere personale, spesso condizionandone, addirittura, gli sviluppi. E basti, in proposito, richiamare le note recenti vicende giurisprudenziali del regime delle contribuzioni post-matrimoniali, con le tensioni cui hanno finito con l’esporre chi si trova in un momento tanto delicato della propria esistenza. Proprio il programmato susseguirsi delle tematiche affidate ai relatori, sembra attestare, poi, la consapevolezza che, in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia, qualsiasi intervento – almeno ove intenda presentarsi come accettabile sul piano sistematico complessivo – non possa che muovere da una premessa, sulla quale non sarà mai sufficientemente richiamata l’attenzione. La constatazione, cioè, secondo cui, individuato un obiettivo come meritevole di realizzazione, evidentemente alla luce della tavola di valori fissata nella Costituzione, al relativo perseguimento risultino destinati a giocare, in un così intimo intreccio che finisce col renderli interdipendenti, il regime patrimoniale operante nella fase fisiologica della convivenza, nella sua articolazione di derogabilità ed inderogabilità, e la regolamentazione dei rapporti economici in conseguenza della crisi familiare. E ciò senza trascurare, sempre a fini di ragionevole coerenza sistematica, la necessaria dipendenza delle scelte da operare in materia successoria anche – se non addirittura soprattutto – da quelle che in proposito si sia inteso compiere.
2. Principio costituzionale di parità e rapporti patrimoniali nella famiglia.
Ogni riflessione circa gli obiettivi da perseguire in materia di rapporti patrimoniali nella famiglia pare dover muovere dal richiamo delle finalità della riforma del 1975, quali identificate dalla Corte costituzionale nella fase conclusiva della sua elaborazione (n. 187 del 1974). Il compito del legislatore veniva con chiarezza individuato nella necessità di “procedere ad una piena attuazione del principio costituzionale della parità giuridica dei coniugi anche sotto il profilo dei rapporti patrimoniali”. Di conseguenza, il valore da tenere sempre presente come fondamentale non può che essere quello, scolpito nell’art. 29 Cost., della eguaglianza dei coniugi, evidentemente da attualizzare promuovendo una loro piena e sostanziale parità anche sotto il profilo economico, a salvaguardia di un effettivo rispetto della dignità di entrambi. E, al riguardo, non si può fare a meno di rilevare, da una parte, come ovunque sia stata proprio l’esigenza di realizzare una sempre più piena eguaglianza tra i coniugi a propiziare la ridefinizione, sul piano giuridico, degli assetti patrimoniali della famiglia; dall’altra, come sembri dappertutto sostanzialmente pacifico che ciò irrinunciabilmente comporti – quale indefettibile riflesso di quell’integrazione delle sfere esistenziali che rappresenta l’essenza stessa del
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fenomeno familiare – la necessità di assicurare reciprocamente alle parti un’adeguata partecipazione a quanto complessivamente costruito insieme, dal punto di vista economico, durante la realizzata comunità di vita. Né può ritenersi affermazione azzardata quella secondo cui sarebbe consentito rilevare, nella generalità degli ordinamenti a noi vicini, una diffusa tendenza a rivalutare fortemente una simile istanza partecipativa e perequativa. In effetti, sono state le stesse Sezioni Unite della Cassazione, nella loro recentissima decisione – n. 18287 del 2018 – finalizzata a rimeditare il regime delle contribuzioni post-matrimoniali in un’ottica dichiaratamente perequativio-compensativa, ad individuare una simile tendenza, proprio quale espressione di una ovunque ricercata “pari dignità degli ex coniugi”: con ciò lasciando intendere come il relativo obiettivo sia da realizzare quale risultato finale del dianzi accennato intreccio dell’operatività del regime patrimoniale matrimoniale e di quello post-matrimoniale, in una prospettiva complessivamente realizzativa – appunto attraverso la valorizzazione di una comune “preminenza della funzione perequativa” – dei valori individuabili alla luce di una combinata lettura “degli artt. 2, 3, 29” della nostra Costituzione. Un tale ordine di considerazioni, fino a qualche tempo addietro, poteva essere legittimamente limitato alle conseguenze della scelta matrimoniale degli interessati. La recente dinamica dell’ordinamento induce a concludere, peraltro, come la portata del valore della parità, che l’art. 29 Cost. – per un inevitabile condizionamento di carattere storico – riferisce ai coniugi, debba essere ormai estesa, appunto alla luce del quadro costituzionale complessivo, ad ogni esperienza che, per l’intimità e la solidità del legame di vita comune delle parti, possa essere qualificata in termini “familiari”. Ciò, pare il caso di ricordarlo appena, al di là di ogni ragionevole dubbio, di fronte alla – sia pure tutt’altro che limpida – disciplina introdotta con la legge n. 76 del 2016. Ed il pensiero corre, al riguardo, non solo alla esplicita configurazione normativa del rapporto derivante dalla costituzione di una unione civile, scopertamente ispirato – ad onta di quelle riserve mentali che hanno reso faticosa la successiva opera dell’interprete – all’inseguito modello matrimoniale, ma anche allo statuto che, pur se per molti aspetti solo in filigrana, ne è risultato delineato per quelli che la legge in questione definisce “conviventi di fatto”. In effetti, non può certo essere considerato indifferente l’essersi dichiaratamente individuato, al comma 36, nella “reciproca assistenza morale e materiale” la sostanza del rapporto di vita destinato ad acquistare tra costoro rilevanza anche giuridica: questo, con una fin troppo chiara evocazione, quindi, della prospettiva posta a fondamento di quel principio contributivo che rappresenta, ai sensi del terzo comma dell’art. 143 cod. civ., l’architrave della relazione coniugale in chiave di solidale parità in vista del soddisfacimento dei “bisogni della famiglia”. E la conseguenza, allora, pare quella per cui l’interprete dovrà inevitabilmente interrogarsi circa i conseguenti riflessi: questo, non solo in ordine al carattere inderogabile o meno dei diritti – scarsi o eccessivi che siano secondo le personali vedute di ciascuno – che il legislatore ha inteso esplicitamente radicare nella “convivenza” in quanto tale, ma soprattutto con riguardo al controllo di meritevolezza dei possibili contenuti dell’ormai tipizzato “contratto di convivenza”, alla cui stipulazione sembra si sia
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inteso affidare una concordata crescente carica di – anche giuridica – impegnatività della relazione di vita degli interessati. Del resto, con riferimento allo stesso vincolo matrimoniale, in una prospettiva sicuramente da estendere almeno a quello derivante dall’unione civile, solo ad un osservatore superficiale potrebbe sembrare che l’accresciuta rilevanza che tende ovunque ad essere conferita al profilo perequativo e partecipativo nella configurazione del regime patrimoniale, anche – e forse soprattutto – ai fini della disciplina delle conseguenze della crisi familiare, si ponga in contrasto con l’allentamento del vincolo pure ovunque diffusamente in atto. In effetti, è da ritenere che una simile conformazione in senso più intensamente perequativo e partecipativo delle dinamiche patrimoniali della famiglia finisca, anzi, con l’assumere, in una prospettiva di eguale dignità di ciascuna delle parti, una portata di opportuno bilanciamento della facoltà accordata anche solo ad una di esse di interrompere definitivamente la comunità di vita familiare, almeno ove si sia realizzata una reale interdipendenza delle relative sfere personali e patrimoniali. Insomma, l’esigenza è quella di dar vita ad un sistema complessivo che, per assicurare la realizzazione dell’obiettivo dell’effettiva eguaglianza degli interessati, tenda ad equilibrare l’irrinunciabile – ed indiscutibilmente sempre più avvertito – valore della libertà con quelli di condivisione, responsabilità e solidarietà, che sembrano imporre, appunto, un adeguato rispetto e riconoscimento delle aspettative maturate da ciascuna delle parti sulla base del reale contributo prestato alla compagine familiare ed al relativo benessere. E le Sezioni Unite della Cassazione sembrano ora cogliere pienamente il senso di ciò quando – integrando qui le conclusioni della recentissima decisione dianzi accennata con quelle di un’altra, pure piuttosto recente (n. 16379 del 2014) – evidenziano come il costituire i concreti assetti familiari “frutto di scelte comuni fondate sull’autodeterminazione e sull’autoresponsabilità di entrambi i coniugi”, tali da imprimere alle loro “condizioni personali ed economiche un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile”, renda il vissuto rapporto di vita comune fonte di “diritti inderogabili”, di “aspettative legittime” e di “legittimi affidamenti”.
3. Il sistema complessivo dei rapporti patrimoniali nella famiglia e le sue criticità.
La prevista scansione delle relazioni, evoca i lineamenti generali del nostro diritto patrimoniale della famiglia, evidentemente al fine di promuovere una riflessione sulle criticità che persistentemente lo caratterizzano. Si tratta di un itinerario che trascorre dal regime patrimoniale operante nella fase fisiologica dell’esperienza familiare a quello destinato a conformare gli assetti economici nella relativa patologia, per giungere ad investire il momento successorio. Quanto alla fase fisiologica, costituisce osservazione corrente come – tanto nel nostro, quanto nella generalità degli ordinamenti a noi più vicini – l’obiettivo della parità tra i pro-
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tagonisti dell’esperienza familiare sia stato perseguito sviluppando l’intervento legislativo essenzialmente su due livelli. E, proprio alla luce di quanto dianzi osservato, pare il caso di sottolineare immediatamente come una simile prospettiva d’indagine non possa ritenersi più riguardare la sola famiglia fondata sul matrimonio. Al primo livello si colloca, in tale prospettiva, il regime contributivo, quale insieme di direttive inderogabili, mentre al secondo livello si collocano le regole – di carattere, invece, tendenzialmente derogabile – destinate ad operare subordinatamente alle prime, in ordine all’acquisto, alla gestione ed alla distribuzione finale dei beni. L’ancora vigente sistema delineato nel 1975 si caratterizza, così, da una parte, per la previsione del regime contributivo, quale tratteggiato negli artt. 143, co. 3, e 144 cod. civ., avente, secondo una ricostruzione rimasta ineguagliata per la sua incisività, la funzione di “integrare nei rapporti patrimoniali l’ordinamento solidale, affidato alla determinazione congiuntiva e all’attuazione disgiuntiva dell’indirizzo familiare”. Dall’altra, per l’introduzione, quale regime patrimoniale “legale”, della “comunione dei beni”, in quanto regime ritenuto più rispondente all’obiettivo di realizzare in maniera ottimale il principio della parità delle parti, attraverso una significativa perequazione delle rispettive situazioni patrimoniali. Non è da nascondere come il carattere “legale” conferito al regime di “comunione dei beni” abbia finito col condizionare fortemente, da noi, la configurazione del regime contributivo, inducendo a trascurare l’opportunità di una sua più puntuale articolazione, secondo quanto risulta avvenuto in altri ordinamenti, dove evidentemente maggiore è stata la consapevolezza del ruolo essenziale che quello correntemente identificato in termini di “regime primario imperativo” è chiamato a giocare, in considerazione del carattere pur sempre derogabile del regime patrimoniale “legale”. Ma la fiducia del legislatore nella valenza anche promozionale dell’adozione di quello di comunione quale regime patrimoniale “legale” si è dimostrata infondata e fin troppo noto è il conseguente fenomeno – quali che siano le relative motivazioni – dell’imponente “fuga” dalla comunione, essendo divenuta quasi di stile (e spesso neppure adeguatamente consapevole) la scelta in senso separatista. E la gravità delle conseguenze di ciò si apprezza pienamente nel momento della crisi familiare, quando la carente operatività dal punto di vista solidaristico-perequativo del regime patrimoniale nella fase fisiologica della convivenza – appunto in conseguenza di una opzione separatista slegata da un effettivo superamento delle asimmetrie tra gli interessati – finisce inevitabilmente col proiettare il soddisfacimento della relativa esigenza sul piano delle valutazioni concernenti gli assetti economici conseguenti alla crisi. Il rischio di dar vita a pericolosi circoli viziosi è qui in agguato, come hanno dimostrato le diffusamente denunciate possibili conseguenze di recenti prese di posizione giurisprudenziali in materia di contribuzioni post-matrimoniali: conseguenze, del resto, che le Sezioni Unite hanno dimostrato di avere ben presenti nel loro recentissimo intervento in tale ultima materia.
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4. Possibili rimedi tra principio contributivo e regime patrimoniale.
Dalle prime relazioni in programma dovrebbe emergere quali siano possibili vie di uscita a fronte delle problematicità caratterizzanti la situazione venutasi a determinare. Al riguardo, proprio sulla via aperta dalle ricordate decisioni delle Sezioni Unite, inevitabile pare, innanzitutto, una, per così dire, “riscoperta” del principio contributivo e delle sue potenzialità operative, quale guida sicura per quei bilanciamenti degli interessi di volta in volta coinvolti, tanto nel corso dell’esperienza di vita familiare, quanto nel passaggio dalla vita comune a quella separata. Non si dimentichi, in effetti, come sia proprio all’inderogabile operatività delle sue direttive che si ritiene unanimemente restare demandato, a prescindere dal regime patrimoniale – correntemente definito in termini di “secondario”, appunto in contrapposizione, come accennato, a quello “primario imperativo”, costituito dal regime contributivo – in concreto funzionate tra le parti, il conseguimento degli essenziali ed irrinunciabili obiettivi di solidale eguaglianza, in attuazione del principio costituzionale di parità, di cui all’art. 29 Cost. Obiettivi che, come si è avuto modo di sottolineare dianzi, oggi assumono una portata ben più ampia di quella originaria, in dipendenza, da una parte, del riconoscimento legislativo della unione civile tra persone dello stesso sesso che abbiano inteso scegliere la via – almeno quale loro attualmente consentita – della piena giuridicizzazione del proprio impegno di vita; dall’altra, della rilevanza ormai dichiaratamente acquistata, sul piano giuridico, dagli stabili “legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”, eventualmente resi giuridicamente più impegnativi attraverso il ricorso allo strumento del “contratto di convivenza”. E, in proposito, il pensiero – anche alla luce di modelli sperimentati altrove – corre quasi inevitabilmente (almeno) ad un possibile ripensamento di problematiche quali quella della responsabilità per le obbligazioni contratte per il soddisfacimento di necessità familiari e quella del regime della casa familiare, nel nostro ordinamento, come l’esperienza insegna, troppo angustamente, e soprattutto tardivamente, ove si ponga mente al carattere pure esistenziale degli interessi coinvolti, preso in considerazione al momento del venir meno della compagine familiare. Inevitabilmente più complesso, ma comunque strettamente connesso con quello concernente l’operatività del principio contributivo, pare presentarsi il discorso concernente la conformazione del regime patrimoniale operante nella fase fisiologica, nella dialettica tra autonomia degli interessati ed intervento legislativo. In proposito, da un primo punto di vista, la scarsa propensione ovunque dimostrata ad allontanarsi dagli schemi legalmente tipizzati, in una con lo scarso favore dimostrato per gli schemi predisposti nel contesto della riforma del 1975, al di fuori della comunione e legale o della sua mera esclusione con la scelta separatista, dovrebbe indurre ad attirare l’attenzione del legislatore nel senso di una possibile “tipizzazione”, in via normativa, di
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possibili varianti del modello “legale” di comunione, eventualmente, ormai, da aprire alla possibilità di opzione anche da parte dei “conviventi”. Tipizzazione, del resto, ben nota ad altri ordinamenti, dove non si manca di coinvolgere lo stesso criterio di ripartizione finale delle risorse, indubbiamente, allo stato, troppo rigidamente imbrigliato dall’inderogabilità di quella regola assolutamente paritaria (artt. 194, co. 1, e 210, co. 3), la quale – alla luce della intervenuta evoluzione dei rapporti familiari nella società – sembra chiamata a dover fare i conti con la crescente esigenza di aumentare gli spazi da riconoscere a consapevoli determinazioni autonome degli interessati. Sotto un diverso profilo, pare il caso di rilevare come assai diffusa sia la spinta ad intervenire anche sull’opzione normativa di fondo in materia, quella, cioè, concernente la scelta del medesimo regime patrimoniale “legale”. Pure al riguardo, del resto, le Sezioni Unite non hanno mancato di cogliere quanto un regime che ponga capo ad una “ripartizione pregressa delle risorse e del patrimonio familiare” valga a sdrammatizzare il discorso concernente i meccanismi che, al momento della crisi familiare, sono chiamati a governarne i profili economici, sempre in vista del perseguito obiettivo della garanzia della parità delle parti. Ma si deve trattare, evidentemente, di un regime tale da evitare quella macchinosità caratterizzante le regole operative dell’attuale comunione legale, la quale, come accennato, ha propiziato il fenomeno della “fuga” da essa. Non a caso, e la prospettiva sembra ora forse potersi cogliere, anche se in filigrana, nella motivazione delle stesse Sezioni Unite, l’attenzione è da qualche tempo attratta – ma, invero, già lo fu all’epoca della riforma del 1975 – da un modello che ha acquistato progressivamente spazio negli ordinamenti a noi più vicini e sembra aver dato buona prova di efficienza, tanto da scoraggiare la pur possibile “fuga” da esso. L’allusione, ovviamente, è al modello tedesco della Zugewinngemeinschaft, di quel regime, cioè, di “partecipazione agli acquisti”, anche in Svizzere assunto quale “legale”, dopo essere stato messo a disposizione, in Francia, come regime comunitario opzionale alternativo. Per gli interessi ed i valori coinvolti, problematica assai delicata – caratterizzata da una sua marcata specificità, ma eventualmente destinata ad interferire in maniera rilevante sui complessivi assetti economici familiari – resta quella della disciplina del lavoro nella famiglia. In materia, la disciplina attuale della “impresa familiare” è stata fonte di questioni applicative tanto delicate da esporla, significativamente, alla necessità di frequenti interventi della giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite. È, quello emergente dall’art. 230-bis cod. civ., un quadro normativo poco definito, anche dal punto di vista della configurazione dell’attività di impresa in forma societaria e dei relativi riflessi, che il recente intervento legislativo, con l’introduzione dell’art. 230-ter con riguardo ai “conviventi”, non ha certo contribuito a chiarire, restando indubbiamente aperte anche qui, allora, prospettive di risistemazione della materia.
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5. Crisi familiare e autonomia degli interessati in campo patrimoniale.
Ma, ovviamente, è nel momento della crisi che sono destinati a venire al pettine i nodi legati alla realizzazione del valore di parità nei rapporti patrimoniali familiari. In effetti, costituisce fin troppo facile rilievo quello secondo cui ogni carente operatività, sotto tale profilo, del regime patrimoniale nella fase fisiologica della convivenza finisca, inevitabilmente, col proiettare il soddisfacimento delle eventualmente insoddisfatte relative esigenze perequative sul piano delle valutazioni concernenti gli assetti economici delle parti in occasione, appunto, della crisi della comunione di vita. La riflessione qui pare dover investire due problematiche, peraltro strettamente connesse tra loro. Da una parte, la perimetrazione della portata da riconoscere all’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali nella prospettiva, appunto, della crisi familiare. Dall’altra, la definizione dell’equilibrio che, negli assetti economici conseguenti alla crisi familiare, sia comunque da garantire. Quanto al primo profilo, il tema tocca, inevitabilmente, i meccanismi ed i parametri di controllo dell’autonomia in questione. Tema, invero, da affrontare con urgenza, in considerazione della rinnovata attenzione, anche a livello di iniziative di intervento legislativo, per la materia dei c.d. “accordi prematrimoniali” (PP.DD.LL. nn. 2669 della XVII legislatura e 244 della XVIII legislatura). E pare il caso di sottolineare come proprio con la definizione della portata da riconoscere all’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali, nella fisiologia e nella patologia dell’esperienza familiare, si presenti inevitabilmente destinata a confrontarsi pure la riflessione in ordine agli indirizzi da imprimere, alla luce dell’attuale realtà dei rapporti familiari, alla disciplina del fenomeno successorio, con particolare riguardo alla sfera di autonomia da riconoscere agli interessati nella relativa dinamica. Nota è la radicale posizione della nostra giurisprudenza in ordine agli accordi economici conclusi – anche in sede di separazione personale – in vista del divorzio. In proposito, c’è da chiedersi, però, se la soluzione estrema – persistentemente emergente dalla giurisprudenza della Cassazione (nn. 1810 del 2000 e, ancora, 2224 del 2017) – della nullità per illiceità della causa, “per violazione del principio di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale espresso dall’art. 160”, sia rispettosa di un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco o se ci si potrebbe incamminare, già allo stato e in via esegetica, in una diversa e meno drastica direzione. In effetti, si tratta, a ben vedere, di trovare il punto di equilibrio tra le istanze di autonomia e la portata da riconoscere a quei “diritti inderogabili”, a quelle “aspettative legittime” ed a quella necessaria rilevanza delle “condizioni personali ed economiche” delle parti conseguenti alla condivisa “conduzione della vita familiare”, su cui le Sezioni Unite hanno incentrato i loro recenti interventi. In tale prospettiva, allora, assumendo come punto fermo – per conservare un qualche senso alla peculiarità esperienza familiare – quello della necessaria garanzia, comunque, della pari dignità delle parti, la relativa salvaguardia pare poter essere perseguita, innanzi-
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tutto, attraverso una verifica, per così dire, “finale”, degli accordi, alla luce dell’evoluzione degli assetti familiari nella concreta dinamica della comunità di vita. Verifica, questa, ineludibile soprattutto nell’ipotesi di significativo distacco temporale tra il momento dell’accordo e la definizione degli assetti economici post-coniugali. Singolare sarebbe, in caso contrario, il contrasto con la propensione che da tempo viene ovunque manifestata nella direzione della rilevanza da conferire, in materia contrattuale, all’evoluzione delle circostanze, anche attraverso la valorizzazione dello strumento di una – eventualmente imposta – rinegoziazione. In vista della “definitività” degli assetti economici convenuti, si pone, poi, sempre nell’ottica della salvaguardia della imprescindibile peculiare rilevanza solidaristica delle scelte di vita in materia familiare, la questione di quel tipo di controllo degli accordi che potrebbe essere definito in termini di “equità”. E, al riguardo, pare difficile contestarne l’esigenza e la legittimità, anche solo alla luce delle esperienze degli altri ordinamenti, il nodo da sciogliere restando essenzialmente quello concernente il carattere preventivo o successivo di un simile controllo, in particolare in presenza – come da noi nel 2014 – dell’introduzione di procedure di definizione stragiudiziale della crisi familiare.
6. Assetti economici conseguenti alla crisi familiare e
salvaguardia della parità delle parti.
Risulta palese come, anche nella prospettiva di un simile controllo dell’autonomia degli interessati nella regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali in vista della (definitiva) crisi familiare, finisca con l’assumere preliminare rilievo l’individuazione di quale debba essere l’equilibrio che, negli assetti economici conseguenti alla crisi, sia comunque da garantire. Il nocciolo della questione sembra qui concentrarsi in una inevitabile opzione: quella tra il considerare l’esperienza familiare, e specificamente matrimoniale, alla stregua di una tendenzialmente irrilevante parentesi nella vita di due “persone singole”, secondo la prospettiva in tema di assegno di divorzio fatta propria, nel 2017, dalla prima sezione della Cassazione (n. 11504 del 2017); ovvero, almeno ove una simile esperienza sia realmente consistita – per usare le parole delle Sezioni Unite nella loro ormai lontana pronuncia del 1990 (n. 11490 del 1990) – in “una vera comunione di vita e di interessi”, l’assumerla come base di partenza, per consentire a ciascuna delle parti un successivo autonomo percorso esistenziale. Il riferimento al “tenore di vita”, quale espressione concreta della condivisa integrazione delle sfere personali e patrimoniali in cui si risolve il dovere di contribuzione, ha rappresentato, per quasi trent’anni, nella giurisprudenza, la via attraverso cui mettere in condizione l’ex coniuge di partecipare a quanto realizzato in campo economico durante la convivenza familiare. Ma si è trattato di una via traversa, fin troppo facilmente imputabile di occultare una sistematicamente inconcepibile “ultrattività” del vincolo.
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Proprio la rottura con una simile prospettiva da parte della prima sezione ha fatto emergere i rischi della concezione in chiave esclusivamente assistenziale delle contribuzioni in sede di divorzio, fondata su quell’approccio “bifasico” al riconoscimento dell’assegno, infine radicalmente contestato dalla dianzi ripetutamente ricordata decisione delle Sezioni Unite del luglio di quest’anno. Punto di partenza del nuovo indirizzo è stata la consapevolezza “del forte condizionamento che il modello di relazione matrimoniale prescelto dai coniugi può determinare sulla loro condizione economico-patrimoniale successiva allo scioglimento”. E il risultato “di una interpretazione dell’art. 5, co. 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.”, è stato dichiaratamente rappresentato – secondo una impostazione rispecchiata, del resto, nelle PP.DD.LL. nn. 4605 della XVII legislatura e 506 della XVIII legislatura – dall’abbandono della “rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio”, con la valorizzazione – attraverso “una valutazione integrata” e con “rilievo direttamente proporzionale alla durata del matrimonio” – “degli indicatori delle caratteristiche della unione matrimoniale così come descritti nella prima parte” della disposizione in questione. L’attenzione, di conseguenza, si è concentrata sulla “funzione perequativa e riequilibratrice dell’assegno di divorzio”, in tal senso declinando “il principio di solidarietà posto a base del diritto” ad esso. Pare qui il caso solo di sottolineare come peso decisivo sia stato conferito, così, alla considerazione secondo cui “la conduzione familiare è il frutto di decisioni libere e condivise alle quali si collegano doveri ed obblighi che imprimono alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso, soprattutto in relazione alla durata del vincolo, anche irreversibile”. La “preminenza della funzione perequativa” diventa, allora, seguendo un simile itinerario, attento alla “pluralità di modelli familiari” ed alla connessa “molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo”, l’unica via per assicurare la concreta realizzazione del valore costituzionale della “pari dignità” delle parti. Insomma, il riferimento all’art. 29 Cost., lungi dall’assumere il senso di una sistematicamente inconcepibile evocazione di “ultrattività” di un vincolo, per definizione, ormai definitivamente sciolto, vale semplicemente ad evidenziare come, nel momento del venir meno della comunità di vita, la situazione di ciascuno degli ex coniugi non possa che essere valutata – nel contesto di un “giudizio anche prognostico” – conferendo peso adeguato, in un’ottica dinamico-relazionale, ai riflessi che su di essa abbiano avuto i concordati assetti familiari. Non sembra questa la sede, dato il carattere meramente introduttivo dei presenti rilievi, di andare, poi, al di là di un semplice richiamo, proprio alla luce di simili conclusioni in tema di contribuzioni post-matrimoniali (e di relativa funzione), alla conseguente opportunità, non solo di una eventuale rimeditazione – per assicurare armonia sistematica complessiva alla disciplina della materia – di alcune soluzioni legislative attualmente vigenti (della cui coerenza, del resto, non si è mancato di dubitare fin dall’inizio), ma pure di un adeguamento dello strumentario a disposizione per governare – in una prospettiva che intenda essere sensibile alle attuali dinamiche esistenziali – i profili economici della crisi familiare, con la valorizzazione, in particolare, delle sistemazioni patrimoniali definitive, superando l’attuale necessità dell’accordo in tal senso degli interessati.
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Preme, comunque, sottolineare come si tratti di conclusioni che, secondo quanto dovrebbe essere risultato chiaro dalle considerazioni fin qui svolte, finiscono con l’assumere una portata di carattere del tutto generale circa gli obiettivi costantemente da perseguire in materia di rapporti patrimoniali familiari, nel trascorrere dalla fase fisiologica a quella patologica della comunione di vita, con la necessità che sembra derivarne di evitare dissonanti sviluppi anche nella discussione circa la portata da riconoscere all’autonomia degli interessati in materia.
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Identità dei figli tra cognome, status filiationis e diritto di conoscere le proprie origini biologiche* Sommario : 1. Premessa. – 2. L’attribuzione del cognome. – 2.1. Il cognome dei figli delle coppie eterosessuali: patronimico, matronimico o entrambi? – 2.2. Il “cognome comune” delle coppie omosessuali unite: ridimensionamento ad opera del d.lgs. n. 5/2017 e silenzio del legislatore sui figli. – 2.2.1. La tutela giudiziale dei figli delle coppie omoaffettive: i diversi modi per affermare il rapporto di filiazione nei confronti del genitore “intenzionale”. – 2.2.2. Segue: a) l’adozione del figlio del partner ai sensi dell’art. 44, c. 1, lett. d), l. n. 184/1983. – 2.2.3. Segue: b) la trascrizione dell’atto di nascita estero che dichiara il bambino figlio di due madri o di due padri. – 2.2.4. Segue: c) la formazione in Italia di un atto di nascita che riconosce la filiazione intenzionale. – 3. Attribuire a tutti i figli i cognomi di entrambi i genitori dichiarati (biologici o intenzionali) rispecchia la loro appartenenza alla comunità familiare e ne tutela l’identità. - 4. Il diritto di conoscere le proprie origini biologiche: secondo la giurisprudenza spetta all’adottato a tutela della sua identità personale. – 4.1. Chi nasce da P.M.A. eterologa (o da maternità surrogata) ha un interesse giuridicamente tutelato a conoscere l’identità di chi ha contribuito alla sua nascita?
The essay aims to enlighten emerging issues concerning the identity protection of children in Italy. It moves from two findings rising in recent case law. The first is that the surname is fundamental for the identity of children and it improves their feeling of belonging to the family community. The second is that the adoptive child’s identity has been strengthened by the possibility to request the disclosure of the identity of the biological mother, who chose to remain anonymous at the time of birth. Italian Law no. 76/2016 has not considered
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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similar issues for children born in homosexual families: neither about the surname nor about the disclosure of their biological origins. On the first issue the essay suggests that all children should have a double surname: one surname for each of the natural, adoptive or intentional parents. To guarantee the identity of children the first step is to register in Italy the foreign birth certificate with two mothers or two fathers (no matter if a surrogate mother carried the pregnancy). On the second issue, the essay argues that it is correct to deny access to the identity of gamete donors, while the identity of the surrogate mother might be more relevant. But, in fact, it is the law of the nation where the contract was signed that may – or may not – allow access to this information.
1. Premessa. Elena Ferrante in “Storia del Nuovo Cognome” racconta di Lila che, appena sposata, nell’assumere il cognome del marito ha l’impressione di aver perso se stessa. Il cognome che ci è attribuito alla nascita per ciascuno di noi diventa un dato estremamente importante, ci attribuisce un’identità, ci dà la percezione di appartenere a una famiglia e consente ai terzi di identificarci. In passato la giurisprudenza ha affrontato la questione del cognome da assegnare ai figli aventi doppia cittadinanza che rischiavano di vedere compromesso il proprio diritto all’identità personale ed alla libera circolazione nella UE venendo registrati secondo regole diverse nei vari Stati di appartenenza: in Italia con il solo patronimico mentre in altri paesi – in particolare in Spagna o Portogallo o in uno dei paesi del Sudamerica che adotta tale regola – con il doppio cognome, materno e paterno1. Questa è stata una vicenda che, dopo una serie di pronunce, ha registrato l’intervento dell’autorità pubblica con istruzioni impartite agli ufficiali di stato civile per consentire il mantenimento del doppio cognome
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In un primo tempo CGUE, 2 ottobre 2003, n. 148 Garcia Avello c. Belgio, in Giur. it., 2004, p. 2009 ss. ha negato il diritto al doppio cognome, materno e paterno, ma poi CGUE 14 ottobre 2008, n. 353, Grunkin e Paul c. Germania, in Riv. dir. internaz., 2009, 1, 233 ss. ha censurato le disposizioni restrittive tedesche che negavano ad un loro cittadino, residente in un altro Stato membro, di riconoscere al figlio il doppio cognome attribuito secondo le leggi dello Stato di residenza. Il cognome rileva ai fini della libera circolazione nell’Unione europea: S. Marino, Il diritto all’identità personale e la libera circolazione delle persone nell’Unione europea, in Riv. dir. internaz., 2016, 797 ss.. Prima della circ. n. 397/2008 del Ministero degli interni, in tema di applicabilità dell’art. 98, d.P.R. 396/2000, i figli di coppie miste con doppia cittadinanza, in particolare italiana e spagnola o portoghese, a cui in base alla legge del luogo di nascita fosse stato attribuito il doppio cognome, subivano il mutamento di tale cognome quando l’atto di nascita veniva trascritto in Italia, dove l’ufficiale di stato civile italiano lo correggeva nel solo patronimico. La giurisprudenza è intervenuta a tutela dell’identità di questi soggetti: cfr. Trib. Roma, decr. 15 ottobre 2004, in Corr. giur., 2005, 677 ss. con nota di E. Calò, Il cognome dei soggetti bipolidi nell’ordinamento comunitario; Trib. Bologna, decr. 9 giugno 2004, in Fam. dir., 2004, 441 ss.; da ultimo Cass. civ., sez. I, sentenza 17 luglio 2013, n. 17462, ha stabilito che il cognome trasmesso ai figli da un cittadino con doppia nazionalità, inclusa quella italiana ottenuta dopo il soggiorno per molti anni in Italia, non può essere corretto dagli ufficiali di stato civile senza il consenso dell’interessato. Di conseguenza, se il padre ha scelto di attribuire ai propri figli il doppio cognome, quello materno e quello paterno, in base alle norme vigenti in uno dei due paesi di cui è cittadino, le autorità amministrative italiane devono garantire la continuità di tale cognome.
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ai bipolidi che lo abbiano acquisito alla nascita e per i quali sia divenuto fattore d’identità personale2. Il presente contributo si sofferma sulla più recente giurisprudenza in tema di attribuzione ai figli anche del cognome materno con l’obiettivo di riflettere in modo più ampio sul cognome di tutti i figli, anche di quelli nati dal progetto genitoriale di una coppia omosessuale. La legge sulle unioni civili non ha considerato che la coppia omosessuale, nonostante i divieti domestici all’inseminazione eterologa3 ed alla gestazione per altri, può decidere di accedere a tali strumenti di procreazione all’estero, nei paesi ove sono consentiti. La trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero non sempre è accolta e questi figli rischiano di perdere l’identità originaria, di vederla trasformata (da figli di una coppia a figli del solo genitore biologico) o, se nati da una gestazione per altri, di vedersi negare la trascrizione per violazione dell’ordine pubblico. Sulla nozione di “ordine pubblico internazionale” sono state chiamate a pronunciarsi le Sezioni unite della Cassazione, con un’ordinanza di rimessione criticata in dottrina4. In attesa di questa decisione abbiamo analizzato l’evoluzione della giurisprudenza in materia di trascrizione dei certificati di nascita esteri, ove è ricorrente il riferimento all’interesse superiore del minore e alla tutela della sua identità personale, che emergono quali obiettivi prioritari da perseguire. Nella filiazione adottiva e nella procreazione assistita eterologa (come pure nella gestazione per altri) genitorialità e discendenza biologica sono disallineate: è la volontà non un fatto naturale, non il DNA, che rende genitori5. Questa analogia ci ha indotto a richiamare la giurisprudenza attraverso cui si è affermato il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini biologiche, in particolare l’identità della madre e dei fratelli o delle sorelle
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Tre circolari del Ministero degli Interni sono intervenute in materia di cognomi di coloro che sono bipolidi o per nascita o per successiva attribuzione anche della cittadinanza italiana: Circ. 15 maggio 2008, n. 397; Circ. 18 febbraio 2010, n. 4 e Circ. 21 maggio 2012, n. 14. In sintesi in esse si afferma che i soggetti nati all’estero ed in possesso alla nascita di doppia cittadinanza, italiana e di un paese straniero, possono rivolgersi direttamente all’ufficiale dello stato civile per la modifica del cognome, senza necessita di avvalersi della procedura di cambio del cognome. Nel caso in cui sia richiesta l’aggiunta del cognome materno, come ripristino del cognome di origine, modificato in sede di concessione della cittadinanza italiana, si deve invece agire con il procedimento di cambiamento del cognome. Al riguardo, specifica l’ultima circolare citata, non possono esservi, in linea di massima, preclusioni di sorta anche alla luce degli orientamenti costituzionali in materia e ai principi rinvenibili nella decisione della Corte di Giustizia UE C.353-2008 Grunkin e Paul c. Germania (cit. nota precedente) che ha affermato il principio generale dell’intangibilità del cognome originario in quanto identificativo della persona, stabilendo anche che gli ordinamenti interni dei Paesi membri devono consentire agli interessati di poter mantenere il cognome di origine, in presenza o meno della doppia cittadinanza, a sostegno del valore dell’identità acquisita. Il 4 luglio 2018 il Tribunale di Pordenone ha accolto la richiesta di sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme che attualmente vietano in Italia l’accesso alla procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali. Cfr. M. Dogliotti, Davanti alle sezioni unite della cassazione i “due padri” e l’ordine pubblico. Un’ordinanza di rimessione assai discutibile; e V. Barba, Note minime sull’ordine pubblico internazionale, entrambi in <www.Articolo29.it>, 2018, Focus su “La trascrizione dei certificati di nascita fra sindaci, giudici e Sezioni unite: dieci brevi contributi per un dibattito attuale”. Come osserva G. Ferrando, La procreazione assistita: la rilettura costituzionale della legge n. 40, in Familia, nn. 3-4 2016, 263, in particolare 268, «Ad esito della sentenza della Corte, alla filiazione geneticamente fondata si affianca, con pari dignità, quella che ha il suo fondamento in valori psico-sociali di responsabilità, di affetto, di accoglienza. Non è più soltanto l’adozione a rendere genitori in assenza di un legame genetico: lo è anche la scelta (che rientra nell’ambito insindacabile di libertà ed autonomia della coppia) di avere un figlio grazie alla donazione di gameti».
