Il diritto penale della globalizzazione 3/2020

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3• luglio-settembre 2020

Rivista trimestrale 3 • luglio-settembre 2020

Il diritto penale

globalizzazione della

Il diritto penale della globalizzazione

Diretta da: Ranieri Razzante e Giovanni Tartaglia Polcini

In evidenza: La cd. “Direttiva PIF” e l’inserimento dei reati fiscali nel catalogo delle condotte presupposto della responsabilità degli Enti: esempio emblematico degli effetti verticali nella diplomazia giuridica multilaterale Giovanni Tartaglia Polcini Alle origini del fenomeno del terrorismo internazionale Giorgio Malfatti di Monte Tretto L’efficacia probatoria del “precedente difforme” utilizzato per le contestazioni al testimone nella giurisprudenza della Specialist Chamber della Corte Costituzionale del Kosovo Alessandro Quattrocchi Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020, n. 10255. L’applicazione dell’art. 416-bis c.p.p. alle c.d. “mafie senza nome”. Le recenti sentenze della Cassazione Patrizia Filomena Rosa

ISSN 2532-8433



Indice In evidenza A cura di Giovanni Tartaglia Polcini, La cd. “Direttiva PIF” e l’inserimento dei reati fiscali nel catalogo delle condotte presupposto della responsabilità degli Enti: esempio emblematico degli effetti verticali nella diplomazia giuridica multilaterale....................................................................p. 297

Editoriale A cura di Giorgio Malfatti di Monte Tretto, Alle origini del fenomeno del terrorismo internazionale.....................................................................................................................................» 301

Saggi Alessandro Quattrocchi, L’efficacia probatoria del “precedente difforme” utilizzato per le contestazioni al testimone nella giurisprudenza della Specialist Chamber della Corte Costituzionale del Kosovo....................................................................................................................» 305 Walter Rotonda, Il principio di indeterminazione di Heisenberg e la misurazione della corruzione............................................................................................................................................» 321 Nicola d’Albasio, ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico...................» 327

Giurisprudenza Giurisprudenza nazionale Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020, n. 10255, con nota di Patrizia Filomena Rosa, L’applicazione dell’art. 416-bis c.p.p. alle c.d. “mafie senza nome”. Le recenti sentenze della Cassazione.............» 341 Cassazione Civile, Sezioni Unite, 8 maggio 2019, n. 12193, con nota di Cesare Augusto Placanica, Procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità, maternità surrogata in una recente sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione..........................................................................» 345 Suprema Corte, sez. I penale, sent. n. 19762/2020, con nota di Marilisa De Nigris, Giurisdizione italiana nell’ambito del traffico di armi internazionale tra Libia e Italia: sentenza 19762 1° luglio 2020................................................................................................................................................» 355

Giurisprudenza europea Corte di Giustizia UE sent. 5 febbraio 1963, C26/62, Grande Camera, sentenza del 27 novembre 2008, ricorso n. 36391/02, con nota di Andrea Racca, Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea.......................................................................................................................» 359

Giurisprudenza internazionale Tribunale arbitrale presso la Corte Permanente di Arbitrato, Caso n. 2015-28, decisione del 2/7/2020, con nota di Miriam Fiordellisi, Il lodo del Tribunale arbitrale costituito a L’Aja sul caso “Enrica Lexie”......................................................................................................................................» 373


Indice

Osservatorio Osservatorio normativo Antonio De Lucia, Abuso d’ufficio modifica d.l. semplificazioni.........................................................» 377

Osservatorio internazionale Elena Valguarnera, Le misure di prevenzione dei crimini globali.......................................................» 379

Osservatorio europeo Elena Valguarnera, L’estorsione organizzata alla luce della nuova Agenda europea sulla sicurezza.....................................................................................................................................» 385

Osservatorio nazionale Antonio De Lucia, Breve disamina dell’evoluzione delle figure previste dal Titolo I del C.p. alla luce di un recente provvedimento della Corte d’Assise di Milano........................................................» 389

Focus Paola Pisanelli Nero, Venezia – Il riconoscimento della Direzione della Capitaneria di Porto di Venezia alla Diplomazia Panamense nel settore marittimo..............................................................» 395

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In

evidenza

La cd. “Direttiva PIF” e l’inserimento dei reati fiscali nel catalogo delle condotte presupposto della responsabilità degli Enti: esempio emblematico degli effetti verticali nella diplomazia giuridica multilaterale La fedeltà fiscale costituisce uno dei pilastri della teoria dell’ambiente legalmente orientato in un ordinamento giuridico multilivello ed il tema della Direttiva PIF si inserisce nel sistema 231 innanzitutto sul piano valoriale. Ed invero, la normativa completa, attraverso un adeguamento al diritto sovranazionale, il catalogo dei reati presupposto della liability of legal persons, con l’inclusione dei reati tributari, imponendo, di fatto, alle società di integrare il proprio sistema di controllo interno. È necessario, a tale riguardo, ricordare che da dicembre 2019 alcuni illeciti tributari erano già entrati ufficialmente a far parte della 231: il decreto di attuazione della Direttiva PIF, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri a gennaio 2020, andrà ad ampliare ulteriormente le fattispecie di reato tributario che determinano la responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. 231. La proposta di legge richiamava chiaramente nella relazione le conclusioni della Sentenza Gubert n. 10561/2014 delle Sezioni Unite della Cassazione, per significare una straordinaria e rara convergenza, in subjecta materia, tra legislativo e giudiziario. La nuova legge già in vigore La riforma dei reati tributari introdotta con la L. 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (c.d. decreto fiscale), come accennato, aveva già inserito l’art. 25-quinquiesdecies nel D.Lgs. 231/2001. L’intervento normativo si era innestato nel contesto di una costante estensione della responsabilità amministrativa da reato dell’ente, e grazie ad un clima politico rigorista nei confronti dei reati dei c.d. “grandi evasori”. Se, da un lato, la scelta legislativa può apparire condivisibile nell’intento di aumentare la vigilanza in materia di compliance aziendale, dall’altro, certamente, lascia aperti numerosi interrogativi, in particolare sotto il profilo interpretativo. I nuovi reati presupposto e le sanzioni L’art. 25-quinquiesdecies del d.lgs. 231/2001 indica per quali reati tributari (previsti cioè nel novellato D.Lgs. 74/2000) commessi per interesse o vantaggio dell’ente possa determinarsi la responsabilità amministrativa:


In evidenza

a) il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 1, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; b) il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 2-bis, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; c) il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall’art. 3, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; d) il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, d.lgs. 74/2000, comma 1, con una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; e) il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 2-bis, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; f) il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’art. 10, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; g) il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall’art. 11, d.lgs. 74/2000, con una sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote. In caso di profitto di rilevante entità la sanzione pecuniaria subisce un aumento di un terzo. La cd. Direttiva PIF La L. 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 non aveva trattato la responsabilità amministrativa degli enti per i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea. Il 23 gennaio il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame preliminare, il Decreto Legislativo di attuazione della direttiva (UE) 2017/1371 (c.d. “Direttiva PIF”) relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale. Con il Decreto Legislativo n. 75 del 14 luglio 2020 è stata recepita in via definitiva la Direttiva (UE) 2017/1371 (cd. Direttiva PIF) del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017, recante norme per la “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”. Nove articoli delineano un intervento di riforma del Codice penale (art. 1), del sistema penale tributario (art. 2), della legge doganale (art. 3), della legge di depenalizzazione (art. 4) e, in misura decisamente incisiva, del sistema della responsabilità amministrativa “da reato” degli enti (art. 5), e delle frodi comunitarie nel settore agricolo (art. 6). Suddetto Decreto in particolare modifica la disciplina relativa ai reati tributari in materia di responsabilità amministrativa degli enti prevedendo di punire anche le ipotesi di delitto tentato, per importi superiori a 10 milioni di euro, ove commesse a livello transnazionale. Prevede altresì di integrare il D. Lgs. 231/2001 con le fattispecie di - dichiarazione infedele (art. 4 D. Lgs. 74/2000), - omessa dichiarazione (art. 5 D. Lgs. 74/2000) e - indebita compensazione (art. 10-quater D.Lgs. 74/2000). In aggiunta, il Decreto propone all’art. 5, lett. a), un intervento sull’art. 24, D.lgs. n. 231/2001, prevedendo espressamente che la commissione delle fattispecie di reato, richiamate al comma 1, comporti la responsabilità amministrativa dell’ente anche se commesse ai danni dell’Unione europea. Come è noto, i reati riguardano:

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La cd. “Direttiva PIF” e l’inserimento dei reati fiscali

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malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis c.p.), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), truffa a danno dello Stato o di altro ente pubblico (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) e frode informatica (art. 640-ter c.p.). Catalogo che viene integrato con le fattispecie di frode nelle pubbliche forniture (art. 356 c.p.) e appropriazione indebita o distrazione di fondi comunitari, reato commesso da chi “mediante l’esposizione di dati o notizie false, consegue indebitamente per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale” (art. 2, L. n. 898/1986). di Giovanni Tartaglia Polcini

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Editoriale

Alle origini del fenomeno del terrorismo internazionale L’attuale fenomeno del terrorismo internazionale muove la sua ispirazione dal terrorismo palestinese della fine anni Sessanta. Un terrorismo più circoscritto ma non per questo meno aggressivo. Gli attentati, i dirottamenti di aerei di linea, le autobomba erano stati utilizzati dai gruppi dell’OLP che intendevano cosi portare la guerra fuori dalla Palestina, dove non potevano vincerla a causa della superiorità israeliana. Era una strategia terroristica violenta, che ricercava una maggiore risonanza anche in drammatiche stragi. Certo non vi era la capacità organizzativa di un attentato come quello dell’11 settembre, ma se ne fossero stati in grado lo avrebbero sicuramente fatto. Il conflitto tra israeliani e palestinesi è dunque all’origine del fenomeno attuale: prima bisognava creare uno Stato palestinese cacciando gli ebrei dalla regione, oggi deve nascere uno Stato islamico senza confini fondato da una visione radicale dell’islam cacciando non solo gli ebrei ma anche tutti infedeli. La questione palestinese nasce nel corso della Prima Guerra Mondiale, quando la Gran Bretagna per indebolire la forza della Germania concentrò le sue azioni contro l’Impero Ottomano, alleato del Reich e che da quattrocento anni dominava il Medio Oriente. Londra promise ufficiosamente agli Arabi che se avessero combattuto al loro fianco sarebbero stati ricompensati con la creazione di uno Stato indipendente hashemita. Nel contempo però, non è stato mai chiarito se fu un gesto riparatorio, il 2 novembre 1917 l’allora Ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour scrisse una lettera a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese e referente del movimento sionista, in cui il governo britannico affermò di guardare con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, allora parte dell’Impero Ottomano, nel rispetto dei diritti civili e religiosi delle altre minoranze religiose residenti. Una posizione del governo britannico emersa all’interno della riunione di gabinetto del 31 ottobre 1917. La Dichiarazione Balfour successivamente fu inserita all’interno del Trattato di Sèvres che stabiliva la fine delle ostilità con la Turchia e assegnava la Palestina al Regno Unito (successivamente titolare del Mandato della Palestina). La Dichiarazione Balfour del 1917 era un testo brevissimo di sessantasette parole con le quali Londra dichiarava il proprio appoggio all’agognata “national home for Jewish people” in Palestina, “senza pregiudizio” dei diritti “civili e religiosi” delle comunità non-ebree esistenti nel territorio. Con la fine della guerra i britannici hanno la meglio sugli Ottomani, ma pagano un prezzo in termini di continue rivolte arabe lungo tutto il loro mandato. La dichiarazione Balfour, pubblicata sui giornali il 9 novembre, suscitò entusiasmo tra i sionisti di tutto il mondo. Quella che prima appariva un’utopia irrealizzabile – la creazione di uno stato ebraico nella “terra promessa” – sembrò improvvisamente un obiettivo a portata di mano. Quando i leader arabi lessero invece il testo della dichiarazione si sentirono traditi: nessuno li aveva avvertiti che avrebbero dovuto rinunciare a una parte del loro regno per cederla agli ebrei. Poco dopo, il regime bolscevico in Russia pubblicò i testi dell’accordo Sykes-Picot, che sarebbero dovuti restare segreti, rivelando al mondo intero che Regno Unito e Francia avevano segretamente complottato per spartirsi il Medio Oriente e che della creazione di Stato arabo indipendente non vi era traccia. Il risultato fu che dopo la guerra il governo britannico si trovò intrappolato in una serie di impegni che i suoi stessi funzionari descrissero come “inconciliabili”. Nel periodo compreso tra


Editoriale

le due guerre mondiali quasi quattrocentomila ebrei emigrarono da tutto il mondo in Palestina, anche a causa del crescente antisemitismo. Gli arabi di Palestina insorsero più volte contro i coloni ebraici. Negli anni Trenta si sviluppò un movimento arabo anti-sionista e anti-britannico, mentre sul lato israeliano nacque il movimento estremista Hergun. Di fronte alle pressioni degli arabi, il governo britannico cercò di fermare l’immigrazione ebraica in Palestina, prima in maniera poco convinta e poi più decisamente. Ormai però era troppo tardi. Le persecuzioni dei nazisti avevano attirato sugli ebrei le simpatie di tutto il mondo, mentre gli immigrati ebrei arrivati in Palestina, anche e soprattutto nei primi anni successivi alla fine del conflitto mondiale, avevano raggiunto un tale numero e una tale forza che le loro rivendicazioni non potevano più essere ignorate. Dopo la Seconda guerra mondiale, i britannici si affrettarono ad abbandonare il ginepraio che avevano contribuito a creare. Nel 1948 lasciarono quello che avevano chiamato il “mandato di Palestina” e che avevano governato, tra mille problemi, fin dalla fine della prima guerra mondiale. Lo stato di Israele nacque il giorno successivo, dando inizio a una lunga coda di sofferenze e conflitti che durano ancora oggi. Con la creazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, Londra con sollievo mette termine al mandato, ma l’incertezza cala sul piano di spartizione previsto nella Risoluzione ONU 181/47 che gli Arabi rifiutarono e David Ben Gurion dichiarò uno Stato ebraico in un nondelimitato “Eretz Israel”. I paesi arabi della regione quindi decisero di eliminare la neonata nazione con una serie di guerre che sono state unicamente delle disastrose sconfitte, la ‘nabka’ (catastrofe). Con la fulminante Guerra dei Sei Giorni nel 1967, Israele mette a terra l’aviazione di Egitto, Siria, Iraq ed allarga i suoi territori ivi inclusa l’intera Gerusalemme. A questo punto è chiaro Israele non solo ha allargato considerevolmente i propri confini ma è una potenza militare con la quale i paesi arabi della regione non possono competere. Nel 1964 nasce a Gerusalemme l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il cui obiettivo era proprio scritto nel nome: liberare la Palestina attraverso la lotta armata. Sconfitti gli eserciti di tutti i paesi arabi circostanti non rimaneva che l’OLP a combattere contro Israele, ma non essendo uno Stato non poteva farlo in campo aperto. Nasce così il terrorismo palestinese che aveva per obiettivo di colpire anche all’estero non solo gli israeliani ma anche i paesi occidentali che appoggiavano il governo di Tel Aviv. L’OLP è stata la più ricca di tutte le organizzazioni terroristiche, con un reddito annuo stimato di 1,5-2 miliardi di dollari. Il “The Daily Telegraph” ha riferito nel 1999 che l’OLP aveva 50 miliardi di dollari di investimenti in segreto in tutto il mondo. I legami tra l’organizzazione di Arafat con gruppi di terroristi europei furono evidenti quelli con la criminalità organizzata sottovalutati. Il famoso tesoro dell’OLP venne gestito con esponenti del mondo del gioco di azzardo e del narcotraffico. Il terrorismo palestinese si inserì nel periodo della guerra fredda. L’Unione Sovietica con tutti i suoi paesi alleati sposò la causa di Arafat giustificandone in tal modo anche le sue azioni al di fuori della Palestina. L’appoggio al terrorismo sarà poi una politica che Mosca pagherà a caro prezzo prima in Afghanistan e poi nel Caucaso. L’etichetta di “organizzazione terroristica” per l’OLP è stata de facto annullata nel 1993 in seguito alla stipula degli accordi di Oslo. Proprio gli Accordi di Oslo nel 1993-1995 e la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese su Cisgiordania e Gaza chiudono la pagina terroristica dell’OLP all’estero, che d’altronde già alla fine degli anni Ottanta era già diminuita, grazie alla politica di Arafat di non alienarsi le simpatie dei paesi occidentali. Ed è proprio negli anni Novanta che si sviluppa e cresce l’attuale fenomeno terroristico, che non si lega unicamente alla questione israelo-palestinese ma alla nascita di un non ben definito Stato islamico. Osama bin Laden si fa portatore di un Islam liberato da chi non crede nella sua visione radicale della religione, quindi non solo dagli ebrei. Per raggiungere questo scopo non esita a finanziarsi anche con la vendita dell’eroina afghana, come d’altronde hanno fatto i movimenti insurrezionali latino

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Editoriale

americani di matrice origine marxista con la cocaina. Proseguono cosĂŹ i contatti tra le organizzazioni terroristiche e quelle della criminalitĂ organizzata nel campo del finanziamento illecito. Giorgio Malfatti di Monte Tretto

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Alessandro Quattrocchi

L’efficacia probatoria del “precedente difforme” utilizzato per le contestazioni al testimone nella giurisprudenza della Specialist Chamber della Corte Costituzionale del Kosovo Sommario: 1. Introduzione: le Specialist Chambers del Kosovo e le Rules of procedure and evidence. – 2. Oggetto della decisione della Specialist Chamber of the Constitutional Court. – 3. Le contestazioni nel processo penale: giusto processo e contraddittorio nella formazione della prova. – 4. Osservazioni conclusive. Abstract On the 22th of May 2020 the Specialist Chamber of the Constitutional Court of the Republic of Kosovo has considered if the use of prior inconsistent statement made by the witness for the purpose of assessing the truth of its contents is consistent with fundamental and human rights protection and with the right to a fair trial. This is the first judgement of an internazionalized court on this matter, which is characterized by its compliance with the multilevel protection system of rights and for its consistency with the most recent ECHR judgments concerning this subject. Il 22 maggio 2020 la Specialist Chamber of the Constitutional Court della Repubblica del Kosovo ha emesso la prima sentenza in tema di utilizzazione probatoria delle precedenti dichiarazioni difformi dei testimoni, utilizzate per le contestazioni, vagliandone la compatibilità con i principi di tutela dei diritti fondamentali e con il diritto al giusto processo. Trattasi della prima decisione adottata in materia da parte di un organo giudiziario internazionalizzato, che si segnala per la rispondenza al sistema di tutela multilivello dei diritti nonché per la coerenza con la più recente giurisprudenza in materia della Corte EDU.

1. Introduzione: le Specialist Chambers del Kosovo e le Rules of procedure and evidence. Ai fini dell’analisi che il presente lavoro mira a realizzare, giova svolgere alcune notazioni preliminari di carattere introduttivo circa natura e ruolo dell’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza in commento. Al riguardo, va innanzitutto rammentato che nel 2015 in Kossovo sono stati istituiti due nuovi organismi finalizzati alla repressione dei crimini commessi dall’Esercito di liberazione


Alessandro Quattrocchi

kosovaro in occasione del conflitto armato degli anni 1998-2000: si tratta dello Specialist Prosecution’s Office e delle Specialist Chambers1. Essi consistono in veri e propri organi giudiziari internazionalizzati, con tale nomenclatura definendosi quei tribunali “ibridi”, i cui statuti scaturiscono dalla cooperazione tra uno Stato ed altre organizzazioni internazionali o sovranazionali, che combinano in vario modo elementi di diritto interno e di diritto internazionale. Di norma, l’istituzione di tribunali fa parte dei processi di c.d. post conflict peace building, volti cioè alla ricostruzione del tessuto istituzionale di uno Stato o di un territorio dopo la fine di un conflitto armato di portata internazionale ovvero di una guerra civile2. Per contestualizzare ed apprezzare l’arresto giurisprudenziale in oggetto, giova altresì rilevare che, con la pregressa decisione del 28 giugno 2017, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale della Repubblica del Kosovo ha già avuto modo di pronunciarsi in punto di compatibilità della riformata normativa disciplinante i procedimenti innanzi alle stesse Specialist Chambers con la Costituzione kosovara. Trattasi delle Rules of procedure and evidence, adottate – in ossequio a quanto stabilito dalla legge istitutiva – in data 17 marzo 2017 dalla seduta plenaria dei giudici delle Specialist Chambers e concernenti la conduzione dei processi innanzi ai medesimi organismi3. A tale seduta plenaria, per espressa previsione legislativa, non hanno preso parte i giudici della Specialist Chamber della Corte Costituzionale, chiamati a fornire all’adottanda normativa un diverso apporto, attraverso il vaglio di compatibilità e di coerenza con il sistema di tutela

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Istituiti per mezzo della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 adottata dal Parlamento della Repubblica del Kosovo, in attuazione della legge di modifica costituzionale n. 05/D-139 contestualmente approvata, entrambi gli organi sono parte integrante del sistema giudiziario del Kosovo. Il loro scopo è quello di condurre processi in relazione alle accuse di gravi violazioni del diritto internazionale contenute nella relazione del Consiglio d’Europa del 7 gennaio 2011. Specialist Chambers e Specialist Prosecution’s Office hanno un mandato temporaneo (cinque anni dall’istituzione) e una giurisdizione specifica, circoscritta ad un elenco tipico di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e altri reati di diritto penale kosovaro commessi tra il 1° gennaio 1998 e il 31 dicembre 2000. Segnatamente, l’art. 3 della legge istitutiva prevede la costituzione di una Specialist Chamber per ogni livello della giurisdizione kosovara. Pertanto, si hanno una Specialist Chamber presso il Tribunale di primo grado, una presso la Corte d’Appello, una presso la Corte Suprema ed una presso la Corte Costituzionale. Per approfondimenti, cfr. https://www.scp-ks.org/ en. Volendo, v. altresì A. Quattrocchi, Il captatore informatico al vaglio della giurisprudenza internazionale: dalle specialist chambers del Kosovo verso la tutela dei diritti fondamentali, in Dir. Pen. Glob., n. 3-4 del 2017, 354 ss. 2 Oltre alle Specialist Chambers e allo Specialist Prosecution’s Office del Kosovo, sono riconducibili a tale novero, a titolo esemplificativo, la Corte speciale per la Sierra Leone, le Camere straordinarie per la Cambogia, il Tribunale speciale per il Libano nonché le Sezioni specializzate per i crimini internazionali istituite in seno alle Amministrazioni delle Nazioni Unite a Timor Est (UNTAET - United Nations Transitional Administration in East Timor). I tribunali internazionalizzati, pur nella loro diversità, hanno alcune caratteristiche che li accomunano: il coinvolgimento di organi sovranazionali nella loro istituzione; la composizione mista del collegio giudicante formato sia da giudici nazionali sia da giudici internazionali; l’applicazione di norme sostanziali e processuali sia interne sia internazionali; l’esercizio di una competenza ratione temporis, ratione materiae e ratione loci ben definita. In argomento, cfr. N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Torino, 2017, 241 ss. 3 Così il comma 1 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053, alla cui stregua sono gli stessi giudici delle Specialist Chambers in seduta plenaria ad adottare la normativa relativa alla conduzione dei processi innanzi alle stesse, sia pure con l’espressa esclusione da tale plenaria dei giudici della Specialist Chamber della Corte Costituzionale.

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L’efficacia probatoria del “precedente difforme” utilizzato per le contestazioni al testimone

dei diritti e delle libertà fondamentali scolpito nelle Carte dei diritti internazionali e sovranazionali nonché nella stessa Costituzione kosovara4. Il successivo 27 marzo 2017, il Presidente delle Specialist Chambers, proprio al fine di assicurare tale conformità, ha rimesso la normativa appena approvata alla Specialist Chamber della Corte Costituzionale, la quale, in data 26 aprile 2017, ha sancito il contrasto di alcune disposizioni rispetto al dettato costituzionale e, segnatamente, in relazione al suo Capitolo II intitolato ai diritti e alle libertà fondamentali5. A seguito di tali censure, il 29 maggio 2017, la seduta plenaria dei giudici delle Specialist Chambers – pur sempre al netto dei giudici della Camera Specializzata della Corte Costituzionale – ha così proceduto ad emendare la normativa in questione, nell’esercizio della peculiare prerogativa riconosciutale dalla relativa legge istitutiva6. Sicché, in data 31 maggio 2017, il testo riformato è stato nuovamente rimesso alla Specialist Chamber della Corte Costituzionale affinché, a seguito della menzionata modifica, si pronunciasse sulla tenuta costituzionale delle correzioni apportate e sull’adeguatezza degli emendamenti a garantire il rispetto degli standard di tutela dei diritti fondamentali costituzionalmente sanciti. Quindi, in data 28 giugno 2017, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale ha riconosciuto la compatibilità costituzionale della normativa, la quale è conseguentemente entrata in vigore il 5 luglio 2017. Nondimeno, il 29 ed il 30 aprile 2020, la seduta plenaria dei giudici delle Specialist Chambers ha adottato dei nuovi emendamenti alle Rules of procedure and evidence, i quali a propria volta sono stati sottoposti al vaglio della Camera Specializzata della Corte Costituzionale, che, per l’effetto, si è pronunciata con la sentenza in oggetto, la quale si segnala, tra l’altro, come la prima decisione emessa da un organo giudiziario internazionalizzato che affronta, sotto il profilo della compatibilità con i principi di tutela dei diritti fondamentali e della rispondenza ai canoni del giusto processo, il tema della utilizzabilità a fini probatori delle precedenti dichiarazioni difformi contestate in sede processuale al testimone.

2. Oggetto della decisione della Specialist Chamber of the Constitutional Court. Con la decisione in commento, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale ha preliminarmente verificato la sussistenza dei presupposti della rimessione della questione, dichiarandola ammissibile.

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In tal senso, il comma 5 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 prevede che le nuove disposizioni o gli emendamenti relativi alle Rules of procedure and evidence vengano sottoposti al vaglio della Specialist Chamber della Corte Costituzionale, che entro trenta giorni deve verificarne la compatibilità con la Costituzione e, laddove non la riscontrasse, deve rimettere la questione alla plenaria degli altri giudici delle Camere Specializzate affinché intervengano sulla disposizione o sulle disposizioni censurate. 5 Si tratta, segnatamente, degli artt. 19, co. 3, 31, 32, 33, 35, co. 1, lett. b) e c), e co. 3, 36, co. 1 e 2, 38 co. 1 e 5, 54 co. 4 e 158, co. 2, dichiarati incompatibili con il Capitolo II della Costituzione. Invece, rispetto all’art. 134, co. 3, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale non ha potuto dichiarare la compatibilità. Le altre disposizioni delle Rules of procedure and evidence, infine, non sono state ritenute incompatibili con il dettato costituzionale. 6 Il comma 4 dell’art. 19 della legge 3 agosto 2015 n. 05/2-053 prevede infatti che le Rules of procedure and evidence possano essere emendate dai giudici in seduta plenaria.

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A detto fine, va rammentato che l’art. 49 della legge istitutiva designa tale organo quale autorità suprema competente in ordine all’interpretazione della Costituzione del Kosovo in rapporto alle materie soggette alla giurisdizione delle Specialist Chambers e dello Specialist Prosecutor’s Office. Inoltre, gli artt. 3 e 19 della legge istitutiva impongono a tutte le Specialist Chambers di funzionare nel rispetto non solo della Costituzione kosovara ma anche del diritto internazionale dei diritti umani, inclusa la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (meglio nota come Patto internazionale sui diritti civili e politici). Nel caso di specie, del resto, è lo stesso art. 4 delle Rules of procedure for the Specialist Chamber of the Constitutional Court a postulare che gli emendamenti alle Rules of procedure and evidence vadano sottoposti al vaglio di costituzionalità della Camera Specializzata. Ne consegue, pacificamente, l’ammissibilità della questione rimessa. Tanto rilevato sotto il profilo del rito, in relazione al merito la Specialist Chamber della Corte Costituzionale prosegue prendendo in considerazione i singoli emendamenti apportati alle Rules of procedure and evidence7, soffermandosi, tra gli altri, su quello dell’art. 143 in materia di esame dei testimoni. Il primo comma, invariato, prevede che la parte che effettua l’esame ponga domande al testimone e possa esibirgli documenti o altre prove in conformità alla procedura. Se il testimone non rammenta fatti sui quali ha reso precedentemente dichiarazioni, previamente autorizzato dall’autorità giudiziaria, questi può consultare documenti al fine di ravvivare la memoria sul punto. Ai sensi del secondo comma, con il permesso dell’autorità giudiziaria, la parte che ha citato il testimone può rivolgergli domande sui seguenti argomenti, ove rilevanti in relazione alla credibilità del dichiarante: a) prove fornite dal testimone e sfavorevoli alla parte; b) questione di cui è ragionevole ritenere che il testimone abbia conoscenza e su cui risulti all’autorità giudiziaria che, allorché esaminato dalla parte, egli non abbia reso una testimonianza genuina; c) se il testimone, in ogni tempo, abbia reso una precedente dichiarazione incoerente. Precisamente quest’ultima disposizione – lettera c) del secondo comma dell’art. 143 – è stata emendata con l’aggiunta della previsione alla cui stregua qualsiasi previa dichiarazione incoerente possa essere ammessa allo scopo di valutare la credibilità del testimone, nonché ai fini della veridicità del suo contenuto o per altri scopi, a discrezione dell’autorità giudiziaria. Il terzo comma, in tema di esame incrociato del testimone, ed il quarto comma, circa il controllo del Presidente dell’autorità giudiziaria procedente sull’esame, sono invece rimasti invariati. Alla luce del rassegnato novum normativo, la Specialist Chamber della Corte Costituzionale circoscrive dunque il proprio scrutinio alla novella previsione concernente l’introduzione, quale prova, delle precedenti dichiarazioni difformi del testimone.

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Nel dettaglio, trattasi dell’art. 31 concernente le misure di salvaguardia minime in materia di relazioni professionali o confidenziali ed indagini, dell’art. 38 in tema di perquisizione e confisca dello Specialist Prosecutor, dell’art. 42 che pone previsioni generali in tema di privilegio contro l’auto-incriminazione, dell’art. 56 recante disposizioni generali sulla detenzione.

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Sul punto, viene richiamato il diritto dell’imputato ad esaminare i testimoni citati dalla pubblica accusa per provarne la responsabilità penale (art. 31 della Costituzione del Kosovo nonché art. 6 della CEDU), quale corollario del diritto di ciascuno ad un giusto processo8. Al riguardo, la Corte rileva che tutte le prove, di norma, debbano essere acquisite in presenza dell’imputato nel corso della pubblica udienza e nel rispetto del contraddittorio. Nondimeno, l’utilizzo quali prove di dichiarazioni rese in altre fasi del procedimento, incluse le indagini, non sono per ciò stesso in contrasto con gli articoli 31 della Costituzione del Kosovo e 6 della CEDU, purché i diritti di difesa vengano egualmente rispettati. Di regola, tali diritti postulano che all’imputato sia data adeguata e sufficiente opportunità di esaminare i testimoni sfavorevoli nel momento stesso in cui rendono le proprie dichiarazioni o, al più, in una fase successiva del procedimento9. Ne consegue che, nel caso in cui l’imputato non abbia tale possibilità in epoca coeva alla raccolta delle dichiarazioni del testimone, come nel caso del riformato art. 143, co. 2, lett. c), delle Rules of procedure, tale opportunità gli va accordata in una fase successiva del procedimento. Ciò, del resto, è connaturato nella stessa disciplina dell’esame incrociato, quale modalità tipica di esame del testimone, scolpito nell’art. 143, co. 3, della normativa in considerazione, rimasto sul punto invariato. Al riguardo, sebbene l’art. 143, co. 2, lett. c), nel testo emendato, abbia introdotto la possibilità per l’autorità giudiziaria di utilizzare una precedente dichiarazione testimoniale come prova laddove difforme dalla versione prospettata in dibattimento, la Corte EDU ha già chiarito che, nel condannare un imputato, un tribunale possa utilizzare dichiarazioni rese da un testimone in fase di indagini e successivamente ritrattate in udienza pubblica, a condizione che la difesa abbia avuto l’opportunità di contro-esaminare il testimone10. Del resto, non si può ritenere in astratto che le prove fornite da un testimone in udienza pubblica e sotto giuramento debbano sempre ritenersi prevalenti – cioè assistite da una maggiore valenza dimostrativa – rispetto ad altre dichiarazioni rese dal medesimo teste nel corso del procedimento penale, anche quando le due versioni fornite siano in contrasto11.

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Sul punto si rinvia ai seguenti casi decisi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte EDU): Schatschaschwili c. Germania [GC], no. 9154/10, ECHR 2015, § 100; Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], no. 26766/05 e 22228/06, ECHR 2011, § 118; Lucà c. Italia, no. 33354/96, ECHR 2001-II, § 37-38. In materia, cfr. M. Biral, The Right to Examine or Have Examined Witnesses as a Minimum Right for a Fair Trial. Pitfalls and Trends, in European journal of Crime, Criminal law and Criminal Justice, 22/2014, 331-350. 9 In questo senso si è pronunciata la Corte EDU, tra l’altro, nel caso Manucharyan c. Armenia, no. 35688/11, ECHR 2016, § 46. 10 Sul punto, si vedano i seguenti casi della Corte EDU: Berardi and Others c. San Marino, no. 24705/16, 24818/16 e 33893/16, § 73-79, ove la Corte rileva che l’art. 6, co. 3, lett. d), CEDU sancisce il diritto dell’imputato di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico” e che le eccezioni al principio di assunzione della prova testimoniale in pubblica udienza ed alla presenza dell’imputato devono comunque assicurare il rispetto dei diritti di difesa, tra cui quello di contro-esaminare il medesimo testimone, seppure in una fase successiva del procedimento. 11 Tale statuizione echeggia il pronunciamento della Corte EDU nei seguenti casi: Doorson c. Paesi Bassi, no. 20524/92, ECHR 1996, § 78; Bulfinsky c. Romania, no. 28823/04, ECHR 2010, § 46.

