Vol. XXVIII- Aprile
Rivista di
Diritto Tributario
www.rivistadirittotributario.it
2
Rivista bimestrale
Vol. XXVIII - Aprile 2018
Fondata da Gaspare Falsitta e Augusto Fantozzi
2018
2
In evidenza: • L’alternatività Iva-registro ed i suoi limiti (nota a Corte Cost., n. 177/2017)
Andrea Fedele • Le accise: inquadramento sistematico e questioni aperte
Maurizio Logozzo • Il condono “tombale” non preclude il recupero di crediti d’imposta di natura agevolativa
(nota a Cass. civ., n. 16692/2017) Roberto Schiavolin • La funzione della disciplina fiscale delle società di comodo
Rossella Miceli
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
Diretta da Loredana Carpentieri - Gaspare Falsitta - Salvatore La Rosa Francesco Moschetti - Roberto Schiavolin
Pacini
Indici DOTTRINA Andrea Fedele
L’alternatività Iva-registro ed i suoi limiti (nota a Corte Cost., n. 177/2017).......... II, 83 Giuseppe Ingrao
L’intervento del Fisco su ordine del giudice tra l’ammissibile collaborazione con le Commissioni tributarie e l’illegittima riassegnazione della potestà impositiva.. I, 161 Maurizio Logozzo
Le accise: inquadramento sistematico e questioni aperte......................................... I, 129 Rossella Miceli
La funzione della disciplina fiscale delle società di comodo.................................... I, 175 Roberto Schiavolin
Il condono “tombale” non preclude il recupero di crediti d’imposta di natura agevolativa (nota a Cass. civ., n. 16692/2017)................................................................ II, 103 Maria Villani
Doppio binario sanzionatorio e principio di ne bis in idem: in attesa della decisione della Grande Sezione, le conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona (nota alle conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona presentate il 12 settembre 2017 in cause C-524/15 e C-537/16 e in cause riunite C-596/16 e C-597/16).................................................................... IV, 79 Alessandro Zuccarello
Ordine di pagamento rivolto al terzo e tutela giurisdizionale del contribuente esecutato (nota a Comm. trib. prov. Bari, n. 2651/2017)............................................... II, 123 Rubrica di diritto europeo
a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 19 Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.
INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI COMPETENZA E GIURISDIZIONE Esecuzione forzata tributaria – Pignoramento presso terzi – Ordine di pagamento – Giurisdizione tributaria (Comm. trib. prov. Bari, 29 settembre 2017 - 10 ottobre 2017, n. 2651, con nota di Alessandro Zuccarello)...................................... II, 121
II
indici
CONDONO Condono ex L. n. 289/2002 – Effetti della definizione automatica ex art. 9, commi 9 e 10, l. n. 289/2002 – Crediti d’imposta con natura di agevolazione – Contestabilità da parte dell’Amministrazione finanziaria – Sussiste (Cassazione SS. UU., 9 maggio - 6 luglio 2017, n. 16692, con nota di Roberto Schiavolin)............ II, 95
IMPOSTE INDIRETTE REGISTRO (IMPOSTA DI) Atti giudiziari – Alternatività IVA-registro limitata ai provvedimenti di condanna – Natura eccezionale e derogatoria della previsione agevolativa – Impossibilità di interpretazione estensiva – Diritto vivente – Sentenza che ammette al concorso fallimentare un credito precedentemente escluso – Accertamento di diritti a contenuto patrimoniale – Presupposto necessario e sufficiente alla partecipazione all’esecuzione collettiva – Identità della ratio rispetto all’applicazione dell’alternatività ai provvedimenti di condanna – Illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 8, c. 1, lett. c), parte prima, Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 nella parte in cui assoggetta a imposta proporzionale le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo con accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA (Corte Cost., 5 luglio 2017 - 13 luglio 2017, n. 177, con nota di Andrea Fedele).................................................................. II, 73
IVA (IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO) Sanzioni – Omesso versamento dell’imposta – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti relativi all’omesso versamento dell’IVA – Violazione del principio del ne bis in idem – Identità dei fatti – Ripetizione dei procedimenti o delle sanzioni – Eccezioni al divieto del ne bis in idem – Nesso materiale e temporale sufficientemente stretto tra i procedimenti (Conclusioni dell’avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona presentate il 12 settembre 2017 in causa C-524/15, con nota di Maria Villani)..................... IV, 19 Sanzioni – Omesso versamento – Condotte di manipolazione del mercato – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti – Violazione del principio del ne bis in idem (Conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona presentate il 12 settembre 2017 in causa C-524/15, presentate il 12 settembre 2017 in Causa C-537/16, con nota di Maria Villani).................................................................................................. IV, 48 Sanzioni - Omesso versamento – Normativa nazionale che applica una sanzione amministrativa ed una sanzione penale per gli stessi fatti – Sentenza penale di assoluzione, che accerta l’insussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito penale –
indici
III
Articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Violazione del principio del ne bis in idem (Conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sánchez- Bordona presentate il 12 settembre 2017 in Cause riunite C-596/16 e C-597/16 con nota di Maria Villani).......................................................................... IV, 63
INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia 12 settembre 2017 Conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sánchez- Bordona presentate in causa C-524/15, causa C-537/16 e in cause riunite C-596/16 e C-597/16.............. IV, 19 *** Corte Costituzionale 5 luglio 2017 - 13 luglio 2017, n. 177........................................................................ II, 73 *** Cass. civ., SS. UU. 9 maggio - 6 luglio 2017, n. 16692............................................................................ II, 95 *** Comm. trib. prov. Bari 29 settembre 2017 - 10 ottobre 2017, n. 2651........................................................... II, 121
IV
indici
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
Le accise: inquadramento sistematico e questioni aperte Sommario: 1. Le accise nel quadro della fiscalità europea. – 2. Il sistema delle accise
armonizzate dal Trattato di Roma alle Direttive degli anni ’90. – 3. La Direttiva 2003/96/ CE, che ha ristrutturato il quadro comunitario della tassazione dei prodotti energetici, e le successive modifiche. – 4. La disciplina interna tra lacune legislative e valutazioni empiriche della prassi amministrativa. – 5. Il regime delle agevolazioni tra principi europei e prassi interna. – 6. I termini per l’accertamento: decadenza o prescrizione? – 7. Il principio di effettività con riguardo al diritto al rimborso. – 8. Accise, diritto di rivalsa e base imponibile IVA. – 9. Il sistema sanzionatorio e il principio di proporzionalità. Il contributo ha per oggetto l’inquadramento sistematico delle accise, descrivendo il procedimento di armonizzazione europea che ha portato gli Stati membri ad uniformare la tassazione indiretta sul consumo di specifici prodotti. Ciò sulla base di talune direttive europee alle quali si è uniformato il nostro ordinamento interno. Viene messo in evidenza che la disciplina contenuta nel T.U.A. presenta ancora molte lacune ed è caratterizzata da valutazioni empiriche da parte dell’autorità amministrativa. In particolare, vengono analizzate e raffrontate con i principi europei quattro questioni “aperte” di fondamentale rilevanza sostanziale e procedimentale: il regime delle agevolazioni, i termini per l’accertamento e per il diritto al rimborso, l’inclusione delle accise nella base imponibile dell’IVA ed il sistema sanzionatorio in relazione al principio di proporzionalità. The purpose of the contribution is the systematic classification of excise duties, describing the European harmonization procedure which has led Member States to standardize indirect taxation on the consumption of specific products. This on the basis of some European directives to which our internal law has been standardized. It is emphasized that the discipline contained in the T.U.A. still presents many gaps and is characterized by empirical evaluations by the administrative Authority. In particular, four “open” issues of fundamental substantive and procedural importance are analyzed and compared with the European principles: the benefits regime, the terms for tax assessment and for the right to reimbursement, the inclusion of excise taxes in the VAT base and the system sanctions in relation to the principle of proportionality.
130
Parte prima
1. Le accise nel quadro della fiscalità europea. – Con il termine accise si identifica un gruppo eterogeneo di imposte indirette erariali che colpiscono la produzione (o fabbricazione) o il consumo di determinati prodotti di natura merceologica diversa. In tutte le fattispecie che la legge individua come presupposto dell’obbligazione tributaria (fabbricazione, consumo), si è in presenza di un’imposta destinata generalmente ad incidere sul consumatore finale, utilizzando un meccanismo di traslazione (diritto di rivalsa), talvolta espressamente previsto dalla legge (come accade con riguardo all’accisa sul gas naturale e sull’energia elettrica). Sebbene il versamento delle accise, ed ogni altro rapporto con l’Amministrazione finanziaria, faccia capo, sul piano strettamente giuridico, al produttore-venditore, dal punto di vista economico risulta normalmente colpito il consumatore finale, il quale corrisponde l’imposta unitamente al prezzo dei prodotti. La capacità economica che costituisce oggetto di tale forma di imposizione è costituita dall’immissione in consumo di beni oggetto d’imposizione. Le accise sono imposte indirette “specifiche” quanto alla loro determinazione, cioè l’aliquota è data da una cifra in misura fissa stabilita per una determinata quantità fisica di beni, espressa in unità di misura a peso, volume o quantità. Hanno inoltre carattere speciale poiché colpiscono solo alcuni prodotti, specificamente individuati dalla legge (prodotti energetici, unitamente all’elettricità, bevande alcoliche, tabacchi lavorati). Sin dalle fasi iniziali della Comunità Economica Europea, le imposte indirette sui consumi sono state oggetto di un intenso processo di armonizzazione. Com’è noto, l’armonizzazione viene identificata come un valore primario del processo di integrazione europea poiché è idonea ad influire in modo determinante sul funzionamento del mercato interno. È evidente che sistemi fiscali differenziati fra gli Stati in tema di imposte sugli affari e sui consumi andrebbero ad incidere su un assetto regolamentare che potrebbe ingenerare meccanismi distorsivi della concorrenza. Non è dunque casuale che l’attenzione comunitaria sia stata focalizzata innanzitutto sul settore dell’imposizione indiretta, con specifico riferimento all’imposta sulla cifra di affari (IVA) ed alle accise, stante l’idoneità di queste forme di imposizione ad incidere sul prezzo di un bene o di un servizio, alterando di conseguenza la trasparenza e l’uniformità del mercato. Per l’IVA, sin dall’inizio, si è pensato ad un sistema unico di intuibile originalità, mentre per le accise si è preso spunto dai modelli già presenti negli ordinamenti degli Stati membri.
Dottrina
131
Il settore delle imposte di consumo e delle imposte di fabbricazione, pur avendo origini antichissime, ha suscitato poco interesse da parte della dottrina (1). Ciò è spiegabile in quanto il meccanismo impositivo delle accise è, allo stesso tempo, semplice e poco visibile; il tributo sul consumo è solitamente conglobato nel prezzo del bene o del servizio, e quindi è caratterizzato da una scarsa percezione del fenomeno impositivo. Viceversa la dottrina economica si è sempre occupata dell’imposizione sui consumi, che riveste un ruolo fondamentale nell’ambito dell’economia della finanza pubblica. È sul piano comunitario che si è sviluppato il più significativo dibattito. Nel processo di armonizzazione europea, dopo ampio dibattito, le previgenti imposte di fabbricazione presenti in tutti gli Stati dell’Unione, sono state trasformate in imposte armonizzate con la denominazione di accise. Sono stati quindi elaborati dei principi comuni, in relazione alla struttura del tributo, nonché alla misura minima delle aliquote e al criterio di tassazione nello Stato in cui i prodotti sono immessi in consumo.
(1) Per il tradizionale inquadramento della materia v.: R. Alessi, Monopoli fiscali, imposte di fabbricazione, dazi doganali, Milano, 1956, 71; Dus, Imposte di fabbricazione: principi generali, Roma, 1965, 3 ss., il quale analizza il concetto di consumo e di fabbricazione, partendo dai diversi presupposti che caratterizzavano all’epoca il sistema dell’imposizione indiretta sul consumo e la fabbricazione di taluni beni; R. Rinaldi, Consumo (imposte erariali di), in Enc. Giur. Treccani, VII, Roma, 1988, pag. 1 e ss. A seguito dell’armonizzazione comunitaria e della trasformazione dell’imposta di fabbricazione in accisa v.: E. Pace, Il mondo delle accise: le imposte di fabbricazione. I monopoli fiscali e le imposte doganali, in Tratt. Dir. Trib., diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, 267 ss.; F. Fichera, L’armonizzazione delle accise, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1997, I, pag. 216 e ss.; R. Schiavolin, Accise, in Enc. dir., IV agg., Milano, 2000, 22; F. Cerioni, La disciplina delle accise in Italia, in ForteCerioni-Palacchino, Il diritto tributario comunitario, Milano, 2004, 745 e ss.; G. Cipolla, Accise, in Dizionario di dir. pub., diretto da Cassese, Milano, 2006, 72; G. Cipolla, Dubbi di compatibilità con l’ordinamento comunitario dell’accisa sugli oli lubrificanti per usi diversi dalla combustione e dalla carburazione, in Rass. trib., 2007, 704; A. De Cicco, Accise, in Dig. Disc. Priv. sez. comm., Torino, 2007, 14 ss.; Lupi-Scarlata, Accise, in Il Diritto-Enc. giur., Milano, 2007, 73 ss.; Verrigni, Le accise nel mercato unico europeo, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2007, 251 e ss.; F. Cerioni, Il D.lgs. 2 febbraio 2007, n. 26: la riforma della tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, in Riv. dir. trib., 2008, I, 49 e ss.; Cipolla, Le accise, in Scuffi-Albenzio-Miccinesi, Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, Milano, 2014, 641 e ss.; Ciotti-Galdi-Orsini-Piri-Sebastiani-Sirico, Le accise sui prodotti energetici e sull’elettricità, Torino, 2014; R. Schiavolin, Le accise (imposte di fabbricazione e di consumo), in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Milano, 2016, 1047 ss.; per una ricostruzione complessiva sulle accise si veda, da ultimo, l’interessante monografia di C. Verrigni, Le accise nel sistema dell’imposizione sui consumi, Torino, 2017.
132
Parte prima
I modelli comunitari, congegnati con riguardo all’imposta generale sui consumi (IVA) ed alle accise, presentando una fisionomia per certi versi similare, possono condurre ad affermare la presenza di un sistema organico di tassazione dei consumi. Risulta quindi evidente che nello studio della tassazione sui consumi, sia per quanto riguarda l’IVA, sia per quanto riguarda le accise, i principi dell’ordinamento europeo assumono un ruolo determinante, essendo gli Stati membri vincolati nel dare attuazione legislativa a detti principi, che talvolta trovano diretta applicazione nel diritto interno (come accade per le norme delle Direttive ritenute incondizionate e sufficientemente precise). 2. Il sistema delle accise armonizzate dal Trattato di Roma alle Direttive degli anni ’90. – Considerato il primato del diritto europeo sul diritto interno, occorre fare riferimento al processo di armonizzazione fiscale che ha riguardato il sistema delle accise. Le accise, come si è detto, sono imposte fisse (l’aliquota è un importo fisso per quantità), a carattere speciale (colpiscono cioè solo determinate categorie di prodotti), monofase (la fase di applicazione dell’imposta coincide talvolta con la fabbricazione, talvolta con la cessione del bene al consumatore finale) (2). Le aliquote delle accise costituiscono di frequente una componente significativa del prezzo al consumo. Proprio questa caratteristica rende le accise una forma di prelievo utilizzata dagli Stati membri non solo per reperire in modo abbastanza certo e tempestivo gettito per il bilancio dello Stato, ma anche per perseguire finalità di tipo extra-fiscale (si pensi alla tassazione dei prodotti energetici, che interagisce con la politica ambientale e dei trasporti che ogni Stato, anche in funzione della propria dotazione di materie prime, decide di perseguire). Tutto ciò rende più complesso il raggiungimento di accordi fra gli Stati membri per il riavvicinamento delle singole legislazioni nazionali (3). Non a caso, la “storia” dell’armonizzazione comunitaria è segnata da taluni insuccessi. Infatti, permangono ancora oggi, oltre ad ampie divergenze
(2) Si parla nel primo caso di imposte di fabbricazione, nel secondo di imposte di consumo. Come osserva C. Cosciani, Scienze delle finanze, Torino, 1991, 661, «non vi è differenza sostanziale tra le due modalità, salvo la base imponibile che è tanto minore quanto più si arretra la fase dell’accertamento rispetto al consumatore finale». (3) Sul punto v. V. Uckmar, Progetti e possibili soluzioni dell’armonizzazione fiscale dell’UE, in Dir. prat. trib., 1995, 9.
Dottrina
133
nelle aliquote applicate dai vari Stati membri, anche evidenti diversità nel campo di applicazione delle imposte di origine comunitaria. La questione dell’armonizzazione delle accise è presente nella prassi comunitaria fin dal Trattato di Roma del 1957; l’attuale art. 113 TFUE (già art. 93 TCE) indica, assieme alla imposta sulla cifra d’affari, anche i diritti di accisa e le altre imposte indirette come oggetto di armonizzazione «necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni della concorrenza». Nella prospettiva comunitaria, una tale situazione risultava fortemente problematica sotto diversi profili. Sussistendo, infatti, tra i diversi Stati membri, disparità fiscali relative alla strutture e/o alle aliquote e/o all’esistenza stessa dei diritti di accisa, le differenze di imposizione influenzavano direttamente i prezzi, potendo distorcere la concorrenza, sviando gli scambi intracomunitari, fino a configurare forme di discriminazione fiscale a danno dei prodotti importati, come risultava ampiamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (nel senso che ai prodotti importati bisognava riservare lo stesso trattamento fiscale previsto per i prodotti interni alla CEE). Le accise hanno lungamente costituito una delle ragioni del mantenimento delle frontiere fiscali. Gli Stati membri, sotto diversi profili, hanno sempre mostrato un certo timore a misure di armonizzazione che potessero irrigidire uno strumento di finanza pubblica e di politica economica versatile (4), o, per altro verso, alterare le priorità sociali ed economiche, consolidatesi nel tempo, nei singoli Paesi. Le direttive comunitarie volte a realizzare l’armonizzazione sono intervenute nel 1992 relativamente alle principali accise, e cioè a tre gruppi di prodotti: oli minerali (tra cui era ricompreso il gas metano e gas naturale), alcool e bevande alcoliche, tabacchi lavorati, ed hanno riguardato, oltre ad un regime generale comune, la struttura e le aliquote delle diverse accise, nella misura minima (e non in quella massima d’imposizione). Si è trattato di una Direttiva generale, c.d. quadro, adottata il 25 febbraio 1992, n. 92/12/CEE (5), che disciplinava il regime generale e che si applicava a tutti i prodotti assog-
(4) Basti pensare ai c.d. decreti catenaccio, cioè i decreti legge con cui viene previsto l’aumento immediato dei prezzi di taluni prodotti dovuto all’aumento delle accise, ad es.: oli minerali e tabacchi lavorati. (5) Relativa al regime generale, alla detenzione, alla circolazione e ai controlli dei prodotti soggetti ad accisa.
134
Parte prima
gettati a tale forma d’imposizione (6) e delle Direttive 92/78/CEE, 92/79/CEE e 92/80/CEE relative ai tabacchi lavorati, delle Direttive 92/81/CEE e 92/82/ CEE relative agli oli minerali. Con tali provvedimenti è stato introdotto il «regime comunitario delle accise», che prevede strutture impositive comuni per gli Stati membri, aliquote minime e procedure armonizzate in relazione alla detenzione ed alla circolazione dei prodotti soggetti ad accisa nel territorio comunitario. È stato così delineato un sistema di tassazione uniforme per il quale il diritto comunitario ha stabilito il presupposto dell’imposta, i soggetti passivi, le aliquote minime, le modalità di circolazione in sospensione d’imposta ed il principio della tassazione nel Paese di destinazione. Pertanto, solo a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo si è dato impulso al progetto di armonizzazione che ha portato gli Stati ad uniformare la tassazione indiretta sul consumo di specifici prodotti. Con la soppressione dei controlli alle frontiere, si è provveduto ad armonizzare la struttura dei tributi in ordine alla determinazione della base imponibile, al calcolo, alla esigibilità ed al controllo, sia con un regime generale, sia con disposizioni specifiche per le singole accise; infine, per quanto riguarda le aliquote, sono state fissate aliquote minime comuni, abbandonando la strada di aliquote “obiettivo”. Le scelte più significative hanno riguardato il regime previsto per gli scambi intracomunitari tra soggetti passivi, in ordine ai quali, pur mantenendo la tassazione nel Paese di destinazione, è prevista l’eliminazione dei controlli doganali alla frontiera e la loro effettuazione in altri momenti e luoghi del territorio comunitario. L’abolizione delle frontiere fiscali ha comportato così per gli scambi intracomunitari la soppressione del sistema di detassazione all’esportazione e di tassazione al momento del passaggio della frontiera, essendo il regime dell’importazione riservato ormai ai soli scambi con i Paesi terzi. Negli scambi intracomunitari tra soggetti passivi vale il regime di tassazione nel Paese di destinazione; si tratta di un regime che, a differenza di quanto previsto per l’IVA, è definitivo (7).
(6) La Direttiva 92/12/CEE è stata abrogata e sostituita dalla Direttiva 2008/118/CE. (7) Per i prodotti acquistati da privati per uso personale si è adottato il principio di tassazione nel Paese di origine, secondo cui le accise sono pagate nello Stato membro in cui i prodotti sono acquistati. Diversamente, l’imposta che grava sui prodotti oggetto di scambio tra soggetti passivi viene attribuita al Paese di destinazione.
Dottrina
135
Per quanto riguarda le aliquote, è stata effettuata (in applicazione del principio di sussidiarietà, che garantisce uno spazio di manovra autonomo agli Stati membri) un’armonizzazione molto attenuata, basata su aliquote minime fissate ad un livello molto basso, a partire dalle quali gli Stati membri sono liberi di fare le proprie scelte, salva la possibilità concessa agli stessi di prevedere esenzioni e riduzioni di imposta, tenuto conto della necessità di minimizzare gli effetti negativi sul bilancio. Tuttavia, permangono significative differenze, specie con riguardo alle aliquote ed ai regimi agevolativi, il che incide sui prezzi dei prodotti e sulla concorrenza. Sotto tale profilo, si è ben lontani da un vero e proprio mercato unico. Nell’ambito delle accise, quindi, l’armonizzazione, pur essendo stata molto significativa, è risultata “flessibile” in quanto ha lasciato ampi margini discrezionali agli Stati membri. Appare evidente come nell’ambito di questo settore non si possa concepire un modello unico di tassazione tout court proprio in considerazione del fatto che lo stesso progetto di armonizzazione ha avuto, sin dall’origine, l’obiettivo dell’eliminazione delle frontiere fiscali piuttosto che la realizzazione di un sistema unico di tassazione a livello europeo. A questo punto si può evidenziare come il settore delle accise si sia costantemente evoluto nel processo di armonizzazione sino a raggiungere ormai l’identificazione di un modello sostanzialmente unico per ciò che attiene la struttura impositiva; invece, per quanto riguarda il livello di tassazione, viene riconosciuta agli Stati membri la possibilità di modulare le aliquote e i regimi agevolativi in funzione di manovre economico-finanziarie e di obiettivi anche di natura extra-fiscale (quale, ad esempio, la tutela dall’ambiente). 3. La Direttiva 2003/96/CE, che ha ristrutturato il quadro comunitario della tassazione dei prodotti energetici, e le successive modifiche. – Dopo la grande stagione dell’armonizzazione degli anni ’90, si è assistito ad una fase di stallo; il processo di armonizzazione è ripreso con la Direttiva 2003/96/CE del Consiglio, del 27 ottobre 2003 (8), che «ristruttura il quadro comunitario per la tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità».