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naturali, per riflettere sull’esistenza di un analogo interesse in capo a chi nasce per mezzo di procreazione medicalmente assistita (PMA) eterologa o di gestazione per altri (GPA). Sono questioni complesse che incidono sull’identità dei figli. D’altro canto la stessa “identità personale” è una nozione poliedrica, su cui esistono molteplici punti di vista6, che riveste un pregnante significato etico7 e riassume l’essenza che rende ogni persona unica ed ineguagliabile8. Ed infatti, rispondere alla domanda “chi sono?” implica raccontare una storia, di cui certamente il nome e le origini biologiche sono l’incipit e un capitolo fondamentale è costituito dalla relazione con coloro che svolgono il ruolo di genitori, compresi quelli adottivi, intenzionali9 e sociali10, che ne assumono la piena responsabilità genitoriale, pur in assenza di un legame genetico con il nato, attraverso la c.d. stepchild adoption ovvero con la registrazione in Italia del certificato di nascita del figlio avuto con metodi di procreazione medicalmente assistita eterologa o con maternità surrogata.
2. L’attribuzione del cognome. L’acquisto del cognome di solito avviene a titolo originario, come conseguenza del rapporto di filiazione11. Fino a qualche anno fa in Italia sia ai figli nati da genitori coniugati sia a quelli procreati fuori del matrimonio, ma riconosciuti alla nascita anche dal padre, si attribuiva solo il patronimico. È una regola che affonda le sue radici nel diritto romano, che poneva al
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S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 298 afferma che «Profondissimo è divenuto il pozzo dell’identità, e su questo troppi giuristi evitano di sporgersi» e per razionalizzare la molteplicità dei punti di vista su un’identità che è «a un tempo inseguita e rifiutata», l’Autore suggerisce quattro paradigmi: il paradigma Lepellettier o dell’identificazione; il paradigma Montaigne o della costruzione incessante; il paradigma Zelig o della moltiplicazione; il paradigma Auchan o della riduzione e conclude che «la persona non può essere semplificata arbitrariamente … deve essere seguita nel suo itinerario multiforme». L’identità si costruisce nella dialettica in cui convergono le questioni dell’identificazione, del mutamento, della moltiplicazione e del rifiuto del riduzionismo (S. Rodotà, op. cit., 310). 7 P. Zatti, Dimensione ed aspetti dell’identità nel diritto privato attuale, in N.G.C.C., suppl. n. 4, 2007, 1-9. 8 G. Pino, L’identità personale, in S. Rodotà e P. Zatti (a cura di), Trattato di biodiritto, vol. I, Ambito e fonti del biodiritto, Milano 2010, 297. 9 La volontà è presupposto non solo dell’adozione, ma anche della procreazione attraverso tecniche d’inseminazione artificiale e della maternità surrogata, laddove quest’ultima sia una pratica legalmente consentita. 10 L’importanza del “genitore sociale” e la tutela legale del suo rapporto con il minore si è progressivamente delineata ad opera di una serie di pronunce di merito. In particolare C. App. Palermo, sez. civ. I, 30 agosto 2015, in Fam e dir., 1/2016, 40 e ss., con nota di A. Ardizzone, La convivenza omosessuale ed il ruolo del genitore sociale in caso di PMA, 47 ss.; questa decisione ha sollevato la questione di costituzionalità decisa da Corte cost. 20 ottobre 2016, n. 225, in Corr. giur. 2/2017, 175 e ss., con nota di G. De Marzo, Sul diritto del minore a conservare rapporti significativi con l’ex compagna della genitrice biologica, 178 ss. Quest’ultima pronuncia ha affermato la rilevanza della figura del genitore sociale e ha indicato gli strumenti di tutela del suo rapporto con i minori figli del partner. Tale decisione ha ricondotto l’ingiustificata interruzione (ad opera di uno o di entrambi i genitori), in contrasto con l’interesse del minore, del rapporto significativo instaurato e intrattenuto dallo stesso minore con soggetti che non sono parenti (tra cui rientra l’ex partner del genitore biologico) all’ipotesi di condotta del genitore “comunque pregiudizievole al figlio”, in relazione alla quale l’art. 333 c.c. consente al giudice di adottare “i provvedimenti convenienti” nel caso concreto, su ricorso del pubblico ministero (a tanto legittimato dall’art. 336 cod. civ.), che può essere sollecitato ad agire dall’adulto (non parente) emarginato dal rapporto in questione. 11 Solo nel caso di nascita fuori del matrimonio ed in cui nessuno dei due genitori si dichiara né riconosce il figlio, l’ufficiale di stato civile impone al bambino un cognome di fantasia.
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centro il pater familias12, e che, pur non essendo consacrata in alcuna norma, è rimasta immutata, nonostante la Costituzione del 1948 abbia riconosciuto all’art. 29 l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. D’altro canto l’art. 29 Cost. fu approvato dopo lunghe ed aspre discussioni. Molti illustri giuristi (ad esempio Calamandrei) sostenevano che l’unità della famiglia non poteva esistere senza disuguaglianza tra i coniugi e che la famiglia era un’istituzione caratterizzata da un ordine naturalmente gerarchico, che richiedeva la presenza di un capo13. Il radicamento sociale di tale convinzione ha rallentato l’adeguamento del diritto di famiglia ai precetti costituzionali, che si è realizzato lentamente, prima attraverso plurimi interventi della Corte costituzionale, poi con la novella al codice civile del 1975. Fino a tale riforma nella famiglia la disuguaglianza tra uomo e donna, ovvero tra i loro rispettivi ruoli come coniugi (marito e moglie) e come genitori (padre e madre) è rimasta molto marcata. Nel 1975 il legislatore delineò un nuovo modello di famiglia, che considerava l’uguaglianza tra marito e moglie elemento funzionale all’unità della famiglia, formazione sociale in cui si esplica la personalità di ogni suo componente14. Da allora in poi si considerò che lo svolgimento della vita matrimoniale doveva essere imperniato sull’accordo e la famiglia non fu più vista come una formazione sociale statica, ma caratterizzata da storicità e mutevolezza15, elementi che hanno determinato la pluralità contemporanea dei modelli16. 2.1. Il cognome dei figli delle coppie eterosessuali: patronimico, matronimico o entrambi?
In questo nuovo contesto l’estensione ai figli del solo patronimico ha finito per essere percepita come una regola priva di giustificazione e, sul piano giuridico, in contrasto con l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi poiché discrimina la donna e non è essenziale per l’unità della famiglia. Inoltre l’acquisto del solo cognome del padre evidenzia il legame del figlio unicamente con uno dei rami degli ascendenti e quindi non rispetta appieno la sua identità personale. Lo stretto legame esistente tra cognome e identità dei figli in giurisprudenza è emerso prima con riferimento a quelli nati fuori del matrimonio. La Corte costituzionale ha infatti
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Il diritto di famiglia romano era fondato sulla agnatio, cioè su un sistema di rapporti personali, familiari e successori che individuava nel pater familias l’unico soggetto di diritti e il signore assoluto dei beni familiari, dei membri della famiglia, su cui esercitava lo ius vitae ac necis e lo ius vendendi: egli era quindi l’incontrastato sovrano di quel piccolo organismo statale che sostanzialmente era la famiglia agnatizia romana. 13 Cfr. sul punto M. Gigante, Il dibattito costituzionale, in Id. (a cura di), I diritti delle donne nella Costituzione, Napoli, 2007, 20-21. 14 S. Rodotà, Considerazioni generali-I poteri del giudice, in Aa. Vv., La riforma del diritto di famiglia, Atti del II Convegno di Venezia, svolto presso la fondazione “Giorgio Cini” nei giorni 11-12 marzo 1972, 185, osserva che solo la responsabilizzazione dei coniugi e l’abbandono di relazioni gerarchiche favoriscono un’unità reale e rinnovata. 15 P. Rescigno, Le formazioni sociali intermedie, in Riv. dir. civ., 1998, p. I, 301 e ss. 16 Per illustrare l’evoluzione del concetto di famiglia: dal punto di vista sociologico si rinvia a C. Saraceno, L’equivoco della famiglia, Roma-Bari, 2017; Id., Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Milano 2016; sui profili giuridici M.R. Marella e G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, Roma-Bari, 2014.
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stabilito che se il riconoscimento di un genitore è tardivo (o se sopraggiunge l’accertamento giudiziale della paternità) il figlio, a tutela della propria identità, può scegliere se assumere il patronimico, aggiungendolo o sostituendolo al cognome della madre che per prima lo aveva riconosciuto o al cognome attribuitogli dall’ufficiale di stato civile, nel caso in cui alla nascita nessuno dei genitori si fosse dichiarato17. Questo principio si è consolidato ed anche di recente è stato ribadito dalla Cassazione18. In circostanze diverse, ma sempre a tutela dell’identità del soggetto su cui ricade il provvedimento giudiziario, la Cassazione ha poi affermato che al figlio che è stato disconosciuto dal padre spetta la facoltà di chiedere al giudice di mantenere il cognome che in origine gli era stato attribuito e che per lui è divenuto autonomo segno distintivo19. L’attribuzione del solo patronimico non è una regola scritta20, ma tuttavia è radicata nel costume sociale21. La sua fonte non è la consuetudine ma si tratta di una norma implicita o immanente nel sistema22, ovvero che trae origine dall’interpretazione sistematica di una serie di disposizioni che la presuppongono, tra cui alcuni articoli del codice civile23 e del Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile24. Già nel 2006 la Consulta aveva riconosciuto che questa regola era contraria alla parità tra coniugi e tra genitori, tuttavia non aveva dichiarato l’incostituzionalità di nessuna disposizione ma aveva sollecitato l’intervento del legislatore25. La protratta inerzia di quest’ultimo e la pronuncia della Corte EDU nel caso Cusan Fazzo c. Italia del 201426 hanno indotto la
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Il riferimento è a due note sentenze della Consulta risalenti la prima al 1996 e la seconda al 2001: la prima Corte cost., sent. 23 luglio 1996, n. 297 in Giur. cost., 1996, IV, 2479 ss. con nota di G. Ferrando, Diritto all’identità personale e cognome del figlio naturale; e in Fam. e dir., 1996, 413, con nota di V. Carbone, La conservazione del vecchio cognome come diritto all’identità personale; e la seconda Corte cost., sent. 11 maggio 2001, n. 120, in Foro it., 2002, 647 ss. 18 Cass. civ., sez. VI, ord. 20 giugno-11 luglio 2017, n. 17139, vedi testo della pronuncia al link inserito in www.dirittifondamentali.it/ giurisprudenza/cassazione-civile. In questa pronuncia la Suprema Corte ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva aderito alla richiesta di un minore di non modificare il proprio cognome, rifiutando l’aggiunta del cognome del padre che lo aveva riconosciuto tardivamente. 19 Cass. civ., sez. I, 15 febbraio 2017, n. 4020, in Corr. giur., 4/2017, 450. 20 Le ragioni della mancanza nel codice civile del 1942 di una norma che imponga l’attribuzione esclusiva del patronimico, secondo F. Santoro Passarelli, Diritti e doveri reciproci dei coniugi, in Carraro, Oppo e Trabucchi (a cura di), Commentario alla riforma del diritto di famiglia, Padova, 1977, I, 1, p. 234, è da attribuire al fatto che l’assunzione del cognome paterno è apparsa una regola “così inerente” al principio di unità della famiglia da farne apparire non necessaria la previsione espressa. 21 Come è affermato nella pronuncia della Corte cost., ord. 11 maggio 1988, n. 586 stesa da L. Mengoni: «il limite derivante all’eguaglianza dei coniugi non contrasta con l’art. 29 Cost., in quanto utilizza una regola radicata nel costume sociale come criterio di tutela dell’unità della famiglia fondata sul matrimonio». 22 Tale qualificazione è stata affermata dalla Consulta. Essa è rilevante poiché mentre la consuetudine praeter o contra legem può essere disapplicata dal giudice di merito, ma ciò comporta il rischio del diffondersi di soluzioni disomogenee, invece la norma implicita richiede un intervento che elimini le disposizioni da cui si desume la regola e questo è appunto ciò che ha fatto la Corte costituzionale con la sentenza 8 novembre – 21 dicembre 2016 n. 286. Sul punto si veda F. Astone, Il cognome materno: un passo avanti, non un punto d’arrivo, tra certezze acquisite e modelli da selezionare, in Giur. Cost., 1/2017, 485(prf. 3). 23 In particolare gli artt. 237, sui fatti costitutivi del possesso di stato; 262, in tema di cognome del figlio nato fuori del matrimonio e 299, in materia di cognome dell’adottato. 24 Più precisamente degli artt. 33 c. 1 e 34, c. 2, d.P.R. n. 396/2000. 25 Corte cost., sentenza 16 febbraio 2006 n. 61, in Foro it., 2006, I, c. 1673. 26 CEDU, 7 gennaio 2014, Cusan Fazzo c. Italia (ricorso n. 77/07), pubblicata in N.G.C.C., 2014, I, 515 ss. con commento di S. Winkler, Sull’attribuzione del cognome paterno nella recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in N.G.C.C., 6/2014, I, 520 ss., è una decisione che si colloca nel solco di una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo che censura gli
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Corte costituzionale ad intervenire di nuovo nel 2016, questa volta dichiarando l’incostituzionalità di una serie di norme «nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome della madre»27. Le modifiche così apportate all’ordinamento giuridico italiano hanno privato di fondamento l’automatismo del patronimico, legittimando l’autonomia privata ad aggiungere il cognome materno a quello paterno28, ma non a sostituire il primo al secondo. Pertanto, l’istanza oggetto della vicenda Cusan-Fazzo, ovvero l’attribuzione ai figli del solo cognome materno, in futuro potrebbe essere di nuovo sottoposta al vaglio dei giudici. Secondo alcuni interpreti, nell’ipotesi di una richiesta di questo genere, la corte adita potrebbe acconsentire alla sostituzione del cognome paterno con quello materno in relazione alla motivazione prospettata dagli attori. Questa interpretazione si basa sull’affermazione della Consulta, contenuta nella pronuncia del 2016, che il giudice, nell’ambito della sua discrezionalità, può tener conto delle peculiarità della fattispecie sottoposta al suo giudizio e trovare soluzioni ragionevoli, conformi alla Costituzione ed alla CEDU, valide solo inter partes29. Tale affermazione appare in linea con l’orientamento della Corte EDU, che non ha dichiarato illegittima l’attribuzione del solo patronimico, ma ne ha solo “ammorbidito” l’automatismo, sanzionando il fatto che i coniugi non possano esprimere una volontà diversa. Occorre però sottolineare che la scelta del cognome del figlio si riflette ed incide sui suoi diritti fondamentali e, in particolare, sulla sua identità personale. Di conseguenza è una scelta che, se il minore è capace di discernimento, non può essere rimessa esclusivamente all’arbitrio dei genitori, ma andrà sempre esperita la sua audizione, in analogia con quanto prescrive l’art. 262 c. 4, c.c. in tema di cognome del figlio nato fuori del matrimonio30. Tale cautela deve essere osservata anche nel caso in cui l’istanza di modifica del co-
ordinamenti nazionali che individuano automaticamente e rigidamente il cognome familiare in quello del marito ovvero del padre. Tale orientamento si è formato attraverso quattro rilevanti pronunce: la prima del 22 febbraio 1994, nella vicenda Burghartz c. Svizzera; la seconda del 16 settembre 2005, nella controversia Ünal Tekeli c. Turchia; la terza del 9 novembre 2010, nel caso Losonci Rose e Rose c. Svizzera; la quarta del 7 gennaio 2014, proprio nell’azione Cusan Fazzo c. Italia. In quest’ultima vicenda una coppia coniugata italiana voleva attribuire ai figli esclusivamente il cognome della madre per evitarne l’estinzione. 27 Corte cost. 21 dicembre 2016 n. 286, in Corr. giur., 2/2017, 165, con nota di V. Carbone, Per la Corte Costituzionale i figli possono avere anche il cognome materno, se i genitori sono d’accordo, p. 167 e ss.; in Fam. e dir., 3/2017, p. 213 ss., con nota di E. Al Mureden, L’attribuzione del cognome tra parità dei genitori e identità del figlio, 218 ss.; in N.G.C.C., 6/2017, 818 ss. e nota di C. Favilli, Il cognome tra parità dei genitori e identità dei figli, 823 ss.; in osservatorioaic.it, 2/2017, 31 maggio 2017, con nota di C. Ingenito, L’epilogo dell’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio (nota a Corte costituzionale n. 286/2016). Prende spunto dalla pronuncia della Corte cost. n. 286/2016 il saggio di G. Viggiani, La questione del cognome materno e l’intervento «indifferibile» del legislatore, in Pol. Dir., 3/2017, 467 ss. 28 Testimone della portata storica di Corte cost. n. 286/2016 è la circolare del Ministero dell’interno n. 1/2017 del 19 gennaio 2017 che ha precisato che dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza «viene definitivamente rimossa dall’ordinamento la preclusione, anche implicita nel sistema di norme delibate dalla Corte costituzionale, della possibilità di attribuire, al momento della nascita, di comune accordo, anche il cognome materno». 29 V. De Sanctis, Il cognome della moglie e della madre nella famiglia: condanne dei giudici e necessità di riforma. L’unità della famiglia e la parità tra i coniugi alla prova, in Federalismi.it, 1/2017, 25; C. Fioravanti, Sul cognome della prole: nel perdurante silenzio del legislatore parlano le corti, in N.L.C.C., n. 3/2017, 626. 30 Art. 262, c. 4, c.c. «Nel caso di minore di età, il giudice decide circa l’assunzione del cognome del genitore, previo ascolto del figlio minore, che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore».
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gnome dei figli sia presentata congiuntamente dai genitori uniti tra di loro in matrimonio31, e ciò per evitare che siano prese in considerazione solamente le motivazioni della madre, o degli ascendenti del ramo materno, e non quelle del figlio, che subirà le conseguenze del mutamento di cognome. Escludere l’audizione del figlio evocherebbe una concezione arcaica e gerarchica del rapporto genitori-figli32. Occorre infine tener conto che i segni esteriori hanno un forte valore simbolico e possono contribuire a costruire relazioni di gruppo più serene, stabili e profonde. Da questo punto di vista l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori può essere un utile strumento per rafforzare l’identità della persona, perché ne racconta la storia e la raccorda a quella degli altri componenti della comunità familiare, intesa anche in senso “allargato”. Infatti, nel caso in cui i genitori divorzino e diano vita a nuove famiglie c.d. “ricomposte” l’indicazione congiunta del patronimico e del matronimico, consentendo il collegamento con entrambi i rami familiari, permette al figlio di avere un segno comune con tutti i fratelli e le sorelle unilaterali, non solo generati dal padre (come succede nel caso di attribuzione del solo patronimico), ma anche dalla madre con un altro genitore, in modo che possa essergli indifferente, sotto il profilo della condivisione di un cognome, essere collocato nella nuova famiglia dell’uno o dell’altro genitore. Infatti, sul piano psicologico condividere un cognome dovrebbe favorire il senso d’inclusione di tutti i figli nella costellazione familiare. 2.2. Il “cognome comune” delle coppie omosessuali unite: ridimensionamento ad opera del d.lgs. n. 5/2017 e silenzio del legislatore sui figli.
In materia di cognome la legge sulle unioni civili non ha adottato un criterio additivo ma selettivo, ovvero ha introdotto la possibilità che la coppia possa scegliere come “cognome comune” uno dei cognomi dei partner. Tale opzione inizialmente è stata accolta dalla dottrina come “il più innovativo effetto personale dell’unione civile”, una “disciplina anticipatrice” rispetto a quella del matrimonio, che non consente ai coniugi una scelta analoga33. La previsione di poter scegliere un “cognome comune” per la famiglia (art. 1, co. 10, l. n. 76/2016) presuppone l’uguaglianza delle parti e si basa sull’accordo, principi posti a fondamento della costituzione dell’unione civile come formazione sociale. In sede di prima applicazione è parso che l’esercizio di tale scelta implicasse due successive dichiarazioni: prima quella di entrambi gli uniti che scelgono il “cognome comune”, successivamente quella della parte che porta il cognome diverso da quello scelto come comune, ma solo nel caso in cui voglia mantenere anche il suo cognome d’origine, anteposto o posposto a quello comune. Postulato di tale interpretazione era che, in mancanza della seconda dichiarazione, la parte perdesse il proprio cognome e quindi diven-
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F. Giardina, Il cognome del figlio e i volti dell’identità. Un’opinione «controluce», in N.G.C.C., 2/2014, II, 139 ss., vedi 142. Una visione emblematicamente rappresentata dalla similitudine con il rapporto “sovrano sudditi”, usata da A. Cicu, La filiazione, in Trattato Vassalli, III, 2, Torino, 1969, 349. 33 M.N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, in Fam. e dir., 10/2016, 916 ss. 32
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tasse identificabile solo con il “cognome comune”. Di conseguenza si era anche ritenuto che le scelte espresse comportassero variazioni anagrafiche. Tale interpretazione faceva però sorgere un altro problema poiché la legge n. 76/2016 ha previsto che il “cognome comune” si conservi solo “per la durata dell’unione”. Da tale previsione si desume che in caso di scioglimento dell’unione o di morte del partner in origine unico titolare del cognome scelto come comune, quest’ultimo cessi di esistere. Ed allora ci si è chiesti come garantire l’identità personale di chi avesse abbandonato il proprio cognome d’origine per assumere esclusivamente quello del partner, scelto come “cognome comune”. Probabilmente per evitare queste incertezze il legislatore delegato, con il d.lgs. n. 5 del 2017, ha stabilito che le schede anagrafiche degli uniti che hanno scelto di avere un “cognome comune” non mutano. In altre parole: la scelta di avere un “cognome comune” non incide sul cognome di ciascuna parte dell’unione e non comporta alcuna annotazione né sulla sua scheda anagrafica, né sull’atto di nascita degli uniti. In questo modo la portata innovativa di quanto disposto dal comma 10, l. n. 76/2016 è stata molto ridimensionata. Secondo alcuni interpreti la questione potrebbe riaprirsi per il fatto che il d. lgs. n. 5/2017 è a rischio d’illegittimità costituzionale per eccesso di delega34. Nel frattempo il d. lgs. n. 5/2017 ha sollevato alcune controversie in sede giudiziaria. Infatti, le coppie che, prima della sua emanazione, avevano optato per avere un “cognome comune” e le cui schede anagrafiche erano state variate, hanno cercato di difendersi dal “furto” di quella che era diventata la loro nuova identità, talvolta trasmessa ai figli nati dall’unione, chiedendo ai giudici la disapplicazione dell’art. 3, d.lgs. n. 5/201735. Il Tribunale di Ravenna, a seguito dell’impugnazione da parte di una coppia dell’applicazione dell’art. 3, d.lgs. n. 5/2017, ha sollevato la questione di costituzionalità di tale norma. La Consulta ha respinto la questione di legittimità costituzionale della disposizione là dove prevede che la scelta del “cognome comune” non modifichi la scheda anagrafica individuale. Secondo la Corte costituzionale, la dichiarata transitorietà del precedente d.P.C.M. n. 144/2016 e il breve orizzonte temporale in cui ha avuto efficacia escludono che tale fonte secondaria abbia consentito l’emersione ed il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della perso-
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In tal senso si è espresso M. Gattuso, Furto d’identità: che fine ha fatto il cognome dell’unione civile?, in www.articolo29.it, 14 febbraio 2017. Secondo l’Autore il d.lgs. n. 5 del 19 gennaio 2017 contiene due norme che appaiono sospette di illegittimità costituzionale per eccesso di delega. Con la prima il legislatore delegato ha sostanzialmente abrogato il comma 10 della legge e con la seconda ha previsto la cancellazione dei cognomi scelti dalle parti nei primi sette mesi di vigore della legge, con una procedura amministrativa e senza alcun contraddittorio. 35 Così ad esempio Trib. Lecco, sez. I civ., sentenza 2 aprile 2017 ha statuito che, deve essere disapplicato, in via d’urgenza, l’art. 8, d.lgs. n. 5/2017, nella parte in cui impone all’Ufficiale di stato civile di annullare dalle schede anagrafiche l’annotazione relativa alla scelta del cognome comune dell’unione civile, fatta in forza del precedente d.P.C.M. n. 144/2016, trattandosi di disposizione lesiva della dignità della persona e dell’interesse superiore del minore. Nel caso di specie, infatti, il cognome di famiglia scelto da due donne unite civilmente era stato trasmesso alla bambina partorita da una di loro dopo l’unione. La decisione del tribunale ha garantito l’identità personale delle due ricorrenti e della figlia nata dal progetto genitoriale comune. Vedi sul citato provvedimento il commento adesivo di M. Gattuso, Il brutto pasticcio sul cognome dell’unione civile, in www.articolo29.it/2017 che suggerisce un intervento correttivo del Governo (legittimato dal comma 31 della legge Cirinnà), volto ad emendare l’art. 3, c. 1, lett. c), n. 2 e l’art. 8 del d.lgs. n. 5/2017.
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na36.Da ciò consegue la legittimità dell’annullamento delle modifiche anagrafiche intervenute prima dell’adozione del d. lgs. n. 5/2017. Ai sensi di quest’ultimo atto normativo la scelta di un “cognome comune” può unicamente produrre l’effetto di consentirne l’uso ad entrambi i partner dell’unione, esattamente come succede alla donna coniugata37 che, dopo il matrimonio, conserva il proprio cognome, senza aggiunte né variazioni sui suoi documenti, ma può legittimamente usare anche il cognome del marito durante il matrimonio ed anche durante la separazione legale38 o lo stato vedovile. L’uso del “cognome comune” durante lo stato vedovile non è stata invece prevista per i partner dell’unione civile e, fin dai primi commenti alla legge n. 76/2016, la
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Comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale del 9 ottobre 2018. La dottrina ha sottolineato che la previsione dell’aggiunta da parte della donna coniugata del cognome del marito al suo ai sensi dell’art. 143 bis c.c. è censurabile ai sensi della consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo poiché è una regola rigida che non consente, pur in presenza della concorde volontà dei partner, di scegliere il cognome della donna come cognome familiare comune: J. Long, Il diritto italiano della famiglia e minorile alla prova della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Europa e dir. priv., 4/2016, 1059 ss., in particolare nota 71 e testo corrispondente. 38 In caso di separazione la moglie conserva il cognome del marito in quanto il vincolo coniugale non perde i suoi effetti. Tuttavia, in alcune circostanze, in particolare quando ciò risulti pregiudizievole per il marito, il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito, per converso può anche autorizzare la moglie a non utilizzarlo qualora dall’uso possa derivare a lei stessa un grave pregiudizio. In caso di divorzio, sciogliendosi definitivamente il vincolo coniugale, la legge prevede espressamente che la moglie perda il cognome del marito. Tuttavia, anche in questa ipotesi possono esservi delle eccezioni: nel procedimento di divorzio la moglie può chiedere al Tribunale di conservare il cognome del marito in aggiunta al proprio, se sussiste un interesse suo o dei figli meritevole di tutela. Nel caso di cessazione degli effetti civili di un matrimonio contratto all’estero tra un cittadino italiano e una cittadina straniera, il diritto della ex moglie di utilizzare esclusivamente il cognome del marito – acquisito, con il consenso di quest’ultimo, al momento dell’assunzione del vincolo – va delibato sulla base dei criteri di collegamento indicati dalla Convenzione di Monaco del 5 settembre 1980, resa esecutiva in Italia con la l. n. 950 del 1984, per la quale i cognomi e i nomi di una persona vengono determinati dalla legge dello Stato di cui è cittadino il titolare (in tal senso Cass. civile, sez. I, 13 novembre 2015, n. 23291). Al di là di queste circostanze eccezionali se, dopo lo scioglimento del matrimonio, la ex moglie continua ad utilizzare il cognome del marito, questi può chiedere al giudice di inibirle l’uso e, nel caso si ravvisino danni, chiederne il risarcimento. La Cassazione recentemente (Cass. civ., ord. 4 maggio – 26 ottobre 2015, n. 21706) ha puntualizzato che la conservazione del cognome dell’ex marito dopo il divorzio è consentita solo in circostanze eccezionali, affidate alla valutazione discrezionale del giudice di merito e che non si può considerare “meritevole di tutela” la volontà di conservare un cognome famoso per godere dei connessi benefici e privilegi sociali. Ciò anche perché il mantenimento può creare pregiudizio all’ex marito che vi si opponga poiché intende ricreare o abbia ricreato, esercitando un suo diritto fondamentale ai sensi dell’art. 8 della C.E.D.U., un nuovo nucleo familiare che desidera sia riconoscibile come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente. Anni fa una complessa vicenda giudiziaria era stata sollevata per l’uso abusivo da parte di una ex moglie del cognome famoso dell’ex marito, riportato dalle cronache giornalistiche. La controversia era iniziata con innumerevoli diffide inviate alle testate giornalistiche da parte dell’ex marito e, dopo la sua morte, era stata proseguita dalla seconda moglie, divenuta vedova, con ricorso al Garante della privacy, rivendicando la tutela della sua riservatezza ed identità personale, il diritto esclusivo ad essere identificata come signora (o vedova) Olcese e chiedendo che le testate giornalistiche rettificassero le notizie erronee divulgate. Il Garante aveva aderito alla richiesta, ma il suo provvedimento era stato impugnato dalla direzione del giornale davanti al Tribunale di Milano (decisione 14 ottobre 1999) che lo aveva annullato (vedi il provvedimento in Foro it., 2000, I, c. 649 ss., con nota di A. Palmieri e R. Pardolesi, Protezione dei dati personali e diritto di cronaca: verso un «nuovo ordine»). La vedova era allora ricorsa in Cassazione e la vicenda si era conclusa con una pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 30 giugno 2001, n. 8889, in Corr. giur., n. 10/2001, 1299 ss., con commento di I. Nasti, 1304 ss.) nella quale si affermava che la legge n. 675/1996 è funzionale alla difesa della persona e dei suoi diritti fondamentali, che possono essere lesi anche dal trattamento giornalistico dei dati personali, indipendentemente dalla loro archiviazione in banche dati e che in contrario non può essere invocato il principio della libertà di stampa di cui all’art. 21 Cost., poiché non si può confondere la nozione di “notizia” con quella di “dato personale”. In sostanza: i dati personali diffusi nelle notizie devono essere veri e tale non è l’attribuzione del cognome Olcese a colei che era stata unita in matrimonio con il sign. Olcese, ma il cui matrimonio era stato annullato dalla Sacra Rota. In seguito il sign. Olcese si era risposato con un’altra donna, cui ora spettava l’uso esclusivo del cognome coniugale e la cui identità personale veniva lesa dalla divulgazione da parte dei giornalisti di vicende della ex moglie ancora chiamata con il cognome dell’ex marito, che più non le spettava. 37
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dottrina ha criticato tale lacuna e ha sottolineato la necessità di tutelare il superstite, che voglia continuare ad usare il cognome del defunto, scelto della coppia come “cognome comune” e divenuto, nell’ambiente frequentato dalla coppia, segno identificativo39. La legge sulle unioni civili non ha toccato la questione dei figli. Tuttavia le coppie omosessuali allevano figli, adottati o procreati, attraverso pratiche di procreazione medicalmente assistita eterologa (P.M.A.) o di gestazione per altri (G.P.A.) vietate in Italia e perciò eseguite in paesi stranieri, talvolta della U.E., in cui sono consentite40. È un fatto di cui il legislatore recentemente ha dimostrato di avere piena consapevolezza prevedendo nella legge 11 gennaio 2018 n. 4, che ha introdotto «Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici», anche l’ipotesi che l’omicidio sia commesso in danno del genitore dall’“altra parte dell’unione civile, anche se l’unione civile è cessata”. Quale cognome attribuire a questi figli? Il doppio cognome, il “cognome comune” o solo il cognome di quello tra i partner geneticamente legato al nato? Certamente l’identità delle nuove comunità familiari e la loro coesione sarebbe maggiormente tutelata da un segno identificativo comune, che garantisca l’identità dei singoli e della famiglia e che rispetti la genitorialità biologica, ma anche quella intenzionale. 2.2.1. La tutela giudiziale dei figli delle coppie omoaffettive: i diversi modi per affermare il rapporto di filiazione nei confronti del genitore “intenzionale”.
Le fattispecie sottoposte ai giudici sono state diverse ma tutte le soluzioni adottate sono state fondate sulla realizzazione del best interest of the child41. Il superiore interesse del minore, non menzionato dalla nostra Carta costituzionale, ma la cui “preminenza” è sancita dall’art. 24, par. 2, della Carta dei Diritti fondamentali della
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M.N. Bugetti, Il cognome comune delle persone unite civilmente, cit., in particolare pp. 914-915 ove l’Autrice, prima dell’emanazione del d.lgs. 5/2017, proponeva d’interpretare le disposizioni sul cognome di famiglia alla luce dell’art. 1, c. 20, l. 76/2016, ovvero estendendo agli “uniti” le regole previste per i “coniugi”, quindi anche la possibilità di vedersi riconosciuto un interesse meritevole di tutela a proseguire l’uso del “cognome comune” dopo lo scioglimento dell’unione o dopo la morte del partner. 40 Come giustamente ha rilevato A. Belelli, La filiazione nella coppia omosessuale, in Giur. it., luglio 2016, 1819, in particolare 1822, attualmente in Italia non è previsto un diritto della coppia omosessuale alla genitorialità, ma il minore ha diritto allo stato giuridico di figlio corrispondente alla situazione di fatto creatasi all’interno di un nucleo familiare omogenitoriale fondato sugli affetti, sull’assistenza materiale e sulla cura. L’Autrice osserva come «anche in questa materia, (si assista) ad una rilevanza del fatto che condiziona il diritto» per l’esigenza di dare risposte concrete a situazioni concrete. È quella che un illustre giurista ha chiamato la “fattualità del diritto”: vedi P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, in Giust. civ., 1/2014, 10 ss. 41 Numerosi sono stati gli studi recenti dedicati all’analisi del superiore interesse del minore, per meglio definirne la nozione. Citandone solo alcuni, si veda: E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio del best interest of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016; L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 1/2016, 86 ss. che mette in luce l’indeterminatezza dell’interesse del minore, clausola generale, nozione quadro, e i suoi molteplici contenuti, che possono oscillare tra il meglio nell’immediato o nel futuro, o dal punto di vista affettivo o della sicurezza materiale o patrimoniale; F.D. Busnelli, Il diritto di famiglia di fronte al problema della difficile integrazione delle fonti, in Riv. dir. civ., 6/2016, 1447, vedi 1463 cita J. Carbonnier che lo definisce una “formula magica” che provenendo dalla tradizione (anglo)americana ha conquistato l’Europa continentale ed ha assunto il ruolo di principio perentorio; F. Giardina, Interesse del minore: gli aspetti identitari, in N.G.C.C., 1/2016, 159 ss.; V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2/2018, 405 ss. analizza una pluralità di fattispecie e di usi giurisprudenziali della clausola del best interest of the child, con funzione normativa costitutiva pp.422-429, ma giustamente mette in guardia contro il pericolo che esso diventi un principio «tiranno» (p. 430).
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U.E.42, è il fil rouge che, con varianti di declinazione43, si ritrova in tutti i provvedimenti giudiziari emessi per garantire la continuità e stabilità del rapporto della coppia omosessuale nei confronti dei minori generati con l’ausilio di tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa o di gestazione per altri. E, infatti, il riconoscimento di uno status coerente con le relazioni affettive consolidate del minore realizza il suo best interest44 e tutela la sua identità. Questi obiettivi sono perseguiti sia dalle pronunce di adozione in casi particolari da parte del convivente (o del partner unito) del genitore, sia da quelle che ordinano la trascrizione degli atti di nascita formati all’estero, nei quali è indicata la filiazione delle due madri o dei due padri: sono provvedimenti che, a tutela dell’interesse dei minori, introducono nel vigente ordinamento giuridico italiano una discendenza basata su vincoli non solo genetici ma anche unicamente intenzionali ed affettivi45. 2.2.2. Segue: a) l’adozione del figlio del partner ai sensi dell’art. 44, c. 1, lett. d), l. n. 184/1983.