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In ogni caso, spetta al tribunale valutare la credibilità del testimone e fare una scelta tra le concorrenti (eventualmente difformi) versioni dei fatti prospettate, fatto salvo il requisito costituzionale e convenzionale che il processo sia equo. Per effetto di tali considerazioni, la Special Chamber della Corte Costituzionale conclude che l’emendamento apportato all’art. 143 è da ritenersi conforme al dettato costituzionale ed al tessuto convenzionale di tutela dei diritti fondamentali.

3. Le contestazioni nel processo penale: giusto processo e contraddittorio nella formazione della prova. L’istituto delle contestazioni costituisce un nodo cruciale di ogni sistema processuale penale, rappresentando una delle più significative cartine tornasole atte a verificare il grado di assimilazione dei principi di contraddittorio, oralità ed immediatezza nella formazione della prova, attesa la sua incidenza sul delicato rapporto tra attività compiuta durante la fase delle indagini e istruttoria probatoria dibattimentale12. Il nocciolo della questione risiede nel valore da attribuire alle dichiarazioni lette per la contestazione e, quindi, nel discernere se il dichiarato, precedente e difforme, possa essere utilizzato dal giudice in chiave probatoria ovvero se esso rilevi al solo fine di determinare la credibilità del testimone (soluzione, quest’ultima, come si vedrà accolta dal codice di procedura penale italiano ai sensi dell’art. 500, in ossequio al recepimento nell’art. 111 della Costituzione del principio del contraddittorio, fatte salve le ipotesi tassativamente previste, parimenti assistite da copertura costituzionale). Dal punto di vista squisitamente pratico, la contestazione rappresenta una vicenda eventuale ed interna all’esame dibattimentale del testimone, consistente nel fargli rilevare la difformità tra le sue precedenti dichiarazioni – rese durante le indagini – e quelle fatte nel dibattimento13. Si tratta, in definitiva, di una “provocazione”14, diretta a rendere consapevole il testimone della contraddizione e ad indurlo a fornire spiegazioni in proposito. Di regola, la contestazione: a) presuppone la difformità tra il contenuto della deposizione e la dichiarazione resa precedentemente, dovendosi intendere difforme sia la divergenza dovuta ad un diverso grado di

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Per un raffronto con i sistemi di common law, cfr. A. Balsamo-A. Lo Piparo, Le contestazioni nei sistemi di common law e nel processo penale italiano: la ricerca di un “giusto” equilibrio tra scrittura e oralità, in Dir. pen. proc., 2005, 485 ss. 13 Secondo parte della dottrina (così A. Balsamo, L’istruttoria dibattimentale e l’attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e ricerca della verità, in Cass. Pen., 2002, 391 ss.), nella contestazione si è riprodotto il meccanismo posto alla base della testimonianza indiretta: mentre il teste ricostruisce il fatto direttamente in dibattimento, se gli viene contestato di aver detto cose diverse in fasi precedenti, il medesimo può testimoniare indirettamente sulle sue dichiarazioni. Secondo altri (A. Nappi, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2004, pp. 150 ss.), invece, l’istituto in esame evocherebbe la categoria delle res gestae: il riconoscimento, da parte del testimone, del fatto di aver reso la dichiarazione ante-dibattimentale, rileva non solo come fatto storico, ma consente anche di attribuire valore probatorio a suddetta dichiarazione. 14 In questi termini F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, 700.

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completezza nella descrizione del fatto, sia il vero e proprio contrasto tra le due versioni, sia anche il mancato ricordo di una data circostanza15; b) si basa su dichiarazioni rese in precedenza dal teste e non da altri soggetti, così da porre il deponente di fronte alla sua precedente versione dei fatti; c) segue cronologicamente la deposizione al fine di evitare ogni possibile effetto di suggestione o condizionamento nei confronti del teste; d) si attua mediante la lettura integrale della dichiarazione pregressa in contrasto con quanto riferito durante l’esame testimoniale. Ciò posto sul concreto funzionamento del meccanismo delle contestazioni, il nodo gordiano da dipanare in materia è quello – già anticipato – concernente il valore da attribuire al c.d. “precedente difforme” oggetto di contestazione al testimone16. Nell’ordinamento processuale penale italiano – diversamente da quanto adesso stabilito dalle Rules of procedure and evidence delle Specialist Chambers del Kosovo – ne è esclusa la valenza probatoria: in altri termini, e salve le ipotesi tassativamente previste17, le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possono essere usate, in chiave critica, ai soli fini dell’accertamento della credibilità del teste; viceversa, la contestazione non può costituire prova dei fatti in essa affermati18. Se dunque, dopo la contestazione, permane il contrasto in relazione alla dichiarazione precedentemente resa dal testimone, il giudice potrà: a) ritenere che la versione resa dal teste in dibattimento non sia credibile; b) convincersi che il teste abbia detto il vero in dibattimento; in ogni caso, il giudice non può ritenere provato il fatto affermato nella dichiarazione utilizzata per la contestazione. Dunque, la regola di esclusione probatoria impedisce la valutazione a fini schiettamente probatori delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni19, sebbene l’esplicazione del contraddittorio possa consentire alla parte, entro un certo margine, di recuperare in chiave probatoria la dichiarazione precedentemente resa dal teste.

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Cfr. C. Conti, Principio del contraddittorio e utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni, in Dir. Pen. Proc., 2001, 592 ss.; Cass. Pen., Sez. 3, n. 13927 del 4.3.2015, in CED, n. 264014. 16 Per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione della disciplina del “precedente difforme” nell’ordinamento italiano, dalla versione originaria alla svolta di cui alla L. n. 306/1992, cfr. S. Corbetta, sub art. 500, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Vicenza, 2017, 2369 ss. 17 Trattasi della minaccia e della subordinazione del teste, delle dichiarazioni “garantite” in quanto assunte dal giudice nell’udienza preliminare nel contraddittorio tra le parti (i.e. in sede di incidente probatorio) e delle dichiarazioni predibattimentali acquisite con il consenso delle parti. 18 La mancata riproposizione nell’art. 500 c.p.p. del previgente quarto comma e l’analisi dei lavori preparatori alla L. n. 306/1992 non lasciano alcun dubbio circa la non utilizzabilità, ai fini decisori, delle dichiarazioni lette per le contestazioni; cfr. A. Scaglione, Il regime di utilizzabilità degli atti delle indagini preliminari a contenuto dichiarativo, in Cass. Pen., 2003, 356 ss. 19 In tal senso la stessa giurisprudenza di legittimità; cfr. Cass. Pen., Sez. 2, n. 13910 del 17.3.2016, in CED, n. 266445, secondo cui le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone possono essere valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale solo se siano state successivamente confermate. In motivazione, la S.C. ha precisato che tali dichiarazioni possono essere valutate solo ai fini della credibilità, ma mai come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese.

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Ciò, segnatamente, allorché il testimone, chiamato a deporre dopo un lungo periodo dal fatto, pur non serbando nitidamente il ricordo di una data circostanza, a seguito della contestazione ammetta che, avendola riferita in sede di indagine, essa è vera20. Essendosi formata nel corso dell’esame dibattimentale, quella dichiarazione viene perciò acquisita al patrimonio conoscitivo dell’autorità giudiziaria procedente e, nel contesto del materiale probatorio già formato, può essere utilizzata dal giudice ai fini del decidere21. Mette conto segnalare che la Corte costituzionale italiana ha promosso la disciplina delle contestazioni contenuta nel vigente art. 500 c.p.p., reputandola regola aurea del processo accusatorio, che, salvo le ipotesi tassativamente disciplinate, impedisce il recupero in chiave probatoria di quanto raccolto unilateralmente nella fase preliminare, essendo la regola di esclusione probatoria costituzionalmente imposta alla luce dei principi del “giusto processo” consacrati nell’art. 111 Cost. Sicché, sin dalla prima decisione sul punto, il giudice delle leggi ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, co. 2 e 7, c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 101, 111 e 112 Cost., nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni e valutate ai fini della credibilità del teste, possano essere acquisite e valutate anche come prova dei fatti in esse affermati, se sussistono altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità. In definitiva, il giudice delle leggi reputa pienamente legittima la regola di esclusione probatoria in quanto frutto di una precisa scelta che il legislatore ha compiuto in attuazione dei principi sanciti dall’art. 111 Cost.22.

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Si tratta di una “metadichiarazione”, resa nel corso della deposizione dalla viva voce del testimone, che si fa “garante” della sua veridicità, assimilabile, per certi versi, ad una dichiarazione de relato, con la peculiarità che entrambe le dichiarazioni provengono dalla medesima fonte; così S. Corbetta, sub art. 500, cit., 2372. 21 Cfr. A. Balsamo, L’inserimento nella Carta costituzionale dei principi del “giusto processo” e la valenza probatoria delle contestazioni nell’esame dibattimentale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2002, 471 ss. In questo senso si è espressa la giurisprudenza, la quale ha ravvisato valore probatorio nella conferma del testimone, nel corso della deposizione dibattimentale, delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, con la precisazione in seguito a contestazione che le dichiarazioni allora rese erano frutto di un più vivido ricordo della vicenda; cfr. Cass. Pen., Sez. 1, n. 23012 del 14.5.2009, in CED, n. 244451. 22 Cfr. la prima pronuncia in materia, Corte cost., n. 36/2002, in Giur. Cost., 2002, 320, con note di G. Spangher, I precedenti investigativi discordanti al primo vaglio del «giusto processo», ivi, 372 e di S. Buzzelli, Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una sbrigativa ordinanza della Corte costituzionale, ivi, 328. Tale interpretazione è stata reiteratamente seguita in numerose ulteriori ordinanze: cfr. Corte cost., n. 453/2002, in Giur. Cost., 2002, 3733, con nota di E. Mengoni, La falsità della testimonianza non consente il recupero delle dichiarazioni predibattimentali (una precisazione della Corte costituzionale sul significato dell’art. 111 Cost. in materia di provata condotta illecita), ivi, 2003, 1063; v., altresì, Corte Cost., n. 293/2002, in Giur. Cost., 2002, 2111; Corte cost., n. 365/2002, in Giur. Cost., 2002, 2723; Corte cost., n. 396/2002, in Giur. Cost., 2002, 2997; Corte cost., n. 431/2002, in Giur. Cost., 2002, 3242. Il motivo conduttore di tali pronunce è il seguente: il principio del contraddittorio esprime una generale regola di esclusione probatoria, in base alla quale nessuna dichiarazione raccolta unilateralmente durante le indagini può essere utilizzata come prova del fatto in essa affermato, se non nei casi, eccezionali, contemplati dal comma successivo, di consenso dell’imputato, di accertata impossibilità di natura oggettiva di formazione della prova in contraddittorio, di provata condotta illecita; ne segue che la disciplina prevista dal nuovo art. 500 c.p.p. mira ad impedire che l’istituto delle contestazioni si atteggi a meccanismo illimitato ed incondizionato di acquisizione di elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, prima e fuori del contraddittorio.

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Dettato costituzionale la cui riscrittura ad opera della legge di revisione n. 2/1999, almeno in parte, è dichiaratamente ispirato al procès équitable di cui all’art. 6 della CEDU (co. 1-3), in altra parte, invece, constando di principi tesi a perimetrare con esattezza gli spazi della prova dichiarativa nel processo penale (co. 4 e 5). Più analiticamente, i primi due commi dell’art. 111 sanciscono principi che non si riferiscono soltanto al processo penale, ma che devono innervare, quale denominatore comune, tutti i contesti nei quali si ravvisa l’esercizio di un potere giurisdizionale. In particolare, il primo comma stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, così sancendo una riserva di legge in materia processuale. Il secondo comma, invece, scandisce il principio del contraddittorio, proclamazione reiterata anche nel quarto comma. Tuttavia, mentre il contraddittorio evocato dal secondo comma concerne indistintamente tutti i tipi di processo, postulando che la decisione del giudice venga emessa audita altera parte23, lo stesso canone, in seno al quarto comma, è richiamato nella sua accezione specifica di contraddittorio nella formazione della prova. Successivamente, il secondo comma sancisce altresì il canone della “parità tra le parti” e stabilisce che il processo debba svolgersi “davanti a giudice terzo e imparziale”, nel rispetto del principio della “ragionevole durata”, la cui concreta attuazione è rimessa al legislatore di rango primario. Gli enunciati successivi, invece, hanno per oggetto esclusivo il processo penale. Segnatamente, il terzo comma contiene il catalogo dei diritti spettanti all’accusato, seguendo una impostazione ampiamente mutuata dall’art. 6 CEDU. L’enunciato più importante di tale paragrafo – accanto al riconoscimento del diritto dell’imputato ad essere informato riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa nel più breve tempo possibile, di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa, di ottenere la citazione di testimoni a discarico e di farsi assistere da un interprete – è quello di attribuire alla persona accusata la facoltà di interrogare o di far interrogare, davanti al giudice, le persone che rendono dichiarazioni a suo carico. Si tratta dunque dell’espresso riconoscimento, di portata costituzionale, del diritto dell’imputato a confrontarsi con il proprio accusatore. Possono fin d’ora segnalarsi due differenze rispetto al disposto dell’art. 6 CEDU: in primo luogo, il diritto a confrontarsi deve trovare attuazione “davanti al giudice”; in secondo luogo, la norma indica i dichiaranti a carico con il termine “persone” e non con la locuzione “testimoni”, presente nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, evidentemente al fine di consentire l’attuazione del diritto al confronto anche con i dichiaranti incompatibili con la qualità giuridica di testimoni (si pensi agli imputati ed agli indagati in procedimenti a diverso titolo connessi). A seguire, il primo periodo del quarto comma stabilisce che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La disposizione, come anticipato, riconosce il principio del contraddittorio nella sua accezione oggettiva e servente rispetto alla giurisdizione. Ancora, lo stesso paragrafo precisa che la colpevolezza di una persona non possa essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente

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In altri termini, il soggetto che subirà gli effetti del provvedimento giurisdizionale deve essere messo in condizione di esporre le proprie difese prima che il provvedimento sia emanato nei suoi confronti.

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sottratto all’interrogatorio della difesa. Trattasi di evidente corollario del principio del contraddittorio, oltre che concreta estrinsecazione del diritto a confrontarsi con l’accusatore di cui al terzo comma. Al principio del contraddittorio nella formazione della prova il quinto comma dell’art. 111 pone tre eccezioni, che devono essere previste per legge: segnatamente, la prova è utilizzabile, anche se si è formata fuori del contraddittorio, “per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”. La previsione di deroghe siffatte vale a declinare in chiave moderna il principio in oggetto: il contraddittorio non è considerato assolutisticamente quale fine in sé, ma come metodo; pertanto, laddove esso si riveli inattuabile, è eccezionalmente possibile utilizzarne altri “equipollenti”24. In prospettiva sovranazionale, l’omologo dell’art. 111 Cost. si individua pacificamente nell’art. 6 CEDU, costituente il più importante referente normativo di portata internazionale in tema di garanzie processuali. L’espressione “equo processo” con cui è rubricata la disposizione ricorre ad una aggettivazione utile per superare la consueta dicotomia accusatorio/inquisitorio, peraltro sconosciuta a livello di fonti internazionalistiche, CEDU inclusa. Quest’ultima, invero, non opta per l’uno o l’altro modello, ma preferisce sottolineare un’esigenza imprescindibile, quella che la disciplina processuale mostri la sua corrispondenza alle regole del giusto processo25, orientate per definizione alla costituzione di una solida rete protettiva a garanzia del diritto alla libertà personale ed a tutela dello svolgimento del processo equo26. L’articolo in questione, che consente di delineare un quadro sommario ma abbastanza completo dei caratteri ai quali deve ispirarsi un processo moderno27, contiene quindi un ampio catalogo, seppur non esaustivo, atteso che i diritti enunciati nei singoli commi possono combinarsi tra loro dando vita ad ulteriori guarentigie28. Nel complesso, dunque, l’equità processuale evocata dall’art. 6 CEDU risulta costituita da tanti elementi – dalla parità delle armi al principio del contraddittorio, dall’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie al diritto di rimanere in silenzio, non rendendo dichiarazioni autoincriminanti –, alcuni ben visibili nell’articolo in considerazione, altri non espliciti, ma non per questo meno importanti, spettando all’interprete il difficile compito di individuare la portata ed il peso di ciascuna componente della fairness processuale. In questa prospettiva ricostruttiva, con precipuo riferimento al diritto alla prova sancito dall’art. 6 CEDU, va rilevato innanzitutto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più vol-

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C. Meoli, Il principio del giusto processo. Osservazioni di diritto comparato europeo, in http://www.europeanrights.eu. 25 Cfr. G. Ubertis, Principi di procedura penale europea, Milano, 2000, 15 ss.; F. Gambini-A. Tamietti, sub art. 6, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 173 ss. 26 Cfr. S. Buzzelli, sub art. 6, in G. Ubertis, F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, 129. 27 G.D. Pisapia, Appunti di procedura penale, Milano, 1971, 6. 28 In termini, la pronuncia della Corte EDU nel caso Kostowsky c. Paesi Bassi, n. 11454/85, ECHR 1989, § 39.

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te ribadito come spetti alle giurisdizioni interne pronunciarsi sull’utilità e la pertinenza delle prove di cui l’imputato sollecita l’acquisizione29. Ciò posto, uno dei profili più rilevanti che concorrono a vivificare la portata centrale dell’art. 6 CEDU attiene all’affermazione del diritto dell’accusato al confronto con il testimone a carico. L’analisi della disciplina non può che prendere le mosse dall’originario orientamento consolidato, in virtù del quale, in linea di principio, gli elementi di prova devono essere prodotti davanti all’imputato in udienza pubblica e nel contraddittorio tra le parti30. Regola non assoluta che ammette, in talune circostanze, il ricorso a elementi di prova raccolti nelle fasi anteriori del processo, purché all’imputato sia concessa un’occasione adeguata e sufficiente per contestare la testimonianza a carico e per interrogarne l’autore, al momento della deposizione ovvero successivamente31. Si è così rilevato come il giudice europeo esiga un contraddittorio quanto meno differito sulla fonte di prova32: da una parte, si nega la legittimità di un contraddittorio esclusivamente volto al vaglio di un elemento di prova già acquisito da una delle parti in assenza dell’altra o dal solo giudice nella fase istruttoria, ma, dall’altra, non si reputa essenziale l’instaurazione di un contraddittorio diretto all’introduzione nel processo dell’elemento di prova. Inoltre, secondo la Corte di Strasburgo non può sostenersi in astratto che le dichiarazioni rese da un testimone nel corso dell’udienza pubblica e sotto giuramento debbano essere in ogni caso considerate più attendibili di quelle rese dallo stesso testimone in altra occasione nel corso del procedimento penale, anche qualora tra le medesime vi sia incompatibilità33, purché il giudice indichi le ragioni che lo abbiano indotto a preferire un testimonianza resa durante l’istruzione piuttosto che la dichiarazione rilasciata davanti al giudice del dibattimento34. Da tale impostazione discende la tendenziale iniquità di una condanna basata in modo unico o determinante sulle dichiarazioni rese da un testimone che la difesa non abbia potuto

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Così nel caso Salduz c. Turchia [GC], no. 36391/02, ECHR 2008, § 52. Spetta dunque all’organo giudicante, non obbligato ad accogliere ogni richiesta di prova delle parti, valutare l’utilità di ricorrere a un dato strumento conoscitivo, richiamandosi ai requisiti di pertinenza e rilevanza. Ciononostante, circostanze eccezionali possono condurre all’accertamento della violazione dell’equità processuale. In merito al diritto all’ammissione probatoria, la Corte di Strasburgo ha così affermato che è dovere del giudice motivare il rigetto della richiesta di parte, essendo il mero silenzio sul punto incompatibile con i principi dell’equo processo. Tuttavia, non è sufficiente che l’accusato si lamenti di non aver potuto interrogare un testimone, essendo altresì tenuto a precisare l’importanza dell’audizione e la sua necessità per l’accertamento della verità. Cfr. Perna c. Italia [GC], no. 48898/99, ECHR 2003, § 29. 30 Per tutte, cfr. le seguenti pronunce della Corte EDU: Majadallah v. Italia, no. n. 62094/00, ECHR 2006, § 37; Carta v. Italia, no. 4548/02, ECHR 2006, § 48; Asch v. Austria, no. 12398/1986, ECHR 1991, § 27. 31 Kostowsky c. Paesi Bassi, n. 11454/85, ECHR 1989, § 41. Si è peraltro precisato come una tale opportunità di confronto debba svolgersi necessariamente alla presenza del giudice e non davanti al pubblico ministero o, a maggior ragione, alla polizia giudiziaria, non costituendo costoro organi imparziali (Pacula c. Lettonia, no. 65014/01, ECHR 2009, § 54) 32 G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, Principi generali, Torino, 2013, 167. 33 Così nel caso Bosti c. Italia, no. 45392/2009, ECHR 2014, § 43, fattispecie in cui è stata dichiarata irricevibile una doglianza relativa all’impiego determinante per la condanna di una chiamata in correità effettuata nel corso delle indagini e ritrattata in dibattimento, in forza d’una valutazione non arbitraria né irragionevole da parte del giudice nazionale, per provata condotta illecita ex art. 500, co. 4, c.p.p. 34 Cfr. la pronuncia della Corte EDU nel caso Jannatov c. Azerbaijan, no. 32132/07, ECHR 2014, § 81.

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interrogare35, salva rinuncia – consapevole ed inequivoca – sul punto36. Per l’effetto, la testimonianza unilateralmente formata può essere legittimamente utilizzata al solo fine di corroborare le prove principali acquisite nel pieno contraddittorio37. Va segnalato, da ultimo, che tale tradizionale orientamento interpretativo è stato recentemente mitigato dalla giurisprudenza europea, la quale ammette adesso deroghe al divieto di utilizzo della testimonianza “unilaterale” laddove l’impossibilità per la difesa di interrogare il dichiarante sia giustificata da un evento in alcun modo imputabile all’autorità giudiziaria38 e trovi compensazione in garanzie procedurali idonee ad assicurare la complessiva equità del procedimento39.

4. Osservazioni conclusive. La pur sintetica comparazione tra i canoni del giusto processo costituzionale italiano e quelli formulati a livello convenzionale europeo consente di ritenere i due modelli non perfettamente coincidenti. La Convenzione europea, così come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo, esige, per certi versi, qualcosa in meno delle garanzie riconosciute dalla Costituzione e dalla legge processuale italiana, che giungono a proclamare la tendenziale inutilizzabilità di ogni dichiarazione non sottoposta al vaglio dibattimentale. Innanzitutto, la stessa disciplina costituzionale – nell’accogliere una rigida enunciazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, accompagnata da una speciale clausola di inutilizzabilità contra reum – fissa uno standard di garanzie formalmente più elevato rispetto a quanto richiesto dalla Convenzione medesima40. Nella disciplina pattizia, infatti, non vi è alcun esplicito riferimento al metodo del contraddittorio nella formazione della prova, né a canoni di esclusione probatoria derivanti dalla sua inosservanza, né ad una previsione come quella del quarto comma dell’art. 111 Cost., secondo cui “la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”. Tale elevato livello di garanzie è ribadito altresì nella normativa di rango primario, ove in sede di disciplina della prova testimoniale è stato recepito l’assunto secondo cui il valore delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni è, di regola, rigidamente limitato alla critica

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Con precipuo riferimento ai casi “italiani” di dichiarazioni determinanti rese da un testimone divenuto irreperibile in dibattimento, si segnalano le seguenti pronunce della Corte EDU: Ogaristi c. Italia, no. 231/2007, ECHR 2010, § 61 ss.; Kollcaku c. Italia, no. 25701/03 ECHR 2007 § 69; Majadallah c. Italia, no. 62094/00, ECHR 2006, § 40 ss.; Bracci c. Italia, no. 36822/02, ECHR 2005, § 54 ss. 36 Cfr. Petrov c. Bulgaria, no. 20024/04, ECHR 2011, § 38-39. 37 Sicché, la Corte EDU ha escluso un sostegno reciproco tra due elementi di prova aventi il medesimo difetto dialettico nel caso Delta c. Francia, no. 11444/85, ECHR 1990, § 37. 38 Cui va accostata la condotta intimidatoria dell’accusato, equiparabile ad una rinuncia inequivoca al diritto al confronto. 39 Si allude ai seguenti casi: Schatschaschwili c. Germania [GC], no. 9154/10, ECHR 2015, § 100; Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], no. 26766/05 e 22228/06, ECHR 2011, § 118. 40 Cfr. S. Lonati, Una proposta de iure condendo per adeguare il nostro sistema ai principi della Convenzione europea in tema di formazione della prova orale, in Riv. it. dir. e proc. pen., n. 3 del 2012, 1016 ss.

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dell’attendibilità del dichiarante: il secondo comma dell’art. 500 c.p.p. dispone, infatti, che “le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste”. La disciplina delle contestazioni nell’esame dibattimentale costituisce, allora, un punto di osservazione privilegiato attraverso cui verificare in che misura i principi del contraddittorio e dell’oralità vivano nella trama disegnata dalle disposizioni che compongono il sistema processuale penale. Nondimeno, la positiva valutazione della più rigida regolamentazione nazionale di cui all’art. 500 c.p.p. muta radicalmente se si adotta, quale parametro di riferimento, proprio il concetto europeo di “giusto processo”, che richiede che gli interessi delle vittime e dei testimoni vengano presi in considerazione allo stesso modo di quelli degli imputati, nella regolamentazione legale del fenomeno probatorio41. Sotto questo profilo, il bilanciamento di interessi operato dal legislatore nel vigente testo dell’art. 500 c.p.p. incontra non poche riserve, tenuto conto della indubbia difficoltà di acquisizione della prova relativa ai presupposti di fatto (le pressioni subite dal testimone) cui è subordinato, a mente del quarto comma della stessa disposizione, l’inserimento delle precedenti dichiarazioni nel fascicolo per il dibattimento. Per effetto della previsione che impedisce, in via generale, di utilizzare ai fini del decidere il “precedente difforme” reso in sede predibattimentale da soggetti successivamente sottoposti al controesame della difesa, peraltro, possono verificarsi situazioni processuali ove la sola prova idonea a garantire la tutela di diritti fondamentali di particolare rilevanza diviene inammissibile, senza che ciò sia richiesto dall’esigenza di salvaguardare altri valori sanciti dalla CEDU42. Conseguentemente, si è osservato che la regolamentazione delle contestazioni recepita dall’ordinamento processuale penale italiano si pone in un rapporto significativamente problematico con il consolidato indirizzo della giurisprudenza europea, postulante l’adozione da parte dello Stato di strumenti normativi interni a carattere processuale, e più in generale un sistema di investigazione e perseguimento dei reati, adeguati a far valere la violazione di determinati diritti fondamentali, come la vita, l’integrità psicofisica, la libertà individuale, la libertà sessuale43. Il rischio segnalato è, dunque, che l’ordinamento domestico divenga un potenziale “porto sicuro” rispetto a determinati flussi di criminalità non suscettibili di essere raggiunti da un giudizio di penale responsabilità in forza della vigente disciplina circa il regime di utilizzabilità del “precedente difforme”, che in altri ordinamenti invece consentirebbe di addivenire senza difficoltà ad una statuizione condannatoria44. Né appare oltremodo possibile invocare, a sostegno dell’attuale formulazione dell’art. 500 c.p.p., il tradizionale orientamento della Corte EDU circa il diritto al confronto con il testimone a carico, atteso che tale canone è stato da ultimo significativamente relativizzato a seguito di

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Così A. Balsamo-A. Lo Piparo, Principio del contraddittorio, utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali e nozione di testimone tra giurisprudenza europea e criticità del sistema italiano, in S. Allegrezza-A. Balsamo-R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano: nuovi scenari dopo il caso Dorigo e gli interventi della Corte Costituzionale, Torino, 2008, 362. 42 Ivi, 363. 43 Ibidem. 44 Ibidem.

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un rilevante revirement interpretativo, destinato a ripercuotersi sensibilmente sulla regolamentazione della materia45. È agile comprendere, allora, le ragioni di fondo che hanno condotto alla riscrittura delle Rules of procedure and evidence delle Specialist Chambers del Kosovo introducendo, expressis verbis, l’utilizzabilità probatoria delle precedenti dichiarazioni rese dal testimone in fase di indagini ove difformi da quelle effettuate in sede dibattimentale. Quella, cioè, di rendere pienamente perseguibili i gravi crimini assoggettati alla speciale giurisdizione di tali organismi giudiziari internazionalizzati, senza limiti alla possibilità di avvalersi della valenza dimostrativa delle dichiarazioni predibattimentali rese da soggetti che sono stati successivamente sottoposti al controesame della difesa e, in ogni caso, pur sempre sotto l’attento vaglio dell’autorità giudiziaria, cui è discrezionalmente rimesso detto apprezzamento. Il che risulta perfettamente in linea tanto con la costituzione kosovara quanto, e soprattutto, con il dettato della CEDU, nell’interpretazione più recente resane dalla Corte di Strasburgo, che, come visto, non osta ad una soluzione siffatta purché venga garantito, recuperandolo almeno ex post, il diritto dell’imputato al confronto con il proprio accusatore e, se ciò sia impossibile e la prova così acquisita sia decisiva, ove sussistano delle solide garanzie procedurali idonee a controbilanciarla. Tale compatibilità, con la pronuncia in commento della Specialist Chamber della Corte Costituzionale del Kosovo, viene ribadita con parole ampiamente echeggianti la giurisprudenza della Corte EDU, nei confronti dei cui approdi ermeneutici si effettua pertanto una ampia ed aperta adesione. Viene così accolto il modello probatorio “partecipativo”, fondato sull’estensione della sfera soggettiva delle garanzie, volta ad assicurare una adeguata tutela a tutti i diritti fondamentali a diverso titolo coinvolti dalla dinamica processuale, e sul rapporto sostanziale che è ad essa sotteso, mediante la sostituzione ad una concezione “unidimensionale” del principio del contraddittorio – confinata entro gli stretti confini della dialettica tra pubblico ministero ed imputato – con un diverso approccio “pluridimensionale”, che traccia precise direttive ai fini del bilanciamento tra i molteplici interessi sottesi alla prova penale: da un lato, il diritto dell’accusato al confronto con i testi a carico; dall’altro, l’obiettivo di una ricostruzione per quanto possibile completa dei fatti di causa, in vista di una effettiva repressione della criminalità, la necessità della protezione di vittime e testimoni da minacce e intimidazioni e, infine, l’esigenza di evitare che soggetti dalla personalità fragile siano esposti, durante la deposizione, a traumi e stress eccessivi.

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Il riferimento è ai già citati casi Schatschaschwili c. Germania [GC], no. 9154/10, ECHR 2015, § 100; Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], no. 26766/05 e 22228/06, ECHR 2011, § 118. In forza di tali arresti della Corte EDU, la valutazione d’equità con riguardo a un processo in cui sono state acquisite dichiarazioni rese in difetto di dialetticità si scompone in tre momenti: 1) in primo luogo, serve una valida ragione che giustifichi la mancata comparizione del testimone in dibattimento; 2) in secondo luogo, occorre accertare se la testimonianza dell’assente costituisca la prova “unica o determinante” della decisione. A tal riguardo, “unica” è la prova che da sola conduce alla condanna dell’accusato; mentre “determinante” è la prova la cui importanza è tale da comportare la soluzione del caso; 3) l’eventuale decisività delle dichiarazioni lette, inoltre, non comporta ex se l’iniquità del processo, ma apre la strada al terzo vaglio, all’esito del quale la violazione dell’art. 6, co. 1 e 3, CEDU è esclusa qualora esistano delle solide garanzie procedurali idonee a controbilanciare la prova “sola o determinante”. Sul punto, cfr. diffusamente S. Buzzelli, sub art. 6, cit., 212 ss.

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Nella giurisprudenza della Corte EDU prima ed in quella della Specialist Chamber della Corte Costituzionale del Kosovo ora, il contraddittorio vede quindi ridotta la sua efficacia di “regola di esclusione” della ammissibilità di determinate tipologie probatorie, vedendo in compenso potenziata la sua incidenza sul terreno della valutazione della prova. Un contesto in cui la maggiore estensione del materiale dimostrativo disponibile per il giudice del dibattimento è controbilanciata dalla affermazione di un metodo di ricostruzione dei fatti che privilegia il valore determinante delle fonti di prova sottoposte al controesame della difesa. In ciò trova avveramento il canone del giusto processo penale di matrice convenzionale, con tale ambiziosa aggettivazione alludendosi ad un impianto che non contiene i germi dell’inquisitio ed al quale neppure si possono attribuire gli stringenti limiti propri delle procedure di ispirazione accusatoria, ma che è inseparabilmente avvinto al metodo dialettico46. Di talché, il contraddittorio traccia l’orizzonte del giusto processo, indirizzato allo scopo del raggiungimento di una “verità giudiziaria”47, sebbene nel tentativo di darvi concreta attuazione la babele legislativa abbia sovente dato luogo a meccanismi processuali i cui ingranaggi non raramente tendono ad incepparsi. Come acutamente osservato, per essere giusto, il processo non deve essere solo possibile, ma anche effettivo48, quindi in grado di svolgere i compiti che una “società democratica” (art. 6, co. 1, CEDU) gli demanda e di assicurare che i diritti siano saldi e non svuotati della loro consistenza. In tale direzione appare muovere il sistema processuale delineato dalle emendate Rules of procedure and evidence delle Specialist Chambers del Kosovo, come coerentemente ratificato con la pronuncia in commento emessa dalla Specialist Chambers of the Constitutional Court, la quale si inserisce così nel solco del dialogo tra giurisdizioni internazionali, fornendo il proprio apporto alla tanto fondamentale quanto delicata opera di bilanciamento dei rapporti tra canone del giusto processo e principio di ricerca della verità.