(8) La Direttiva 2003/96/CE è stata già in parte modificata dalle Direttive del Consiglio 2004/74/CE e 2004/75/CE del 29.4.2004. La Direttiva 2004/74/CE ha apportato modifiche per dare la possibilità ad alcuni Stati membri di applicare ai prodotti energetici ed all’elettricità esenzioni o riduzioni temporanee dei livelli di tassazione.
136
Parte prima
In tale contesto, si inserisce la riforma della tassazione dei prodotti energetici che ha l’obiettivo di assicurare il buon andamento del mercato interno, estendendo la tassazione armonizzata anche a prodotti energetici diversi dagli oli minerali (prima non ricompresi), quali il gas naturale, il carbone e l’energia elettrica (che, comunque, non è ricompresa in senso proprio tra i prodotti energetici). La finalità della Direttiva era anche quella di garantire un livello minimo uniforme di tassazione in relazione all’effettivo utilizzo dei prodotti energetici, nonché di realizzare la tutela dell’ecosistema in base ai parametri fissati dal Protocollo di Kyoto. In conseguenza della liberalizzazione del mercato del gas e dell’energia elettrica, la Direttiva 2003/96/CE ha sostanzialmente consolidato la struttura dell’accisa sui prodotti energetici e sull’elettricità, facendo coincidere il presupposto dell’imposta con l’esigibilità del tributo, che si realizza al momento della fornitura al consumatore finale (immissione in consumo). La previgente struttura del tributo, che vedeva invece la divaricazione tra fatto generatore dell’imposta (la nascita dell’obbligazione tributaria) e sua esigibilità, ne risulta così appiattita, con una conseguente accentuazione della finalità dell’imposta, ravvisabile nell’imposizione del consumo (9). Insomma, sembra che si sia passati da un presupposto complesso, a formazione progressiva (10), dovuto alla combinazione di due fatti, la fabbricazione e l’immissione in consumo, ad un presupposto dell’accisa da rinvenire nella sola immissione al consumo. D’altra parte, è giurisprudenza pacifica della Corte di Giustizia UE che “l’accisa è un’imposta gravante sul consumo e non sulla vendita, per cui il momento in cui essa diviene esigibile deve trovarsi più vicino al consumatore” (11). Come è noto, la fonte normativa nazionale di riferimento in materia di
(9) A. Salvini, Prefazione, in Bonardi-Patrignani (a cura di), Fare energia-fiscalità e agevolazioni, Milano, 2007, pag. XXII. (10) In ordine al presupposto di fatto delle accise si veda in particolare, Schiavolin Le accise, cit., pag. 1051 e ss.; Cipolla, Le accise, cit., pag. 648 e ss..; Verrigni, Le accise nel sistema dell’imposizione sui consumi, cit., 244. (11) Così con la sentenza 2 giugno 2016, C-355/14, la Corte di Giustizia UE, nella quale si è anche affermato: “poiché l’accisa, come ricordato al considerando 9 della Direttiva n. 2008/118, è un’imposta gravante sul consumo, tale direttiva stabilisce, come previsto al suo art. 1, par. 1, il regime generale relativo alle accise gravanti, direttamente o indirettamente, sul consumo dei prodotti sottoposti ad accisa, tra i quali rientrano, in particolare, i prodotti energetici e l’elettricità di cui alla Direttiva 2003/96”.
Dottrina
137
accise è costituita dal D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, con il quale è stato approvato il T.U.A. concernente le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative. Nonostante l’importanza delle disposizioni contenute nella Direttiva 2003/96/CE, i termini imposti dalla fonte comunitaria e la sussistenza di un’ampia delega al Governo per procedere alla riforma delle accise (di cui alla L. 7.4.2003, n. 80), l’ordinamento italiano ha recepito la normativa comunitaria solo con il D.Lgs. n. 26/2007 (12), in vigore dal 1° giugno 2007. In particolare, l’art. 1, D.Lgs. n. 26/2007, ha apportato numerose modifiche sostanziali al D.Lgs. n. 504/1995, riformulando integralmente gli artt. 21 e 22 (prodotti energetici sottoposti ad accisa) e 26 (disposizioni particolari per il gas naturale). Nel recepire la Direttiva 2003/96/CE, che costituisce il quadro di riferimento della legislazione nazionale, si è posto in evidenza come la stessa abbia attratto nell’area dell’imposizione armonizzata tutti i prodotti energetici, tra cui il gas naturale, in luogo dei soli oli minerali (la cui categoria contemplava unicamente il gas metano). Per prodotti energetici si intendono tutte quelle fonti energetiche che in concreto siano idonee a produrre energia motrice o calore per riscaldamento, con l’ulteriore estensione dell’oggetto della tassazione derivante dalla previsione da parte del D.Lgs. n. 26/2007 del principio della “tassazione per equivalenza” (13). Da ultimo, l’intero assetto normativo è stato disciplinato dalla Direttiva 2008/118/CE, cui è stata data attuazione interna con il D.Lgs. n. 48/2010, che ha sostituito la Direttiva 92/12/CEE del Consiglio del 25 febbraio 1992, espressamente abrogata a decorrere dal 1° aprile 2010. La Direttiva 2008/118/CE, poi ancora modificata dalla Direttiva n. 2010/12/UE del 16 febbraio 2010, si prefigge lo scopo di garantire il corretto funzionamento del mercato interno in relazione alla libera circolazione dei prodotti soggetti ad accisa, accrescendo la certezza giuridica per gli operatori
(12) Per i profili generali relativi alla riforma della tassazione dei prodotti energetici v. F. Cerioni, Il D.Lgs. 2 febbraio 2007, n. 26: la riforma della tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità, cit., 49 ss. (13) Secondo tale principio, deve essere «sottoposto ad accisa, con l’aliquota prevista per il carburante equivalente, ogni prodotto destinato ad essere utilizzato ovvero messo in vendita, come carburante per motori o come additivo ovvero per accrescere il volume finale dei carburanti».
138
Parte prima
e consentendo a questi ultimi e alle amministrazioni di beneficiare maggiormente delle possibilità offerte dalle procedure informatiche. A tale proposito, la Direttiva semplifica le procedure e accresce la trasparenza negli scambi intracomunitari, introducendo per la circolazione dei prodotti sottoposti ad accisa in regime sospensivo il sistema informatizzato per i movimenti ed i controlli dei prodotti soggetti ad accisa (14), oltre a prevedere alcune rilevanti novità, che hanno determinato l’esigenza di modificare le disposizioni nazionali in materia di accise con il richiamato D.Lgs. n. 48/2010 (15). Da ultimo, sul tema dei controlli da parte delle Amministrazioni finanziarie degli Stati membri va ricordato anche il Regolamento n. 389/2012, che detta la disciplina sulla cooperazione amministrativa in tema di accise. 4. La disciplina interna tra lacune legislative e valutazioni empiriche della prassi amministrativa. – Come si è visto, le direttive comunitarie delineano in maniera abbastanza dettagliata la struttura delle accise, prevedendo anche il momento e il luogo di esigibilità (lo Stato membro dell’immissione al consumo), il rimborso nel caso di doppia imposizione tra due Stati membri e la disciplina delle agevolazioni, oltre alla disciplina sulla circolazione dei prodotti all’interno dell’UE. Le fasi di accertamento e di riscossione delle accise sono invece rimesse alla legislazione degli Stati membri, nonostante sia comunque tutelato il principio di non discriminazione tra prodotti nazionali e prodotti provenienti da altri Stati membri. Pertanto, l’accisa è applicata e riscossa, e, se del caso, può essere oggetto di rimborso e di sgravio secondo le modalità previste da ciascuno Stato membro (art. 9, direttiva 2008/118/CE), così come la disciplina della materia sanzionatoria, ancorché non esplicitamente richiamata, è rimessa alla legislazione interna. Tuttavia, trattandosi di tributi armonizzati, come accade per l’IVA, i principi generali dell’ordinamento europeo, elaborati dalla Corte di Giustizia, in special modo con riguardo alla stessa IVA, devono ritenersi applicabili direttamente in materia di accise.
(14) Excise Movement and Control System (EMCS), creato sulla base della decisione n. 1152/2003/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 giugno 2003, relativa all’informatizzazione dei movimenti e dei controlli dei prodotti soggetti ad accisa. (15) Cfr. F. Cerioni, Modifiche al testo unico delle accise, in Corr. trib., 2010, 1543.
Dottrina
139
Ci riferiamo, in particolare, ai principi della certezza del diritto, ed al suo corollario consistente nella tutela dell’affidamento legittimo, al principio di non discriminazione, a quello di effettività, al diritto al contraddittorio e al principio di proporzionalità, che trova il suo ambito di applicazione privilegiato in tema di sanzioni amministrative. In tale contesto, la disciplina delle accise, contenuta principalmente nel T.U.A., si presenta in modo molto articolato e stratificato in quanto integrata, oltre che dalle norme europee, anche e soprattutto da disposizioni interne, contenute in normative di rango primario e secondario (16). Si tratta di una normativa “complessa”, con numerosi rinvii alla normativa doganale (ad esempio, per quanto riguarda la classificazione dei prodotti energetici), per taluni versi ostica e poco intelligibile, anche per il riferimento ai complessi profili tecnici della materia. Proprio per tali aspetti tecnici, il mondo delle accise viene percepito quasi come un settore enigmatico e quindi di difficile comprensione, nonostante la sua derivazione comunitaria. Molto probabilmente per questa ragione tale settore impositivo è stato poco esplorato dalla letteratura tributaristica, se non per profili attinenti a casi particolari. Difatti, mancano delle trattazioni sistematiche ed organiche della materia, nonostante si tratti di un settore impositivo di fondamentale importanza per le entrate pubbliche, in grado di rappresentare stabilmente la terza entrata tributaria per entità dopo l’IRPEF e l’IVA e prima ancora dell’IRES (le accise complessivamente superavano l’11% delle entrate erariali per un ammontare di oltre 40 miliardi di Euro nel 2014). La peculiarità della disciplina delle accise rispetto agli altri settori impositivi è data dal fatto che molto spesso si registrano delle lacune legislative. Più di qualsiasi altro settore dell’ordinamento, il potere impositivo è esercitato dall’Agenzia delle Dogane sulla base di circolari, note, risoluzioni, addirittura vecchi telex, che dettano agli Uffici periferici precisi criteri concernenti la determinazione della base imponibile. Si vuole sottolineare che in questo settore si fa ricorso, più che in qualsiasi altro settore dell’ordinamento tributario, a valutazioni di tipo “soggettivo ed empirico” da parte dell’Amministrazione finanziaria, talvolta giustificate dagli aspetti tecnici che dominano la materia, ma che non
(16) Cfr. P. Orsini, L’armonizzazione dell’imposizione indiretta sulla produzione e sui consumi, in Aa.Vv. Le accise sui prodotti energetici e sull’elettricità, cit., 9 ss.
140
Parte prima
possono essere accettate sulla base del principio di legalità di cui all’art. 23 Cost. L’obbligo di determinare preventivamente i criteri direttivi e le linee generali dell’azione e dell’attività amministrativa è posto in capo al legislatore. L’individuazione della base imponibile, e comunque degli elementi da cui essa deve essere desunta, è compito esclusivo della legge e non può essere rimessa alla discrezionalità o all’arbitrio dell’Amministrazione finanziaria, come sovente accade in questa materia: il principio di legalità esige “che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione” (Corte Cost. n. 4/1957). L’indeterminatezza della base imponibile e la mancata indicazione di specifici e vincolanti criteri direttivi dell’azione amministrativa pongono seri problemi di conformità di talune disposizioni rispetto al principio di legalità (17), al pari del mancato rispetto di regole certe dal punto di vista applicativo e procedurale. I profili che vengono di seguito approfonditi rappresentano solo alcune delle questioni “aperte” in materia di accise, esempi di talune problematiche particolarmente significative sia dal punto di vista sostanziale che procedurale. Rispetto a tali problematiche, si pone anche la questione di un costante confronto ed adeguamento ai principi dell’ordinamento europeo, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.
(17) Si rinvia da ultimo a Corte Cost., 15 maggio 2015, n. 83, in Corr. trib., 2015, 2341, con nota di A. Giovannini, La consulta dichiara illegittima l’imposta sulle sigarette elettroniche. La Consulta ha dichiarato incostituzionale la disposizione che assoggettava ad accisa le cd. sigarette elettroniche (prodotti idonei a sostituire il consumo di tabacchi, art. 62-quater T.U.A.), sulla base della «indeterminatezza della base imponibile e della mancata indicazione di specifici e vincolanti criteri direttivi, idonei ad indirizzare la discrezionalità amministrativa nella fase di attuazione della normativa primaria». Afferma la Corte che «per rispettare la riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost. è quantomeno necessaria la preventiva determinazione di sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (sentenze nn. 350/2007 e 105/2003), richiedendo in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione (sentenze nn. 190/2007 e 115/2011)». Con riguardo alla stessa sentenza v. A. Rovagnati, Sul contrasto con l’art. 3, Cost., della disciplina fiscale delle cd. sigarette elettroniche, in Riv. dir. trib., 2016, II, 13; E. De Mita, Tar del Lazio: l’imposta dell’58,5% sulla sigaretta elettronica è irragionevole, in www.ilsole24ore.com.
Dottrina
141
5. Il regime delle agevolazioni tra principi europei e prassi interna. – Una prima questione, di carattere sostanziale, ma con ampi risvolti applicativi, concerne il ruolo delle disposizioni con cui il legislatore europeo attribuisce la facoltà di stabilire livelli di tassazione ridotta in relazione al particolare uso cui sono destinati taluni prodotti sottoposti ad accisa. Emblematica è la disciplina dell’accisa sui prodotti energetici, che dal 1 gennaio 2004 è mutata radicalmente in forza della già richiamata Direttiva n. 2003/96/CE in materia di tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità. Lo scopo della Direttiva in questione è stato quello di garantire il buon funzionamento del mercato interno, fissando, come si è detto, dei livelli minimi di tassazione per la maggior parte dei prodotti energetici, compresi l’elettricità e il gas naturale. Tuttavia, tale Direttiva consente agli Stati membri di applicare aliquote d’imposta differenziate (inferiori rispetto all’aliquota ordinaria), purché siano rispettati certi criteri, tra cui quello, applicabile all’energia elettrica e al gas naturale, di distinguere «tra uso commerciale e non commerciale» (18). La Direttiva, quindi, prevede, per evidenti motivi extrafiscali (agevolare la produzione e la commercializzazione di beni e la prestazione di servizi) una tassazione con aliquote differenziate solo tra usi commerciali e usi non commerciali (ovvero civili), dando facoltà agli Stati membri di prevedere una minore tassazione del prodotto impiegato in usi commerciali (19). Il discrimine tra i due livelli di imposizione è rappresentato dalla “natura commerciale”, intesa in senso ampio, del consumo finale del prodotto energetico: se vi è mero consumo del prodotto energetico (uso non commerciale), l’imposizione è superiore; se invece il consumo del prodotto è strumentale all’attività commerciale (qualsiasi attività economica diretta alla produzione e alla commercializzazione di beni, nonché alla prestazione di servizi, comprese le attività professionali), il costo rappresentato dall’energia impiegata viene abbattuto mediante la previsione di un minore livello impositivo.
(18) Cfr. art. 5, ult. periodo, Direttiva 2003/96/CE del 27 ottobre 2003. (19) A mente dell’art. 11 della richiamata Direttiva, «per uso commerciale si intende l’utilizzazione da parte di un’entità commerciale, identificata conformemente al paragrafo 2, che eserciti in modo indipendente e in qualsiasi luogo la fornitura di beni e servizi indipendentemente dallo scopo o dai risultati di tali attività economiche. Le attività economiche comprendono tutte le attività di produttore, di commerciante, di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive e agricole e quelle delle libere professioni o professioni assimilate».
142
Parte prima
Il meccanismo di differenziazione dei livelli di tassazione delineato dalla Direttiva, basato su un criterio del tutto lineare, è stato tuttavia enormemente complicato dal legislatore interno, il quale, mediante l’art. 2, comma 73, L. 286/2006, ha esteso l’applicazione dell’aliquota di accisa sul gas naturale prevista per gli “usi industriali” ad altre attività commerciali, tra cui quelle del settore della distribuzione commerciale, ma, senza rispettare il criterio europeo, non a tutte le attività commerciali (in senso lato, attività economiche). La parziale trasposizione della Direttiva (20) ha condotto ad una situazione applicativa particolarmente incerta, in cui solo alcuni usi, peraltro non chiaramente definiti (uso “industriale” o uso nel settore della “distribuzione commerciale”), risultano assoggettati alla minore aliquota. Di qui il proliferare di interventi di prassi, circolari e note dell’Agenzia delle Dogane (21) (e conseguenti liti tributarie) nelle quali si adotta un approccio casistico per stabilire se una particolare attività possa o meno rientrare in tali concetti, pseudo-giuridici e dall’incerto confine, di attività “industriale” (22) o “distribuzione commerciale” ai fini dell’applicazione del livello di tassazione ridotto. La conseguenza ultima è che spesso sono i singoli Uffici periferici a stabilire (magari con esiti diversi a seconda del territorio di competenza) ove
(20) Si potrebbe sostenere la possibilità di disapplicare l’art. 26 T.U.A. per contrasto con gli artt. 5 e 11, Direttiva n. 2003/96/CE, che possono ritenersi norme direttamente applicabili nell’ordinamento interno alla luce dell’incompleto adeguamento alla Direttiva. (21) A titolo esemplificativo, con riguardo al settore della distribuzione commerciale si segnala la nota prot. 4941/V del 12 marzo 2008 dell’Agenzia delle Dogane, in cui la possibilità di fruire dell’aliquota ridotta viene circoscritta sulla base del codice attività ATECO del consumatore finale, nonostante il parere di segno contrario dell’Avvocatura Generale dello Stato citato in premessa nella medesima nota (il codice ATECO ha solo finalità statistiche e non ha la funzione di individuare con precisione l’attività in concreto svolta dal consumatore finale). (22) Cfr. Agenzia delle Dogane, nota prot. 77415 RU del 30 luglio 2014, con la quale si riconosce la spettanza dell’aliquota ridotta in favore delle strutture ospedaliere, a prescindere dalla sussistenza o meno della finalità di lucro dell’attività. La questione relativa all’applicazione dell’aliquota ridotta relativa alle attività industriali per gli impieghi di gas naturale in favore degli ospedali è stata oggetto di numerosi contenziosi, in quanto l’Agenzia non riconosceva la natura di attività economica del servizio ospedaliero. La “finalità di lucro” rappresenta uno dei tanti criteri adottati in via di prassi dall’Amministrazione finanziaria (dichiarato illegittimo da Cass. 24908/13, 24909/13, 24910/13) per ridurre l’ambito di applicazione dell’imposizione ridotta. Altra questione di rilevante interesse è quella relativa al trattamento fiscale del gas naturale impiegato nelle sale cinematografiche: a seguito di alcune sentenze di merito favorevoli ai contribuenti, l’Agenzia, da ultimo, ha riconosciuto quale attività commerciale anche le attività dello spettacolo, comprese quelle di proiezione cinematografica (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per il Veneto e il Friuli Venezia Giulia, prot. n. 20276/RU/1 del 23 maggio 2016).
Dottrina
143
competa l’aliquota ridotta, a seconda della differente “sensibilità” dei funzionari preposti. La mancata adozione da parte del legislatore nazionale del chiaro criterio giuridico-economico della Direttiva, che distingue e definisce l’uso commerciale da quello civile del prodotto energetico, ha dunque portato all’esasperazione della casistica, configurando un sistema applicativo in cui domina la prassi degli Uffici periferici, peraltro non consolidata a livello centrale dell’Agenzia delle Dogane. Tanto più che l’Amministrazione finanziaria considera il consumo per usi industriali alla stregua di una vera e propria agevolazione fiscale (con ciò che consegue ai fini dell’interpretazione in senso restrittivo dei relativi requisiti (23)), quando invece la Direttiva distingue nettamente due livelli impositivi a seconda dell’uso (privato o strumentale alle attività d’impresa o professionali) del prodotto energetico. È necessario sul punto un intervento del legislatore che, uniformandosi alla Direttiva comunitaria, individui dei criteri certi per stabilire l’esatto ambito di applicazione della tassazione ridotta, in modo tale da arginare la discrezionalità (e talvolta la stravaganza) dell’Amministrazione e favorisca la parità di trattamento dei contribuenti in tutto il territorio nazionale. 6. I termini per l’accertamento: decadenza o prescrizione? – Altrettanto significativa è la questione, strettamente applicativa, circa le procedure di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria competente e, dal lato opposto, del diritto al rimborso in favore del contribuente. Si evidenzia, fin da subito, una marcata disparità di trattamento in favore della parte pubblica, la quale, in materia di accise, ha la facoltà di recuperare le imposte sostanzialmente senza alcun termine di decadenza, a differenza del contribuente, nei cui confronti è previsto un termine breve (due anni dal versamento) per richiedere il rimborso delle somme versate in eccesso.
(23) L’Amministrazione finanziaria è solita richiamare la giurisprudenza della Corte di Cassazione, a mente della quale la dimostrazione rigorosa dell’esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa per la concessione di un qualunque beneficio fiscale incombe esclusivamente al soggetto che invoca l’agevolazione stessa, in quanto la normativa di favore costituisce eccezione alla regola (Cass. 6099/2011; Cass. 10280/2008; Cass. 17638/2004; Cass. 14146/2003). In verità, la tassazione “ridotta” non è da intendersi, a mio avviso, come un’agevolazione in senso stretto, ma come una “diversa” forma di tassazione circoscritta a talune specifiche attività imprenditoriali.