Seguendo quest’ordine di considerazioni la Corte di Cassazione nel 201646 si è espressa a favore dell’adozione del figlio del partner omosessuale utilizzando l’art. 44, c. 1, lett. d), l. n. 184/198347. La pronuncia è stata emessa con riferimento al caso di una donna che vo-
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Art. 24, par. 2, Carta Dir. fond. UE: «In tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente». 43 Di forme “continuamente cangianti” del preminente interesse del minore parla A. Ruggeri, Unità della famiglia, eguaglianza tra i coniugi, tutela del preminente interesse dei minori, in Riv. dir. comparati, 1/2017, 85 ss., che osserva (100) come la messa a fuoco sia demandata al giudice che «può farvi luogo unicamente in concreto, in vivo, al di là di ogni qualificazione dell’interesse stesso fatta in vitro, che risulterebbe fatalmente viziata da ingenuo e sterile astrattismo» e ciò inevitabilmente espone casi analoghi a valutazioni differenti. 44 S. Stefanelli, Status, discendenza ed affettività nella filiazione omogenitoriale, in Fam. e dir. 1/2017, 83 ss. 45 Nella filiazione il favor veritatis non costituisce un valore costituzionale assoluto poiché, ai sensi dell’art. 30 Cost., c. 4, è demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella naturale. Una conferma si rinviene nella recente pronuncia del Trib. di Roma, sez. I civ., 10 maggio 2016 sul caso dello scambio accidentale di embrioni avvenuto all’ospedale Pertini di Roma nel corso di una fecondazione assistita omologa, che ha reso genitori di una coppia di gemelli una coppia di genitori diversa da quella a loro geneticamente legata. La decisione del Tribunale di attribuire la maternità alla donna partoriente e la paternità a suo marito, è stata fondata sul prevalente interesse dei figli a mantenere lo status ed i legami familiari de facto. Un’analoga conferma della relatività del favor veritatis, è offerta – su una diversa questione – da C. cost. 18 dicembre 2017, n. 272, su cui si veda in GenIUS, 2/2017 il Focus: Verità della nascita e GPA, a cura di B. Pezzini, con contributi, tra gli altri, di G. Ferrando, Gravidanza per altri, impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità e interesse del minore, 12 ss.; e di A. Ruggeri, La maternità surrogata, ovverosia quando fatti e norme urtano col dettato costituzionale e richiedono mirati e congrui interventi riparatori da parte di giudici e legislatore, 60 ss.; affronta il tema del prevalere dell’interesse del minore sulla verità della filiazione il commento alla medesima pronuncia di G. Matucci, La dissoluzione del paradigma della verità della filiazione innanzi all’interesse concreto del minore, in Forum di Quaderni costituzionali, 2/2018, 1-14. Inoltre, l’abolizione del divieto di fecondazione eterologa ad opera di Corte Cost. n. 162/2014 ha introdotto la filiazione per scelta o per volontà o intenzionale, che prescinde dalla verità biologica. In caso d’inseminazione eterologa l’art. 9, l. n. 40/2004 nega al padre che abbia acconsentito la contestazione della paternità ed alla madre l’anonimato. Nessuna norma vieta invece al figlio di agire per contestare il suo status e la dottrina ha ipotizzato che la facoltà di far valere la propria discendenza naturale gli sia riconosciuta come diritto della personalità. Ammettere ciò porta ad interrogarsi su ulteriori profili, ad esempio nel caso in cui il genitore intenzionale diventi incapace di provvedere al figlio quest’ultimo potrà chiedere sostentamento al genitore biologico? Cfr. E. Andreola, Il principio di verità nella filiazione, in Fam. e dir., 1/2015, 88, vedi in particolare 96, nota 30 e testo corrispondente. 46 Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, in N.G.C.C., 9/2016, I, 1135, con nota di G. Ferrando, Il problema dell’adozione del figlio del partner. Commento a prima lettura della sentenza della Corte di Cassazione n. 12962 del 2016, 1213 ss. 47 Sulle più recenti questioni in tema di adozione si segnala G. Ferrando, Diritto del minore a una famiglia, adozioni e affidamento,
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leva adottare la figlia della propria compagna, generata in seguito a fecondazione assistita con seme di un donatore anonimo, nell’ambito di un progetto genitoriale condiviso. È una decisione conforme all’orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo48. Nonostante ciò, alcuni giudici di merito, seguendo un approccio metodologico diverso, hanno di nuovo negato la possibilità di far ricorso all’adozione in fattispecie analoghe 49. Queste ultime decisioni hanno determinato molta incertezza. Autorevole dottrina le ha criticate mettendo in luce come nelle loro motivazioni il grande assente sia il bambino, i suoi diritti all’identità ed allo status e la ricerca di strumenti capaci di attuarli in concreto, sfruttando i margini di elasticità delle norme per realizzare il preminente interesse del minore di essere riconosciuto figlio delle persone che insieme ne hanno assunto la responsabilità e che in concreto quotidianamente si prendono cura di lui50. 2.2.3. Segue: b) la trascrizione dell’atto di nascita estero che dichiara il bambino figlio di due madri o di due padri
Sempre nel 2016 la Cassazione si è pronunciata per la prima volta a favore della trascrivibilità in Italia dell’atto di nascita straniero di un bambino con genitori dello stesso sesso51. La controversia che ha dato luogo alla pronuncia è originata dal fatto che, ai sensi dell’art. 18 d.P.R. n. 396/2000, «gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico» e quindi, nel silenzio della legge n. 76/2016 sui figli, è sorta la questione dell’applicabilità del limite dell’ordine pubblico stanti i divieti contenuti nella legge n. 40/2004 all’inseminazione eterologa delle coppie omosessuali ed alla maternità surrogata, tecniche di procreazione a cui le coppie dello stesso sesso devono necessariamente far ricorso. Anche in questo caso la vicenda riguarda il figlio di una coppia di donne, l’una di nazionalità spagnola e l’altra di nazionalità italiana, coniugate in Spagna, che insieme avevano deciso di ricorrere alla procreazione assistita secondo una modalità particolare: la partner italiana aveva fornito l’ovulo, fecondato da gameti di un donatore
negli Atti del seminario in onore di P. Rescigno su “La comunità familiare tra autonomia privata e riforme. Principi, questioni, orientamenti”, in corso di stampa nella collana “Persone, famiglie e cittadinanze” ed. Maggioli, in particolare si vedano i paragrafi nn. 4 e 5. 48 Corte E.D.U. Grande Camera, 19 febbraio 2013, ricorso n. 19010/07 che ha condannato l’Austria in riferimento al caso X e altri c. Austria. In questa decisione la Corte ha stabilito che la disparità di trattamento operata tra le ricorrenti, da un lato, e una coppia eterosessuale non sposata, dall’altro, nella quale uno dei partner aveva chiesto di adottare il figlio dell’altro, era fondata sull’orientamento sessuale delle ricorrenti, quindi era discriminatorio poiché il Governo austriaco non aveva fornito motivi convincenti idonei a dimostrare che la disparità di trattamento in questione fosse necessaria a tutelare la famiglia o a proteggere gli interessi del minore. La Corte ha anche osservato che la Convenzione non obbliga gli Stati a estendere l’adozione co-parentale alle coppie non sposate, ma in Austria ciò è avvenuto e da ciò nasce l’esigenza di estendere tale possibilità alle coppie omosessuali. 49 Il diverso approccio metodologico adottato è sottolineato da E. Bilotti, L’adozione del figlio del convivente. A Milano prosegue il confronto tra i giudici di merito, in commento a Trib. per i minorenni di Milano 17 ottobre 2016, Trib. per i minorenni di Milano 20 ottobre 2016, Corte d’Appello di Milano 9 febbraio 2017, in Fam e dir., 11/2017, p. 983 e ss., vedi in particolare pp. 1022-1025. 50 G. Ferrando, A Milano l’adozione del figlio del partner non si può fare, in N.G.C.C., 2/2017, 171, in particolare 176 -177. 51 Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, in Corr. giur., 2/2017, 181 con nota di G. Ferrando, Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status filiationis, 190 ss.; in N.G.C.C., 3/2017, 362, nota di G. Palmeri, Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore della coppia same sex.
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anonimo, e poi impiantato nell’utero della partner spagnola che aveva portato a termine la gravidanza e partorito il bambino. Quindi, nel caso di specie, ogni madre aveva dato un proprio contributo, non solo volitivo, ma anche fisico indispensabile per realizzare il progetto genitoriale comune. Il bambino nasce in Spagna e l’atto di nascita ivi redatto riconosce il rapporto di filiazione rispetto ad entrambe le donne, identificate come madre A e madre B, attribuisce al nato lo status di figlio di entrambe, la cittadinanza spagnola ed il doppio cognome. Dopo alcuni anni la coppia entra in crisi e divorzia. Le madri ottengono l’affido condiviso del minore e chiedono all’Ufficiale di stato civile di Torino la trascrizione dell’atto di nascita del bambino per fargli acquisire anche in Italia lo status di figlio di entrambe, la cittadinanza italiana, i diritti di parentela e successori rispetto alla famiglia della co-mamma italiana e la rappresentanza legale anche da parte di quest’ultima, che era madre biologica del bambino, ma non lo aveva partorito. L’Ufficiale di stato civile di Torino rifiuta la trascrizione, affermando la contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di nascita spagnolo e rilevando che in Italia il legame biologico non è sufficiente ad affermare la maternità poiché ai sensi dell’art. 269, c. 3, c.c. madre è colei che partorisce. Il Tribunale conferma tale interpretazione. Le co-mamme impugnano il provvedimento davanti alla Corte d’Appello, che invece accoglie la richiesta di trascrizione, sottolineando che il mancato riconoscimento dello status di figlio priverebbe di copertura giuridica una situazione consolidata, violando il diritto all’identità del minore e negandogli tutela nell’ordinamento giuridico italiano52. La Corte afferma inoltre che nel caso di specie l’ordine pubblico deve essere declinato con riferimento all’interesse del minore53. Ed è proprio sull’interpretazione della clausola dell’ordine pubblico quale limite alla trascrivibilità in Italia di un certificato di nascita straniero, che indica due madri come genitori, che si sofferma la successiva pronuncia della Cassazione n. 19599/2016. Essa, in particolare afferma che, in conformità agli artt. 10, 11 e 117 Cost., la nozione di ordine pubblico non è più legata solo ai principi etici interni, ma è “internazionale”, ovvero aperta verso altri ordinamenti giuridici. L’“ordine pubblico internazionale” coincide con il complesso dei principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento interno in un determinato momento storico e che sono «ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti». Perciò, non ogni norma imperativa o inderogabile dell’ordinamento interno integra un limite di ordine pubblico, ma sono tali solo quelle vincolanti per il legislatore ordinario, in quanto affermano principi desumibili dalla Costituzione, dai Trattati fondativi della U.E., dalla Carta dei diritti fondamentali e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’interprete che voglia accertare l’esistenza di un contrasto con l’ordine pubblico deve
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Mette correttamente in evidenza tali profili M.C. Venuti, La condizione giuridica dei bambini nati da gestazione per una coppia di uomini, in <www.articolo29.it>, Focus su “La trascrizione dei certificati di nascita fra sindaci, giudici e Sezioni unite: dieci brevi contributi per un dibattito attuale”. 53 App. Torino, sez. famiglia, decreto 29 ottobre 2014, in Fam. e dir., 8-9/2015, 822, con nota di commento di M. Farina, Il riconoscimento di status tra limite dell’ordine pubblico e best interest del minore, 825 ss.
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compiere un test «preventivo e virtuale», chiedendosi se al legislatore sarebbe precluso, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari, introdurre nell’ordinamento interno una regola diversa. Solo se la risposta è affermativa sussiste contrasto con l’ordine pubblico54. In altre parole, il parametro per individuare il contrasto con l’ordine pubblico non comprende tutte le disposizioni con le quali il legislatore ordinario esercita la propria discrezionalità. La disposizione che attualmente vieta alle coppie dello stesso sesso l’accesso alla fecondazione eterologa (art. 12, c. 2, l. 40/2004) esprime appunto una scelta discrezionale del legislatore, che in futuro potrebbe essere modificata55. In questa cornice la Cassazione ha indicato quale principio di ordine pubblico rilevante nella fattispecie considerata il diritto del minore all’identità personale ed alla continuità transfrontaliera del proprio status di figlio56 e del doppio cognome, riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro Paese dell’Unione Europea. Si tratta di un’affermazione conforme alla giurisprudenza della Corte EDU, che ha ripetutamente affermato che la continuità dei rapporti con i propri familiari è un aspetto essenziale dell’identità della persona 57. I principi affermati dalla Cassazione nella pronuncia n. 19599/2016 costituiscono presupposto per la circolazione degli status filiationis58 e, come tali, sono stati richiamati in una serie di provvedimenti di merito successivi. Tra questi si segnalano il decreto della Corte di Appello di Milano depositato il 28 dicembre 201659 e l’ordinanza della Corte di Appello di Trento del 23 febbraio 201760, volti a consentire il primo la trascrizione ed il
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Analogamente, in materia di gestazione per altri ha deciso la Corte federale di giustizia tedesca 19 dicembre 2015, caso XII ZB 463/13, in www.personaedanno.it 2015, trad. it. De Felice. 55 Recentemente è stata sollevata questione di costituzionalità proprio sulla legittimità di questo divieto, che crea una discriminazione tra chi può e chi non può affrontare i costi della P.M.A. eseguita all’estero. Si veda Trib. Pordenone, ord. 2 luglio 2018, su cui il commento a prima lettura di A. Schillaci, Coppie di donne e p.m.a.: la legge n. 40/2004 torna alla Consulta, in www.articolo29.it/2018. 56 Riguardo al diritto alla continuità transfrontaliera dello status di figlio Cass. 30 settembre 2016, n. 19599 afferma che «è un diritto scolpito negli artt. 13, c. 3 e 33, c. 1 della L. 218/1995 e nell’art. 8, par. 1 della Convenzione di New York». E ciò è confermato da Cass. civ., sez. I, ord. 13 aprile 2018-31 maggio 2018, n. 14007 che ha accolto – dichiarandola non contraria all’ordine pubblico, valutato in relazione al superiore interesse dei minori al mantenimento della stabilità della vita familiare venutasi a creare con ambedue le figure genitoriali – la richiesta di riconoscimento in Italia delle sentenze di adozione reciproca piena di diritto francese (adoption pleniere) dei rispettivi figli avuti con l’inseminazione artificiale, pronunciate dal giudice di Lille in favore di una coppia omosessuale di donne, l’una cittadina francese e l’altra cittadina anche italiana, sposate in Francia, ma residenti in Italia in provincia di Avellino. 57 In linea con questo orientamento Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2017, n. 14878, in Fam e dir. 1/2018, p. 5 e ss. ha stabilito che deve essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita del minore nato all’estero e figlio di due madri coniugate all’estero, già trascritto in Italia nei registri dello stato civile con riferimento alla sola madre biologica, con ciò ribadendo l’orientamento sulla carenza di contrasto con l’ordine pubblico internazionale della trascrizione dell’atto di nascita estero che riconosce la genitorialità intenzionale, attribuendo al bambino il doppio cognome, anche in assenza di un apporto genetico della co-mamma al nato. Vedi il commento di G. Palmeri, (Ir)rilevanza del legame genetico ai fini della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same sex, in N.G.C.C., 12/2017, I, 1708 ss. 58 R. Calvigioni, Nascita all’estero da genitori dello stesso sesso: dalla giurisprudenza recente al ruolo dell’ufficiale di stato civile nella trascrizione dell’atto, in Fam. e dir., 11/2017, 1051, 1060 osserva che, in mancanza di una precisa normativa e di un favorevole orientamento ministeriale, sull’ufficiale di stato civile incombe una responsabilità particolarmente rilevante nel valutare se la filiazione formata all’estero, in un atto di stato civile o in un provvedimento giurisdizionale, possa essere riconosciuta efficace anche per il nostro ordinamento, garantendo la tutela dei diritti del minore, secondo i principi affermati dalla recente giurisprudenza. 59 C. App. Milano, decreto 28 dicembre 2016, in Foro it., 2017, I, c. 722 ss. 60 C. App. Trento, ord. 23 febbraio 2017 in Foro it., 2017, I, c. 1034 ss.; in Fam. e dir., 7/2017, 669 ss., con nota critica di M.C. Baruffi,
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secondo la rettificazione nei registri dello stato civile italiano degli atti di nascita di figli procreati all’estero con la gestazione per altri su commissione di coppie di uomini omosessuali. Il provvedimento della Corte di Appello di Milano ha ordinato la trascrizione degli atti di nascita di due gemelli nati negli Stati Uniti d’America (perciò, in base al diritto nordamericano che applica lo ius soli, anche di nazionalità statunitense) e qui registrati come figli di una coppia di cittadini italiani ivi residenti. Nel caso di specie gli ovuli erano stati donati da una donatrice anonima; ciascun ovulo era stato fecondato con il seme di uno dei partner della coppia e poi entrambi erano stati impiantati nell’utero di un’altra donna, con cui la coppia committente aveva stipulato un “agreement for gestational carriers”. La madre surrogata aveva partorito i due gemelli, ciascuno legato biologicamente ad uno dei co-padri, che insieme avevano assunto la responsabilità genitoriale di entrambi i minori. L’ordinanza della Corte di Appello di Trento ha invece riconosciuto in Italia, ai sensi dell’art. 67 l. 218/1995, un provvedimento emesso dalla Superior Court of Justice dell’Ontario con cui si ordinava di emendare gli atti di nascita di due gemelli, generati con una procedura di gestazione per altri, riconoscendo la co-genitorialità al compagno italiano del padre biologico. Il riconoscimento del provvedimento straniero aveva lo scopo di consentire di correggere gli atti di nascita già trascritti in Italia che recavano solo l’indicazione del padre biologico. Contro la decisione della Corte di Appello di Trento è stato presentato ricorso per Cassazione, ma la prima sezione con l’ordinanza n. 4382, depositata il 22 febbraio 2018, ha chiesto di rimettere il caso alle Sezioni Unite perché si esprimano sulla nozione di “ordine pubblico” applicabile a tali fattispecie61. L’ammissibilità della surrogazione di maternità è una questione molto complessa, delicata, eticamente sensibile, risolta in modo diverso nei vari ordinamenti statali62 ed ancora in evoluzione63. Occorre anche sottolineare che per le coppie omosessuali maschili questo è l’unico modo per avere figli legati biologicamente ad uno dei partner64. In Italia la maternità surrogata è vietata e la violazione di tale divieto è sanzionata penalmente (art.12, c. 6, l. n. 40/2004). Dal punto di vista dell’ordinamento dell’Unione Eu-
Co-genitorialità same sex e minori nati con maternità surrogata, 674 ss.; in Familia, 2/2018, 163 e ss., con nota di S. Sandulli, Duplice paternità e ordine pubblico alla luce del best interest of the child, 171 ss.; in Corr. giur., 7/2017, 935 ss. con nota di G. Ferrando, Riconoscimento dello status di figlio: ordine pubblico e interesse del minore. 61 Cfr. M. Dogliotti, Davanti alle sezioni unite della Cassazione i “due padri” e l’ordine pubblico. Un’ordinanza di rimessione assai discutibile, cit. supra nota 4. 62 La maternità surrogata è vietata in molti paesi tra cui Austria, Germania, Spagna, Francia e Svizzera, mentre è consentita solo se gratuita, ovvero fatta a scopo solidaristico, in Portogallo, Danimarca, Regno Unito, Irlanda, Belgio, Olanda, Grecia, Repubblica Ceca, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele; è invece ammessa in forma commerciale in Georgia, Ucraina, India, Nepal, Messico, Tailandia, Russia ed in alcuni Stati degli Stati Uniti d’America come la California. Gli Stati in cui l’industria commerciale della surrogacy è particolarmente sviluppata sono in particolare California, India ed Ucraina. Si rinvia all’analisi di G. Luccioli, Questioni eticamente sensibili: quali diritti e quali giudici, in consultaonline, 2/2017, 325 ss. 63 Che si tratti di un tema in evoluzione è evocato dal titolo del contributo di E. Lamarque, Navigare a vista. Il giurista italiano e la maternità surrogata, in www.giudicedonna.it 1/2017. 64 Come giustamente osserva M.C. Venuti, Coppie sterili o infertili e coppie «same-sex». La genitorialità come problema giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 259, in particolare 273 ss., il diritto alla genitorialità è problematico.
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ropea è una pratica che, se fatta con scopo commerciale (e non solidaristico65), si pone in contrasto con «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro» sancito dall’art. 3, c. 2, lett. c) della Carta dei diritti fondamentali della U.E. e ciò si ritiene renda illecito in tutti i Paesi della U.E. il contratto lucrativo di affitto di utero. Tuttavia, i divieti e le relative sanzioni riguardano gli adulti, che li violano per realizzare l’aspirazione di essere genitori, ma i bambini non devono subire conseguenze negative per scelte illegali compiute dagli adulti66. In Europa si avverte il bisogno di linee guida che tutelino in modo omogeneo tutti i bambini procreati all’estero per mezzo di pratiche che sul suolo europeo sono vietate, ma, purtroppo, ancora non si è giunti ad una formulazione condivisa67. Attualmente l’assenza di disposizioni sullo status dei figli procreati con la surrogazione di maternità lascia i giudici nazionali arbitri di decidere, con il rischio che in situazioni analoghe siano prese decisioni differenti. Riconoscere il provvedimento straniero che attribuisce la co-genitorialità al padre non biologico da un lato può sembrare che ponga nel nulla il divieto domestico di maternità surrogata e che provochi una discriminazione verso le coppie che per motivi economici o altro non possano avvalersi del turismo procreativo68. D’altro canto però solo con la trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero non si altera l’identità di chi è nato e si realizza il suo diritto fondamentale alla continuità dei rapporti affettivi ed alla conservazione dello status filiationis e del doppio cognome legittimamente acquisiti all’estero69. In dottrina alcuni hanno suggerito di riconoscere il rapporto di filiazione solo nei confronti del genitore biologico, «ricostruendo invece ex novo la posizione del genitore d’intenzione», che come “genitore sociale” potrebbe chiedere l’adozione del figlio del partner70. Quest’ultima tesi si allinea con quella giurisprudenza della Corte EDU che in presenza del legame genetico con uno dei partner della coppia committente ha ammesso la circolazione dello status del figlio nato da maternità surrogata71 e, nell’interesse superiore del minore,
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Non va dimenticato che la GPA può essere altruistica, solidale, gratuita, consapevole e libera, sottoposta a vaglio preventivo di organi giurisdizionali e/o amministrativi. Sul punto si veda V. Scalisi, Maternità surrogata: come «fare cose con regole», in Riv. dir. civ., 2017, 1097 ss. 66 In tal senso G. Ferrando, Gestazione per altri, impugnativa del riconoscimento e interesse del minore, nota a Corte Cost. 18 dicembre 2017, n. 272, in Corr. giur. 4/2018, 446 ss., in particolare 457. 67 L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 10 ottobre 2016 ha bocciato con 83 voti contrari, 77 a favore e 7 astensioni, un rapporto della propria commissione Affari sociali in cui si raccomandava al Comitato dei ministri (l’organismo che rappresenta i governi dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa) di “esaminare l’opportunità e la fattibilità dell’elaborazione di linee guida per salvaguardare i diritti del bambino” in caso di nascita a seguito di convenzioni di surroga di maternità. 68 M.C. Baruffi, Co-genitorialità same sex e minori nati con maternità surrogata, cit., 685. 69 G. Ferrando, Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status filiationis, cit., 198 osserva che è la responsabilità che rende padri o madri, anche in assenza di derivazione genetica o di apporto biologico. 70 C. Campiglio, Valori fondamentali dell’ordinamento interno e scelte di cura transfrontaliere, in Riv. dir. int. priv. proc., 2016, pp. 371, in particolare 393; e M.C. Baruffi, Co-genitorialità same sex e minori nati con maternità surrogata, cit., in particolare 685-686. 71 In due occasioni, la Corte di Strasburgo ha ritenuto contrario all’art. 8 CEDU il rifiuto delle autorità francesi di attribuire valore legale alla relazione tra i padri biologici e i figli nati all’estero con il ricorso alla surrogazione di maternità vietata in Francia: vedi le sentenze gemelle Corte eur. dir. uomo, 26 giugno 2014, Mennesson c. France, ricorso n. 65192/11, e Corte eur. dir. uomo, 26 giugno 2014, Labassee c. France, ricorso n. 65941/11, in N.G.C.C., 2014, I, 1122, con nota di C. Campiglio, Il diritto all’identità personale del figlio nato all’estero da madre surrogata (ovvero, la lenta agonia del limite dell’ordine pubblico). In dottrina E. Lucchini Guastalla, Maternità
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il riconoscimento del rapporto genitoriale anche nei confronti del partner del genitore biologico in quei paesi che, come l’Italia, vietano di realizzare questa tecnica procreativa sul loro suolo. Tuttavia è una soluzione che ci pare criticabile poiché nell’immediato altera l’identità del minore, lo priva della bi-genitorialità che aveva alla nascita e, inoltre, lo espone al rischio che nelle more del procedimento di adozione succeda un evento, come la morte del genitore biologico o del partner, ovvero la dissoluzione dell’unione, che può pregiudicare il riconoscimento e la continuità del rapporto con il genitore intenzionale72. La totale assenza di un legame biologico con la coppia committente, anche se eterosessuale e coniugata, rende invece molto più difficile ed incerto il riconoscimento del rapporto di filiazione poiché, nel valutare quale sia la soluzione più idonea a realizzare il best interest del minore, i giudici pongono in primo piano la durata della relazione tra committenti e minore73 non l’intenzione di assumere la responsabilità genitoriale nei confronti del bambino che è nato. 2.2.4. Segue: c) la formazione in Italia di un atto di nascita che riconosce la filiazione intenzionale.
Una recentissima pronuncia della Corte d’Appello di Napoli, depositata il 4 luglio 201874, ha prospettato una ricostruzione del rapporto di filiazione fondata sul consenso all’uso delle tecniche di P.M.A. Questa decisione, con una motivazione molto ampia ed articolata, rigetta la soluzione dell’adozione in casi particolari da parte del genitore non biologico e mette in luce che quando il concepimento è frutto di un progetto di coppia entrambi i partner sono genitori fin da quando esprimono, anche all’estero, il consenso alla P.M.A. ed indipendentemente da qualunque apporto biologico al concepimento. La Corte sottolinea che ciò è conforme a quanto stabiliscono gli art. 6 e 8 della l. 40/2004 per la coppia eterosessuale che in Italia è la sola che può accedere alla P.M.A. eterologa, che può anche essere doppia o totale, ovvero realizzata con gamete maschile e gamete femminile entrambi estranei alla coppia richiedente. La citata pronuncia giustamente osserva che le tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno disallineato il dato genetico e lo status di figlio, che è passato dalla mera causalità naturale alla possibilità di una causalità umana. Infatti,
surrogata e best interest of the child, in N.G.C.C. 12/2017, II, 1722, 1729. M.C. Venuti, La condizione giuridica dei bambini nati da gestazione per una coppia di uomini, cit., 15-16. 73 Nell’ultimo atto del caso Paradiso e Campanelli v. Italy deciso da Corte EDU, Grand Chamber, 24 Gennaio 2017 l’assenza di rapporto genetico e di una relazione significativa con la coppia committente induce i giudici a dichiarare lo stato di abbondono del minore, che viene affidato ai servizi sociali e quindi dato in affidamento preadottivo ad altra coppia ed a seguito dell’adozione assume una nuova identità. I tempi del giudizio, dalla dichiarazione dello stato di abbandono nel 2011 alla pronuncia della Corte EDU, Grande Camera, del gennaio 2017, fanno sì che il tempo trascorso con i committenti sia molto più breve di quello trascorso con gli affidatari. In un’altra precedente vicenda, in cui ugualmente non c’era alcun legame biologico tra bambino e committenti, la Cassazione aveva sottolineato la contrarietà all’ordine pubblico della pratica di surrogazione di maternità e la conseguente inefficacia in Italia dell’atto di nascita formato in Ucraina: Cass., sez. I, 26 settembre 2014, n. 24001, in N.G.C.C., 2015, I, 235, con commento di C. Benanti, La maternità è della donna che ha partorito: contrarietà all’ordine pubblico della surrogazione di maternità e conseguente adottabilità del minore, 241 ss. 74 M. Gattuso, Corte di appello di Napoli: i bambini arcobaleno sono figli di entrambi i genitori sin dalla nascita, in www.articolo29. it/2018 ove è pubblicato un link al testo integrale di App. Napoli, 4 luglio 2018. 72
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«nella P.M.A. la genitorialità (di converso la filiazione) si fonda sì sulla verità, ma non su quella biologica: la verità qui è data dal consapevole consenso della coppia richiedente, quanto all’assunzione del ruolo genitoriale»75. Questa linea argomentativa legittima sia il riconoscimento degli atti di nascita co-parentali stranieri sia la formazione in Italia di un atto di nascita che indichi come genitori i partner della coppia same sex ed attribuisca al figlio i cognomi di entrambi i genitori76.
3. Attribuire a tutti i figli i cognomi di entrambi i genitori
dichiarati (biologici o intenzionali) rispecchia la loro appartenenza alla comunità familiare e ne tutela l’identità.
La regola del doppio cognome, indipendentemente dalle circostanze della nascita (coppia eterosessuale, coniugata o non, ovvero coppia omosessuale, unita o non), dovrebbe essere introdotta dal legislatore a tutela dell’identità di tutti i figli77. La cronaca recentemente ha riportato la notizia che il tribunale di Torino ha accolto la richiesta di assegnare al figlio, nato in Italia da inseminazione eterologa eseguita all’estero, il cognome di entrambe le co-mamme78. La vicenda riguarda una coppia omo parentale di donne che il 23 aprile 2018 per prima aveva ottenuto, senza bisogno dell’intervento del giudice, la registrazione all’anagrafe di Torino dell’atto di nascita del figlio di due mamme, evitando la falsa dichiarazione che “la nascita deriva da un’unione naturale”, prevista dalle datate formule del Ministero, di solito utilizzate in questi casi79. La scelta del doppio cognome compiuta da queste co-mamme, divenute simbolo dei diritti delle famiglie same sex, conferma l’idea che il doppio cognome sia l’opzione che meglio tutela chi nasce, racconta la sua storia, lo inserisce nella comunità familiare, lo raccorda ad entrambi i rami della sua famiglia e ne tutela per sempre l’identità personale anche nel caso che l’originario nucleo familiare si disgreghi e i genitori formino nuove famiglie c.d. “ricomposte” in cui siano inseriti i figli avuti da unioni precedenti. Analogo provvedimento, seppur più sommariamente motiva-
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App. Napoli 4 luglio 2018, estensore Consigliere Casaburi, reperibile al link indicato alla nota precedente. Di recente ciò è stato ordinato all’ufficiale di stato civile da Trib. Pistoia, decr. 5 luglio 2018, vedi il link in www.articolo29.it/2018/ Il-tribunale-di-pistoia-ordina-di-formare-un-atto-di-nascita-con-due-mamme/. Analogo provvedimento, seppur più sommariamente motivato, è stato emesso dal Trib. Genova, decr. 8 novembre 2018 e la notizia ha avuto un’ampia copertura mediatica su quotidiani nazionali e televisione. 77 Soluzione già auspicata come l’unica rispettosa dei valori e principi dell’ordinamento – quali l’identità personale, l’unità della famiglia e l’eguaglianza dei componenti del nucleo – da M. Trimarchi, Diritto all’identità e cognome di famiglia, in www.juscivile.it, 1/2013, 34 ss. e, più recentemente, nel commento a margine di C. cost. 21 dicembre 2016, n. 286 da E. Al Mureden, L’attribuzione del cognome tra parità dei genitori e identità del figlio, cit., 221 ss. che correttamente sottolinea come la regola del doppio cognome sia il necessario corollario del principio della bigenitorialità. Inoltre la regola del doppio cognome è accolta in numerosi paesi stranieri e l’omologazione dell’Italia eviterebbe problemi d’identità e di circolazione ai minori con doppia cittadinanza. 78 Vedi la Repubblica, 1 luglio 2018, 15. 79 Vedi la Repubblica, 24 aprile 2018, 18-19. 76
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to, è stato emesso dal Trib. Genova, decreto 8 novembre 2018. La notizia di quest’ultimo provvedimento ha avuto un’ampia copertura mediatica. È quindi auspicabile l’intervento del legislatore che introduca la regola del doppio cognome per tutti i figli, quelli delle coppie eterosessuali e quelli delle coppie omosessuali; tale intervento è necessario per stabilire l’ordine dei cognomi e quale sia il cognome che si trasmette ai figli. Al riguardo l’adozione di una regola legislativa appare preferibile rispetto a lasciare la decisione all’autonomia privata, sia per evitare controversie sia per conservare e garantire la funzione identificativa propria del cognome.
4. Il diritto di conoscere le proprie origini biologiche: secondo
la giurisprudenza spetta all’adottato a tutela della sua identità personale. Il cognome attesta l’identità giuridica della persona, che talvolta può non corrispondere alla sua identità genetica. Il distacco tra queste due identità in primo luogo si è verificato con l’adozione, ma oggi può realizzarsi anche a seguito di procreazione con fecondazione eterologa80 o all’estero con l’ausilio di una madre surrogata che non usi il materiale biologico della coppia committente81. In Italia l’adozione del minore è un istituto risalente, mentre la fecondazione eterologa è agli esordi e la maternità surrogata è vietata a chiunque (anche se fatta a scopo di solidarietà nei confronti di una coppia eterosessuale sposata, che non possa procreare a causa di carenza o di difetti funzionali dell’utero e che fornisca il materiale biologico per dar vita al feto). Tuttavia, ciò non impedisce che coppie, in cui uno o entrambi i partner sono di nazionalità italiana, accedano all’estero a tecniche procreative vietate in Italia e questo fatto rende urgente risolvere il quesito, già sorto in relazione ai figli adottivi, ovvero se chi nasce abbia un interesse giuridicamente tutelato a conoscere l’identità di chi ha contribuito a generarlo. Le due fattispecie, adozione e procreazione con PMA eterologa o GPA, sono evidentemente molto diverse, nonostante ciò pare utile ripercorrere l’affermazione giurisprudenziale del diritto dell’adottato di conosce-
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C. Castronovo, Fecondazione eterologa: il passo (falso) della Corte costituzionale, in Eur. e dir. priv., 2014, 1122, parla a proposito della fecondazione eterologa di nascita di un «figlio con identità adulterata in radice a causa della eterodeterminazione di altri, uno soltanto o nessuno dei quali è suo genitore». 81 F. Giardina, Interesse del minore: gli aspetti identitari, in NGCC, 1/2016, II, 159, in particolare pp.161-162 evidenzia come nella “frantumazione dell’identità” si sia passati da una visione storicamente più risalente che individua il corpo come base dell’identità – di cui è espressione l’art. 269, c. 3 c.c., con il riferimento al parto per accertare la maternità, e l’importanza del profilo genetico nelle azioni di stato – ad una situazione in cui bisogna porsi delle domande e fare delle scelte: cosa è preferibile «tra il corpo della madre e il codice genetico che non le corrisponde e le attitudini umane all’accoglienza o al rifiuto della maternità? Il figlio voluto dai committenti e non dalla madre surrogata è in stato di abbandono? Il figlio partorito dalla madre surrogata è suo ad onta dell’accoglienza offerta dai committenti, che possono essere (anche i) genitori genetici del nascituro?».