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S. Buzzelli, Giusto processo (voce), in Dig. disc. pen., II agg., Torino, 2004, 342 ss. Cfr. G. Ubertis, Principi di procedura penale europea, cit., 37. 48 In tema di effettività, cfr. F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 100, ove con tale locuzione si alludeva al fatto che “ciascuna parte sia in grado di spiegare nel processo una azione tale da costituire un contrappeso efficace alla azione dell’altro. Si deve mettere l’accento sul principio di uguaglianza, che è alla base del contraddittorio. Se (...) una parte vorrebbe agire, ma non ha i mezzi all’uopo, il contraddittorio è apparente, anzi che effettivo”; il contraddittorio, quindi, “implica un rapporto di forze e questo non sempre va d’accordo con la giustizia”. 47

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Il principio di indeterminazione di Heisenberg e la misurazione della corruzione Abstract The difficulty of analysing the measurement of corruption, which is fundamental for an adequate and reliable representation of reality, is described through a game of metaphors with the electron when we decide to measure them. What happened in experimentally handling matter at a subatomic level was that it no longer responded to the concepts of Newtonian physics. Matter no longer seemed to respond to the concept of independence of the natural object, according to which the object studied exists independently of the known subject. Indetermination, complementarity, waves or probability particles, tendency to exist until the collapse of observation, laws of quantum physics that become metaphors for a comparison with the corruptive phenomenon, whose study, at an international level, saw two families of indicators of the diffusion of corruption, the subjective measurements and the objective measurements. The measurement process is fundamental. The corruptive phenomenon, in the metaphorical game with quantum physics, could partly reflect what happens in the process of measuring the electron at quantum level, the uncertainty, the complementarity and the probability of the event. La difficoltà di analisi della misurazione della corruzione, fondamentale per una rappresentazione congrua e affidabile della realtà, è descritta attraverso un gioco di metafore con l’elettrone nel momento in cui decidiamo di misurarli. Quello che si verificò nel maneggiare sperimentalmente la materia a livello subatomico fu che essa non rispondeva più ai concetti della fisica newtoniana. La materia sembrava non rispondere più al concetto di indipendenza dell’oggetto naturale, secondo cui l’oggetto studiato esiste indipendentemente dal soggetto conoscente. Indeterminazione, complementarietà, onde o particelle di probabilità, tendenza ad esistere fino al collasso dell’osservazione, leggi della fisica quantistica che diventano metafore per un confronto con il fenomeno corruttivo, il cui studio, a livello internazionale, ha visto contrapposte due famiglie di indicatori della diffusione della corruzione, le misurazioni soggettive e le misurazioni oggettive. Il processo di misurazione è fondamentale. Il fenomeno corruttivo, nel gioco metaforico con la fisica quantistica potrebbe rispecchiare in parte con quanto avviene nel processo di misurazione dell’elettrone a livello quantistico, l’indeterminazione, la complementarietà e la probabilità dell’evento.

Il principio di indeterminazione di Heisenberg1 e la misurazione della corruzione La corruzione è una piaga che il nostro sistema giuridico e sociale cerca di combattere con norme ed azioni che fanno del nostro Paese, un modello internazionale del contrasto al fenomeno corruttivo nelle sue molteplici forme e aspetti.

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Si ringrazia per gli spunti di fisica quantistica Romano Rotonda, dottore in fisica.


Walter Rotonda

Una corretta ed efficiente misurazione è una condizione necessaria per l’azione concreta di contrasto della corruzione, quindi approfondire il tema della misurazione della corruzione diventa essenziale per avere una rappresentazione della realtà congrua ed affidabile. Per comprendere la difficoltà di analisi del fenomeno, potrebbe essere interessante comparare, attraverso un gioco di metafore tra la corruzione e l’elettrone, nel momento in cui decidiamo di misurarli entrambi, in quanto sono parti di un sistema ben più complesso: l’elettrone è una particella subatomica dell’atomo, mentre la corruzione è fenomeno di un sistema ben più complesso, la società. È proprio da qui che parte il parallelismo tra la fisica quantistica e la misurazione della corruzione. Alla fine del XIX secolo, man mano che si precisava la conoscenza dei fenomeni subatomici, la fisica classica cominciò ad incontrare difficoltà e contraddizioni sempre crescenti per superare le quali si rese necessario introdurre nuovi principi. La teoria costruita su questi principi si chiama meccanica quantistica. La fisica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e di tutte le loro interazioni viste sia come fenomeni ondulatori, sia come fenomeni particellari (dualismo onda-particella). Quello che si verificò nel maneggiare sperimentalmente la materia a livello subatomico fu che essa non rispondeva più ai concetti della fisica newtoniana, e la materia sembrava non rispondere più al concetto di indipendenza dell’oggetto naturale, secondo cui l’oggetto studiato esiste indipendentemente dal soggetto conoscente che non ha con esso alcun legame causale, principio su cui poggia l’oggettività della conoscenza scientifica. Se la scienza naturale aveva auspicato e ricercato una realtà perfetta e razionale, conosciuta o conoscibile, prevista o prevedibile, in cui ogni elemento rispecchiava l’ingranaggio di un perfetto orologio meccanico, i risultati della fisica moderna contraddicevano tale visione e introducevano nuovi sistemi di riferimento, che davano più spazio, tra l’altro, alla possibilità dell’indeterminazione, cioè in ultima analisi alla possibile non-oggettività dell’oggetto studiato2. Decisiva nello svelarsi della fisica quantistica fu la manifestazione del principio formulato nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg3 che in seguito definì di indeterminazione: la natura delle particelle elementari non era più definibile in modo oggettivo e indipendente, esistente in sé, bensì la sua registrazione, quale onda o quale particella, risultava essere in funzione dell’osservazione, in particolare di ciò che l’osservatore decideva di osservare. Il principio di indeterminazione afferma infatti che quanto più è precisa la misurazione della posizione tanto più è indeterminata la velocità (quantità di moto) e viceversa. Questo principio andava ad incidere su uno dei capisaldi della scienza naturale, cioè che la natura fosse conoscibile di per sé, indipendentemente dall’occhio conoscente, quale fenomeno effettivamente esistente, esterno ed oggettivo.

http://www.acp-italia.it/rivista/2006/Andrea_braga_-_esse_est_percipi._una_lettura_quantistica_di_carl_rogers.pdf. 3 Principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, relazione formulata nel 1927, secondo la quale due quantità canonicamente coniugate (come la posizione p e la quantità di moto q) non possono essere simultaneamente misurate con accuratezza arbitraria. 2

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Il principio di indeterminazione di Heisenberg e la misurazione della corruzione

Inoltre, possiamo menzionare un ulteriore principio della fisica quantistica, la teoria della complementarietà, enunciato da Niels Bohr4 che affermava che l’elemento subatomico, l’elettrone, dovesse consistere contemporaneamente in un’onda in movimento e in una particella localizzabile in uno spazio determinato, principio che rispondeva proprio alla pluralità dei dati sperimentali riscontrati. La realtà subatomica si presentava dunque come un universo paradossale se osservato secondo le leggi della fisica classica; ciò che si poteva fare, nel tentativo di conoscere le particelle subatomiche, era definire delle onde di probabilità che indicano lo stato quantico di una particella; esso traccia l’area di comparsa probabile di una determinata particella in un determinato momento. La particella assume in questo modo non i caratteri di esistenza definita, bensì di tendenza ad esistere, che esprime la probabilità di trovarsi in un determinato punto, piuttosto che in un altro ugualmente possibile (Legge di Max Born)5. Conseguenza di questa teoria era il sorgere del problema della misurazione. Se si voleva conoscere la localizzazione era impossibile poterne conoscere il movimento e viceversa; e questo non per l’imprecisione degli strumenti, ma era vero in linea di principio, per l’assunzione stessa della complementarità e della indeterminazione. Il risultato eclatante fu dunque il fatto che a determinare lo stato finale del sistema osservato, della sua tendenza ad esistere, doveva necessariamente intervenire una variabile apparentemente esterna e slegata quale era l’occhio osservante dello sperimentatore. All’interno dell’indeterminazione del sistema, il criterio che decideva a favore dell’onda o della particella o che faceva sì che la particella assumesse una delle ugualmente possibili posizioni, consisteva nell’osservazione stessa, e questo venne definito il collasso dell’osservazione. L’osservazione farebbe sì che una sola tra tutte le possibilità della tendenza ad essere, collassi in un evento reale. Viene dunque palesemente meno, a livello subatomico, il principio di oggettività della realtà esterna, e viene meno l’idea sottostante e indubitabile, che la misurazione colga una realtà effettivamente esistente e reale. Concludendo, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg per misurare la realtà bisogna disturbarla, nel momento della misura, l’elettrone “collassa” in un singolo stato. Questo principio ha un risvolto concettuale importante: in un certo senso, con i loro strumenti di misura, gli scienziati intervengono nella creazione della realtà che stanno studiando. Quindi all’interno delle leggi quantistiche è l’occhio dello sperimentatore che, osservando l’evento, cioè mettendosi in relazione con esso, ne determina le caratteristiche fisiche che appariranno poi al momento della misurazione.

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Secondo il principio di complementarità di Niels Bohr, i due aspetti potevano convivere senza creare nessuna contraddizione teorica, anzi, l’aspetto corpuscolare e quello ondulatorio uniti rappresentavano la totalità delle possibili rappresentazioni dello stesso fenomeno fisico. 5 La legge di Born, detta anche regola di Born, formulata nel 1926 dal fisico tedesco Max Born, è una legge fisica della meccanica quantistica che restituisce il valore della probabilità che una misurazione su un sistema quantistico produrrà un dato risultato. Nella sua forma più semplice afferma che la densità di probabilità di trovare la particella in un dato punto è proporzionale al quadrato della grandezza della funzione d’onda della particella in quel punto. La legge di Born è uno dei principi chiave della meccanica quantistica.

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Walter Rotonda

Oggetto conosciuto e soggetto conoscente si stringono in un rapporto unico e partecipato, non risultando più svincolati e indipendenti. Allo stesso modo potrebbe accadere per la misurazione della corruzione cioè una volta percepita necessita di una misurazione. Indeterminazione, complementarietà, onde o particelle di probabilità, tendenza ad esistere fino al collasso dell’osservazione possono forse diventare utilissime metafore per un confronto con il fenomeno corruttivo. Se come sosteneva il filosofo George Berkeley6 “Esse est percepi”, ovvero le cose per esistere hanno bisogno di essere percepite, allora percependo la corruzione ne affermiamo l’esistenza, permane però l’arduo compito, come per i fisici della quantistica, di dover misurare il fenomeno affinché lo stesso possa essere compreso, prevenuto e contrastato. Un’adeguata comprensione delle cause e degli effetti della corruzione ed un suo efficace contrasto richiedono di approntare rilevazioni accurate e condivise. Si tratta infatti di un fenomeno particolarmente ampio e complesso sia negli aspetti definitori sia nelle fasi di rilevazione e in quelle di misurazione. Inoltre, la corruzione può assumere forme e modalità molto diverse all’interno dei singoli Paesi tale che sul piano internazionale se ne possa alterare una rappresentazione della realtà congrua ed affidabile. Il fine di una misurazione oggettiva è individuare il nesso di causalità con le grandezze economiche e sociali, affinarne le strategie di prevenzione e repressione e individuare le politiche nazionali ed internazionali più idonee possibile. Ciò presuppone una definizione della corruzione accolta ed un set di indicatori accurati e condivisi sul piano internazionale in grado di sostenere una comparazione dei dati fra Paesi, affidabile sul piano ontologico ed utile sotto il profilo operativo. Fino ad oggi nella comunità internazionale si sono contrapposte due famiglie di indicatori della diffusione della corruzione, da un lato vi sono le misurazioni soggettive, basate cioè sulla percezione o, più raramente, sull’esperienza, dall’altro lato figurano le misurazioni oggettive, basate ad esempio sulle statistiche giudiziarie, sulle dichiarazioni dirette di chi ha ricevuto richiesta di pagare una tangente, su rilevazioni fattuali di scostamenti tra costi e output o, infine, su audit condotti presso le amministrazioni pubbliche. Entrambi gli approcci, singolarmente considerati, hanno presentato vantaggi e limiti. Il processo di misurazione è fondamentale. Il fenomeno corruttivo, nel gioco metaforico con la fisica quantistica, potrebbe rispecchiare in parte con quanto avviene nel processo di misurazione dell’elettrone a livello quantistico, cioè come descritto dal principio di indeterminazione, per misurare la realtà bisogna disturbarla, e la corruzione si potrebbe affermare per ciò che l’osservatore vuole misurare. Ad esempio, in termini di misurazione internazionale, ci chiediamo cosa potrebbe accadere per i Paesi caratterizzati dalle eterogeneità dei regimi nor-

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“sarebbe un errore pensare che quanto si è detto sottragga qualcosa alla realtà delle cose […]. Tutta la differenza consiste in questo: che secondo noi gli esseri che non pensano e vengono percepiti dal senso non hanno esistenza distinta dal venir percepiti e quindi possono esistere soltanto in quelle sostanze intense e indivisibili o negli spiriti che agiscono e pensano e percepiscono quegli esseri. L’ammissione di una sostanza non pensante e autonoma dallo spirito ha determinato anche molte espressioni di ateismo, di fatalismo e di irreligione: vengono infatti negate la libertà e l’intelligenza delle cose, si giustificano i fenomeni naturali ricorrendo a forze e agenti del tutto indimostrabili. Le idee astratte di spazio e tempo assoluti, con la loro risultante nel moto assoluto, si fondano sull’inconcepibile separazione dell’esistenza dal pensiero”, G. Berkeley, Trattato sui princìpi della conoscenza umana, Bari, 1998, 170.

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Il principio di indeterminazione di Heisenberg e la misurazione della corruzione

mativi di riferimento per ciascuna giurisdizione, potere giudiziario ed esecutivo e alla diversità dei presupposti per l’azione penale, e per cultura sociale differente. Inoltre, l’utilizzo di indici percettivi o oggettivi potrebbe rappresentare un solo aspetto della corruzione, principio di complementarietà di N. Bohr, cioè l’impossibilità di determinare contemporaneamente nello stesso sistema il valore di due osservabili complementari, percezione e oggettività, entrambi comunque indispensabili per una descrizione completa del fenomeno. Quindi si comprende agevolmente quando decidere cosa misurare dando una definizione della corruzione accolta sul piano internazionale, in grado di far rilevare tale fenomeno in modo omogeneo e coerente, vedi la Risoluzione “Measurement of corruption” 8/10 di Abu Dhabi del dicembre 2019 che “Reaffirming the United Nations Convention against Corruption, which is the most comprehensive, universal and legally binding instrument on corruption, and acknowledging the need to continue to promote its ratification or accession thereto and its full and effective implementation,”, sia fondamentale. Se la percezione continua comunque a rivestire di per sé un rilievo centrale data la difficile rilevazione della corruzione, permane il rischio dell’effetto distorsivo che si può collegare all’uso del solo indice percettivo (fenomeno ondulatorio), ed è quindi necessario affiancare indicatori di tipo oggettivo (particella), art. 2 Risoluzione 8/10 “Recognizes that such an exercise should include a broad range of data sources, including administrative statistics on the criminal justice response to corruption offences, experience-based data deriving from household and business surveys on corruption occurrence and indicators of risk and vulnerabilities to corruption, taking into consideration the different circumstances of respective countries, as its fundamental purpose is to contribute to the fight against corruption;”, necessari per avvicinarsi maggiormente al quadro reale o quantomeno della maggiore probabilità possibile di realtà, principio di Born. Quindi se il Paradosso di Trocadero, sinteticamente così definito: più si perseguono i fenomeni corruttivi sul piano della prevenzione e le fattispecie di reato sul piano della repressione, maggiore è la percezione del fenomeno7, la fisica quantistica, al di là del divertimento che la metafora subatomica suggerisce, affermerebbe che per esistere un fenomeno (la corruzione) deve essere sì percepito, aspetto ondulatorio, ma che lo stesso ha un ulteriore aspetto, la particella e cioè l’oggettività della misurazione, e che entrambi sono misurabili solo attraverso l’occhio dello sperimentatore che, osservando l’evento, cioè mettendosi in relazione con esso, ne determina le caratteristiche fisiche che appariranno poi alla misurazione (principio di indeterminazione di Heisenberg). Dunque, se la stessa misurazione oggettiva è di per sé solo uno dei possibili aspetti di una realtà ben più complessa, e non la sua totalità, bisognerà assegnare alla misurazione maggiore attenzione, valore attraverso la percezione, che come nel caso quantistico, la realtà che emerge del fenomeno dipende in maniera decisiva da cosa l’osservatore decide di misurare. Infine, se le riflessioni seguite sembrano rendere evidente una verità su tutte e cioè l’inevitabilità della dipendenza tra fenomeno e misuratore, tra percezione e oggettività, di fondamentale importanza emerge non l’assenza di un’influenza del misuratore sul fenomeno, quanto piuttosto la specifica qualità del misuratore che tale influenza deve assumere al fine di rendere il fenomeno quanto più aderente alla realtà senza dimenticare il principio di indeterminazione.

7

http://www.dirittopenaleglobalizzazione.it/il-paradosso-di-trocadero/.

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Walter Rotonda

Lo studio condotto dal Consigliere Giuridico Giovanni Tartaglia Polcini8 e dal Min. Plen. Alfredo Durante Mangoni9 induce a pensare che essi non negano la presenza del fenomeno corruttivo, rappresentato dall’elettrone, bensì ne accettano la necessità di valorizzarne entrambi gli aspetti, percepitori definita l’onda, necessari per definirne l’esistenza, e intendono richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla necessità che la misurazione avvenga senza trascurare l’aspetto oggettivo (la particella), attraverso l’uso di misuratori oggettivi e quindi consapevoli che per osservare la realtà bisogna in qualche modo disturbarla.

8 9

Magistrato e docente universitario. Min. Plen. coordinatore per le attività internazionali anticorruzione.

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Nicola d’Albasio

ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico Sommario: 1. ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente di riflessione narrativa alla ricerca ottica di un regolato

crimine informatico transnazionale. – 2. Aier dicebamus, un salto quantico temporale che riporta il discorso a dove era stato interrotto in precedenza di Kronos. – °°3. Una nuova primavera ogni ottobre (notizie sui traguardi della macchina amministrativa di Vienna). – °°4 Internet nell’era dell’immagine. – °°5. Preludio con registro (XXX). – 6. Cognoscimus id quod antea dicebamus MIHE PROJECT NY/ LONDON 2014. – °°7. Aggiornamenti da Vienna. – °°8. La COP non sei tu ma è la COP ΑΙΩΝ. – 9. ΑΙΩΝ da sempre e per sempre. – 10. Consigli di una controparte affezionata. – 11. Allegato 1 piano di lavoro.

Abstract The following text is strictly literary narrative used as a narrative of entertainment and contains information on the work of the group of experts in the field of cybercrime. Il seguente testo propone di una narrazione strettamente letteraria come forma d’intrattenimento narrativo e contiene informazioni sul lavoro del gruppo di esperti in materia di crimine informatico. I paragrafi contenenti aggiornamenti per lettori interessati alla costruzione di un consensus globale in materia di crimine transnazionale informatico saranno preceduti da due punti prima dell’inizio del periodo. Come nel seguente esempio: “…°°4. Internet nell’era dell’immagine”. Le altre parti nonostante abbiano ragione di essere integrate in questa narrazione, possono tuttavia essere considerate un mero intrattenimento; rispecchino il farsi famoso e quindi globalizzato discorso di voci, pensatori, poeti di un tempo perduto.

1. ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente di riflessione narrativa alla ricerca ottica di un regolato crimine informatico transnazionale. IO FU[I] G[I]A QUEL CHE VOI S[I]ETE E QUEL CHE I[O] SONO VO[I] A[N]C[OR] SARETE Esso è una retta che traslata in prospettiva al tuo iride diviene un punto; (Punto linea punto) Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico (Nota concettuale) Risondance 00Ø3”


Nicola d’Albasio

IO FU[I] G[I]A QUEL CHE VOI S[I]ETE E QUEL I[O] SONO VO[I] A[N]C[OR] SARETE

2. Aier dicebamus, un salto quantico temporale che riporta il discorso a dove era stato interrotto in precedenza di Kronos. L’integrazione sociale dovrebbe permettere all’individuo di percepire se stesso come essere umano in relazione con altri. Quando questo non avvenga, l’individuo è schiavo di protocolli imposti dalle identità sociali lui attribuite, dalla classe, dal nome, dalla professione, dalla semiotica degli pseudo arcani e del vestiario. Un cittadino adulto giovane o un uomo, residenti nella stessa geografica, sono esposti a frizioni talmente analoghe da rendere degno di dubbio il diritto alla personalizzazione delle stesse. Categorie professionali, quartieri, non possono celare che identità peculiari, che s’intessono in una rete di frizioni tutt’altro che non delineabile. Movimenti politici, associazioni culturali, legali o illegali, accreditate o derise, amabili dichiarazioni d’intenti iniziano poco dopo ad emanare una polarità idonea ad allontanare gli individui più radicati in alcune identità. Al fine fronteggiare simbolicamente questa problematica si propone un testo ad alta interazione artistica e poetica e sociale. Strumenti chiave: etero composizione, sistematica delusione di aspettative ed intenzioni*, risonanza*, ridondanza*, live painting, ballo, teatro panico, ologrammi. Livello 1 Promozione discriminata, i PR che s’incaricheranno di contattare liste prestabilite dai soci implementatori, la grafica dell’invito sarà a discriminazione inversa, stile del sottosuolo per i più seri e sofisticati, stile formale e borghese per i meno sofisticati.

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ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico

Livello 2 Gestione dei performanti, i performanti saranno disposti nello spazio secondo logiche tali da disattendere le aspettative dell’osservatore in relazione alle aspettative visive che si propongono solitamente nella sua arte, sotto tutti i punti di vista, disposizione del materiale nello spazio, tecnica, tempo di esecuzione; il tema della performance sarà risonanza vs ridondanza. Livello 3 Performanti musici, i performanti saranno disposti nello spazio secondo logiche tali da disattendere le aspettative dell’osservatore in relazione alle aspettative visive ottiche; il genere di musica e la tecnica dovranno inspirarsi a criteri di ecletticicmo e groove. L’operazione mischierà tecniche audio video realtà aumentata proiezioni 3d audio 3d, streaming campionatori audio video e realtà virtuale. Durata

8 Settimane

Data stiamata di inizio

16/7/2020

Lugar

Nowhere

Sotto programma e cornice strategica

Cultura dell’empatia

Soci implementatori

Zanzibar;Gold; Human Buddy; Prima Visione; Pop Cafe Santo Spirito; Dolci e Dolcezze; Bar della Stazione di Donoratico

Presupuesto total Contributi in specie

Da definire Associati:

°°3. Una nuova primavera ogni ottobre (notizie sui traguardi della macchina amministrativa di Vienna). Poniamo all’attenzione degli interlocutori alcuni spunti di riflessione sull’industria del sesso virtuale, nonché l’opportunità di valutare il suo inserimento nella cornice delle norme per il contrasto al crimine informatico, attraverso un’estensione delle norme contro il traffico di persone all’interno del campo virtuale. In una lettura attenta delle opportunità di tutela ed una considerazione del fenomeno Cam-Girl nella sua totalità. Se guardassimo al diritto romano, alle operatrici del sesso era richiesto iscriversi al registro degli edili, pratica tra VI e I secolo che era pensata per fa sì che queste non fossero imputabili di adulterio. Questa pratica si diffuse al punto da coinvolgere le matrone patrizie. A distanza di duemila anni potremmo avere un riguardo, appunto, più amplio. (fonte enciclopedia edizione Garzanti enciclopedia classica 2000) Il momento è quanto mai propizio dato che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è sul punto di cercare di dotarsi di una vera e propria nuova Commissione ad hoc in tema di contrasto al crimine informatico; avvenimento che può considerarsi come una terza onda di espansione di consensus attorno a strumenti operativi che rendano la convenzione di Palermo ancora efficace.

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Nicola d’Albasio

Una nuova primavera ogni ottobre Il passato dicembre tramite la sua risoluzione 74/247, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha preso atto della risoluzione 26/4 del 26 maggio 2017 della Commissione sulla prevenzione della criminalità e della giustizia penale, in cui la Commissione ha espresso apprezzamento per il lavoro svolto dal gruppo di esperti per condurre uno studio completo sulla criminalità informatica e chiesto al gruppo di esperti di continuare il suo lavoro, al fine di esaminare le opzioni per rafforzare le risposte esistenti e proporre nuove risposte legali nazionali o internazionali o altre risposte alla criminalità informatica, e al riguardo ha ribadito il ruolo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC). Nella stessa risoluzione, l’Assemblea generale ha deciso di istituire un comitato intergovernativo di esperti ad hoc a tempo indeterminato, rappresentativo di tutte le regioni, per elaborare una convenzione internazionale globale sulla lotta contro l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali, tenendo pienamente conto strumenti e sforzi internazionali esistenti a livello nazionale, regionale e internazionale per combattere l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali, in particolare il lavoro e i risultati del gruppo di esperti intergovernativo a tempo indeterminato per condurre uno studio completo sulla criminalità informatica. L’Assemblea Generale ha inoltre deciso che il comitato ad hoc convocherà una sessione organizzativa di tre giorni nell’agosto 2020, a New York, al fine di concordare uno schema e le modalità per le sue ulteriori attività, da presentare all’Assemblea Generale alla sua 75esima sessione per la sua considerazione e approvazione. L’UNODC, attraverso la sezione “Organized Crime and Ill trafficking Branch, Division for Treaty Affairs”, provvederà come segretariato per il comitato ad hoc e supporterà gli Stati membri in preparazione della sessione organizzativa di tre giorni nell’agosto 2020. Questo avvenimento va profilandosi come l’occasione di creare un rinvigorito quadro multilaterale idoneo ad affrontare le sfide che vanno emergendo nella rete internet. I fondamentali limiti del quadro normativo esistente la convenzione di Budapest ovvero un approccio multilaterale non globale Appare tautologico, ma non scontato, osservare che gli strumenti esistenti in materia sono fortemente limitati in primis dalla mancata estensione globale del suo consensus; basti pensare che Cina e Russia non vi avevano aderito; e proprio questi stati si sono fatti promotori dell’adozione di una nuova convenzione in materia. Credere di poter continuare a lavorare con una serie di regole che possano essere eluse tramite il semplice utilizzo di un server dislocato fuori dal piccolo ombrello della convenzione di Budapest non è sincero.

°°4. Internet nell’era dell’immagine. Siamo forse nell’era dell’immagine perché la vita nel suo desiderio di farsi più conscia impone alla propria materia di farsi più viva ed intelligente? Deve quindi l’Umanità tutta affrontare il paradosso dell’immagine fino al suo grottesco al fine di imparare ad andare oltre se medesima, riportandosi così al presente percettivo per farsi sensibile e viva? Forse che sì! forse che no! Che questo processo sia indotto dall’alto, dal basso, di lato o in superficie, da dottrine o pensieri o filosofie intenzionate non ha importanza, pur essendo forse cruciale per un’evoluzione, limitiamoci a considerare che una relazione tra l’immagine e il fatto reale vi

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ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico

è, e l’era impone (o sembra imporre) un suo nuovo superamento. Ci muoviamo in una realtà che strutturiamo, creiamo, e che così composta si riempie di significati che nel loro atterraggio costituiscono al contempo i significati collettivi del mondo. Stando in essa, i nostri tecnici, i nostri delegati hanno il compito, e noi in quanto mandanti il dovere, di fornire l’opportunità di costituire il più alto, e più puro livello giuridico. Cristallizzando norme funzionali a ciò che vuole essere specchio della perfezione dell’ordine di natura. Da ciò l’urgenza di dare anche ai singoli individui quegli strumenti idonei al muoversi in questa epoca. E non irrazionali espressioni del ricordo di società che non sussistono. Al fine di non escludere questi soggetti della possibilità di incidervi; d’impattarvi. Nasce quindi il gravoso compito di dare una tridimensionale considerazione a congegni quali in “captatore informatico”, sdoganando e regolamentando così realtà già emergenti. Per queste ragioni il diritto concertato dalle Nazioni dovrebbe permettere ai suoi operatori di muoversi nel terzo millennio con la giusta lunghezza d’onda, e una misura adeguata a perfezionarla. Una convezione sul crimine informatico può, e quindi deve essere l’occasione di permettere alla cooperazione giudiziaria di operare tramite strumenti che siano effettivamente in grado di contribuire virtuosamente alle più avanzate opportunità di sintesi delle esigenze di ciascuna organizzazione territoriale. Veniamo all’immagine dei corpi e del sesso. Pur non sussistendo un dubbio sulla crucialità di quesiti come il ruolo dell’immagine nel viver moderno una sua risposta, parziale e frammentaria, non è così importante per ponderare il quesito cui ci approcciamo.

°°5. Preludio con registro (XXX). A livello operativo, se il fine fosse quello di non precludere ai soggetti che si conformino alle indicazioni, la possibilità di un più immediato ed ampio usufrutto delle proprie potenzialità funzionali la ratio di eventuali ragioni di tutela, l’avremmo probabilmente già incontrata in τόποι ampiamente frequentati nelle lettere. Questa potrebbe essere sintetizzata nelle seguenti parole: «Quando il sesso venga valorizzato per motivi diversi da quello essenziale, codesta invasione materiale è una vera disgrazia». Si può datare intorno al 1100 documentazione di una certa convergenza semantica nel dibattito tra illustri filosofi delle religioni monoteiste. Guardando ad essi traspare l’uniforme convincimento che l’incrocio tra la sfera del mondo del denaro e quella della sessualità sia tutt’altro che auspicabile in quanto capace di dar luogo a problemi particolari. Secondo una prima superficiale verifica se ne stimano 12 almeno. Una proposta di natura analogica e analitica per affrontare un problema digitale. Ditte per Cam boys e cam girls Come accennato le tecnologie informatiche vanno permettendo all’ingegno una più efficace e competitiva sfida alle organizzazioni statali, le idee si fanno liquide e permettono al connubio con i programmi di sfidare la geometria dei progetti di civiltà e la loro ambizione e necessità di regolamentare il viver sociale. È Hobbes che esce dalla porta e rientra dalla finestra con un Game Boy; ma se Hobbes con il Game Boy diventa un architetto di sistema, il sistema Internazionale rischia di pagare un prezzo troppo caro, per l’essere in balia del proprio errore.

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Le identità giuridiche del mondo digitale meta-nazionale vanno sfidando gravosamente gli ordinamenti nazionali e ristrutturano le geometrie economiche dei mercati costituiti ed accreditati. Guardando all’industria del sesso e all’approssimarsi dei negoziati che questo agosto potrebbero dar vita a una nuova convenzione capace di fronteggiare le molteplici forme di criminalità informatica. Appare doveroso rimodellare le stesse geometrie della risposta giuridica alla realtà che va profilandosi. Urge in questa prospettiva non solo arrendersi alla ragionevole all’appropriatezza di una degna considerazione del rapporto tra immagine e realtà, ma anche alla fattuale corrispondenza di un’analogia tra corpo reale e corpo digitale. Considerare le insorgenti necessità di tutela del corpo virtuale e reale delle operatrici dell’industria del sesso, appartenenti alla fattispecie cui inferisce il termine inglese camgirls. Con strumenti dall’alto e dal basso. Occuparsi della vischiosa struttura di una neonata industria che mette a regime di profitto giovani provenienti da segmenti emarginati della società di ogni nazione; studiare la probabile e gravosa necessità di squarciarne il velo corporativo; creando incentivi virtuosi; necessità di squarciarne il velo corporativo; creando incentivi virtuosi; che tendano a far rientrare le medesime nel patto sociale territoriale attraverso il la forza del multilaterale. Soppesare l’ipotesi di utilizzare e riplasmare gli standard di UNODC per il contrasto al traffico di persone, spostandolo al campo virtuale, in modo da tutelare con efficacia tutti i soggetti giuridici interessati, ed i loro corpi, ed evitare che il vuoto legislativo lasci queste fattispecie alla mercé di una qualsiasi diversificazione del portfolio d’investimento delle organizzazioni criminali transnazionali. Al fine non solo di tutelare l’economia del legale nel suo complesso ma anche ridurre e mitigare il rischio che grandi fette della società di ogni stato finiscano per essere un catalizzatore della penetrazione di una cultura dell’illegalità nei valori del tessuto sociale più fragile, amplificando così con ulteriore dismisura il vero e più pericoloso capitale criminale che insite proprio sul fermento di valori non statali, non democratici, non cooperativi. Congegnare formati unificati globali per una virtuosa gestione di tutti i livelli manageriali e performativi dei soggetti coinvolti nel sesso virtuale, armonizzando questa industria al quadro prospettico della riduzione del danno psicofisico e sociale dei soggetti in esso coinvolti. Queste iniziative potrebbero contribuire a corroborare un’adeguata cultura del rispetto della legge, ricordando che questo settore costituisce una sfida di portata globale paragonabile per più di un aspetto a colossi globali quali airbnb e uber. Iniziare il processo di concertazione multilaterale prima che queste entità abbiano il tempo di accrescere la prioria incontrollata capacità di redistribuzione economica secondo parametri capaci di sfidare l’etica che gli attori statali ritengano auspicabile nei propri progetti di società futura. Affinché anche a queste giovini ragazze madri sia concesso fruire di un di un set di scelte in cui il male minore non diventi un’espressa lesione dei diritti umani.