144
Parte prima
Non si tratta certamente di un caso isolato nell’ordinamento tributario, ma tale disparità assume nel campo delle accise proporzioni molto significative, che conducono sotto il profilo applicativo a distorsioni difficilmente giustificabili. Si pensi alla facoltà per l’Agenzia delle Dogane di recuperare l’accisa entro un termine di prescrizione quinquennale decorrente non già dal momento del consumo, bensì, in base al previgente art. 15 T.U.A., dalla «scoperta del fatto illecito» (24), locuzione talmente generica da ricomprendere in buona sostanza (e questa era la prassi seguita dall’Amministrazione finanziaria) qualunque violazione in materia di accise. Da ciò discendeva il rischio per il soggetto passivo di rispondere, anche per illeciti commessi da terzi (è noto che il rapporto in materia di accise coinvolge generalmente tre soggetti, ovvero l’Agenzia delle Dogane, il soggetto passivo e il consumatore finale inciso solo economicamente dal tributo (25)), di pretese relative a periodi assai risalenti nel tempo, con accollo in proprio dei relativi oneri nel caso (purtroppo frequente, vista la distanza temporale tra l’immissione in consumo e l’accertamento) in cui risultasse impossibile, per scadenza dei termini civilistici di prescrizione, l’esercizio della rivalsa. Difatti, l’Amministrazione doganale tendeva, talvolta, a travalicare addirittura il limite previsto dallo Statuto dei diritti del contribuente della prescrizione decennale (26). La situazione di incertezza appena descritta circa il protrarsi del potere di accertamento da parte dell’Agenzia delle Dogane per un tempo potenzialmente indefinito in caso di comportamenti omissivi (prescrizione quinquennale decorrente dal momento della scoperta del fatto illecito), parrebbe essere superata dalle modifiche apportate al T.U.A. dall’art. 4-ter del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193 (convertito dalla L. n. 225/2016), ed in particolare dai nuovi testi dell’art. 15 (rubricato “Recupero dell’accisa e prescrizione del diritto all’imposta”) e dall’art. 19 (rubricato “Accertamento delle violazioni”).
(24) Cfr. art. 15, primo comma, T.U.A., nella versione previgente, come si dirà, alla modifica prevista dall’art. 4-ter, D.L. n. 193/2016: «Il credito dell’amministrazione finanziaria per l’accisa si prescrive in cinque anni e, limitatamente ai tabacchi, in dieci anni. In caso di comportamenti omissivi la prescrizione opera dal momento della scoperta del fatto illecito». (25) La Corte di Cassazione esclude la configurabilità di un rapporto di sostituzione tributaria tra il fornitore del prodotto energetico sottoposto ad accisa ed il consumatore finale. Ex multis, cfr. Cass., Sez. trib., 6 agosto 2014, n. 17627. (26) Cfr. art. 8, comma 3, L. n. 212/2000.
Dottrina
145
Tuttavia, la parziale riscrittura delle disposizioni sopra citate, se da un lato sembra fissare dei termini ben definiti per l’esercizio dell’azione accertatrice (superando le incertezze sopra rilevate) e di “recupero” (riscossione) delle accise, dall’altro, alimenta ulteriori perplessità circa la natura del termine quinquennale per l’accertamento, ossia se si tratti di un termine di decadenza o di prescrizione in mancanza di una esplicita definizione legislativa (diversamente da quanto previsto per il diritto al rimborso da parte del soggetto passivo, che deve essere richiesto, a pena di decadenza, entro due anni dalla data del pagamento, art. 14 T.U.A.). Non è irrilevante qualificare il termine quinquennale come termine decadenziale o di prescrizione in quanto, in quest’ultimo caso, i tempi per l’emanazione dell’avviso di pagamento da parte dell’Agenzia delle Dogane si sposterebbero in avanti, potendo la prescrizione essere interrotta e ricominciare a decorrere dal momento dell’intervenuto atto interruttivo. In termini generali, la distinzione ontologica fra i due istituti (decadenza e prescrizione) non è né facile né pacifica, e quindi, ai fini della qualificazione del termine temporale previsto dalla legge, è bene guardare ad elementi estrinseci di carattere sistematico. Comunque, l’elemento distintivo, valido anche in tema di attività amministrativa, è dato dal rilievo, desumibile dagli artt. 2964 e 2966 c.c., che mentre la prescrizione è fondata sul fatto soggettivo dell’inerzia del titolare del diritto che si estingue quando non esercitato nel tempo determinato dalla legge, la decadenza, al contrario, è fondata sul fatto oggettivo del mancato esercizio del potere entro il termine stabilito; sicché, quest’ultima non può essere interrotta, ma può essere impedita soltanto dal compimento degli atti nel termine previsto dalla legge. In presenza dell’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione, la decadenza offre maggiori garanzie al privato poiché salvaguarda la necessità obiettiva del compimento degli atti entro un dato tempo (non procrastinabile sulla base di elementi ulteriori). Orbene, il nuovo art. 15, secondo comma, T.U.A., disciplina i termini entro i quali notificare l’avviso di pagamento (cinque anni dalla data dell’omesso versamento delle somme dovute a titolo d’imposta o dell’indebita restituzione ovvero dell’irregolare fruizione di un prodotto sottoposto ad accisa in un impiego agevolato) (27) senza specificare se trattasi di termine quinquennale di prescrizione o di decadenza.
(27) Il termine quinquennale è aumentato a dieci nei casi di violazione delle disposizioni del T.U.A. per cui sussiste l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, cioè di violazioni di carattere penale.
146
Parte prima
Ciò diversamente da quanto stabilito dal terzo comma del medesimo art. 15 T.U.A., che sancisce che “il termine di prescrizione per il recupero del credito da parte dell’Agenzia è di cinque anni ovvero, limitatamente ai tabacchi lavorati, di dieci anni”. Si pone quindi il problema se i termini, ambedue quinquennali, per la procedura di accertamento e di quella della riscossione abbiano natura omogenea (di prescrizione) ovvero natura disomogenea (il primo di decadenza dell’azione accertatrice, il secondo di prescrizione della mera azione di riscossione). Potrebbe affermarsi che sussista una scissione circa la natura dei due termini (di accertamento e di riscossione), attribuendo natura decadenziale al termine dell’accertamento sulla base: – del fatto che l’art. 19, quarto comma, T.U.A. prevede obbligatoriamente il contraddittorio “anticipato” (entro sessanta giorni) a seguito della notifica di qualsiasi processo verbale di constatazione (anche redatto in ufficio, c.d. “a tavolino”) prima della notifica dell’avviso di pagamento e tale sequenza procedimentale avvicina il procedimento di accertamento delle accise a quello previsto per l’IVA e per talune ipotesi di accertamento delle imposte sui redditi (es. accertamento sintetico IRPEF), per le quali indubbiamente il termine per l’accertamento è previsto a pena di decadenza; – dell’affermazione, sostenuta anche in giurisprudenza (28), che quando la legge prevede il rispetto di un termine quale condizione per il legittimo esercizio di un potere da parte della Pubblica Amministrazione, esso è da considerarsi come “decadenziale” a prescindere da una esplicita qualificazione legislativa in tal senso (a meno che non sussistano elementi estrinseci e sistematici che depongano in altro senso, temine “ordinatorio” o di prescrizione). Si vuole mettere in evidenza che sarebbe stato opportuno che il legislatore avesse espressamente previsto che l’avviso di pagamento va notificato entro cinque anni (o dieci nel caso di violazioni rilevanti penalmente) “a pena di decadenza” e che la riscossione (o “recupero del credito”) potesse avvenire nei successivi cinque anni, con l’applicazione delle regole sulla prescrizione.
(28) In base alla posizione tradizionale della giurisprudenza la natura decadenziale, ovvero il carattere perentorio di un termine, non deve essere necessariamente espressa, ma può essere anche “desunta dallo scopo o dalla funzione che tale termine è destinato ad assolvere” (Corte Cost., ord. 107/2003; Cass. 27.2.1995, n. 789)
Dottrina
147
Insomma, una scissione circa la natura dei termini: “decadenza” per l’accertamento e “prescrizione” per la successiva riscossione (29). Un tale chiarimento non compare nell’art. 15 T.U.A., come modificato dall’art. 4-ter, D.L. n. 193/2016, generando forti perplessità non di poco conto (si pensi al possibile procastinarsi per anni, come si vedrà, dell’azione accertatrice), sulla natura omogenea o disomogenea dei due termini in esame (art. 15, commi secondo e terzo, T.U.A.). Ebbene, sulla base del dato letterale, che per la dottrina rappresenta l’indice che offre maggiore certezza (30), il termine previsto dall’art. 15, secondo comma, T.U.A., non pare possa qualificasi come “decadenziale”, ma come termine di prescrizione; ciò è dimostrato testualmente dal quinto comma del medesimo art. 15 T.U.A., che prevede l’interruzione della prescrizione del credito d’imposta quando viene esercitata l’azione penale: in questo caso il termine di prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio penale. Come dire che, se a seguito di un mero verbale di constatazione, venisse esperita l’azione penale, il termine quinquennale per la notifica dell’avviso di pagamento comincia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza penale (unico caso di “pregiudizialità penale” in materia tributaria). Mi sembra, quello citato, un argomento “forte” che depone per la natura omogenea dei due termini in esame, che si compenetrano nella loro funzione: impedire che il recupero del credito d’imposta, e quindi che la notifica dell’avviso di pagamento, possa avvenire successivamente al termine quinquennale (o di dieci anni nel caso di violazioni penalmente rilevanti o dei tabacchi lavorati) decorrente dall’omesso versamento delle accise, dall’indebita restituzio-
(29) Tale impostazione mi è stata acutamente prospettata, in termini problematici, dal prof. Roberto Schiavolin in un confronto avuto sul tema, che mi ha stimolato all’approfondimento di cui nel testo. (30) Secondo la dottrina più recente (Gerardo-Mutarelli, Prescrizione e decadenza nel diritto civile, Torino, 2015, passim), l’indagine sul “dato letterale” delle disposizioni appare un indice più affidabile dal punto di vista pratico per stabilire la natura decadenziale di un determinato termine. Dall’analisi empirica delle disposizioni risulta in particolare che il termine è di decadenza nelle seguenti ipotesi: a) quando vi è la dichiarazione di “perentorietà” dello stesso; b) quando vi è la previsione del compimento di un atto “entro e non oltre” un certo termine”; c) quando si statuisce che il decorso del termine comporta la “perdita del diritto”; d) quando ricorrono le espressioni “l’azione non è più ammissibile decorsi…”. Laddove tali espressioni non fossero presenti, si dovrebbe pertanto escludere la natura decadenziale di un determinato termine.
148
Parte prima
ne, dall’irregolare fruizione di una aliquota d’accisa agevolata o dal verbale di constatazione di deficienze eccedenti i cali consentiti per i prodotti che si trovano in regime di sospensione d’imposta (31). Insomma, ciò che è certo è che l’Agenzia delle Dogane deve far valere il proprio diritto di credito ponendo in essere l’attività di accertamento e/o di riscossione mediante notifica dell’avviso di pagamento (atto in ogni caso prodromico all’iscrizione a ruolo, art. 15, comma uno, T.U.A.) entro il termine quinquennale (o decennale), come dimostrato anche dalla previsione che “i registri, le dichiarazioni e i documenti prescritti dalla disciplina di riferimento dei vari settori d’imposta devono essere conservati per cinque anni successivi a quello di imposta ovvero, per i tabacchi lavorati, per dieci anni (art. 15, comma sei, T.U.A.). La ricostruzione sopra prospettata, basata, lo si è detto, sul dato letterale, conduce alla qualificazione del termine in esame come termine di prescrizione, il che, se da un lato, è coerente con la doppia natura dell’avviso di pagamento (32), ossia come atto di accertamento e/o atto della riscossione (dalla sua notificazione decorre sempre il termine di trenta giorni per il pagamento, art. 15, comma uno, T.U.A.), dall’altra, segnala una anomalia o, se si preferisce, una peculiarità del settore delle accise rispetto a tutti gli altri settori dell’ordinamento tributario, che prevedono i termini di accertamento a pena di decadenza. Una anomalia che appare ingiustificabile sia sotto il profilo dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, sia sotto il profilo della diversità e natura dei termini per l’accertamento (prescrizione quinquennale) e per il rimborso (decadenza biennale dal versamento): peculiarità ingiustificabili dei procedimenti nel mondo delle accise. 7. Il principio di effettività con riguardo al diritto al rimborso. – Si è sopra evidenziata la marcata disparità di trattamento a favore dell’Amministrazione doganale in materia di accise tra i termini dell’accertamento e quelli del rimborso d’imposta: il contribuente vede limitato il proprio diritto al rimborso
(31) Quest’ultima fattispecie è prevista dall’art. 15, quarto comma, T.U.A. (32) La doppia natura di un atto di imposizione la si rinviene, ad esempio, nell’imposta di registro e similari ove con lo stesso atto l’Ufficio procede alla rettifica di maggior valore e alla liquidazione della maggiore imposta complementare (art. 52, primo comma, D.P.R. n. 131/1986).
Dottrina
149
da un termine breve di decadenza biennale (33), il cui decorso appare collegato al momento del versamento, ancorché provvisorio ovvero in acconto (34). Nonostante l’apertura di un orientamento giurisprudenziale (35), che supera il rigido termine biennale del versamento, rimane quanto mai attuale il pericolo di veder operare detto termine di decadenza anche nelle ipotesi in cui il contribuente abbia regolarmente esposto i crediti d’imposta nella dichiarazione annuale di consumo, manifestando in tal modo la volontà di non rinunciare a detti crediti. Ed infatti, nella prassi dell’Amministrazione tale termine decadenziale (due anni) viene utilizzato oltre la ratio della legge come strumento mediante il quale attuare l’obiettivo di incamerare i crediti dei contribuenti scaturenti dalle dichiarazioni di consumo in mancanza di una formale istanza di rimborso: ciò in spregio ai principi di collaborazione e al diritto all’integrità patrimoniale sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente. Tale sistema, difficilmente giustificabile già dal punto di vista del diritto interno, non appare nemmeno in linea con i superiori principi europei di effettività della tutela e del diritto al rimborso (36), in forza dei quali nell’ambito della disciplina della tutela delle situazioni giuridiche soggettive, la previsione di termini di decadenza e di stringenti procedure è ammessa dall’ordinamento europeo a condizione che tali termini e tali procedure – in ossequio al prin-
(33) A mente dell’art. 14, secondo comma, T.U.A., «Il rimborso deve essere richiesto, a pena di decadenza, entro due anni dalla data del pagamento». (34) Con riguardo alla problematica della decorrenza del termine biennale di decadenza ex art. 14 T.U.A., relativamente al rimborso delle accise, si rinvia alle lucide e condivisibili considerazioni di C. Verrigni, Le accise nel sistema dell’imposizione sui consumi, cit., 335 ss. (35) Cass., Sez. trib., 17 aprile 2013, n. 9283, con la quale è stato statuito in materia di accisa sull’energia elettrica che il termine biennale di decadenza in relazione all’istanza di rimborso decorre non dall’effettivo versamento dell’accisa, ma dalla presentazione della dichiarazione di consumo con la quale sono stati riportati in avanti i crediti d’imposta relativi alle precedenti dichiarazioni di consumo, c.d. effetto revolving. (36) Sul principio europeo di effettività della tutela del contribuente v. Corte di Giustizia, 14.12.1995, C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel; Corte di Giustizia., 10.7.1997, C-261/95, Palmisani; Corte di Giustizia, 1.12.1998, C-326/96, Levez; Corte di Giustizia, 9.11.1983, C-199/82, San Giorgio. Sul tema del principio di effettività, in relazione alle azioni di restituzione dei tributi, in particolare, F. Amatucci, I vincoli posti dalla giurisprudenza comunitaria nei confronti della disciplina nazionale del rimborso d’imposta, in Riv. dir. trib., 2000, I, 291; L. Del Federico, Azioni e termini per il rimborso dei tributi incompatibili con l’ordinamento comunitario, in Giur. imp., 2003, 271; ID., Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 175; R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso di imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, passim.
150
Parte prima
cipio di effettività – siano tali da non rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti. Detti principi dovrebbero imporre l’adozione di procedure rispettose dei diritti del contribuente, quantomeno mediante l’estensione delle garanzie interne previste con riguardo ai tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate: termini di decadenza certi per l’accertamento, procedure chiare per il rimborso dei tributi e modelli dichiarativi che consentano una indicazione vincolante per l’Amministrazione dei crediti d’imposta esposti. Nel campo delle accise, le procedure non sono nemmeno lontanamente paragonabili, sotto il profilo della certezza e delle garanzie, a quelle che regolano l’attuazione del rapporto tra Amministrazione finanziaria e contribuente con riguardo alle imposte sui redditi e all’IVA. Analogamente a tali imposte, per le accise i termini per il rimborso dovrebbero coincidere con quelli previsti per l’accertamento. 8. Accise, diritto di rivalsa e base imponibile IVA. – Tornando agli aspetti sostanziali della materia, una delle questioni di maggiore interesse nella pratica è quella del rapporto tra le accise e l’IVA. In particolare, non solo si pone il problema se tra gli oneri che compongono la base imponibile dell’IVA (art. 13, D.P.R. n. 633/1972) debba essere sempre inclusa anche l’accisa, ma, più radicalmente, come sostenuto da una parte minoritaria della giurisprudenza di merito, si potrebbe opinare che l’accisa, in quanto tributo, non possa essere assoggettata all’IVA stessa. Com’è noto, l’art. 13, primo comma, D.P.R. n. 633/1972 dispone, in attuazione della normativa europea, che la base imponibile dell’IVA è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore, secondo le condizioni contrattuali, compresi, tra l’altro, gli oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente. Sulla base della disciplina citata non par dubbio che l’accisa, separatamente indicata in fattura, debba rientrare nella base imponibile dell’IVA. Dal punto di vista economico, l’imposizione complessiva è, ovviamente, molto più alta, in quanto le aliquote di accisa previste dall’Allegato 1 del T.U.A. subiscono un aumento reale dovuto, appunto, all’applicazione dell’IVA. A tal proposito, è bene precisare che la struttura impositiva delle accise consente al soggetto passivo di trasferire in avanti l’imposta pagata, addebitandola al consumatore finale. Normalmente ciò avviene mediante il fenomeno della traslazione economica, nel senso che l’accisa è conglobata nel prezzo finale di vendita del prodotto.
Dottrina
151
In quest’ultimo caso, il problema non si pone, in quanto l’IVA si applica sul prezzo finale del prodotto, senza alcuna separazione formale dell’accisa eventualmente traslata. Nel caso in cui, invece, l’accisa viene evidenziata separatamente in fattura, essa concorre a formare la base imponibile dell’IVA. Difatti, ai sensi dell’art. 16, comma 3, T.U.A., il soggetto passivo dell’accisa può addebitare a titolo di rivalsa nei confronti dei cessionari dei prodotti l’accisa sorta a monte, con la conseguenza che per quell’importo il relativo credito ha privilegio generale sui beni mobili del debitore con lo stesso grado del privilegio generale stabilito dall’art. 2752 c.c., cui tuttavia è “posposto”, limitatamente all’importo dell’accisa indicata in fattura. In altri termini, l’esercizio della rivalsa può essere effettuato dal fornitore o inglobando l’accisa nel prezzo (traslazione in senso economico), ovvero indicando l’accisa in una specifica “voce” della fattura (traslazione in senso giuridico). Da quanto sopra esposto, si desume che il fornitore, soggetto passivo del tributo, non è qualificabile come un “sostituto d’imposta” (ossia, come colui che adempie all’obbligazione tributaria in luogo del sostituito, contribuente inciso dall’imposta), in quanto è tenuto ad assolvere direttamente il debito tributario nei confronti dell’Erario: egli, però, ha la facoltà di esercitare la rivalsa nei confronti del consumatore finale, il quale è soggetto completamente estraneo al rapporto tributario. (37) Tale assunto è confermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale, a più riprese, ha affermato: “È dunque il fornitore a dover pagare l’imposta; in esito al pagamento, egli può riversarne l’onere mediante rivalsa (…) la configurabilità della rivalsa come oggetto di un diritto e non come elemento connaturale ed ineludibile della fisionomia del tributo esclude
(37) Cfr. F. Randazzo, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, 35, il quale correttamente, a mio avviso, ritiene “che anche nei casi in cui il d.lgs. n. 504 del1995 attribuisce ai soggetti passivi delle accise il diritto di rivalsa, il presupposto del tributo resta l’immissione al consumo del prodotto. Unico obbligato verso lo Stato per l’imposta dovuta è sempre e soltanto il fabbricante e non il consumatore, e, in questa prospettiva, il diritto di rivalsa serve solo a facilitare, nel rapporto interprivatistico, la traslazione dell’onere economico”. In tal senso anche G. Cipolla, Presupposto, funzione economica e soggetti passivi delle accise nelle cessioni di oli minerali ad intermediari commerciali, in Rass. trib., 2003, 1872. Prospetta, invece, un’ipotesi di sostituzione tributaria, L. Peverini, Presupposto, soggettività passiva e capacità contributiva nelle accise: riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale, in Riv. dir. trib., 2011, I, 505.
152
Parte prima
la configurabilità del rapporto di sostituzione d’imposta e, per conseguenza, l’autonoma rilevanza del sostituito, ossia del consumatore finale” (38). Peraltro, il diritto di rivalsa è espressamente previsto per l’accisa sul gas naturale e sull’energia elettrica (rispettivamente, art. 26 e art. 56, T.U.A.). La previsione del diritto (e non dell’obbligo) di rivalsa evidenzia che la traslazione dell’imposta erariale sul consumo del gas naturale e dell’energia elettrica è un fenomeno del tutto eventuale. Ciò comporta che il soggetto passivo del tributo è libero di scegliere se esercitare o meno la traslazione dell’accisa sul consumatore finale: egli, difatti, potrebbe decidere di rimanere inciso dal tributo erariale, senza addebitare alcunché alla controparte contrattuale. La traslazione della accisa sul consumatore finale non è né necessaria, né intrinseca alla struttura del tributo: sono le leggi di mercato a disciplinare l’eventuale trasferimento delle imposte dal produttore al consumatore finale. Difatti, il produttore, al fine di ridurre l’onere complessivo dovuto dal proprio cliente – anche in un’ottica di concorrenza nel libero mercato dell’energia elettrica e del gas – ben potrebbe non accollare l’imposta erariale di consumo ai cessionari, sussistendo il diritto e non l’obbligo di rivalsa. Nelle accise, pertanto, la rivalsa non riveste un ruolo strutturale del tributo nella dinamica della sua applicazione: essa assume i connotati di un elemento di tipo privatistico, proprio in funzione del fatto che si tratta di un diritto rinunciabile afferente al rapporto tra soggetto passivo e consumatore finale. Il diritto di rivalsa, come sopra delineato, si differenzia dall’obbligo di rivalsa, previsto, ad esempio, dall’art. 18, D.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA (39). La traslazione dell’IVA, a differenza di quanto accade nelle accise, è evento inderogabilmente imposto dalla legge. Ciò al fine di assicurare il principio fondamentale di neutralità dell’imposta, non potendo il soggetto passivo rimanere inciso dall’IVA, attesa la sua qualità, come sostenuto dalla Corte di Giustizia UE, di “collettore di imposte per conto dello Stato”. (40) La rivalsa nell’IVA è elemento intrinseco del tributo, atteso che concorre a determinare, sotto il profilo giuridico, la struttura del medesimo, identificando
(38) Cfr. Cass., Sez. V, 6 agosto 2014, n. 17627. (39) La disposizione prevede: “Il soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente”. (40) Cfr. Corte di Giustizia, 28 ottobre 2010, causa C-49/09, Commissione/Polonia; Corte di Giustizia, 15 gennaio 2009, causa C-502/07, K-1.