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re le proprie origini biologiche per riflettere sull’esistenza di un interesse analogo in capo a chi nasce da P.M.A. eterologa o da G.P.A. Con l’adozione l’adottato acquista un’identità giuridica, e ciò non sempre avviene in tenerissima età. Chi è stato adottato spesso ha vissuto un periodo di “abbandono” ed avverte l’esigenza di conoscere l’identità dei suoi genitori biologici, in particolare della madre, per comprendere le ragioni della scelta di non tenerlo con sé. È un modo per fare pace con il passato, riannodare i fili del proprio vissuto e, secondo gli studiosi di psicologia, può essere utile all’armonioso sviluppo della personalità82. Ciò ha indotto il legislatore, con la riforma attuata dalla l. n. 149/2001, a modificare la disciplina dell’adozione aprendola alla verità83. Si è abbandonata la cancellazione totale delle origini fondata sul segreto, sia all’interno della famiglia, sia nei rapporti con i terzi. È stato riconosciuto il diritto del figlio di essere informato dai genitori adottivi della sua condizione di adottato84. Inoltre, raggiunti i venticinque anni85, egli può accedere alle informazioni che riguardano l’identità dei genitori biologici. L’accesso a tali informazioni può essere anticipato se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica (art. 28, c. 5, l. n. 184/1983) che, a seguito di apposita istanza, devono essere vagliati dal tribunale per i minorenni del luogo di residenza dell’adottato86. Ma se, al momento del parto, la madre biologica ha scelto di non volere essere nominata, come consente l’art. 30, c. 1, d.P.R. n. 396/2000, richiamato all’art. 28, c. 7, l. 184/1983, questo segreto si contrappone al diritto del figlio di conoscere le proprie origini. In Europa solo Italia, Francia87 e Lussemburgo hanno conservato la possibilità che la partoriente si celi dietro l’anonimato, e ciò si giustifica con la protezione del diritto alla vita del nascituro e della salute della madre, poiché evita l’interruzione della gravidanza, o un parto rischioso al di fuori di una struttura sanitaria, con l’uccisione o l’abbandono in precarie condizioni del neonato e favorisce, invece, la scelta di partorire in ospedale e mettere al
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Per la citazione di alcuni di questi studi si veda M.G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, in Fam e dir., 2/2015, 190, in particolare nota n. 5 e testo corrispondente 191-192. 83 L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2005, 161 ss. 84 Art. 28, c. 1, l. n. 184/1983, testo modificato dall’art. 24, l. 149/2001: «Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni». 85 L’indicazione dei 25 anni è anomala e criticabile, meglio sarebbe indicare la maggiore età, in sintonia con quanto previsto nella Raccomandazione n. 1443/2000 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (vedi infra nota 86). 86 Per un commento critico della disposizione, in particolare riguardo all’età minima stabilita in anni 25 (una nuova categoria di maggiorenni?), alla necessità di un preliminare accertamento del Tribunale per i minorenni sull’esistenza di “gravi e comprovati motivi” e in merito all’assenza di autorizzazione qualora i genitori adottivi siano deceduti o divenuti irreperibili, si rinvia a V. Gagliardi, E. Palmerini, Sub art. 24, l. 28 marzo 2001, n. 149, in NLCC, 4-5/2002, 1024 ss. 87 In Francia, dopo la Loi 93-2002, si parla non più di “parto anonimo”, ma di parto “con discrezione” poiché tale legge prevede la reversibilità della scelta della madre ed ha istituito un apposito organo, il Conseil National pour l’acces aux origines personnelles (CNAOP) deputato a ricevere la dichiarazione di consenso della madre a disvelare la propria identità al figlio. La legge fu emanata nelle more della decisione della Corte EDU, Odièvre c. Francia, 13 febbraio 2003, R. n. 42326/98, in www.echr.coe.int, che fu il primo caso in cui la Corte EDU espressamente affermò il diritto di conoscere le proprie origini, pur respingendo la pretesa della ricorrente, ritenendo ragionevole il bilanciamento attuato nell’ordinamento francese con la Loi del 2002.
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sicuro la vita del bambino anche quando la madre non possa o non voglia allevarlo. Si tratta di obiettivi meritevoli di protezione, seppur un po’ datati88. In ogni caso deve essere garantito il diritto del figlio di conoscere le proprie origini, che è riconosciuto in una pluralità di atti normativi sovranazionali, rilevanti nell’ordinamento interno89, che hanno indotto altri paesi europei a cancellare l’anonimato materno. In Italia il diritto all’anonimato persiste. Ma la Corte EDU, nel caso Godelli c. Italia90, ha dichiarato contraria all’art. 8 CEDU la disposizione legislativa (art. 28, co. 7, l. n.184/1983) che non consente la reversibilità del segreto. La disciplina italiana è stata giudicata troppo orientata a tutelare la madre a discapito dei diritti del figlio, mentre, a distanza di tempo dalla nascita, la stessa madre biologica potrebbe essere disposta a (o anche desiderare di) rinunciare all’anonimato per conoscere il figlio che ha generato. Seguendo queste indicazioni la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, co. 7, l. n. 184/1983 nella parte in cui non prevede la reversibilità del segreto, “attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza” 91, ovvero la possibilità che il giudice interpelli la madre, su richiesta del figlio, al fine dell’eventuale revoca della sua precedente dichiarazione di non voler essere nominata nell’atto di nascita del figlio. Secondo quanto previsto dalla Corte costituzionale il legislatore sarebbe dovuto intervenire per stabilire le modalità procedurali dell’interpello della madre92. L’inerzia del legislatore ha determinato due diversi orientamenti dei giudici aditi: alcuni hanno ritenuto di non poter intraprendere la ricerca delle origini a causa della mancata emanazione delle
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V. Carbone, Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto, commento a Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024 e Trib. dei minorenni di Venezia, 20 settembre 2016, n. 16, in Corr. giur. 1/2017, 29, in particolare pp. 35-37, mette in luce come il contesto odierno sia profondamente mutato rispetto all’istituto post medievale della ruota, da cui l’anonimato materno trae origine per evitare l’aborto. Il mutamento è avvenuto da un lato grazie alle scoperte scientifiche, dal DNA ai contraccettivi orali, dall’altro è correlato alle novità normative come la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, la responsabilità genitoriale, che solo l’anonimato può escludere rispetto alla madre, ed al fatto che l’interpretazione della normativa italiana deve essere orientata non solo costituzionalmente, ma anche in senso conforme alle norme della U.E. 89 Vedi art. 7, Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, ratificata dall’Italia con l. n. 176/1991; art. 30 Convenzione de L’Aja per la tutela dei bambini e la cooperazione nell’adozione internazionale del 1993, ratificata dall’Italia con l. 476/1998; infine quanto stabilito dalla Raccomandazione n. 1443/2000 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che ha invitato gli Stati membri, tra cui l’Italia, ad assicurare «il diritto del minore adottato a conoscere le proprie origini al più tardi al compimento della maggiore età e a eliminare dalle legislazioni nazionali qualsiasi disposizione contraria». 90 Corte EDU, 25 settembre 2012, Godelli c. Italia in Corr. giur., 7/2013, 940 ss. con nota di V. Carbone, Corte EDU: conflitto tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini; in NGCC, 1/2013, 103 ss. con nota di J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata; in Fam e dir., 3/2013, 537 ss., con nota di Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento. 91 Corte cost., sentenza 22 novembre 2013, n. 278, in Foro it,, 2014, I, c. 4, con nota di G. Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla conoscenza delle origini; in Corr. giur., 4/2014, 471 ss., con nota di T. Auletta, Sul diritto dell’adottato di conoscere la propria storia: un’occasione per ripensare alla disciplina della materia, 473 ss.; in NGCC, 2014, I, 279, con nota di J. Long, Adozione e segreti: costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto, 289 ss. 92 Nell’ottica del bilanciamento dei due diritti, quello della madre biologica e quello del figlio, è necessario procedere, afferma la Corte costituzionale nella pronuncia citata alla nota precedente, alla “verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, con scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica”.
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norme procedurali; altri, qualificando “additiva” e non meramente interpretativa la pronuncia della Consulta, hanno ritenuto di dover dar corso all’interpello seguendo le indicazioni desumibili da tale decisione93. Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione94 che hanno aderito alla seconda interpretazione, affermando che il giudice ha la possibilità d’interpellare la madre nei modi più opportuni, desunti dal quadro normativo, idonei ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna. La Corte ha poi sottolineato che esiste un unico invalicabile limite al diritto del figlio di conoscere le proprie origini: il persistere della volontà della madre di non voler svelare la propria identità. Nel nostro ordinamento il rifiuto opposto all’interpello, in realtà, non cristallizza per sempre l’anonimato dalla madre (come invece accade nell’ordinamento francese95), ma solo fino al ricorrere di una di queste due circostanze: il decorso di 100 anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto, ai sensi dell’art. 93 d. lgs. 196/200396, oppure la morte della madre, secondo l’interpretazione espressa dalla Cassazione in due pronunce del 201697. Quest’ultima interpretazione è stata qualificata “evolutiva” poiché, dopo la morte della madre, consentendo «al figlio di accedere subito alle informazioni identificative», di fatto, ha abolito il termine dei 100 anni previsto dal codice della privacy e ha incrementato la tutela del diritto all’identità del figlio98. Ma la morte impedisce alla madre di valutare l’opportunità di rinunciare all’anonimato e, per controbilanciare l’assenza di questo filtro, la Cassazione ha sottolineato che il trat-
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La discrepanza di orientamenti tra i diversi tribunali ha indotto gli adottati a dar vita nel 2008 ad un “Comitato nazionale per il diritto alle origini” che sostiene la necessità di varare una disposizione legislativa per evitare che il diritto alle origini sia incerto, essendo subordinato alle scelte dei giudici aditi. Cfr. l’articolo di M.C. Carratù, L’appello dei figli adottivi “Una legge per aiutarci a trovare i nostri genitori”, sul quotidiano La Repubblica del 13 ottobre 2018, 20. 94 Cass. civ., Sez. Un., sentenza 25 gennaio 2017 n. 1946, in Foro it., 2017, I, c. 477 ss., con annotazioni di G. Casaburi; e note di commento di N. Lipari, Giudice legislatore; e G. Amoroso, Pronunce additive di incostituzionalità e mancato intervento del legislatore. 95 Nell’ordinamento francese la madre ha un diritto unilaterale e discrezionale di negare al figlio la conoscenza delle proprie origini: infatti, il diniego espresso vale per sempre, anche dopo la sua morte e può essere manifestato preventivamente anche per il tempo dopo la sua morte: vedi art. L. 147-6 Code de l’Action Sociale et des Familles. Proprio sulla base di queste regole nella sentenza della Corte EDU sul caso Odièvre c. Francia alcuni giudici avevano espresso un’opinione dissenziente rispetto alla mancata condanna della Francia, votata dalla maggioranza, che si era basata sull’esistenza della procedura di reversibilità del segreto. 96 Il 25 maggio 2018 è entrato in vigore il reg. UE 2016/679 e il 10 agosto 2018 è stato emanato il d.lgs. n. 101/2018, entrato in vigore il 19 settembre 2018, che ha modificato il codice della privacy secondo i criteri fissati nella delega, tra cui abrogare le disposizioni incompatibili con il regolamento, dare attuazione alle disposizioni del regolamento non direttamente applicabili, coordinare le disposizioni vigenti con il regolamento. 97 Entrambe cassano sentenze di merito di opposto orientamento: Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2016, n. 15024; e Cass. civ., sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838, pubblicate entrambe in Fam e dir., 1/2017, p. 15, con nota di E. Andreola, Accesso alle informazioni sulla nascita e morte della madre anonima, 24 ss. che rileva la prevalenza del diritto alla conoscenza delle proprie origini in applicazione del principio del favor veritatis nella filiazione. Sul tema si veda anche il raffronto tra gli orientamenti espressi da Cass. civ., sez. I, 21 luglio 2016 n. 15024 e da Trib. dei minorenni di Venezia 20 settembre 2016, n. 16, in Corr. giur., 1/2017, 24 ss., con nota adesiva a quanto affermato dalla Cassazione di V. Carbone, Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto. 98 Cfr. B. Checchini, La giurisprudenza sul parto anonimo e il nuovo istituto dell’interpello, in NGCC, 9/2017, 1288, 1294. Una valutazione puramente fattuale porta a constatare che, poiché il parto difficilmente può avvenire prima dei 13 o 14 anni, è più probabile che la madre muoia prima che siano decorsi 100 anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto e, quindi, in realtà l’evento che di solito mette fine al segreto è la sua morte.
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tamento delle informazioni deve essere eseguito in modo tale da evitare un danno all’immagine, alla reputazione e ad altri beni di primario rilievo costituzionale di eventuali terzi interessati, come i discendenti ed i familiari della madre defunta. Quindi ai giudici è stato affidato un compito molto delicato: essi devono evitare che il diritto del figlio alla ricostruzione della propria storia comprometta il diritto della madre defunta alla tutela della sua “identità sociale” ovvero correlata al nucleo familiare e/o relazionale da lei costituito dopo l’abbandono del neonato, in un ambiente che potrebbe ignorare l’esistenza di quel figlio. Le nuove norme del regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche non sono applicabili. Infatti, il considerando 27 esclude l’estensione della nuova disciplina ai dati personali relativi alle persone decedute, su cui prevede che gli Stati membri possano adottare regole nazionali99. Di recente la Cassazione ha, inoltre, affermato che, nei casi di cui all’art. 28, c. 5, l. 184/1983, il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini si estende alle informazioni concernenti l’identità di sorelle e fratelli biologici adulti, previo interpello di questi ultimi mediante procedimento giurisdizionale idoneo ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità dei soggetti da interpellare, al fine o di acquisire il consenso all’accesso alle informazioni richieste o di constatarne il diniego, che preclude l’esercizio del diritto100. Nel caso in cui i fratelli o le sorelle siano premorti all’interpello ci si chiede se il giudice possa svelare all’attore, con le cautele del caso, la loro identità oppure se la loro morte precluda l’accesso dell’istante a tali informazioni. 4.1. Chi nasce da P.M.A. eterologa (o da maternità surrogata) ha un interesse giuridicamente tutelato a conoscere l’identità di chi ha contribuito alla sua nascita?
La dichiarazione d’incostituzionalità del divieto di inseminazione eterologa101, in origine previsto dalla legge n. 40/2004, rende ineludibile domandarsi se il diritto di conoscere le proprie origini debba essere riconosciuto anche al figlio di una coppia che per procreare si sia sottoposta a tale trattamento. È una questione controversa. La legge n. 40/2004 all’art. 9, co. 3, afferma che il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi. Si ritiene che anche nel caso di contemporanea donazione sia di ovociti sia di sperma siano la gravidanza ed il parto che rendono madre la donna che ha partorito, per l’efficacia causale determinante di tali fatti rispetto alla donazione del materiale biologico. Ciò induce la dottrina ad escludere che la maternità di
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Vedi V. Montaruli, Parto anonimo e accesso alle origini nell’adozione, in www.giudicedonna.it, 1/2017, in particolare 8 ss., che esamina i profili di frizione tra art. 28, c. 7, l. 184/1983 e reg. UE 2016/679 in tema di protezione dei dati personali. 100 Cass. civ., sez. I, 20 marzo 2018, n. 6963. 101 Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Foro it., 2014, I, c. 2324 ss. con nota di G. Casaburi.
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colei che ha partorito possa essere contestata dimostrando l’incompatibilità genetica tra madre e figlio102. Sul diritto dei nati di conoscere l’identità dei donatori ha formulato un parere il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB)103. Questo documento affronta la questione in modo equilibrato, ma non offre una soluzione al quesito. Si raccomanda che i genitori rivelino al figlio le circostanze del suo concepimento attraverso modalità psicologiche appropriate e che lo informino del suo diritto di accedere ai registri che, in forma anonima, conservano i dati genetici e la storia clinica dei donatori, informazioni che possono essere indispensabili per tutelare la salute del nato. Quanto al diritto di conoscere i dati anagrafici dei donatori, il Comitato non ha espresso una posizione comune, ma nel parere ha esposto i due diversi orientamenti che si sono delineati al suo interno. Alcuni ritengono più opportuno mantenere l’anonimato, sottolineando che nell’inseminazione eterologa tra donatore e nato manca qualunque legame relazionale ed inoltre osservando che può non essere opportuno introdurre nel progetto familiare le interferenze di una sorta di “terzo genitore” e, infine, che c’è il rischio di dissuadere i donatori dal compiere l’atto solidaristico, che in Italia attualmente è fine a se stesso e privo di conseguenze per il futuro. Altri componenti del CNB hanno, invece, sostenuto che chi nasce da tecniche di PMA eterologa ha diritto di ottenere informazioni complete sulle sue origini e non deve essere discriminato (rispetto all’adottato) in ragione degli strumenti usati per generarlo. Il CNB ovviamente non considera l’ipotesi, vietata dal nostro ordinamento giuridico, che l’inseminazione eterologa (o la G.P.A.) sia utilizzata da una coppia dello stesso sesso. Ma la casistica qui esaminata ci mostra come in Italia vivano figli di coppie omosessuali generati all’estero con donazione di ovociti e/o di spermatozoi e, se figli di due uomini, anche con una madre surrogata. In questi casi l’utilizzo del contributo genetico e/o gestazionale di una persona di sesso diverso da quello dei genitori è imprescindibile ed a questi “figli”, quando raggiungano una certa età, non sarà necessario fare una “rivelazione” su questo aspetto della loro origine. La possibilità di conoscere l’identità di chi ha reso possibile la loro procreazione attualmente non è uguale per tutti, poiché dipende dalla legislazione del luogo ove la procedura di PMA eterologa è stata realizzata ed il panorama è molto variegato, anche prendendo in considerazione solo l’Europa. Si va dall’anonimato assoluto previsto in Francia (confermato dalla legge di riforma del 2011), all’accesso pieno alle informazioni identificative del donatore di gameti introdotto in Svezia già nel 1984, ad un sistema c.d. a doppio binario, adottato in Danimarca, in cui è il donatore che sceglie tra anonimato o registrazione dei dati anagrafici per poter essere rintracciato104. Tuttavia il
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G. Ferrando, La procreazione assistita: la rilettura costituzionale della legge n. 40, cit., 270. Parere espresso il 25 novembre 2011 e pubblicato in http://bioetica.governo.it/it/documenti/pareri-e-risposte/elenco-generale-pareriin-ordine-cronologico/ 104 Sui profili di comparazione tra ordinamenti si veda M.G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, cit., 197198; ID. Scelta della madre per l’anonimato e diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, in NGCC 3/2017, p. 323 e ss., nota a margine di Cass. civ., sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838; Id, Filiazione e genitorialità. Il problema del terzo genitore, Torino, 2010; 103
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vincolo di filiazione si costituisce sempre solo tra il nato e i genitori intenzionali, ovvero che hanno deciso di ricorrere alla P.M.A., e si fonda sulla loro autodeterminazione e sulla responsabilità assunta rispetto al nato. La dottrina ha precisato che il diritto di conoscere la propria identità genetica non è un diritto ad esercitare le azioni di stato nei confronti dei genitori biologici, ma si sostanzia solo nel diritto di conoscere la propria storia105. Ma, diversamente dall’adozione, nella fecondazione assistita eterologa non c’è un genitore da ritrovare, i fili di una storia da riannodare, conoscere e comprendere, ma può esserci solo il nome di un donatore di gameti che non vuole o non può, in base alla legge del paese ove la pratica di fecondazione è avvenuta, instaurare un rapporto giuridico con il nato e che si è limitato a donare (o a vendere) spermatozoi o ovociti che da soli, senza l’intervento del medico ed il contributo genetico di un altro soggetto, non sono in grado di dare origine alla vita umana106. L’atto del donatore non costituisce titolo di paternità o di maternità e, a nostro avviso, è condivisibile l’idea che non sussista un interesse giuridicamente apprezzabile di chi nasce a conoscere l’identità del (o dei) donatore(-i) dei gameti. Nella gestazione per altri la questione è più complessa poiché per nove mesi il rapporto tra feto e madre gestazionale, che in molti casi è anche donatrice dell’ovocita, è molto intenso, anzi è simbiotico, e ciò colora questa fattispecie in modo diverso. Tale caratteristica ed il fatto che, dopo il parto, il distacco precoce non è indolore fanno sì che in alcuni paesi si preveda la possibilità che la madre gestazionale, che sia anche madre genetica, possa cambiare idea e tenere il bambino per sé. Se avviene il distacco, questo fatto innaturale per tutti i mammiferi, provoca un forte disagio nella madre e nel figlio e ciò rende la maternità surrogata una tecnica procreativa molto più discutibile e controversa107. Occorre però tenere anche conto che per le coppie di uomini omosessuali quella della maternità surrogata è l’unica via per procreare un bambino legato geneticamente ad uno dei partner. E, se si aprisse l’inseminazione eterologa alle coppie omosessuali, mantenendo il divieto della gestazione per altri si determinerebbe una discriminazione tra coppie omosessuali femminili e maschili, in quanto la realizzazione del desiderio di essere genitori sarebbe consentita alle donne e preclusa agli uomini.
Id., Rapporti di filiazione e “terzo genitore”, in Fam e dir., 2/2012, 201 ss. M. Bianca, L’unicità dello stato di figlio, in C.M. Bianca (a cura di), La riforma della filiazione, Padova, 2015, 21 ss. 106 A. Morace Pinelli, Il diritto di conoscere le proprie origini e i recenti interventi della Corte costituzionale. Il caso dell’ospedale Sandro Pertini, in Riv. dir. civ., 1/2016, 242 ss., 260-261. 107 Con la consueta sensibilità C. Saraceno, Dilemmi intorno alla maternità surrogata, in www.giudicedonna.it 1/2017, sottolineando il coinvolgimento e il tempo che la gestazione richiede alla donna, ritiene che la madre surrogata debba avere il diritto di cambiare idea e di tenere il bambino e che tale diritto debba limitare quello dei genitori intenzionali. Inoltre afferma che «entrare in un rapporto di gestazione per altri dovrebbe richiedere la disponibilità di tutte le parti a mantenere un rapporto con il bambino che viene al mondo per questo tramite. Il grado, l’intensità e i modi di questa relazione possono essere negoziati tra le parti ed evolversi col tempo, ma l’esistenza della relazione in sé deve essere visibile e disponibile, innanzi tutto al bambino, ma anche alla madre surrogata… si dovrebbe elaborare una nuova concezione di parentela in cui anche la madre sostitutiva ha un posto non solo di natura strumentale» 105
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Il diritto di conoscere le proprie origini dei nati da PMA eterologa o da GPA è una questione discutibile, che di fatto è regolata dalla legge del luogo dove è realizzata l’inseminazione eterologa o in cui è concluso il contratto di maternità surrogata108. Tuttavia, in ogni caso, il best interest di chi nasce richiede che “la biologia non cancelli la biografia” 109 ovvero che in nome della certezza della trama dei geni non si trascurino le relazioni interpersonali, ma che si pongano sempre in primo piano l’accoglienza, la responsabilità, l’amore, valori che contribuiscono positivamente a costruire la personalità del bambino, nutrono la sua esistenza e lo fanno sentire parte della comunità familiare e della società, contribuendo così ad edificare la sua identità personale.
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Cfr. M. Basile, I donatori di gameti, in NGCC, 5/2015, II, 223 ss.; L. D’Avack, Il diritto alle proprie origini tra segreto, anonimato e verità nella PMA con donatori/trici di gameti, in Dir. fam. e pers., 2/2012, 815 ss. 109 Un profilo autorevolmente evidenziato da S. Rodotà, Tra diritto e società. Informazioni genetiche e tecniche di tutela, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 586 ss.
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L’assegno di divorzio dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018: indicazioni per il giudice di merito* Sommario : Premessa. La fattispecie e il principio di diritto. – 1. La lettura della sentenza pone un interrogativo: le Sezioni Unite hanno assolto il loro compito nomofilattico? – 2. Il problema di come interpretare il comma 6 dell’art. 5, l. div.; la risposta della Corte e l’indicazione data al giudice del merito quanto alla funzione dell’assegno divorzile. – 3. Una indicazione non precisa né esaustiva. – 4. Le indicazioni quanto al modo di procedere del giudice del merito: le quattro fasi del giudizio sull’assegno. – 5. L’esame delle singole fasi. – 5.1. (segue) L’accertamento delle condizioni economiche delle parti. – 5.2 (segue) Se emerge che le condizioni non sono significativamente sperequate il giudice deve negare l’assegno: una conclusione che desta perplessità. – 5.3. (segue) Il significativo squilibrio trova causa nelle scelte condivise in costanza di matrimonio? – 5.3.1. (segue) L’ipotesi negativa e il riconoscimento dell’assegno con funzione solo assistenziale – 5.3.2. (segue) L’ipotesi positiva. Il giudice del merito non è sempre tenuto a verificare se la differenza tra le condizioni delle parti sia superabile. – 5.4. (segue) La quantificazione dell’assegno: la durata del matrimonio e l’età del richiedente anche in rapporto con le funzioni dell’assegno. – 6. Il ruolo residuale della funzione risarcitoria.
The financial provision a former spouse is entitled to receive from the other, according to the Italian divorce law, is not exclusively aimed at supporting the beneficiary but it is mainly aimed at giving the beneficiary what is due in relation to the contribution he or she
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Relazione svolta nell’ambito del convegno “Il nuovo assegno divorzile, tra funzione assistenziale, perequativa e compensativa, risarcitoria”, tenutosi a Bologna in data 10 settembre 2018 ed organizzato dalla Struttura Didattica Territoriale per il distretto della Corte di Appello di Bologna della Scuola Superiore della Magistratura e dalla Università di Bologna.
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gave to matrimonial property and in accordance to the external work options the beneficiary lost consequently to shared decisions regarding family life. This is the new principle of law set by the Supreme Court, with the decision no. 18287, published on July 11, 2018. But is this principle clear enough? And which are the guidelines given by the Court to the judges called to apply this principle? And are those guidelines correct and precise enough? this short essay trays to answer these questions.
Premessa. La fattispecie e il principio di diritto. Con la sentenza n. 18287 dell’11 luglio scorso, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno cassato con rinvio la decisione della Corte di Appello di Bologna, la quale aveva esonerato l’ex marito dal versamento dell’assegno divorzile in applicazione dei principi espressi dalla Prima Sezione nella sentenza del 10 maggio 2017, n. 11504 (la ex moglie era stata ritenuta economicamente autosufficiente), sul rilievo che la Corte di Appello aveva omesso di verificare se l’attribuzione dell’assegno potesse essere giustificata in funzione “perequativo-compensativa”. La Corte ha enunciato il principio di diritto per cui: «Ai sensi della L. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto».
1. La lettura della sentenza pone un interrogativo: le Sezioni Unite hanno assolto il loro compito nomofilattico? La lettura della sentenza delle Sezioni Unite chiama ad interrogarsi su quali indicazioni possano da essa essere ricavate per il giudizio di merito ovvero se le Sezioni Unite abbiano assolto al loro compito istituzionale (art. 65 l. ord. giud.) di garantire la esatta osservanza e l’uniforme interpretazione ed applicazione della legge (la funzione nomofilattica è pienamente assolta se le indicazioni sono chiare).
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Anticipo che la risposta che mi sono dato è positiva per due aspetti e non interamente per altri due: è positiva per quanto concerne il superamento dei precedenti orientamenti inaugurati dalle Sezioni Unite nel 1990 (sentenze n.11489, 11490, 11491 e 11492) e dalla Sezione prima lo scorso anno (sentenza n.11504), con la particolare sottolineatura della funzione non esclusivamente assistenziale dell’assegno e per quanto concerne l’individuazione di precisi riferimenti costituzionali del diritto all’assegno; non è interamente positiva per quanto concerne la definizione delle funzioni dell’assegno e delle articolazioni del giudizio di merito. Su questi ultimi aspetti intendo in particolare soffermarmi.
2. Il problema di come interpretare il comma 6 dell’art. 5,
l. div.; la risposta della Corte e l’indicazione data al giudice del merito quanto alla funzione dell’assegno divorzile.
Le Sezioni Unite hanno nuovamente affrontato il problema interpretativo posto dal comma 6 dell’art.5 della legge di divorzio, come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74; problema che è sempre stato, in primo luogo, quello del significato da attribuire al termine “adeguati”, riferito ai mezzi di cui il richiedente l’assegno deve essere privo, e, in secondo luogo, quello del coordinamento della prima parte della disposizione, laddove sono elencati gli elementi dei quali il giudice deve tener conto (‘‘condizioni dei coniugi’’,‘‘ragioni della decisione’’, ‘‘contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune’’, ‘‘reddito di entrambi’’), anche in rapporto alla durata del matrimonio, con la seconda parte della stessa disposizione, laddove è collocato il riferimento ai mezzi adeguati. La soluzione del problema passa per la definizione della funzione da attribuire all’assegno: per chiarire il significato del termine “adeguati” e per individuare il ruolo degli elementi elencati nella prima parte della norma, occorre, in altri termini, stabilire rispetto a quale esigenza i mezzi devono essere adeguati. È noto, e le Sezioni Unite lo ricordano nel punto 8.2. della motivazione, che nella giurisprudenza di legittimità era sempre stato fermo il principio per cui, con la riforma della legge divorzile, diversamente che nella vigenza dell’impianto normativo originario (art.5, legge 1 dicembre 1970, n, 898), allorquando la funzione dell’assegno era insieme assistenziale, risarcitoria e compensativa (salvo che nel singolo caso mancassero i presupposti di una di queste funzioni), l’assegno aveva funzione solo assistenziale (per la precisione nelle prime sentenze si parlava di funzione “eminentemente” assistenziale mentre sia nelle sentenze delle Sezioni Unite n. 11489, 11490, 11491, 11492 del 29 novembre del 1990 sia nella sentenza della Prima Sezione n. 11504 del 10 maggio del 2017 si parla di funzione “esclusivamente” assistenziale), salva la diversa individuazione della soglia della doverosa assistenza o al livello di quanto indispensabile a consentire alla parte di mantenere il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio (o il tenore di vita che la parte avrebbe
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potuto avere, a fronte di un più modesto “stile” di vita mantenuto in concreto) o al livello di quanto necessario all’autosufficienza economica. Le Sezioni Unite, al di là di un, a mio avviso, indubbio difetto di linearità espositiva, affermano oggi che l’assegno ha, principalmente, funzione “perequativo-compensativa”, ossia funzione di riequilibrio tra le posizioni delle parti al termine del matrimonio in ragione, per un verso, del contributo dato dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare, alla formazione del patrimonio comune e della condizione economica complessiva derivata all’altra parte “dalle acquisite potenzialità di affermazione economico-professionale in quanto consentite dal concordato assetto di vita familiare nel corso della convivenza”1 ed in ragione, per altro verso, del sacrificio, da parte del richiedente, di possibilità di lavoro e di guadagno all’esterno della famiglia a causa dell’impegno all’interno2. Ho parlato di “difetto di linearità espositiva” perché, al punto 10 della motivazione, la Corte afferma, prima, che «l’art. 5 comma 6°, attribuisce all’assegno funzione assistenziale, riconoscendo al coniuge il diritto all’assegno quando non ha mezzi adeguati», poi, che, «il parametro dell’adeguatezza contiene in sé una funzione equilibratrice e non solo assistenziale», poi, ancora, che «la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare…», poi, ancora, al punto 11, di funzione perequativa, e, al punto 12, di «elemento contributivo-compensativo [che] si coniuga senza difficoltà a quello assistenziale” e, infine, al punto 13, nel formulare il principio di diritto, nuovamente di “funzione assistenziale ed al pari compensativa e perequativa». Ho affermato che, al di là di questa scarsa linearità, in sostanza, le Sezioni Unite attribuiscono all’assegno funzione essenzialmente perequativa e compensativa, ed anzi principalmente funzione perequativa, perché la funzione assistenziale viene ricondotta alle altre e in particolare alla prima (perequativa), attraverso il passaggio motivazionale per cui l’adeguatezza dei mezzi non va valutata in riferimento a parametri esterni – tenore di vita
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Così E. Quadri, L’assegno di divorzio tra conservazione del ‘‘tenore di vita’’ e ‘‘autoresponsabilità’’: gli ex coniugi ‘‘persone singole’’ di fronte al loro passato comune, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1267. Per una forte accentuazione della funzione compensativa rispetto a quella assistenziale, in dottrina, v. C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno di divorzio dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1278 ss., secondo cui «il coniuge più debole, al momento dello scioglimento del matrimonio, non cerca affatto assistenza – e considera anzi offensiva per la propria dignità la sola idea di riceverla – ma pretende una ricompensa per i sacrifici spesso assai rilevanti compiuti durante il matrimonio a favore della famiglia ... la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno non può che comportare la frustrazione di tali aspettative”; E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, in Corriere giur., 2017, 892 ss., per il quale occorre, nell’attribuzione dell’assegno, «valorizzare le aspettative fondate sulla pregressa partecipazione al funzionamento della comunità di vita familiare».
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o condizione di autosufficienza economica – ma in riferimento ai parametri elencati nella prima parte del 6° comma dell’art. 5 e tra questi al parametro fondamentale del «contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune» (punto 10 della motivazione). Il fondamento di questa preminenza delle funzioni perequativa e compensativa è individuato nei principi di solidarietà – intesa come solidarietà nelle scelte di vita e quindi anche come autoresponsabilità e libertà nel compimento di tali scelte che si riflettono poi nella situazione economica propria e dell’altra parte al momento della crisi della relazione coniugale –, e di pari dignità, radicati negli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione3 Ecco dunque la risposta delle Sezioni Unite al problema di fondo posto dal comma 6, dell’art. 5, l. div., nella sua duplice, ricordata, articolazione: – il termine “adeguati” va riferito a quanto necessario perché l’assegno possa assolvere la propria funzione, essenzialmente perequativo-compensativa; – quanto al coordinamento tra la prima parte e la seconda parte del comma 6, dell’art. 5, l. div., gli elementi indicati dall’una, tra i quali ha spiccato rilievo quello del contributo fornito dal richiedente per la conduzione della vita familiare e per la formazione del patrimonio comune e del patrimonio dell’ex coniuge, servono (punto 8.2., della motivazione) ad ancorare e a dare contenuto al termine “adeguati”, usato dall’altra (parte della disposizione). In definitiva, la Corte dà questa prima indicazione al giudice del merito: il termine “adeguati” significa “tali da escludere una significativa disparità tra condizione economica del richiedente l’assegno e situazione economica dell’altra parte, considerati gli elementi elencati nell’incipit del comma 6°, espressivi delle scelte condivise in costanza di rapporto”.
3. (segue) Una indicazione non precisa né esaustiva. Come ho anticipato, questa indicazione non è precisa né esaustiva: attribuisce rilievo alle funzioni ritenute preminenti (perequativa o compensativa) sembrando dare per scon-
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Per un forte richiamo all’art. 29 Cost., v., in dottrina, E. Quadri, op. ultima cit., secondo cui la disposizione costituzionale «è destinata ad acquistare il senso di riconoscere all’apporto di ciascuno dei coniugi alla vita familiare ... il valore di fondamento di pretese autonome, tali da non determinare una ‘ultrattività del vincolo matrimoniale’», bensì di assicurare, all’ex coniuge che ne necessita, «le indispensabili condizioni per affrontare in maniera effettivamente autonoma e dignitosa, proprio perché al di fuori di ogni avvilente assistenzialismo, percorsi di vita definitivamente separati»; v. altresì, per la particolare assonanza con le Sezioni Unite in commento, E. Al Mureden, L’assegno divorzile tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Fam. e dir., 2017, 648 ss.; in giurisprudenza, App. Napoli, 22 febbraio 2018, n. 911, in Fam. e dir., 2018, 360, secondo cui «il fondamentale canone di eguaglianza e di solidarietà (fondato, lo si ricordi, sull’art. 29 Cost.; ma hanno rilevanza anche gli artt. 2 e 3) non può essere escluso, o paralizzato, con la crisi della famiglia, specie con il divorzio ... L’attuazione di tali canoni, infatti, non può essere compromessa, paradossalmente, proprio nella fase patologica della vita familiare, che può essere caratterizzata da conflitti anche aspri, e in cui gli effetti negativi della asimmetrica divisione dei pesi nella vita familiare si manifestano con maggiore durezza, proprio con riferimento al coniuge più debole».
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tato che ciascuna di esse assorba sempre la funzione assistenziale o che, in altri termini, soddisfatta la funzione perequativa o la funzione compensativa sia sempre soddisfatta anche la funzione assistenziale – circostanza invece eventuale essendo possibile che un assegno, congruo sotto il profilo perequativo o compensativo, non sia sufficiente sotto il profilo assistenziale –; finisce per trascurare, dopo avervi fatto fuggevole cenno, il caso in cui l’assegno deve essere attribuito in funzione solo assistenziale; sovrappone funzione perequativa e funzione compensativa (spesso legando i due termini con un trait d’union), le quali vanno invece tenute distinte posto che la prima si correla all’esigenza di attribuire alla parte un assegno proporzionato al contributo da essa dato alla formazione del patrimonio comune e alla formazione della ricchezza dell’altro coniuge, mentre la seconda si correla, per un verso, alle occasioni professionali e di guadagno perse o non interamente sfruttate dall’avente diritto all’assegno, a causa dell’assunzione di un determinato ruolo endofamiliare e, per altro verso, alla possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico subito mediante il ricollocamento nel mondo del lavoro (punto 10 della motivazione); trascura del tutto la funzione risarcitoria dell’assegno (funzione espressa dal parametro delle “ragioni della decisione”). Le carenze relative alla prima indicazione si riflettono anche sulle indicazioni relative alle articolazioni del giudizio di merito ovvero sulle indicazioni date su come il giudice del merito deve procedere.