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ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico

6. Cognoscimus id quod antea dicebamus. MIHE PROJECT NY/ LONDON 2014 Tarik Berber tp Méx-Wien; unreleased.

IO FU[I] G[I]A QUEL CHE VOI S[I]ETE E QUEL I[O] SONO VO[I] A[N]C[OR] SARET How the Universe absorbs the human emotions after the death of the body Un corpo umano fisicamente viene assorbito dal pianeta attraverso la decomposizione fisica. Le sue molecole vengono rimesse nel universo per un utilizzo successivo. Cosa succede alle emozioni umane: sogni, paure, ricordi, amore e odio? Attraverso quale processo metafisico vengono riassorbite e riutilizzate? Questa è una spiegazione visiva di questo processo. Dall’universo. (disegno 1-2-3) Questo universo sarà creato da un pattern applicato alla facciata (TIPO immagini 1-2-3-4), che poi attraverso una app scaricata sullo smartphone si animerà. Puntando il nostro smarphone sulla facciata si azioneranno dei trigger grazie ai quali vedremo una o diverse animazioni nel pattern dell’universo. Le animazioni saranno fatte a mano e in 3D. Un progetto che comprende la pittura, progettazione 3D, l’animazione, AR(realizzazione app), street art, mapping.

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AION/ΑΙΩΝ cognoscimus id quod antea dicebamus Il tempo della convenzione di Budapest, 600 Anni prima. Warm autunno 2020;

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°°7. Aggiornamenti Viennesi. ΑΙΩΝ Con la sua risoluzione 74/247, adottata il 27 dicembre 2019, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso di istituire un comitato intergovernativo di esperti ad hoc, a tempo indeterminato, rappresentativo di tutte le regioni, per elaborare una convenzione internazionale globale sul contrasto all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali, tenendo in considerazione gli strumenti internazionali esistenti, nonché il lavoro del gruppo intergovernativo di esperti incaricato di condurre uno studio completo sulla criminalità informatica. Tale Comitato ad hoc avrebbe dovuto riunirsi in una sessione organizzativa di tre giorni nell’agosto 2020, a New York, al fine di concordare uno schema e le modalità per le sue ulteriori attività. A seguito delle problematiche connesse alla pandemia da Covid-19, tale sessione organizzativa è stata rinviata a una data da fissare “non appena le condizioni lo consentano” ma comunque non oltre il 1° marzo 2021. Frattanto, nei giorni 27-29 luglio 2020 si è tenuta a Vienna, in formato virtuale, la sesta riunione del gruppo intergovernativo di esperti in materia di criminalità informatica, avente ad oggetto i temi della cooperazione internazionale e della prevenzione. Su tali temi sono emerse tendenze di fondo di particolare interesse anche per quanto riguarda l’ambito della nozione di cybercrime ai fini della cooperazione internazionale, che secondo numerosi Stati dovrebbe includere non solo i reati “cyberdipendenti” ma anche tutti i delitti la cui consumazione viene frequentemente a realizzarsi mediante l’uso di internet, compresi il traffico di sostanze stupefacenti e di armi, il riciclaggio, le attività terroristiche ecc. Ha formato oggetto di ampio consenso pure l’esigenza di promuovere una intensa collaborazione tra il settore pubblico e quello privato con specifico riferimento alla protezione di quei centri di “big data” che possono presentare una spiccata vulnerabilità, particolarmente nel settore sanitario in considerazione anche della pandemia. I paesi che in precedenza avevano promosso e sostenuto la risoluzione dell’Assemblea Generale 74/247 hanno ribadito le loro posizioni favorevoli all’elaborazione di una nuova Convenzione, al fine precipuo di regolamentare la raccolta transfrontaliera della prova digitale nel rispetto della sovranità degli Stati, e di introdurre standard procedurali per la cooperazione giudiziaria. Altri Stati hanno invece posto in primo piano l’esigenza di valorizzare l’utilizzazione della Convenzione di Palermo e della Convenzione di Budapest, auspicando che vengano introdotte nelle legislazioni nazionali le appropriate disposizioni attuative e che ogni nuova Convenzione internazionale in questa materia non si ponga in contrasto con gli strumenti multilaterali già elaborati. Alla presenza di una pluralità di opinioni sulla nuova Convenzione da elaborare, ha fatto riscontro un diffuso giudizio positivo sul ruolo svolto in questa materia dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato Transnazionale (Convenzione di Palermo), la quale presenta un importante punto di forza, costituito dal suo ambito di applicazione pressoché universale: la sua membership, infatti, consta di 190 Paesi. Il rafforzamento della effettività della Convenzione di Palermo, reso possibile dall’entrata in funzione del suo Meccanismo di Revisione, può comportare un contemporaneo potenziamento della efficienza investigativa (grazie alla modernizzazione degli strumenti di indagine e di cooperazione giudiziaria internazionale) e della tutela dei diritti fondamentali.

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°°8. La COP non sei tu ma è la COP ΑΙΩΝ Nei giorni 12-16 ottobre 2020 si è tenuta a Vienna la decima Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine Organizzato Transnazionale. Tale Conferenza ha coinciso con le celebrazioni per il ventennale della Convenzione (firmata nel dicembre 2000 a Palermo) che – come è stato sottolineato dal Capo della Delegazione italiana, il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – trova le sue radici nelle straordinarie intuizioni di Giovanni Falcone, il quale fu tra i primi a promuovere un impegno globale nella lotta alle mafie. La Conferenza si è conclusa con l’adozione per consenso di ben sette risoluzioni. L’Italia ha presentato due risoluzioni, rispettivamente sul lancio della fase operativa del Meccanismo di revisione della Convenzione e dei relativi Protocolli e sulla celebrazione del ventesimo anniversario della Convenzione. Quest’ultima è stata immediatamente presentata dalla stampa come la “risoluzione Falcone”. Il definitivo avvio del Meccanismo di revisione, su cui si è ormai formato un solidissimo consenso – testimoniato dalla sponsorizzazione universale della relativa risoluzione presentata dall’Ambasciatore Alessandro Cortese in qualità di Presidente uscente della Conferenza – presenta una rilevante potenzialità di favorire un ulteriore salto di qualità nell’attuazione della Convenzione di Palermo. La risoluzione sul ventesimo anniversario ha tracciato un bilancio ampiamente positivo dell’attuazione della Convenzione, definita come “il principale strumento globale a disposizione della comunità internazionale per prevenire e combattere tutte le forme e manifestazioni di criminalità organizzata transnazionale e proteggere le vittime”. Tale risoluzione è altresì proiettata verso il futuro, attraverso il riconoscimento della piena modernità della Convenzione quale strumento di contrasto alle “forme nuove, emergenti e in evoluzione di criminalità organizzata transnazionale”. Essa include inoltre una vasta gamma di strumenti volti ad affrontare efficacemente la dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, per lo più basati sull’esperienza italiana, quali ad esempio la cooperazione internazionale ai fini del congelamento, sequestro, confisca e destinazione dei proventi di reato, anche nel caso di procedimenti che prescindono da una condanna (come le misure di prevenzione patrimoniali); la destinazione dei beni confiscati a beneficio delle comunità danneggiate da fenomeni criminali di particolare gravità; l’intensa utilizzazione degli strumenti di indagine finanziaria. Appare inoltre estremamente significativa la espressa menzione, all’interno della risoluzione, del ruolo di Giovanni Falcone, “il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada all’adozione della Convenzione”. Le altre risoluzioni approvate vertono anche su temi che in questa occasione sono stati portati per la prima volta all’attenzione della Conferenza delle Parti della Convenzione di Palermo, come i reati che incidono sull’ambiente e il traffico di prodotti medici contraffatti. Appare particolarmente attuale la risoluzione presentata dalla Francia sul tema: Preventing and combating crimes that affect the environment falling within the scope of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime. Tale risoluzione sottolinea in modo molto significativo il collegamento tra la lotta alla criminalità ambientale e la Convenzione di Palermo, vista come come uno strumento globale di contrasto capace di adattarsi in modo flessibile alle dinamiche evolutive di tutti i più gravi tipi di reato. La risoluzione contiene, tra l’altro, significativi riferimenti alle misure volte a prevenire l’abuso del sistema finanziario nazionale, regionale e globale ed alle tecniche di investigazione finanziaria per il contrasto del riciclaggio dei proventi dei reati lesivi dell’ambiente, nonché un preciso l’incoraggiamento agli Stati per la predisposizione di risposte multidisciplinari alla cri336


ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico

minalità ambientale di forme di riparazione dei danni comprensive del ripristino degli habitat, di iniziative di cooperazione con il settore privato, le organizzazioni non governative, il mondo scientifico, anche in relazione al rafforzamento dell’integrità delle catene legali di fornitura. Può assumere una notevole utilità ai fini della valorizzazione delle ampie potenzialità insite nel Meccanismo di revisione della Convenzione di Palermo pure l’incoraggiamento ad inserire, nei relativi questionari di autovalutazione da compilare, informazioni sulla effettiva applicazione di tale strumento normativo nel settore della criminalità ambientale. Una speciale attualità è riscontrabile anche nella risoluzione, presentata dal Belgio, che mira a prevenire e combattere la fabbricazione e il traffico di prodotti medici contraffatti come forma di criminalità organizzata transnazionale. Tale risoluzione muove dall’avvertita necessità di azioni multilaterali per affrontare le implicazioni dell’emergenza sanitaria connessa alla pandemia da Covid-19, e quindi programma una serie di misure imperniate sulla applicazione degli strumenti offerti dalla Convenzione di Palermo, con significativi riferimenti alle indagini comuni e all’utilizzazione di reti di autorità giudiziarie e di polizia. All’aspetto repressivo si accompagna il tema della di sensibilizzazione collettiva, anche attraverso apposite campagne da sviluppare a cura dell’UNODC in partnership con il settore privato e la società civile. La tematica del contrasto al crimine organizzato transnazionale contro il patrimonio culturale ha formato oggetto di una risoluzione presentata dall’Egitto, che ha sottolineato l’utilità della Convenzione di Palermo anche in questa materia ed ha richiesto a UNODC di convocare un gruppo intergovernativo di esperti che esplori tutte le opzioni di rafforzamento dell’attuazione dell’attuale quadro giuridico internazionale e che possa valutare eventuali proposte volte a integrare il quadro esistente. Tra gli aspetti più significativi della risoluzione possono annoverarsi la raccomandazione di sviluppare e rendere pubblici gli inventari delle opere d’arte rubate, come pure l’invito a considerare la costituzione di unità di polizia dedicate al contrasto ai traffici di beni culturali, diffondendo così il modello italiano del Comando dei Carabinieri per la Tutela dei Beni Culturali. L’ efficace attuazione del protocollo contro la tratta di esseri umani (che annovera oggi 178 Stati parte) ha formato oggetto di una risoluzione presentata dagli U.S.A., che sottolinea l’esigenza di rafforzare le iniziative centrate sul sostegno e sull’assistenza alle vittime, al fine di un loro reinserimento nella società. In quest’ottica si prende in considerazione anche la istituzione di meccanismi di protezione per le famiglie delle vittime nei paesi di origine, transito o destinazione, e la possibilità di non perseguire né punire in maniera inappropriata le vittime di tratta per atti commessi come diretta conseguenza del loro status di persone offese. La risoluzione inoltre incoraggia inoltre gli Stati ad adottare strategie integrate per affrontare meglio le correlazioni tra tratta di esseri umani e traffico di migranti, che condividono alcuni tratti comuni nonostante costituiscano forme distinte di criminalità. Di notevole rilevanza è pure l’incoraggiamento a condurre indagini finanziarie proattive nella materia in questione. Infine, il Messico ha presentato una risoluzione volta a rafforzare la cooperazione internazionale contro la produzione e i traffici illeciti di armi da fuoco, unendo all’obiettivo di smantellare i sodalizi criminali operanti in questo settore alcuni interessanti riferimenti alle implicazioni della pandemia da Covid-19, anche in relazione ai casi di violenza domestica aggravati dall’utilizzo di armi da fuoco.

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Nicola d’Albasio

9. ΑΙΩΝ da sempre e per sempre.

10. Consigli di una controparte affezionata. Comportati così, Lucilio mio: renditi padrone di te stesso e raccogli e fa tesoro del tempo che fino ad oggi ti è stato portato via o carpito con frode o è andato perduto. Convinciti che è proprio come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via brutalmente, altri sottratti subdolamente e altri ancora si disperdono. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per incuria. E se ci pensi bene, osserva: della nostra esistenza buona parte se ne va mentre operiamo malamente, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’occuparci di cose che non ci riguardano. 2 Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. [3] Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.

Ti chiederai forse come mi comporti io che ti do questi consigli. Te lo dirò francamente: tengo il conto delle mie spese da persona prodiga, ma attenta. Non posso dire che non perdo niente,

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ΑΙΩΝ Il tempo greco come lente per guardare al crimine informatico

ma posso dire che cosa perdo e perché e come. Sono in grado di riferirti le ragioni della mia povertà. Purtroppo mi accade come alla maggior parte di quegli uomini caduti in miseria non per colpa loro: tutti sono pronti a scusarli, nessuno a dar loro una mano. 5 E allora? Una persona alla quale basta quel poco che le rimane, non la stimo povera; ma è meglio che tu conservi tutti i tuoi averi e comincerai a tempo utile. Perché, come dice un vecchio adagio: “È troppo tardi essere sobri quando ormai si è al fondo”. Al fondo non resta solo il meno, ma il peggio. Stammi bene.

11. Allegato 1 piano di lavoro.

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Cass., Sez. II, sent. 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255, Pres. Diotallevi, est. Ariolli, imp. Fasciani e altri Art. 416-bis c.p. – Associazione di tipo mafioso – Sodalizio L’aggravante agevolatrice dell’attività mafiosa prevista dall’art. 416-bis 1 cod. pen. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell’altrui finalità». Spetta, dunque, al giudice, dunque, il compito di analizzare, attraverso il suo apprezzamento, se dalla sintesi probatoria emersa nel caso di specie emerga la “mafiosità” della consorteria.

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L’applicazione dell’art. 416-bis c.p.p. alle c.d. “mafie senza nome” Le recenti sentenze della Cassazione La fattispecie delittuosa prevista dall’art. 416 bis c.p., introdotta nel nostro codice penale nel 1982 dalla legge Rognoni-La Torre, costituisce lo strumento necessario per la repressione di forme particolare di criminalità organizzata, caratterizzate dall’impiego del c.d. metodo mafioso (elemento che le differenzia dalle ordinarie forme di associazione per delinquere). La fattispecie delittuosa in esame, rivelatasi utile nel corso degli anni per contrastare le forme tradizionali di associazioni mafiose, quali Cosa Nostra siciliana, Camorra napoletana, e ‘ndrangheta calabrese, si è mostrata di duttile applicabilità anche in relazione a forme associative di nuova emersione (es. cd. mafie autoctone, o straniere o delocalizzate), dando vita a molteplici dibattiti in dottrina ed in giurisprudenza, rilevato che non sempre può dirsi agevole l’accertamento della sussistenza del metodo mafioso dinnanzi a fattispecie associative che di volta in volta emergono nella realtà fattuale. Con la recente pronuncia n. 10255/2020, replicando sostanzialmente la precedente pronuncia n. 57896/2017 relativamente allo stesso processo sul clan Fasciani di Ostia, la Corte di Cassazione ha nuovamente esaminato i requisiti necessari per connotare un’associazione per delinquere come mafiosa ai sensi dell’art. 416-bis c.p. L’art. 416-bis, al terzo comma, testualmente prevede: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Innanzitutto la sentenza 10255/2020 ben specifica che la fattispecie, nata per contrastare il fenomeno mafioso tradizionale, cioè quello delle associazioni “classiche”, non deve essere in-


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terpretata nel senso di non poterla applicare a manifestazioni mafiose “nuove”, territorialmente più circoscritte o con una minore forza economica e criminale rispetto alle associazioni storicamente più forti. Esiste però una differenza tra i due fenomeni in tema di forza intimidatrice dell’associazione: se per quelle tradizionali la fama criminale si è costruita nel tempo attraverso atti di violenza o di minaccia su un dato territorio e rappresenta dunque una sorta di “eredità” che può essere raccolta tanto dalla stessa compagine mafiosa quanto da un’associazione “figlia” (si veda, tra le altre, la sent. Corte Cass. n. 31666/2015, processo Albachiara) per le associazioni non riconducibili a quelle classiche, è necessario accertare se si siano verificati atti di violenza o di minaccia tali da sviluppare intorno al gruppo un alone permanente di diffuso timore idoneo a determinare assoggettamento ed omertà e a consentire all’associazione di sfruttare questa acquisita “fama di violenza” per realizzare i suoi propositi. La sentenza esaminata prosegue individuando quali siano le condizioni che comportano la creazione della fama criminale. Essa testualmente afferma: “L’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, la natura e le forme di manifestazione degli strumenti intimidatori, gli specifici settori di intervento e la vastità dell’area attinta dalla egemonia del sodalizio, le molteplicità dei settori illeciti di interesse, la caratura criminale dei soggetti coinvolti, la manifestazione esterna del potere decisionale, la sudditanza degli interlocutori istituzionali e professionali sono tutti elementi che vengono a comporre il mosaico delle condizioni di applicazione della fattispecie”. Questa indicazione però non può ritenersi completa: manca all’appello sicuramente l’attività corruttiva, area oggi privilegiata da tutte le associazioni mafiose per il compimento delle loro attività illecite: la minaccia alla vita o all’incolumità personale sono indubbiamente comportamenti più difficili da occultare, in virtù della loro capacità di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e dei magistrati e, per questo motivo anche le mafie tradizionali, pur potendosi avvalere di attività violente, oggi scelgono, principalmente, la corruzione per mantenere inalterata la loro capacità criminale. Inizialmente è stato sostenuto che la corruzione, poiché consiste in un pactum sceleris, pone le parti in una condizione di parità, e dunque non è idonea né alla creazione della fama criminale di un’associazione, né come indicatore dell’utilizzo di questa fama per il raggiungimento degli scopi associativi. È però evidente che questa impostazione è da ritenersi errata. Innanzitutto, è ben possibile che la corruzione non sia un fenomeno paritario: vi sono casi in cui accettare l’offerta di utilità è, per il pubblico ufficiale, la scelta di un male minore, poiché quell’offerta si atteggia come “un’offerta che non potrà rifiutare”. Si può in tal caso sicuramente citare la celeberrima strategia criminale di Pablo Escobar, che ha permesso al cartello da lui capeggiato di dominare la scena del narcotraffico dei primi anni ’80: plata o plomo, letteralmente “argento o piombo”, le due alternative lasciate al pubblico ufficiale. È quindi evidente che in tal caso il fenomeno corruttivo, lungi dall’essere paritario, è un’estrinsecazione della fama criminale dell’associazione, un modo per utilizzare la “condizione di assoggettamento e di omertà” richiesta dal 416-bis per identificare il fenomeno mafioso. Per certi versi l’esempio appena riportato si identifica nell’elemento della “sudditanza degli interlocutori istituzionali”: elemento indicato dalla sentenza sul clan Fasciani. Al di là di esempi del tipo prospettato finora, c’è però dell’altro: è ben possibile che la fama criminale dell’associazione si fondi esclusivamente sulla capacità di corrompere e di insinuarsi nel tessuto statale. Da giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione emerge infatti che la minaccia di violenza su cui si basa la costruzione della fama criminale dell’associazione può avere ad oggetto “anche o soltanto, le […] condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti” (Corte Cass. sent. 57896/2017). Questa impostazione è confermata dalla sentenza 18125/2020, relativa al celebre processo su Mafia Capitale, che testualmen-

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L’applicazione dell’art. 416-bis c.p.p. alle c.d. “mafie senza nome”

te afferma: “La necessità di esteriorizzazione della capacità di intimidazione non presuppone necessariamente il ricorso alla violenza o alla minaccia da parte dell’associazione e dei singoli partecipi; la violenza e la minaccia, rivestendo natura strumentale nei confronti della forza di intimidazione, costituiscono solo un modo, uno strumento – eventuale, possibile, come altri – con cui quella forza di intimidazione può manifestarsi, ben potendo quest’ultima esternarsi anche con il compimento di atti non violenti, ma pur sempre espressione dell’esistenza attuale, della fama criminale e della notorietà del vincolo associativo”. Grazie a un sistema diffuso di corruzione, capace di far infiltrare il gruppo nelle maglie del sistema statale, un’associazione ha la possibilità di minacciare ritorsioni sul piano economico o lavorativo nei confronti del pubblico ufficiale a cui viene presentata un’offerta corruttiva: egli viene posto, così, in una situazione (di minore gravità ma) paragonabile alla citata strategia plata o plomo, che permette al gruppo di estendere ulteriormente il proprio potere criminale. Grazie agli agganci politico-istituzionali, frutto della strategia criminale appena prospettata, l’associazione ha la possibilità di minacciare ritorsioni economiche anche nei confronti dei privati: un imprenditore concorrente in una gara d’appalto potrà essere “convinto” a non parteciparvi per il solo fatto che esiste un sistema tale da poter pregiudicare, ad esempio, alcune delle precedenti commesse pubbliche da lui ottenute. Inutile sottolineare che il fenomeno corruttivo radicato crea nei soggetti avvicinati dal gruppo criminale la sensazione che esso gode di una sicurezza d’impunità, assimilabile alla “condizione di omertà” richiesta dalla fattispecie dell’art. 416-bis: stante in ogni caso la natura “paritaria” del reato di corruzione, i soggetti che hanno accettato le offerte del gruppo vengono percepiti, da chi riceve l’offerta corruttiva o da chi subisce la minaccia di ritorsioni economiche, come una sorta di “associati”, come dei contributori della causa criminale. Dunque, in tal caso, la “caratura dei soggetti coinvolti”, indicata dalla sentenza sul clan Fasciani come uno degli elementi identificativi di un’associazione mafiosa, andrà valutata in relazione al potere decisionale dei soggetti appartenenti al network costruito dal gruppo criminale. Quindi, riassumendo, anche la sola corruzione, nelle forme chiarite poc’anzi, può rendere un’associazione “mafiosa”, nel senso indicato dal terzo comma dell’art. 416-bis. La distinzione rispetto ad un’associazione che opera basandosi sulla violenza non sarà dunque dal punto di vista della individuazione del fatto tipico (che resta il 416-bis) ma apparterrà piuttosto all’alveo della colpevolezza, e quindi nella differenza di pena che concretamente sarà irrogata dal giudice, il quale non potrà non tener conto dell’uso o meno di manifestazioni violente del potere criminale. In tema di prova, infine, non è riscontrabile che una sottile differenza tra le due manifestazioni: sia per quella violenta che per quella fondata sulla corruzione sarà necessario dimostrare lo sfruttamento dell’intimidazione che fa leva sul vincolo associativo. La differenza, naturalmente, risiederà nella necessità di tener conto delle diversità del “modello corruttivo” rispetto al “modello tradizionale” dell’associazione mafiosa: attività intimidatorie “sottotraccia”, capaci di mimetizzarsi agli occhi degli inquirenti, talvolta in modi molto sofisticati; soggetti precedentemente corrotti quali “contributori” della causa criminale, così da valutarne la “caratura”; minacce alla libertà di iniziativa economica privata o relative a ritorsioni economiche o lavorative, e non anche alla vita o all’integrità psicofisica.

Patrizia Filomena Rosa

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Cassazione Civile, Sezioni Unite, 8 maggio 2019, n. 12193, Pres. Mammone, Rel. Mercolino, P.M. Sorrentino (parz. conf.) Maternità surrogata – Omo-genitorialità maschile – Ordine pubblico internazionale – Registri dello stato civile – Interesse superiore del minore – Fecondazione assistita Il rifiuto di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, se non determinato da vizi formali, dà luogo ad una controversia di stato, da risolversi mediante il procedimento disciplinato dall’art. 67 della L. 218 del 1995, in contraddittorio con il Sindaco, in qualità di ufficiale dello stato civile, ed eventualmente con il Ministero dell’Interno, legittimato a spiegare intervento nel giudizio, in qualità di titolare della competenza in materia di tenuta dei registri dello stato civile, nonché ad impugnare la relativa decisione. Nel giudizio avente ad oggetto il riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero ed un cittadino italiano, il Pubblico Ministero riveste la qualità di litisconsorte necessario, ai sensi dello art. 70, comma 1, n. 3. c.p.c., ma è privo della legittimazione ad impugnare la relativa decisione, non essendo titolare del potere di azione, neppure ai fini dell’osservanza delle leggi di ordine pubblico. In tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli art. 64 ss. della L. n. 219 del 1995, dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché nell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione delle nozioni di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.Il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione della maternità previsto dall’art. 12 comma 6, L. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma 1, lett. d), L. n. 184 del 1983. In applicazione di tali principi, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., con rigetto della domanda di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero. Non può riconoscersi efficacia al provvedimento giurisdizionale straniero, con cui sia stato dichiarato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero, a mezzo di maternità surrogata, e il partner maschile del padre biologico, entrambi cittadini italiani, coniugati all’estero; diversamente potrebbe riconoscersi efficacia al provvedimento giurisdizionale straniero che abbia dichiarato il rapporto di filiazione tra il nato e la partner femminile della madre biologica, ove non sussista surrogazione di maternità; nel primo caso, il rapporto di genitorialità potrebbe acquistare rilevanza, con il ricorso ad altri strumenti giuridici, come l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, lett. d) della L. n. 184/1983.

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Procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità, maternità surrogata in una recente sentenza delle sezioni unite della corte di cassazione Sommario: 1. Introduzione. – 2. I punti dirimenti della sentenza in commento. – 2.1. I fatti di causa, l’ordinanza impugnata. – 2.2. Il concetto di ordine pubblico fatto proprio dalla sentenza delle Sezioni Unite. – 2.3. Perché non si ammette la maternità surrogata. – 3. Il parere consultivo della Cedu nel caso Mennesson e Labassee. – 4. Divieto di maternità surrogata e interesse superiore del minore, nella sentenza delle Sezioni Unite. – 5. Conclusioni.

1. Introduzione. Con la Sentenza delle sue Sezioni Unite numero 12193 del 2019 la Suprema Corte di Cassazione civile ha affrontato in modo esaustivo temi di delicato impatto etico-giuridico nella nostra società; si tratta dell’accesso alla Procreazione Medicalmente Assistita, anche delle coppie formate da due soggetti dello stesso sesso, della enucleazione del concetto di maternità surrogata, dei limiti posti dall’ordinamento interno e internazionale all’utilizzo di queste tecniche procreative. Si trattava in definitiva di contemperare il principio della dignità della gestante e della partoriente, della non commerciabilità dell’atto procreativo, con quello dell’interesse superiore del minore, del suo diritto a conservare il proprio status all’interno della famiglia e le sue relazioni affettive, specie quando esse si sono costituite da un lasso significativo di tempo. Il tema è fortemente divisivo sul piano politico e sociale, perché afferisce al modello di famiglia che si vuole radicare nella nostra società. Bisogna dare atto che il supremo consesso giudiziario italiano lo ha affrontato con uno sguardo disgiunto da preconcetti ideologici e nominalistici, guardando alla concreta ed effettuale realtà delle nuove famiglie e cercando un punto di equilibrio che preservasse gli interessi contrapposti. Soprattutto molto delicato è il problema dell’influenza dei principi e delle norme di origine internazionale, della loro elaborazione fattane dalle Corti Internazionali, rispetto a quelli propri dell’ordinamento interno italiano, sia di origine Costituzionale che ordinaria. La Corte di legittimità li enuclea direttamente ed esplicitamente, anche mediante il riferimento alla Giurisprudenza Internazionale sul punto. Il presente scritto si propone di ripercorrere i dicta della decisione, dando conto delle opinioni di quella parte della dottrina giuridica che criticamente la ha accolta. Ciò nella ferma convinzione che è la giurisdizione uno degli ambiti privilegiati in cui, in una società aperta, democratica debbano affrontarsi questioni come quelle di cui si discute, divisive sul piano etico, ma analizzabili in un contesto libero e paritario.

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Procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità, maternità surrogata in una recente sentenza

2. I punti dirimenti della sentenza in commento. 2.1. I fatti di causa, l’ordinanza impugnata. Ripercorriamo i fatti di causa con le parole della Cassazione che, nella parte in fatto, fa riferimento e riporta la ordinanza impugnata della Corte d’Appello di Trento. “L.M. e R.R., in proprio e nella qualità di genitori esercenti la responsabilità nei confronti dei minori C.A. e M., proposero ricorso alla Corte d’Appello di Trento, per sentir riconoscere, ai sensi dell’art. 67 della legge 31 maggio 1995 n. 218, l’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento emesso il 12 gennaio 2011 dalla Superior Court of Justice dell’Ontario (Canada), con cui era stato accertato il rapporto di genitorialità tra il R. ed i minori, e per sentirne ordinare la trascrizione negli atti di nascita di questi ultimi da parte dell’Ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Premesso di aver contratto matrimonio il 2 dicembre 2008 in Canada, i ricorrenti esponevano che i minori, nati in quel Paese il 23 aprile 2010, erano stati generati mediante procreazione medicalmente assistita, a seguito del reperimento di una donatrice di ovociti e di un’altra donna disposta a sostenere la gravidanza; riferirono che dopo un primo provvedimento giudiziale regolarmente trascritto in Italia, con cui il Giudice Canadese aveva riconosciuto che la gestante non era genitrice dei minori e che l’unico genitore era il M., l’ufficiale di stato civile, con atto del 31 maggio 2016, aveva rifiutato di trascrivere quello oggetto della domanda, con cui era stata riconosciuta la co-genitorialità del R. e disposto l’emendamento degli atti di nascita; precisato inoltre che la loro unione era produttiva di effetti nell’ordinamento italiano ai sensi dell’art. 1, comma 28, lett. b), della legge 20 maggio 2016, n. 76 e che i minori erano cittadini sia italiani che canadesi, aggiunsero di aver assunto entrambe il ruolo di padre fin dalla nascita dei bambini e di essere stati riconosciuti come tali non solo dai loro figli, ma anche nella cerchia degli amici, familiari e colleghi.” “Con l’ordinanza del 23 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Trento ha accolto la domanda”. E ancora in riferimento a quest’ultima, dice la Sentenza delle Sezioni Unite che la recensisce, nella sua parte in fatto “precisato poi che nel caso di specie l’unico requisito in contestazione ai fini del riconoscimento dell’efficacia del provvedimento straniero era costituito dalla compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, la Corte ha richiamato la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui il contenuto di tale nozione, (...omissis...) il giudice deve verificare se l’atto straniero contrasti con l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta costituzionale, dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla CEDU”. Inoltre, rilevante ai fini dell’accoglimento della domanda era l’interesse superiore del minore “individuabile in particolare nel diritto del minore alla conservazione dello status di figlio, riconosciutogli in un atto validamente formato in un altro stato, come conseguenza diretta del favor filiationis emergente dagli art. 13, comma terzo, e 33, commi primo e secondo, della legge n. 218 del 1995 ed implicitamente riconosciuto dall’art. 8, par. 1 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo”. Aggiunge la Corte d’Appello di Trento “pur rilevando che, a differenza di quella canadese, la disciplina vigente in Italia non consente il ricorso alla maternità surrogata, in quanto la legge 19 febbraio 2004 nr. 40 limita alle coppie di sesso diverso la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita, prevedendo sanzioni amministrative in caso di ricorso alle relative pratiche da parte di coppie composte da soggetti dello stesso sesso e sanzioni penali per chi in qualsiasi forma realizza organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o embrioni, mentre la legge 20 maggio 2016 n. 76 esclude l’applicabilità alle unioni civili del-

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le disposizioni della legge 4 maggio 1983 n. 184, la Corte d’Appello di Trento ha ritenuto che ciò non costituisse un ostacolo al riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento interno del provvedimento canadese, che aveva accertato il rapporto di filiazione tra il R. e i due minori generati attraverso la maternità surrogata”. Il predetto Giudice di merito, nel sostenere i suoi assunti, ha fatto riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale Italiana che nel dichiarare l’illegittimità di parte della disciplina sulla procreazione medicalmente assistita e in particolare dell’art. 4 della l. 40 del 2004, che escludeva l’eterologa , ha specificato che “la disciplina della procreazione medicalmente assistita non costituisce espressione di principi fondamentali costituzionalmente obbligati, ma il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela degli interessi fondamentali coinvolti in tale materia. Ha aggiunto che le conseguenze della violazione dei divieti posti dalla legge 40 del 2004 non possono ricadere su chi è nato, il quale ha il diritto fondamentale alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, non rappresentando un ostacolo l’insussistenza di un legame genetico tra i minori e R. dal momento che nel nostro ordinamento non esiste un modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra il genitore e il nato”. La Sentenza della Corte di Cassazione in commento nasce dalla impugnazione dei contenuti su riportati e oggetto della ordinanza della Corte d’Appello di Trento.

2.2. Il concetto di ordine pubblico fatto proprio dalla sentenza delle Sezioni Unite. Nell’accogliere le impugnazioni proposte dalle parti avverso l’ordinanza suddetta, la Corte di Cassazione ha precisato quale sia la concezione di ordine pubblico da accogliere nel caso di specie e che impediva la trascrizione del provvedimento straniero di riconoscimento della paternità del coniuge intenzionale, con il quale i minori non avevano alcun legame biologico.1 Affermano le Sezioni Unite che “il risalto in tal modo conferito ai principi consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ai quali viene attribuita una portata complementare a quella dei principi sanciti dalla nostra Costituzione, non trova smentita nella recente sentenza emessa da questa Corte a Sezioni Unite e richiamata nell’ordinanza di rimessione (cfr. Cass, Sez. Un, 5/7/2017, n. 16601), la quale, nell’escludere la sussistenza di una incompatibilità ontologica tra l’istituto dei danni punitivi e l’ordinamento italiano, non ha affatto inteso rimettere in discussione il predetto orientamento, ma si è limitata a richiamare l’attenzione sui principi fondanti del nostro ordinamento, con i quali il giudice investito della domanda di riconoscimento è pur sempre tenuto a confrontarsi. A fronte degli effetti sovente innovativi della mediazione esercitata dalle carte sovranazionali ai fini dell’ingresso di istituti provenienti da altri ordinamenti, essa ha ribadito l’essenzialità del controllo sui principi essenziali della lex fori in materie presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica, affermando che «Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancor vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro fiato corto, ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca». Ha quindi chiarito che la sentenza straniera applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi «con il portato

1

Vedi F. Salerno, La Costituzionalizzazione dell’ordine pubblico Internazionale, in Riv. dir. int. priv. proc., 2018, 259 e ss.