Dottrina
153
nel consumo il presupposto del tributo e nel consumatore finale il titolare della capacità contributiva oggetto d’imposizione. Diversamente, nel regime delle accise, il tributo è posto a carico unicamente del fabbricante – fornitore (colui che opera l’immissione in consumo), che può anche scegliere di non rivalersi dell’accisa già versata all’Erario, non essendo, per detta imposta, previsto il principio di neutralità. Nelle accise, l’esigibilità del prelievo è subordinata all’immissione in consumo del prodotto (art. 2, T.U.A.) e non al mero consumo del consumatore finale. Ciò è dimostrato dal fatto che nel caso di furto di prodotti soggetti ad accisa, come pacificamente sostenuto dalla Corte di Cassazione, l’immissione nel circuito commerciale (al consumo) del prodotto comporta, comunque, il pagamento della stessa accisa da parte del titolare del deposito. Il presupposto dell’accisa è, quindi, rappresentato dall’immissione al consumo e l’unico obbligato all’assolvimento del debito tributario è sempre e soltanto il produttore, e non il consumatore finale. Quanto all’applicazione dell’IVA sulle accise, nell’ultimo periodo si sta sempre più diffondendo un orientamento giurisprudenziale di merito, in particolare dei Giudici di Pace, che riconoscono il rimborso al consumatore finale dell’IVA addebitata in bolletta relativa all’accisa sull’energia elettrica e sul gas naturale (41). Per vero, si tratta di sentenze che non presentano un particolare approfondimento giuridico della materia, limitandosi a citare la giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla inapplicabilità dell’IVA con riferimento ai tributi in genere, ed in particolare con riguardo ai tributi locali (42). Nell’immaginario collettivo, appare inspiegabile ed ingiusta l’applicazione di una “tassa sulla tassa”. In realtà, l’inclusione dell’accisa nella base imponibile dell’IVA non è questione che può essere rimessa alla legislazione nazionale in quanto l’IVA è
(41) Da ultimo, Giudice di Pace di Prato, decreto n. 102/2016 del 21 gennaio 2016. (42) Il riferimento è alla nota giurisprudenza in materia di TIA, da ultimo ribadita da Cass., Sez. Un., 15 marzo 2016, n. 5078, secondo cui «l’imposta sul valore aggiunto mira a colpire una qualche capacità contributiva che si manifesta quando si acquisiscono beni o servizi versando un corrispettivo, in linea con la previsione di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 3, non quando si paga un’imposta, sia pure destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il medesimo contribuente (Sentenza n. 3293 del 02/03/2012; Sez. 5, Sentenza n. 3756 del 09/03/2012; Sez. 5, Sentenza n. 5831 del 13/04/2012)».
154
Parte prima
un’imposta europea e trova la propria disciplina fondamentale nella Direttiva 2006/112/CE e nella c.d. Sesta Direttiva (Direttiva n. 77/388/CE). L’art. 73 della Direttiva c.d. rifusa (n. 2006/112/CE) prevede che la base imponibile delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore, ossia consiste nell’importo realmente percepito, o da percepire, da parte del cedente o del prestatore. Tuttavia, occorre precisare che l’art. 78, Direttiva n. 2006/112/CE, dispone che nella base imponibile IVA debbano essere compresi anche “gli oneri tributari”, ossia le imposte, i dazi, le tasse e i prelievi, ad eccezione della stessa IVA. Dal che parrebbe desumersi che l’accisa debba essere inclusa sempre nella base imponibile IVA. Così non è. Difatti, la Corte di Giustizia UE (la cui interpretazione delle norme comunitarie è vincolante nei confronti degli organi amministrativi e giudiziari degli Stati membri) ha chiarito che le imposte afferenti l’operazione debbano essere incluse nella base imponibile IVA solo qualora sussista un “nesso diretto” con l’operazione stessa, nel senso che “il fatto generatore della tassa coincida con quello dell’IVA”; è necessaria, quindi, la sussistenza di una “connessione diretta” con l’operazione soggetta ad imposta (43). Pertanto, ai fini della ricomprensione degli oneri tributari nella base imponibile IVA, occorre verificare in concreto se il fatto generatore del tributo coincida o meno con quello dell’IVA. Con riferimento allo specifico ambito delle accise, sebbene in astratto potrebbe prospettarsi il “nesso diretto” richiamato dall’art. 78, Direttiva n. 2006/112/CE, considerato che il momento di applicazione dell’IVA e dell’accisa coincidono, in concreto il collegamento diretto è interrotto dalla previsione espressa della facoltà della rivalsa (come accade per l’energia elettrica e il gas naturale).
(43) Cfr. Corte di Giustizia, 11 giugno 2015, C- 256/14, Lisboagás GDL, punto 29; Corte di Giustizia, 29 marzo 2001, C-404/99, Commissione contro Repubblica Francese, punti 40, 41 e 42). Ad esempio, il collegamento diretto è escluso nel caso in cui il cedente abbia versato un’imposta in nome e per conto del cessionario (come accade nel caso di un contratto di compravendita di auto in cui il venditore consegni il veicolo avendo già pagato l’imposta di immatricolazione in nome e per conto dell’acquirente medesimo; il rimborso di tale imposta non rientra nella base imponibile IVA, Corte di Giustizia, 28 luglio 2011, C-106/10, Lidl & Companhia, punto 33; Corte di Giustizia, 1 giugno 2006, C-98/05, Skatteministeriet).
Dottrina
155
Difatti, il fornitore, come già sottolineato, ha la facoltà di esercitare liberamente la traslazione dell’imposta erariale sul consumo di energia elettrica sul consumatore finale, tenuto conto delle proprie valutazioni economiche, sicché il fatto generatore dell’IVA e delle accise può non coincidere: è da escludersi il collegamento diretto. A nostro avviso, la non sussistenza del nesso diretto tra il fatto generatore dell’accisa con quello dell’IVA è dimostrata anche dalla circostanza che nell’ipotesi, ad esempio, di utilizzo dell’energia elettrica per usi propri da parte delle officine di produzione o da parte di soggetti che utilizzano l’energia elettrica per uso proprio con impiego promiscuo (art. 53, comma 1, T.U.A.), l’utilizzatore finale sconta soltanto l’accisa, non potendosi prospettare l’applicazione dell’IVA sulla medesima accisa (diversamente da quanto accade circa l’applicazione dell’IVA in ipotesi di autoconsumo). In altri termini, se vi fosse un nesso diretto l’IVA sull’accisa andrebbe sempre applicata, mentre, per legge, in talune ipotesi una tale applicazione non è possibile. Sussiste, invece, il nesso diretto, allorquando la legge preveda l’obbligo della rivalsa da parte del soggetto passivo sul consumatore finale. Così, ad esempio, la Corte di Cassazione, con riguardo alla tassa rappresentata dai diritti di imbarco aeroportuali, ha stabilito che essi sono da assoggettare a IVA in quanto incrementano il corrispettivo del servizio del trasporto aereo, trattandosi di oneri espressamente dovuti dal vettore aereo che ha l’obbligo (e non facoltà) di rivalsa sui passeggeri (44). L’inclusione della tassa nel prezzo corrisposto dal passeggero al vettore comporta che la stessa venga inclusa nella base imponibile IVA: sussiste il nesso diretto in forza dell’obbligo di rivalsa. Ancora, per quanto attiene le maggiorazioni rapportate al corrispettivo, per le quali è prevista per legge la rivalsa, addebitate, ad esempio, dai soggetti iscritti in albi professionali a titolo di contributo integrativo dovuto alla Cassa
(44) Cass., Sez. trib., 7 marzo 2014, n. 5362, con la quale è stato affermato il seguente principio di diritto: “I diritti di imbarco corrisposti dal vettore aereo, che ne trasla obbligatoriamente il costo sul passeggero, vanno compresi nella base imponibile dell’IVA concernente le somme riscosse dal vettore per l’espletamento del servizio di trasporto”. I diritti di imbarco aeroportuali sono disciplinati dall’art. 1 e dall’art. 5, L. 5 maggio 1976, n. 324, a mente dei quali “Il movimento degli aeromobili privati e delle persone (…) è assoggettato al pagamento dei seguenti diritti (…) diritto di imbarco per passeggeri (…). Il diritto è dovuto direttamente dal vettore che se ne rivale nei confronti del passeggero”.
156
Parte prima
di previdenza ed assistenza di appartenenza dei professionisti, l’art. 16 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, espressamente dispone che le stesse concorrono a formare la base imponibile agli effetti dell’IVA poiché sussiste l’obbligo di rivalsa nei confronti del committente. In tali ipotesi, sussiste il nesso diretto richiesto dall’art. 78, Direttiva n. 2006/112/CE, sicché tali oneri assumono rilevanza ai fini IVA, dovendo essere inclusi nella base imponibile. Nel caso che stiamo esaminando, si pone il problema se rientri o meno nella base imponibile dell’IVA l’accisa in relazione alla quale il produttore non eserciti il diritto di rivalsa, a prescindere dalle ragioni che determinano tale decisione (aspetti di concorrenza sul mercato, errore circa l’esclusione del prodotto dall’accisa e conseguente accertamento da parte dell’Agenzia delle Dogane, etc.). Con riguardo a quest’ultimo aspetto, si registra un notevole contenzioso. Da una parte, l’Amministrazione sostiene una tesi di carattere letterale per cui l’accisa, in ogni caso, rientrerebbe nella base imponibile dell’IVA, rimanendo del tutto indifferente il dato fattuale dell’effettivo versamento o meno all’Erario dell’accisa medesima: l’accisa andrebbe sempre indicata in fattura ed assoggettata ad IVA, indipendentemente dalla circostanza che il cedente non abbia esercitato il diritto di rivalsa. Si tratta di una tesi quantomeno “curiosa”: il cedente, nonostante non eserciti il diritto di rivalsa e non incameri l’accisa, dovrebbe assoggettare la stessa accisa ad IVA, rimanendo definitivamente inciso da tale ultimo tributo (oltreché dalla stessa accisa). Dall’altra parte, si sostiene, in conformità con le disposizioni di cui agli artt. 26 e 56, T.U.A., che sussiste in materia di accise un “diritto di rivalsa” e non un obbligo (45), con la conseguenza che laddove il diritto non venga esercitato (a prescindere dai motivi che determinano una tale decisione), l’accisa, in quanto onere non accollato al cessionario e che per legge poteva non essere accollato, non può concorrere alla formazione della base imponibile IVA. Nonostante la netta prevalenza della giurisprudenza di merito a favore di quest’ultima tesi, la questione rimane ancora aperta, in quanto vi sono parecchi ricorsi pendenti innanzi alla Corte di Cassazione e non mancano gli spunti per adire la Corte di Giustizia dell’Unione Europea in merito all’interpretazione della Direttiva IVA in relazione al mancato addebito in fattura delle accise per cui non sia stata operata la rivalsa.
(45) R. Schiavolin, Le accise, cit., 1057, e F. Randazzo, Le rivalse tributarie, cit., 32.
Dottrina
157
9. Il sistema sanzionatorio e il principio di proporzionalità. – Da ultimo, merita un particolare richiamo il sistema sanzionatorio perché è proprio tale materia a presentare, con riguardo alle accise, profili di indubbio interesse attinenti al rapporto tra legislazione nazionale ed europea. Se è vero che il processo di razionalizzazione e di adeguamento dell’intero sistema impositivo delle accise ha modificato anche il sistema sanzionatorio, rendendo lo stesso più coerente ai principi comunitari (46), è altrettanto vero che tale processo non appare compiuto, soprattutto con riferimento al settore delle accise sui prodotti energetici e l’energia elettrica. Il principio di proporzionalità, come principio generale dell’ordinamento europeo, risulta applicabile anche al sistema sanzionatorio delle accise, per cui sin d’ora si possono esprimere forti perplessità in merito alla compatibilità comunitaria e alla rispondenza al suindicato principio delle sanzioni previste dal T.U.A., di carattere estremamente afflittivo. Dall’esame delle disposizioni in materia sanzionatoria previste dal T.U.A. emerge ictu oculi una disparità di trattamento tra le violazioni in materia di prodotti energetici e gas naturale (di rilevanza penale) e le violazioni che riguardano il settore dell’energia elettrica (oggetto di depenalizzazione con il T.U.A.). Il settore a maggiore rischio dal punto di vista sanzionatorio è quello dei prodotti energetici, in relazione ai quali le violazioni (sottrazione all’accertamento o al pagamento dell’imposta) sono disciplinate dall’art. 40, T.U.A., che prevede per i casi di evasione delle accise l’applicazione di sole sanzioni penali. Tuttavia, anche nell’ambito del settore depenalizzato (47) (energia
(46) Per ulteriori considerazioni si rinvia a: G. Giuliani, Per le accise un sistema sanzionatorio rigoroso, in Guida normativa, 1995, 228; M. Orsi, Le sanzioni in materia di accise, in Aa.Vv., Diritto doganale, delle accise e dei tributi ambientali, in ScuffiAlbenzio-Miccinesi (a cura di), cit., 867 ss.; Santacroce-Sbandi, Il sistema sanzionatorio delle accise: specificità dei regimi e opportunità di rinnovamento, in Il Fisco, 2015, 1660, che considerano il sistema sanzionatorio in materia di accise estremamente variegato, privo di coerenza, frutto della redazione del Testo Unico che, in quanto tale, per definizione ha efficacemente unificato una disciplina i cui caratteri comuni sono identici, ma i cui aspetti applicativi e sanzionatori sono estremamente variabili a seconda della singola imposta o categoria merceologica trattata. (47) Da ultimo, si richiama il recente intervento dell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 8/2016, il quale ha introdotto una sostanziale riduzione delle sanzioni penali rispetto a diverse violazioni tributarie previste nell’ambito dell’art. 40, T.U.A., con particolare riguardo alla fattispecie prevista dal quinto comma, che puniva con la sola multa dal doppio al decuplo dell’imposta evasa le violazioni nell’ipotesi in cui la quantità di gas naturale sottratto all’accertamento o al
158
Parte prima
elettrica), le sanzioni sono di entità spropositata, in misura che va, per le violazioni principali, da due a dieci volte l’imposta evasa (48), il che costituisce la più alta entità delle sanzioni amministrative in tutto il settore tributario. Un siffatto sistema punitivo, giustificato da ragioni storiche (l’energia elettrica e il gas metano erano considerati beni di importanza strategica) e dalle esigenze di tutela di interessi erariali in un settore che produce un gettito particolarmente rilevante (49), non pare assolutamente aderente al principio di proporzionalità di matrice europea. Difatti, detto principio, secondo l’ordinamento europeo e l’ordinamento interno, impone la «congruità del mezzo al fine», vale a dire che le sanzioni devono essere proporzionate allo scopo perseguito e tener conto della gravità dell’infrazione (50). Come ribadito in più occasioni dalla Corte di Giustizia (soprattutto in materia di IVA), gli Stati membri possono scegliere le sanzioni che ritengono più opportune, ma tale potere deve essere esercitato nel rispetto del diritto dell’Unione Europea e dei suoi principi generali e, in particolare, del principio di proporzionalità. Tale principio costituisce un cardine del sistema sanzionatorio e la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha più volte affermato la necessità che le misure afflittive soddisfino la proporzionalità e siano idonee a garantire il raggiungimento dello scopo con esse perseguito, senza eccedere quanto necessario a tal fine. Dalla giurisprudenza europea si evince, quindi, che la determinazione del-
pagamento dell’accisa è inferiore a 5.000 metri cubi. Sul punto, si rinvia alla nota dell’Agenzia delle Dogane 3 maggio 2016 n. 51746/RU. (48) Cfr. art. 59, comma 1, T.U.A. (49) Da una nota del MEF 5 ottobre 2015, emerge la crescita del gettito fiscale deriva, in particolare, dall’IVA e dalle accise che hanno fatto registrare un aumento del 3,1% attribuibile essenzialmente agli scambi interni. (50) Corte di Giustizia, 12 luglio 2001, C-262/99, par. 67. In dottrina, cfr. F. Amatucci Sanzione tributaria e principio di proporzionalità, in Riv. dir. trib. int., 2014, 5; A. Salvati, Principio di proporzionalità e sanzioni da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria, in Rass. Trib., 2013, 572; F. Aquilanti, Le sanzioni tributarie amministrative per le violazioni della disciplina Iva al vaglio europeo di proporzionalità, in Rass. trib., 2014, 653; A. Fornieles Gil, Il principio di proporzionalità, in Aa.Vv., I principi europei del diritto tributario, Padova, 2013, 163; G. Petrillo, Il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa di accertamento tributario, Roma, 2015, passim. In generale, sul principio di proporzionalità v. A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’IVA europea, Pisa, 2012, 109 ss.
Dottrina
159
la misura sanzionatoria deve comunque rispondere al principio di proporzionalità, secondo cui la misura afflittiva deve essere graduata in funzione del danno erariale arrecato (51). Rispetto a tali principi, appare difficile sostenere la coerenza del sistema punitivo interno in materia di accise: dal punto di vista amministrativo, si prevede una sanzione fino a dieci volte l’imposta evasa (oltre indennità di mora e sovente con applicazione, da parte degli uffici periferici, dell’ulteriore sanzione per omesso versamento, a nostro avviso non dovuta in quanto essa attiene alla fase della riscossione: chi evade a seguito ad es. di omessa o infedele dichiarazione è punito con la relativa sanzione penale, per il gas, ma se evade è ovvio che non versa (52)); dal punto di vista penale, vengono sanzionate anche condotte poco significative, peraltro solo in materia di gas naturale, in relazione all’evasione di quantitativi anche poco rilevanti. Con riguardo alle sanzioni, manca dunque una visione d’insieme da parte del legislatore, il quale dovrebbe intervenire compiutamente al fine di rendere il sistema punitivo delle accise coerente non solo con i principi europei, ma anche con la disciplina interna delle sanzioni previste per gli altri tributi, che non hanno un carattere così afflittivo come quelle previste nella materia di cui ci si occupa. In conclusione, gli esempi tracciati mettono in luce che le questioni aperte in materia di accise coinvolgono molti aspetti, sia sostanziali che di carattere procedurale e applicativo. In assenza di una disciplina compiuta e coerente con i principi europei ed in mancanza di procedure certe e in linea con le garanzie previste dall’ordinamento nazionale per gli altri tributi, prevalgono nel campo delle accise il tecnicismo e la prassi, che mettono a repentaglio il principio di legalità dell’imposizione e la stessa certezza del diritto.
Maurizio Logozzo
(51) Per tutte, si segnala Corte di Giustizia, Sez. II, 12 luglio 2012, causa C-284/11, nella quale si afferma che in materia di IVA la sanzione (nel caso di specie, si trattava di interessi moratori) è proporzionata solo laddove non ecceda quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo della lotta alla frode e all’evasione fiscale. (52) Sulla controversa applicabilità della sanzione per omesso versamento, si rinvia a F. Cicognani, Le violazioni nelle accise, in Aa.Vv., Trattato di diritto sanzionatorio tributario (a cura di A. Giovannini), Milano, 2016, II, 1827.
L’intervento del Fisco su ordine del giudice tra l’ammissibile collaborazione con le Commissioni tributarie e l’illegittima riassegnazione della potestà impositiva Sommario: 1. Premessa. – 2. Controversie sulla stima dei fatti imponibili e criticità
circa l’obbligo del giudice di svolgere un’autonoma valutazione. – 3. L’intervento del Fisco su ordine del giudice non deve determinare un nuovo esercizio della funzione impositiva. – 4. L’intimazione di pagamento quale atto che contiene la rideterminazione della pretesa da parte del Fisco. – 5. Conclusioni. Nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto casi complessi di valutazione della fattispecie imponibile, accade di frequente che le Commissioni tributarie, in luogo della nomina del consulente di ufficio, richiedano all’Agenzia delle entrate di effettuare nuovi conteggi sulla base di precisi criteri direttivi indicati nella sentenza. Ciò posto si intende verificare la legittimità della “collaborazione” tra giudice e Fisco alla luce della normativa sull’accertamento e sul processo tributario. In the case of disputes involving complex cases of assessment of the taxable event, it is frequently the case that the judge, in place of the nomination of the office consultant, require the Revenue Agency to make new counts on the basis of precise managerial criteria set out in the judgment. Expected this is investigating the legitimacy of the “collaboration” between the judge and the Fiscal Authority on basis of the law on the assessment and the taxation process.