4. Le indicazioni quanto al modo di procedere del giudice del merito: le quattro fasi del giudizio sull’assegno. Riguardo a queste indicazioni, dal punto 10 della motivazione della sentenza, si ricava quanto segue: 1. il giudice deve, in primo luogo accertare, mediante i documenti fiscali obbligatoriamente depositati dalle parti e mediante l’impiego dei poteri ufficiosi, quali sono le condizioni economico-patrimoniali di ciascuno degli ex coniugi; 2. deve, in secondo luogo, verificare se l’eventuale squilibrio rilevante accertato tra le condizioni degli ex coniugi è riconducibile alle «scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare», tenendo conto del fattore di “cruciale importanza” della durata del matrimonio e tenendo altresì conto dell’età del richiedente; 3. deve, in terzo luogo, stabilire, se l’eventuale squilibrio economico rilevante, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza nell’interesse della famiglia, può essere superato mediante “il recupero o il consolidamento della propria attività professionale in rapporto all’età del richiedente e alle concrete possibilità offerte dal mercato del lavoro” o se invece si tratta di squilibrio “irreversibile”;
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4. deve, infine, qualora abbia accertato l’esistenza di uno squilibrio economico rilevante tra le posizioni degli ex coniugi, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza e qualora abbia accertato che tale squilibrio non può essere autonomamente colmato dal richiedente, liquidare l’assegno nella misura definita con riferimento a tutti i parametri della prima parte della norma tra i quali, principalmente, il «contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, [e] in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente».
5. L’esame delle singole fasi. Ciò detto, pare utile ripercorrere le tappe del procedere del giudice per come indicate dalla Corte e per quanto discende da una (più) puntuale valorizzazione delle diverse funzioni dell’assegno. 5.1. (segue) L’accertamento delle condizioni economiche delle parti.
Il giudice deve anzitutto accertare l’entità del patrimonio e del reddito del richiedente e l’entità del patrimonio e del reddito dell’altra parte (nel patrimonio va inclusa la quota dei beni comuni; il patrimonio va valutato in termini di reddito potenziale effettivo ossia in rapporto alle concrete possibilità del relativo sfruttamento economico, diretto o indiretto, e della relativa liquidabilità)4. La Corte evidenzia che questo accertamento deve essere effettuato sulla scorta delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi (che, quali dichiarazioni di contenuto confessorio rese a terzi, ove non inficiate da elementi documentali o testimoniali, sono liberamente apprezzabili dal giudice), dei documenti depositati dalle parti, relativi ai redditi e al loro patrimonio personale (art. 4, comma 9, l. div.) e sulla scorta degli esiti dell’esperimento dei poteri d’indagine ufficiosi (la consulenza tecnica e le indagini di polizia tributaria).
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Si ricordano, sul punto, Cass., 4 marzo 2009, n. 5240, in Fam. e minori, 2009, 34, secondo cui: «la proprietà di immobili può essere valutata ai fini dell’idoneità degli stessi a garantire al coniuge un tenore di vita corrispondente a quello goduto in costanza di matrimonio anche quando ciò derivi non dal reddito attuale che tali immobili possono fornire, ma da un diverso tipo di impiego, ad esempio nel caso di alienazione e successivo reimpiego del capitale così ricavato» e App. Genova, 12 ottobre 2017, n. 106, secondo cui «la valutazione dei cespiti patrimoniali è cambiata. Negli anni ‘90 chi aveva 500 milioni di lire di liquidità poteva contare su un rendimento ragionevolmente sicuro oscillante fra i 15 ed i 30 milioni di lire l’anno, poteva quindi, moderando le spese, vivere di rendita. Oggi, con i tassi di interesse praticamente azzerati, un capitale di 250.000,00 euro non garantisce alcuna rendita economicamente significativa e costituisce solo una riserva che viene erosa ogni anno per vivere in caso di assenza di altri redditi. Le case con l’aumento della tassazione e dell’impatto di spese condominiali e bollette sugli stipendi, specialmente quelle non usate come abitazione principale, possono essere più un peso ed una fonte di debiti – specie in caso di lavori condominiali straordinari – che una fonte di reddito».
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Si aprono qui i problemi dibattuti del rapporto tra onere della prova a carico delle parti e uso dei poteri ufficiosi (la parte, previa autorizzazione del presidente del Tribunale, può, ex art. 492-bis c.p.c. e artt. 155-sexies disp. att. c.p.c., accedere alle banche dati della pubblica amministrazione per ricostruire il reddito e il patrimonio della controparte; ove abbia esercitato tale potere senza esito, può ottenere l’intervento del giudice sia ai sensi dell’art. 210 c.p.c. sia ai sensi dell’art. 213 c.p.c.; ove la controparte abbia depositato la dichiarazione dei redditi, l’interessato, per poter ottenere dal giudice l’esercizio dei poteri di accertamento mediante consulenza o mediante polizia tributaria, ha l’onere di contestare specificamente le dichiarazioni agli atti; resta nella discrezionalità del giudice utilizzare i poteri istruttori; il giudice può demandare al consulente o alla polizia tributaria di attingere elementi dalle banche dati della pubblica amministrazione, dall’anagrafe tributaria, dal pubblico registro automobilistico e dai registri degli enti previdenziali ex art. 492-bis c.p.c. e 155-sexies c.p.c.; ove siano state effettuate precise contestazioni delle dichiarazioni agli atti, la domanda di corresponsione dell’assegno non può essere respinta con la motivazione per cui l’istante non ha dato prova delle dedotte condizioni economiche dell’altro coniuge; l’esercizio o non esercizio dei poteri ufficiosi è sindacabile solo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., laddove sia possibile denunciare che la sentenza è assolutamente priva di motivazione). 5.2. (segue) Se emerge che le condizioni non sono significativamente sperequate il giudice deve negare l’assegno: una conclusione che desta perplessità.
Se emerge che non vi è una differenza significativa tra le condizioni economiche, il giudice deve negare l’assegno (il concetto di “significativo” va rapportato all’entità dei patrimoni e dei redditi accertati). Questa conclusione – che risulta già dai vari passaggi della motivazione nei quali si parla dello squilibrio economico-patrimoniale tra gli ex coniugi come condizione solo al positivo accertamento della quale può farsi seguire l’ulteriore sviluppo del giudizio sull’assegno5 e che è poi chiaramente espressa al paragrafo 5 del punto 12, laddove si parla di “domanda di assegno da parte dell’ex coniuge economicamente debole” – desta perplessità: abbandonato il quadro dei precedenti orientamenti secondo cui l’adeguatezza doveva essere rapportata alla funzione solo assistenziale dell’assegno (quadro nel quale era del tutto coerente affermare che, in assenza di squilibrio, il riconoscimento dell’assegno era per ciò stesso escluso) ed assunto invece che l’adeguatezza deve essere rapportata alle funzioni perequativa o compensativa, assunto altresì che le funzioni perequativa o compensativa sono sufficienti al riconoscimento dell’assegno e che i presupposti della funzione assistenziale non necessariamente devono ricorrere (lo squilibrio richiesto dalla Corte
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V., tra gli altri: punto 10, paragrafo 6 e paragrafo 8; punto 12 paragrafo 3.
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come requisito per l’attribuzione dell’assegno può verificarsi qualunque sia l’entità delle condizioni economiche delle parti e quindi anche tra condizioni, entrambe, di agiatezza), non pare vi sia ragione per non riconoscere l’assegno, proprio per una o entrambe queste funzioni, anche in caso di perfetto equilibrio economico patrimoniale tra gli ex coniugi qualora uno di essi abbia contribuito più dell’altro alla condizione finale comune o abbia sacrificato o sacrificato più dell’altro prospettive di sviluppo lavorativo personale fuori casa per dedicarsi alla famiglia. A titolo di ipotesi esemplificativa: due persone sposate che hanno identico lavoro ed identico stipendio (esempio due dipendenti pubblici: due insegnanti o due magistrati della stessa anzianità di servizio); al termine del rapporto hanno un patrimonio costituito da uno o più immobili acquistati in comune e denaro depositato su conto corrente comune; la donna ha però svolto (o svolto più dell’uomo) anche mansioni domestiche per la cura della casa o per l’accudimento dei figli (ormai indipendenti); in questo caso non si vede perché la donna non dovrebbe poter pretendere un assegno in funzione corrispettiva per questo suo maggior impegno (senza il quale sarebbe stato necessario sostenere spese che avrebbero ridotto le disponibilità comuni e quindi anche la condizione economica dell’uomo al termine del rapporto) o un assegno in funzione compensativa del reddito perduto per avere rinunciato a maggior lavoro esterno. Né sarebbe possibile, senza entrare in contrasto con il dato normativo («il tribunale, tenuto conto del ... contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune’» …), affermare che l’assegno dovrebbe essere negato perché in realtà la donna si è limitata ad adempiere agli obblighi che le incombevano ex art. 143 c.c. 5.3. (segue) Il significativo squilibrio trova causa nelle scelte condivise in costanza di matrimonio?
Se emerge che la condizione economica del richiedente è significativamente inferiore a quella dell’ex coniuge, occorre svolgere l’ulteriore verifica finalizzata a stabilire se questa differenza trova o non trova causa nelle scelte condivise dalle parti durante il matrimonio6. Il passaggio a questa ulteriore verifica risulta inutile nelle situazioni limite in cui la parte contro cui la domanda è proposta ha un reddito talmente ridotto da non poter consentire il pagamento di alcun assegno.
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La verifica va condotta con riguardo a quanto allegato e provato da parte del richiedente, di esemplare rigore sul punto, Trib. Pescara 19 luglio 2018, n. 1248, in www.iusexplorer.it.
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5.3.1. (segue) L’ipotesi negativa e il riconoscimento dell’assegno con funzione solo assistenziale.
Se emerge che la differenza non trova causa nelle scelte condivise ovvero che la differenza preesisteva al matrimonio ed è rimasta invariata (si contrae matrimonio con una persona abbiente; il matrimonio ha breve durata; la parte non ha dato alcun contributo alla formazione del patrimonio comune né alla condizione economica altrui) oppure è variata ma non in dipendenza di scelte involgenti il richiedente (ipotesi in cui l’ex coniuge ha un incremento stipendiale dovuto ad automatismi di carriera o ad un maggiore suo impegno senza alcun coinvolgimento del partner), il giudice non può negare perciò solo l’assegno (come dovrebbe fare se l’assegno avesse esclusivamente funzione perequativa o compensativa) ma deve invece stabilire se l’assegno deve essere comunque riconosciuto con funzione soltanto assistenziale. La Corte evoca questo dovere nel quarto capoverso del punto 12 della motivazione, laddove statuisce che: «il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l’esistenza e l’entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l’obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco. All’esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell’assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro». Per la precisione, occorre notare che il profilo strettamente assistenziale, per un verso, non ricorre quando la parte ha la possibilità concreta di procurarsi un reddito (rilevano in proposito l’età, i titoli professionali, la situazione del mercato del lavoro) e, per altro verso, invece, ricorre anche laddove la parte non sia in assoluto priva di redditi ma abbia redditi interamente assorbiti da spese incomprimibili o redditi comunque insufficienti a coprire le spese di un’esistenza dignitosa («libera e dignitosa», secondo Cass., 11 maggio 2017, n.11538 e Cass. 26 gennaio 2018, n. 2043; «indipendente e dignitosa», secondo Cass., ord. 29 maggio 2017, n. 15481). In merito alla attribuzione dell’assegno in funzione solo assistenziale7, occorre ricordare che la tale funzione discende dal principio di solidarietà post-coniugale, radicato nell’art. 2 prima parte, Cost., laddove si pone l’esigenza che siano assicurati i diritti fondamentali del singolo all’interno della formazione sociale “famiglia” e quindi, appunto, l’esigenza di assicurare la dignità della persona che è stata parte di quella formazione, ed è, a livello di normazione primaria, attestato da una serie di indici: il riconoscimento della perpetuità (potenziale) dell’assegno divorzile; la previsione della spettanza all’ex coniuge che abbia ottenuto l’assegno, di una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro
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Contestata da C. Rimini, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, (nota a Cass. civ., sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 e a Cass. civ., sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196), in Giur. it., 2017, 1799.
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(art. 12-bis l. div.), della pensione di reversibilità (almeno pro quota) in caso di premorte dell’altro (art. 9, commi 2 e 3 l. div.), del diritto ad un assegno periodico a carico dell’eredità, qualora versi in stato di bisogno (art. 9-bis l. div.). Ciò detto, nell’ipotesi ora in esame, il giudice del merito è chiamato, in sostanza, a stabilire se il richiedente l’assegno può condurre un’esistenza dignitosa. L’espressione rimanda all’art. 36 Cost. secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Le Sezioni Unite, concentrando l’attenzione sulla sola ipotesi in cui l’assegno deve essere riconosciuto in funzione perequativa e/o compensativa e sull’implicito e non veritiero assunto che una volta soddisfatta una di queste funzioni sia sempre soddisfatta anche quella assistenziale, trascurano di dare al giudice del merito una indicazione specifica sul presupposto dell’attribuzione dell’assegno in funzione solo assistenziale; l’indicazione generale per cui l’inadeguatezza dei mezzi deve essere ricavata dai parametri di cui alla prima parte del comma 6, dell’art. 5 – in concreto, il parametro specificamente correlato alla funzione assistenziale è quello delle “condizioni delle parti” nel quale resta assorbito quello dei “redditi di entrambi” – non consente di individuare soglie di riferimento minimamente sicure (come emerge sol che si tenti di individuare un possibile senso alla espressione «assistere il richiedente se e nella misura in cui questi manchi di disponibilità economiche adeguate rispetto alla propria condizione» e si voglia escludere di correlare l’adeguatezza allo stile di vita matrimoniale). Una indicazione potrebbe essere questa: – muovere da una soglia fissa, tendenzialmente sempre uguale8; – apportare alla soglia minima variazioni in aumento in relazione a quelle sole condizioni soggettive, quali l’età e lo stato di salute, suscettive di accrescere le necessità del richiedente; – evitare una relativizzazione della soglia alle “esigenze che l’ex coniuge, per il suo vissuto sia durante il matrimonio sia prima, ha maturato”9, che finirebbe per far riemergere lo status di vita matrimoniale. La soglia fissa non può essere identificata con il minimo necessario per soddisfare esigenze vitali – secondo il Tribunale di Milano, 22 maggio 201710, pari a circa 1.000,00 euro al mese – perché ciò porterebbe a far coincidere l’assegno divorzile con l’assegno alimentare (riconosciuto, ai sensi dell’art. 438 c.c., a chi «versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento») in contrasto con l’art. 9-bis, comma
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Senza dimenticare, come osservato dal Trib. di Milano nella sentenza 17 ottobre 2017, l’incidenza fiscale che, da un lato, riduce l’importo percepito dal beneficiario, dall’altro, attribuisce all’obbligato il diritto di dedurre dal reddito tassabile un importo pari a quello da corrispondere all’ex coniuge. 9 Così, invece, App. Genova, 12 ottobre 2017, n. 106; ma anche Cass., 7 febbraio 2018, nn. 3015 e 3016. 10 In <www.rivistafamilia.it>.
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1°, l. div. (che riconosce al divorziato, titolare di un assegno di mantenimento, il diritto ad un assegno a carico dell’eredità dell’ex coniuge, «qualora versi in stato di bisogno»), e può invece essere identificata con l’indice medio delle retribuzioni degli operai e impiegati11, ovvero quadri (definibile dalla media delle retribuzioni base dei vari contratti collettivi di lavoro e pari, secondo un calcolo molto approssimativo a circa 1.300,00 euro al mese, essendo la retribuzione base mensile, variabile a seconda dei contratti tra circa 1.200,00 e circa 1.500,00 euro), eventualmente adattato al costo della vita nel luogo dove l’avente diritto vive ed opera, perché questa soluzione trova un radicamento nella correlazione che può stabilirsi, nella ricerca del senso dell’espressione «mezzi adeguati a vivere una vita dignitosa», tra l’art. 2 e l’art. 36 Cost. Le critiche formulate contro la concezione tendenzialmente oggettiva espressa dalla sentenza n. 11504/2017 e dalle successive decisioni di merito allineatesi a tale sentenza, che avevano portato la Corte stessa ad attenuare i principi della sentenza suddetta affermando che il parametro della autosufficienza doveva essere definito in modo elastico, «in un ambito necessariamente duttile»12 e non inteso in senso soggettivo, quindi relativo e personale13, giustificate laddove la funzione dell’assegno era ravvisata nella sola assistenza ed era teorizzata la irrilevanza della vita matrimoniale dell’avente diritto14, non valgono allorché, nel diverso quadro delineato dalle Sezioni Unite nel quale l’assegno non ha sempre e solo quella funzione e la vita matrimoniale non è affatto “messa tra parentesi”, si tratta di definire la misura dell’assegno a favore di chi risulta non avere dato in concreto alcun contributo alla condizione comune. 5.3.2. (segue) l’ipotesi positiva. Il giudice del merito non è sempre tenuto a verificare se la differenza tra le condizioni delle parti è superabile.
Se (al contrario di quanto ipotizzato nel paragrafo che precede) emerge che la differenza tra le condizioni delle parti trova causa nelle scelte concordate in costanza di matrimonio – si può pensare al caso in cui il richiedente ha lavorato in casa e/o fuori, ed ha così contribuito alla formazione del patrimonio comune o, in modo indiretto, alla condizione o al miglioramento della condizione economica dell’altra parte –, il giudice del merito deve, secondo l’indicazione della Corte, verificare se tale differenza può essere superata dal richiedente l’assegno, mediante il recupero o il consolidamento della propria attività professionale, in rapporto all’età e alle concrete possibilità offerte dal mercato del lavoro. Questa indicazione va precisata e corretta.
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Come prospettato dal Trib. Udine, 1° giugno 2017, in Nuova giur civ. comm., 2018, 215 ss. Cass., 7 febbario 2018, n. 3015. 13 Cass. 26 gennaio 2018, nn. 2042 e 2043. 14 Cass. 10 maggio 2017, n. 11504. 12
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La verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio ha pienamente senso laddove non vi siano esigenze di perequazione o compensazione ma solo esigenze assistenziali: – se il coniuge richiedente non ha mezzi per vivere una vita dignitosa ma può procurarseli, l’assegno non spetta (si tratta di verifica delicata e complessa perché occorre avere certezza che questa possibilità si concretizzi, se non all’istante, in termini comunque compatibili con l’eventuale esaurimento di riserve di spesa del richiedente l’assegno; può essere infatti che questi abbia ricevuto un assegno di mantenimento e ne abbia accantonato una quota tale da consentire la sopravvivenza per un periodo sufficiente al reperimento di un posto di lavoro); – la verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio non si giustifica laddove vi siano esigenze perequative perché in tal caso l’assegno deve essere riconosciuto in ragione del fatto che il coniuge ha contribuito al patrimonio comune e alla condizione altrui e quindi a prescindere dal fatto che egli possa o non possa superare la situazione di squilibrio sussistente al momento della fine del rapporto; – la verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio ha senso laddove debbano essere soddisfatte esigenze di compensazione perché tale possibilità incide sulla perdita di guadagno nella fase post-matrimoniale (mentre non rileva per le esigenze di compensazione relative al guadagno perso dall’ex coniuge che abbia rinunciato ad occasioni di lavoro extrafamiliare, in costanza di matrimonio). La verifica va condotta sulle allegazioni delle parti e sulle prove da esse fornite. La parte richiedente deve allegare di non essere in grado di rendersi autonoma (in un’ottica solo assistenziale) o di superare lo squilibrio (in un’ottica compensativa); la parte richiedente ha anche l’onere di provare i fatti allegati, segnatamente di essersi attivata inutilmente per reperire una occupazione confacente alla propria età, alla propria situazione fisica, alla propria preparazione15. 5.4. (segue) La quantificazione dell’assegno: la durata del matrimonio e l’età del richiedente anche in rapporto con le funzioni dell’assegno.
Da ultimo il giudice, accertato lo squilibrio, accertato il radicamento dello squilibrio nelle scelte concordate, accertata, per quanto di rilievo, la impossibilità di colmare lo squilibrio, deve riconoscere l’assegno di ammontare «adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali
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In questo senso la Corte si è espressa nelle sentenze sopra citate nn. 11504 e 11538/2017. Nella giurisprudenza di merito, dello stesso avviso, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 13 dicembre 2017, in Foro it., 2018, I, 836, secondo cui «l’assegno compete esclusivamente all’ex coniuge che abbia provato di non disporre per ragioni obiettive di mezzi e adeguati per conseguire l’autosufficienza economica [e] tale onere non è assolto dal mero richiamo alle difficoltà del mercato del lavoro»; in senso contrario, App. Napoli, 22 febbraio 2018, n. 911, in Fam. e dir., 2018, 360, per cui «la prova della autosufficienza, costituisce un fatto impeditivo, ex art. 2697 c.c., all’attribuzione dell’assegno», talché, a seguito della imprescindibile allegazione del richiedente, sta alla controparte dimostrare che il richiedente aveva possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro.
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ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente»16. Va premesso che la durata del matrimonio è la durata della “convivenza” (coabitazione) matrimoniale e cioè il periodo che va dalle nozze alla separazione anche di fatto dei coniugi17. Va altresì premesso che “la durata del matrimonio, in presenza di figli”, fa riferimento anche al periodo successivo alla separazione per tutto l’arco di tempo in cui uno dei genitori si occupa in via prevalente, appunto, dei figli. In altre parole, per quanto riguarda il diritto all’assegno divorzile il matrimonio si protrae – ai fini della valutazione della sua “durata” – fino a che durano gli impegni di una delle parti non solo verso l’altro coniuge ma anche verso i figli18. È infine evidente che spesso età delle parti e durata del matrimonio sono dati correlati. Tanto premesso, l’indicazione della Corte, offuscata dalla sovrapposizione tra funzione perequativa e funzione compensativa19, richiede alcune precisazioni, anche al fine di coordinare, per quanto possibile, il soddisfacimento della funzione perequativa e compensativa con uno strumento, quale l’assegno di divorzio, potenzialmente perpetuo: – la durata del matrimonio ha un rilievo evidente in un’ottica perequativa o in un’ottica compensativa (il contributo complessivo è la risultante del contributo dato nel tempo, del lavoro extra domestico o domestico svolto durante il matrimonio; la perdita di guadagno subita è la risultante del mancato esercizio di attività remunerative extrafamiliari durante il matrimonio);
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Le aspettative compensabili devono essere non mere aspirazioni soggettive ma, quanto meno, concrete chance. La valutazione sulle aspettative si sostanzia, nella maggior parte dei casi, in una prognosi (postuma); la prova a carico del richiedente presenta, correlativamente, particolari difficoltà. Sul punto, v., già Tribunale di Pavia, 23 luglio 2018, tra le prime applicazioni dei principi enunciati dalle Sezioni Unite, ove, in primo luogo, si precisa che, in tale giudizio prognostico, trattandosi di comprendere quale avrebbe potuto essere il percorso di vita del richiedente l’assegno qualora non si fosse sposato e raffrontare la situazione che si sarebbe potuta creare in tal caso con quella determinata dal divorzio, «l’elemento da eliminare è il matrimonio e non il divorzio» e, in secondo luogo, si dice che il giudizio deve «essere condotto anche sulla base di fatti rientranti nella comune esperienza e di presunzioni semplici ex artt. 115 c.p.c. e 2729 c.c.». 17 Così, G. Dosi, Assegno di divorzio: come applicare la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018, in <www.lessicodidirittodifamiglia>, 5, il quale aggiunge: «Occorre ricordare che il concetto di “durata del matrimonio” è inteso in altre parti della legge sul divorzio in modo diverso. Per esempio nell’art. 9, comma 3, la ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite può tener conto, nella valutazione della durata del rapporto matrimoniale, anche dell’eventuale periodo di convivenza precedente al matrimonio con il coniuge superstite; nell’art. 12-bis la durata del matrimonio ai fini del diritto alla quota di TFR è, invece, quella rigorosamente legale dalle nozze al giudicato di divorzio». 18 In giurisprudenza, a temperamento dei principi delineati da Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, v. Trib. Arezzo, 5 luglio 2017, in Corriere giur., 2018, 636 ss., secondo cui: «non può prescindersi dalla considerazione che, in conseguenza del divorzio, i genitori restano legati dal comune impegno di garantire ai minori quelle stesse cure e assistenza del periodo matrimoniale. Ne consegue che all’ex coniuge prevalentemente collocatario dei figli va riconosciuta la disponibilità di risorse che non siano commisurate al mero parametro dell’autosufficienza, ma che tengano conto anche dell’impegno di accudimento dei minori, ai quali dovrà essere tendenzialmente garantito lo stesso tenore di vita pre-matrimoniale: sarà quindi necessario temperare il criterio dell’autosufficienza con un criterio perequativo legato sia all’esigenza di valorizzare i maggiori compiti di cura assunti nei confronti dei figli sia alla necessità di evitare eccessive e stridenti disparità tra lo stile di vita dei figli e quello del genitore che principalmente dovrà continuare ad occuparsi di loro». 19 Vedi sopra par. 3.
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– la durata del matrimonio e l’età del richiedente l’assegno possono essere determinanti per la relativa attribuzione a fini compensativi in caso di matrimonio anche di breve durata in cui il richiedente assuma su di sé l’onere di accudire i figli in tenera età per la fase post-matrimoniale, con conseguente limitazione delle possibilità di impiego lavorativo; – l’età, in una visione solo perequativa (essendo irrilevante ai fini dell’an dell’assegno posto che la parte ha diritto ad avere un assegno proporzionato al contributo dato alla famiglia e indipendentemente dall’età raggiunta al termine del rapporto), rileva imponendo di determinare l’entità dell’assegno periodico in modo che, nel tempo, secondo la prevedibile durata della vita dell’avente diritto, il valore complessivo dell’assegno eguagli il valore del contributo; – l’età ha rilievo, in un’ottica compensativa, legandosi alle occasioni perse o non interamente sfruttate di realizzazione in lavoro esterno e alla possibilità di recuperarle e, ancora, imponendo di determinare l’entità dell’assegno periodico in modo che, nel tempo, secondo la prevedibile durata della vita dell’avente diritto, il valore complessivo eguagli il valore da compensare. Nella liquidazione dell’assegno deve essere evitato l’errore di valutare in cumulo, per lo stesso momento di tempo, le opportunità sacrificate e il contributo dato alla famiglia: si tratta di elementi alternativi posto che non è possibile, contemporaneamente, dedicare attività al lavoro extrafamiliare (pur se lavoro extrafamiliare a domicilio) e alla cura della casa o all’accudimento dei figli (essendo invece possibile il cumulo delle due attività in momenti diversi dello stesso lasso di tempo, giornaliero, mensile, annuale che sia); sta al richiedente impostare la propria domanda facendo riferimento al reddito non percepito per aver lavorato in casa, dando rilievo alla funzione compensativa, o al valore del lavoro familiare, dando rilievo alla funzione perequativa. Ai fini della liquidazione del contributo dato con lavoro endofamiliare, la teoria economica indica il metodo del costo di opportunità e il metodo del costo di sostituzione: il primo consiste nel minore costo di ciò a cui, per effettuare una determinata scelta, è stato necessario rinunciare; il secondo, di più semplice utilizzazione nel campo giuridico, consiste nel valutare il tempo di lavoro dedicato alla produzione di un servizio all’interno della famiglia tramite la retribuzione media di chi potrebbe svolgere questa stessa attività a pagamento sul mercato (utilizzando cioè, come base e salvi i necessari adattamenti, le retribuzioni di collaboratrici domestiche).
6. Il ruolo residuale della funzione risarcitoria. Resta la funzione risarcitoria, di cui è indice il parametro delle “ragioni della decisione”. Si tratta di una funzione di scarso rilievo pratico: essa non vale, da sola, a giustificare l’attribuzione dell’assegno essendovi, per il coniuge che abbia ragione di lamentare il mancato rispetto degli obblighi sanciti dall’art. 143 c.c., il più specifico e preciso strumento del
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risarcimento del danno endofamiliare; può in definitiva solo incidere sulla misura dellâ&#x20AC;&#x2122;assegno determinata in funzione perequativa e compensativa o, in aumento, sulla misura necessaria al soddisfacimento della funzione assistenziale.
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L’ordinamento interno alla prova dell’omogenitorialità, tra ordine pubblico e interventi delle corti* Sommario : 1. I rapporti familiari, tra ampliamenti ed esclusività. – 2. Le relazioni omosessuali, dalla vita privata alla vita familiare e ritorno. – 3. Le unioni tra persone dello stesso sesso e l’accesso alla genitorialità. – 3.1. (segue) Coppie omosessuali e figli, tra diversificazione dei percorsi e obiettivi comuni.
The paper aims to make a distinction between rulings and things said about the samesex parented families and the production of their effects into our legal system. The national and international Courts have proposed their answers about a lot of aspects concerning the same-sex families, as for example the foreign documents of birth for the children born into a same-sex couple and the step-parent adoption of the children. These matters are very important, not only for the family structure in our legal system and the marriage debate, but also for aiming to the children’s well-being, that is a fundamental interest of our system and of the international law, because it concerns the most vulnerable members of the community.
1. I rapporti familiari, tra ampliamenti ed esclusività. Il diritto della famiglia ha di recente, e ancora una volta, evidenziato esigenze plurime, sottese alle differenti categorie che lo compongono ed espressione d’interessi molteplici, confermandosi la singolarità e al tempo stesso la complessità di tale canale del diritto.
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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Tra i profili oggetto di attenzione, deve in primo luogo segnalarsi quello incentrato sulla qualificazione soggettiva dei protagonisti della formazione sociale familiare: la distinzione tra le relazioni di tipo orizzontale, con le figure adulte di riferimento in primo piano, e quelle di tipo verticale, inerenti ai rapporti tra genitori e figli, è stata sostituita da una quasi esclusiva attrazione dell’interesse dell’ordinamento verso la definizione dei rapporti genitoriali e l’individuazione dei soggetti destinati all’esercizio delle funzioni proprie della relazione genitori/figli. La recente riforma normativa sull’unificazione degli status filiationis ha posto in evidenza tale aspetto, confermando, nell’ambito del rapporto parentale, la centralità della posizione della prole: se, infatti, la modifica degli artt. 74, 251, 258 c.c., in forza delle novità introdotte dalla l. n. 219/12, ha prodotto l’effetto rilevante di un reale ampliamento della rete parentale, determinando un’espansione degli effetti propri della relazione tra il figlio ed i componenti del complesso familiare, tutta la novella appare incentrata sul rafforzamento, all’interno della famiglia, della posizione dei discendenti, in qualità di principali destinatari di diritti (v. art. 315-bis c.c.) e di situazioni alle quali l’ordinamento riconosce un effettivo interesse alla tutela1. Proprio in riferimento alla species filiorum, e come rilevato in più occasioni dalla dottri2 na , un ulteriore riscontro del processo di rafforzamento di tale posizione si trae dalle novità introdotte dalla novella sull’acquisizione e le possibili modifiche dello status di figlio: l’attuale disciplina è, infatti, orientata al consolidamento della stabilità della condizione giuridica della prole in accordo con la volontà e l’interesse della categoria di riferimento, i figli, a presidio dei quali il legislatore ha disposto l’imprescrittibilità delle azioni esperibili. Sul versante soggettivo, la modulazione dei rapporti tra le categorie familiari ha evidenziato l’ampliarsi dello spazio riservato alle fonti dell’ordinamento, quale istituto caratterizzato dal fattore transnazionale, conservandosi tuttavia il ruolo riservato in ambito interno alla carta costituzionale, a presidio dei valori fondanti del sistema giuridico3. Il rapporto tra esigenze di ampliamento e istanze di esclusività emerge anche dalle riflessioni della dottrina, attenta al dualismo rappresentato dal pluralismo dei modelli familiari e dalle istanze di unicità della condizione inerente ai figli4, laddove l’ammissibilità
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Sul tema, Trib. Matera, 6 dicembre 2017, n. 1370, con nota di E. Andreola, Accertamento giudiziale della paternità e danno da mancato riconoscimento, su questa Rivista, 2018. V. pure R. Rosetti, Le azioni di stato, in Cagnazzo-Preite-Tagliaferri, Il nuovo diritto di famiglia, I, Milano, 2015, specie 84 ss., ove, premesso il sorgere del rapporto di filiazione per effetto del fatto stesso della procreazione, si conferma che presupposto dell’esercizio delle situazioni giuridiche che costituiscono il contenuto della condizione filiale è rappresentato dall’acquisizione del relativo status. Sulle criticità connesse al dies a quo del decorso del termine prescrizionale ai fini dell’azione risarcitoria, G. Facci, La prescrizione del diritto al risarcimento dei danni in caso di responsabilità genitoriale, in Famiglia e responsabilità, a cura di P. Cendon, Milano, 2014, 703 ss. R. Amagliani, L’unicità dello stato giuridico di figlio, in Riv. dir. civ., 2015, 557 ss. Sull’“inclinazione” della Corte costituzionale a “difesa dell’identità costituzionale”, F. Salerno, La coerenza dell’ordinamento interno ai trattati internazionali in ragione della Costituzione e della loro diversa natura, su osservatoriosullefonti.it, 1/18. Discute di “deriva individualista” della famiglia, M. Sesta, La famiglia tra funzione sociale e tutele individuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 567 ss.
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di un sincretismo tra le due voci consentirebbe di pervenire a una maggiore omogeneizzazione anche della più composita tra le due categorie. Il recente riconoscimento di effetti giuridici in favore delle relazioni affettive instaurate tra persone dello stesso sesso, per effetto dell’entrata in vigore della l. n. 76 del 2016, ha inevitabilmente determinato l’emersione delle criticità inerenti alla qualificazione in termini di genere sul versante genitoriale5. Sebbene il legislatore della novella abbia escluso le coppie delle unioni civili dall’ambito di applicazione della disciplina sulla filiazione, si evidenzia il tentativo di pervenire, mediante l’unicità della condizione di figlio, a una sostanziale unitarietà anche della corrispondente posizione genitoriale, non più confinata all’esclusivismo della coppia fondata sul matrimonio6. In questa direzione, determinante è apparso il processo di progressiva dissociazione tra genitorialità biologica e funzioni genitoriali “sociali” o anche, come in una recente ordinanza del tribunale di Pisa7, “intenzionali”: in origine connotata dalla coincidenza tra manifestazioni biologiche e riconoscimento del ruolo sul piano giuridico, e riservando inizialmente l’ordinamento in via esclusiva all’istituto dell’adozione la prima e singolare espressione di una possibile scissione tra le posizioni descritte, la categoria genitoriale ha affrontato un percorso inclusivo di apertura, alla cui attuazione si è pervenuti (anche) per effetto dell’approvazione della disciplina sulla procreazione medicalmente assistita, con la l. n. 40/’048. Gli interventi della Corte costituzionale, che hanno sin da subito fatto seguito all’entrata in vigore della novella, accogliendo le istanze sollevate dalle corti interne, hanno prodotto l’effetto di scardinare la logica proibitiva posta a fondamento della normativa dettata alla l. n. 40, del cui impianto originario resta attualmente il divieto di ricorso alla maternità mediante la gestazione per altri9. Ancora, rispetto alle limitazioni di natura soggettiva poste dal legislatore nel testo originario della l. n. 40, le decisioni della Consulta hanno determinato l’effetto ulteriore di ampliare la sfera dei legittimati a richiedere l’accesso alle tecniche di procreazione assistita, adeguando la normativa, oltre che a esigenze prioritarie di tutela della salute dei soggetti
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S. Rodotà, Diritto d’amore, Bari, 2015, in particolare 131 ss., ove si rileva che il genere costituisce l’oggetto delle decisioni che interessano omosessualità e transessualismo. R. Amagliani, I contratti di convivenza nella L. 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), I contratti, 2018, 321, che parla di “una realtà che vede nella famiglia fondata sul matrimonio un modello in fase tendenzialmente recessiva”. Trib. Pisa, ord. 15 marzo 2018, su De jure. V. M.L. Jabes, La procreazione assistita e tutela del nascituro, in Cagnazzo-Preite-Tagliaferri, Il nuovo diritto di famiglia, cit., 159 ss., ove si evidenzia che il presupposto soggettivo della diversità di sesso dei richiedenti presupponeva l’illiceità della procreazione di tipo eterologo, poi venuta meno con la nota decisione della Corte costituzionale n. 162 del 2014. Caduto il divieto, la questione era destinata a (ri)proporsi. Sulle “nuove” figure genitoriali, v. A. Valongo, Nuove genitorialità nel diritto delle tecnologie riproduttive, Napoli, 2017. V., sui giudizi di legittimità costituzionale sollevati in riferimento, in particolare, all’art. 4 co. 3, l. n. 40/04, Corte cost., ord. 22 maggio 2012, n. 150 in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 858 ss., e giurisprudenza ivi richiamata.
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coinvolti, anche alle istanze sociali scaturite in attuazione del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.10. La strada prospettata dalle corti interne nel tentativo di pervenire all’espansione delle figure idonee alle funzioni genitoriali, e fondata sulla riscrittura delle regole dettate dalla l. n. 40 del 2004, non è stata l’unica a essere percorsa: quale snodo centrale nella disciplina della filiazione, l’istituto dell’adozione dei minori rappresenta una fattispecie naturalmente idonea all’ampliamento del profilo soggettivo sul versante degli ascendenti11, salvaguardando l’interesse dei minori coinvolti alla continuità delle relazioni affettive instaurate12 e, al tempo stesso, stabilizzandone la condizione giuridica e rendendola efficace erga omnes. La lettura della disciplina sull’adozione in senso conforme all’interesse dei minori ha coinvolto molteplici dei suoi profili13, inducendo l’ordinamento (e la riflessione giuridica) a soffermarsi sull’unicità dello status dei figli versus la complessità delle figure adulte titolari di diritti e doveri14.