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della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparto sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale»; nel contempo ha precisato che la valutazione di compatibilità con l’ordine pubblico non può essere limitata alla ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed italiani, ma deve estendersi alla verifica dell’eventuale contrasto tra l’istituto di cui si chiede il riconoscimento e l’intreccio di valori e norme rilevanti ai fini della delibazione”.

2.3. Perché non si ammette la maternità surrogata. La Corte di Cassazione risponde a questa domanda precisando la natura della tecnica di fecondazione utilizzata e afferma che nel giudizio de quo si controverte sul riconoscimento dell’efficacia di un provvedimento emesso all’estero, che ha attribuito ai minori lo status di figli di uno degli istanti, con i quali essi non hanno alcun rapporto biologico, essendo stati generati mediante gameti forniti dall’altro, già dichiarato loro genitore con un precedente provvedimento regolarmente trascritto in Italia, con la cooperazione di due donne, una delle quali ha donato gli ovociti, mentre l’altra, in virtù di un accordo stipulato ai sensi della legge straniera, ha portato avanti la gravidanza rinunciando preventivamente a qualsiasi diritto nei confronti dei minori. Aggiunge la decisione, che il caso di specie è da assimilare alle ipotesi di maternità surrogata, caratterizzandosi proprio per l’accordo intervenuto con una donna estranea alla coppia genitoriale, che ha provveduto alla gestazione e al parto, rinunciando tuttavia ad ogni diritto nei confronti dei nati. Si fa riferimento a precedente sentenza della stessa Corte (Cass., Sez. I, 11/11/2014, n. 24001) affermandosi che il divieto di surrogazione di maternità contenuto nell’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004 è di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale predisposta per il caso della sua violazione, posta a presidio di beni fondamentali; precisandosi che “vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto, perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela degli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami con il nato”.

3. Il parere consultivo della CEDU nel caso Mennesson e Labassee. Rilevante per comprendere i delicati problemi giuridici sottesi alla sentenza di cui stiamo discutendo, è il parere consultivo reso ai sensi del Protocollo nr. 16 della CEDU nel caso Mennesson e Labassee, che conferma l’impianto argomentativo e logico di quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza in commento2. Su richiesta dell’Assemblea plenaria della Cour de Cassation francese del 5 ottobre 2018, il giorno 10 aprile 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso il proprio primo parere a seguito dell’entrata in vigore del protocollo nr. 16 per la Francia (1° agosto 2018). Tale strumento consente alle più alte giurisdizioni nazionali degli Stati che lo hanno ratificato, appositamente identificate tramite dichiarazioni ai sensi dell’art. 10 dello stesso, di chiedere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo

2

Concorda S. Tonolo, Status filiationis da maternità surrogata del genitore ‘intenzionale’: i limiti nella formula dell’adattamento, in Rivista di diritto Internazionale, fasc. 4, 2019, 1155.

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un parere su “questions of principle” relative alla interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà garantite dalla convenzione o dai protocolli3. Va precisato che la surrogazione di maternità può presentarsi in due forme. In caso di gestation pour autrui (o gestional surrogacy) la gestante, estranea ad una coppia, si obbliga a portare a termine una gravidanza e a consegnare ai genitori intenzionali il neonato, che è stato fecondato con un ovocita non proprio, vale a dire proveniente dalla madre intenzionale o da una terza donna. Invece, in caso di procréation pour autrui (o partial surrogacy), l’ovocita appartiene alla stessa gestante, pure in tal caso estranea alla coppia. Le gemelle Mennesson erano nate in California a seguito del ricorso a maternità surrogata gestazionale da parte di una coppia coniugata, eterosessuale di cittadini francesi, la quale non poteva avere figli per problemi di infertilità. Solo il padre intenzionale era anche il padre biologico delle bambine, avendo messo a disposizione il proprio materiale genetico per la formazione degli embrioni-tramite fecondazione in vitro con ovocita di donatrice anonima, poi successivamente impiantati nell’utero della madre surrogata. A seguito della nascita delle bambine, quest’ultima, in ottemperanza agli accordi contrattualmente assunti, aveva rinunciato a vantare qualsiasi pretesa sulle minori; le autorità californiane avevano quindi emesso, in conformità alla legge locale, due certificati di nascita attestanti la co-genitorialità sulle gemelle di entrambe i genitori intenzionali. Al rientro della famiglia in Francia, le autorità francesi (sia amministrative che giudiziarie) avevano negato il riconoscimento dello status filiationis dei genitori committenti, impedendo la trascrizione dei relativi certificati di nascita nei registri dello stato civile, in base al divieto di ricorrere a maternità surrogata, presente nell’ordinamento francese. I genitori dopo aver percorso i vari gradi di ricorso giurisdizionale interno, con esito negativo, si rivolgevano alla Corte Europea dei diritti Umani. Nelle sentenze Mennesson e Labassee la Corte escludeva che vi fosse una violazione dell’art. 8 della CEDU da parte delle autorità della Francia in relazione al diritto dei ricorrenti al rispetto della vita familiare, tenuto conto che non sussistevano difficoltà insormontabili, derivanti dal mancato riconoscimento in Francia del rapporto genitoriale stabilito negli Stati Uniti. La Corte invece riscontrava una violazione dell’art. 8 in relazione al diritto delle minori (e non dei genitori intenzionali) al rispetto della loro vita privata, posto che tale prerogativa implica il diritto di ciascun individuo di stabilire i dettagli della propria identità di esser umano, ivi compreso il proprio rapporto di filiazione. Le sentenze Mennesson e Labassee stabilivano che non sussiste un obbligo generale e assoluto di riconoscimento dello status straniero, applicabile in modo automatico ad entrambe i genitori. Si attribuiva valore prioritario alla realtà biologica del rapporto di filiazione, nel caso di specie rappresentato dalla sussistenza di un legame genetico tra il padre committente e le minori coinvolte, che va valorizzato alla luce del superiore interesse dei minori alla piena formazione della loro identità. Le sentenze in questione confermavano quanto stabilito nei precedenti della Corte, ad esempio nel caso Paradiso e Campanelli C. Italia. In questa fattispecie, i minori erano stati oggetto di una maternità surrogata in Russia di tipo commerciale non essendo nessuno dei componenti la coppia genitoriale, legato da alcun legame biologico ai nati, che erano stati sottratti ai genitori in Italia e dati in affidamento preadottivo ad altra coppia. In questo caso, cui si fa

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Vedi M. Sarzo, La nuova procedura consultiva prevista dal Protocollo nr 16 alla luce del parere della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di surrogazione di maternità, in Rivista di diritto Internazionale, fasc. 4, 2019, 1158-1168.

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Procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità, maternità surrogata in una recente sentenza

riferimento incidentalmente, la Grande Camera della CEDU ha escluso che l’Italia avesse violato alcun obbligo convenzionale. Proprio allontanando i minori dalla coppia che fraudolentemente aveva ottenuto la maternità all’estero si era realizzato il superiore interesse del minore evitando il consolidamento della situazione familiare. Nel giungere a questa conclusione si era tenuto altresì in conto la particolare brevità della permanenza dei minori presso i genitori intenzionali. La Corte EDU4 nei casi menzionati non aveva chiarito se il riconoscimento della paternità in relazione al padre biologico comportasse anche il riconoscimento della maternità legale per la moglie madre intenzionale, quando quest’ultima non avesse alcun legame biologico con la minore. L’assemblea plenaria della Cour de Cassation, il 16 febbraio 2018, veniva investita da domanda di riesame del ricorso proposto dai coniugi Mannesson avverso la decisione della Corte d’Appello di Parigi del 18 marzo 2010, che aveva annullato la trascrizione degli atti di nascita formati all’estero. Da qui il ricorso al parere consultivo alla CEDU ai sensi del protocollo nr. 16 (ratificato dalla Francia) da parte della stessa Cour de Cassation. Con nota del 12 ottobre 2018 si chiedeva alla CEDU se (1) negando la trascrizione nei registri dello stato civile del certificato di nascita di un bambino nato all’estero a seguito di maternità surrogata rispetto alla madre intenzionale in qualità di madre anche legale – quando la trascrizione dell’atto è stata ammessa rispetto al padre intenzionale se è anche padre biologico del bambino – lo Stato oltrepassi il proprio margine di apprezzamento stabilito dall’art. 8 CEDU, precisando altresì se la risposta al quesito possa variare nell’ipotesi in cui il bambino sia stato concepito con gameti della madre intenzionale (maternità surrogata tradizionale); (2) se in caso di risposta affermativa al primo quesito se esista la possibilità per la madre intenzionale non biologica di adottare il figlio del coniuge padre biologico e questa possibilità sia conforme all’art. 8 delle Convenzione. La Corte rispondeva all’unanimità dei suoi membri. Si affermava che la legislazione nazionale dello Stato richiedente era tenuta a consentire la possibilità di riconoscere la filiazione con la madre intenzionale, in forza del diritto del minore al rispetto della vita privata. Altresì l’art. 8 CEDU non impone che tale riconoscimento assuma la forma della diretta trascrizione nel registro dello stato civile del certificato di nascita formato all’estero (così come stabilito per il padre intenzionale biologico in forza del principio espresso nelle sentenze Mennesson e Labassee). Ma per il parere consultivo il rapporto con la madre intenzionale può costituirsi attraverso modi e forme interne diverse, quale ad esempio la domanda di adozione del minore. Però quale che sia la procedura utilizzata dalle leggi interne essa deve essere possibile di implementazione da parte dello Stato contraente, che sia la più rapida ed efficace proprio nel rispetto del best interest of the child. Bisogna infatti evitare profili di incertezza giuridica sull’identità del minore che siano lesivi del suo diritto alla vita privata, ma anche evitare pratiche abusive come quelle venute alla luce nel caso Paradiso e Campanelli C. Italia. Certamente in alcuni casi il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre intenzionale non biologica può incidere negativamente sulla realizzazione del superiore interesse del minore, specie quando occorra identificare con certezza la persona obbligata a far crescere e accudire lo stesso, assicurandogli di vivere in un ambiente stabile e adeguato ai suoi bisogni. In ultima

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O. Feraci, Il primo parere consultivo della CEDU su richiesta di un giudice nazionale e l’ordinamento giuridico italiano, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019.

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Giurisprudenza nazionale

analisi nello scegliere la soluzione preferibile bisogna guardare alle concrete circostanze del caso5.

4. Divieto di maternità surrogata e interesse superiore del minore, nella sentenza delle sezioni unite. Alcuni commentatori hanno sostenuto che l’ordinanza della Corte territoriale Trentina impugnata, oggetto di scrutinio dalle Sezioni Unite, facendo riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale 162/2014, che dichiarava l’incostituzionalità del divieto di “fecondazione eterologa”, ha offerto una lettura debole del divieto di surrogazione di maternità contenuto nella L. 40/2004. Ciò si rinverrebbe in quella parte dell’ordinanza della Corte d’Appello in cui si specifica che la disciplina della procreazione medicalmente assistita va considerata non già espressione di principi fondamentali costituzionalmente obbligati, quanto piuttosto il punto di equilibrio attualmente raggiunto a livello legislativo nella tutela dei differenti interessi fondamentali che vengono in considerazione nella materia.6 In questo senso la Corte Costituzionale non avrebbe escluso una maggiore ampiezza del suo intervento caducatorio e la PMA eterologa va tenuta distinta da ulteriori e diverse metodiche quali la surrogazione di maternità vietata dall’art. 12 comma 6 della L. 40 del 2004 con prescrizione non censurata e non incisa. In definitiva l’ordinanza colloca il divieto di surrogazione di maternità all’interno del particolare orientamento proibizionista che ha ispirato la l. 40/2004. In realtà, le Sezioni Unite con la sentenza in commento hanno cercato di dare una interpretazione esaustiva del concetto di superiore interesse del bambino e soprattutto di definire cosa debba intendersi per ordine pubblico internazionale. Si è riaffermata la sua “funzione difensiva” costituendo il limite all’ingresso nel nostro ordinamento di norme ed atti provenienti da altri sistemi e contrastanti con i principi e valori propri delle norme interne. Questa concezione in alcuni casi deve prevalere su quella “promozionale” innestata sul riferimento “ai valori giuridici condivisi dalla comunità internazionale e alla tutela dei diritti umani”. Se prevale la sua funzione “difensiva”, riaffermata dalle sezioni unite nella sentenza n. 16601/2017 sui “danni punitivi”, si stabilisce invece la necessità di salvaguardare i principi fondamentali propri del nostro ordinamento. Ciò perché “costituzioni e tradizioni giuridiche costituiscono un limite ancor vivo”. Nella delineazione del concetto si deve pertanto tenere in considerazione la normativa ordinaria, quale strumento di attuazione dei valori costituzionali. Alla luce di questa interpretazione del concetto di ordine pubblico, non si può trattare la surrogazione di maternità alla stregua di una delle tante metodiche di PMA, per aggirare l’applicabilità dell’art. 12 c. 6 della L. 40 del 2004, che esplicitamente vieta la “commercializzazione dei gameti e di embrioni o la surrogazione di maternità”. La Corte di legittimità

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Ribadisce il concetto, O. Feraci, in La nozione di ordine pubblico alla luce della Sentenza della Corte di cassazione (Sez. Un. civ.), n. 12193/2019 tra ‘costituzionalizzazione attenuata’ e bilanciamento con il principio del superiore interesse del minore, in Rivista di diritto internazionale, fasc. 4, 2019, 1150-1151. 6 F. Angelini, L’ordine pubblico come strumento di compatibilità costituzionale o di legalità internazionale? Le S.U. della Corte di Cassazione fanno il punto sull’ordine pubblico internazionale e sul divieto di surrogazione di maternità. Riflessioni intorno alla sentenza n. 12193 del 2019 e non solo, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2020 del 3 marzo 2020.

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Procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità, maternità surrogata in una recente sentenza

ritiene che il precedente più pertinente al caso di specie sia da individuare nella sentenza nr. 24001/2014 e nella nozione di ordine pubblico internazionale ivi indicata. La disposizione di cui all’art. 12 c. 6 della L. 40 del 2004 è di ordine pubblico, perché è prevista una sanzione penale per il caso della sua violazione, essendo posta a presidio di beni fondamentali quali “la dignità umana”, costituzionalmente tutelata della gestante e “l’istituto dell’adozione” con il quale la surrogazione di maternità si pone in conflitto, perché solo ad esso, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti genitoriali privi di legami biologici con il nato. A questa conclusione la Corte di legittimità giunge attraverso l’analisi delle tecniche procreative. Nella “surrogazione di maternità” si realizza il coinvolgimento di due soggetti estranei alla coppia e la gestazione e il parto, avvengono al di fuori della coppia che rivendica la genitorialità. Secondo un autore7 il vizio della pronuncia suindicata delle Sezioni Unite è quello che, pur facendo riferimento all’ ordine pubblico internazionale, sembra trattare ora di quello interno, ora di quello internazionale, finendo per confondere i due concetti. Invece, quello che rileverebbe è solo quello internazionale che è richiamato da tutta una serie di disposizioni come l’art. 18 d.P.R. n. 396/2000, ove si precisa che gli atti formati all’estero non possono essere trascritti, se contrari all’ordine pubblico, nonché l’art. 16 L. n. 218 del 1995, per cui la legge straniera non si applica se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico. Nel definirne la nozione deve pertanto tenersi conto non solo delle norme costituzionali, ma anche quelle delle Carte internazionali; ad esempio la Carta di Nizza che all’art. 21 vieta le discriminazioni fondate sul sesso o legate all’orientamento sessuale. Aggiunge Dogliotti “come si potrebbero distinguere le norme ordinarie rilevanti, quelle che «incarnano» (per usare il termine usato dalla presente pronuncia) o non «incarnano» i principi costituzionali…, allora, la rilevanza delle norme ordinarie, ai fini della costruzione dell’ordine pubblico internazionale finirebbe per estendersi a tutto l’ordinamento interno, facendo nuovamente coincidere ordine pubblico internazionale e interno, prima che proprio la Cassazione li distinguesse”. Vi è poi una diffusa tendenza a valorizzare “l’interesse superiore del bambino”. Questa assolutizzazione è spesso pretestuosa; sarebbe più opportuno considerare la molteplicità di interessi che al minore afferiscono. Come ad esempio quello di non essere ridotto a “merce di scambio”, la tutela della sua dignità nel momento della nascita, la tutela della conoscibilità delle proprie origini, l’interesse alla continuità dello status familiare e i diritti ad esso connessi. Non si possono fare nel declinarlo, pericolose “fughe in avanti”. La surrogazione di maternità coinvolge molteplici aspetti; occorre bilanciare il principio della verità del parto con gli altri aspetti rilevanti e evitare che sul presunto “interesse del minore” prevalga quello dei genitori alla conservazione dello status filiationis. Un altro commentatore8, quanto a questo concetto, considerato nella sentenza di cui si discute, sottolinea che esso è passato in secondo piano, poiché si pone invece l’accento sugli interessi contrapposti, primo fra tutti quello pubblicistico al contrasto della maternità surrogata.

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M. Dogliotti, Le Sezioni Unite condannano i due padri ed assolvono le due madri, in Famiglia e diritto, fasc. 7, 2019, 671-673. 8 G. Ferrando, Maternità per sostituzione all’estero: le Sezioni Unite dichiarano inammissibile la trascrizione dell’atto di nascita. Un primo commento in Famiglia e diritto, fasc. 9, 677 e ss.

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Vi è invece chi ritiene, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite che stiamo commentando, che il divieto di maternità surrogata non è costituzionalmente illegittimo; lo confermerebbero le sentenze della Corte Costituzionale nn. 162/2014 e 272 del 2017, richiamate dalle Sezioni Unite9. Il divieto integra principi costituzionali e sovranazionali che concorrono a sostanziare la nozione di ordine pubblico internazionale e che impedisce la trascrizione degli atti di nascita. Inoltre, a questi fini l’identità di sesso non assume alcun rilievo rispetto alla nozione di ordine pubblico internazionale, che fa riferimento esclusivamente alla specifica tipologia di tecnica riproduttiva utilizzata e non all’orientamento sessuale della coppia (eterosessuale od omosessuale).

5. Conclusioni. La decisione del più alto giudice nomofilattico italiano, che si è commentata, costituisce un punto fermo nella condanna della maternità surrogata. Testimonia la difficoltà di risolvere le tensioni e le relazioni tra ordinamenti, che si ispirano a principi diversi, in materie di rilevante significato etico, quali quelle della genitorialità, dell’adozione, dell’accesso alle tecniche riproduttive, della nozione di famiglia che si intende accogliere, delle politiche di pianificazione familiare che ogni comunità politica vuole fare proprie. Significativa in questa decisione è la ricostruzione della precedente giurisprudenza e interna e internazionale sulle questioni oggetto di giudizio. Ogni ordinamento nazionale d’altronde non può essere inteso come una monade isolata dal contesto internazionale, ma deve tener conto degli apporti che altre esperienze culturali evidenziano sugli stessi problemi, fermo restando il rilievo delle specifiche identità nazionali delineate da quelle norme di sistema che caratterizzano ognuno di essi.

Bibliografia. A. Di Blase, Riconoscimento della filiazione da procreazione medicalmente assistita: problemi di diritto internazionale privato, in Rivista di diritto internazionale privato, 2018, 839 e ss. R.G. Conti, Il parere preventivo della Corte Edu (post. Prot. 16) in tema di maternità surrogata, reperibile all’indirizzo htt://questione giustizia .it/articolo/il parere-preventivo-della corte-edu-post-prot-16-in tema-di maternità-surrogata_28-05-2019.php. C. Campiglio, Il procedimento di riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di stato civile, in Rivista di diritto Internazionale, 2019, fasc. 4, 1132 e ss. G. Ferrando, Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status filiationis, in Corriere Giuridico, 2017, 185 e ss. S. Tonolo, L’evoluzione dei rapporti di filiazione e la riconoscibilità dello status da essi derivante tra ordine pubblico e superiore interesse del minore, in Rivista di diritto internazionale, 2017, fasc. 4, 1070 e ss. Cesare Augusto Placanica

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B. Liberali, Il divieto di maternità surrogata e le conseguenze della sua violazione: quali prospettive per un eventuale giudizio di costituzionalità?, in Osservatorio Costituzionale della Associazione Italiana dei Costituzionalisti, fasc. 5/2019 del 1° ottobre 2019.

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nazionale

Suprema Corte, sez. I penale, sent. n. 19762/2020, depositata il 01.07.2020 Nazioni Unite – Principio di territorialità – Traffico di armi Secondo il contenuto dell’art. 10 cod. pen. la condotta – pur se commessa all’estero dallo straniero – va presa in considerazione secondo un criterio legale di tipo formale che prevede l’applicabilità della legge italiana. In tal senso, per ‘legge italiana’ va indubbiamente intesa non soltanto la legge processuale ma anche quella relativa alle disposizioni di diritto sostanziale, come è dimostrato dai riferimenti alla entità della pena prevista dalla disposizione incriminatrice (art. 10 co. 2 n. 2 cod. pen.).

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista

Giurisdizione italiana nell’ambito del traffico di armi internazionale tra Libia e Italia: sentenza 19762 1° luglio 2020 La sentenza n.19762, I sez. pen. della Suprema Corte, depositata il 01.07.2020, ripercorre il tema del principio di territorialità e della punibilità del cittadino italiano e dello straniero per i reati commessi in territorio nazionale o all’estero, come desumibile dagli artt. 7-10 c.p. Infatti, per il delitto comune dello straniero all’estero la punibilità, ossia l’interesse dello Stato ad esercitare l’azione penale, è condizionata dal fatto che il colpevole “si trovi nel territorio dello Stato”: la presenza può anche essere transitoria e occasionale e non deve porsi, necessariamente, come indicativa di un effettivo “radicamento” del soggetto sul territorio nazionale. In tema di giurisdizione in materia di reati commessi all’estero, in assenza di un fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano su reati commessi dallo straniero e interamente consumati nel territorio di uno Stato estero, seppure connessi con reati commessi in Italia. Il caso in esame si basa sulla vicenda di una motonave battente bandiera libanese partita da Beirut in sosta in Turchia dove aveva imbarcato armi di vario genere (carri armati, mezzi cingolati attrezzati con lanciarazzi e mitragliatrici, containers contenenti esplosivi) unitamente a una decina di militari turchi. Scortata da due navi da guerra turche, la motonave si è diretta verso la Libia, con variazione del piano di navigazione, e, simulando un’avaria, ha scaricato i materiali bellici nel porto di Tripoli, sotto il controllo di militari libici e turchi. Nel percorso di avvicinamento a Tripoli è stato disinserito il sistema di rilevamento AIS; nel corso del viaggio, uno degli ufficiali di bordo, H.H., chiedeva spiegazioni su quanto accadeva e scattava alcune foto degli armamenti trasportati. La nave, ripartita senza carico da Tripoli ha, poi, fatto scalo nel porto di Genova dove H.H. ha chiesto di conferire con gli inquirenti, presentando anche richiesta di asilo politico. Il componente dell’equipaggio segnalava operazioni sospette poste in essere dal comandante che potevano costituire anche una violazione dell’embargo di forniture belliche deciso dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea nei confronti della Libia. Il giudice per le indagini


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preliminari di Genova emetteva, così, la misura cautelare della detenzione in carcere, confermata dal Tribunale di Genova. Anche nel caso in cui non fosse applicabile l’art. 6, comma 2 del codice penale, per il transito nelle acque territoriali italiane durante il viaggio dalla Turchia alla Libia, sussisterebbe la giurisdizione italiana, malgrado la condotta realizzata in territorio estero, ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, ratificata dall’Italia con legge n. 146 del 16 marzo 2006. Questo perché, in base all’art. 15, par. 4 della Convenzione sussiste la giurisdizione dello Stato anche per il reato commesso integralmente all’estero “quando il presunto autore si trova sul suo territorio ed esso non lo estrada”. Inoltre, la giurisdizione andrebbe affermata in ragione della natura di delitto politico commesso dallo straniero all’estero (art. 8 c.p.) per la consegna delle armi a una fazione in lotta in Libia. Di qui il ricorso in Cassazione, con contestazione, da parte del comandante della nave colpito dalla misura cautelare, dell’esistenza della giurisdizione italiana. Sul punto, la Suprema Corte ha sottolineato che presupposto dell’esercizio della giurisdizione è l’esistenza “– in termini di certezza – del potere dell’autorità giudiziaria di prendere cognizione del fatto”. In questo caso è evidente, e costituisce un fatto storico, che il transito in acque territoriali italiane non è un elemento di sostegno e, quindi, si può ritenere che il reato sia stato perpetrato interamente all’estero. Esclusa la giurisdizione in base all’art. 6, comma 2, c.p., la Cassazione ha ritenuto che l’art. 15, par. 4 della Convenzione di Palermo non possa trovare applicazione. Questo perché il rinvio a Convenzioni internazionali effettuato dall’art. 7, comma 1, n. 5 c.p. è esclusivamente un rinvio generale a Convenzioni internazionali non in grado di costituire una deroga al principio di sovranità territoriale. La norma, infatti, “attesta semplicemente la possibilità…dell’esistenza di casi aggiuntivi, previsti con legge o con convenzione vincolante, attributivi di giurisdizione per fatti commessi all’estero”. Inoltre, con la sentenza n. 48250 del 12 dicembre 2019, la quinta sezione penale ha precisato che non sussiste la giurisdizione del giudice italiano per reati commessi dallo straniero in danno di altro straniero consumati interamente in uno Stato estero “seppure connessi con reati commessi in Italia”. Non solo. La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati precisa che l’interpretazione di un testo pattizio debba avvenire in buona fede secondo il senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e considerando l’oggetto e lo scopo della convenzione. Per la Suprema Corte, l’ordine di esecuzione porta alla ricezione nell’ordinamento interno delle disposizioni che “realizzano condizioni autoapplicative, configurano obblighi e non necessitano di altro adempimento intermedio”, situazione che non si verifica con riguardo all’art. 15, par. 4 della Convenzione di Palermo. La deroga al principio di territorialità della giurisdizione dello Stato parte è unicamente una facoltà che ogni Stato può prevedere e poiché l’Italia non ha adottato una regola ad hoc, l’indicata disposizione non può essere il fondamento per l’esercizio della giurisdizione. Tuttavia, per la Corte, la giurisdizione italiana sussiste in base all’art. 10 del codice penale. Orbene, la Suprema Corte, dopo avere escluso l’applicabilità delle norme suesposte, nel caso in esame ha ritenuto sussistente la giurisdizione italiana in virtù dell’art. 10 c.p., con riferimento all’unica fattispecie di reato applicabile: quella prevista al capo b) dell’imputazione, ovvero cessione, detenzione e porto illegale di armi da guerra di cui agli artt. 1, 2 e 4 della legge n. 895 del 1967. In particolare, la Cassazione ha affermato che l’art. 10 c.p. considera la condotta, anche se commessa all’estero dallo straniero, secondo un criterio legale di tipo formale che prevede l’applicabilità della legge italiana. Invero, essa ha precisato che per “legge italiana” deve intendersi non soltanto quella processuale, ma anche quella di diritto sostanziale; ciò è dimostrato dal fatto che l’art. 10, c. 2 c.p. si riferisce proprio all’entità della pena prevista dalla disposizione incriminatrice.

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Giurisdizione italiana nell’ambito del traffico di armi internazionale tra Libia e Italia: sentenza 19762 1° luglio 2020?

Ebbene, nel caso in esame, la condotta di cessione di cui all’art. 1 della legge n. 895 del 1967 contestata all’indagato prevede il minimo di sanzione utile ai fini della punibilità, secondo quanto previsto dall’art. 10 c.p., e, pertanto, essa è punibile come se fosse avvenuta sul territorio italiano. Inoltre, sussistono tutte le altre condizioni previste dallo stesso art. 10 c. 2 c.p., quali la richiesta del Ministro di giustizia prima dell’emissione del titolo cautelare e la presenza nel territorio dello Stato dell’indagato, anche se transitoria e occasionale. Per tali ragioni, la Cassazione ha rigettato il secondo motivo di ricorso, ritenendo le obiezioni difensive infondate. La Cassazione ha, dunque, annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata limitatamente al reato di cui al capo a), rigettando nel resto il ricorso. In presenza di reato transnazionale (cessione di armi) commesso dallo straniero integralmente all’estero, non può affermarsi la giurisdizione dello Stato italiano ai sensi dell’art. 7, comma primo, n. 5 cod. pen. e della Convenzione ONU di Palermo in tema di contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, in quanto la disposizione in tema di giurisdizione, di cui all’art. 15, par. 4, della Convenzione, pur in presenza della sua ratifica, non è di immediata applicazione nell’ordinamento dello Stato parte.

Marilisa De Nigris

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europea

Corte di Giustizia UE sent. 5 febbraio 1963, C26/62, Van Gend en Loss. Grande Camera, sentenza del 27 novembre 2008, ricorso n. 36391/02, Salduz c. Turchia Case law – Diritto al contraddittorio – Diritto alla difesa – Giusto processo europeo – Human Rights – Judicial Activism Il principio di effettività della tutela giurisdizionale è un principio elaborato dalla giurisprudenza europea volto a garantire uniformità e certezza al diritto dei Trattati, che viene interpretato e modulato in base alle varie esigenze concrete sottoposte al vaglio delle Corti europee, il cui minimo comun denominare risulta quello di tutelare la posizione giuridica degna di tutela da quegli ostacoli di carattere procedurale, che limitino o riducano l’applicazione dei diritti sostanziali garantiti ai singoli.

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista

Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea Sommario: 1. Premesse metodologiche. 2. Il diritto fondamentale alla tutela (giurisdizionale) effettiva. 3. Ambiti di tutela effettiva. 3.1 Il diritto di azione ed all’accertamento giudiziale. 3.2 Il diritto al contradditorio. 3.3 Diritto alla difesa. 3.4 Durata ragionevole del processo. 3.5 Il ne bis in idem. 3.6 La tutela contro atti e comportamenti illeciti.

1. Premesse metodologiche. Dopo aver proposto, in alcuni dei numeri precedenti, commenti ad alcune recenti e significative pronunce delle Corti europee, pare giunto il momento di una breve riflessione di portata generale, in grado di offrire il quadro entro il quale le analisi puntuali si inseriscono. L’ordinamento comunitario garantisce, infatti, la tutela giurisdizionale dei diritti, sia a livello nazionale, sia presso le istituzioni giurisdizionali europee, ponendosi in una posizione intermedia tra l’ordinamento nazionale e quello internazionale1. La Corte di Giustizia Europea ha, infatti, costantemente affermato che tra i diritti fondamentali della persona, quali principi generali del diritto comunitario, si radica specificatamente il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti, come espressamente sancito agli artt. 6 e 13 della CEDU2. L’ordinamento dell’Unione è infatti dotato di un sistema di tutela giurisdizionale costruito secondo un modello di tutela, sia accentrata, sia decentrata, delineato nelle sue linee generali nei trattati e consistente nella

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Corte di Giustizia UE sent. 5 febbraio 1963, C26/62, Van Gend en Loss. Corte di Giustizia UE, Sent. 12 novembre 1969, C29/69, Stauder; Sent. 16 gennaio 1974, C-146/73, Rheinmuhlen; Sent. 23 aprile 1986, C-294/1983, Parti Ecologiste, sent. 15 ottobre 1987, C-222/86, Heylens. 2


Giurisprudenza europea

predisposizione di strumenti volti a conferire effettività ai diritti ed agli obblighi, che derivano dall’applicazione delle norme del diritto dell’Unione, secondo la stessa interpretazione della Corte di Giustizia, ai fini della c.d. rule of law per la realizzazione e l’armonizzazione di un “diritto della comunità”3, in conformità con i valori fondamentali su cui si fonda la stessa cultura giuridica europea, come espressamente enunciati nell’art. 2 TUE4. Tale sistema si articola su due livelli distinti, «ma funzionalmente collegati»5, uno di natura diretta, esercitato direttamente dalle istanze giurisdizionali europee, ed uno di natura indiretta, da parte dei Giudici nazionali, mediante una partecipazione coordinata delle istanze giurisdizionali proprie dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, che integra un effettivo insieme di meccanismi di controllo, da un lato, delle normative, degli atti e delle prassi delle istituzioni, dall’altro, delle normative, degli atti amministrativi, delle condotte e delle modalità operative adottate dalle autorità nazionali. Tuttavia, nel corso dei decenni è possibile intravedere un’evoluzione nella capacità d’intervento della Corte lussemburghese, con una progressione del c.d. Judicial activism6, tanto da svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo, non solo giurisprudenziale, del sistema comunitario7. L’attività giurisdizionale dei Giudici lussemburghesi ha infatti riguardato sia le azioni contro le istituzioni comunitarie, sia soprattutto avverso le norme e le prassi giurisdizionali degli Stati membri, per garantire un’effettiva tutela dei diritti sanciti a livello comunitario. In tal modo, la Corte ha dovuto misurarsi con un innumerevole assortimento di diritti processuali nazionali, con interventi “a pioggia” al fine di uniformare prospettive differenti. Di certo, non sono mancati problemi intorno allo standard di tutela da adottare, in considerazione che nel panorama europeo le diverse tradizioni costituzionali risultavano più o meno garantiste in relazione a determinati diritti. Tuttavia la Corte di Giustizia europea, nel corso degli anni, ha ben saputo utilizzare la teoria dei diritti, così come rodati nelle varie prassi giurisdizionali nazionali, in modo elastico, adattandoli alle varie esigenze del diritto comunitario, con una disciplina caso per caso ed una metodologia simile a quella dei sistemi di common law (case law).