1. Premessa. – Il procedimento di accertamento tributario, come è noto, si caratterizza per il fatto che, dopo avere esercitato il potere impositivo, è preclusa al Fisco la possibilità di svolgere una nuova azione accertatrice sui fatti economici realizzati in quel periodo d’imposta, salvo il caso dell’accertamento integrativo e modificativo basato sulla sopravvenuta conoscenza di nuovi elemen-
162
Parte prima
ti (1). Qualora il contribuente proponga un ricorso giurisdizionale avverso la pretesa, si avvia la fase processuale che termina con una sentenza che conferma la legittimità dell’atto, ovvero ne dispone l’annullamento totale o parziale (2). Va, però, considerato che la normativa in tema di autotutela tributaria prevede la possibilità che l’Ufficio ritiri integralmente o parzialmente l’atto impositivo, qualora sia illegittimo o infondato (3); il ritiro può involgere sia atti definitivi per mancata impugnazione, sia atti sui quali penda un processo (4), ovvero sussista un giudicato favorevole al Fisco, qualora, in quest’ultima ipotesi, le motivazioni del ritiro siano differenti rispetto a quelle per cui il giudice ha respinto il ricorso del contribuente (5). Al ritiro dell’atto può seguire la notifica di un nuovo avviso di accertamento depurato dei vizi, rilevati anche nella fase processuale (6). Come è noto, in merito alla possibilità di rinnovazione dell’atto di accertamento, mediante emissione di un “accertamento sostitutivo” (7) sono prospettabili due soluzioni: da una parte, evocando il principio di stabilità degli atti amministrativi,
(1) Cfr. S. La Rosa, A proposito della distinzione tra integrazione degli accertamenti e autotutela tributaria, in Riv. dir. trib., 2003, II, 909 e ss.; Id., Ancora a proposito della distinzione tra accertamenti ordinari e speciali in materia di imposte dirette e IVA, in Riv. dir. trib., 2005, I, 953; G. Fransoni, Considerazioni su accertamenti generali, accertamenti parziali, controlli formali e liquidazioni della dichiarazione alla luce della legge n. 311/2004, in Riv. dir. trib., 2005, I, 591; S. Donatelli, L’avviso di accertamento tributario integrativo e modificativo, Torino, 2013, 161 e ss.; M. Bagarotto, La frammentazione dell’attività accertativa ed i principi di unicità e globalità dell’accertamento, Torino, 2014, 143. (2) Cfr. M. Basilavecchia, Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2013; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 204. (3) Sull’argomento cfr. D. Stevanato, L‘autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996; V. Ficari, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999; P. Rossi, Il riesame dell’atto di accertamento. Contributo allo studio del potere di annullamento di ufficio a favore del contribuente, Milano, 2008. (4) In caso di annullamento in autotutela dell’atto in corso di giudizio si determina la cessazione della materia del contendere con conseguente applicazione del principio di “soccombenza virtuale” e quindi con la condanna del Fisco al pagamento delle spese processuali. (5) Cfr. G. Fransoni, Giudicato tributario ed attività dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2001, 218. (6) Cfr. V. Ficari, Avviso di accertamento sostitutivo in sede di autotutela fra sistema normativo e diritto giurisprudenziale, in Dir. prat. trib., 1995, I, 1825; S. Donatelli, L’avviso di accertamento tributario integrativo, cit., 238 e ss.; C. Califano, La motivazione degli atti impositivi, Torino, 2012, 212. (7) Sulla natura dell’atto di rinnovazione quale “atto di convalida” o “mero atto di rettifica” dell’atto originario cfr. M. Basilavecchia, La rinnovazione dell’avviso di accertamento nelle imposte sui redditi e nell’imposta sul valore aggiunto, in Rass. trib., 1989, I, 552.
Dottrina
163
è sostenibile che la notifica di un avviso di accertamento ordinario consumi inesorabilmente il potere impositivo; d’altra parte, valorizzando il principio di capacità contributiva, può osservarsi che il ritiro dell’atto in autotutela determini una piena riemersione del potere di accertamento (8). La giurisprudenza, al riguardo, ha assunto una posizione intermedia, consentendo la possibilità di rinnovare l’imposizione, ma imponendo una serie di condizioni alla notifica di un accertamento sostitutivo, ed in particolare: il rispetto dei termini di decadenza dell’azione accertatrice (9); l’espresso annullamento dell’atto originario; la non elusività di un eventuale giudicato formale sull’atto. La sostituzione dell’atto impositivo è stata, peraltro, opportunamente circoscritta alle sole ipotesi in cui l’Ufficio provvede ad eliminare vizi che non hanno una valenza tipicamente sostanziale, cioè che non determinano un incremento del maggior tributo richiesto per una differente valutazione dei fatti imponibili già accertati (10). Con la notifica di un accertamento sostitutivo sarebbero, in sintesi, sanabili solo i vizi formali dell’atto originario che provocano la sua invalidità (11). Atteso ciò, vi è una netta differenza tra l’attività di mero ritiro in autotutela di un atto impositivo contenente una pretesa ingiusta o infondata, che presuppone l’esistenza di un vizio sostanziale, e la rinnovazione dell’imposizione che, invece, mira a porre rimedio ai vizi formali invalidanti dell’atto originario (12). Il ritiro dell’atto originario è, infatti, strumentale alla notifica di un nuovo avviso di accertamento. Di recente, però, si sta assistendo ad un ripensamento di questo orientamento interpretativo (13). Nella prospettiva di dare una maggiore prevalenza
(8) Se l’Ufficio non procedesse con la sostituzione dell’atto ritirato, si determinerebbe un’impropria alterazione dei criteri di riparto della spesa pubblica. (9) Per quanto riguarda le Imposte sui redditi e l’Iva i termini sono attualmente fissati nel 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. (10) Cfr. Cass. n. 24620/2006; n. 13891/2008; n. 22827/2013. (11) I casi più ricorrenti in cui si è praticata la sostituzione di atti di accertamento si individuano nell’omessa indicazione di tutte le aliquote d’imposta applicate, nell’irregolare sottoscrizione, nel vizio di notifica, etc.; in sostanza, atti viziati su aspetti che non involgono la dimensione quantitativa e qualitativa della fattispecie imponibile accertata dall’Ufficio e quindi il quantum dovuto dal contribuente a titolo di maggiore imposta. Sul punto cfr. M. Beghin, Conferme giurisprudenziali in ordine alla necessaria indicazione, negli avvisi di accertamento emessi ai fini Irpef, di “tutte” le aliquote applicate, in Riv. dir. trib., 1994, II, 714. (12) Nel caso di vizi che non determinano l’illegittimità dell’atto, ma solo la sua irregolarità, non è necessario procedere con la rinnovazione. (13) Il trend giurisprudenziale è stato avviato da Cass. n. 2531/2002.
164
Parte prima
alla tutela dell’interesse fiscale alla riscossione dei tributi, si è, infatti, affermato che, in ossequio al principio di imperatività dell’azione impositiva, il Fisco ha il potere di sostituire un precedente atto apportando innovazioni che possono investire tutti i suoi elementi strutturali, cioè destinatari, oggetto, contenuto e motivazione (14). L’Ufficio, in sostanza, secondo quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, facendo leva sul ritiro in autotutela dell’atto impositivo, potrebbe sempre rimediare ad un’erronea valutazione precedentemente compiuta attinente a qualsiasi profilo dell’atto. Con il nuovo atto impositivo, peraltro, il Fisco potrebbe innalzare la fattispecie imponibile accertata con una mera rivalutazione di fatti già accertati e senza la sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. In questa prospettiva, l’esercizio dell’autotutela avrebbe la conseguenza di attribuire in modo pieno il potere impositivo, salvo il rispetto dei termini di decadenza dell’azione accertatrice. A nostro avviso, si tratta di un orientamento non condivisibile, in quanto, oltre a violare il dovere di buon andamento (art. 97 Cost.), i principi di correttezza e trasparenza dell’azione amministrativa (l. n. 241/90), nonché quelli di affidamento e buona fede del contribuente (art. 10, l. 212/2000), svuota di significato la previsione normativa in tema di accertamento integrativo e modificativo, di cui all’art. 43, u.c., Dpr n. 600/73, che come detto subordina la possibilità di rinnovare l’esercizio del potere impositivo alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi (15). Può ritenersi compatibile con l’attuale assetto normativo la rinnovazione di un avviso di accertamento al fine di depuralo dai vizi formali invalidanti, ma non per modificarlo nei suoi elementi strutturali, incluso la motivazione (16). Quest’ultima possibilità è, infatti, sempre subordinata alla sopravve-
(14) Di recente cfr. Cass. n. 4272/2010, secondo cui la presenza di una causa di nullità formale dell’atto non costituisce affatto condizione – necessaria sempre ed in ogni caso – per l’esercizio del generale potere di autotutela dell’Ufficio, in quanto la correzione dei vizi degli atti costituisce espressione del doveroso esercizio del potere impositivo; Cass. n. 12661/2016, secondo cui l’autotutela tributaria può condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico dell’atto impositivo, ovvero anche alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato, e le innovazioni possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto. (15) L’art. 53 Cost. non può, pertanto, giustificare in assoluto il sacrificio dei principi e delle regole suesposte, offrendo una piena copertura a comportamenti superficiali dell’Amministrazione finanziaria. (16) Sulla natura formale o sostanziale del vizio di motivazione si discute sia nel diritto
Dottrina
165
nuta conoscenza di nuovi elementi, circostanza che legittima la notifica di un avviso di accertamento integrativo o modificativo. È auspicabile, pertanto, che la giurisprudenza torni ad affermare la soluzione in precedenza sostenuta, che ben bilanciava i valori che ruotano intorno alla rinnovazione dell’azione impositiva, cioè quello della stabilità degli atti amministrativi e della tassazione dell’effettiva fattispecie imponibile realizzata dal contribuente, assicurando, peraltro, una piena responsabilizzazione degli Uffici al momento della notifica di un avviso di accertamento (17). 2. Controversie sulla stima dei fatti imponibili e criticità circa l’obbligo del giudice di svolgere un’autonoma valutazione. – Ciò posto, in questo lavoro intendiamo verificare se sia ammissibile un nuovo “intervento” dell’Ufficio fiscale, governato dal giudice, finalizzato a rideterminare in diminuzione la pretesa impositiva, e se a tal fine occorre che il Fisco rispetti i termini di decadenza dell’azione accertatrice. L’esigenza per le Commissioni tributarie di richiedere un nuovo “intervento” del Fisco potrebbe riguardare tutte quelle liti che involgono la stima dei fatti economici oggetto di imposizione, ed i giudici, pur avendo individuato i corretti criteri da seguire, hanno difficoltà ad espletare i necessari calcoli matematici per rideterminare appunto la fattispecie imponibile, l’imposta e le sanzioni (18); situazione che spesso li induce a dichiarare tout court illegittimo l’atto di accertamento (19).
amministrativo che in quello tributario. In linea di principio, la motivazione dell’accertamento tributario sembra attenere ad aspetti sostanziali dell’atto, in quanto ha ad oggetto l’individuazione delle norme applicate dal Fisco per determinare il quantum della pretesa. Non è superfluo ricordare che l’art. 21 del DPR n. 636/1972 consentiva la rinnovazione dell’atto impugnato nella fase processuale, qualora nel ricorso veniva rilevato un vizio di incompetenza o altri vizi non attinenti all’esistenza o all’ammontare del credito e alla motivazione dell’atto impositivo. Questa disposizione non è stata riprodotta nel D. Lgs. n. 546/1992 sia per l’introduzione di una specifica normativa sull’autotutela tributaria, sia per dare piena attuazione al principio della parità delle parti nel processo. Sul tema per tutti cfr. S. Muscarà, Riesame e rinnovazione degli atti nel diritto tributario, Milano, 1992, passim; M. Basilavecchia, Gli effetti processuali della reiterazione dell’avviso di accertamento, in Riv. dir. trib., 1995, I, 165. (17) In termini cfr. S. Donatelli, L’avviso di accertamento tributario, cit., 265. (18) Cfr. Commissione tributaria provinciale di Caltanissetta, sentenza n. 372 del 2014, la quale, occupandosi della legittimità di un accertamento basato sul redditometro, ha chiesto all’Ufficio di procedere ad una nuova quantificazione delle imposte, degli accessori e delle sanzioni, tenendo conto dell’entità dei maggiori redditi ritenuta congrua in esito al processo. (19) Cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Roma, 2017, 374, il quale evidenzia
166
Parte prima
Prendiamo ad esempio il caso affrontato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 19750 del 2014, ove occorreva chiarire se, in presenza di un accertamento di maggiori ricavi, risultante dalla rettifica del valore normale relativo a transazioni economiche infragruppo, l’eventuale inidoneità di taluni criteri adottati dall’Ufficio comporti o meno l’obbligo per le Commissioni tributarie, quali giudici del merito, di rideterminare l’effettiva quantità dei ricavi non dichiarati (20). La Commissione tributaria regionale del Lazio aveva ritenuto che il metodo corretto per la determinazione del valore dei beni ceduti nell’ambito di società facenti parte di un gruppo fosse non quello del «costo maggiorato» (applicato dal Fisco), ma quello del «confronto del prezzo» (21), e per questi motivi aveva dichiarato l’illegittimità dell’accertamento, senza fornire un’autonoma quantificazione delle operazioni economiche applicando il criterio prescelto, anche avvalendosi di un consulente tecnico ovvero della collaborazione dell’Ufficio impositore. La risposta dei giudici di legittimità al quesito di diritto loro posto era prevedibile (22). Riaffermando un orientamento da tempo cristallizzato in giurisprudenza (23), è stato rilevato, infatti, che il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione tributaria, sia dell’accertamento dell’Ufficio, con la conseguenza che, in mancanza di vizi formali, il giudice
che, qualora il giudice si imbarchi in complesse rideterminazioni fattuali, di cui mancano le cognizioni, le informazioni, le interlocuzioni i tempi e le energie, il rischio è che sciolga il dilemma respingendo puramente e semplicemente il ricorso. (20) Ma potremmo anche riferirci agli accertamenti operati con studi di settore, ovvero basati sulle percentuali di ricarico, sul c.d. tovagliometro, etc. (21) In argomento cfr. G. Maisto, Il transfer price nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985; E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib., 2009, I, 133; A. Ballancin, La disciplina italiana del transfer price tra onere della prova, giudizi di fatto e l’(in)esistenza di obblighi documentali, in Rass. trib., 2006, 1982. (22) La ricorrente Agenzia aveva chiesto ai giudici di legittimità di dichiarare la censura della sentenza che aveva disposto l’annullamento integrale dell’atto impositivo. (23) Da ultimo ribadito da Cassazione 17 giugno 2016, n. 12561. La pronuncia ha ad oggetto l’esatta qualificazione del reddito dichiarato da un contribuente. Posto che il giudice di merito ha rilevato l’inesattezza della qualificazione fatta dall’Ufficio, con conseguente annullamento dell’atto impositivo, la Cassazione ha affermato che i giudici avrebbero dovuto verificare quale fosse la diversa natura (cioè la categoria) del reddito e/o eventualmente la differente entità rispetto a quella indicata nell’avviso di accertamento. Sul punto di recente in dottrina cfr. G. Porcaro, Il ruolo del giudice tributario nella dinamica della tutela giurisdizionale. Stato degli atti e prospettive, in Dir. proc. trib., 2016, 207.
Dottrina
167
deve ricondurre la pretesa tributaria alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte. Ciò vuol significare che il giudice deve individuare non solo i corretti criteri di valutazione dei fatti imponibili accertati, ma anche espletare i conseguenti conteggi ai fini della determinazione del tributo. Allontanandoci per il momento dal tema specifico di questo scritto, dobbiamo evidenziare che, in applicazione della teoria per cui il processo tributario è qualificabile come un giudizio di «impugnazione-merito» e non di «impugnazione-annullamento», solo in presenza di vizi «formali» invalidanti la Commissione tributaria deve limitarsi a dichiarare illegittimo l’atto, altrimenti occorre formulare una pronuncia di merito, “attributiva del torto o della ragione in funzione della verifica operata circa il modo di essere del rapporto obbligatorio in contestazione” (24). Spostando l’oggetto del processo dall’atto impositivo al rapporto giuridico tributario, il giudice, oltre l’attività demolitoria, finisce per svolgere una funzione amministrativa, in quanto provvede alla determinazione diretta del tributo sia pur con riferimento al segmento del rapporto di imposta rettificato dall’atto impositivo (25). La tesi dell’impugnazione-merito si è nel tempo consolidata in giurisprudenza sul condivisibile presupposto di “mantenere in vita” atti impositivi corretti sul piano formale, ma non sotto il profilo della quantificazione dei fatti imponibili accertati e dell’imposta dovuta (26).
(24) Così P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2005, 36, il quale evidenzia che il giudizio viene introdotto nella forma dell’impugnazione, ma si atteggia quale giudizio di accertamento negativo della pretesa avanzata con l’atto investito dal ricorso e della correlata obbligazione. (25) Non si tratta più di controllare il corretto esercizio del potere impositivo, ma di andare oltre, contribuendo all’esercizio del potere impositivo. Sul punto cfr. P. Russo, Impugnazione e merito nel processo tributario, in Riv. dir. trib., 1993, I, 755, il quale precisa che il potere sostitutivo del giudice è perfettamente in linea con la teoria della fonte legale del rapporto di imposta. Si veda altresì R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, cit., 373, il quale evidenzia che la rideterminazione dell’imposta per sentenza è un retaggio del precedente contenzioso amministrativo ed è adatta alle controversie semplici. Nelle controversie più complesse il ruolo sostitutivo del giudice rispetto alla determinazione dell’imposta può pregiudicarne l’indipendenza con degli inconvenienti soprattutto per le questioni di fatto basate su una pluralità di parametri di stima, ove il giudice potrebbe sottovalutarne alcuni e sopravvalutarne altri, mancando un reale contraddittorio sul modo in cui si sta orientando sulle questioni sottopostegli. (26) Cfr. F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 47, per
168
Parte prima
Va, tuttavia, precisato che questa tesi non può spingersi sino a ritenere che il giudice ha il potere di verificare se e in che misura il contribuente debba corrispondere il tributo in relazione appunto al “segmento del rapporto di imposta” accertato (27). L’attività sostitutiva del giudice, o la “riforma” se si preferisce, avviene nei limiti dei motivi e dei fatti addotti dall’Ufficio e delle contestazioni e dei fatti impeditivi prospettati dal contribuente (28). La formula impugnazione-merito, in particolare, non consente una modifica delle argomentazioni giuridiche svolte dall’Ufficio nella motivazione dell’atto impositivo, pena la violazione del diritto di difesa del contribuente (29). Né d’altra parte il giudice può procedere di sua iniziativa a mutare il metodo di accertamento utilizzato dal Fisco, ma deve limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il potere attivato e non esercitare un potere diverso (30). L’esigenza che potrebbe indurre a ritenere ammissibile la modifica, ad opera del giudice, delle argomentazioni giuridiche esposte nella motivazione
il quale la formula impugnazione-merito o impugnazione-riforma viene applicata a decisioni che in realtà sono di annullamento parziale. (27) Cfr. V. Ficari, Poteri del giudice ed oggetto del processo: autonomia versus regolamentazione?, in Rass. trib., 2007, 359. (28) Se ad esempio l’Ufficio rettifica il reddito di impresa disconoscendo la deducibilità di un costo perché non di competenza, il giudice non può affermare che il costo, pur essendo di competenza, non è deducibile perché non inerente. (29) Si rammenta che in alcune pronunce ove è stato contestato l’abuso del diritto la Commissione tributaria ha operato una modifica del fondamento giuridico della contestazione mossa dall’Ufficio, ritenuta legittima dalla Cassazione. Sul tema per tutti si veda M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013; G. Fransoni, Spunti in tema di abuso del diritto e intenzionalità dell’azione, in Rass. trib., 2014, 955; S. La Rosa, Elusione ed antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, in Riv. dir. trib., 2010, I, 793; F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, in Dir. prat. Trib., 2012, I, 685; A. Contrino, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, ivi, 2009, I, 463; G. Corasaniti, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, ivi, 2009, I, 213. Alla luce delle previsioni contenute nell’art. 10 bis, L. n. 212/2000, che esclude espressamente la possibilità di rilevare d’ufficio l’abuso del diritto, non è più ipotizzabile una riqualificazione giuridica della contestazione. Cfr. sul punto in senso critico A. Giovannini, L’abuso del diritto nella legge delega fiscale, in Riv. dir. trib., 2014, I, 231; Id., Note controcorrente su nullità dell’avviso senza contraddittorio e non rilevabilità d’ufficio dell’abuso, in Corr. trib., 2015, 4506, il quale qualifica il divieto di abuso del diritto come un principio generale del diritto, e quindi una norma in senso proprio, la cui applicazione può essere valutata dal giudice come regola di giudizio, applicabile al pari delle altre disposizioni, in forza dell’art. 113 c.p.c. (30) Cfr. Cass. n. 27569/2017.
Dottrina
169
dell’atto impositivo e del metodo di accertamento utilizzato, in sostanza, non è così dissimile da quella che emerge con riferimento alla modifica delle valutazioni dei fatti imponibili: si vuole, infatti, evitare, in questo caso, che una pretesa corretta sul piano della quantificazione dei tributi evasi venga annullata per “carenze normative”. Il giudice si sostituirebbe all’Amministrazione, offrendo un differente inquadramento giuridico delle questioni controverse, restando sempre nei limiti dei fatti dedotti in giudizio. Tuttavia, la possibilità di tale modifica è pacificamente esclusa, in quanto crea un vulnus al diritto di difesa del contribuente. In definitiva, l’affermazione dell’obbligo per la Commissione tributaria di rideterminare autonomamente la pretesa fiscale risponde ad una preoccupazione condivisibile, ma l’utilizzo della ambigua espressione «impugnazionemerito», se non opportunamente chiarita, potrebbe determinare confusione sui margini dell’intervento «sostitutivo» del giudice (31). 3. L’intervento del Fisco su ordine del giudice non deve determinare un nuovo esercizio della funzione impositiva. – Tornando al tema che ci occupa, e assunto che qualora il giudice non condivida il procedimento di valutazione della fattispecie seguito dal Fisco risulta doveroso il suo intervento “sostitutivo”, non possiamo trascurare che l’autonoma quantificazione dei fatti imponibili sulla base dei criteri ritenuti corretti possa risultare un’attività non facilmente attuabile. Come detto, un conto è individuare i corretti criteri di valutazione da seguire, altro è espletare i conteggi; e gli strumenti a disposizione dell’organo giudicante potrebbero non essere sufficienti. In questa misura, appare ragionevole che la Commissione tributaria si avvalga di un soggetto terzo per svolgere tale compito. Nessun problema emerge se il giudice nomini, nell’esercizio dei suoi poteri istruttori, un consulente tecnico (32). È, invece, da verificare se, per snellire la procedura, possa richie-
(31) Per ulteriori considerazioni si veda M. Basilavecchia, La sentenza tributaria terzo atto di accertamento?, in Riv. giur. trib., 2014, 49; F. Randazzo, La tutela cautelare dopo il primo grado passa attraverso la sospensione dell’atto impugnato, no della sentenza, in Corr. trib. n. 3/2014, 218. (32) Sull’argomento cfr. A. Colli Vignarelli, I poteri istruttori delle Commissioni tributarie, Bari, 2002, 147; E. Marello, L’oggetto della consulenza tecnica nel processo tributario, in Rass. trib., 2005, 1567; R. Schiavolin, Le prove, in Il processo tributario, a cura di Tesauro, Torino 1999, 504.