2. Le relazioni omosessuali, dalla vita privata alla vita familiare e ritorno.
La rilevanza giuridico-costituzionale delle famiglie composte da persone dello stesso sesso si deve all’intervento, in tempi recenti, della Consulta, chiamata a pronunciarsi, in data antecedente l’entrata in vigore della l. n. 76/’16, sulla conformità alla Costituzione delle disposizioni che, nell’ordinamento interno, non consentivano (e allo stato attuale non consentono) alle coppie omosessuali di esplicare l’interesse alla celebrazione del negozio matrimoniale15. La Corte costituzionale, anche alla luce di una sostanzialmente conforme giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, ferma nel riconoscimento in favore degli Stati
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Corte cost., 14 maggio-5 giugno 2015, n. 96, su www.giustiziacivile.com, 2015. Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Fam. dir., 2016, 1025 ss., con nota di S. Veronesi, in Foro it., 2016, 2342 ss., e in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1135 ss., con il commento di G. Ferrando, ivi, II, 1213 ss. 12 In questa direzione possono leggersi le novità introdotte dalla l. n. 173/’15, sul diritto dei minori affidati alla continuità del rapporto con gli affidatari: sul tema v. in senso critico P. Morozzo della Rocca, Sull’adozione degli affidatari dopo la l. n. 173/ 2015, in Fam. dir., 2017, 602 ss. 13 App. Genova, 1° settembre 2017, su De Jure. 14 Sulle norme che, in presenza di elementi di estraneità, fondano il favor per l’acquisizione dello status di figlio, v. art. 13 e 33, l. 218/1995, e in particolare l’art. 8 Conv. sui diritti del fanciullo di New York del 1989, ratificata dall’Italia con la l. n. 176/1991. 15 Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Foro it., 2010, I, 1361, con nota di F. Dal Canto, La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale, e R. Romboli, Per la Corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio; v. pure la decisione in Giur. it., 2011, 537, con nota di P. Bianchi, La Corte chiude le porte al matrimonio tra persone dello stesso sesso, e in Fam. dir., 2010, 653, con nota di M. Gattuso, La Corte Costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche la Corte di Strasburgo ha assimilato in qualche caso la terminologia che connota la famiglia omosessuale in termini di formazione sociale, sebbene a carattere familiare: v. sul punto Corte eur. dir. uomo, 28 settembre 2010, ric. 37060/06, J.M. v. Regno Unito, in www.echr.cohe.int. 11
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membri di un margine non irrilevante di apprezzamento in occasione di decisioni su materie socialmente ed eticamente sensibili16, ha definito le unioni tra persone dello stesso sesso in termini di formazioni sociali, i cui componenti sono tutelati, alla pari di tutti gli appartenenti a organismi plurisoggettivi, ex art. 2 Cost.17: dalla lettura del provvedimento della Corte interna si evince un’esitazione di fondo nel trarre indicazioni sulla qualifica della relazione omosessuale in termini di famiglia, pertanto connotata dal common core fondante di ogni rapporto di coppia, qual è la comunanza di vita e di affetti tra le parti. Nell’ambito della motivazione, tuttavia, un rinvio utile a inferire l’esistenza di un fondamento di affettività nella relazione omosessuale è quello al “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, per le cui manifestazioni, tuttavia, i giudici della Consulta hanno rinviato, come noto, all’intervento del legislatore18. L’eclettismo e anche in qualche caso l’ambiguità terminologica in sede di famiglie omosessuali non costituiscono un fenomeno del tutto estraneo alla prassi delle corti, in particolare di quelle interne19: nell’ambito di un provvedimento ove si decideva sull’affidamento familiare omogenitoriale di un minore, il Tribunale per i minorenni di Bologna decise in senso favorevole all’affido della minore interessata nel caso di specie a una coppia composta da persone dello stesso sesso e tuttavia alcuni passaggi della decisione in oggetto hanno destato qualche dubbio, sia con riferimento alla durata necessariamente predeterminata del provvedimento di affidamento familiare, sia in considerazione del richiamo alla composizione soggettiva degli affidatari, definiti non in termini di famiglia, ma con riferimento all’unione tra persone singole20. La sensazione è parsa quella di una generale conferma della posizione consolidatasi nella fase successiva alla decisione della Consulta del 2010, da intendersi in senso favorevole al riconoscimento dei diritti ed interessi meritevoli di tutela dei componenti della coppia omoaffettiva21, contraria al trattamento differenziato in considerazione del sesso e dell’orientamento sessuale e, tuttavia, restia a qualificare la condizione delle coppie omosessuali in termini di famiglia, quanto meno limitatamente alla relazione orizzontale tra le parti del rapporto e in assenza d’interferenze con la disciplina sulla filiazione22.
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Corte eur. dir. uomo, 24 giugno 2010, Schalk e Kopfs v. Austria, ric. 30141/04, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 1337 ss., con nota di M. Winkler. 17 Sul tema, P. Rescigno, Persona e comunità, Bologna, 1967. 18 V. R. Romboli, La sentenza 138/2010 della Corte costituzionale sul matrimonio tra omosessuali e le sue interpretazioni, in Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), Napoli, 2011, in particolare 12 ss., che respinge una lettura restrittiva della riconducibilità delle unioni omosessuali alle formazioni sociali. 19 Sull’adozione del minore da parte del single omosessuale, v. Corte Eur. dir. uomo, Grand Chambre, 22 gennaio 2008, ric. n. 43546/02, E.B. c. Francia, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 667, con nota di J. Long, I giudici socchiudono le porte dell’adozione agli omosessuali. 20 Sia consentito il rinvio a C. Murgo, L’affidamento familiare tra novità e nodi ancora da sciogliere, nota a Trib. Emila RomagnaBologna, decr. 31 ottobre 2013, in giustiziacivile.com, del 3 marzo 2014. 21 Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, su De jure, sulla protezione delle unioni omoaffettive, nella fase antecedente l’approvazione della l. n. 76/2016, in termini equiparabili alle unioni coniugali, ma limitatamente ai casi in cui l’assenza di una disciplina normativa fosse idonea a determinare una lesione dei diritti fondamentali. 22 La conferma si trae anche dalle decisioni più recenti, ove, come evidenziato dalla dottrina, la definizione del complesso sociale in
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La difficoltà nel percepire la composizione della coppia omosessuale in termini di comunità familiare pare confermata anche dalla recente l. n. 76/201623: la lettura delle disposizioni riservate alla disciplina delle unioni civili registrate non lascia trasparire alcuno spazio di emersione per la relazione affettiva e la comunanza di vita e di intenti che, poste a fondamento del matrimonio, si ritiene debbano essere anche all’origine dell’unione registrata. Nella direzione auspicata si muovono soltanto il co. 11, l. n. 76, nella parte in cui si precisa che dall’unione civile sorge, tra gli altri, il dovere reciproco di assistenza morale e materiale24, e anche, potrebbe ritenersi, il co. 12, l. n. 76, che ripercorre i passi segnati dalla previsione di cui all’art. 144 c.c., norma che si diffonde sul presupposto dell’accordo tra le parti del vincolo (coniugale) nella determinazione (e nell’attuazione) dell’indirizzo della vita familiare. Le difficoltà di ordine concettuale nell’inquadramento del rapporto tra persone dello stesso sesso in termini di relazione affettiva di tipo familiare non appaiono appannaggio esclusivo del sistema interno: anche i giudici a dimensione sovranazionale hanno compiuto un percorso di progressivo avanzamento, passando dall’affermazione e conseguente tutela di singole posizioni giuridico-soggettive, rispetto alle quali gli organi giudicanti hanno più volte affermato il superamento del margine di apprezzamento riservato agli Stati in materie socialmente ed eticamente complesse25, fino alla costruzione di una rete più ampia di rapporti, idonea a essere declinata secondo i paradigmi propri della formazione familiare26.
termini di “nucleo familiare” è utilizzata in riferimento alla composizione della coppia omoaffettiva e dei minori rispetto ai quali si richiede l’accertamento del rapporto di filiazione: sul tema, F. Longo, Le “due madri” e il rapporto biologico, nota a Cass., 15 giugno 2017, n. 14878, in Fam. dir., 2018, 5 ss., in part. 16, ove si rinvia alla decisione del Trib. Palermo, 6 aprile 2015, sull’adozione reciproca da parte dei rispettivi figli delle due partner di un’unione omosessuale. Si differenzia Trib. min. Bologna, 8 giugno 2017, di cui il testo su www.articolo29.it, ove si afferma che “la relazione della coppia si distingue per solidità affettiva, costanza nel tempo e comunanza di obiettivi, al punto da dovere essere considerata, a tutti gli effetti, una famiglia”. Sulla novella approvata di recente in Germania, F. Azzarri, “Ehe fu¨r alle”: ragioni e tecnica della legge tedesca sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 795 ss. 23 Di una normativa di compromesso, con riferimento in particolare al co. 20 l. n. 76, parla M. Bianca, Commento sub co. 20, l. n. 76/2016, in Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. n. 5/2017; d.lgs n. 6/2017; d.lgs n. 7/2017, a cura di C.M. Bianca, Torino, 2017, 266 ss. Sull’assenza di riferimenti alla famiglia discute anche C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, in Riv. dir. int. priv. proc., 2017, 38. 24 Il requisito dell’assistenza morale e materiale è ritenuto non effetto, ma elemento costitutivo della fattispecie con riferimento ai rapporti di convivenza paraconiugali da U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, in particolare 1758. 25 Corte eur. dir. uomo, 10 maggio 2001, ric. 56501/2000, Mata Estevez c. Spagna, su www.echr.coe.int. 26 Corte eur. dir. uomo, 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, ric. n. 18766/2011 e n. 36030/2011, su www.echr.coe.int e in Nuova giur. civ. comm. 2015, I, 918 ss., con nota di L. Lenti, Prime note in margine al caso “Oliari contro Italia”; si legga, ancora, M.C. Venuti, La corte eur. dir. dell’uomo e la non discriminazione tra coppie etero e omoaffettive, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 351 ss., commento a Corte eur. dir. uomo, 26 ottobre 2017, ric. 28475/2012, per la quale si determina “la sostanziale assimilazione delle coppie same-sex e di quelle eterosessuali sotto il profilo della generale aspirazione a conseguire copertura normativa e tutela della relazione affettiva da parte dell’ordinamento giuridico (punto 34, punto 39)”.
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L’intervento costante dei giudici europei ha evidenziato il profilo transnazionale delle vicende, materia che anche il recente legislatore nazionale ha tentato di affrontare, dando attuazione, sia pure parziale e in funzione evidentemente restrittiva, alla delega contenuta al co. 28 l. n. 76, mediante l’approvazione del d.lgs. n. 7/1727. La normativa, introducendo le disposizioni dal 32-bis al 32-quinquies nell’ambito della disciplina di diritto internazionale privato, dettata dalla l. n. 218/1995, ha prospettato una definizione delle questioni connesse alla celebrazione all’estero delle unioni tra persone dello stesso sesso, prevedendone la riconducibilità alla normativa interna dettata dalla l. n. 7628, sebbene l’intervento non abbia risolto del tutto le criticità prospettate dalla dottrina all’indomani dell’approvazione del provvedimento delega29.
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R. Marseglia, I matrimoni contratti all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso dopo la legge Cirinnà, su questa Rivista, 2017, 339 ss., in particolare 341 ss., che ritiene l’opzione interna “in linea coi princìpi costituzionali e sovranazionali che governano la materia in parola”. Di recente, la Corte di Cassazione ha ampliato l’ambito applicativo della normativa interna sotto il profilo temporale, dichiarando l’estensibilità delle previsioni dettate dalla l. n. 76 e dal decreto di attuazione, d.lgs. n. 7/’17, in particolare limitatamente all’art. 32bis l. n. 218/1995, anche ai matrimoni celebrati all’estero da cittadini in data anteriore all’entrata in vigore della novella sulle unioni civili registrate, l. n. 76/2016: sul punto, Cass., 14 maggio 2018, n. 11686, su De jure, ove si afferma che “L’applicazione delle nuove norme ai rapporti sorti prima della sua entrata in vigore non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione nell’ordinamento. L’esigenza primaria, indicata anche nel comma 28 dell’art. 1 della l. n. 76 del 2016, nel quale è definito l’ambito della delega al Governo nella materia, deve rinvenirsi proprio nella necessità di fornire un regime giuridico uniforme alle coppie che abbiano (già) contratto all’estero un matrimonio, unione civile od altro istituto”. I giudici hanno riconosciuto il diritto alla circolazione della condizione giuridica nascente dall’unione omoaffettiva in termini di status matrimoniale esclusivamente per le coppie composte da stranieri, in caso diverso imponendosi l’opzione normativa sancita dal legislatore, in particolare all’art. 32-bis l. n. 218/1995, per l’unione civile (v. pure art. 19 DPR 396/2000, come modificato dal d.lgs. n. 5/2017). Sul provvedimento della Corte di cui da ultimo, v. la nota critica di V. Miri su www.diritticomparati.it, del 14 giugno 2018. Sulle modalità di celebrazione all’estero del matrimonio o dell’unione civile tra due cittadini italiani ovvero tra soggetti dei quali soltanto uno sia titolare della cittadinanza italiana, v. l’art. 16 DPR n. 396 nella sua attuale formulazione; sulla trascrivibilità nel registro delle unioni civili degli atti compiuti all’estero, l’art. 134-bis, co. 3, lett. a), r.d. n. 1238/1939, prevede la trascrizione sia dell’atto che attesti la celebrazione delle unioni civili prodottesi all’estero sia dell’atto di matrimonio concluso all’estero tra persone dello stesso sesso, senza ulteriori specificazioni sul requisito della cittadinanza. Deve riportarsi sul tema la decisione recente della Corte di Giustizia, GC, 5 giugno 2018, C-673/16: per i giudici di Lussemburgo, ai fini dell’effettività del principio di libertà della circolazione dei familiari di cittadini dell’Unione europea, nella nozione di coniuge, di cui all’art. 2 e 3 Dir. UE/2004/38, rientrerebbe anche la condizione dello straniero che avesse contratto matrimonio con un cittadino dell’Unione. In questa direzione, la Corte ha accolto le istanze conclusive dell’avvocatura generale, su cui v. M.C. Venuti, La corte eur. dir. uomo e la non discriminazione tra coppie etero e omoaffettive, op. cit., 356. 28 Con riguardo alla posizione del convivente, l’art. 3 d.lgs. n. 30/07 stabilisce che “Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell’interessato, lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno delle seguenti persone”, tra le quali, al co. 2 lett. b), “il partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata (con documentazione ufficiale)”, con una modifica parziale del testo della direttiva, letta alla luce del divieto di discriminazione in considerazione dell’orientamento sessuale, di cui al cons. n. 31, dir. 2004/38/CE. Sul tema, v. ancora la recente Corte di Giustizia, 12 luglio 2018, sul caso C-89/17, ove la Corte ha sancito l’equiparazione al coniuge e al partner dell’unione civile registrata del soggetto legato da una convivenza stabile al cittadino dell’UE, al fine di non compromettere l’applicazione delle previsioni di cui alla citata dir. 2004/38/CE; cfr. pure Corte Suprema Federale USA, 4 giugno 2018, nella causa Masterpiece Cakeshop, ltd. v. Colorado Civil Rights Commission [584 U.S._2018], sul rapporto tra il divieto di discriminazione in conseguenza dell’orientamento sessuale e il diritto alla libertà religiosa e di parola: su www.diritticomparati.it, del 25 giugno 2018, con il commento di C. De Santis. 29 C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, op. cit., 46: l’A., richiamando il co. 35 l. n. 76/2016, evidenzia le criticità determinate dall’entrata in vigore della normativa.
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3. Le unioni tra persone dello stesso sesso e l’accesso alla genitorialità.
L’ordinamento non garantisce il diritto dei consociati alla genitorialità, rappresentando l’unico versante utile, dal quale è consentito procedere all’esame dei profili soggettivi e delle modalità di accesso al rapporto genitoriale, quello delle persone minori d’età, in favore delle quali il sistema giuridico ha costruito una rete volta a garantire la presenza di figure adulte di riferimento destinate alla realizzazione delle mansioni proprie del rapporto genitori/figli, con funzioni naturalmente sottese alla situazione giuridico-soggettiva qualificata in termini di responsabilità genitoriale. Nell’ordinamento interno ricorrono in particolare taluni istituti ove il diritto dei minori alla presenza delle figure genitoriali “entra in azione”, in assenza di un habitat familiare originario che garantisca quella preminente posizione d’interesse. A tali obiettivi risponde in primo luogo la fattispecie adottiva, ma anche, come evidenziato da taluni interventi del legislatore, la materia dell’affidamento familiare, ove una recente novella, riconoscendo il diritto dei minori affidati alla continuità affettiva, ha inteso essenzialmente garantire, anche in favore dei minori collocati in affidamento familiare, l’assolvimento dei compiti e delle funzioni proprie del rapporto (para)genitoriale30. Dall’istituto dell’adozione dei minori e dall’applicazione della connessa normativa attuata dai giudici nazionali la riflessione giuridica ha elaborato nel corso nel tempo l’inesistenza di un diritto a diventare genitori31, conclusione giustificata dalla contestuale presenza di una posizione giuridica prevalente, qual è quella del minore, e dalla tensione si direbbe esclusiva dell’ordinamento alla garanzia della poliedricità delle sue espressioni. Proprio la tutela di un interesse riferibile alla persona del minore, fattispecie di cui è stata evidenziata la difficoltà di tratteggiarne con precisione i confini32, ha rappresentato da sempre il parametro esclusivo di riferimento per i giudici chiamati a valutare la conformità ad esso di vicende familiari caratterizzate da contesti d’inserimento del minore alternativi a quelli tradizionali e (pre)definiti dal legislatore33. In questa direzione la Corte di Cassazione ha avuto occasione di precisare che fattore ostativo all’affidamento familiare di un minore presso una coppia di conviventi dello stesso sesso è rappresentato esclusivamente dalle condotte degli adulti idonee a costituire
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P. Morozzo della Rocca, Sull’adozione degli affidatari dopo la L. n. 173 del 2015, op. cit., 602 ss. Cass., 14 febbraio 2018, n. 3594, su De jure: la Corte ha confermato la decisione emessa in appello-bis, che aveva dichiarato lo stato di abbandono del minore anche in considerazione dell’età dei genitori naturali, non corrispondente alla differenza naturaliter intercorrente tra gli ascendenti e la prole. Nel provvedimento, i giudici di legittimità hanno tuttavia evidenziato che la conferma della dichiarazione di adottabilità della minore in questione è stata fondata su circostanze di obiettiva inidoneità dei genitori naturali allo svolgimento delle funzioni proprie del rapporto di filiazione. 32 Sul tema, v. L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 2016, 90 ss. 33 App. Salerno, 25 febbraio 1992, in Nuova giur. civ. comm., 1994, II, 177, con nota di R. Bitetti, ivi, sull’adozione in casi particolari del minore nato all’estero mediante un accordo volto alla realizzazione di una gestazione per altri. 31
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causa di pregiudizio per lo stesso minore, escludendosi, in assenza di evidenze scientifiche, l’incidenza dell’orientamento sessuale degli affidatari sulle personali capacità educative e sulla relazione affettiva tra gli adulti e il minore affidato34. Nella recente l. n. 76 del 2016, che ha regolato i presupposti, le modalità della celebrazione, gli effetti e le cause di scioglimento delle unioni civili, il legislatore, salvo che per il rinvio in negativo alla disciplina sull’adozione dei minori al co. 20 e per la successiva previsione di salvezza della normativa allo stato vigente in tema di adozione, ha sancito l’indifferenza normativa per le questioni inerenti ai rapporti di filiazione idonei a radicarsi nell’ambito di una relazione tra persone dello stesso sesso, sia o meno il rapporto riconosciuto dall’ordinamento nella forma dell’unione civile registrata. L’opzione adottata dal legislatore nazionale ha dunque rinviato alle corti il potere decisionale in ordine all’ammissibilità/liceità di rapporti che, mediante modalità concorrenti ovvero alternative a quelle tradizionali, sono tali da coinvolgere adulti e minori di età e idonei a sollevare l’esigenza indifferibile di procedere alla qualificazione giuridica dello status di tutti i soggetti interessati, in vista, ancora una volta, della tutela delle categorie deboli. D’altra parte, la specificazione dell’interesse a divenire genitori quale declinazione del più ampio diritto alle manifestazioni della persona si ritrova nella decisione della Corte costituzionale ove la Consulta ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni che, nell’ambito della disciplina dettata dalla l. n. 40/’04, sancivano il divieto di ricorrere alla PMA di tipo eterologo35. Nel provvedimento, la Corte ha delineato “la scelta di (tale) coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli” in termini di “espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che, come questa Corte ha affermato, sia pure ad altri fini ed in un ambito diverso, è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare. Conseguentemente, le limitazioni di tale libertà, ed in particolare un divieto assoluto imposto al suo esercizio, devono essere ragionevolmente e congruamente giustificate dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango”. Non si ritiene ostativa all’affermazione della libertà di autodeterminarsi nelle scelte procreative l’esistenza di un interesse del minore all’identità (biologico) personale: con riguardo allo status dei nati a seguito della tecnica di procreazione eterologa, la Corte ha ritenuto che la disciplina dettata all’art. 8 l. n. 40 sia sufficientemente generalizzata da pervenire a disciplinare anche la condizione giuridica del nato con tali tecniche; in riferimento, ancora, alle questioni connesse alla formazione dell’identità personale e alla ricer-
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Cass., 11 gennaio 2013, n. 601, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 432 ss. Corte cost., 9 aprile-10 giugno 2014, n. 162, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 802 ss., con nota di G. Ferrando, ivi, 820 ss.; v. M. Sesta, La famiglia tra funzione sociale e tutele individuali, op. cit., che individua nella procreazione il nucleo portante del complesso sociale che definiamo in termini di “famiglia”.
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ca delle origini, la Consulta ha qualificato la questione in termini di rilevanza, ma non di novità, essendo stata affrontata già in riguardo alla materia della filiazione adottiva. In quanto condizione rilevante, l’interesse del minore alla formazione e all’affermazione dell’identità personale costituisce una fattispecie da tempo al centro di un intenso dibattito che ha coinvolto le corti interne e sovranazionali36, risultando a tal fine centrali non soltanto l’instaurazione di relazioni familiari de facto, ma anche la coincidenza tra rapporti affettivo-giuridici e discendenza genetico-biologica ovvero la sua inesistenza (par. 153 ss.)37. 3.1 (segue) Coppie omosessuali e figli, tra diversificazione dei percorsi e obiettivi comuni.
La lettura dei provvedimenti intervenuti sul tema dei rapporti tra relazioni omoaffettive e rapporto di filiazione prospetta una triplice canalizzazione delle vicende presentatesi all’attenzione delle corti: i).il primo raggruppamento si compone di fattispecie prodottesi in prevalenza all’estero e rispetto alle quali gli organi giudiziari hanno confermato ovvero negato gli effetti, essenzialmente già prodottisi in altri ordinamenti, anche all’interno del sistema giuridico nazionale. Si tratta di vicende che attengono a fatti per i quali si attesta la complessità del sistema, in considerazione del rinvio eventuale alla disciplina di fonti eteronome, idonee a comporre il puzzle normativo, rimettendosi al giudice interno non soltanto il potere decisionale, ma anche l’abilità nella ricostruzione del percorso giuridico-argomentativo utile a rinvenire la disciplina applicabile38. Cosi, per la trascrizione degli atti di nascita formati all’estero, vietata per effetto della violazione del principio di ordine pubblico, ex art. 18 Dpr 396/’00, i giudici nazionali, anche in riferimento a vicende prodottesi prima dell’entrata in vigore della normativa sulla procreazione assistita, hanno riletto le norme della l. n. 40/’04 alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sull’assunzione di responsabilità per il fatto della procreazione e sulla tutela dell’interesse dei minori nati alla prosecuzione dei rapporti familiari39.
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Sul profilo dinamico, v. C. Camardi, Diritti fondametali e status della persona, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 7 ss. Corte Edu, GC, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli c. Italia, ric. 25358/12, su www.giustiziacivile.com, 2017, con nota di G. Grasso; in precedenza sullo stesso ricorso, Corte Edu, 27 gennaio 2015, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 828 ss., con nota di A. Schuster; Cfr. pure, Corte Edu, 25 settembre 2012, Godelli c. Italia, ric. 33783/2009, in Fam. dir., 2013, 537. 38 In qualche caso, la difficoltà principale è stata rinvenuta nell’individuazione della legge applicabile: sul tema, v. E. Bergamini, Problemi di diritto internazionale privato collegati alla riforma dello status di figlio e questioni aperte, in Riv. int. dir. priv. proc. civ., 2016, 324 ss. Si legga pure A. Vettorel, La circolazione dei documenti pubblici stranieri dopo il regolamento (UE) n. 2016/1191, in Riv. dir. int. priv. proc., 2016, 1067 ss., che trova applicazione anche ai fatti della nascita e della filiazione, escludendosi tuttavia, all’art. 2 “(a)il riconoscimento in uno Stato membro degli effetti giuridici relativi al contenuto dei documenti pubblici rilasciati dalle autorità di un altro Stato membro”. 39 Sul tema, S. Tonolo, La trascrizione degli atti di nascita derivanti da maternità surrogata: ordine pubblico e interesse del minore, in 37
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Centrale è la verifica della non contrarietà dell’atto formato all’estero ai contenuti dell’ordine pubblico: le corti evidenziano l’elasticità della nozione e la sua idoneità a consentire al giudice interno di porsi nella medesima condizione decisionale dell’organo giudicante straniero legittimato alla formazione del provvedimento, “con conseguente inibizione al giudice italiano di sovrapporre accertamenti sulla validità di un titolo valido per la legge nazionale di rinvio”40. Il profilo sostanziale della fattispecie è stato oggetto di recenti interventi della giurisprudenza, rivolti a definire un’essenziale distinzione tra ordine pubblico internazionale e ordine pubblico interno41: se la prima declinazione dell’istituto gode di una formulazione trans temporale e appare aperta alla condivisione dei valori costituzionali, suggerita o necessitata (anche) dalla ratifica delle convenzioni internazionali e dall’adesione del nostro Paese all’Unione europea, con riguardo alla nozione di ordine pubblico interno è parso che le corti prospettassero una versione meno diffusa e finalizzata alla difesa di principi e valori interni al sistema42. “Quanto alla nozione di ordine pubblico, si distingue correntemente tra ordine pubblico internazionale e interno, costituendo il primo un limite all’applicazione del diritto straniero, il secondo, un limite all’autonomia privata, indicato dalle norme imperative di diritto interno” (Cass., n. 14878/’17)43. Un recente intervento della Corte di Cassazione, ancora in materia di adozione pronunziata all’estero in favore di una coppia omoaffettiva, ha consentito di approfondire la riflessione sul tema, giungendo a una precisazione delle risultanze dei precedenti interventi44. Dalla lettura del provvedimento si trae la coesistenza della nozione di ordine pubblico interno e, dunque, il suo affiancamento a quella di ordine pubblico internazionale: se tale ultima fattispecie deve intendersi riferita ai principi portanti dell’ordinamento, in accordo con i diritti riconosciuti dalle Carte e dalle convenzioni internazionali, la prima nozione rinviene il proprio fondamento direttamente nella carta costituzionale e, in via ulteriore,
Riv. dir. int. priv. proc., 2014, 81 ss. In questi termini, v. Trib. Livorno, 12 dicembre 2017, che può leggersi su www.articolo29.it, per cui la novella concezione di ordine pubblico internazionale deve essere volta “alla progressiva neutralizzazione, in ottica transnazionale, della contrapposizione tra la dimensione internazionalistica e quella interna, con la conseguenza di sottrarre il contenuto del suddetto principio ad un legame troppo rigido con i mutevoli contenuti delle legislazioni vigenti nei singoli ordinamenti nazionali”. 41 Sul tema v. le riflessioni di C. Irti, Digressioni attorno al mutevole “concetto” di ordine pubblico, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 481 ss.; v. pure M. Franzoni, Danno punitivo e ordine pubblico, in Riv. dir. civ., 2018, 286 ss., ove l’A. interviene su Cass., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601, in Giur. it., 2017, 1787 ss. 42 Sulla ricostruzione della clausola dell’ordine pubblico, v. la recente Cass., 30 aprile 2018, n. 10321, su De jure, sul tema della limitazione posta dalla legge straniera applicabile al caso di specie alla risarcibilità del danno non patrimoniale: la Corte, riportando la giurisprudenza espressa sulla materia, ha rilevato che la nozione di ordine pubblica è, da un lato, strettamente collegata ai principi vigenti nell’ordinamento interno in un dato periodo storico; d’altra parte, i giudici hanno affiancato alla valutazione diacronica le esigenze di garanzia dei diritti fondamentali, comuni agli ordinamenti. 43 Si veda pure il caso, allo stato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte europea di Strasburgo, posto dal ric. 46808/16, R.F. e altri c. Germania, su www.hudoc.cohe.int. 44 Cass., 31 maggio 2018, n. 14007, su De jure. 40
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nella disciplina normativa che ne costituisce l’attuazione e che tramuta in effetti concreti i principi introdotti dalla partecipazione del Paese al consesso internazionale. La legislazione interna in tema di adozione dei minori, in qualità di “nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, (che, n.d.r.) inverano l’ordinamento costituzionale”, costituisce attuazione di uno dei principi fondamentali del diritto della famiglia, che riconosce in favore di ogni minore l’interesse a vivere e crescere all’interno di un nucleo familiare idoneo all’adempimento dei doveri e delle funzioni tipicamente genitoriali e, in tale misura, appare idonea a identificare un frammento di ordine pubblico. Nel quadro cosi descritto, topica permane la posizione dei minori interessati dalle vicende familiari, ove la presenza di relazioni affettive consolidate consente di porre in secondo piano anche l’assenza di legami genetico/biologici con coloro che richiedono la conferma di una posizione genitoriale in qualche caso già riconosciuta dall’autorità straniera45. Se la nozione di ordine pubblico si alimenta per effetto della normativa interna che consente di tradurre in regole i principi costituzionali, l’operatività dell’istituto potrebbe ammettersi in presenza di fattispecie, quali la maternità per sostituzione, compatibili con la normativa di taluni Paesi, ma fortemente sanzionate nell’ordinamento interno, ex art. 12 co. 6 l. n. 40/’04, in quanto caratterizzate da criticità evidenti, prima tra tutte la violazione del principio di dignità della persona, salvo che per i casi di gestazione per finalità etiche o super etiche, e l’attribuzione di un ruolo fondante, nel processo di formazione dell’uomo, all’accordo delle parti46. Il procedimento di rettifica dell’atto di nascita validamente formatosi in un altro Paese è stato oggetto anche del più recente e già citato intervento sul tema della Corte di Cassazione, prodotto successivamente alla nota decisione n. 19599/1647: tra i profili considerati dai giudici di legittimità, nella parte finale delle motivazioni, quasi un obiter dictum, può leggersi un rinvio a quanto sarà oggetto (anche) di successivi interventi della giurisprudenza interna, destinata a soffermarsi sulla declinazione soggettiva dell’interesse della coppia omosessuale alla realizzazione della genitorialità, aspetto che, come dimostrato
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V. ancora Trib. Livorno, 12 dicembre 2017, cit., e la più celebre App. Trento, 23 febbraio 2017, in Corr. giur., 2017, 935 ss., con note di G. Ferrando e E. Tuo, ivi; v. pure la decisione su Giustiziacivile.com del 28 giugno 2017. Nel caso sottoposto all’esame della corte di appello di Trento, di cui all’ordinanza della Corte di Cassazione del 27 febbraio 2018, n. 4382, che ha rinviato all’intervento delle sezioni unite in vista di una pronunzia utile alla precisazione dei contenuti del principio di ordine pubblico, la vicenda è stata caratterizzata dalla formazione di un atto di nascita correttamente prodotto all’estero e in seguito oggetto di un intervento di rettifica, al fine d’inserire nell’atto le indicazioni inerenti al genitore intenzionale, confermandosi anche nell’ordinamento interno la produzione degli effetti già compiuti all’estero; su un caso analogo a quello deciso dalla corte di Trento, App. Venezia, ord. 16 luglio 2018, che si legge su www.articolo29.it. 46 Cfr. App. Trento, 23 febbraio 2017, cit., che richiama la giurisprudenza sul punto, pur evitando di affrontare in via diretta le questioni suscitate dal ricorso alla maternità per sostituzione da parte dei partner in favore dei quali la corte ha riconosciuto la co-paternità. 47 V. Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Corr. giur., 2017, 181 ss., con nota di G. Ferrando, ivi.
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dalla giurisprudenza recente, coinvolge non soltanto profili di rilevanza transnazionale, ma richiama necessariamente il rispetto di principi di diritto interno. La Corte di legittimità, nel caso di specie, premette che l’accesso alla PMA di tipo eterologo, di cui le partner richiedenti avevano goduto all’estero, è riservata dalla l. n. 40/’04 esclusivamente alle coppie eterosessuali (art. 5 co. 1 l. n. 40), ma, nell’immediato prosieguo, i giudici rilevano che “trattandosi di fattispecie effettuata e perfezionata all’estero e certificata dall’atto di stato civile di uno Stato straniero, si deve necessariamente affermare (…) che la trascrizione richiesta non è contraria all’ordine pubblico internazionale”48. Si conferma, pertanto, l’essenzialità, ai fini della decisione, dell’estraneità della realizzazione della vicenda al sistema giuridico interno. ii).Il secondo complesso di vicende all’esame delle corti nazionali, che hanno evidenziato istanze di riconoscimento del rapporto di filiazione nell’ambito di una relazione omosessuale, attiene a fatti che hanno riportato l’attenzione sulla disciplina dell’istituto dell’adozione, corredata di luci e ombre, bisognosa probabilmente di una revisione normativa, sebbene debba riconoscersi che l’impianto della l. n. 184 del 1983, rubricata nel 2001 “Diritto del minore a una famiglia”, abbia ben resistito al decorso del tempo in quanto specificamente incentrato sulla tutela dei minori in difficoltà49. Si colgono, al riguardo, alcune criticità di fondo, prima tra tutte la difficoltà dell’ordinamento d’inseguire le nuove isole familiari e la variegata componente soggettiva che le caratterizza50. Anche al di fuori del perimetro del tema trattato appare evidente, infatti, la complessità di una disciplina destinata a tenere insieme le istanze di riconoscimento giuridico di legami affettivi e sociali in qualche caso già consolidati e valori fondanti, qual è l’interesse dei minori a una famiglia, idonei a essere modellati in considerazione del caso di specie51. Sui presupposti soggettivi dell’adozione dei minori c.d. legittimante, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo accolto un orientamento restrittivo52, riconoscendosi l’adozione con effetti pieni esclusivamente in favore delle coppie dotate dei requisiti di cui all’art. 6, l. n. 184, e rilevando la trasposizione della disciplina in esame anche all’adozione dei minori stranieri.
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Sulla differenziazione della disciplina tra atti formati da stranieri all’estero e atti prodotti in favore di cittadini italiani, S. Tonolo, La trascrizione degli atti di nascita derivanti da maternità surrogata: ordine pubblico e interesse del minore, op. cit., 87 ss. 49 Si veda L. Lenti, Quale futuro per l’adozione? A proposito di Corte eur. dir. uomo S.H. c. Italia e Cass. n. 25526 del 2015, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 785 ss. 50 Sul tema, v. le riflessioni di L. Carota, La tutela del rapporto con il genitore sociale nelle coppie dello stesso sesso e l’orientamento della corte costituzionale sulle modalità di conservazione del rapporto una volta cessata la convivenza (Corte cost. 20 ottobre 2016, n. 225), in Nuove leggi civ. comm., 2018, 270 ss. 51 In materia, una recente decisione del Tribunale dei minori di Genova ha riconosciuto gli effetti propri dell’adozione piena o “legittimante” al provvedimento dell’autorità straniera, pronunciatasi in favore di una cittadina italiana non coniugata: v. Trib. min. Genova, 8 settembre 2017, in Fam. dir., 2018, 149 ss., con nota di E. Pesce, ivi, 151 ss. 52 Cass., 14 febbraio 2011, n. 3572, in Fam. dir., 2011, 701 ss.