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Corte di Giustizia UE, sent. 23 aprile 1986, Les Verts, in cui la Corte ha altresì affermato che «con gli artt. 173 e 184, da un lato, e con l’art 177, dall’altro, il Trattato ha costituito un sistema completo di rimedi giuridici». Ex multis, Corte Giustizia UE, sent. 22 ottobre 1987, C 314/85, Foto-Frost; Corte giust., ord. 13 luglio 1990, C 2/88, Zwartveld; Corte giust., sent. 23 marzo 1993, C-314/91. Weber, in Racc., p. I-1093, par. 8, Corte giust., 3 settembre 2008, Kadi, cit., par. 181). 4 «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti della persona appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». 5 G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2010, cit. pag. 229. 6 Il termine venne coniato nella prassi giurisdizionale sulla base della funzione della Corte federale degli USA, al fine di indicare il ruolo di intervento giuridico normativo da parte della Corte Suprema. A. Schlesinger, The Supreme Court: 1947, Fortune magazine, January 1947. Black’s Law Dictionari definisce l’attivismo giudiziario come “philosophy of judicial decision-making whereby judges allow their personal views about public policy, among other factors, to guide their decisions”, Muddled, Forse; Judicial Activism, No DF O’Scannlain, Geo. JL & Pub. Pol’y, 2002. In tal senso F. Mancini, La tutela dei diritti dell’uomo: il ruolo della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in Riv. Trim. Dir. Proc. 7 P. Pescatore, Rôle et chance du droit et de juges dans la construction de l’Europe, in Riv. Dir. Pubblico, 1974, 5.

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea?

Dal punto di vista della posizione del singolo, il livello accentrato del sistema di tutela giurisdizionale europeo, affidato alla competenza diretta della Corte di Giustizia ed ai suoi organi, conformemente alle regole sul riparto di competenza previste dai trattati8, ha offerto, da un lato, il controllo della Corte sulla condotta degli Stati membri9, che venissero accusati della violazione di uno degli obblighi su di essi incombenti in forza di una disposizione di diritto dell’Unione; dall’altro ha garantito la tipica competenza giurisdizionale, volta a dirimere controversie inerenti la concreta ricaduta del diritto comunitario sulle prassi nazionali. In base a questa seconda funzione, il singolo ha beneficiato e beneficia della possibilità di ottenere specifica tutela della propria posizione giuridica, che egli considera pregiudicata in ragione della condotta di un’istituzione, che abbia adottato un atto ovvero abbia mancato di adottare, ravvisando un così un comportamento incompatibile con il diritto dell’Unione Europea. Questa situazione denota come la maggior parte delle situazioni giuridiche create dal diritto dell’Unione, ovvero implementate nella loro portata prescrittiva proprio dal diritto comunitario, trova rilevanza proprio sul piano interno con relativa tutela giurisdizionale da parte dei Giudici interni, che hanno imprescindibilmente l’obbligo di assicurare la corretta applicazione

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Articolo 19, par. III, lettera a) TUE. Tale sistema, che è stato nel tempo soggetto a ripetute modifiche, si rinviene in parte nel trattato (art. 256, comma I, TFUE) ed in parte nello Statuto della Corte di giustizia, si articola su piani distinti a seconda di un criterio che combina la natura del controllo svolto dal giudice dell’Unione, ovvero del tipo di ricorso, e la natura del soggetto che propone l’azione. In linea generale, si può dire che il Tribunale eserciti la propria cognizione esclusiva in primo grado con riguardo alle azioni promosse dalle persone fisiche e giuridiche ed ai ricorsi proposti dagli Stati membri, ad eccezione di quelli ancora riservati alla Corte di giustizia e di quelli attribuiti alla competenza dei tribunali specializzati (le eccezioni riguardano in particolare i ricorsi di annullamento e in carenza proposti da uno Stato membro contro la Commissione in materia di cooperazioni rafforzate (art. 51, comma I, lett. b) dello Statuto); nonché i ricorsi di annullamento proposti da uno Stato membro contro il Consiglio avverso atti non rientranti nell’elenco di cui all’art. 51 dello Statuto (che include atti di natura prevalentemente esecutiva, ovvero: decisioni in materia di aiuti di Stato adottate ai sensi dell’art. 108, par. 2, comma III, TFUE; atti adottati in forza di regolamenti di difesa commerciale ai sensi dell’art. 207 TFUE; atti di esercizio di competenze di esecuzione ai sensi dell’art. 291, comma II, TFUE). La competenza relativa alle controversie tra l’Unione e i suoi agenti è devoluta all’unico tribunale specializzato ad oggi esistente, ovvero il Tribunale della funzione pubblica (istituito con dec. n. 2004/752/CE, Euratom, del Consiglio del 2 novembre 2004, in GU L 333, 9 novembre 2004, 7). Restano riservati alla competenza della Corte di giustizia in unico grado tutti i ricorsi degli Stati membri sottratti alla competenza del Tribunale, inclusi i ricorsi per annullamento rivolti al Parlamento ovvero al Parlamento ed al Consiglio congiuntamente, nonché i ricorsi per infrazione contro altri Stati membri, e tutti i ricorsi proposti da un’istituzione, contro uno Stato membro ovvero contro un’altra istituzione. La competenza pregiudiziale è affidata in via esclusiva alla Corte di giustizia, sintanto che lo Statuto non preveda delle materie in cui tale competenza sia attribuita al Tribunale (art. 256, comma III, TFUE). Sul tema del riparto di competenze, vedi in dottrina, ex multis, R. Mastroianni, Il Trattato di Nizza ed il riparto di competenze tra le istituzioni giudiziarie comunitarie, in Dir. Unione eur., 2001, p. 774, A. Tizzano, La Cour de Justice après Nice: le transfert de compétences du Tribunal de priemière instance, in Dir. Unione eur., 2002, 597 e M. Condinanzi, Commento art. 225, in A. Tizzano (a cura di), Trattato sull’Unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004, 1034. 9 Tale controllo, attivabile per espressa previsione del trattato solamente dalla Commissione o dagli Stati membri (art. 258-259 TFUE), al singolo è effettivamente preclusa ogni possibilità di far valere la tutela della sua posizione giuridica soggettiva che assurge violata, se non nelle forme di potere di controllo indiretto, che si traduce nella possibilità di chiunque di presentare alla Commissione una denuncia contro uno Stato membro, per segnalare una misura legislativa, regolamentare o amministrativa, ovvero l’adozione di una prassi adottata dallo Stato membro, che risulti contraria al diritto comunitario.

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Giurisprudenza europea

delle norme europee. Come affermato pleonasticamente dal Parlamento europeo, «i Giudici nazionali sono l’elemento centrale del sistema giudiziario dell’Unione europea e svolgono un ruolo fondamentale e imprescindibile per la creazione di un ordinamento giuridico unico»10, in stretto coordinamento con le stesse istituzioni europee11.

2. Il diritto fondamentale alla tutela (giurisdizionale) effettiva. La tutela giurisdizionale europea è divenuta, quindi, sia uno strumento per il sindacato dei rimedi processuali nazionali, sia uno strumento per assicurare al singolo l’effettivo godimento dei diritti sanciti a livello sovranazionale. Nell’affermazione soggettivistica il diritto alla tutela giurisdizionale europea nasce dal contesto in cui la Corte di Giustizia viene posta di fronte alla necessità di assicurare l’effetto utile, negli ordinamenti interni, delle disposizioni di diritto dell’Unione suscettibili di incidere variamente sulla posizione giuridica del singolo. Il principio si forgia, dunque, quale espressione della generale esigenza di assicurare ai singoli l’effettiva tutela dei loro diritti, che sebbene trovassero una matrice comune nella comunanza dei valori costituzionali europei, venivano garantiti in forme giurisdizionali differenti, con conseguenti ricadute sui profili sostanziali dell’effettività dei diritti stessi. In questa prospettiva, la tutela giurisdizionale europea vincola per l’effetto il Giudice nazionale ogni qualvolta sia investito di una controversia in cui il diritto dell’Unione debba ricevere applicazione: quindi, sia nel contesto delle azioni promosse a livello nazionale da un privato che voglia vedere tutelata una situazione soggettiva ad egli attribuita dal diritto dell’Unione, nei confronti di un’autorità nazionale ovvero di un altro privato, sia nel contesto di azioni in cui la pretesa del singolo risulti, al contrario, fondata sul diritto nazionale, ma il suo accoglimento incida sull’applicazione di una norma di diritto dell’Unione. La tutela giurisdizionale europea diviene, dunque, strumento di protezione oggettiva, quale effetto dell’applicazione, da parte del giudice europeo, nell’esercizio delle competenze a questo attribuite, di determinate norme di natura procedurale che prevedono garanzie di tutela minima, direttamente previste dal Legislatore europeo, sia per offrire maggiore coerenza ed uniformità alle prassi giurisdizionali europee, ma anche quale strumentario azionabile per esigere quella tutela affermata a livello sostanziale nei Trattati. Attraverso, poi, il riconoscimento da parte dei Giudici dell’Unione dei principi dell’equo processo, che produce effetti riflessi sulla disciplina dei rimedi direttamente esperibili dall’individuo, nello specifico in funzione di

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Risoluzione del Parlamento europeo del 9 luglio 2008, Ruolo del giudice nazionale nel sistema giudiziario europeo (2007/2027 INI), in GU C294E del 3 dicembre 2009, cfr. 27-29. 11 Il meccanismo tramite il quale questa cooperazione diviene possibile si fonda già sulla facoltà del rinvio pregiudiziale, le cui funzioni essenziali sono: A) quella di assicurare un’uniforme interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione, tanto che: «l’art. [267 TFUE] è essenziale per la salvaguardia dell’indole comunitaria del diritto istituito dal Trattato ed ha lo scopo di garantire in ogni caso a questo diritto la stessa efficacia in tutti gli Stati della Comunità. Detto articolo mira anzitutto ad evitare divergenze nell’interpretazione del diritto comunitario che i tribunali nazionali devono applicare, ma anche a garantire tale applicazione, offrendo al giudice nazionale, il mezzo per sormontare le difficoltà che possono insorgere dall’imperativo di conferire al diritto comunitario la piena efficacia nell’ambito degli ordinamenti giuridici degli Stati membri» (Corte giust., 16 gennaio 1974, causa 166/73, Rheinmühlen) B) quella di realizzare un controllo indiretto sulla legittimità delle normative o delle prassi nazionali rispetto alle norme europee.

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea

garantire la coerenza e la completezza dei sistemi di tutela giurisdizionali, l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale acquista, poi, la forma tipica di un diritto soggettivo. Pertanto, l’effettività quale criterio regolatore, sotteso al rapporto che lega il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale del singolo ed il sistema di rimedi a disposizione del cittadino nell’ordinamento dell’Unione, considerato nel suo complesso, si attesta a criterio ermeneutico per l’analisi del passaggio tra l’elaborazione giurisprudenziale da nazionale a comunitaria. Tanto più, che il principio di tutela giurisdizionale effettiva si atteggia in modo particolare nei settori in cui esso si misura con la previsione a livello normativo di garanzie procedurali minime, volte ad assicurare l’effettività delle norme europee sostanziali attributive di diritti o obblighi ai singoli ovvero, più in generale, incidenti sulla posizione giuridica soggettiva di questi. La Corte ha da tempo chiarito che, quando un atto di diritto dell’Unione conferisce diritti procedurali a determinati soggetti, essi devono poter «disporre di un mezzo d’impugnazione a tutela dei propri interessi legittimi»12. In tal guisa, nella seguente breve capitolazione, si cercherà in modo sbrigativo di rintracciare in alcuni casi concreti, le ipotesi in cui il Giudice dell’Unione si è misurato con l’applicazione di garanzie procedurali più o meno dettagliate previste dal Legislatore a favore dell’individuo nel processo europeo, cercando a seconda dei casi di modulare la portata concreta al fine di offrire effettività al diritto rivendicato. Sotto quest’ultimo profilo, la previsione di garanzie procedurali si è particolarmente rivolta alla disciplina della partecipazione delle parti interessate, nell’ambito dei procedimenti di applicazione ed enforcement delle relative norme di diritto sostanziale. Alla luce di un’analisi della giurisprudenza della Corte in tali settori, qui illustrata attraverso l’esame di alcuni casi della prassi interpretativa recente, pare potersi desumere il riconoscimento, a livello interpretativo, di una dimensione oggettiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale, che intende l’applicazione delle norme europee che prevedono garanzie procedurali minime in senso strumentale volte a garantire il corretto funzionamento del procedimento giurisdizionale, ma che indubbiamente hanno determinato prerogative tipiche di tutela, che costituiscono uno strumentario di diritti a favore dei singoli.

3. Ambiti di tutela effettiva. La tutela giurisdizionale dei diritti in ambito europeo è, infatti, espressione dell’impegno degli Stati membri di assicurare effettività all’applicazione del Diritto dell’Unione, come espressamente sancito dall’art. 19 comma I TUE, il quale dispone che «gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione». La disposizione valorizza la dimensione “funzionale” del principio, quale strumento di integrazione tra ordinamenti necessario a garantire una corretta applicazione del diritto comunitario e ad assicurare l’effettività, per cui il compito della Corte di Giustizia assurge quale garante dell’uniforme interpretazione del diritto europeo, demandando ai giudici nazionali i rimedi giurisdizionali necessari per garantirne l’effettività.

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Trib. EU Sent. 27 aprile 1995, causa T-96/92, CCE de Société générale des grandes sources e a.; Trib. EU, set. aprile 1995, causa T-12/93, CCE de Vittel.

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Giurisprudenza europea

3.1. Il diritto di azione ed all’accertamento giudiziale. Una delle pronunce più significative è sicuramente quella relativa al caso Masdar13, che ha origine da un ricorso per il risarcimento del danno che una società inglese, che forniva sevizi di certificazione e di controllo, affermava di aver subito un danno a causa del mancato pagamento dei servizi da essa forniti nell’ambito di alcuni progetti d’assistenza comunitaria gestiti dalla Commissione europea. Il ricorso della quale Masdar veniva respinto in primo grado dal Tribunale, sulla base dell’assenza di prove adeguate circa la violazione da parte della Commissione di una norma di diritto dell’Unione, nonché circa la sussistenza di un nesso di causalità tra la violazione del presunto obbligo fatta valere ed il danno lamentato. La Ricorrente impugnava, pertanto, la decisione del Tribunale dinanzi alla Corte, adducendo una carenza di motivazione nel trattare la questione dell’arricchimento senza causa, sulla base del quale aveva fondato il proprio diritto al risarcimento del danno. La Corte adita, conformemente alla nozione di effettività di tutela giurisdizionale da essa accolta, affermava il diritto del singolo di avere accesso ad un Giudice, con conseguente possibilità di esperire un ricorso per risarcimento del danno provocato da un altrui indebito arricchimento, posto che una tale azione non è espressamente esclusa dalle norme del trattato che disciplinano l’azione per il risarcimento dei danni cagionati ai singoli dalle istituzioni o dagli agenti dell’Unione, così come interpretate dalla Corte di giustizia14. Del resto secondo la Corte il principio dispositivo, tipico dei processi civili, amministrativi e tributari, non ha valore assoluto, ma soggiace comunque sempre alla necessità per il giudice di verificare la congruità della norma nazionale al diritto comunitario (diritto di accesso alla giurisdizione). Nella sentenza C-312/199315 la Corte ha espressamente affermato che il diritto comunitario osta all’applicazione di norme processuali nazionali che impediscano al Giudice interno di esaminare d’ufficio il motivo di ricorso non dedotto dal singolo entro un determinato termine, qualora l’applicazione di dette norme processuali equivalga ad una limitazione dell’autorità giudiziaria di esaminare la compatibilità della norma nazionale con il diritto comunitario, nonché della facoltà prevista dal Trattato di chiedere alla Corte una pronuncia pregiudiziale su una questione relativa all’interpretazione del diritto comunitario. Parimenti le condizioni dell’azione non possono essere così stringenti da limitare lo stesso diritto di tutela giurisdizionale16.

3.2. Il diritto al contradditorio. La Corte afferma che i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi giuridici generali dei quali garantisce l’osservanza. Questa premessa fondamentale implica il principio per il quale i destinatari di decisioni, che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi nelle condizioni di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la decisione, e devono perciò beneficiare di tutte le garanzie necessarie, affinché la loro partecipazione al procedimento sia concreta, attiva e

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Corte di Giustizia UE (grande sezione), sent. 16 dicembre 2008, Masdar (UK) Ltd contro Commissione delle Comunità europee, C-47/07. 14 Corte giustizia UE, 9 settembre 2008, cause riunite C-120/06 P e C-121/06, FIAMM. 15 Corte di giustizia CE, sent. 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck, Van Campenhout & Cie SCS/ Belgio 16 Corte di Giustizia CE, sent. 21 settembre 1999, C-397/1996, Caisse de pension des employés priveés.

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea

partecipata (garanzia a termini adeguati, traduzione degli atti, ecc.)17. In tal guisa, si possono individuare alcune pronunce in cui la Corte abbraccia un orientamento piuttosto garantista dei diritti dell’individuo, ispirato all’esigenza di garantire i diritti di difesa quali diritti soggettivi ed autonomi del singolo nell’ambito di un procedimento rispettoso dei principi dell’equo processo. In particolare nel caso EMEA18 la Corte ha dovuto verificare il rapporto di lavoro tra un agente temporaneo e l’Agenzia europea per i medicinali, ove il Ricorrente era impiegato, in ordine al mancato rinnovo del contratto di assunzione a seguito di un infortunio sul lavoro, nell’ambito della quale l’agente aveva presentato domanda per la costituzione di una commissione di invalidità, che era stata negata. Il Ricorrente adiva così il Tribunale della funzione pubblica per l’annullamento della decisione di rigetto, chiedendo anche il risarcimento dei danni morali e materiali subiti, ma tale ricorso veniva respinto, senza avviare la fase orale del procedimento, in quanto irricevibile, sulla base dell’art. 114, n. 1, del regolamento di procedura del Tribunale di primo grado. Il Ricorrente impugnava successivamente tale decisione dinanzi al Tribunale, il quale procedeva con l’annullamento ritenendola viziata da un errore di diritto per aver dichiarato irricevibili la domanda d’annullamento e la domanda risarcitoria del ricorrente, e per l’effetto giudicando ricevibile e fondata sia la domanda d’annullamento della decisione dell’agenzia impugnata che la domanda risarcitoria. In tale contesto, a seguito della proposta del primo avvocato generale di riesaminare la suddetta sentenza del Tribunale, la Corte avviava il riesame per accertare la legittimità dell’interpretazione del Tribunale circa la nozione di «causa matura per la decisione», ai sensi dell’art. 61 dello Statuto della Corte di giustizia e dell’art. 13, n. 1, dell’allegato al detto Statuto, in considerazione del fatto che tale interpretazione aveva consentito al Tribunale di avocare a sé la causa e di pronunciarsi sul merito, sebbene, quanto al merito, non avesse avuto luogo alcun contraddittorio, né dinanzi ad esso, né dinanzi al Tribunale della funzione pubblica quale Giudice di primo grado. Nell’esaminare in particolare la legittimità della statuizione del Tribunale nel merito sulla domanda di risarcimento del danno lamentato dal Ricorrente, la Corte adotta quale parametro le prescrizioni connesse al diritto ad un equo processo, ed in particolare quella relativa al rispetto dei diritti della difesa, cui viene ricondotto il principio del contraddittorio. Sulla base di queste premesse la Corte ricorda e sancisce come tale principio debba ricevere applicazione, nel contesto dell’ordinamento dell’Unione europea, in ogni procedura che possa sfociare in una decisione di un’istituzione comunitaria, che pregiudichi sensibilmente gli interessi di una persona, e debba implicare il diritto per le parti di poter intervenire sui fatti e sui documenti su cui si baserà una decisione giudiziaria, nonché di discutere le prove e le osservazioni proposte dinanzi al Giudice, nonché sui motivi di diritto rilevati d’ufficio, sui quali il Giudicante intende basare la propria decisione. La garanzia effettiva del contraddittorio impone che «i giudici comunitari vigilino per far osservare dinanzi ad essi e per osservare essi stessi detto principio», di cui sono titolari le parti in qualsiasi tipo di procedimento giudiziale19.

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Corte di Giustizia UE, sent. 18 dicembre 2008, C-349/07, Sopropé. Corte di Giustizia UE, sent. 17 dicembre 2009, C-197/09 RX-II, M. contro Agenzia europea dei medicinali (EMEA). 19 Corte giustizia UE, sent. 17 dicembre 2009, C-197/09 RX-II, M. contro Agenzia europea dei medicinali (EMEA), cit., par. 42. 18

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Giurisprudenza europea

3.3. Il diritto alla difesa. In base ai principi dell’equo processo, non può essere limitato nei confronti di particolari categorie di atti, né essere limitato nella sua espansione. Soprattutto per quanto riguarda l’ambito penale, la prerogativa all’assistenza e alla difesa tecnica in ogni stato e grado del procedimento, trova riscontro a livello europeo nell’art. 6 comma III lett. C) CEDU, tuttavia non trovano ugual applicazione ed interpretazione all’interno del territorio europeo. Lo hanno dimostrato le sentenze del 11 febbraio 2008, Salduz c. Turchia20, e del 18 febbraio 2014, Bayram Güçlü c. Turchia21, in cui il Giudice europeo ha ravvisato, la violazione dell’art. 6 comma 1 e 3 lett. C) della Convenzione, a causa dell’assenza del difensore durante gli interrogatori svolti dalla polizia nelle fasi preliminari di alcuni procedimenti nei confronti di sospetti terroristi. Ancora recentemente la Gran Camera con la sentenza del 9 novembre 2018 è tornata su questo tema, condannando il Belgio per violazione all’art. 6 CEDU per non aver garantito l’indisponibile assistenza di un difensore durante un interrogatorio ad un soggetto imputato di omicidio22 e gravato da mandato d’arresto europeo. Del resto, la Corte di Strasburgo già da tempo, con precedenti pronunce, aveva sancito l’interpretazione, che l’effettivo esercizio del diritto alla difesa comprenda la c.d. difesa tecnica in ogni stato e grado del procedimento, sia durante la fase delle indagini, sia durante lo svolgimento processuale, irrogando sanzioni non soltanto alla Turchia con i casi Salduz e Güçlü, ma anche al Regno Unito, che nel 201623 era stato condannato per aver imposto restrizioni temporanee all’accesso ad un avvocato durante gli interrogatori di polizia degli attentatori di Londra del 2005. Sin già dal 10 settembre 2013 il Parlamento europeo aveva approvato la proposta di direttiva 2016/343/UE della Commissione UE per la disciplina di standard minimi per l’accesso alla difesa, comuni ai 28 Paesi UE, emessa poi il 9 marzo 201624, che disciplina proprio il diritto di accesso al proprio avvocato da parte di un indagato o di un imputato in una procedura penale. Questa norma rappresenta, infatti, la terza direttiva volta a determinare una disciplina comune per tutti i Paesi membri, nel processo penale, dopo quelle relative al diritto alla traduzione e interpretazione (2010) e al

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Grande Camera, sentenza del 27 novembre 2008, ricorso n. 36391/02, Salduz c. Turchia. Il Ricorrente all’epoca dei fatti ancora minore veniva accusato di favoreggiamento del PKK (organizzazione curda illegale in Turchia). Condanna sulla base delle dichiarazioni rese sotto pressione alla polizia per violazione del diritto ad un equo processo (art. 6, par. 1, CEDU). La Convenzione obbliga infatti a garantire l’assistenza di un legale sin dal primo interrogatorio a meno che circostanze particolari non giustifichino una restrizione di tale diritto. Le garanzie della difesa non possono essere eccessivamente limitate, come nel caso in cui dichiarazioni rese in sede di interrogatorio di polizia, senza possibilità di accedere ad un legale, costituiscono la base di una condanna. 21 CEDU sent. 18 febbraio 2014 Ricorso 31535/04. Bayram Güçlü è un cittadino turco condannato per traffico di sostanze stupefacenti prima in Olanda – dove sconta 33 mesi di carcere – e poi in Turchia – dove è condannato a 36 anni. Il Sign. Güçlü lamenta un processo ingiusto in Turchia: per un certo periodo non ha avuto possibilità di ricorrere ad un avvocato e la sua condanna si è fondata sulla testimonianza decisiva di testimoni che non sono stati sottoposti ad un esame incrociato. 22 CEDU, Gran Camera, sent. 9 novembre 2018, Ricorso 71409/2010, Beuze / Belgio. 23 CEDU, Gran Camera, Sentenza Ibrahim e altri contro il Regno Unito del 13 settembre 2016 (n. 50541/08, 50571/08, 50573/08 e 40351/09). 24 Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali in G.U.U.E., 11 marzo 2016, L 65/1.

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea

diritto di informazione nel processo penale (2012). La ricerca da parte della Corte di Giustizia, di garantire un effettivo, libero ed indipendente diritto alla difesa, si è poi spinta persino nel verso di considerare come limitativi i costi della difesa giurisdizionale, poiché anche il costo professionale incide sull’effettività del diritto alla difesa, tanto che l’attività svolta da iscritti ad albi di professioni intellettuali è inclusa nella disciplina di cui all’art. 85 del Trattato25. La Corte ha, così, equiparato l’attività di colui che esercita una professione intellettuale ad un’impresa economica e pertanto soggetta alle norme del trattato in materia di concorrenza. Secondo l’interpretazione europea, a questa considerazione consegue che l’organizzazione professionale, la quale riunisce i soggetti, che esercitano una data professione, costituisce un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 85 del trattato, con la conseguenza che se l’organizzazione adotti una tariffa, si verrebbe a limitare la concorrenza sugli scambi intracomunitari26. Naturalmente a questa prospettiva potrebbero muoversi fondate eccezioni, tuttavia ciò che rileva in questa sede, è la ricerca della massima effettività del diritto. D’altro canto, un’altra applicazione del principio della pienezza della tutela giurisdizionale è rappresentata poi dal caso Oleificio Borelli27. Nel caso di specie la Corte ha affermato che la tutela cautelare deve investire anche gli atti di uno Stato membro che si inseriscono in un procedimento preordinato ad una decisione comunitaria e di cui anzi costituiscono il presupposto. Siccome la decisione comunitaria non è impugnabile per vizio dell’atto riferito allo Stato membro, tale atto, anche se per l’ordinamento interno non è impugnabile ex se, deve comunque costituire oggetto di sindacato di legittimità avanti al Giudice nazionale, altrimenti verrebbe leso il principio del diritto al Giudice e alla difesa giurisdizionale.

3.4. Durata ragionevole del processo. Secondo la Corte di Giustizia il carattere ragionevole della durata di un procedimento, indipendentemente dalla sua natura, si apprezza sulla base delle circostanze della causa, tenendo conto della sua complessità, del comportamento del Ricorrente e del comportamento della autorità competenti28. Con specifico riferimento alla materia penale, la Corte di Strasburgo ha chiarito che il termine ragionevole di cui all’art. 6 comma 1 della Convenzione si computa a partire dal momento in cui una persona viene accusata, ovvero dal momento in cui riceve la notifica dell’atto di avvio del procedimento da parte delle autorità competenti, atto che può avere “ripercussioni importanti sulla situazione” dell’indagato29. La ragionevole durata del processo assume, pertanto, rilevanza sulla questione relativa all’effettività degli strumenti di tutela preventiva, in considerazione che l’impossibilità di far valere già in sede cautelare le proprie ragioni implica una lesione alla stessa garanzia giurisdizionale, mentre l’eccessiva durata del processo provoca una frustrazione del diritto rivendicato. Sul tema si è espressa anche la Corte EDU con la sentenza Olivieri30 del 25 febbraio del 2016. In tale occasione, l’intervento dei

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Corte di giustizia CE, sent. 8 giugno 1998, C 35/96, Commissione/Repubblica italiana. Sulla scorta di tali principi la successiva giurisprudenza italiana ha riconosciuto il carattere non vincolante delle tariffe professionali degli avvocati. 27 Corte giustizia CE, sent. sent. 3 dicembre 1992, C-97/1991, Oleificio Borrelli. 28 CEDU, sent. 20 febbraio 1991, ric. 11889/1985, Vernillo c. France. 29 CEDU, Sent. 27 febbraio 1980, Ricorso n. 6903/75, Deweer c. Belgio, ECLI:CE:ECHR:1980:0227. 30 Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. 25 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia, ricorsi nn. 17708/12 17717/12 17729/12 22994/12. 26

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Giurisprudenza europea

giudici di Strasburgo era stato richiesto da un gruppo di lavoratori nei cui confronti era stato rigettato il ricorso per irragionevole durata del processo presentato dinanzi alla Corte d’appello di Napoli e, successivamente, in Cassazione. La motivazione a fondamento delle pronunce negative consisteva nel fatto che i soggetti non avessero proceduto a presentare istanza di prelievo nel corso del giudizio di primo grado dinanzi al Tar. La questione sottoposta all’esame della Corte risultava quindi se l’istanza di prelievo dovesse essere necessariamente esperita dall’interessato, prima della presentazione della domanda di indennizzo per irragionevole durata del processo, o poteva essere anche successiva. Sul punto, la Corte EDU dichiarava la non effettività dei rimedi predisposti dall’ordinamento italiano, e pertanto, affermava l’ammissibilità del ricorso. L’articolo 35 CEDU, infatti, prevede che il giudice sovranazionale possa essere adito solo qualora siano stati esauriti i rimedi previsti dall’ordinamento nazionale. La Corte rilevava poi che l’istanza di prelievo, in ambito amministrativo, consente sì al giudice di dichiarare l’urgenza della causa e di anticiparne la trattazione, ma non ha effetti obbligatori, ed al contrario costituisce mera condizione formale, pertanto l’istanza di prelievo non ha il merito di accelerare la trattazione della causa, né la sua mancanza è idonea ad allungare la durata del processo amministrativo : “La Cour considère que l’introduction d’une demande de fixation en urgence de la date de l’audience (istanza di prelievo) n’a pas un effet significatif sur la durée de la procédure, soit en débouchant sur son accélération, soit en l’empêchant d’aller au-delà de ce qui pourrait être considéré comme raisonnable”. In conclusione, la Corte EDU stabiliva l’irrilevanza della mancata presentazione dell’istanza di prelievo dinanzi ai giudici nazionali ed ammetteva i richiedenti a ricevere l’indennizzo a titolo di equa riparazione, così come stabilito dalla legge Pinto.

3.5. Il ne bis in idem. Principio riconosciuto tanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quanto dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) è stato plurime volte oggetto di vaglio da parte della Corte lussemburghese, in vista di alcune difficoltà ermeneutiche in materia di identità dell’interesse giuridico tutelato e duplicazione dei procedimenti31. Le norme a fondamento del diritto sono: l’art. 50 CEDU, ritenuto direttamente applicabile32, che riguarda il divieto di perseguire o condannare una persona per un reato per il quale è già stata assolta o condannata nell’Unione, a seguito di una sentenza penale definitiva33 e l’art. 51,

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Corte di giustizia, sent. 7 gennaio 2004, C-204/00, C-205/00, C-211/00, C-213/00 e C-217/00, Aalborg Portland. Sulla diretta applicabilità dell’art. 50 cfr. Garlsson, punto 68; XC, YB, ZA, punto 38. Per un commento all’art. 50, fra gli altri C. Amalfitano, R. D’Ambrosio, Art. 50 – Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1026 ss.; A. Oriolo, Il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in A. Di Stasi (a cura di), Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia, Napoli, 2019, 335 ss. 33 Per il resto l’art. 52, da un lato definisce i limiti, compatibili, che i diritti e le libertà previsti dalla Carta possono subire: devono essere previsti dalla legge, rispettare il contenuto essenziale dei diritti e libertà, rispettare il principio di proporzionalità e, quindi, possono essere apposti solo se necessari e solo se rispondono effettivamente a finalità di interesse generale dell’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Per un commento all’art. 52 cfr. F. Ferraro, N. Lazzerini, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta, cit., 1061 ss. Vd. S. Allegrezza, Sub Art. 4, Prot. 7, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario 32

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea

che definisce l’ambito di applicazione della Carta34. Per il sistema CEDU vige l’art. 4 del Protocollo n. 7, che è (par. 3) norma inderogabile ai sensi dell’art. 15 CEDU e vieta che una persona possa essere perseguita o condannata penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stata assolta oppure condannata, a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura di tale Stato. Non si può, invero, comprendere la rilevanza e il significato della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia se non si tiene conto della soluzione armonizzata rispetto alla CEDU e alla sua giurisprudenza, anche se la UE non ha aderito alla Convenzione: ma questa, ex art. 6 TUE, è vincolante per tutti gli Stati membri. La Carta rappresenta la forma più evoluta di protezione dei diritti della persona: può assicurare una protezione più estesa, ma soprattutto si applica nei rapporti fra gli Stati membri, mentre la norma del ne bis in idem CEDU si applica solo all’interno di un ordinamento nazionale. Il sistema CEDU ha tuttavia, un diverso ambito materiale, perché la Carta si applica (a istituzioni, organi, organismi della UE e agli Stati) esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione35; limite che non incontra la CEDU, rendendo questa applicabile in tutti i casi in cui non si tratti di attuazione del diritto UE. Distinzione importante, che conferma comunque la necessità di una coerenza36 fra i due sistemi: anche quando la Corte di giustizia sembra voler dare maggior rilievo al diritto UE (e alla Corte stessa) affermando, proprio con riferimento a un caso di ne bis in idem, la propria incompetenza a decidere37. Ma soprattutto l’obbligo del giudice nazionale a garantire “la piena efficacia” delle norme UE, “disapplicando, all’occorrenza, di propria iniziativa qualsiasi disposizione della legislazione nazionale anche posteriore”38. Al fine di definire il divieto del ne bis in idem, la Corte di Giustizia compie un percorso analogo a quello della CEDU, con maggiore attenzione ai criteri che consentono il cumulo procedimentale. Tali criteri sono per lo più di portata programmatica, in particolare l’“ammonimento” ai Giudici nazionali ad applicare il principio in base ai casi concreti39, secondo proprio il principio di stretta effettività. La natura sostanzialmente penale dei procedimenti e delle sanzioni è infatti definita secondo i tre criteri individuati dalla CEDU nella causa Engel40 richiamati dalle sentenze Bonda e Akerberg Fransson, e solo indirettamente dalle altre sentenze (qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale; la natura dell’illecito (e la finalità repressiva della

breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, 898 ss. Dall’altro lato (par. 3) contiene la clausola orizzontale di salvaguardia rispetto ai diritti garantiti dalla CEDU, assicurando comunque una protezione più estesa di diritto UE rispetto a quella CEDU. 34 Corte di giustizia UE, ordinanza 15 aprile 2015, Burzio, C-497/14, EU:C:2015:251 (riguardava il caso di un omesso versamento delle ritenute di imposta). 35 In tal senso, sentenze del 5 giugno 2012, Bonda, C-489/10, EU:C:2012:319, punto 37, e del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 35. 36 Il nuovo impianto sanzionatorio messo in campo con la recente direttiva 2014/57/UE del 16 aprile 201420 è funzionale a garantire l’integrità dei mercati, poiché dal rapporto della Commissione europea è emerso che la precedente direttiva 2003/6 non è stata attuata in modo adeguato in tutti gli Stati membri. Essi, infatti, hanno predisposto unicamente misure amministrative, che alla prova dei fatti, si sono mostrate inadeguate. Si è, inoltre, rilevato che l’assenza di sanzioni penali incide in modo negativo sull’uniformità delle condizioni operative del mercato interno. 37 Corte di Giustizia UE, sent. 7 maggio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:280. 38 Corte di Giustizia UE, sentenze 5 giugno 2012, Bonda, C-489/10, EU:C:2012:319, punti 33-45; sent. Åkerberg Fransson, punti 35-37. 39 Corte di Giustizia UE, sent. 20 marzo 2018, C-524/15, Menci. 40 Corte di Giustizia CE, sent. 8 giugno 1976, C 5100/71; Engel.