170
Parte prima
dere l’ausilio anche dello stesso soggetto che ha emanato l’atto impositivo. A prescindere dalle problematiche attinenti alla violazione del “principio di indipendenza” del giudice e dei suoi ausiliari, potrebbe, invero, escludersi un nuovo intervento dell’Ufficio per il mancato rispetto dei termini di decadenza dell’azione (termini che normalmente sono già decorsi una volta giunti alla sentenza). Questo aspetto, come rilevato, costituisce un impedimento all’accertamento sostitutivo (33). È, però, sostenibile che la “collaborazione” del Fisco su impulso della Commissione tributaria presenti una caratteristica profondamente diversa rispetto all’accertamento sostitutivo, in quanto quest’ultimo è frutto di un’attività spontanea dell’Ufficio e non certo di un’attività sollecitata dal giudice. Il carattere spontaneo dell’accertamento sostitutivo fa sì che essa costituisca sempre un’ipotesi di esercizio della funzione impositiva, nonostante col nuovo atto non si incrementi il quantum preteso con il primo; mentre l’intervento del Fisco su impulso della Commissione tributaria sembra qualificarsi come un’attività di ausilio del giudice nello svolgimento del suo compito di sostituire le determinazioni contenute nell’atto impugnato (34). Se si concorda sul fatto che l’intervento del Fisco su ordine del giudice non rappresenta esercizio della funzione impositiva, potrebbe superarsi l’impedimento rappresentato dal rispetto dei termini di decadenza. La rideterminazione del fatto imponibile ad opera dell’Ufficio impositore, tuttavia, per rispettare il principio di indipendenza del giudice e dei suoi ausiliari, deve attuarsi nel rispetto delle indicazioni fornite nella sentenza, altrimenti si determinerebbe un’elusione delle regole che presidiano l’esercizio della funzione impositiva. In definitiva, nei casi più complessi, il ruolo di “sostituzione” della sentenza rispetto all’avviso di accertamento può essere svolto anche tramite il coinvolgimento dell’Ufficio impositore, al quale il giudice – si ribadisce – deve fornire precisi criteri direttivi per la corretta determinazione dei fatti imponi-
(33) Cfr. S. Donatelli, L’avviso di accertamento tributario integrativo e modificativo, cit., 238 e ss. (34) Per una posizione critica nei confronti di questa soluzione cfr. A. Marcheselli, Contenzioso tributario, Milano, 2014, 296, il quale afferma che “tale orientamento non convince, posto che comporta la delega da parte del giudice ad una parte (e non a un terzo) della specificazione del contenuto della decisione, cosa che, per quanto le direttive possano essere precise, presta il fianco a non poche perplessità”.
Dottrina
171
bili, senza dimenticare che, pur essendo una parte del processo, l’Ufficio ha sempre il dovere di agire secondo criteri di trasparenza, correttezza, imparzialità e buon andamento. D’altra parte, ci si rivolge al giudice per un bisogno di tutela, e tale bisogno può ritenersi adeguatamente soddisfatto anche qualora la sentenza che ridimensiona l’atto, venga “attuata” con un intervento “asettico” del Fisco. Tale intervento non sembra determinare alcun vulnus per il diritto di difesa contribuente. 4. L’intimazione di pagamento quale atto che contiene la rideterminazione della pretesa da parte del Fisco. – Occorre chiarire a questo punto attraverso quale atto il Fisco deve richiedere al contribuente le somme rideterminate in base ai criteri contenuti nella sentenza e segnatamente se sia necessario un avviso di accertamento o un’intimazione di pagamento. Trattandosi di un’attività amministrativa, sia pur non impositiva, ma di mero supporto del giudice, riteniamo che si possa utilizzare l’atto tipizzato dalla normativa tributaria nelle ipotesi di riscossione delle somme dovute in base alle sentenze (35), e cioè l’avviso che contiene l’intimazione di pagamento delle somme entro sessanta giorni da notificare (anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento) entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta definitiva, secondo quanto dispone l’art. 25, 1° comma, lettera c), del Dpr n. 602/73 (36). L’avviso di pagamento ha, in questo caso, un contenuto più ampio rispetto a quello tipico, cioè quelle previsto per la riscossione dei tributi e delle sanzioni determinati nella sentenza, in quanto deve illustrare il conteggio espletato in ossequio ai criteri indicati dalla Commissione tributaria. Qualora i conteggi espletati non siano frutto dei criteri sanciti nella sentenza, l’avviso contenente
(35) Tale avviso è stato introdotto dall’art. 29 del D.L. n. 78/2010, che ha, tra l’altro, previsto l’assegnazione del titolo esecutivo all’avviso di accertamento, ridimensionando il procedimento di iscrizione a ruolo e notifica della cartella di pagamento. (36) La norma fa riferimento alla riscossione dei tributi risultanti da un “accertamento divenuto definitivo”: la definitività può derivare o dalla mancata impugnazione o dall’intervento di una sentenza che afferma la legittimità integrale o parziale dell’atto impugnato. L’applicazione dell’art. 25 per la riscossione dei tributi risultanti da sentenze è stata sostenuta di recente da Cass. n. 1151/2018. L’orientamento giurisprudenziale prevalente, tuttavia, ritiene che, qualora intervenga la sentenza, operi il termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 2953 c.c. (si veda per tutte Cass. n. 9076/2017; Cass. n. 19315/2017). In argomento cfr. M. Basilavecchia, Riscossione dei tributi dopo il giudicato, in Corr. trib., 2017, 2803.
172
Parte prima
l’intimazione di pagamento deve ritenersi impugnabile, per vizi propri, essendo equiparabile ad una cartella di pagamento. Non sono condivisibili le affermazioni della giurisprudenza di merito, secondo cui, nei casi di complessità delle questioni controverse, il Fisco – ove chiamato dal giudice a rideterminare la fattispecie imponibile - non può avvalersi della cartella di pagamento (o l’avviso di pagamento) per ricalcolare gli importi pretesi, ma deve utilizzare un avviso di accertamento ove illustrare le ragioni sottese al calcolo svolto (37). L’utilizzo di un avviso di accertamento presuppone, infatti, l’esercizio di un’attività impositiva stricto sensu, cioè di autonoma determinazione della fattispecie imponibile del tributo sulla base delle prove raccolte nel corso dell’istruttoria; circostanza che non si rinviene nella mera rideterminazione dei conteggi sulla base dei criteri fissati dal giudice. Se il contribuente non è in grado di appurare prontamente la bontà del calcolo esposto nell’avviso di pagamento, potrebbero, comunque, ravvisarsi spazi di tutela per il contribuente. L’avviso di pagamento con cui si dà esecuzione al contenuto di una sentenza può, infatti, essere impugnato per vizi propri sia per contestare il risultato cui perviene, sia per aspetti “motivazionali”, ove manchi una minima illustrazione delle modalità di ricalcolo di imposte, interessi e sanzioni. Non è, peraltro, da ritenersi obbligatoria la convocazione del contribuente in l’Ufficio per ragguagliarlo sul conteggio svolto. L’attivazione del contraddittorio sarebbe certamente una buona pratica, ma la sua mancanza non può determinare la nullità dell’avviso di pagamento. 5. Conclusioni. – La praticabilità di un intervento del Fisco finalizzato ad espletare i conteggi per la determinazione della fattispecie imponibile e del tributo sulla base di nuovi criteri individuati dalla Commissione tributaria trova riscontro nella giurisprudenza della Cassazione (38). È stato, infatti, chiaramente affermato che l’obbligo del giudice di esaminare nel merito la pretesa, operando una motivata valutazione sostitutiva, riconducendola alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, non significa che «sia precluso al giudice tributario, nel caso di parziale accoglimento delle doglianze del contribuente, di demandare all’Ufficio la rideterminazione
(37) (38)
Cfr. Commissione tributaria provinciale Treviso, sentenza n. 76/1/2017. Cfr. Cass. n. 4884/2013.
Dottrina
173
dell’imposta o della sanzione, a condizione però che ciò avvenga attraverso prescrizioni determinate (come la mera esecuzione di calcoli aritmetici), e comunque prive di elementi di tipo valutativo» (39). I giudici di legittimità non hanno ben argomentato sul piano sistematico la soluzione cui sono giunti, ma – come abbiamo tentato di dimostrare in questo breve scritto – nel contesto amministrativistico del diritto tributario, l’intervento del Fisco, dopo che si è consumato il potere impositivo, consistente nel ricalcolo delle imposte, accessori e sanzioni connesse alla rettifica del fatto imponibile secondo precisi criteri contenuti nella sentenza può ritenersi ammissibile, a condizione, però, che si tratti di un intervento “governato” dal giudice stesso. L’attività dell’Amministrazione finanziaria, in tal caso, consisterebbe non in un ulteriore esercizio della funzione impositiva, bensì in una “attività di ausilio al giudice”, come tale non soggetta alle prescrizioni del Dpr n. 600/73 ed in particolare al rispetto dei termini di decadenza. La collaborazione del Fisco, peraltro, essendo priva di valutazioni discrezionali, in quanto la Commissione tributaria fornisce precisi criteri direttivi per la corretta determinazione dei fatti imponibili e del tributo, può ritenersi compatibile anche con l’attuale normativa processual-tributaria, che non dispone al riguardo un divieto espresso (40). I giudici potrebbero in alternativa avvalersi di un consulente tecnico al quale dare l’incarico di effettuare i conteggi necessari per la corretta determinazione della pretesa, fissando parimenti nel mandato i criteri ai quali il professionista deve attenersi per svolgere il compito. Ma la nomina del con-
(39) Il caso esaminato riguardava un accertamento induttivo extracontabile effettuato nei confronti di una società esercente attività di servizi ed onoranze funebri, basato sul raffronto tra quanto dalla stessa riportato in contabilità e in dichiarazione e quanto risultava dalle informazioni acquisite presso i familiari delle persone decedute in alcuni Comuni ove la società operava, in merito all’impresa che aveva eseguito le onoranze funebri. La Commissione tributaria regionale della Calabria (sent. 5 dicembre 2005, n. 138) aveva in parte accolto le doglianze della società ricorrente, ma nella sentenza si era limitata a indicare precisi criteri da seguire per il ricalcolo del reddito imponibile e delle correlate sanzioni, assegnando a tal fine al Fisco l’onere di procedere al nuovo conteggio. (40) Sul punto cfr. R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, cit., 374, il quale propone di valutare de iure condendo di prevedere un obbligo o una facoltà di rimettere la pratica all’Ufficio, nei limiti della motivazione dell’atto impugnato; l’intervento dell’Ufficio su ordine della Commissione tributaria, in questa prospettiva, dovrebbe riguardare anche la modifica di questioni di diritto o l’eliminazione di vizi sostanziali totalmente invalidanti come il vizio di notifica dell’atto o la carenza di motivazione. Questa soluzione renderebbe il processo
174
Parte prima
sulente tecnico dovrebbe rappresentare una soluzione attivabile solo quando, in ossequio alla previsione di cui all’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992, «occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità», come nel caso dell’effettuazione di accertamenti contabili, di indagini di mercato, di ricostruzione di movimenti bancari, etc. (41); nell’ipotesi di cui discutiamo, più che di integrazione delle conoscenze, vi è solo la necessità di sviluppare conteggi sulla base di criteri ben delineati dal giudice. Il ricorso alla consulenza tecnica, a parte le lungaggini che comporta, determina un inutile aggravio di spese, spesso di rilevante importo. Posto che di norma tali spese dovrebbero essere addossate al Fisco, perché l’esigenza di nominare il CTU sarebbe determinata da errate valutazioni del soggetto sui ricade l’onere della prova, ed atteso che l’Ufficio impositore può rideterminare “in modo neutro” la fattispecie imponibile, l’imposta e le sanzioni, ci sembra irragionevole far gravare su di esso tali spese. Non bisogna, infine, trascurare che, a differenza di quanto accade nel processo civile, ove generalmente la lite involge soggetti privati portatori di interessi egoistici ed è quindi pienamente comprensibile un ampio uso del CTU, nel processo tributario siamo di fronte ad un soggetto portatore di interessi pubblici che si contrappone ad un soggetto privato; pertanto, quando la Commissione tributaria si avvale della collaborazione del Fisco per rideterminare la pretesa con criteri differenti, pur non registrandosi un nuovo esercizio della funzione impositiva, non vengono certo meno i principi di buon andamento, imparzialità e trasparenza che connotano in ogni caso l’attività della Pubblica amministrazione.
Giuseppe Ingrao
tributario più simile alla generalità dei processi amministrativi, dove, se il giudice ravvisa un comportamento scorretto del pubblico ufficio, annulla il relativo atto, ma l’amministrazione può provvedere nuovamente, proprio in esecuzione della sentenza, che evita decadenze. (41) Cfr. A. Colli Vignarelli, I poteri istruttori, cit., 154.
La funzione della disciplina fiscale delle società di comodo Sommario: 1. La funzione e la tecnica normativa della disciplina delle società di comodo ex art. 30, l. 23.12.1994, n. 724. Premessa. – 2. Le società di comodo nel diritto civile. L’impostazione tradizionale del tema. Le società di mero godimento dei beni. – 3. La disciplina fiscale delle società commerciali di mero godimento dei beni patrimoniali di cui all’art. 30, l. 23.12.1994, n. 724. – 3.1. La disciplina episodica e la disciplina strutturale. I comparti della disciplina strutturale. – 3.2. La funzione della disciplina. La sottrazione delle società di mero godimento dallo statuto fiscale dell’impresa commerciale. – 3.3. Le conferme di tale ricostruzione con riferimento all’ambito di applicazione della disciplina. – 4. La tecnica normativa utilizzata e la coerenza con la funzione generale. – 4.1. La prima direttrice normativa. Le agevolazioni fiscali rivolte allo scioglimento e alla trasformazione delle società di comodo. – 4.2. La seconda direttrice normativa. I presupposti della disciplina. Le predeterminazioni normative e le società in perdita sistematica. – 4.3. (segue) I regimi sostitutivi e le preclusioni Iva. – 4.4. (segue) La difesa endoprocedimentale del contribuente. – 5. Considerazioni conclusive. La funzione della disciplina delle società comodo. – 5.1. La necessità di una correzione della disciplina alla luce della funzione generale. La disciplina delle società di comodo ex art. 30, l. 23.12.1994, n. 724 è rivolta alle società commerciali di mero godimento dei beni e persegue la funzione di sottrarre queste ultime dall’applicazione dello statuto fiscale dell’impresa commerciale. La definizione della ratio della disciplina è un passaggio molto importante per la comprensione della normativa e per una sua rivisitazione. La regolamentazione dovrebbe essere rivista alla luce della funzione generale sia da un punto di vista formale, sia da un punto di vista sostanziale. In particolare, sul piano della tecnica normativa, la disciplina risulta eccessiva e sbilanciata e tale da assumere caratteri parasanzionatori. The “shell corp” legal regulation ex art. 30.l. 23.12.1994, n. 724 is addressed to commercial companies specifically aimed to enjoyment of the assets. The purpose of regulation is the subtraction of commercial companies from the application of particulary Italian rules (for commercial companies). The understanding of ratio regulation is the fundamental and most important need in the process of comprehension and review legislation. The “shell corp” legal regulation should be revised in accordance with the ratio regolation in formal and substantial terms. In particular, the regulation seems very excessive and damaging to commercial companies.
176
Parte prima
1. La funzione e la tecnica normativa della disciplina delle società di comodo ex art. 30, l. 23.12.1994, n. 724. Premessa. – L’individuazione della ratio della disciplina sulle società di comodo costituisce da sempre uno dei temi più discussi e dibattuti della materia tributaria (1). In via esemplificativa si ricorda che la normativa sulle società di comodo, contenuta nell’art. 30, l. 23.12.1994, n. 724, è rivolta alle società commerciali che non superano determinati parametri di redditività, predefiniti dalla legge, ovvero che si trovano in una situazione di perdita sistematica (2). Tali soggetti, a meno che non rientrino nell’ambito dell’area delle cause di esclusione previste dalla legge, sono chiamati ad applicare una disciplina normativa specifica ai fini delle imposte dirette ed IVA, più penalizzante rispetto a quella generale, in base alla quale tali ultimi tributi sono quantificati secondo criteri autonomi. Alle società in esame è da sempre riconosciuta la possibilità di fornire una prova contraria rispetto alla applicazione della suddetta normativa, dimostrando la presenza di circostanze obiettive che hanno impedito il raggiungimento dei suddetti parametri in una fase precedente rispetto a quella di liquidazione delle predette imposte. Attualmente tale facoltà può essere esercitata attraverso l’utilizzo di uno specifico procedimento di interpello probatorio ex art. 11, l. 27.7.2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Sulla funzione assolta da tale disciplina si sono espresse nel tempo diverse ricostruzioni, sostenute da autorevole dottrina (3).
(1) La normativa che ci apprestiamo ad analizzare è espressamente titolata “società di comodo”. Per tale motivo nella presente trattazione si utilizzerà quest’ultimo termine (società di comodo) con riferimento alle fattispecie regolate dalla normativa analizzata. Si precisa che il termine società di comodo è utilizzato in modo ricorrente nella materia tributaria, sia nell’ambito delle imposte dirette, sia di quelle indirette, sia in relazione a discipline specifiche (che tuttavia non recano mai tale termine nel testo normativo). In linea generale, il termine nella prassi tende ad indicare società nate per eludere o evadere obblighi di imposta senza un reale ed effettivo assetto societario. Si tratta comunque di fattispecie differenti da quella analizzata in questa sede che invece riguarda, come si rileverà, società commerciali preposte al mero godimento dei beni patrimoniali, realmente esistenti ed operanti. (2) La disciplina in materia di società di comodo è oggi contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, integrato dal presupposto introdotto dall’art. 2, comma 36 decies e undecies, del d.l. 13.8.2011, n. 138 (convertito con modificazioni nella l. 14.9.2011, n. 148) e in numerosi atti interpretativi dell’Amministrazione finanziaria (circolari ministeriali, risoluzioni e provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle entrate). (3) Diversi studi hanno verificato le ragioni giustificative della disciplina in esame. Si precisa che ogni Autore ha prediletto una ricostruzione, pur sottolineandone di volta in volta i limiti e gli aspetti dubbi. In linea generale una parte della dottrina ha ritenuto che la disciplina in esame avesse una funzione antievasiva (cfr. R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva,
Dottrina
177
L’esigenza di riflettere sul senso della regolamentazione si è resa necessaria, in particolare, a causa di un’evoluzione legislativa frenetica e disarticolata, che ha registrato continui interventi normativi e numerosi atti interpretativi dell’Amministrazione finanziaria volti a chiarire una disciplina stratificata e divenuta, nel tempo, complessa e molto tecnica (4). L’evoluzione normativa degli ultimi anni, se da un lato ha portato a considerare determinati aspetti della disciplina espressione di una totale irrazionalità normativa e portatori di un mero interesse fiscale (5), dall’altro lato - ad avviso di chi scrive - ha messo in luce dei caratteri peculiari della normativa stessa che costituiscono un valido supporto per un ulteriore tentativo di ricostruzione della ratio della disciplina.
in Dialoghi dir. trib., 2006, 1097; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi dir. trib., 2006, 1325; A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 141; A. Renda, La disciplina delle società non operative e l’abuso del diritto: un difficile connubio, in Dir. prat. trib., 2012, 996); altra parte della dottrina ha invece rilevato una funzione antielusiva (cfr. F. Tesauro, Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, all. il fisco, 1995, n. 22, 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, in G. Falsitta, Per un fisco civile, Milano, 1996, 12; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in Riv. dir. fin., 2010, 501); nell’ambito di tale ultima ricostruzione alcuni Autori hanno sostenuto che l’obiettivo della normativa medesima fosse il contrasto al fenomeno civilistico delle società senza impresa (cfr. L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, 5; Id., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 354; L. Peverini, Società di comodo ed imposta patrimoniale: il contrasto tributario all’utilizzo distorto dello strumento societario, in Giur. comm., 2013, 260). Si è inoltre rilevato come nella normativa ricorressero molteplici funzioni (sarebbe un caso di “polimorfismo normativo”, M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in Aa.Vv., Le società di comodo, cit., 78) e che da numerosi anni la disciplina fosse anche sostenuta da un forte interesse fiscale alla acquisizione di gettito in un momento di importante crisi economica (cfr. R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in Aa.Vv., Le società di comodo, cit., 59). (4) La stratificazione normativa, la continua mutevolezza e il contenuto tecnico delle disposizioni sono elementi che hanno caratterizzato negativamente la storia della disciplina delle società di comodo nel diritto tributario, come osservato dai diversi Autori che si sono occupati del tema. In tal senso, ex pluribus, F. Tesauro, Prefazione, cit., 9, il quale evidenzia “un modo di legiferare tecnicamente degradato e quindi bisognoso di intenso e difficile lavoro di commento”; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, cit., 13 (5) È stato, infatti, affermato che la normativa esprimerebbe “una mens legis legata ad esigenze di cassa e finalizzata ad assicurarsi un concorso alle spese pubbliche anche in assenza di realizzazione del presupposto”. Così R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, cit., 59.
178
Parte prima
Sulla base di tali considerazioni il presente contributo intende proporre una ipotesi ricostruttiva della normativa sulle società di comodo. Tale ipotesi presenta una premessa logica in base alla quale, secondo le categorie giuridiche tradizionali, deve essere distinta la funzione (o ratio legis) (6) - che qualifica le finalità e gli obiettivi della disciplina sulla base dei valori generali dell’ordinamento giuridico – dai contenuti specifici (o mens legis) della normativa, che si esprimono soprattutto nelle disposizioni e negli istituti giuridici prescelti per attuare la ratio legis (7) e, quindi, nella tecnica normativa concretamente individuata. La funzione perseguita dalla disciplina in esame, come denota l’iter normativo dalla stessa seguito, è tipica del diritto tributario ed autonoma rispetto al diritto civile, ove da sempre esiste una importante questione giuridica legata all’esistenza ed al contrasto delle società di comodo. Nel tema in esame i rapporti tra il diritto civile e il diritto tributario si costruiscono, come si dimostrerà, in modo molto peculiare. È innegabile una evidente connessione tra le discipline che conduce ad importanti evoluzioni dell’ordinamento giuridico complessivamente inteso, ma il diritto tributario qualifica il tema in modo autonomo rispetto al diritto civile, conferendogli una peculiare direzione propria. La definizione della funzione della normativa in esame, in termini di disposizioni finalizzate alla sottrazione parziale o totale delle società commerciali di mero godimento dalla disciplina dello statuto fiscale dell’impresa, trova conferme nella evoluzione normativa, nella regolamentazione attuale nonché nella tecnica normativa utilizzata in materia di imposte dirette ed Iva che si comprende soltanto quale (ed entro i limiti del) perseguimento della funzione suddetta. Si procede, quindi, a definire la funzione della disciplina normativa sulle società di comodo e ad analizzare la coerenza della tecnica normativa utilizzata, dopo aver effettuato una breve sintesi dello stato del tema nel diritto civile.