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La normativa sulle adozioni internazionali richiede, infatti, in favore degli aspiranti genitori adottivi residenti in Italia il rilascio di un decreto d’idoneità (art. 29-bis l. ad.) e, fatto salvo quanto previsto dall’art. 36 l. n. 184, delle adozioni pronunziate all’estero non è ammessa la trascrizione qualora gli adottanti siano privi dei requisiti posti dalla legge nazionale (art. 35 co. 6 lett. a), l. n. 184). Il provvedimento della corte genovese da ultimo citato fa applicazione della disposizione di cui al co. 4, art. 36, l. ad., che disciplina le fattispecie caratterizzate dalla permanenza all’estero degli adottanti per il periodo previsto dalla legge: in questo caso, la normativa prevede che il provvedimento straniero di adozione sia riconosciuto “a ogni effetto” nell’ordinamento interno, purché risulti conforme ai principi della Convenzione de l’Aja; da qui la criticità di una fattispecie, perfezionatasi all’estero, idonea a produrre effetti non espressamente contemplati dall’ordinamento nazionale53. L’istituto dell’adozione ha da sempre rappresentato un fertile terreno di sperimentazione delle relazioni familiari, alla luce della mancata coincidenza tra genitorialità genetico/ biologica e genitorialità affettivo/giuridica, costituendo il riassetto tra i due formanti all’origine del modello familiare disegnato dalla carta costituzionale e, prima ancora, dal codice civile. La dissociazione delineata, destinata a ripetersi anche nell’ambito della disciplina con l’accesso alle tecniche di procreazione assistita54, rappresenta il primitivo habitat nel quale è affiorata la speculazione sul profilo soggettivo della condizione genitoriale, individuando già in origine la normativa dell’adozione precise declinazioni dei soggetti chiamati a svolgere le funzioni genitoriali anche in assenza di un legame fondato sulla discendenza genetica diretta con i minori55. Sul tema in oggetto, e quale conseguenza della blindatura posta dall’ordinamento all’art. 6 l. n. 184, che anche allo stato attuale preclude l’adozione con effetti pieni ai soggetti privi dei requisiti definiti dalla norma, da tempo la riflessione giuridica ha evidenziato lo spazio concesso al nucleo di previsioni che compongono i c.d. casi particolari, di cui all’art. 44 l. ad., norma che opererebbe in funzione di clausola di apertura dell’ordinamento verso la sperimentazione di nuovi complessi familiari56: il segmento normativo che compone la disciplina dell’adozione in casi particolari appare, infatti, idoneo a offrire risalto e fondamento giuridico adeguati alla sfasatura tra storia personale e affetti, quali colonne portanti del momento istitutivo della famiglia57.
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Nel senso che la trascrizione del provvedimento avrebbe l’effetto di rendere pubblico l’acquisto della cittadinanza del minore adottato, E. Pesce, op. cit., 156 ss. 54 Corte cost., 9 aprile-10 giugno 2014, n. 162, cit. 55 V. art. 9 co. 4, l. n. 184/193: l’accoglienza in forma stabile di un minore per un periodo superiore a sei mesi è consentita da parte dei parenti entro il quarto grado in assenza dell’obbligo di segnalazione previsto dalla disposizione, presupponendo la fattispecie di cui alla norma l’adempimento da parte degli adulti di riferimento dell’assolvimento delle mansioni tipiche riferite a soggetti minori d’età. 56 In favore dell’eccezionalità della disciplina dettata per l’adozione dei minori in casi particolari, A. Morace Pinelli, Per una riforma dell’adozione, in Fam. dir., 2016, 723 ss. 57 S. Stefanelli, Status, discendenza e affettività nella filiazione omoaffettiva, in Fam. dir., 2017, in part. 88 ss.
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Fallito il tentativo che avrebbe condotto all’adozione del figlio del partner nell’ambito dell’unione civile sul modello della lett. b), art. 44, l. ad., come previsto dall’art. 5 del ddl Cirinnà nella formulazione antecedente all’approvazione del testo definitivo della l. n. 7658, in attuazione delle restrizioni poste dal co. 20 della normativa sulle unioni registrate, le corti interne hanno fatto ricorso ai casi particolari, indirizzando la corrispondente disciplina verso il riconoscimento di una condizione giuridica definita in capo ai soggetti deputati, anche soltanto in via fattuale, allo svolgimento delle funzioni genitoriali. L’opzione adottata dai giudici interni è stata incentrata sul ricorso all’applicazione del più generale tra i casi particolari disciplinati all’art. 44 l. ad., la lett. d)59, fattispecie fondata sull’impossibilità dell’affidamento preadottivo, con l’obiettivo originario di consentire l’inserimento di minori “difficili” in nuclei familiari adeguati, in seguito mutato in quello di fornire un adeguato riconoscimento giuridico a formazioni plurisoggettive di diversa provenienza60. Per effetto dell’applicazione della disciplina sulle adozioni di minori in casi particolari si è delineata, pertanto, l’ammissibilità di un percorso parallelo tra i rapporti di filiazione eventualmente caratterizzanti le relazioni omoaffettive e le manifestazioni della genitorialità proprie delle famiglie c.d. ricomposte, giungendosi a rappresentare l’ampio ventaglio dei nuovi complessi plurisoggettivi familiari61. La nota decisione della Corte di Cassazione del 2016 è stata preceduta e seguita da numerosi provvedimenti dei giudici del merito62, di cui in particolare taluni hanno evidenziato criticità riferibili all’individuazione della disciplina applicabile63 ovvero, ancora, riconducibili alle discusse tematiche connesse alla titolarità e all’esercizio della responsa-
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Anteriormente all’approvazione della l. n. 76 del 2016, si legga F. Romeo e M.C. Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del DDL in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Nuove leggi civ. comm., 2015, 971 ss. 59 Cosi Trib. Pisa, ord. 15 marzo 2018, cit., che, in riferimento alla norma in questione, parla di “clausola, meno determinata e in un certo senso di chiusura, della lettera d) della richiamata disposizione («impossibilità di affidamento preadottivo»)”. 60 Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in questa Rivista, 2016, n. 3-4, con nota di Claudia Irti, L’adozione del figlio del convivente (omosessuale): la Cassazione accoglie l’interpretazione evolutiva dell’art. 44, let. D) l. n. 184 del 1983, 131 ss. 61 Il tentativo di tracciare profili comuni alle due fattispecie può leggersi in Trib. Palermo, 13 aprile 2015, in Corr. giur., 2015, 1554. 62 Per un’ampia ricostruzione delle decisioni sul tema, v. L. Carota, La tutela del rapporto con il genitore sociale nelle coppie dello stesso sesso e l’orientamento della corte costituzionale sulle modalità di conservazione del rapporto una volta cessata la convivenza (Corte cost. 20 ottobre 2016, n. 225), op. cit., 278 ss., in specie nota 27, a cui può aggiungersi la recente App. Napoli, 4 luglio 2018. 63 Sulla distinzione tra adozione nazionale il cui provvedimento è emesso all’estero e adozione internazionale di un minore straniero da parte di cittadini italiani, v. Corte cost., 7 aprile 2016, n. 76, su Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1172 ss., con nota di L. Marzialetti, ove la Consulta ha rigettato la questione di legittimità riferita agli artt. 35 e 36 l. ad.: la decisione della Corte è richiamata da Cass., 31 maggio 2018, n. 14007, cit., che ha confermato il provvedimento francese di adozione reciproca con effetti pieni dei figli di una coppia omoaffettiva. Sulla prevalenza della disciplina di diritto internazionale privato, in specie definita agli art. 64 ss. l. n. 218/1995, v. pure App. Genova, 1° settembre 2017, cit., che richiama App. Milano, 5 ottobre 2016; nel caso genovese, uno dei due adottanti godeva (anche) della cittadinanza italiana. In senso difforme, Trib. min. Firenze, 7 marzo 2017, in Fam. dir., 2017, 559 ss., con nota di S.P. Perrino, ivi, 565 ss., che ha ritenuto applicabile la previsione di cui all’art. 36 co. 4 l. ad., in forza del rinvio alla specialità della normativa posto dall’art. 41 co. 2 l. n. 218/1995.
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bilità genitoriale, in quanto istituti interessati anche dalla disciplina dell’adozione in casi particolari64. Quanto all’ultimo tra i profili accennati, nell’ipotesi di adozione corrispondente a uno dei casi di cui all’art. 44 co. 1 l. n. 184, l’ordinamento non definisce le questioni connesse alla responsabilità verso il minore adottato, escludendosi soltanto, per effetto di quanto previsto al co. 20, l. n. 76/16, che in questa ipotesi la nozione di coniuge possa ritenersi estesa alla persona del partner dell’unione civile65. Un’indicazione normativa si trae dall’art. 48 l. ad., che si riferisce al caso di adozione del figlio del coniuge e all’adozione da parte della coppia di coniugi, prevedendosi in tali casi l’esercizio congiunto della responsabilità66. In materia, diversi sono gli scenari prefigurabili, con riferimento a un aspetto della disciplina che non risulta essere stato particolarmente indagato: dal combinato disposto delle previsioni di cui all’art. 46 l. ad., che si sofferma sul rifiuto dell’assenso da parte del genitore esercente la responsabilità, e della norma di cui all’art. 50, che, quale clausola di salvaguardia generale, ipotizza una ripresa dell’esercizio della responsabilità genitoriale in capo ai genitori biologici, pare potersi trarre il fondamento di una differenziazione tra la condizione antecedente e quella successiva all’adozione del minore. Nella fase precedente l’adozione, potrebbe darsi l’esistenza di genitori biologici esercenti la responsabilità: successivamente al provvedimento di adozione, la complessità della situazione giuridico-soggettiva caratterizzata dalla responsabilità genitoriale passerebbe in capo all’adottante, potendo il giudice disporre la ripresa in favore dei genitori “naturali” del minore adottato in caso di condotte gravi dell’adottante o degli adottanti (art. 50 l. n. 184). L’incertezza cagionata dalla nebulosità normativa sull’esatta individuazione dei soggetti deputati all’esercizio della responsabilità genitoriale, per effetto del provvedimento di adozione in casi particolari, appare dovuta a una semplificazione della vicenda concepita dall’ordinamento, per effetto della quale: 1) in caso di adozione da parte di una coppia coniugata o del coniuge del genitore dell’adottato, la responsabilità genitoriale spetta ad entrambi; 2) nell’ipotesi di adozione del single, l’esercizio della responsabilità sul minore dovrebbe caratterizzare la relazione dell’adottante verso l’adottato; tale ultima modulazione della situazione rappresentata dalla responsabilità genitoriale, che le recenti novelle
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Si legga, al riguardo, Trib. min. Palermo, 3 luglio 2017, che solleva un’interessante questione inerente al profilo della responsabilità genitoriale in sede di adozione in casi particolari; in direzione opposta alla decisione, v. Trib. min. Bologna, 31 agosto 2017, in Foro it., 2018, I, 1536, condivisa da App. Napoli, 4 luglio 2018, cit. 65 In senso diverso, v. V. Barba, Unione civile e adozione, in Fam. dir., 2017, 381 ss. 66 Una soluzione analoga è configurata dall’art. 365 code civil, come modificato dall’art. 16 loi 2016-1547 del 18 novembre 2016; la norma citata, al co. 1, prevede che “L’adoptant est seul investi à l’égard de l’adopté de tous les droits d’autorité parentale, inclus celui de consentir au mariage de l’adopté, à moins qu’il ne soit le conjoint du père ou de la mère de l’adopté ; dans ce cas, l’adoptant a l’autorité parentale concurremment avec son conjoint, lequel en conserve seul l’exercice, sous réserve d’une déclaration conjointe avec l’adoptant adressée au directeur des services de greffe judiciaires du tribunal de grande instance aux fins d’un exercice en commun de cette autorité”.
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hanno configurato in via unitaria, sembrerebbe astrattamente idonea a riprodursi anche nel caso di adozione da parte del partner dell’unione civile, operando l’ordinamento il riconoscimento di un rapporto di filiazione (adottiva) in via esclusiva tra l’adottante e l’adottato. Il provvedimento di adozione produrrebbe, pertanto, l’effetto di sottrarre la responsabilità genitoriale agli adulti di riferimento della famiglia di provenienza del minore adottato (v. art. 50 l. ad.)67: tale lettura, tuttavia, appare difficile da ammettersi nel caso in cui l’adozione sia pronunciata verso il convivente o partner del genitore dell’adottato, in qualità di adulto appartenente al medesimo complesso familiare nel quale è collocato il minore destinatario del provvedimento di adozione68. Se, infatti, la lettura delle fattispecie è nel senso della configurazione di un nucleo familiare per quanto possibile omogeneo, deve ammettersi, anche per effetto della valorizzazione del profilo dell’accordo tra le parti genitoriali, l’esercizio in comune della responsabilità in favore del minore adottato69. Per questa via si determinerebbe il superamento della discrasia riscontrabile tra l’accento posto dalle corti sulla condivisione tra i partner del progetto genitoriale, aspetto richiamato nella quasi totalità delle decisioni sul tema in quanto fonte della relazione ex filiis, e la singolarità delle specifiche posizioni dei soggetti interessati, determinandosi una rimodulazione della verticalità della relazione genitoriale verso l’estensione in senso orizzontale dell’unità familiare70. iii).Last but not least, i giudici nazionali sono stati chiamati all’esame di vicende ove momento centrale è apparsa l’istanza in favore del riconoscimento in via immediata dei rapporti di filiazione sorti o destinati a sorgere nell’ambito di una famiglia omoaffettiva, connotati in qualche caso da profili di estraneità per il fatto di essersi realizzato il momento iniziale della procreazione all’estero, in conseguenza dei divieti vigenti sul territorio nazionale; diversamente, altre fattispecie hanno evidenziato l’esigenza di ampliamento delle categorie soggettive legittimate ad accedere alle pratiche utili all’attuazione dell’interesse a diventare genitori.
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Sulla valenza della titolarità della responsabilità genitoriale, con espresso riferimento all’ambito della disciplina dell’adozione in casi particolari, v. Cass., 16 luglio 2018, n. 18827, su De jure. 68 Su tali temi, v. già J. Long, nota a Trib. min. Roma, 30 luglio 2014, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 109 ss., ove l’A. ha ritenuto inammissibile la produzione degli stessi effetti descritti in seguito dal tribunale di Palermo; v. pure E. Bilotti, L’adozione del figlio del convivente. A Milano prosegue il confronto tra i giudici del merito, nota a Trib. min. Milano, 17 ottobre 2016, Trib. min. Milano, 20 ottobre 2016 e App. Milano, 9 febbraio 2017, in Fam. dir., 2017, 983 ss. 69 In questo senso, E.A. Emiliozzi, L’adozione da parte dei partners di unioni civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2018, 799 ss.; v. pure M. Gattuso e A. Schillaci, Il dialogo tra le corti minorili in materia di stepchild adotion, su www.articolo29.it, del 17 settembre 2017, e la giurisprudenza ivi riportata. 70 V. Corte Edu, 18 gennaio 2018, Lucas-Hallier e altri c. Francia, ric. n. 46386/10, su www.hudoc.coe.int, ove la questione del riconoscimento delle funzioni genitoriali ha svolto un ruolo rilevante anche nell’attribuzione dei congedi per paternità. Nel caso di specie la Caf (Casse d’allocation familiales) ha riconosciuto il ruolo di coparents in favore delle ricorrenti e dei figli di ciascuna, negando tuttavia il congedo di paternità. La Corte di Strasburgo ha ritenuto le decisioni nazionali non in contrasto con il principio del divieto di discriminazione fondato sul sesso e sull’orientamento sessuale.
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Tra le ordinanze delle corti interne spiccano quelle del tribunale di Pisa e del giudice di Pordenone71: entrambe individuano lo snodo centrale della questione nel fondamento “non gender neutral” della disciplina interna volta a regolare i rapporti di filiazione. Ciò ha condotto le corti a sollevare l’istanza di legittimità costituzionale delle disposizioni che, nel sistema giuridico nazionale, non consentono la formazione in via immediata di un atto di nascita che indichi in qualità di genitori due persone dello stesso sesso. Premesso che la vicenda all’esame del collegio pisano si caratterizza per taluni profili di estraneità della fattispecie, in conseguenza della cittadinanza statunitense della madre gestazionale e del conseguente acquisto della medesima cittadinanza da parte del nato per effetto di quanto previsto all’art. 33 l. n. 218/1995, il provvedimento pone in risalto tutti i profili contraddittori di una ricostruzione sistematica del dettato normativo che, pur funzionalizzata al perseguimento dell’obiettivo di pervenire a qualificare le unioni omoaffettive in termini di famiglia, riconoscendo l’idoneità dei componenti del consesso composto da persone dello stesso sesso allo svolgimento delle funzioni genitoriali, esclude l’accertamento diretto del rapporto di filiazione, quanto meno limitatamente alla relazione tra il genitore intenzionale e il minore, la cui nascita è da ricondursi all’accesso alla procreazione assistita ovvero, in caso di copaternità, al ricorso alla maternità per sostituzione. Analogo al caso pisano, ma in assenza di elementi di estraneità, è il caso deciso dal tribunale di Bologna il 3 luglio 2018: nell’estesa motivazione del provvedimento, che cita tutti i precedenti più recenti sul tema delle relazioni omoaffettive, ma singolarmente pare ritagliare a discrezione i passaggi essenziali della nota decisione della Cassazione n. 19599/’16, non è mai citata la disposizione di cui all’art. 5 l. n. 40/’04, che vieta l’accesso alla procreazione assistita alle coppie omosessuali, sperimentando, per altro, l’ammissibilità di un’interpretazione estensiva finalizzata alla coincidenza tra il presupposto della convivenza tra i richiedenti l’accesso alla procreazione assistita, di cui agli artt. 5 e 8 l. n. 40/’04, e i conviventi di cui alla definizione che occupa il co. 36 l. n. 76/1672. A evidenziare la rincorsa delle corti rileva il provvedimento del tribunale di Pordenone, pronunciatosi su un ricorso ex art. 700 c.p.c., avente ad oggetto l’accesso alla procreazione assistita da parte di una coppia omosessuale legata da unione civile: i giudici hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 l. n. 40/’04, con riferimento alla restrizione soggettiva all’accesso alle tecniche di procreazione assistita, limitato come noto alle coppie eterosessuali, e dell’art. 12 co. 2, 9 e 10, l. n. 40, disposizione che ha mantenuto la previsione di gravi sanzioni per il caso della violazione del precetto sopra indicato73.
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Trib. Pisa, 15 marzo 2018, cit.; Trib. Pordenone, 2 luglio 2018, che possono leggersi su www.articolo29.it. Trib. Bologna, 6 luglio 2018, su www.articolo29.it. 73 La violazione dell’art. 4, l. n. 40/’04, inizialmente prospettata dalle ricorrenti, non viene in seguito sollevata dal tribunale: la disposizione pone, ai fini dell’accesso alle tecniche disciplinate dalla legge, il fondamento obiettivo dell’assoluta sterilità/infertilità, rinvenendosi tuttavia, con riguardo a quest’ultimo profilo, la prospettazione da parte delle interessate di una ricostruzione interpretativa idonea a ricondurre anche le coppie omosessuali nel novero di quelle sterili o infertili, riportando la discussione sulle finalità procreative dell’unione eterosessuale (si veda pag. 6 dell’ordinanza). 72
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L’indagine sui presupposti soggettivi dell’accesso alla PMA, come disciplinati dalla l. n. 40/04, non è nuova, soffermandosi la dottrina più attenta sia sulle ragioni della previsione di cui all’art. 5, l. n. 40, sia sugli effetti discendenti dall’evento della nascita in conseguenza della violazione dei divieti posti dalla novella74. E se in passato si è parlato di un diritto “obbligato” a regolamentare le tecniche scientifiche utili alla “produzione” dell’uomo75, allo stato attuale il diritto pare (in)seguire il fatto76: su tale piano paiono collocarsi taluni recenti provvedimenti che hanno ritenuto la diretta applicabilità delle disposizioni dettate agli artt. 8 e 9 l. n. 40 anche ai figli nati nell’ambito di relazioni omoaffettive, da ciò derivando la configurazione dello status dei figli, generati per effetto del ricorso alla procreazione eterologa, nei medesimi termini previsti dal legislatore in favore delle coppie richiedenti, ma dotate dei requisiti di cui all’art. 5 l. n. 4077. In un caso l’effetto di cui sopra sorge direttamente dalla lettura costituzionalmente orientata delle norme vigenti, che impongono la preminenza dell’interesse del nato, quali che siano le vicende all’origine della nascita; snodo centrale del provvedimento in esame è la nota decisione della Corte costituzionale del 2014 sulla dichiarazione d’incostituzionalità delle disposizioni, art. 4 co. 3 l. n. 40 e delle norme a questa collegate, che vietavano il ricorso all’eterologa, consentendo la lettura della decisione di trarre più di un’indicazione verso il rafforzamento dell’interesse alla realizzazione della genitorialità78. Dalle pronunzie più recenti si traggono certamente tutti i presupposti utili a una progressiva accelerazione nel processo avviato già con la decisione della Consulta del 2014, n. 162, e proseguito con i provvedimenti sulla produzione di effetti interni di atti formati all’estero e con gli interventi sulla step-child adoption, evidenziando gli interventi in esame
74
Sul tema v., ex multis, G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in Riv. dir. civ., 2005, 99 ss.: per l’A., se le condizioni soggettive dei richiedenti l’accesso rispondono all’esigenza di tutelare il concepito, dubbi sono sollevati con riguardo alla definizione dello status dei nati in seguito alla violazione della normativa. 75 Cosi v. C. Labrusse-Riou, Produrre l’uomo: con quale diritto? Riflessioni “laiche” sulla procreazione medicalmente assitita, in Riv. dir. civ., 2006, 387 ss. 76 Sul tema si legga V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2018, 405 ss. 77 Trib. Pistoia, decr. 5 luglio 2018; App. Napoli, 4 luglio 2018, cit., su www.articolo29.it. In particolare il provvedimento del giudice campano ritiene non necessario l’esperimento della questione di costituzionalità dell’art. 5 l. n. 40, poiché le disposizioni fondanti della normativa sono quelle dettate agli art. 6, 8, 9 l. n. 40/’04, e prospettandosi un’abrogazione parziale tacita dell’art. 5 l. n. 40 per effetto dell’applicabilità della clausola di equivalenza di cui al co. 20 l. n. 76/’16, che si ritiene operativa nel caso di specie. 78 Cosi Trib. Pistoia, 5 luglio 2018, cit.: il tribunale prende atto della disciplina normativa, che vieta l’accesso alla PMA alle coppie omoaffettive, prospetta futuri e nuovi scenari proprio in conseguenza di Corte cost. n. 162/’14, e suggerisce il superamento della disciplina attualmente vigente alla luce di ragioni essenzialmente affettive e familiari. Colpisce nel provvedimento anche una sorta di slalom normativo tra la disciplina interna e quella vigente all’estero, che in qualche caso emerge direttamente dalla lettura della decisione: “Dall’insieme delle considerazioni sin qui svolte deriva, da un lato, che il concetto di coppia di cui alla L. 40/2004 deve essere oggi inteso in senso lato, comprensivo anche della coppia omosessuale, e, dall’altro lato, che pur in presenza di fecondazioni eterologhe vietate in Italia ma praticate all’estero (ovvero quelle tra coppie same sex) il principio di tutela del superiore interesse del minore impone di riconoscere allo stesso le due madri che hanno manifestato il consenso pieno e consapevole di cui all’art. 6 – o meglio nelle forme previste dallo Stato in cui è praticata la PMA, sempre che assicurino garanzie analoghe a quelle di cui all’art. 6 con riferimento alla piena e irretrattabile assunzione di responsabilità̀ da parte della coppia” (5.10).
561
Caterina Murgo
le istanze delle parti della relazione omoaffettiva, le quali “sembrano rivendicare per sé il ruolo pieno di genitori, non accontentandosi dello status adozionale”79. Ci si chiede, dunque, se, nella ricerca di cosa sia la famiglia, il quadro sociale e le sue evoluzioni siano divenuti tali da riuscire a scalfire il nucleo fondante del modello costituzionale, quanto meno limitatamente all’apparire sulla scena di interessi concorrenti ma ugualmente rilevanti80. I recenti interventi delle corti interne e sovranazionali hanno certamente evidenziato l’avanzare di complessi familiari guidati da un interesse prevalente, qual è quello dei nati al pieno godimento delle situazioni giuridico-soggettive che il sistema giuridico riserva loro, che operano non soltanto sul piano patrimoniale, ma in particolare su quello della vicinanza delle relazioni familiari. Al tempo stesso, stante la “sensibilità” dei temi posti, la giurisprudenza interna offre indicazioni utili a valorizzare l’intangibilità dei principi fondanti del sistema: la salvaguardia della dignità dell’uomo, in primo luogo81; ancora, l’interesse dell’ordinamento non alla realizzazione di predeterminati modelli sociali in spregio al desiderio di realizzazione personale dei singoli82, quanto piuttosto quello di pari rango in favore del recepimento e anche dell’attuazione diretta di fattispecie idonee a fungere da filtro a istanze esclusivamente subiettive, dovendosi d’altra parte ammettere le richieste fondate su ragioni condivise e riconoscibili dal sistema giuridico83.
79
M. Dogliotti, Davanti alle sezioni unite della corte di Cassazione i “due padri” e l’ordine pubblico. Un’ordinanza di rimessione assai discutibile, su www.articolo29.it. 80 Si leggano le riflessioni di F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, specie 514 ss. 81 Cass., 11 novembre 2014, n. 24001, in Corr. giur., 2015, 471 ss., con nota di A. Renda, e in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 235 ss., con nota di C. Benanti; v. pure App. Milano, 25 novembre 2015-25 luglio 2016, su De jure; cfr. pure A. Renda, La surrogazione di maternità e il diritto della famiglia al bivio, in Eur. dir. priv. 2015, 415 ss. 82 V. ancora G. Oppo, Procreazione assistita e sorte del nascituro, op. cit., specie 108 ss. 83 Tra le decisioni più recenti, v. Trib. Roma, 11 maggio 2018.
562
Giurisprudenza Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2018, n. 9178; Travaglino Pres. - Rubino Relatore Famiglia di fatto – Convivenza more uxorio – Assenza di coabitazione – Illecito civile – Ingiustizia del danno – Legittimazione al risarcimento – Sussistenza Atteso che la convivenza si caratterizza come un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale sono spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale, anche ai fini del risarcimento del danno da perdita del familiare, la coabitazione non è elemento costitutivo della famiglia di fatto, bensì semplice indizio o elemento presuntivo della sua ricorrenza, da considerare unitariamente agli altri elementi allegati e provati.
(Omissis)
tura, dell’appaltatore, del responsabile dei lavori,
Fatto. 1. P.A. propone ricorso per cassazione,
del progettista e direttore dei lavori, R.S.
articolato in tre motivi ed illustrato da memoria, nei confronti di S.L., Immobiliare Albergo F. M.
Venivano chiamate in causa le rispettive compagnie assicuratrici per la responsabilità civile.
s.r.l., I. s.r.l., T.A. e F. S. s.p.a., per la cassazione
Parallelamente, il figlio della vittima, S.L., intro-
della sentenza n. …/2013, depositata dalla Cor-
duceva autonoma causa di risarcimento danni nei
te d’Appello di Milano il …, con la quale veniva
confronti delle medesime persone.
confermato il rigetto della sua domanda di risar-
Sia la P. che il S. raggiungevano un distinto
cimento danni, patrimoniali e non patrimoniali,
accordo con l’arch. Si. e con la compagnia assi-
proposta quale convivente del defunto sig. S.N. in riferimento ai danni conseguenti alla morte di questi, che perdeva la vita precipitando nel vano ascensore dell’immobile di proprietà della Immobiliare Albergo F. M. mentre erano in corso lavori di ristrutturazione. Resistono con controricorso la U. S. s.p.a., già F. S. s.p.a., e, con controricorso congiunto, Immobiliare Albergo F. M. s.r.l., I. s.r.l. e T.A. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata. 2. Questi i fatti, per quanto ancora interessa:
curatrice di questi, A., nei confronti dei quali il processo veniva dichiarato estinto. 3. Il Tribunale di Como rigettava la domanda della P., affermando che mancasse la prova del rapporto di convivenza, in quanto le prove orali avevano dato esito contrastante, e dalle risultanze istruttorie emergeva che il S. risultava residente in (Omissis) al momento della sua morte, mentre la P. abitava nel paese di (Omissis). 4. A sua volta, la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza qui impugnata, rigettava l’appello, ritenendo che dal contesto probatorio non emergesse a sufficienza la prova dell’esistenza di una
a seguito della morte di S.N., precipitato nel 2007
convivenza stabile tra il S. e la P., nonostante vi
nel vano ascensore dell’Albergo F. M., nel 2009
fossero elementi idonei a ritenere sussistente un
P.A. iniziava una causa di risarcimento danni, as-
rapporto affettivo e una relazione di coppia, ma
sumendo che il defunto fosse all’epoca dei fatti
non un legame caratterizzato da quella stabilità e
suo convivente, pensionato e che lavorasse (ben-
continuità che legittimano il convivente di fatto ad
ché non in regola) nel cantiere della Immobiliare
agire per i danni da perdita del rapporto affettivo
Albergo F. M. s.r.l., ove la I. s.r.l. stava svolgendo
ed eventualmente per i danni patrimoniali conse-
lavori di ristrutturazione. Chiedeva il risarcimento
guenti alla morte del convivente.
dei danni nei confronti del proprietario della strut-
Diritto
563
Giurisprudenza
1. I motivi. Con il primo motivo, la ricorrente
ventuale mancanza della coabitazione, possono
denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art.
ritenersi sicuri indici di un legame stabile, la cui
2 Cost., in riferimento alla qualificazione della fat-
perdita sia risarcibile.
tispecie giuridica della famiglia di fatto, nonché
Con il secondo motivo, la P. denuncia la vio-
la violazione dell’art. 2059 c.c., in riferimento al
lazione dell’art. 2735 c.c., in riferimento alla con-
riconoscimento dei presupposti per il risarcimento
fessione stragiudiziale resa da S.L., figlio del suo
in caso di lesione del rapporto familiare di fatto.
defunto convivente e parte del giudizio, in un al-
Sostiene la ricorrente che la corte d’appello
tro processo. Sostiene che la corte d’appello non
non avrebbe rispettato la nozione di famiglia di
avrebbe preso in adeguata considerazione le si-
fatto esistente nel diritto vivente, in cui all’elemen-
gnificative dichiarazioni rese dal figlio della vittima
to soggettivo dell’affectio si associa l’elemento og-
nella comparsa di risposta depositata nel giudizio
gettivo della stabile convivenza.
in cui il S.L., sul presupposto proprio della convi-
Segnala che, nella evoluzione giurisprudenziale, in ragione delle modifiche della vita sociale, si è recepito che, se è necessaria ai fini dell’accertamento dell’esistenza di una convivenza di fatto l’esternalizzazione della stabilità del legame affettivo, alla quale deve associarsi la condivisione di compiti ed obblighi, non necessariamente tale esternalizzazione può ravvisarsi esclusivamente in presenza della coabitazione. Richiama in particolare Cass. 7128 del 2013, che ha affermato che non necessariamente la convivenza deve coincidere con la coabitazione e definisce la convivenza come “lo stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”. Sostiene che la corte d’appello, nel valutare le istanze istruttorie, abbia errato non solo nella valutazione in fatto (svalutando l’importanza di indici
venza tra il defunto padre e la signora P., in conseguenza degli obblighi spontaneamente assunti dalla P. in ragione di tale convivenza, chiedeva che anche la ricorrente fosse chiamata a sostenere le spese per i funerali del defunto S. Anche all’interno di questo motivo, la ricorrente si duole del fatto che la corte d’appello non abbia idoneamente considerato alcune circostanze di fatto, quali i movimenti sul conto corrente comune, il fatto che tale conto corrente comune fosse stato acceso nel comune di residenza della P., e che su di esso fossero addebitate le utenze di casa P., a riprova del fatto che il S. si era spostato a coabitare con la ricorrente. Segnala che la corte d’appello non avrebbe neppure considerato che il medico curante del defunto abitava nel paese della P., e che questa era stata indicata nel rapporto
assai significativi della esistenza di una relazione
dei carabinieri come convivente, era stata chiama-
stabile), ma anche in diritto, laddove si è limitata a
ta dai carabinieri al verificarsi della sciagura ed
considerare la famiglia di fatto (rectius il rapporto
aveva consegnato loro l’agenda del S. e le sue bu-
di convivenza), come fondato imprescindibilmen-
ste paga dalle quali risultava che questi lavorasse,
te sulla coabitazione, senza considerare altri im-
benché “in nero”, nel cantiere dove si era verifica-
portanti e concordanti elementi (l’esistenza di un
to l’incidente. Ribadisce anche in questa sede che
conto corrente comune, la disponibilità in capo
le indicate circostanze, ove considerate nel loro
alla ricorrente delle agende lavorative del defun-
complesso, avrebbero dovuto portare il giudice di
to, il fatto che i carabinieri si rivolsero a lei subi-
merito ad affermare l’esistenza di una situazione
to dopo l’incidente, indicandola a verbale come
di convivenza stabile tra la ricorrente e il de cuius,
convivente del defunto) comprovanti l’esistenza di
presupposto per la risarcibilità del danno da per-
un rapporto stabile e duraturo che, anche nell’e-
dita del convivente di fatto.
564
Valerio Brizzolari
Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 Cost.,
bilità quali evidenziate dalla giurisprudenza della Suprema Corte”.
dell’art. 2043 c.c., e dell’art. 2059 c.c., in riferimen-
Esaminava, per pervenire a queste conclusioni,
to al mancato riconoscimento della prestazione
i vari elementi allegati a sostegno della convivenza
risarcitoria chiesta dalla ricorrente.
dalla P. (l’esistenza di un conto corrente comune,
Ribadisce il proprio diritto al risarcimento del
aperto nel Comune di residenza anagrafica della
danno patrimoniale e non patrimoniale, correlando
ricorrente, l’indicazione nelle buste paga del de-
il danno patrimoniale alla perdita delle entrate del
funto della residenza nel Comune di residenza
S., consistenti nella sua pensione e nelle sue ben-
anagrafica della ricorrente, la disponibilità da par-
ché discontinue prestazioni lavorative remunerate,
te della P., presso la sua abitazione, del calendario
i cui proventi confluivano tutti sul conto corrente
con le annotazioni autografe del S. indicanti i gior-
cointestato, e, quanto al risarcimento del danno
ni lavorati e delle buste paga del defunto, l’indica-
non patrimoniale, ne chiede la liquidazione, in via
zione della residenza del S. presso la P. risultante
equitativa, sulla base della valutazione presuntiva
dai verbali redatti nell’immediatezza del sinistro,
del danno conseguente alla perdita della relazione
dalla relazione del medico di base di entrambi,
affettiva stabile, richiamando per la quantificazio-
dalla transazione conclusa con il progettista), ri-
ne le tabelle milanesi. Il terzo motivo quindi è teso
tenendo insuperabile il dato che la residenza del
ad evidenziare i criteri per la quantificazione delle
defunto fosse rimasta, fino al momento della sua
due voci di danno, patrimoniale e non patrimo-
morte, nel diverso Comune di L.
niale, in ordine ai quali la corte d’appello non ha
Concludeva affermando che le circostanze por-
preso posizione, perché si è fermata al passaggio
tate dalla P. nulla chiarissero “in ordine ad una
precedente, ritenendo la ricorrente non legittimata
effettiva convivenza che travalichi una relazione di
a chiedere il risarcimento in quanto non titolare di
affettività e frequentazione, per sfociare in una si-
un rapporto di convivenza stabile, idoneamente
tuazione relazionale connotata da quei caratteri di
caratterizzato da coabitazione ed affectio.
stabilità e durevolezza richiesti ed individuati dalla
Il primo motivo è fondato e va accolto per le ragioni che seguono, con assorbimento del secondo e del terzo.
giurisprudenza di legittimità perché la stessa possa essere assimilata ad un vincolo matrimoniale”. Nella sua ricostruzione, e nelle conclusioni in
2. La motivazione della corte d’appello. La cor-
diritto cui perviene la corte d’appello, escluden-
te d’appello non esclude affatto che tra i due sus-
do la tutelabilità della posizione della P. in quanto
sistesse una relazione affettiva stabile, al contrario,
esclude la configurabilità di un rapporto di convi-
dà atto della esistenza di un rapporto affettivo e di
venza tra i due, sono ravvisabili due diversi errori,
una relazione di coppia, ed in altro punto afferma
uno di metodo e l’altro di merito.
che gli stessi erano caratterizzati da “serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo”.