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Giurisprudenza europea

sanzione); il grado di severità della sanzione (grado di rigore elevato). L’autore degli illeciti deve essere la stessa persona41 e i fatti materiali devono essere gli stessi, non assumendo rilievo la diversa qualificazione giuridica conferita, a quei fatti o comportamenti, da parte dell’ordinamento nazionale. L’attribuzione della natura penale dell’illecito può dunque trasformare un procedimento o una sanzione amministrativa, o tributaria, in procedimento sostanzialmente penale. La limitazione del diritto garantito dall’art. 50 trova tuttavia delle giustificazioni, che hanno la loro base giuridica nella stessa Carta (art. 52, par. 1) che vengono ben analizzate dalla Corte di Giustizia, trattandosi di eccezioni ad un principio generale42. Si tratta di una descrizione diversa, almeno in parte, da quella compiuta dalla Corte EDU nella nota sentenza A. e B. c. Norvegia43, poiché la Corte di Giustizia fa proprie le definizioni, sia della natura penale dei procedimenti e delle sanzioni44, sia dell’esistenza di uno stesso reato (ovvero dell’identità dei fatti materiali), pur non menzionando, nella giurisprudenza più recente (Menci, Garlsson, Di Puma e Zecca) i criteri Engel, ma rifacendosi direttamente ai principi ermeneutici delle sentenze in tema (Bonda e Åkerberg Fransson).

3.6. La tutela contro atti e comportamenti illeciti. La Corte offre alcuni principi cardine in materia di risarcimento danni e responsabilità aquiliana, in articolare affermando che anche la lesione agli interessi legittimi comporta il conseguenziale risarcimento del danno, la responsabilità risarcitoria prescinde dalla colpa, tanto che l’erogazione di sovvenzioni contra legem può essere revocata solo sulla base di adeguata motivazione a tutela dell’affidamento. La piena effettività e salvaguardia dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario si attesta sulla scorta quindi della responsabilità civile, per cui rilevano in tema di effettiva tutela da comportamenti illeciti: a) la giurisprudenza introdotta dalla sentenza Francovich sulla responsabilità del legislatore degli Stati membri per mancata attuazione di direttive45; B) la non rilevanza della colpa in caso di illecito integrato

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Corte di Giustizia UE sent. 5 aprile 2017, C-217/15, e C-350/15, Orsi e Baldetti, EU:C:2017:264. Corte di Giustizia UE, sent. 27 maggio 2014, C-129/14, Spasic, punti 55-56, EU:C:2014:586. 43 CEDU, Gran Camera, sent. 15 novembre 2016, ric. 24130/11 e 29758/11. Secondo la Corte il doppio binario sanzionatorio previsto dal sistema norvegese non viola il divieto del ne bis in idem per due ordini di motivi: i) il primo è quello relativo alla possibilità di prevedere di essere sottoposto a due procedimenti diversi con l’applicazione cumulativa di due sanzioni; ii) il secondo, su cui si fonda l’intera motivazione della sentenza, è dato dall’esistenza di una stretta connessione tra i due procedimenti paralleli a cui erano stati sottoposti i due ricorrenti. Invero, le prove utilizzate, in uno dei due procedimenti, erano state utilizzate anche nell’altro e per quanto concerne la sanzione complessivamente inflitta essa era proporzionale alla condotta constatata, poiché ai fini della sua applicazione si era tenuto conto della sanzione fiscale inflitta nell’analogo procedimento. Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che “whilst different sanctions were imposed by two different authorities in different proceedings, there was nevertheless a sufficiently close connection between them, both in substance and in time, to consider them as forming part of an integral scheme of sanctions under Norwegian law for failure to provide information about certain income on a tax return, with the resulting deficiency in the tax assessment”. 44 Corte di Giustizia UE, sent. 20 marzo 2018, C-524/15, Menci, vd. Punti34-39. 45 Corte di Giustizia UE, sent. 15 giugno 199, C- 140/97, Rechberger. La violazione grave e manifesta del diritto comunitario può ravvisarsi anche nel non corretto recepimento di una sola delle disposizioni contenute in una direttiva e dall’altro, che il nesso eziologico tra inottemperanza sello Stato membro e pregiudizio riportato dal singolo non può ritenersi interrotto da fattori esterni, la cui incidenza negativa doveva essere neutralizzata proprio tramite l’esatto adempimento dell’obbligo incombente sullo Stato e il conseguente adeguamento della legislazione interna. 42

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Riflessioni in materia di tutela giurisdizionale europea

dall’emanazione di atti amministrativi, in quanto la colpa è di per sé ravvisabile nella violazione delle norme operata con l’emissione dell’atto; C) la responsabilità civile per la violazione di posizioni giuridiche individuali tutelate dalla normativa comunitaria (interessi legittimi); D) il principio per cui i diritti attribuiti ai singoli da norme comunitarie aventi effetto diretto nell’ordinamento interno degli Stati membri non possono dipendere da valutazioni della Commissione in ordine all’opportunità di avviare un procedimento ex art. 169 del Trattato nei confronti di uno Stato membro, né dalla pronuncia della Corte di un’eventuale sentenza, che dichiari l’inadempimento46. Imporre qualsiasi condizione pregiudiziale equivarrebbe ad ostacolare l’azione di risarcimento, in considerazione che il singolo ha accesso solo indiretto al procedimento di inadempimento, non tenendo conto della grande autorità delle sentenze pregiudiziali di invalidità o interpretative, volte ad impedire il rapido risarcimento del danno, in quanto la responsabilità rimarrebbe sospesa fino alla pronuncia della sentenza di inadempimento; E) il risarcimento, posto a carico degli Stati membri, dei danni cagionati ai singoli da violazioni del diritto comunitario dev’essere adeguato al danno subito, spettando all’ordinamento interno degli Stati membri fissare i criteri che consentono di determinare l’entità del risarcimento; F) non risulta conforme al diritto comunitario una disciplina che limiti il danno risarcibile ai soli danni arrecati a determinati beni, particolarmente tutelati, mentre limiti la risarcibilità ad altri, escludendo in determinati ambiti il lucro cessante subito dai singoli; G) le condizioni fissate dalle norme nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere tali da rendere impraticabili o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento47.

Andrea Racca

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Corte di Giustizia CE, sent. 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pecheur. Corte di Giustizia CE, sent. 1° giugno 1999, C-126/97, Eco Swiss China Time Ltd.

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Giurisprudenza

internazionale

Tribunale arbitrale presso la Corte Permanente di Arbitrato, Caso n. 2015-28 (“Marò”/“Enrica Lexie”), decisione del 2/7/2020 Corte Permanente d’Arbitrato – Diritto di navigazione – Giurisdizione esclusiva – Immunità funzionale

Il testo integrale della sentenza è accessibile sul sito della rivista

Il lodo del Tribunale Arbitrale costituito a L’Aja sul caso “Enrica Lexie” Con il lodo emesso lo scorso 2 luglio, il Tribunale arbitrale costituito a L’Aja in forza dell’annesso VII alla Convenzione sul diritto del mare ha determinato una svolta nella questione pendente tra Italia e India, circa la morte di due pescatori indiani, imputata ai marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. La vicenda ha avuto origine il 15 febbraio 2012: i due fucilieri di Marina si trovavano a bordo della petroliera Enrica Lexie, battente bandiera italiana, al largo delle coste del Kerala, presumibilmente nella “zona economica esclusiva”1. La loro presenza, insieme a quella di altri quattro marò, si giustificava alla luce delle esigenze di protezione contro attacchi di pirateria nell’ambito della cosiddetta “Missione Atalanta” e in virtù del decreto-legge n. 107 del 12 luglio 2011, convertito nella legge n. 130 del 2 agosto 2011. Secondo la tesi italiana, i due marò, alla vista di quello che, poi, si sarebbe rivelato essere il peschereccio St. Anthony, avrebbero sparato dei colpi di avvertimento, nella convinzione che si trattasse di una nave pirata. In tale incidente sono morti due pescatori indiani, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, ragion per cui Girone e Latorre sono stati arrestati dalle autorità del Kerala e posti in stato di custodia cautelare con l’accusa di omicidio. Dopo anni di incertezze, nel 2015 il governo italiano si è determinato ad innescare la procedura di arbitrato davanti al Tribunale internazionale del diritto del mare di Amburgo, non essendo prospettabile il raggiungimento di una soluzione negoziale con l’India. Nell’ambito di tale procedura, è stato costituito a l’Aja il Tribunale Arbitrale presso la Corte Permanente di Arbitrato (CPA). Fin dal primo momento, la linea difensiva italiana ha seguito due direttrici, strettamente interconnesse fra loro: la prima invocava la carenza della giurisdizione indiana; la seconda era orientata verso la possibilità di applicare la regola dell’immunità funzionale degli organi di Stato ai due militari di Marina.

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L’art. 55 della Convenzione di Montego Bay qualifica la zona economica esclusiva come «la zona al di là del mare territoriale e ad esso adiacente, sottoposta allo specifico regime giuridico stabilito nella presente Parte, in virtù del quale i diritti e la giurisdizione dello Stato costiero, e i diritti e le libertà degli altri Stati, sono disciplinati dalle pertinenti disposizioni della presente Convenzione».


Giurisprudenza internazionale

Circa la giurisdizione, si era rilevato come l’incidente fosse avvenuto a 38 miglia nautiche dalla costa indiana2, quindi in acque internazionali. La norma sul diritto del mare applicabile in siffatta situazione si rinverrebbe nell’art. 97 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (UNCLOS: United Nations Convention on the Law of the Sea) del 19823 – ratificata sia dall’Italia che dall’India – secondo il quale, in caso di incidenti in alto mare che implichino la responsabilità penale di qualsiasi membro dell’equipaggio, l’azione penale può essere intrapresa esclusivamente dalle autorità giurisdizionali dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza. Per di più, alla stregua del terzo comma, il fermo o il sequestro della nave, anche se adottati come misure cautelari nel corso dell’istruttoria, non possono essere disposti da nessuna Autorità che non sia lo Stato di bandiera. Ciò rileva in quanto l’Enrica Lexie è stata tenuta sotto sequestro dalle autorità indiane fino al 2 maggio 2012, data in cui la Corte Suprema indiana ha concesso il suo rilascio a fronte di garanzie4. Il Ministero degli Affari Esteri ha, inoltre, sempre asserito l’esclusiva competenza dei giudici italiani «per un fatto che coinvolge organi dello Stato operanti nel contrasto alla pirateria sotto bandiera italiana e in acque internazionali»5. A norma dell’art. 5 co. 2 del decreto-legge n. 107/2011 sopracitato, ai membri dei Nuclei Militari di Protezione (NMP) sono attribuite le funzioni di agenti di polizia giudiziaria riguardo ai reati di cui agli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione6 e a quelli ad essi connessi ai sensi dell’articolo 12 del codice di procedura penale. Si è sostenuto che Girone e Latorre avessero agito nell’esercizio delle loro funzioni e, pertanto, quali organi statali. D’innanzi al Tribunale costituito presso la CPA, l’Italia aveva presentato ulteriori osservazioni. Aveva asserito l’incompatibilità delle azioni indiane con l’art. 33 (1) UNCLOS, il quale afferma che la zona contigua su cui lo Stato costiero esercita il controllo non può superare le 24 miglia marine dalla linea di base da cui si misura la larghezza del mare territoriale; con l’art. 56 (1) e (2) UNCLOS, che definisce diritti, giurisdizione e obblighi dello Stato costiero nella zona economica esclusiva; con l’art. 58, riguardante i diritti e gli obblighi degli altri Stati nella zona economica esclusiva; con l’art. 87 (1) (a) e/o l’art. 89 UNCLOS: il primo disciplina le libertà dell’alto mare, in particolare la libertà di navigazione, il secondo l’illegittimità delle rivendicazioni di sovranità sull’alto mare.

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P. Gaeta, Il caso dei marò italiani in India, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma. L’applicabilità dell’art. 97 al caso di specie non è pacifica. La sentenza (interlocutoria) della Corte indiana del 18 gennaio 2013 (reperibile sul sito www.sidi-isil.org) escludeva che lo stesso potesse essere invocato, affermando che fosse limitato alle collisioni e agli altri incidenti propri della navigazione. In particolare, i giudici indiani ritenevano applicabile alla situazione i principii del noto Lotus case, in particolare la nazionalità delle vittime. Nota B. Conforti, In tema di giurisdizione penale per fatti commessi in acque internazionali, in www.sidi-isil.org, si sarebbe potuto invocare anche il principio per cui “i delitti i cui autori, al momento dell’atto delittuoso, si trovano sul territorio di un altro Stato, devono nondimeno essere considerati come commessi sul territorio nazionale se è qui che si è prodotto uno degli elementi costitutivi del delitto e soprattutto i suoi effetti” (in https://www.icj-cij.org/files/permanent-courtof-international-justice/serie_A/A_10/30_Lotus_Arret.pdf). 4 Ead., cit. 5 Comunicato del 6.3.2012 del Ministro degli affari esteri Giulio Terzi, Marò: Terzi convoca Ambasciatore indiano a Roma. “Illegittimo” il procedimento nei confronti dei due militari, in http://www.esteri.it/MAE/IT/Sala_Stampa/ ArchivioNotizie/Approfondimenti/2012/03/20120306_Maro.hm. 6 Le due disposizioni disciplinano, rispettivamente, le ipotesi di “Pirateria” e di “Nave sospetta di pirateria”. 3

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Il lodo del Tribunale Arbitrale costituito a L’Aja sul caso “Enrica Lexie”

In particolare, l’Italia aveva dichiarato che l’India, inducendo l’Enrica Lexie a cambiare la propria rotta e a dirigersi in acque territoriali proprie con uno stratagemma, avesse violato la libertà di navigazione dell’Italia sancita dall’art. 87 (1) (a) e la giurisdizione esclusiva dell’Italia, affermata ex art. 927; in aggiunta, tale comportamento veniva inteso come una violazione dell’art. 300 in combinato disposto con l’art. 100 UNCLOS8. Si ribadiva che l’instaurazione di un procedimento penale contro militari italiani rappresentasse un’infrazione dell’art. 97 (1) UNCLOS, così come il sequestro e le perquisizioni dell’Enrica Lexie violassero il punto 3 dello stesso articolo. Si sottolineava, infine, che affermando e continuando ad esercitare la giurisdizione penale nei confronti di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, l’India stesse violando gli articoli 2(3), 56(2), 58(2) e 100 UNCLOS sopra menzionati. Pertanto, l’Italia aveva chiesto al Tribunale di ordinare che l’India cessasse di compiere atti in contrasto con la Convenzione di Montego Bay, ripagasse l’Italia per le infrazioni, ristabilendo la situazione preesistente alle stesse, e pagasse il risarcimento per i danni immateriali sofferti dai marò – risultanti dall’esercizio illegale della giurisdizione dell’India – e per il danno materiale derivante dal sequestro dell’Enrica Lexie. Le osservazioni dell’India, d’altra parte, facevano riferimento alla violazione dei propri diritti sovrani da parte dell’Italia, la quale, sparando colpi d’arma da fuoco verso il peschereccio St. Antony e uccidendo i due pescatori, si sarebbe posta in contrasto con l’art. 56 UNCLOS; in più, l’India asseriva che l’Italia avesse infranto gli obblighi di avere riguardo per i diritti della stessa nella zona economica esclusiva e che avesse violato la sua libertà, il diritto di navigazione e il diritto a che la zona economica esclusiva fosse riservata per scopi pacifici. Anche l’India, dunque, aveva chiesto al Tribunale di ottenere pieno risarcimento, a fronte delle violazioni degli articoli 56, 58(3), 87, 88 e 90 UNCLOS. Nel dispositivo del lodo, il Tribunale Arbitrale si è pronunciato sia sulla giurisdizione, sia sul merito. Sul primo aspetto, gli arbitri hanno riconosciuto di aver giurisdizione sulla disputa tra Italia e India e che le contro-richieste dell’India fossero ammissibili. Non hanno ritenuto pertinenti al caso gli articoli 2 (3), 56 (2) e 58 (2), la cui violazione era stata eccepita dall’Italia alla luce del protrarsi del procedimento penale davanti alla Corte Suprema indiana. Il Tribunale ha dichiarato, inoltre, di avere giurisdizione per poter affrontare la questione sull’immunità dei militari. Circa il merito del caso, il Tribunale ha sancito che l’India non ha violato l’art. 87 (1) (a) della Convenzione, né l’art. 92 (1) né gli articoli 100 e 300. I paragrafi (1) e (3) dell’art. 97, invece, non sarebbero applicabili alla situazione in esame. Il Tribunale ha affermato, d’altro canto, la sussistenza dell’immunità per i marò in relazione agli atti che hanno commesso durante l’incidente e la conseguente esclusione dell’esercizio della giurisdizione da parte dell’India nei loro confronti. L’Italia non ha violato la sovranità dell’India ex art. 56, né il disposto dell’art. 58 (3):

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La norma, al primo paragrafo, prevede che: “Le navi battono la bandiera di un solo Stato e, salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione, nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. Una nave non può cambiare bandiera durante una traversata o durante uno scalo in un porto, a meno che non si verifichi un effettivo trasferimento di proprietà o di immatricolazione”. 8 L’art. 100 prevede l’obbligo di collaborazione nella repressione della pirateria; l’art. 300, tra le disposizioni generali, annovera l’adempimento degli obblighi con buona fede e l’esercizio di diritti, competenze e libertà previsti dalla Convenzione in modo tale che non costituisca un abuso di diritto.

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Giurisprudenza internazionale

si può dire, quindi, che abbia tenuto in conto i diritti e gli obblighi dello Stato costiero nella zona economica esclusiva e rispettato le leggi di quest’ultimo e le norme internazionali compatibili con la Convenzione. Né tantomeno ha infranto l’art. 88, che prevede l’uso esclusivo dell’alto mare per fini pacifici. Si rinviene, invece, il contrasto della condotta dei marò – imputata, a questo punto, all’Italia stessa – con l’art. 87 (1) (a) e l’art. 90, in quanto ha interferito con la libertà e il diritto di navigazione del peschereccio. È per tale ragione che il Tribunale arbitrale ha obbligato l’Italia a risarcire danni materiali e morali provocati al St. Antony. Il nostro Stato dovrà, inoltre, riaprire il procedimento penale a suo tempo avviato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Occorre rilevare che il Ministero degli Affari Esteri, attraverso un comunicato diffuso il 2 luglio stesso, ha manifestato che «la decisione del Tribunale arbitrale lascia impregiudicato l’accertamento relativo ai fatti e al diritto per quel che concerne il procedimento penale che dovrà svolgersi in Italia»9. Ci si aspettava10 anche l’imputazione all’India della violazione di norme internazionali, per aver detenuto e trattenuto a lungo i marò in difetto di giurisdizione e, quindi, una previsione risarcitoria a favore dell’Italia, così come richiesto dal team legale italiano. Non resta che attendere le motivazioni del lodo per sciogliere i dubbi che ancora permangono.

Miriam Fiordellisi

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https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/caso-enrica-lexie.html. Vedasi N. Ronzitti, Marò: una decisione favorevole all’Italia, ma con qualche chiaroscuro, in www.affarinternazionali.it, 6 luglio 2020. 10

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normativo

Abuso d’ufficio modifica d.l. semplificazioni Antonio De Lucia Il titolo II del libro secondo del codice penale è dedicato ai delitti contro la pubblica amministrazione. In particolare, il capo I disciplina i delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. mentre il capo II tratta i delitti dei privati contro la p.a. Ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, il bene giuridico tutelato dei reati in questione è ravvisabile nel buon andamento della p.a. Il legislatore ha distinto i delitti in due grandi categorie, a seconda che essi siano commessi dai pubblici ufficiali o dai privati, a seconda cioè, che l’offesa agli interessi pubblici provenga dall’ “interno della stessa p.a. o dall’ “esterno” ossia da soggetti estranei all’apparato pubblico. Nel corso degli anni la materia in oggetto è stata più volte riformata dal legislatore così da prevedere conseguenze ancor più severe rispetto a quanto inizialmente fissato dalle pene principali. L’art. 317-bis c.p., introdotto dalla legge 26 aprile del 1990, n. 86, prevede l’applicazione di pene accessorie in caso di compimento di delitti contro la p.a. tassativamente individuati. Il rigore della norma è stato, inoltre, notevolmente incrementato per effetto della legge 9 gennaio 2019, n. 3, in base alla quale in caso di condanna per uno dei reati menzionati dalla disposizione, il cui novero è stato nel corso del tempo ampliato fino a ricomprendere gli artt. 314, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis, importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità perpetua di contrarre con la p.a., salvo che per contenere le prestazioni di un pubblico servizio. A fronte della bipartizione suesposta, nel novero dei delitti commessi dai “pubblici ufficiali” nei confronti della p.a. oltre quelli più noti, anche in relazione alla maggior reiterazione degli stessi, come corruzione, peculato, concussione, o rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, ultimamente è stato oggetto di particolare interesse il reato disciplinato dall’art. 323 c.p. Abuso d’Ufficio, in quanto oggetto di riforma. L’articolo in esame, a ben vedere però, era stato già oggetto di una duplice riforma da parte del legislatore dapprima con la L. 86/1990, in sede di riforma generale dei delitti contro la p.a.; e poi con la l. 234/1997. Con la L. 190/2012 è stato poi preso in considerazione il profilo sanzionatorio portando ad un incremento del minimo e del massimo edittale ascritto al reato. Due, quindi, gli obiettivi della riforma individuabili per lo più nell’assicurare maggior coerenza della fattispecie di abuso con il principio di precisione e determinatezza deducibile dal comma 2 dell’art. 25 Cost.; ed evitare i possibili “interventi” del giudice penale in aree riservate alla valutazione discrezionale della p.a. Passando ad una breve analisi dell’articolo si può notare che il bene giuridico tutelato è, secondo parte della dottrina (Antolisei, Fiandaca-Musco) il buon andamento e l’imparzialità della p.a., per altri (Benussi; in giurisprudenza Cass. Pen., 29 marzo 2012, n. 13179) si tratta di una fattispecie plurioffensiva atta a ledere il patrimonio del terzo danneggiato, che andrebbe considerato persona offesa del reato. Soggetto attivo del reato è sicuramente il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, si tratta infatti di un reato proprio, ed ancora più in generale di un reato di evento il cui


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nucleo centrale consiste nella produzione di un ingiusto vantaggio patrimoniale o alternativamente di un danno ingiusto. Il delitto si consuma con il verificarsi del vantaggio patrimoniale o del danno. Il tentativo è ritenuto configurabile. L’evoluzione normativa della figura in esame ha avuto recentemente nuovo impulso; infatti Il D.L. 16 luglio 2020, n. 76 – c.d. D.L. “Semplificazioni” (pubblicato sulla G.U. n. 178 del 16 luglio 2020 – S.O. n. 24/L) contiene, tra le altre misure, la riforma del reato di abuso d’ufficio. Nello specifico, l’art. 23 del D.L. propone la sostituzione della locuzione “di norme di legge o di regolamento” dell’art. 323 c.p. con le parole “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, e lascia invariato l’elemento soggettivo. La riforma sembra intervenire in particolare sulla condotta tipica del reato; più specificamente l’area penalmente rilevante non è più ricondotta alle violazioni delle “norme di legge o di regolamento” ma viene circoscritta all’inosservanza “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, escludendo che il reato in questione sia configurabile in caso di trasgressione di norme di rango secondario, o in alcune ipotesi di norme di rango primario, tutte le volte che da queste ultime non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio. Si richiede in ogni caso, sempre ai fini dell’integrazione del delitto de quo, che dalla norma violata non debbano residuare “margini di discrezionalità” in capo al soggetto agente. L’ennesimo intervento riformatore dell’abuso d’ufficio è evidentemente quello di sopprimere definitivamente l’area del penalmente rilevante l’eccesso di potere. Risultato più evidente della modifica risulta così il restringimento delle condotte penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 323 c.p., perdendo la violazione di norme di regolamento rilevanza nell’economia della disposizione. Effetto della limitazione dell’abuso del penalmente rilevante alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta, è, inoltre, quello di escludere l’integrazione del reato di abuso di ufficio in caso di violazione di principi generali. L’intervento legislativo, da ricondurre nel più ampio e generale tentativo di velocizzare l’apparato statale, sarebbe così orientato a scongiurare il fenomeno, sempre più diffuso nella P.A. in particolare anche noto come la “sindrome della firma” che deriva dai timori dei funzionari pubblici di firmare provvedimenti e atti nel timore di incorrere nelle sanzioni previste per il reato di abuso d’ufficio e vedersi comminare una responsabilità non sempre ascrivibile alle attività poste in essere.

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internazionale

Le misure di prevenzione dei crimini globali Elena Valguarnera Con la Legge 16.03.2006 n. 146 è stata ratificata dal Parlamento Italiano la Convenzione dell’ONU il cui tema è il crimine organizzato transnazionale. Tale legge pone fine ad un vuoto normativo nella disciplina della materia e definisce quale “reato transnazionale” il reato che esula dai soli confini nazionali e che viene punito (in Italia) con la pena della reclusione non inferiore a un massimo di quattro anni, qualora: a. sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché sia commesso in più di uno Stato; b. sia commesso in uno Stato ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro; c. sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d. sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro1. Per crimine globale o transnazionale, quindi, si intendono tutte quelle condotte criminose dotate di una dimensione (trasversale) di transnazionalità o di internazionalità secondo i criteri più disparati. A mero titolo esemplificativo, fra i criteri che distinguono la transnazionalità o internazionalità spiccano: la rilevanza sovranazionale dei beni oggetto di aggressione, il fatto che si tratti di reati commessi, preparati, pianificati o diretti in più Stati o che abbiano conseguenze o effetti in Stati diversi. Sono pertanto crimini globali sia i crimini internazionali in senso stretto (crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro la pace, genocidio), sia i reati transnazionali in generale – non esclusivamente quelli attinenti alla criminalità organizzata – quelle azioni violente, come il terrorismo, quale atto criminale che si trova in linea di confine tra gli atti criminosi e gli atti di guerra e, pertanto, di difficile definizione e collocazione sistematica2. La criminalità transnazionale si avvale di tutte le “opportunità” offerte dalla globalizzazione dei mercati e dalle nuove tecnologie di comunicazione e di gestione dell’informazione. Ad esempio, la natura internazionale dell’attività di riciclaggio dei proventi illeciti, conferma che proprio questa attività criminale potrebbe risultare maggiormente avvantaggiata e rivoluzionata dallo sviluppo della tecnologia informatica e di comunicazione. La criminalità transnazionale rappresenta, quindi, una grave minaccia ai sistemi economici e finanziari di tutti gli Stati e, pertanto, si auspica una maggiore cooperazione affinché il processo di globalizzazione possa procedere tranquillamente3.

Pubblicata in G.U. n.85 del 11-4-2006- Suppl. Ord. n. 91, la Convenzione è reperibile al seguente link www. unodc.org. 2 L. Pasculli, Le misure di prevenzione del terrorismo e dei traffici criminosi internazionali, Padova, 2012. 3 https://www.altalex.com/documents/news/2014/03/08/la-definizione-del-crimine-transnazionale 1


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La prevenzione del crimine globale così, come la sua repressione, nel tempo ha assunto un ruolo sempre più centrale nell’opera legislativa nazionale e sovranazionale, con interventi sempre più mirati ad ottenere un efficiente contrasto alla detta attività criminale. Invero, per ciò che attiene alla dimensione trasversale della criminalità transnazionale quest’ultima si rileva anche in diverse altre fonti normative e di soft law, prima fra tutte la Convenzione di Palermo, con la quale l’Assemblea Generale prese atto dei crescenti collegamenti fra il crimine organizzato transnazionale e i crimini di terrorismo e richiamò gli Stati a tenerne conto dell’applicazione della Convenzione. All’interno del complesso sistema di prevenzione della criminalità globale4 convivono, in un doppio binario, due diversi modelli di prevenzione: prevenzione positiva da un lato, che mira alla protezione della persona umana, usato di solito per combattere forme di criminalità – forse più tradizionali, ma non per questo meno offensive – quali la corruzione, la criminalità organizzata, gli abusi sessuali sui minori, la tratta di esseri umani etc., e prevenzione negativa dall’altro, che mira alla neutralizzazione delle persone pericolose. Quest’ultimo modello di prevenzione è generalmente – ma non esclusivamente – usato nei confronti del terrorismo internazionale o, comunque, in caso di violazioni particolarmente gravi e violente dei diritti umani. Insieme alla distinzione fra modello di prevenzione positiva e modello di prevenzione negativa il diritto sovranazionale prende spunto dagli ordinamenti interni e “copia” la distinzione fra modello di prevenzione ordinario e modello di prevenzione straordinario. Si precisa a riguardo che nel caso degli ordinamenti internazionali e “regionali” la prevenzione ordinaria appare affidata prevalentemente a misure di tipo positivo, mentre le misure negative assumono in generale carattere eccezionale e costituiscono un apparato straordinario rivolto alla prevenzione di specifiche forme di aggressioni criminose. Di seguito, andremo ad analizzare i singoli modelli di prevenzione, positivi e negativi. In particolare, per ciò che attiene ai modelli negativi di prevenzione, una prima caratteristica specifica riguarda la legalità sotto il profilo delle fonti. Orbene, la maggior parte delle misure negative sovranazionali sono previste da atti normativi particolari (in genere non convenzionali, ma unilaterali) che obbligano gli Stati membri ad adottare determinate misure nei confronti di determinate persone fisiche o giuridiche, gruppi o Stati. Il percorso legislativo che ha portato alla concreta applicazione nei singoli Stati delle misure negative di prevenzione si articola su diversi livelli. Anzitutto, vi sono le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, successivamente le varie iniziative di altre organizzazioni sovranazionali o regionali5. Va detto, in generale, che la ricorrente enunciazione della necessità di tutela di determinati beni e diritti fondamentali nei testi costitutivi delle organizzazioni internazionali e regionali,

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Sulla rilevanza penalistica delle fonti di soft law cfr. A. Bernardi, Sui rapporti tra diritto penale e soft law, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 536 ss.; Id., Soft law e diritto penale: antinomie, convergenze, intersezioni, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Torino, 2009, 1 ss. 5 L.G. Bruno, Misure di prevenzione patrimoniali e congelamento di beni per reati di terrorismo: problemi sostanziali e processuali, in Dir. pen. proc., 2007, 99. P. De Sena, Sanzioni individuali del Consiglio di sicurezza, art. 103 della Carta delle Nazioni Unite e rapporti fra sistemi normativi, in F. Salerno (a cura di), Sanzioni «individuali», cit., 45, nonché M. Lugato, Gli obblighi degli Stati fra primato della Carta e primato dei diritti umani, ivi, 127 ss.