(6) È noto il ruolo fondamentale che la nozione di ratio legis riveste da sempre negli studi giuridici, quale canone ermeneutico per la produzione e l’interpretazione di norme. Sulle diverse ricostruzioni e sull’evoluzione storica del ruolo della ratio legis, A. Moscarini, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Torino, 1996, 17; B. Biondi, “Ratio legis”, in Nov. D.I., XIV, Torino 1967, 895; F. Calasso, Causa legis. Motivi logici e storici del diritto comune, in Riv. stor. dir. it., 1956, XXIX, 25. (7) La “mens legis” esprime, invece, il contenuto del precetto normativo nonché la concreta volontà del legislatore nell’attuazione della generale ratio legis. La mens legis deve essere desunta dalle parole della legge e del testo normativo. Cfr. A. Moscarini, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, cit., 24.
Dottrina
179
Si precisa sin d’ora, come a tutti noto, che la disciplina presenta incoerenze logiche e problemi strutturali che costituiscono da sempre oggetto di critiche e che fuoriescono da ogni possibile giustificazione. Di tali questioni si darà conto nel corso della trattazione e, in particolare, nella parte dedicata alla tecnica normativa e alle conclusioni generali. 2. Le società di comodo nel diritto civile. L’impostazione tradizionale del tema. Le società di mero godimento dei beni. – Il fenomeno delle società di comodo ha la sua origine nel diritto civile e commerciale, nell’ambito dei quali si rinviene la nozione di società contenuta nel codice civile. In diritto civile il termine “società di comodo” delinea una molteplicità di ipotesi, relative a fattispecie caratterizzate da un uso improprio della veste societaria. In particolare, tale termine definisce fattispecie in cui l’utilizzo della forma societaria avviene per motivi differenti rispetto a quelli che geneticamente e fisiologicamente ne governano l’acquisizione, secondo i principi generali del diritto civile (8). Nella dottrina tradizionale non si è dubitato che la società di comodo alterasse il sistema di valori sotteso alla logica societaria, rompendo l’equilibrio che reggeva l’impianto della disciplina del codice civile, caratterizzato da una nozione generale di società, da una funzione tipica che quest’ultima svolge sul mercato, da una specifica normativa calibrata sulla natura e struttura dell’istituto (9).
(8) Il tema delle società di comodo, a livello civilistico, è stato definito da importanti contributi monografici della dottrina. Il lavoro che si ritiene aver dato origine al tema nella sua attuale configurazione (in quanto lo ha collocato nell’ambito dell’area dei vizi della causa negoziale del contratto di società) è un contributo a quattro mani di A. Sraffa - P. Bonfante, Società anonime in fraudem legis?, in Riv. dir. comm., 1922, I, 651 e da un articolo di P. Greco, Le società di comodo e il negozio indiretto, in Riv. dir. comm., 1932, I, 757. Con riguardo all’aspetto trattato in questo lavoro (quello relativo alle società di mero godimento, che costituiscono soltanto una tipologia di società di comodo, come si rileverà nel prosieguo), in una fase successiva, la dottrina si è occupata principalmente di delimitare i confini tra la società e la comunione. In particolare, nella vigenza della precedente versione del codice civile, F. Carnelutti, Personalità giuridica ed autonomia patrimoniale nella società e nella comunione, in Riv. dir. comm., 1913, I, 86; Id., Azienda commerciale in comunione, in Riv. dir. comm., 1915, II, 726. Successivamente, alla luce della attuale regolamentazione contenuta nel codice civile, S. Pescatore, Attività e comunione nelle strutture societarie, Milano, 1974, 27; A. Amatucci, Società e comunione, Napoli, 1971, 30; G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 6. Più recentemente hanno definito le società di comodo nel sistema giuridico, G. Iudica, Società di comodo, in Quadrimestre, 1988, 147; P. Ghionni, Società di mero godimento tra teoria generale e nuovo diritto societario, in Riv. delle società, 2008, 1315; K. Martucci, Le società di godimento nel diritto italiano oggi, in Riv. dir. civ., 2009, 1. (9) In tal senso molto adeguata è la definizione di A. Iudica, Società di comodo, cit.,
180
Parte prima
Nella nozione civilistica di società di comodo si è sempre distinta una fattispecie di particolare rilevanza, quella delle società di mero godimento dei beni patrimoniali, che ha costituito l’ipotesi più diffusa e più utilizzata di società di comodo (10). Si ritiene, peraltro, che tale tipologia di società sia quella presa in esame dalla materia tributaria che, nella sua lunga e complessa evoluzione storico – normativa sul tema delle società di comodo di cui all’art. 30, della l. 23.12.1994, n. 724, ha inteso sempre far riferimento, con tale ultimo termine e secondo la ricostruzione sostenuta nel presente lavoro, alle società di mero godimento dei beni. Nelle società di mero godimento non si persegue lo scopo a cui il contratto (sociale) è preordinato dal nostro codice civile; in tal senso l’utilizzo “di comodo” è finalizzato a costituire una società nella realtà giuridica formale, pur essendo quest’ultima preposta allo svolgimento di una attività di mero godimento dei beni da parte dei soci. La società sarebbe quindi finalizzata alla utilizzazione dei beni al pari di come avviene in un regime di comunione a scopo di godimento. Nella valutazione della ammissibilità di una società di mero godimento si incontrano principi nodali del nostro codice civile, come messo a punto nel 1942, relativi ai rapporti tra il contratto di società e la comunione a scopo di godimento. Sebbene il nostro sistema civilistico abbia previsto un principio generale di libertà di scelta delle forme di esercizio delle attività economiche ed abbia sancito anche altro principio generale relativo alla ammissibilità dei contratti atipici (11), in relazione al contratto di società ha inteso definire un principio ben preciso, contenuto nell’art. 2248 c.c. A norma dell’art. 2248 c.c. si stabilisce che la comunione mantenuta al solo scopo di godimento è regolata dalle disposizioni in materia di diritti reali
148. L’Autore evidenzia come la società di comodo sia una società realmente esistente, tipica e regolare, che persegue una finalità atipica o deviante, rispetto ad un modello astratto ritenuto tipico e normale. (10) Nella tradizione giuscommercialistica, la nozione di società di comodo è ampia ed include due distinti fenomeni: le società che si caratterizzano per una deviazione rispetto al requisito soggettivo della pluralità di soci e le società che presentano una deviazione rispetto al requisito oggettivo della causa (cioè lo svolgimento di una attività economica a scopo di lucro). Cfr. G. Iudica, Società di comodo, cit., 148 (11) Tradizionalmente, su tali aspetti, G.B. Ferri, Il negozio giuridico tra la libertà e norma, Rimini, 1987, 44; F. Galgano, Rapporti economici - art. 41 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Roma – Bologna, 1982, 3.
Dottrina
181
e, in particolare, in materia di comunione semplice. La disposizione contiene un divieto di regolare con le norme in materia di società le comunioni di godimento, che si traduce, a livello pratico, in una preclusione generale alle società aventi ad oggetto il godimento individuale di beni (12). È questa una disposizione fondamentale nel sistema giuridico, che pone un confine significativo tra la disciplina dei diritti di proprietà e quella della società commerciale e che ha sempre precluso società di mero godimento dei beni e sostenuto una generale politica di contrasto a tale fenomeno nell’ambito del diritto civile. Il ruolo del suddetto art. 2248 c.c. è rimasto ad oggi parzialmente invariato nonostante l’istituto della società si sia gradualmente aperto a nuove frontiere. L’epoca attuale ha infatti rilevato una importante tendenza “pansocietaria” che ha portato alla considerazione della società quale modello organizzativo molto dinamico ed efficiente che in alcune discipline può anche prescindere dai requisiti che tradizionalmente ne connotato il contenuto (13). In tale assetto generale e sulla base di quest’ultima tendenza sembra essersi registrata una importante evoluzione nel sistema giuridico generale ad opera della materia tributaria e della disciplina specifica sulle società di comodo (di seguito analizzata): l’ammissione delle società semplici di mero godimento, che costituirebbero delle società preposte al mero godimento dei beni patrimoniali. In questo modo l’art. 2248 c.c. sarebbe oggi rivolto soltanto alle società commerciali (e non più a tutte le società). Tale passaggio, messo in luce da autorevole dottrina civilistica, sarebbe il riflesso della evoluzione della normativa tributaria che ci apprestiamo ad
(12) Cfr., D. Santosuosso, art. 2248. Comunione a scopo di godimento, in Commentario del Codice civile, a cura di E. Gabrielli, Milano, 2015, 91, che evidenzia “come la norma abbia una importante funzione segnaletica di sistema”; G. Marasà, Le società. Le società in generale, in Aa.Vv., Trattato di diritto civile, a cura di G. Iudica – P. Zatti, Padova, 2000, 22, il quale rileva che l’intento del legislatore del 1942 fosse quello di portare fuori dal fenomeno societario le situazioni di mero godimento di beni, riservando una disciplina esclusiva alle attività produttive di ricchezza. (13) In tal senso l’opera che maggiormente rappresenta questo passaggio evolutivo è quella di G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1973, I, 153. Sul tema, G. Marasà, Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, 48; A. Morello, Le società atipiche, Milano, 1983, 5; C. Montagnati, La verifica del “tipo sociale”, in Riv. dir. civ., 1988, 36; A.A. Carrabba, Scopo di lucro e autonomia privata, Napoli, 1994, 65. Cfr. M. Cian, La società come struttura organizzativa, in Aa.Vv., Diritto commerciale, a cura di M. Cian., Torino 2014, 18, il quale asserisce che sono configurabili società senza impresa, in tutti i casi in cui l’attività svolta ha carattere professionale.
182
Parte prima
analizzare sul diritto commerciale e sui principi generali contenuti nel codice civile (14). 3. La disciplina fiscale delle società commerciali di mero godimento dei beni patrimoniali di cui all’art. 30, l. 23.12.1994, n. 724. – Sulla scia della tradizione giuridica civilistica la disciplina tributaria a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso ha definito un settore normativo rivolto alle società commerciali di mero godimento dei beni (15). Dopo alcuni episodici interventi legislativi, è stata emanata una normativa generale contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724. In quest’ultima si è inteso regolare, secondo le impostazioni assunte nel presente contributo, le società commerciali che detengono beni patrimoniali improduttivi, che (secondo la logica di fondo della norma) non svolgono attività commerciale ma di mero godimento dei medesimi beni. La definizione di società di mero godimento è ricavata dal diritto civile. In questo senso si devono qualificare come di mero godimento le società che svolgono una attività volta ad utilizzare direttamente i beni sociali ovvero ad amministrarli al fine di percepirne una rendita o un’altra forma di utile (attività di godimento). Le suddette società si caratterizzano per un elemento qualitativo, la tipologia di attività esercitata, che si definisce “di tipo debole” in quanto è limitata alla utilizzazione o alla amministrazione dei beni (16).
(14) Così K. Martucci, Le Società di godimento nel diritto italiano oggi, cit., 468. Sul tema, F. Raponi, Trasformazione di società commerciale immobiliare in società semplice - problematiche fiscali, in Studi di impresa, 2016, 92; G. Baralis, Riflessioni sui rapporti tra legislazione tributaria e diritto civile. Un caso particolare: le società semplici di mero godimento, in Riv. dir. comm., 2004, 171; Id., L’eretica società semplice di mero godimento immobiliare: riflessioni, in Studio di impresa, n. 73/2016, I. Tale ultimo Autore, in particolare, si occupa ampiamente della casistica attualmente riferibile alle società semplici di mero godimento. In merito alla questione generale relativa alla loro ammissibilità, l’Autore asserisce “che in questo modo si conclude la lunga marcia della società semplice di godimento: l’affinamento dogmatico da parte della dottrina commercialistica con la codificazione del 1942 ha reso eretica la società semplice di mero godimento immobiliare, ma la forza del tempo che muta la natura delle cose, una ricorrente legislazione speciale, sia pur laterale al codice civile, ha spezzato l’eresia”. (15) Cfr., sul punto, R. Braccini, Le società di comodo nella recente legislazione tributaria, in Riv. dir. fin., 1986, I, 47. (16) Cfr. P. Ghionni, Società di mero godimento tra teoria generale e nuovo diritto societario, cit., 1321. Sulla differente attività della società (attività in senso tecnico ovvero in senso proprio), S. Pescatore, Attività e comunione nelle strutture societarie, cit., 106. L’attività di godimento (debole) si contrappone a quella di tipo forte, tipica delle società, che invece si
Dottrina
183
L’utilizzazione in godimento è sostanzialmente quella da parte dei soci o dei familiari; generalmente esula da tale fattispecie l’ipotesi del godimento da parte dei terzi in quanto, avendo riguardo a soggetti estranei alla sfera personale del socio, dovrebbe costituire un’attività svolta sul mercato secondo logiche imprenditoriali. Il godimento rappresenta, quindi, un modo di essere dell’attività societaria, che si manifesta nel compimento di atti limitati alla disposizione o all’utilizzo diretto dei beni detenuti. L’impostazione è confermata da numerosi elementi della disciplina. Il metodo (tradizionalmente utilizzato) per l’individuazione delle società di comodo, ex art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, è il mancato superamento del noto test di operatività che valuta la produttività dei beni patrimoniali dalle stesse detenuti in relazione a parametri minimi individuati dalla legge. Il suddetto test contiene una predeterminazione normativa di ricavi, il cui mancato superamento attesta un’improduttività dell’ente societario e rileva, in assenza del ricorrere di cause di esclusione, quale indizio del probabile esercizio di un’attività di mero godimento. La disciplina ha denotato la centralità dei beni patrimoniali della società nella costruzione delle diverse versioni della normativa fiscale (delle società di comodo). I beni patrimoniali, infatti, costituiscono il punto di partenza sia per l’accesso alla disciplina, sia per la definizione della base imponibile delle imposte dirette, realizzando una regolamentazione presumibilmente rivolta alle società che detengono beni patrimoniali improduttivi o non sufficientemente produttivi. Specularmente l’intero impianto delle cause di esclusione dalla disciplina, che oggi si articola in tre livelli (cause di esclusione definite dalla legge, cause di esclusione definite dai provvedimenti amministrativi del Direttore dell’Agenzia delle entrate e causa generale di esclusione), sintetizza tutte ipotesi di accertata (dimostrata o dimostrabile) vitalità economica dell’impresa nonostante i modesti risultati reddituali della medesima. Il mancato superamento del test di operatività definisce la non operatività della società e comporta come conseguenza la determinazione delle imposte dirette secondo una differente logica, sostanzialmente basata sulla potenzialità produttiva dei beni patrimoniali ed affine alla disciplina del catasto immobi-
caratterizza per l’esecuzione di atti materiali e giuridici sostenuti da un elemento teleologico comune, consistente nel raggiungimento dell’oggetto sociale.
184
Parte prima
liare. Si definirà, infatti, una base imponibile molto affine al valore dei redditi presunti dal test di operatività. Ai fini Iva, invece, si è proceduto negli anni a sancire importanti preclusioni rispetto all’ordinario regime impositivo, che hanno determinato un sostanziale aggravamento del carico tributario, nella convinzione di fondo che le società di comodo non svolgano una attività d’impresa e siano pertanto dei soggetti avulsi dal contesto del mercato e della concorrenza, elementi fisiologici del ciclo di funzionamento dell’Iva. Le società improduttive, secondo parametri di volta in volta individuati, sono state oggetto di provvedimenti normativi che fino al 1994 ne hanno favorito la trasformazione in società semplice o lo scioglimento (17). Si tratta, per l’appunto, dei provvedimenti (prima indicati), che hanno preceduto l’entrata in vigore della normativa generale nel 1994. A partire da quest’ultimo momento – sulla base dei requisiti che hanno definito la soggezione a tale ultima disciplina ma nella medesima direzione rispetto ai precedenti provvedimenti – si è proceduto a prevedere periodicamente normative che hanno sancito la possibilità di sciogliere ovvero di trasformare in società semplici le società improduttive, fruendo di regimi fiscali agevolati. Si è così maturato un doppio binario normativo che ha definito la disciplina nazionale delle società di mero godimento dei beni nell’ambito dell’area dei tributi periodici dell’impresa. 3.1. La disciplina episodica e la disciplina strutturale. I comparti della disciplina strutturale. – Con la disciplina contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724 e con alcune normative precedenti si è così definito un doppio binario normativo rivolto alle società commerciali di mero godimento dei beni, che si è espresso seguendo due direttrici generali. La prima direttrice normativa ha inteso agevolare lo scioglimento delle società a bassa redditività attraverso la concessione di agevolazioni fiscali, secondo un modello di sanzioni positive di carattere premiale, già conosciuto nel nostro sistema giuridico con la disciplina sul condono tributario (18).
(17) Cfr., su tali aspetti, R. Braccini, Le società di comodo nella recente legislazione tributaria, cit., 47; M. Trivellin, L’uscita dal regime delle società di comodo. Analisi di un’agevolazione fortemente discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di L. Tosi, cit., 15; N. Fortunato, Profili tributari delle assegnazioni dei beni ai soci, Torino, 2012, 187. (18) L’utilizzo del diritto in funzione premiale è posto in luce da sempre nella dottrina
Dottrina
185
In ossequio a tale linea guida sono stati così introdotti provvedimenti che hanno presentato caratteri ricorrenti (19). Si è trattato di normative fiscali episodiche, sempre temporanee (ovvero di durata circoscritta nel tempo), in alcuni casi contenute nel testo dell’art. 30 stesso e in altri casi in testi normativi autonomi. La continua e frequente normazione secondo le linee guida di questa direttrice conduce a ritenere che anche tale regolamentazione abbia assunto progressivamente caratteri di relativa stabilità nel sistema giuridico (20). Con la seconda direttrice normativa si è inteso regolamentare la vita delle società improduttive che detengono beni patrimoniali. Tali società sono state regolate con una disciplina di sistema che ha presentato, sin da subito, un carattere indiscutibilmente penalizzante. L’art. 30 contiene una disciplina speciale di carattere strutturale, che ha gradualmente interessato (a partire dal 1994) tutte le imposte periodiche relative alla vita dell’impresa. Si è trattato di una disciplina fondata su presunzioni legali e caratterizzata da predeterminazioni normative che – nelle sue diverse versioni – ha tentato un difficile allineamento con i principi generali recati nell’art. 53 della Costituzione. Nelle diverse fasi storiche, in attuazione e contemperamento di valori giuridici della materia tributaria, la messa a punto della disciplina strutturale rivolta alle società commerciali improduttive ha presentato dei caratteri uniformi, che hanno avuto il pregio di conferire alla stessa un assetto tipico. Si tratta di un elemento di particolare importanza sul piano sistematico poiché ha favorito una maggiore comprensione di una normativa complessa, articolata e molto frammentata (21). L’assetto di tale disciplina si è così articolato in tre comparti tipici: l’ambito di applicazione, la disciplina delle imposte, la difesa (endoprocedimentale) del contribuente.
giuridica generale. Cfr. N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 1327; R. Jhering, Lo scopo del diritto, Torino, 1972, 199. Nella materia tributaria, con riferimento alla funzione premiale negativa del diritto, al fine di attuare la nozione di N. Bobbio di sanzione positiva (e con specifico riferimento allo studio del condono tributario), cfr. C. Preziosi, Il condono tributario, Milano, 1987, 47. (19) Sulle diverse discipline che si sono succedute cfr. R. Braccini, Le società di comodo nella recente legislazione tributaria, cit., 47; N. Fortunato, Profili tributari delle assegnazioni dei beni ai soci, cit., 187. (20) In tal senso, R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2008, 295. (21) Cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., 30.
186
Parte prima
L’ambito di applicazione individua i soggetti cui è rivolta la normativa in esame. In specie, con tale assetto normativo si sono cercate di definire le società commerciali di mero godimento dei beni, attraverso un comparto normativo che, come anticipato, è fondato sui presupposti di applicazione e sulle cause di esclusione dalla disciplina medesima. La conseguenza del mancato raggiungimento di un reddito minimo (ovvero la realizzazione del presupposto della perdita sistematica) è costituita dall’applicazione di una disciplina impositiva ad hoc in materia di imposte dirette ed Iva. Infine, un elemento centrale nella definizione della disciplina in esame è stato costituito dalla difesa del contribuente (terzo comparto). A quest’ultimo, è stato necessario garantire la possibilità di contrastare l’applicazione della disciplina delle società di comodo in una fase di difesa precedente rispetto alla sede processuale. Ed invero, poiché la disciplina in esame è fondata in via esclusiva su presunzioni legali, la corretta attuazione da parte del contribuente dovrebbe essere sostenuta dall’opportunità di fornire una prova contraria, inerente alla mancata riferibilità della disciplina in esame al proprio assetto societario. In tale ultimo ambito si collocano, quindi, le scelte (effettuate nelle diverse fasi storiche) relative agli istituti della richiesta di chiarimenti, dell’interpello disapplicativo, dell’interpello probatorio. 3.2. La funzione della disciplina. La sottrazione delle società di mero godimento dallo statuto fiscale dell’impresa commerciale. – La funzione della disciplina di cui all’art. 30, l. 23.12.1994, n. 724 e di tutti i provvedimenti normativi collegati (espressione della prima direttrice normativa) è da rinvenirsi, secondo la presente ricostruzione, nella esclusione parziale o totale dalla applicazione dello statuto fiscale dell’impresa con riferimento alle società commerciali preposte al mero godimento dei beni patrimoniali. Queste ultime sono società che non svolgono una attività commerciale, ma si limitano a detenere, gestire, amministrare o far utilizzare (ai soci o ai loro familiari) i beni patrimoniali. Tale carattere dell’attività è rilevato dalla improduttività dell’assetto societario, desunta dal mancato superamento di una soglia (di redditività) contenuta in una predeterminazione normativa o (da circa una decina d’anni anche) dalla ricorrenza di una situazione di perdita sistematica. Nel nostro ordinamento fiscale l’applicazione dello statuto dell’impresa è fisiologica per tutte le società di tipo commerciale in virtù di una presunzione di commercialità e di un principio di attrazione che connotano da sempre la
Dottrina
187
determinazione del reddito delle suddette società (ex artt. 6 e 81 del t.u. imp. dr. 1986). Lo statuto fiscale dell’impresa costituisce una autonoma partizione della materia tributaria, caratterizzata da principi, espressione di valori dell’impresa commerciale (22). Nell’ambito di quest’ultimo statuto si racchiude anche lo statuto fiscale delle società, che ne costituisce (a sua volta) una ulteriore specificazione (23), in nome del principio in base al quale ogni assetto di società commerciale (indifferentemente di persone o di capitali), sulla base del contratto che i soci hanno stipulato, svolgerà – ai sensi dell’art. 2247 c.c. – un’attività di impresa commerciale, economicamente organizzata, per la produzione di utili. Lo statuto fiscale dell’impresa è così riferito all’esercizio di attività produttive svolto dall’impresa e dalla società commerciale (24).