3. Violazione del principio della necessità di una valutazione globale degli indizi. Preme sotto-
Tuttavia, afferma che gli elementi allegati, che
lineare che il primo errore in cui incorre la corte
“possono ritenersi di riscontro ad un rapporto af-
territoriale non è un errore sulla valutazione de-
fettivo ed a una relazione di coppia tra la predet-
gli elementi di prova raccolti, che naturalmente fa
ta e il de cuius, dall’altro risultano assolutamente
parte del giudizio di merito e non è in questa sede
carenti dal punto di vista del supporto probatorio
rinnovabile, né tanto meno questa Corte intende
necessario ad attestare un legame di convivenza
rinnovarla, sovrapponendosi al controllo del giu-
che abbia le caratteristiche di continuità e di sta-
dice di merito e duplicandolo: la Corte di cassazio-
565
Giurisprudenza
ne non può né intende in alcun modo sostituirsi
za degli indizi può far sì che essi si saldino l’uno
al giudice di merito nella valutazione delle prove.
con l’altro per formare il quadro complessivo dal
È invece un errore di diritto sul metodo da
quale emerge come provato nella sua esistenza, il
utilizzare al fine della corretta valutazione del
fatto ignoto.
materiale probatorio, che deve essere in questa
La corte d’appello ha invece adottato l’opposto
sede rilevato: acquisita una pluralità di elemen-
procedimento logico valutativo del frazionamen-
ti che costituiscono indici rilevanti – nella stessa
to o della parcellizzazione: essa ha prima “scom-
affermazione e quindi considerazione del giudice
posto” il coacervo indiziario in svariati momenti
di merito – in ordine alla configurabilità di una
distinti, per poi inferirne che nessuno di questi
determinata situazione produttiva di ricadute giu-
segmenti, valutati inter se distantibus, assurgesse a
ridicamente rilevanti, essi non possono essere poi
necessaria dignità probatoria sotto il profilo della
presi in considerazione atomisticamente, ma devo-
certezza, gravità, concordanza. È il criterio stes-
no essere considerati nella loro unitarietà e nella
so della concordanza che impone la valutazione
loro interazione l’uno con l’altro.
complessiva del materiale probatorio, allo scopo
La prova presuntiva (o indiziaria) esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel
di ricostruire se i vari frammenti probatori fossero atti a ricostruire, se collegati, un’unica immagine.
corso dell’istruzione, valutandoli nel loro insieme
4. La nozione giuridicamente rilevante della
e gli uni per mezzo degli altri. È, pertanto, erroneo
convivenza di fatto e il rilievo recessivo della co-
l’operato del giudice di merito il quale, al cospet-
abitazione.
to di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti
Il secondo errore, in diritto nel quale è incorsa
singolarmente, per poi giungere alla conclusione
la corte d’appello, ricade sulla nozione di convi-
che nessuno di essi assurga, autonomamente, a
venza di fatto giuridicamente rilevante e meritevo-
dignità di prova (v. Cass. n. 7303 del 2012; v. anche
le di tutela anche sotto il profilo risarcitorio.
Cass. n. 26022 del 2011, recentemente richiamata
La corte d’appello, nel rigettare la domanda
da Cass. n. 12022 del 2017; v. anche Cass. n. 5374
risarcitoria, pur formalmente richiamando la giuri-
del 2017).
sprudenza di questa Corte che ha elaborato la no-
L’errore in cui cade il giudice di appello nel
zione di convivenza di fatto, l’ha di fatto svuotata
caso in esame consiste proprio nella valutazione
dall’interno, escludendo che vi fosse un supporto
frazionata dell’insieme degli indizi pur raccolti e
probatorio idoneo ad attestare le caratteristiche
sottoposti al suo esame. La prova presuntiva, difat-
di continuità e stabilità della convivenza richieste
ti, nella sua innegabile delicatezza, postula, quale
dalla giurisprudenza di legittimità a fronte del fat-
prius operazionale del procedimento logico che la
to, cui attribuisce rilevanza dirimente, che la resi-
assiste, un’analisi dei singoli fatti sottoposti all’esa-
denza del de cuius fosse rimasta fino al momento
me del giudice di tipo “composito”, di tipo, cioè,
della morte in L., ovvero in luogo diverso da quel-
sinergico/valutativo, e non una scomposizione di-
lo di residenza della P..
sgregata di tipo meramente addizionale e atomistica dei fatti medesimi.
È noto che si riconosce al convivente di fatto il diritto, in caso di perdita del convivente, ad una
Se infatti il singolo elemento, atomisticamente
uguale tutela rispetto al soggetto coniugato in ca-
considerato, può non essere idoneo e sufficiente
so di perdita del coniuge, e tuttavia che, per non
a costituire piena prova di un fatto ignoto (nel no-
estendere indefinitamente le maglie delle situazio-
stro caso, l’esistenza di una vera e propria convi-
ni risarcibili fino a ricomprendervi legami labili e
venza tra il S. e la P.), la concorrenza e concordan-
non sufficientemente stabilizzati e meritevoli di tu-
566
Valerio Brizzolari
tela, questa Suprema Corte ha negli anni elaborato
Giova richiamare, in particolare, il principio di
una nozione di famiglia di fatto, o di convivenza
diritto affermato da Cass. n. 7128 del 2013, in base
tutelabile, all’interno della quale all’elemento sog-
al quale integra di per sé un danno risarcibile ex
gettivo della relazione affettiva stabile si accompa-
art. 2059 c.c., giacché lede un interesse della per-
gni l’elemento oggettivo della reciproca, sponta-
sona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell’art.
nea assunzione di diritti ed obblighi.
2 Cost. – il pregiudizio recato al rapporto di con-
Come questa Corte ha avuto già modo di affer-
vivenza, da intendere quale stabile legame tra due
mare, infatti, “Il diritto al risarcimento del danno
persone connotato da duratura e significativa co-
da fatto illecito concretatosi in un evento mortale
munanza di vita e di affetti, anche quando non sia
va riconosciuto – con riguardo sia al danno mo-
contraddistinto da coabitazione.
rale, sia a quello patrimoniale, che presuppone,
Deve aggiungersi che è anche necessario pren-
peraltro, la prova di uno stabile contributo econo-
dere atto del mutato assetto della società, collegato
mico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente ‘more uxorio’ del defunto stesso, quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini anagrafici” (Cass. n. 23725 del 2008). In altri casi si è affermato che “Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente ‘more uxorio’ ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale”. (Cass. n. 12278 del 2011).
alle conseguenze di una prolungata crisi economica ma non originato soltanto da queste, dal quale emerge che ai fini della configurabilità di una convivenza di fatto, il fattore coabitazione è destinato ad assumere ormai un rilievo recessivo rispetto al passato. Non può non considerarsi infatti che: – la scelta del luogo di abitazione talvolta non può essere conforme alle preferenze delle persone o alle loro scelte affettive ma può essere necessitata dalle circostanze economiche; – la impossibilità dello Stato di mantenere tutte le provvidenze dello stato sociale porta talora gli individui a doversi attivare in supplenza del supporto assistenziale mancante, e a sostenere degli spostamenti o a scegliere il luogo di abitazione per accudire le persone del proprio nucleo familiare che ne abbiano bisogno, o comunque privilegiando le necessità di accudimento piuttosto che le esigenze della vita affettiva; – il mercato del lavoro non garantisce una regola-
Deve sottolinearsi che, nell’illustrazione degli
re coincidenza del luogo di svolgimento del rap-
elementi identificativi della convivenza di fatto,
porto lavorativo con il luogo di abitazione familia-
all’interno della giurisprudenza della Corte, se la
re; la ricerca della miglior collocazione lavorativa
coabitazione è stata finora indicata come un indice
porta a prescindere dalla provenienza geografica
rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia
e a spostarsi con maggiore facilità in un luogo di-
di fatto, individuando l’esistenza di una casa co-
verso da quello di provenienza o anche da quello
mune all’interno della quale si svolge il program-
ove si ha il proprio centro affettivo, per migliori
ma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto
prospettive di carriera o per realizzare un progetto
un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di
che nella propria città o nel proprio paese sareb-
per sé, fosse determinante al fine di escludere la
be impossibile realizzare. A ciò si aggiunga, come
configurabilità della convivenza.
ulteriore componente di cambiamento del modo
567
Giurisprudenza
di vivere e di concepire sia i rapporti sociali in ge-
tà, esistente ed insopprimibile, di delimitare la sfe-
nerale che le relazioni interpersonali, la maggiore
ra della risarcibilità alle situazioni giuridicamente
facilità ed economicità sia dei contatti telefonici e
meritevoli di tutela, e la necessità, di non inferiore
a video che dei trasporti.
dignità, di tutelare tutte le situazioni meritevoli di
Tutti questi fattori di un cambiamento sociale
tutela senza trascurarne alcuna.
che è ormai verificato nella società comportano
Il dato della coabitazione, all’interno dell’ele-
che si instaurino e si mantengano rapporti affettivi
mento oggettivo della convivenza è quindi attual-
stabili a distanza con frequenza molto maggiore
mente un dato recessivo. Esso deve essere inteso
che in passato (non solo nelle famiglie di fatto ma,
come semplice indizio o elemento presuntivo del-
ugualmente, anche all’interno delle famiglie fon-
la esistenza di una convivenza di fatto, da consi-
date sul matrimonio) e devono indurre a ripensare
derare unitariamente agli altri elementi allegati e
al concetto stesso di convivenza, la cui essenza
provati e non come elemento essenziale di essa,
non può appiattirsi sulla coabitazione. Sono tutte situazioni in cui può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia. Esistono anche realtà in cui le famiglie, siano esse di fatto o fondate sul matrimonio, si formano senza avere neppure, per un periodo di tempo più o meno lungo, una casa comune, intesa come casa dove si svolge la vita della famiglia, in quanto ognuno dei due partners è tenuto per i propri impegni professionali o per particolari esigenze personali, a vivere o a trascorrere la gran parte della settimana o del mese in un luogo diverso dall’altro.
la cui eventuale mancanza, di per sé, possa legittimamente portare ad escludere l’esistenza di una convivenza. La nozione di convivenza di fatto, intesa come un rapporto di fatto che si caratterizzi, oltre che per l’esistenza di una relazione affettiva consolidata, per la spontanea assunzione di diritti ed obblighi, tali da darle una stabilità assimilabile a quella coniugale, peraltro trova ora il suo supporto normativo nella L. n. 76 del 2016, che all’art. 1, definisce i conviventi di fatto come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità,
Alla luce di tutti questi elementi non ha più
la reciproca assistenza morale e materiale, fondata
alcun senso appiattire la nozione di convivenza
in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli
sulla esistenza di una coabitazione costante tra i
obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’as-
partners, lasciando fuori dai margini della tutela
sunzione volontaria di un impegno reciproco”.
ogni altra relazione, che pur sia stabile sia affetti-
Colpisce che questa realtà non sia stata colta
vamente sia sotto il profilo della reciproca assun-
affatto nella sentenza impugnata, che esclude da
zione di un impegno di assistenza e di collabora-
ogni forma di tutela la P. negandone la qualità di
zione all’adempimento degli obblighi economici,
convivente di fatto, dopo aver passato in rasse-
ma sia dotata di un assetto organizzativo della vita
gna una sequela di indici pur esistenti, per il solo
familiare diverso da quello tradizionale.
fatto, ritenuto dirimente, che il S. avesse lasciato
Negare tutela a tutte queste molteplici situazioni vorrebbe dire perdere il contatto tra la necessi-
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la propria residenza anagrafica nel Comune dove vivevano il figlio e il nipote.
Valerio Brizzolari
Conclusivamente, la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che deciderà anche sulle spese del presente giudizio e si atterrà ai seguenti principi di diritto: – si ha convivenza more uxorio, rilevante anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale: – ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo meramente esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto
corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento. P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio. (Omissis)
Danno da morte del convivente: la coabitazione non è presupposto necessario per ottenere il risarcimento* Sommario : 1. Il fatto e la decisione. – 2. Il requisito della coabitazione ai fini della risarcibilità del danno. – 3. La motivazione. – 4. Alcune considerazioni.
The Italian Court of Cassation defines the elements necessary to prove the relationship of two individuals outside marriage. In the specific case of the wrongful death, the surviving partner is entitled to claim civil damages for the loss only if the existence of the relationship
*
Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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Giurisprudenza
itself can be proven. Cohabitation per se is not, according to the Court of Cassation, an essential part of a relationship, but rather only a presumptive factor, requiring for it to be appreciated alongside other pieces of evidence. Hence, the fact that two individuals may not live together does not prevent the surviving one to claim compensation against the person liable for their partner’s death.
1. Il fatto e la decisione. Il caso sottoposto alla Suprema Corte e deciso con la sentenza in esame riguarda una fattispecie che è stata più volte analizzata dalla giurisprudenza, ovvero il risarcimento del danno subìto da un soggetto in seguito alla morte del convivente1. La pronuncia, tuttavia, rispetto ai precedenti dei quali si darà conto nel prosieguo, presenta un aspetto di novità, non tanto dal versante della risarcibilità del danno – oramai ammessa senza riserve –, quanto piuttosto da quello della definizione del fenomeno della convivenza e, in particolar modo, degli elementi che lo caratterizzano. Senza voler anticipare la (condivisibile) soluzione offerta dalla Cassazione, per il momento è opportuno ripercorrere brevemente la vicenda fattuale e processuale conclusasi con il provvedimento in analisi. Un manovale, lavoratore irregolare in un cantiere, perde la vita cadendo nel vano ascensore di un albergo, mentre sono in corso lavori di ristrutturazione nell’edificio. La sua compagna conviene in giudizio il proprietario della struttura, l’appaltatore, il responsabile e il direttore dei lavori, nonché il progettista, per il risarcimento dei danni, assumendo di essere convivente del soggetto venuto a mancare. Sia nel primo che nel secondo grado di giudizio la domanda viene rigettata, poiché non risulta provato il rapporto di convivenza. Il Tribunale respinge la richiesta di risarcimento del danno fondando la propria decisione principalmente su un dato formale: l’attrice e il defunto risultavano residenti in luoghi diversi. La Corte d’Appello, invece, dal canto suo, valutate complessivamente tutte le circostanze del caso, comprese alcune dichiarazioni testimoniali dal contenuto contrastante, non ha ritenuto sussistente
1
In generale, per una panoramica delle conseguenze giuridiche, e non solo, connesse all’evento morte, si veda senz’altro P. Rescigno, voce Morte, in Dig. IV, disc. priv., sez. civ., XI, Torino, 1994, 458 ss. Per un’efficace analisi, invece, anche in prospettiva comparatistica, delle questioni più strettamente legate al risarcimento del danno da morte, si segnala l’interessante contributo di F.P. Patti, Danno da morte, coscienza sociale e risarcimento del danno per i congiunti: verso una riforma del BGB?, in Riv. crit. dir. priv., 2017, 39 ss. La dottrina s’è occupata dell’argomento principalmente in sede di commento a pronunce giurisprudenziali. Tra i contributi più autorevoli, si vedano quelli di C.M. Bianca, La tutela risarcitoria del diritto alla vita: una parola nuova della Cassazione attesa da tempo, in Resp. civ. e prev., 2014, 493 ss.; N. Lipari, Danno tanatologico e categorie giuridiche, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 523 ss., e C. Scognamiglio, Il danno tanatologico e le funzioni della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2015, 1430 ss. Tra i lavori monografici, si segnalano L. D’Apollo, Danno alla vita e danno da morte, Torino, 2016, e G. Facci, Il risarcimento del danno in caso di morte, Padova, 2004.
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un legame caratterizzato da quella stabilità e continuità che legittima il convivente di fatto ad agire per i danni da perdita del rapporto affettivo e, eventualmente, per i danni patrimoniali conseguenti alla morte dell’altro convivente. Tuttavia, nonostante il duplice rigetto della domanda attrice, durante i procedimenti sono comunque emerse numerose circostanze di fatto che lasciavano propendere, quantomeno, per la sussistenza di un rapporto personale e affettivo tra i soggetti in discorso, rapporto che però non è stato valutato, almeno nella fase del merito, abbastanza forte e intenso da giustificare la corresponsione di un risarcimento. La valutazione (rectius: il metodo di valutazione) di tali elementi è proprio uno degli errori che la Suprema Corte ravvisa nella decisione emessa nel secondo grado di giudizio; quest’ultima, pur non avendo escluso del tutto la relazione di coppia, li aveva ritenuti carenti dal punto di vista del supporto probatorio, necessario ad attestare un legame di convivenza che abbia le caratteristiche di continuità e stabilità. L’ulteriore errore che la Cassazione ravvisa consiste nella definizione, giuridicamente rilevante ai fini del risarcimento del danno, di convivenza di fatto, alla quale la Corte d’Appello avrebbe fatto ricorso, nel momento in cui ha preteso la sussistenza di un elemento in particolare, ovvero quello della coabitazione. Atteso che la portata “innovativa” della sentenza in esame riguarda proprio quest’ultimo profilo, nel prosieguo ci si soffermerà principalmente non tanto sul problema della risarcibilità, in astratto, del danno da morte del convivente, quanto piuttosto sulla questione relativa ai requisiti alla cui presenza si può ritenere sussistente, tra due soggetti, un rapporto, per dir così, assimilabile a quello coniugale, tale che il superstite possa pretendere un ristoro economico in caso di perdita dell’altro.
2. Il requisito della coabitazione ai fini della risarcibilità del danno.
Occorre premettere che la questione relativa alla risarcibilità del danno da morte del convivente è stata risolta, già da molti anni, in senso favorevole dalla giurisprudenza2. Allo stesso modo, è generalmente ammesso che anche i congiunti possano avanzare pretese risarcitorie nei confronti del soggetto che ha provocato la morte del parente.
2
Tra le prime pronunce che hanno ammesso la risarcibilità del danno sofferto dal convivente per la perdita dell’altro si segnala Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, in Foro it., Rep. 1994, voce Danni civili, n. 150, secondo cui nell’ipotesi di famiglia di fatto, la morte del convivente provocata da fatto ingiusto fa nascere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., per il patema analogo a quello che si ingenera nell’ambito della famiglia, e del danno patrimoniale ai sensi dell’art. 2043 c.c., per la perdita del contributo patrimoniale e personale apportato in vita, con carattere di stabilità, dal convivente defunto, irrilevante essendo invece la sopravvenuta mancanza di elargizioni meramente episodiche o di una mera ed eventuale aspettativa.
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Giurisprudenza
Tuttavia, per evitare che l’evento morte si trasformi in una sorta di “arricchimento” automatico per il partner e per i familiari e che, dunque, anche legami personali labili e poco stabili conducano a un ristoro economico, i soggetti in discorso sono onerati dal provare la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra loro stessi e la vittima3. È qui che si inserisce il problema legato alla coabitazione con il soggetto venuto a mancare. In altri termini, occorre stabilire se il fatto della convivenza nel medesimo luogo assuma il carattere di requisito indispensabile ai fini della configurazione di un rapporto connotato da stabilità e significativa comunanza di vita e affetti, nel senso che, se due individui non condividono il focolare domestico, uno non può domandare il risarcimento per la morte dell’altro in nessun caso; allo stesso modo, la questione può porsi tra coloro che sono legati da un vincolo di parentela, come ad esempio i nonni con i nipoti. La Cassazione, tra le tante pronunce reperibili in tema, ha avuto modo di esprimersi proprio su quest’ultimo caso, negando al nipote il risarcimento del danno per la perdita del nonno, in quanto i due soggetti non coabitavano4. Non è possibile in questa sede ripercorrere e ricostruire la decisione appena segnalata – che, peraltro, a quanto consta, ha suscitato giudizi prevalentemente negativi tra i commentatori5 –, ma, per quanto qui interessa, occorre sottolineare che in quell’occasione la Corte ha elevato la coabitazione a conditio sine qua non per accedere alla tutela risarcitoria, sicché sarebbe in ogni caso preclusa la dimostrazione dell’esistenza di un danno, in assenza di convivenza nella medesima abitazione. In altre occasioni, invece, il Supremo Collegio ha inserito l’elemento in discorso nell’ambito di una valutazione complessiva di tutte le circostanze dalle quali desumere l’esistenza di un rapporto, meritevole di tutela giuridica, tra il soggetto reclamante il risarcimento e il defunto, senza però ritenerlo imprescindibile. In un caso assimilabile a quello di specie, è stato precisato che “la convivenza non ha da intendersi necessariamente come coabitazione, quanto piuttosto come stabile legame tra due persone, connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”6. Anche nella giurisprudenza di merito è stato affermato il principio appena riportato7.
3 4
5
6 7
Cfr. ad esempio Cass., 7 giugno 2011, n. 12278, in Foro it., Rep. 2011, voce Danni civili, n. 254. Si tratta di Cass., 16 marzo 2012, n. 4253, in Foro it., 2012, I, 2393, con nota di A. Palmieri, secondo cui in caso di uccisione di un congiunto, la configurabilità di una lesione giuridicamente rilevante del rapporto parentale, per i soggetti al di fuori della famiglia nucleare, presuppone necessariamente la convivenza. Si segnala, a questo proposito, il contributo fortemente critico con la decisione della Corte citata alla nota precedente di M. Rossetti, Senectus ipsa est morbus, ovvero che male c’è se ti ammazzano un nonno?, (Critica ad una aberrante sentenza della Corte di cassazione), in Danno e resp., 2013, 40 ss.; in maniera più sfumata, anche Nobile Risarcibilità del danno non patrimoniale per morte del parente non convivente, in Giur. it., 2012, 2519, esprime numerose perplessità. Così un passaggio della motivazione di Cass., 21 marzo 2013, n. 7128, in Foro it., Rep. 2013, voce Danni civili, n. 180. Trib. Firenze, 26 marzo 2015, in Danno e resp., 2016, 72 ss., ha recentemente stabilito che va riconosciuta la configurabilità di un danno non patrimoniale a carico della fidanzata non convivente della vittima primaria di un reato, non rilevando la sussistenza in termini di necessarietà di un rapporto di coniugio, quanto piuttosto la ravvisabilità e la prova di uno stabile legame tra due persone,
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Al di là della differenza tra i soggetti che pretendevano il risarcimento – il discendente, da un lato, e il convivente, dall’altro –, al fatto della coabitazione è stato attribuito dai richiamati precedenti un diverso peso. Come si vedrà nel seguente paragrafo, non pare del tutto corretto configurare la coabitazione come presupposto essenziale per aversi una convivenza more uxorio e, di conseguenza, il risarcimento del danno in caso di morte del convivente o del congiunto. Innanzitutto, il fatto che due soggetti non condividano il medesimo alloggio potrebbe essere circostanza imposta, ad esempio, da esigenze lavorative. Inoltre, come opportunamente segnala la Cassazione nella sentenza in esame, è in atto un cambiamento sociale, che comporta con sempre maggiore facilità l’instaurazione di rapporti affettivi anche a distanza.
3. La motivazione. La Corte fornisce innanzitutto i criteri metodologici per la valutazione degli elementi probatori raccolti nel corso dei giudizi di merito. Data una pluralità di elementi – afferma la Cassazione –, che costituiscono indici rilevanti in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, essi non possono essere presi in considerazione atomisticamente e singolarmente, ma devono essere valutati nella loro unitarietà e nella loro interazione l’uno con l’altro. Il riferimento è al procedimento di apprezzamento delle prove seguito dalla Corte d’Appello, laddove essa non ha escluso l’esistenza di un rapporto affettivo tra il defunto e la compagna8, ma poi, invece di valutarle complessivamente e in rapporto tra loro, ha finito per attribuire rilevanza unicamente a un dato, ovvero la differente dimora dei partners, sia sul piano sostanziale, che formale (essi, almeno da quanto si apprende dal provvedimento, erano registrati presso residenze diverse e vivevano separati). Precisa la Cassazione, invece, che tutti gli elementi raccolti nei precedenti giudizi dovevano essere apprezzati con un altro metodo; di fatto, la Corte sembra lasciar intendere che ricorrevano le condizioni per ritenere sussistente una convivenza more uxorio a tutti gli effetti, malgrado le differenti dimore. Proprio su quest’ultimo profilo la motivazione del provvedimento in esame si sofferma ampiamente, ossia sull’individuazione degli elementi identificativi della convivenza di fatto.
8
connotato da stabilità e significativa comunanza di vita e di affetti. Rapporto che veniva d’altra parte confermato da numerose circostanze, quali l’esistenza di un conto corrente comune, la disponibilità in capo alla compagna delle agende lavorative del defunto e il fatto che i carabinieri si rivolsero alla medesima subito dopo l’incidente, indicandola a verbale come convivente del manovale.
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Giurisprudenza
Poiché trattasi di relazioni interpersonali che non sono state sancite con l’ufficialità del matrimonio o dell’unione civile, appare chiaro come colui che intende lamentare un danno da perdita del convivente sia onerato dal provare innanzitutto il rapporto di comunanza di vita e affetti con il defunto. Non potendo però assolvere tale onere mediante l’allegazione di atti ufficiali9, egli dovrà necessariamente ricostruire il legame affettivo sulla base di elementi ulteriori, che andranno raccolti e dimostrati in giudizio. Tra questi assume rilevanza quello della coabitazione, nel senso che essa può rappresentare un “indizio” a riprova della relazione – come peraltro affermato dalla sentenza in esame –, ma che, a ben vedere, di per sé ha un valore tutto sommato neutrale10. Possono difatti darsi i casi di soggetti coabitanti che non sono affatto legati da rapporti affettivi e sentimentali; come di soggetti residenti in luoghi diversi che invece lo sono. Quanto alla prima alternativa, la coabitazione tra due (o persino più) individui potrebbe essere determinata da una molteplicità di ragioni11. Quanto alla seconda, la differente dimora potrebbe dipendere da fattori, per dir così, di forza maggiore, oppure anche da una scelta consapevole dei partners. Sia l’art. 143 c.c., per quanto riguarda i coniugi, che il comma 11 della l. n. 76 del 2016, per gli uniti civilmente, stabiliscono l’obbligo di coabitazione, ma è oramai pacifico che tale obbligo debba necessariamente essere definito in relazione alle esigenze di entrambi i soggetti e della famiglia (come peraltro confermato dall’art. 144 c.c.). Sicché la “separazione”, quanto alle dimore, è ben possibile, se imposta da necessità personali o familiari. Si pensi, come banale esempio, al trasferimento in altra località per motivi di lavoro. Tale eventualità non fa di certo venir meno il vincolo matrimoniale o l’unione civile, per cui non dovrebbe nemmeno valere a escludere automaticamente, e di per sé, una convivenza di fatto12.
9
Si ricordi che qui si tratta sempre di conviventi “di fatto”. Secondo Cass., 16 settembre 2008, n. 23725, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 447, con nota di M. Barbanera, è necessario dimostrare una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale; tuttavia, a tal fine, non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla pubblica amministrazione per fini anagrafici. Sembrerebbe, dunque, che prevalga il dato sostanziale – ovvero l’effettiva sussistenza di una relazione con i suddetti caratteri – su quello formale. 10 La mera coabitazione, ad esempio, secondo Cass., 17 settembre 2014, n. 19535, in Foro it., Rep. 2014, voce Separazione di coniugi, n. 121, non è sufficiente a provare la riconciliazione tra coniugi separati essendo necessario il rispristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale. 11 Come opportunamente messo in luce da M. Dogliotti, voce Famiglia di fatto, in Dig. IV, disc. priv., sez. civ., agg. II, 2, Torino, 2003, 706, sono sempre più diffuse altre tipologie di unioni che si allontanano dal modello “familiare” tipico, come, ad esempio, la coabitazione tra giovani per ragioni di studio, tra persone anziane per aiutarsi vicendevolmente, tra soggetti per realizzare un progetto di interesse comune, sport, hobby, affari economici, convinzioni religiose e via discorrendo. 12 Il caso è preso in considerazione ancora da M. Dogliotti, nella prima edizione della voce Famiglia di fatto, ivi, VIII, 1992, 195.
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Valerio Brizzolari
Altre volte, invece, la coabitazione può essere addirittura impedita da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, senza che ciò comporti l’esclusione dai benefici o dagli oneri che la legge riconnette alla convivenza13. Dunque, più che al dato formale e “fisico” della mera coincidenza dell’indirizzo d’abitazione, pare opportuno guardare al profilo sostanziale, costituito dall’esistenza di un legame stabile tra due persone, caratterizzato dalla comunanza di obiettivi nella vita e negli affetti14. L’assenza di un vincolo solenne (matrimonio o unione civile) impone però, per dir così, un aggravamento dell’onere probatorio in capo all’attore che lamenta la perdita del partner, poiché non gli sarà evidentemente sufficiente dimostrare d’aver semplicemente coabitato con il defunto, ma dovrà provare la sussistenza di un legame molto più intenso15. Anche in ambito europeo sembra prevalere l’aspetto sostanziale su quello formale. Si segnala, a questo proposito, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Vallianatos e altri c. Grecia, ha ricondotto il rapporto di una coppia omosessuale nell’ambito d’applicazione dell’art. 8 Cedu, che tutela la vita familiare, malgrado i soggetti ricorrenti non coabitassero per ragioni professionali16. Come si vede, dunque, l’esistenza di una convivenza more uxorio, che legittima il convivente a pretendere il risarcimento del danno per la perdita dell’altro, prescinde dall’effettiva coabitazione dei due nel medesimo luogo. Se quanto precede poteva già essere ricavato dalla casistica accumulatasi nel corso degli anni, il provvedimento in esame si caratterizza per un profilo di innovatività, laddove dà atto dei mutamenti sociali in corso. La Cassazione, difatti, mostrandosi invero sensibile alla realtà attuale, attribuisce alla coabitazione un carattere “recessivo” nella definizione del fenomeno della convivenza. Le ragioni di questa affermazione possono essere così riassunte: i) la scelta del luogo di abitazione potrebbe non corrispondere alle preferenze delle persone o alle loro scelte affettive, bensì imposta da circostanze economiche; ii) l’impossibilità, per lo Stato, di mantenere uno stato sociale induce gli individui a doversi attivare, in supplenza del supporto assistenziale pubblico, a sostenere degli spostamenti o a scegliere il luo-
13
Si segnala Cass., 20 marzo 2015, n. 15715, in Foro it., Rep. 2015, voce Patrocinio a spese dello Stato, n. 14, secondo cui, in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, il rapporto di convivenza familiare, essendo caratterizzato da continuativi rapporti di affetto, da costante comunanza di interessi, da comuni responsabilità e, dunque, da un legame stabile e duraturo, prescinde dalla coabitazione fisica e non può ritenersi escluso dallo stato di detenzione, pur protratto nel tempo, di uno dei componenti del nucleo familiare, il quale, anche in tale ipotesi, non può omettere di indicare nell’istanza di ammissione il reddito dei familiari conviventi. 14 Cfr. in proposito M.R. Mottola, voce Famiglia di fatto, in Dig. disc. priv., sez. civ., agg., Torino, 2017, § 7, nota 30. 15 Ciò vale tanto per i conviventi more uxorio quanto per chiunque lamenti la perdita di un familiare “di fatto”. Per quest’ultimo caso si veda L. La Battaglia, Il danno non patrimoniale da perdita del figlio del partner: variazioni sul tema della famiglia di fatto, in Fam. e dir., 2017, 337. Sempre sull’irrilevanza della mera coabitazione si veda altresì M. Crocitto, Il risarcimento del danno da uccisione in favore del convivente more uxorio, in La Responsabilità Civile, 2010, 775. 16 Corte EDU, 7 novembre 2013, ricc. nn. 29381/09 e 32684/09, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 693 ss., con nota di P. Pirrone. La Corte, come d’altra parte affermato anche dalla Cassazione nella sentenza in analisi, rileva che il requisito della coabitazione è sicuramente rilevante ai fini dell’esistenza di una relazione di fatto, ma non essenziale.
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go di abitazione per accudire le persone del proprio nucleo familiare che ne abbiano bisogno; iii) il mercato del lavoro non garantisce una regolare coincidenza del luogo di svolgimento del rapporto lavorativo con il luogo di abitazione familiare. Tutte queste circostanze, associate alla facilità e maggiore economicità delle relazioni a distanza rispetto al passato, “devono indurre a ripensare al concetto stesso di convivenza, la cui essenza non può appiattirsi sulla coabitazione” (così in un passaggio della sentenza in esame). La condivisione della stessa dimora, dunque, nel ragionamento seguito dalla Cassazione, si pone in definitiva come un elemento presuntivo, che dovrà essere valutato dal giudice assieme a tutte le altre circostanze dalle quali desumere l’esistenza di un legame affettivo serio, duraturo e proiettato verso un progetto di vita comune. Il fatto che due soggetti non convivano non esclude che tra loro possa comunque instaurarsi un legame meritevole di tutela giuridica nel momento in cui uno dei due viene a mancare; allo stesso modo, la coabitazione non è indice automatico della sussistenza di un rapporto di quel genere.
4. Alcune considerazioni. La pronuncia della Suprema Corte appare condivisibile sotto tutti i punti di vista. Per quanto concerne il metodo di valutazione delle prove, essa ha opportunamente ribadito la necessità di valutare tutti gli elementi raccolti nel loro complesso e ognuno in relazione agli altri. È altresì corretto non attenersi al dato esclusivamente formale17, come quello della residenza, soprattutto quando trattasi di verificare l’esistenza di un fenomeno, appunto, “di fatto” – la convivenza more uxorio –, in assenza di un impegno solenne, per il quale necessariamente si deve ricorrere a un’approfondita indagine, basata sull’apprezzamento di molteplici elementi. Per quanto riguarda, invece, la coabitazione, come si è cercato di mettere in luce, almeno nella valutazione sull’an del danno da morte, essa ha un ruolo neutrale, nel senso che non vale automaticamente a dimostrare l’esistenza di un legame meritevole di tutela tra soggetti che convivono nel medesimo luogo. Allo stesso modo, la mancata condivisione del focolare domestico non costituisce impedimento all’instaurazione di un rapporto affettivo che possa ricevere adeguata tutela risarcitoria nel caso in cui uno dei componenti venga a mancare.
17
Come rileva A. Gorassini, Convivenza di fatto e c.d. famiglia di fatto. Per una nuova definizione dello spazio topologico di settore, in Riv. dir. civ., 2017, 858 ss., con riferimento ai conviventi di fatto, la semplice dichiarazione anagrafica, contemplata dal comma 37 Legge Cirinnà, non può determinare da sola l’accertamento della stabile convivenza.
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Con riferimento a quest’ultimo profilo, il dovere di coabitazione di cui all’art. 143 c.c. – come detto – ben può essere derogato quando imposto da necessità di uno o entrambi i soggetti. Probabilmente, ma ciò meriterebbe un approfondimento che non può essere condotto in questa sede, dovrebbe ammettersi una deroga a tale dovere anche laddove non vi sia un’esigenza vera e propria, bensì solo una libera scelta dei soggetti coniugati oppure uniti civilmente. Difatti, l’insegnamento della Suprema corte, che ci perviene con la sentenza in analisi e riassunto supra ai punti sub i), ii) e iii), potrebbe forse essere esteso anche alla coabitazione in costanza di matrimonio, sicché occorrerebbe domandarsi sull’anzidetta possibilità di stabilire concordemente dimore diverse, nel senso che ciascun coniuge conduce la propria vita in un determinato luogo18. Ci si dovrebbe domandare altresì se il carattere “recessivo” della coabitazione valga appunto anche in riferimento all’istituto matrimoniale19. Sia consentito, ma solo come nota di chiusura e con finalità esclusivamente esplicative, di chiarire un’affermazione della Cassazione. Nella parte relativa all’illustrazione dei cambiamenti sociali, la Corte richiama la definizione di “conviventi di fatto” contenuta nella l. n. 76 del 2016 (nota altresì come Legge Cirinnà), collocandola all’art. 1 della medesima. Com’è noto, il provvedimento si compone di un articolo unico, suddiviso in sessantanove commi; la suddetta definizione si può leggere esattamente al comma 36, il quale effettivamente non contempla la coabitazione20. Valerio Brizzolari
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Il contenuto minimo e inderogabile della coabitazione, secondo P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, III, Persone e famiglia, 2, 2 ed., Torino, 1996, 69, consiste nell’idea di communio, la quale non ammette che un coniuge riservi per sé un’abitazione nella quale l’altro non sia ammesso. 19 F. Finocchiaro, voce Matrimonio (diritto civile), in Enc. del dir., XXV, Milano, 1975, 812, testo e nota 20, rileva – nonostante la chiarezza già propria del termine “coabitazione” – che il legislatore non ha chiarito il contenuto dell’obbligo in discorso. Già nel passaggio dal Codice Pisanelli a quello vigente v’è stato, come giustamente nota T. Bonamini, Il dovere di coabitazione, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, I, Famiglia e matrimonio, Milano, 2016, 890, un ridimensionamento del dovere di coabitazione. 20 Il dovere della coabitazione è però imposto dal comma 11 della Legge Cirinnà a coloro che si uniscono civilmente. Come visto sinteticamente nelle pagine che precedono, e ciò vale anche per il corrispondente obbligo nel matrimonio, il dovere in discorso deve sempre essere valutato in relazione alle esigenze personali e familiari. In dottrina, conferma l’esclusione dell’elemento della coabitazione dalla definizione dei conviventi di fatto G. Alpa, La legge sulle unioni civili e sulle convivenze. Qualche interrogativo di ordine esegetico, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1719.
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