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per le rispettive comunità è di per sé espressione dell’accoglimento dell’istanza di prevenzione del crimine nell’ambito dei rispettivi sistemi giuridici, posto che, tutelare significa proprio prevenire ogni possibile lesione6. L’ammissibilità di misure di prevenzione7 va commisurata, pertanto, non a un potere generale istituzionale, ma alle singole libertà su cui incidono. Ne consegue che il contenuto delle stesse va modellato e sagomato sulle garanzie che circondano quelle libertà. Il fondamento normativo per l’adozione di misure di prevenzione da parte dell’ONU viene in genere individuato nel Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. In particolare, esso attribuisce al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ampi poteri di intervento al fine di mantenere o ristorare la pace e la sicurezza internazionali8. Invero, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite afferma nelle proprie risoluzioni che le misure in esame sono preventive in natura e indipendenti dagli standard penalistici del diritto interno9. In questo modo, legittima espressamente l’applicazione di misure afflittive quanto la pena al di fuori dei principi e delle garanzie a tutela dei diritti e le libertà fondamentali tipici del diritto penale, quali il principio di legalità, la garanzia giurisdizionale, il principio di proporzionalità. Ed ancora, per ciò che concerne l’oggetto della prevenzione, con le stesse misure si vogliono combattere fenomeni del tutto diversi fra loro. Le minacce e le violazioni della pace e della sicurezza internazionali, che le misure negative di prevenzione intendono prevenire, vengono individuate, di volta in volta, in situazioni di fatto del tutto eterogenee. Così come nel diritto nazionale, anche negli ordinamenti giuridici sovranazionali i contenuti delle misure preventive negative consistono sempre in una compressione della sfera individuale. È generalmente prevista la possibilità, per gli Stati membri, di derogare all’obbligo di applicazione di siffatte misure laddove ricorrano particolari situazioni o esigenze, per lo più di carattere umanitario. Nell’ambito degli ordinamenti interni, come quello italiano, la dottrina e la giurisprudenza ritengono, correttamente, che affinché possano dirsi rispettate le garanzie di legalità e di certezza del diritto occorre che la norma preveda due elementi, che insieme costituiscono la “fattispecie di pericolosità”. In particolare, gli elementi che costituiscono il giudizio di pericolosità, consistono per un verso nella previsione tassativa di fatti commessi dal destinatario della misura cui ancorare la prognosi di pericolosità e nell’accertamento della sussistenza della pericolosità del destinatario10. Laddove manchino le fattispecie-presupposto, il giudizio di pe-

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P. Nuvolone, voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, cit., 634. Cfr. anche Id., Relazione introduttiva, cit., 15-16. 7 G. Corso, Profili costituzionali delle misure di prevenzione. Aspetti teorici e prospettive di riforma, in G. Fiandaca, S. Costantino (a cura di), La legge antimafia tre anni dopo, Milano 1986, 138. 8 In argomento cfr. B. Bull, A. Tostensen, Bolstering Human Rights by Means of Smart Sanctions, in Hum. Rts. Dev. Y.B., 1999/2000, 90 ss. Sulle competenze delle Nazioni Unite in materia di prevenzione al terrorismo vedi M. Sossai, La prevenzione del terrorismo nel diritto internazionale, Torino, 2012. 9 Preamboli delle risoluzioni 1822 (2008), 30 giugno 2008, cit. e 1904 (2009), 17 dicembre 2009, cit., 1989 (2011), 17 giugno 2011. 10 Sull’accertamento della pericolosità anche in rapporto al processo penale vedi (con riferimento all’ordinamento italiano) P. Nuvolone, L’accertamento della pericolosità nel processo ordinario di cognizione, in Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Pene e misure di sicurezza: modificabilità e suoi limiti, cit., 27 ss.; A. Bargi, L’accertamento della pericolosità nelle misure di prevenzione: profili sistematici e rapporti con il processo penale, Napoli 198.

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ricolosità è abbandonato all’incontrollata discrezionalità dell’autorità competente ad applicare le misure in questione, in spregio al principio di stretta legalità, peraltro non sempre rispettato dagli ordinamenti nazionali. A differenza del modello di prevenzione negativo, il modello preventivo positivo risulta più frammentato e disorganico dal punto di vista delle fonti. Se da un lato è vero che le fonti che disciplinano le misure di prevenzione negative e sono numerosissime e si dispiegano su molteplici livelli, è pur vero che la loro struttura è sempre la stessa e la loro lettura, così come il loro reperimento - agevolato dalle moderne banche dati gratuite a disposizione sui siti web istituzionali - risulta piuttosto immediato, una volta che si individua l’ambito di interesse (misure antiterrorismo, misure relative a specifiche situazioni criminose o di conflitto locali). Dall’altro, la disciplina del modello positivo, invece, si snoda attraverso un compendio di norme assolutamente dispersivo composto non solo da fonti normative in senso stretto, ma anche da congerie di documenti di soft law stratificatisi nel corso degli anni11. Come anticipato in premessa, uno dei settori della criminalità più preoccupanti è il crimine organizzato, ossia il crimine transnazionale per eccellenza. Si tratta di una forma di delinquenza capace di arrecare lesioni gravissime non solo ai beni giuridici più rilevanti per la persona umana, ma anche di sgretolare interi sistemi politici e la stessa società civile. Per tali ragioni, grande rilevanza assume l’apparato preventivo predisposto da diverse norme di diritto sovranazionale in tema di corruzione. La fonte più incisiva in materia è la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione12, che dedica l’intero capitolo II alla prevenzione e, lungi dal limitarsi a contenere il fondamento per le misure preventive che dovranno essere adottate dai singoli Stati, si spinge a delinearne, in maniera peraltro piuttosto dettagliata, i contenuti. La tendenza ad attribuire dei contenuti prevalentemente positivi alle misure di prevenzione della corruzione anche nell’ambito del Consiglio d’Europa pare avvalorata anche dal Programma di azione del Gruppo Multidisciplinare contro la Corruzione (GMC) del Consiglio d’Europa, ove si fa riferimento proprio alle categorie delle misure negative e positive. In particolare, nel Programma si legge che la corruzione può essere combattuta tanto da misure negative quanto da misure positive. La creazione di una cultura di contrasto alla corruzione attraverso una buona educazione morale e civile è l’approccio migliore per combattere il crimine in generale e la corruzione in particolare. Il GMC enfatizza l’importanza per ogni Stato di instillare nei propri cittadini elevati valori morali e standard etici, che possano portarli a respingere il crimine in quanto male e in quanto meritevole di essere aborrito. D’altro canto,

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Per una panoramica in ambito internazionale vedi ancora il corposo United Nations Office on Drugs and Crime, Compendium of United Nations standards and norms in crime prevention and criminal justice, cit.. Per quanto riguarda, invece, le evoluzioni della prevenzione del crimine nell’Unione europea vedi la Comunicazione della Commissione COM (2000) 786, cit., in cui si ripercorrono le tappe fondamentali per la costruzione del modello europeo di prevenzione del crimine, tramite il richiamo di numerose fonti, anche di soft law. In argomento vedi anche L. Pasculli, Le misure di prevenzione del terrorismo e dei traffici criminosi internazionali, Padova, 2012. 12 Adottata dall’Assemblea Generale con la risoluzione n. 58/4 del 31 ottobre 2003 ed aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre 2003. Sui profili di cooperazione giudiziaria v. G. De Amicis, Cooperazione giudiziaria e corruzione internazionale. Verso un sistema integrato di forme e strumenti di collaborazione tra le autorità giudiziarie, Giuffrè, Milano 2007.

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Le misure di prevenzione dei crimini globali

osserva il GMC, l’effetto deterrente della pena non può essere ignorato, sicché la punizione della corruzione dev’essere esemplare e la confisca dei proventi della corruzione potrà servire a insegnare che questo tipo di crimine non paga13. I contenuti delle singole misure tassativamente previsti dalla legge tipizzano in modo chiaro e determinato le fattispecie-presupposto, sempre riferite a fatti di reato. Il principio di certezza legale, scriveva Bettiol, “è momento indefettibile, in uno Stato di diritto, di ogni provvedimento che possa limitare la libertà personale”. Particolarmente rilevante, peraltro, specie alla luce dell’esperienza sovranazionale, è il principio di tassatività e determinatezza, poiché non è più possibile prescindere da precise regole di procedura che assicurino al destinatario il diritto a ottenere un controllo effettivo. La ricerca di strumenti in grado di eliminare alla radice il pericolo di eventi criminosi porta alla formazione di misure di prevenzione che prescindono dalla previa commissione di un reato. In questo modo l’individuo è neutralizzato prima che possa portare a compimento alcun proposito criminoso. In questo modo l’efficacia preventiva è garanzia, è garantita.

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Program of Action against Corruption GMC (96) 95 del Multidisciplinary Group against Corruption (GMC) del Consiglio d’Europa, in particolare p. 17.

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europeo

L’estorsione organizzata, alla luce della nuova Agenda europea sulla sicurezza Elena Valguarnera Aprendo il codice penale italiano, all’articolo 629 si legge testualmente: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000. La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000 se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”. Tale disposizione trova il proprio fondamento non solo nella necessità di tutelare il patrimonio individuale, ma anche nella libertà di autodeterminazione del singolo. Nel reato di estorsione, infatti, l’oggetto della tutela giuridica è costituito da un duplice interesse pubblico: l’inviolabilità del patrimonio e la libertà personale. Per la letteratura italiana, ai fini della configurabilità del reato di estorsione, la violenza o la minaccia devono essere dirette a coartare la volontà della vittima affinché questa compia un atto di disposizione patrimoniale, rimanendo indifferenti le modalità con cui queste condotte si realizzano. Nello specifico, la minaccia può concretarsi (anche) in un comportamento omissivo come nell’ipotesi in cui il proprietario di un immobile rifiuti la conclusione di un contratto di locazione in caso di mancato pagamento di un canone superiore a quello stabilito dalla legge. La violenza, invece, consiste nel condizionamento del soggetto passivo, reale o putativo (paura o apprensione immediatamente speculari alla minaccia o perduranti dopo l’esaurirsi espressivo della stessa), si giustappone la coartata attuazione da parte del soggetto passivo di un comportamento (commissivo od omissivo) che egli non avrebbe assunto ovvero la coartata sopportazione di una altrui condotta che egli non avrebbe tollerato. La condotta criminosa, in tal caso, perpetua gli effetti dell’intimidazione e produce una concreta e specifica coercizione comportamentale della vittima, vulnerandone la libertà di autodeterminazione. Il reato di estorsione può essere posto in essere sia da un singolo soggetto, che da più persone. Anche la semplice presenza, purché non meramente casuale sul luogo del reato, è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa. Il concetto di estorsione organizzata, definito come reato commesso da gruppi di criminalità organizzata, comprende il ricorso sistemico a pratiche estorsive da parte di gruppi organizzati o reti di funzionari pubblici e dirigenti aziendali. Sicché, per ciò che attiene agli elementi dell’estorsione organizzata, essi possono essere così sintetizzati. Anzitutto sono forme di crimine organizzato tutte quelle attività commesse da tre o più persone che agiscono in modo coordinato; sono sistemici, cioè hanno come vittime più di un’azienda e avvengono su base continuativa; prevedono una coercizione, cioè il fatto di obbligare la vittima a comportarsi in un determinato modo mediante il ricorso a minacce lanciate da una posizione di potere;


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implicano un danno economico per la vittima, cioè la perdita di introiti presenti o futuri e la perdita di diritti di proprietà. Non appare un caso infatti, che Konrad e Skaperdas1, definiscono l’estorsione organizzata come “attività della criminalità organizzata”. A livello europeo, sebbene questo reato non sia rientrato fra le principali minacce legate alla criminalità organizzata nei documenti strategici sulle politiche dell’Unione Europea, rimane un’ombra sempre presente nelle nazioni europee. La gravità del fenomeno è stata riconosciuta in diversi atti giuridici della Unione Europea nell’ambito della cooperazione tra forze di polizia e magistratura nelle questioni di natura criminale2. Malgrado l’estorsione organizzata sia stata riconosciuta come minaccia grave legata alla criminalità organizzata al livello dell’Unione Europea, di fatto, pochi paesi hanno sviluppato approcci e strumenti specifici per prevenirla e reprimerla. Neppure la nuova Agenda Europea sulla sicurezza si occupa direttamente dell’estorsione organizzata come minaccia legata alla criminalità organizzata3. In particolare, il documento in parola sottolinea con decisione l’importanza di prendere di mira le finanze della criminalità organizzata e la sua infiltrazione nell’economia lecita. Quest’ultimo fa dunque riferimento all’estorsione organizzata in modo implicito, pur senza citarla direttamente. Ciò, probabilmente, è anche dovuto al fatto che questo fenomeno criminale, a differenza del traffico di droga o di persone, non ha dimensioni transnazionali, ma è piuttosto delimitato a livello locale e regionale4. Infatti, la maggioranza dei paesi dell’Unione Europea ha adottato nella propria legislazione nazionale misure atte a garantire che le persone vivano in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne. Invero, molte delle attuali preoccupazioni in materia di sicurezza derivano dall’instabilità e dai cambiamenti delle forme di radicalizzazione. Le minacce, sempre più differenziate e internazionali, hanno una natura sempre più transfrontaliera e intersettoriale. Per tali ragioni che avvalendosi di una serie di politiche e strumenti specifici dell’Unione Europea, l’Agenda Europea sulla sicurezza si è posta l’obiettivo di porre in essere un migliore scambio di informazioni, e una maggiore cooperazione operativa col fine di dar vita un aumento della fiducia reciproca tra gli Stati membri. Tale obiettivo, poggia le sue radici nel trattato di Lisbona, che ha fornito all’Unione Europea le basi necessarie per raggiungere obiettivi pocanzi enunciati, potenziando il quadro giuridico per garantire la libertà e la sicurezza, la libera circolazione interna e una risposta europea efficace alle minacce transfrontaliere. La latenza dell’estorsione, ex se, non solo impedisce una lotta efficace contro questo reato, ma rende anche difficile valutare l’effettiva entità del fenomeno. Il trattato di Lisbona, pertanto, ha rafforzato la protezione dei diritti fondamentali e il controllo democratico sulle politiche

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Konrad, K., & S. Skaperdas. (1998). Extortion. Economica, 65 (260), 461-477. Aa.Vv., L’estorsione organizzata nell’Unione Europea: fattori di vulnerabilità. Rapporto finale del progetto CEREU, Countering Extortion and Racketeering in EU (HOME/2013/ISEC/AG/FINEC/400005213). 3 Comunicazione da parte della Commissione al Parlamento e al Consiglio europeo – Agenda europea sulla sicurezza – COM (2015), p.185-fine, Strasburgo, 28 aprile 2015. 4 Ibidem. 2

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L’estorsione organizzata, alla luce della nuova Agenda europea sulla sicurezza

di sicurezza interna dell’Unione e, ha fatto del Parlamento europeo un foro per la lotta alla criminalità transnazionale nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale. Tradizionalmente le valutazioni dei fattori di vulnerabilità all’estorsione che caratterizzano settori e gruppi sociali specifici sono un utile strumento che può fungere da base affinché le misure legislative e applicative appaiono più oculate anche in termini di protezione territoriale. Invero, in termini operativi, per collaborare meglio e al fine di contrastare efficacemente l’estorsione occorre che tutti i soggetti coinvolti (istituzioni e agenzie dell’Unione Europea, Stati membri e autorità di contrasto nazionali) diano piena attuazione agli strumenti vigenti e, se necessario, adottino nuovi strumenti o sviluppino quelli già esistenti per massimizzare il valore aggiunto delle misure – già adottate – per lo scambio di informazioni, la cooperazione operativa e altre forme di sostegno, onde rafforzare la sicurezza alle frontiere esterne. L’agenda europea sulla sicurezza, infatti, definisce le azioni necessarie per garantire un elevato livello di sicurezza interna in seno all’Unione. Il successo della sua attuazione dipende dall’impegno politico di tutti gli attori interessati – istituzioni dell’Unione Europea e degli Stati membri. Essa richiede una prospettiva globale, in cui la sicurezza sia una delle principali priorità dell’Unione Europea5.

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https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0185&from=en.

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nazionale

Breve disamina dell’evoluzione delle figure previste dal Titolo I del C.p. alla luce di un recente provvedimento della Corte d’Assise di Milano Antonio De Lucia “Colpevole dei reati ascritti al Capo A 289-bis c.p. e capo B-C-D-E-F 280 c.p.”. Questo quanto disposto dalla Corte d’Assise di Milano che ha condannato O. S., 47 anni, in possesso della cittadinanza italiana e di origini senegalesi, alla pena di 24 anni oltre 25 mila euro per ognuno degli studenti presenti sull’autobus e 3 mila euro per ciascuno dei genitori; poi una provvisionale di 35 mila euro ad uno dei professori che si trovavano a bordo, 25 mila euro al secondo professore e 25 mila euro alla collaboratrice scolastica, oltre a 10 mila euro al Comune di Crema, costituito parte civile. Andranno invece ad Autoguidovie l’azienda del trasporto lombardo-emiliano proprietaria del mezzo 150 mila euro”. La sentenza, pur riconoscendo le attenuanti generiche, prevede anche l’interdizione perpetua del condannato e la libertà vigilata per i tre anni successivi all’estinzione della pena. Tutto ciò a fronte della vicenda dello scuolabus dirottato e incendiato nel marzo del 2019 a San Donato Milanese, dove l’autista aveva sequestrato e dirottato il mezzo con a bordo una scolaresca di 50 ragazzini, dandolo poi alle fiamme. Per i giudici si tratta di attentato con finalità di terrorismo così come previsto e punito in particolare dagli artt. 280 c.p. e 289-bis c.p. Dunque, il caso di specie ben si presta all’analisi di alcuni articoli facenti parte dei c.d. “Delitti contro la Personalità dello Stato” desumibili dal Titolo I, del codice penale, che si compone di cinque capi: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (capo I) delitti contro la personalità interna dello Stato (capo II) delitti contro i diritti politici del cittadino (capo III) delitti contro gli Stati esteri i loro capi e i loro rappresentanti o emblemi (capo IV) disposizioni generali e comuni ai capi precedenti (capo V) Dando vita ad una breve disamina del Titolo in questione, e soffermandosi in particolare sugli articoli ascritti al comportamento dell’imputato è possibile notare che le principali problematiche legate al suddetto titolo sono riconducibili al fatto che i delitti in questione si caratterizzano, da un lato, per l’anticipazione della soglia di punibilità ottenuta attraverso la previsione delle fattispecie di attentato e, dall’altro per l’introduzione di alcune nuove figure di delitti contro la personalità dello Stato ad opera di una serie di interventi legislativi diretti a fronteggiare il fenomeno del terrorismo.


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Si tratta di reati considerati dal codice penale come delitti politici, così come emerge chiaramente dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 c.p., in quanto la natura del reato dipende dall’interesse politico dello Stato e dal diritto politico del cittadino offeso. La disciplina contiene, evidentemente, una bipartizione fra reati “contro la personalità internazionale” dello Stato e reati contro “la personalità interna” dello Stato, suddivisione oggetto di critiche da parte della dottrina, sia sotto il profilo classificatorio, sia sotto quello concettuale, in quanto secondo alcuni vi sono norme collocate nell’ambito dei delitti contro la personalità interna dello Stato che ben potrebbero rientrare tra quelle contro la personalità internazionale e viceversa. La categoria in esame si incentra sulla “personalità dello Stato” ed è stata, nel corso del tempo, oggetto di varie interpretazioni. Inizialmente con il codice Zanardelli del 1889 nessuno dubitava, in dottrina e in giurisprudenza, della omogeneità, concettuale e funzionale, del tentativo e dell’attentato, potendosi configurare entrambi i tipi delittuosi solo in presenza di atti esecutivi. Successivamente, il legislatore del 1930, con il codice Rocco, pur ribadendo l’equivalenza delle due nozioni, ha retrocesso la punibilità a livello di attività preparatorie. In particolare il titolo I è rimasto sostanzialmente inalterato, sino alla seconda metà degli anni Settanta; momento in cui i delitti contro la personalità dello Stato sono stati interessati da interventi di riforma e da una rinnovata vitalità sul piano della prassi. Le attività di modifica normativa, poste in essere in questo periodo, si esplicitarono in quattro linee di intervento: a) la riforma del segreto di Stato; b) la legislazione di emergenza contro il terrorismo interno; c) gli strumenti di contrasto al terrorismo internazionale; d) la riduzione del diritto penale politico tradizionale. In primis, dunque, una riforma della disciplina del segreto di Stato, interessata dalla legge 24.10.1977, n. 801. In seguito la legge 18.5.1978, n. 191 di conversione, con modifiche, del d.l. 21.3.1978, n. 59 per la prima volta prese in considerazione la nozione di terrorismo: fu aggiunto l’art. 289-bis (sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione), la cui collocazione all’interno dei delitti contro la personalità dello Stato sottolineò la preminenza della tutela dell’interesse politico dell’ordine democratico rispetto alla tutela della libertà personale. La legge 6.2.1980, n. 15, di conversione del d.l. 15.12.1979, n. 625, introdusse, poi, la circostanza aggravante comune della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, applicabile a qualsiasi fattispecie di reato non punita con la pena dell’ergastolo ed i nuovi delitti di attentato per finalità terroristiche o di eversione (art. 280) e di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis), aggiungendosi ad un tessuto normativo già ricco di fattispecie associative. La legislazione dell’emergenza, frutto anche dell’evoluzione storico-sociale di quei tempicontro il terrorismo, si caratterizzò non solo per l’inasprimento della disciplina penale sostanziale, il legislatore, dettò norme speciali, applicabili ai reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione, sul terreno della disciplina processuale, prevedendo regole derogatorie al codice di rito. Nello stesso periodo in particolare nel 1975 fu estesa la disciplina avente ad oggetto le misure di prevenzione applicabili ai soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso con la legge 31.5.1965, n. 575, per coloro che «operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei delitti previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o degli articoli 285, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice» (art. 18, legge 22.5.1975, n. 152). In una prospettiva differente dall’inasprimento della disciplina penale (sostanziale, processuale e penitenziaria).

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Breve disamina dell’evoluzione delle figure previste dal Titolo I del C.p.

La legge n. 191/1978 diede vita ad una disciplina premiale nei confronti di chi dissociandosi dall’organizzazione terroristica avesse collaborato con l’autorità giudiziaria per evitare che il reato giungesse a conseguenze ancor più gravi. Nel corso del tempo, e in relazione all’evoluzione del fenomeno, oggetto di interesse delle norme in esame, la giurisdizione italiana si è dovuta confrontare sempre più con una nuova dimensione del fenomeno in particolare a livello internazionale che ha reso necessari interventi di riforma anche su sollecitazione di fonti sovranazionali. Lo sviluppo di questa legislazione è stato sostenuto e ha subito una considerevole accelerazione soprattutto in relazione ai tristemente noti avvenimenti dell’11 settembre 2001 registrati negli Stati Uniti. In questo lasso temporale, così, inizialmente la legge 15.12.2001, n. 438, ha rielaborato l’art. 270-bis, attribuendo rilevanza alle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale ed al loro finanziamento; l’introduzione dell’art. 270-ter (assistenza agli associati), in seguito la legge 14.2.2003, n. 34 con la quale fu ratificata la Convenzione Onu per la repressione degli attentati terroristici mediante utilizzo di esplosivo, adottata il 15.2.1997, che portò all’introduzione nel codice penale del delitto di atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (art. 280-bis). Significative sono state anche le modifiche apportate al titolo I dalla legge 31.7.2005, n. 155 con le quali furono definite le condotte con finalità di terrorismo (art. 270-sexies) e che diedero rilevanza penale a condotte contigue a quella di partecipazione ad associazioni terroristiche (artt. 270-quater e 270-quinquies). Infine, in materia il legislatore è intervenuto con il d.l. 18 febbraio 2015 n. 7 e con la legge 28 luglio 2016 n. 153 proprio al fine di dar maggior vigore all’apparato sanzionatorio in materia di antiterrorismo, che hanno rimodulato in particolare gli artt. 270 c.p. e 280 c.p. Il decreto del 2015 ha, così, disposto nuove figure di reato, atte a punire: - chi “organizza, finanzia e propaganda viaggi finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo” - la punibilità del soggetto arruolato con finalità di terrorismo anche fuori dai casi di partecipazione ad associazioni criminali operanti con le medesime finalità - la punibilità di colui che si auto-addestra alle tecniche terroristiche La legge 2016 invece ha introdotto: una nuova figura di reato volta a sanzionare il finanziamento di condotte con finalità di terrorismo un reato atto a punire “chiunque sottrae, distrugge, disperde, sopprime o deteriora beni o denaro, sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento delle condotte con finalità di terrorismo altra figura delittuosa attiene agli “atti di terrorismo nucleare” Confisca obbligatoria (anche per equivalente) dei beni costituenti prodotto, profitto o prezzo di delitti commessi con finalità di terrorismo ovvero strumentali al compimento di essi. Secondo parte della dottrina l’interesse protetto riguarderebbe la Persona dello Stato in sé considerata, ed in particolare le condizioni per le quali lo Stato può esistere e svolgere la sua attività; altra parte, invece, sostiene che l’oggetto della tutela penale dovrebbe individuarsi piuttosto negli interessi basilari di una convivenza sociale vista nelle sue forme istituzionali. La disciplina in esame inoltre, a differenza di quanto previsto per altri settori del codice penale, si caratterizza per alcuni aspetti peculiari come l’anticipazione della soglia di punibilità, rilievo viene attribuito anche ad attività meramente preparatorie, esemplari in tale contesto sono i delitti di attentato. Molteplici dunque le fattispecie espressamente trattate a livello codicistico, e pertanto volendo individuare solo gli aspetti che maggiormente attengono alla questione in esame vanno analizzati in generale i delitti di attentato con particolare riferimento agli artt. 280 e 289 c.p.

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Osservatorio nazionale

Come detto una delle caratteristiche principali dei delitti di attentato è data dall’anticipazione della soglia di punibilità si parla a tal proposito di reati a consumazione anticipata, per la cui consumazione sono atti sufficienti diretti a commettere un certo reato, il che porta, così, a configurare la fattispecie alla stregua di species di delitto tentato, con conseguente inapplicabilità alle medesime dell’art. 56 c.p. L’attentato per finalità terroristiche e di eversione così come desumibile dal dettato dell’art. 280 c.p. è configurabile come reato plurioffensivo comune, chiunque può commettere il reato, e atto a tutelare la personalità interna dello Stato da quegli attentati che mettono in pericolo tanto la sicurezza pubblica, l’integrità dell’ordinamento costituzionale e l’ordine pubblico, quanto la vita e l’incolumità personale. Infine, se si verificano una lesione grave o gravissima (comma 2) o addirittura la morte della vittima (comma 4), è previsto un aggravamento di pena, quanto a ciò alcuni autori ritengono si tratti di ipotesi autonome di reato. Il comma 5 modificato dall’art. 4, comma 1, l. 14 febbraio 2003, n. 34, attraverso cui è stata ratificata la Convenzione di New York sul terrorismo, prevede una deroga alle regole in materia di bilanciamento delle circostanze. Dunque, la condotta si sostanzia nell’attentare alla vita e alla incolumità fisica di una persona, qualora tali atti siano idonei a pregiudicare l’ordine politico istituzionale esistente; la consumazione del delitto si realizza nel momento in cui gli atti idonei e univocamente diretti ad uccidere o ferire mettono in pericolo la tranquillità pubblica o la sicurezza dell’ordine precostituito; il dolo è specifico volontà di compiere l’attentato alla vita o all’incolumità personale di una persona al fine di mettere in atto strategie o ideologie di stampo terroristico o eversivo dell’ordine costituito, va pertanto escluso che il dolo eventuale sia compatibile con i delitti di attentato, non essendo infatti sufficiente la mera accettazione del rischio di verificazione dell’evento pericoloso. Quanto all’art. 289 c.p., rappresenta un’ipotesi di reato di pericolo, essendo sufficiente l’attitudine degli atti a produrre uno degli effetti previsti dalla norma, non occorrendo che essi si realizzino determinando un evento inteso in senso naturalistico. Si tratta, secondo parte della dottrina, di una norma ibrida tra il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 530 c.p.) ed il delitto di cui all’articolo precedente (289-ter c.p.), la condotta si sostanzia nel sequestrare una persona, al fine di ottenere, come prezzo della liberazione, la coartazione dello Stato e dei suoi organi. Il secondo comma, prevede una condizione obiettiva di punibilità, non voluta dal reo, ma al quale comunque consegue un aggravamento di pena, qualora dal sequestro derivi dal morte del soggetto, per qualsiasi causa, anche indipendente dal sequestro stesso. Se, il colpevole cagiona la morte del reo, è prevista una circostanza aggravante consistente nella pena dell’ergastolo. Infine se, il fatto è di lieve entità, si applicano le pene previste dall’art. 605 c.p. L’art. 289-bis c.p. disciplina il reato di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione e punisce chiunque sequestra una persona per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Si tratta dunque di un reato plurioffensivo finalizzato a tutelare: 1) la libertà individuale, 2) la sicurezza dello Stato e dell’ordinamento costituzionale da fatti rivolti alla loro destabilizzazione. Quanto alla Struttura oggettiva e soggettiva e rapporti con il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’elemento oggettivo è pari a quello del sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630).

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Breve disamina dell’evoluzione delle figure previste dal Titolo I del C.p.

Tuttavia, qui lo scopo avuto di mira dall’agente (o dagli agenti) è un fine di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; il fatto deve essere commesso a fine di terrorismo quando l’agente o gli agenti hanno inteso, col privare della libertà personale la vittima, attuare il loro metodo di lotta politica fondato sul sistematico ricorso alla violenza. Il fatto commesso a fine di eversione dell’ordine democratico quando l’agente o gli agenti, col privare della libertà la vittima, si prefiggono di attuare un piano che mira a sovvertire l’ordinamento democratico dello Stato. I professori Fiandaca e Musco hanno evidenziato che tale fattispecie ha una funzione meramente simbolica, censurando l’anticipazione della soglia della punibilità da essa realizzata, e la difficoltà, per il giudice, di accertare la sussistenza del fine terroristico in base a parametri oggettivi. Da quanto detto si può desumere che i reati in esame si caratterizzano rispetto a quelli di altri settori della parte speciale del codice penale in quanto la loro disciplina si caratterizza per alcune caratteristiche strutturali delle diverse fattispecie; in particolare come detto, una anticipazione della soglia di punibilità e della c.d. legislazione dell’emergenza, che ha fatto si che si registrasse un inasprimento del trattamento sanzionatorio complessivo dei fatti di terrorismo ed una estensione dell’area della punibilità mediante introduzione di nuove fattispecie penali (es. art. 270-bis c.p. o art 289-bis c.p) o l’ampliamento dell’ambito soggettivo di fattispecie penali preesistenti. Si tratta, a ben vedere, di previsioni incriminatrici di difficile coordinamento che assegnano rilievo particolare da un punto di vista strutturale a componenti soggettive in specie finalità di terrorismo ex art. 270-sexies c.p. Fondamentale appare dunque l’attività di interpretazione da parte dell’autorità giudicante. Quanto ai profili processuali, infine, la competenza spetta alla Corte di Assise, ferma la, necessaria autorizzazione o richiesta del Ministro della Giustizia per la procedibilità di alcuni reati.

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Focus

Venezia – Il riconoscimento della Direzione della Capitaneria di Porto di Venezia alla Diplomazia Panamense nel settore marittimo di Paola Pisanelli Nero

Direttore Marittimo del Veneto CA Piero Pellizzari, Console Generale di Panama a Venezia RauĚ l Cubilla


Focus

Il Console Generale di Panama, Raúl Cubilla, in visita a Venezia, ha ricevuto poco tempo fa un importante riconoscimento da parte del Comandante della Capitaneria del Porto di Venezia, Direttore Marittimo del Veneto Contrammiraglio, Piero Pellizzari, per la collaborazione della Repubblica di Panama nel settore marittimo della regione. Cosa significa questo riconoscimento per il Consolato Generale e per la Repubblica di Panama? Significa offrire dei servizi al commercio ed all’industria marittima nazionale e internazionale, con elevati standard di qualità, garantire la certezza del diritto attraverso risorse umane competenti e mantenere la leadership mondiale nel Registro delle Navi. In questo modo è possibile contribuire allo sviluppo sostenibile del paese, uno degli obiettivi di questa missione, motivo per cui è per noi fondamentale avere contatti con le Autorità Italiane e rafforzare così i legami e le strategie di ottimizzazione nel settore marittimo. Far sì che Panama continui a distinguersi e ad avere riconoscimenti in questo settore rappresenta un motivo di orgoglio per questa missione diplomatica. Quale è l’attività diplomatica che il Consolato Generale di Panama a Venezia porta avanti da tempo nella Regione Veneto insieme con gli altri Consolati Marittimi nel resto dell’Italia? In qualità di rappresentanti consolari di Panama abbiamo la funzione di fornire servizi di assistenza e di protezione ai cittadini panamensi presenti nelle nostre regioni, nonché di raccomandare politiche ed azioni, esercitare atti amministrativi e far rispettare le norme legali ed i regolamenti normativi riguardanti il settore marittimo, nonché di coordinare e promuovere con le organizzazioni, istituzioni o autorità locali che operano nella nostra giurisdizione la cooperazione bilaterale tanto in materia scientifica, quanto educativa, agricola, tecnologiche ed oltre. In che modo la pandemia ha cambiato l’attività di gestione marittima internazionale e quali misure di controllo sono state adottate? Le aziende del settore marittimo si sono rapidamente adattate alle nuove condizioni ed alle misure di controllo imposte dalla pandemia. Il Canale di Panama, ad esempio, non ha mai smesso di funzionare così come l’Autorità Marittima di Panama, assicurando che le catene di approvvigionamento continuassero a funzionare nonostante la situazione. Come in tutti i settori, anche nel settore marittimo sono state necessarie misure di bio-sicurezza sanitaria, che vengono rispettate ed applicate sin da quando ne è stata richiesta l’adozione. Le aziende di questo settore hanno dimostrato una grande disciplina, che ha portato come risultato quello di mantenere livelli di sicurezza e di stabilità nel settore marittimo. Lei si è da poco tempo insediato come Console Generale a Venezia ed è già stato molto attivo e non solo in ambito marittimo. E come pensa di svolgere la sua missione diplomatica in una città unica come Venezia? Venezia è il capoluogo della regione italiana del Veneto e dove si trova la sede del nostro Consolato Generale di Panama. Proprio per la sua posizione in una città ricca di palazzi storici, musica, arte e tradizione, per il gran numero di eventi e festival culturali, educativi, scientifici, sportivi e non solo, Venezia è uno scenario perfetto per presentare la cultura e le tradizioni panamensi, in modo che le persone che partecipano a questi eventi possano conoscere il nostro paese, il suo contesto geografico tra le coste dell’Oceano Atlantico e del Pacifico, una meta turistica sostenibile di livello internazionale, grazie alla ricchezza ed alla diversità del suo patrimonio naturale e culturale, ed alla qualità dei suoi servizi.

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