(22) Il suddetto statuto è oggi qualificato come il “complesso di principi, regole e vincoli, di coerenza e di razionalità impositiva, desumibili dalla disciplina dei singoli tributi (imposte sui redditi, IRAP e IVA) nel cui ambito l’impresa assume rilievo come schema soggettivo di riferimento delle fattispecie imponibili oppure nella qualità di soggetto passivo”. In questi termini, A. Fantozzi – F. Paparella, Lezioni di diritto tributario d’impresa, Lavis Tn, 2014, 3. Cfr. R. Lupi, I principi generali sull’analiticità del reddito di impresa, in F. Crovato – R. Lupi, Il reddito di impresa, Milano, 2002, 7, il quale evidenzia come nell’ambito della polisistematicità del diritto tributario sostanziale, il reddito di impresa costituisce un microcosmo con una serie di logiche concettuali ricorrenti e fondamentali. (23) Nello statuto fiscale delle società si opera un riconoscimento implicito del contratto di società (ovvero della autonomia statutaria dei soggetti) sia in relazione alla sua portata organizzativa, sia in relazione al suo valore generale all’interno dell’ordinamento giuridico; da tali fattori deriva la naturale e fisiologica applicazione delle norme relative allo statuto dell’impresa con alcuni marginali aggiustamenti richiesti dalla fattispecie. Così T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007, 8, rileva come il legislatore valorizzi il contratto societario nella propria portata organizzativa e su questa fondi la qualificazione d’impresa dei redditi societari, collegata alla sola sussistenza di un’impresa commerciale. (24) Diverse valutazioni sono state rivolte nella materia tributaria all’impresa agricola ed in generale all’esercizio dell’agricoltura, che hanno condotto ad una regolamentazione dell’agricoltura stessa tendenzialmente agevolativa, finalizzata alla protezione del ciclo biologico, sempre fondata su predeterminazioni normative, concettualmente slegata dal paradigma del reddito effettivo e strutturalmente caratterizzata da un minor numero di oneri e obblighi documentali. Sul punto, diffusamente, F. Picciaredda, La nozione di reddito agrario, Milano, 2004, 248; S. La Rosa, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, 155; A. Fantozzi, Prospettive dello strumento societario in agricoltura. Profili fiscali, in Riv. dir. agr., 1993, I, 287; P. Boria, “Agricoltura e zootecnia (diritto tributario)”, in Enc. giur., II, Roma, 1994, ad vocem.; A.F. Uricchio, Politiche agricole ed incentivi fiscali, in Aa.Vv., Agricoltura e territorio. Aspetti giuridici economici ambientali, a cura di N. D’Amati, Bari, 2002, 63.
188
Parte prima
Lo statuto fiscale dell’impresa trae la sua base logica ed il suo fondamento giuridico da due elementi essenziali: l’esistenza di una attività commerciale finalizzata alla realizzazione di ricchezza e la presenza di beni aventi il medesimo scopo funzionale (25). L’attività è l’elemento che qualifica, in via generale, tutti gli assetti che sono regolati dallo statuto fiscale dell’impresa (26); l’impresa, infatti, si fonda sullo svolgimento di un’attività, elemento che coglie l’aspetto “vitale” e “dinamico” dell’azione produttiva di ricchezza, non esclusivamente in relazione al suo concreto svolgimento quotidiano, ma anche in rapporto al programma ovvero al metodo di azione al quale l’intero assetto è teleologicamente rivolto (27). Il programma imprenditoriale, che connota l’attività, è l’elemento che condiziona la disciplina fiscale delle singole componenti reddituali, delle vicende patrimoniali, del rapporto con le modalità di esercizio (dell’impresa stessa) e delle vicende straordinarie della vita dell’impresa. In tale assetto tutti i singoli atti giuridici perdono una loro autonomia in ragione del “rapporto con un elemento che sintetizza elementi funzionali, teleologici ed organizzativi”; si tratta del programma elaborato dall’operatore economico e da questo concretamente perseguito (28). In relazione ai beni, si evidenzia come il fattore che li contraddistingue – nell’ambito del nostro sistema impositivo – sia la circostanza che siano o meno destinati all’esercizio di una attività di impresa commerciale. Il vincolo funzionale dei beni all’attività commerciale li ingloba in un assetto produttivo
(25) Cfr., in questi termini, A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, cit., 11. (26) Sulla centralità della nozione di “attività” nella definizione di impresa non si è mai dubitato. Cfr., ex pluribus, G.A. Micheli, Reddito di impresa e imprenditore commerciale, in Id., Opere minori di diritto tributario, vol. II, Milano, 1982, 396; A. Fantozzi, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’IVA, Milano, 1982, 49; M. Polano, Attività commerciale e impresa nel diritto tributario, Padova, 1994, passim; A. Giovannini, La nozione di imprenditore, in AA.VV., Imposte sul reddito delle persone fisiche, a cura di F. Tesauro, Torino, 1994, 439; V. Ficari, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, 32. (27) In questi termini, V. Ficari, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, cit., 6, che rileva come l’evoluzione del presupposto personale dell’imposta sul reddito è rappresentata dall’attività di impresa commerciale, che evidenzia una analisi della fattispecie da un “particolare angolo visuale” ovvero dalla sua “vitalità” e “dinamicità”, cercando di cogliere la potenzialità imprenditoriale. In questo senso l’impresa è un programma di azione ovvero un metodo di azione economica organizzata. (28) Così V. Ficari, Reddito di impresa e programma imprenditoriale, cit., 7.
Dottrina
189
all’interno del quale – in virtù della suddetta attività, attuativa del programma imprenditoriale – perdono la loro individualità, quali autonome fonti di produzione di ricchezza. Lo statuto fiscale dell’impresa costituisce, pertanto, una disciplina giuridica autonoma rivolta ai soggetti (imprenditori e società) che svolgono un’attività d’impresa di tipo commerciale. L’applicazione di tale disciplina determina, quale principale effetto, che tutti i beni e i diritti che nascono o entrano a far parte di un’impresa sono soggetti ad un particolare regime, espressione di una autonoma logica giuridica, che discende dalla loro destinazione alla produzione di ricchezza e che perdura anche nei trasferimenti giuridici (passaggi da un’impresa ad un’altra) fino a che rimane la suddetta destinazione. In definitiva, si tratta di una disciplina unitaria, omogenea dal punto di vista strutturale e funzionale, definita da una parte della dottrina come “promozionale”, in quanto ha come obiettivo l’incentivo dell’impresa nel nostro ordinamento giuridico in relazione alla sua importanza formale (è un valore tutelato nella Costituzione agli artt. 41 e 42) e sostanziale (è un elemento fondamentale per la crescita economica del Paese) (29). Si comprende l’anomalia giuridica che si determina con l’applicazione della disciplina recata nello statuto suddetto da parte delle società di tipo commerciale di mero godimento di beni. Le ragioni di tale anomalia si evidenziano sia sul piano logico, che su quello applicativo. Lo statuto fiscale dell’impresa nasce per la regolazione unitaria di beni ed attività funzionalmente preordinate ad un programma imprenditoriale dinamico. In nome di tale obiettivo esso definisce regole e discipline autonome, calibrate sui caratteri dell’attività di un’impresa commerciale, che presentano nella loro interconnessione una tendenza promozionale, espressione della circostanza che si sta svolgendo, con un certo livello di rischio, una attività di produzione di ricchezza protetta dalla Costituzione. Un assetto disciplinare di questo tipo risulta completamente incoerente se applicato ad attività preposte al mero godimento dei beni patrimoniali, in quanto non volte alla produzione di nuova ricchezza ed esercitate fuori dal
(29) Sul punto, in particolare, sulla natura promozionale della disciplina dell’impresa nelle imposte dirette, A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. dir. trib., 2013, I, 875; A. Fantozzi - F. Paparella, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, cit., 57.
190
Parte prima
mercato. Queste ultime, con l’utilizzo del suddetto assetto disciplinare, beneficiano di un sistema normativo che è rivolto esclusivamente ai beni impiegati in una attività di impresa commerciale, con una serie di norme e di istituti che si spiegano soltanto in virtù di questo impiego. L’assenza di una attività produttiva nelle società commerciali di mero godimento è la causa della suddetta anomalia, che nel caso specifico si realizza principalmente sul piano del trattamento fiscale dei beni. In tal senso appare evidente il diverso trattamento che si realizza verso tutti i beni patrimoniali e soprattutto in relazione a quelli immobiliari che, ove non detenuti da società commerciali, sarebbero rientrati nei redditi fondiari. Dal punto di vista applicativo innumerevoli sono le deviazioni che si producono rispetto alla logica della disciplina generale, che realizzano un trattamento di tali beni sempre differente da quello che avrebbero ricevuto laddove non fossero stati impiegati in una attività commerciale, ma detenuti da soggetti persone fisiche. La deviazione più evidente si ravvede sul piano delle spese. I beni patrimoniali dell’impresa, ai fini delle imposte sul reddito, fruiscono del regime di deduzione analitica delle spese nell’ambito di un sistema che computa il reddito effettivamente prodotto. Ai fini Iva i medesimi beni patrimoniali sono soggetti al regime della detrazione dei costi inerenti alla attività di impresa, sfuggendo alla naturale indetraibilità Iva, che caratterizza le spese sostenute per i beni in godimento delle persone fisiche. Allo stesso modo, in considerazione del fatto che è prassi diffusa quella di imputare i beni alle società di capitali, l’ulteriore evidente deviazione rispetto ad un regime naturale si registra sul piano dell’aliquota progressiva Irpef, che viene sostituita dall’aliquota proporzionale Ires. Si ritiene, pertanto, che la necessità di sottrarre i beni patrimoniali dal regime generale dello statuto fiscale dell’impresa sia il movente e la funzione della disciplina tributaria attuale delle società di comodo. Quest’ultima ha perseguito tale obiettivo con due direttrici differenti. La prima è stata rivolta alla eliminazione delle società di comodo ed ha favorito il loro scioglimento ovvero la loro trasformazione in società semplici, sottraendole in via definitiva dallo statuto fiscale dell’impresa commerciale. La seconda direttrice, invece, ha attuato una sottrazione parziale da quest’ultima disciplina, predisponendo una regolamentazione ad hoc con riferimento alle imposte periodiche dell’impresa commerciale.
Dottrina
191
3.3. Le conferme di tale ricostruzione con riferimento all’ambito di applicazione della disciplina. – La ricostruzione proposta trova una evidente conferma nell’ambito di applicazione della disciplina contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724. In prima battuta, dall’ambito di applicazione della disciplina in esame è esclusa la società semplice, in merito alla quale nel tempo, con le diverse normative episodiche, espressione della prima direttrice, ne è stata favorita (ed agevolata) la trasformazione da parte delle società commerciali di comodo. La scelta di escludere la società semplice dall’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo si spiega in virtù della circostanza che tale società non può (per natura) esercitare attività commerciale e, come tale, non è soggetta allo statuto fiscale dell’impresa (30). Il consolidamento di una normazione con i suddetti contenuti ha condotto, come già rilevato, ad una modificazione dei principi generali del diritto civile, ove la dottrina ha ammesso il superamento del divieto contenuto nell’art. 2248 c.c. con riferimento alle società semplici ad opera del diritto tributario (31). La disciplina in materia di società di comodo è, inoltre, rivolta in via esclusiva alle società di tipo commerciale a scopo di lucro, come si evince dalla espressa indicazione di tali tipologie nell’art. 30, l. 23.12.1994, n. 724 (32), con l’esclusione delle società cooperative o di mutua assicurazione che perseguono uno scopo mutualistico. Tra le ragioni che giustificano tale esclusione (quali la relazione socio - società nello svolgimento di una attività finalizzata al raggiungimento dello scopo mutualistico o i costanti controlli pubblici cui tali società sono soggette), la scelta si comprende soprattutto in nome della specialità della normativa tributaria riferita a tali soggetti nelle imposte di-
(30) In tal senso, M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., 499, sottolinea (come già rilevato anche in precedenza) che la struttura normativa non racchiude l’intero fenomeno societario di mero godimento. La circostanza che il favor fiscale per l’esodo può approdare alla permanenza del fenomeno all’interno della società semplice esclude una ratio civilistica della disciplina, valorizzando una norma fiscale – che contrariamente a quanto espresso dal diritto civile – sembra legittimare le società semplici di mero godimento. (31) Cfr. nota n. 14. (32) La questione relativa alle società cooperative, di mutua assicurazione e consortili è stata affrontata espressamente nell’ambito delle circ. 15 maggio 1995, n. 140/E; circ. 26 febbraio 1997, n. 48/E, ove si è ritenuto che tali soggetti fossero esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo.
192
Parte prima
rette (33); le società che perseguono lo scopo mutualistico, infatti, applicano solo una parte dello statuto dell’impresa, in quanto alle stesse è riferita una normativa speciale che a sua volta si articola in norme generali (cioè rivolte a tutte le società a scopo mutualistico) e norme settoriali (che si applicano alle cooperative in ragione del loro settore di appartenenza) (34). La disciplina speciale, espressione comunque di una logica (non agevolativa ma) di sistema, si giustifica in ragione delle caratteristiche dell’assetto di tali enti che conducono ad una modulazione di determinati istituti della fiscalità delle società in senso maggiormente personalistico (35). Una ulteriore conferma della ricostruzione proposta nel lavoro si riceve dalla circostanza che sono state incluse nell’ambito di applicazione della disciplina delle società di comodo anche le stabili organizzazioni di società estere e le società “esterovestite” (36). La stabile organizzazione è funzionale alla localizzazione di redditi in Italia rispetto ad una attività economica estera da cui la stessa concettualmente dipende. In tale ipotesi non si riscontra alcuna società commerciale italiana, ma un’organizzazione di attività economica imprenditoriale, espressione di
(33) Sulla disciplina fiscale riferibile alle società cooperative nei diversi aspetti strutturali e problematici e, in particolare, sul mancato raccordo tra la disciplina generale civilistica e le norme fiscali agevolative e sulle incoerenze della disciplina positiva, L. Salvini, Diritto societario e diritto tributario: dieci anni dalle riforme, in Giur. comm., 2014, 698; Id., La disciplina fiscale delle società cooperative dopo la riforma del diritto societario, in Id., L’I. re.s. due anni dopo: considerazioni critiche e proposte, Milano, 2005, 341. (34) Così F. Pepe, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, Milano, 2009, 9; Id., Assetti negoziali, scambi mutualistici e “statuto fiscale” della società cooperativa: i riflessi tributari delle modalità di attribuzione del “vantaggio mutualistico”, in Riv. dir. trib., 2013, 1083, il quale rileva come seppure non si dubiti che la società cooperativa sia un’impresa a tutti gli effetti, la cooperativa stessa non presenta uno statuto fiscale unitario. In particolare, le cooperative a mutualità prevalente godranno di uno statuto fiscale differenziato (rispetto alle cooperative diverse), in quanto arricchito da una serie di agevolazioni fiscali. (35) Così F. Pepe, La fiscalità delle cooperative. Riparto dei carichi pubblici e scopo mutualistico, cit., 260, evidenzia come il legislatore fiscale tenda nel complesso a superare, dal punto di vista sostanziale, lo schermo societario imprimendo alla fiscalità della cooperativa una connotazione di tipo personale. Sussiste un regime di sostanziale trasparenza fiscale, anche se di tipo parziale e non totale. Tale filo conduttore giustifica in termini di esclusioni diverse disposizioni rivolte alle società cooperative, rendendo l’intera disciplina (alle stesse riferibile) non derogatoria ma di sistema ovvero coerente con la regolamentazione generale. (36) In tal senso, M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., 500, il quale evidenzia come proprio con riguardo ai soggetti non residenti la disciplina confermi una sua autonomia dal diritto civile.
Dottrina
193
una società estera, dotata di requisiti di commercialità, autonomia e stabilità sul territorio (37). La stabile organizzazione opera nello Stato italiano, produce ricchezza, applica lo statuto dell’impresa ed assolve alle imposte nel medesimo Stato. In questi termini si giustifica l’applicazione della disciplina delle società di comodo alla stabile organizzazione in quanto alla stessa sono conseguentemente riferibili le medesime questioni giuridiche che si pongono per la società commerciali residenti in Italia. Le società “esterovestite” sono, invece, entità sociali formalmente residenti all’estero in merito alle quali, in virtù di alcuni criteri presuntivi espressione di una disciplina antielusiva, si localizza la residenza in Italia (38). Anche in relazione a tali società si è ammessa l’applicazione della disciplina di cui all’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, in quanto soggetti sostanzialmente localizzati in Italia che devono applicare la disciplina nazionale delle imposte periodiche dell’impresa ed in merito alle quali, conseguentemente, emergono le medesime esigenze di coerenza e di ragionevolezza relative alla piena riferibilità delle disposizioni dello statuto fiscale dell’impresa stessa. Le scelte effettuate sul piano dell’ambito di applicazione della disciplina confermano che quest’ultima non è rivolta alle società in quanto tali, ma soltanto alle società commerciali ed a soggetti equiparati che applicano lo statuto fiscale dell’impresa commerciale e che potrebbero essere preposti al mero godimento di beni patrimoniali. 4. La tecnica normativa utilizzata e la coerenza con la funzione generale. – Dalla funzione perseguita con la disciplina sulle società di comodo, come anticipato in premessa, deve essere distinta la tecnica normativa, concretamente utilizzata, per l’attuazione della funzione stessa, espressione invece della mens legis (39). La tecnica normativa si esprime nella scelta di istituti
(37) Cfr. E. Della Valle, Contributo allo studio della stabile organizzazione nel sistema delle imposte sul reddito, Roma, 2004, 25, che sottolinea come la stabile organizzazione costituisca l’elemento fondamentale della fattispecie di collegamento, connotata dall’esistenza di un’organizzazione e dallo svolgimento per il suo tramite dell’attività di impresa sul territorio; A. Fantozzi, La stabile organizzazione, in Riv. dir. trib., 2013, I, 99; P. Boria, L’individuazione della stabile organizzazione, in Riv. dir. trib., 2014, II, 3. (38) Si tratta della disciplina contenuta nell’art. 73, comma 5 bis, t.u. imp. dr. 1986 (a partire dalla modifica introdotta con l’art. 1, comma 74, lett. c), l. 27 settembre 2006, n. 296). (39) Cfr. nota n. 7.
194
Parte prima
giuridici e di specifiche disposizioni nell’ambito della disciplina predisposta dal legislatore con l’introduzione di una specifica normativa. In relazione alla disciplina sulle società di comodo, sul piano della tecnica normativa, sono state effettuate scelte molto importanti che hanno portato alla previsione di note disposizioni e all’adozione di complessi strumenti giuridici, quali le predeterminazioni normative, i regimi sostitutivi, le agevolazioni tributarie. Si ritiene che le più importanti censure sulla disciplina delle società di comodo debbano oggi essere effettuate sul piano della tecnica normativa ed in relazione alla coerenza e alla proporzionalità di determinate previsioni rispetto alla funzione della normativa stessa ed ai principi generali dell’ordinamento giuridico. Aldilà del più volte rilevato “stato formale” della disciplina, anche le disposizioni concretamente adottate sono state oggetto di numerose critiche e censure. Si procede, quindi, a qualificare per linee generali e nei suoi aspetti essenziali la tecnica normativa utilizzata dal legislatore per la disciplina fiscale delle società di mero godimento, distinguendo – coerentemente con l’impostazione assunta in questa sede – le due direttrici ed i comparti della disciplina strutturale. 4.1. La prima direttrice normativa. Le agevolazioni fiscali rivolte allo scioglimento e alla trasformazione delle società di comodo. – La prima direttrice normativa, ossia quella rivolta alla definitiva rimozione delle società di comodo dall’universo giuridico, si è servita di discipline agevolative finalizzate all’esodo dalla forma societaria ovvero alla trasformazione da società commerciali in società semplici (40). Si è trattato di un filone normativo connotato dalla logica della premialità (41), che si è espressa attraverso la previsione di agevolazioni fiscali, riconosciute alle assegnazioni dei beni della società ai soci, con contestuale scioglimento o meno della società stessa (a seconda dei provvedimenti presi in esame) ovvero alla trasformazione della società commerciale in società
(40) La tecnica normativa si è sostanziata in una imposizione agevolata della società che si scioglieva o si trasformava (assoggettata ad imposte sostitutive) e dell’atto di assegnazione al socio (assoggettato ad un trattamento agevolato ai fini dell’imposta di registro, delle imposte ipotecarie e catastali, dell’Iva e dell’Invim). (41) Cfr. nota n. 18.
Dottrina
195
semplice (42). L’assegnazione di beni ai soci è stato l’istituto utilizzato in via principale all’interno di queste normative (43). Le agevolazioni hanno riguardato sia la società che i soci ed hanno avuto ad oggetto le imposte dirette ed indirette dovute in relazione alle suddette operazioni. È un filone normativo che ha prodotto risultati concreti, conducendo allo scioglimento di numerose società di comodo ed alla realizzazione di diversi atti di assegnazione di beni ai soci. La concessione di agevolazioni alle società in esame ha sollevato alcune critiche, in relazione alla ratio della disciplina, alla attuazione concreta e agli effetti sul sistema giuridico (44). Si ritiene che le agevolazioni in esame rispondano ad un interesse fondamentale, quello di una corretta ed efficace definizione dei tributi in nome dell’art. 53 della Costituzione con riferimento al principio di capacità contributiva. Il dovere di concorso alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva sottende al suo interno, quale aspetto fondamentale, la necessità di un corretto utilizzo delle discipline tributarie secondo la logica e la funzione che alle stesse è stata riconosciuta, che costituiscono attuazione dei principi generali del giusto riparto.
(42) Sui diversi provvedimenti normativi si rinvia ai contributi di R. Braccini, Le società di comodo nella recente legislazione tributaria, cit., 51; D. Stevanato, Scioglimento delle “società di comodo” e assegnazione dei beni ai soci. Continuità dei valori o doppia imposizione, in Il fisco, 1995, 9; M. Trivellin, L’uscita dal regime agevolato delle società di comodo. Analisi di una agevolazione discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, cit., 15. (43) L’assegnazione di beni ai soci, nella materia tributaria, indica l’attribuzione patrimoniale dei beni effettuata a favore dei soci da parte della società. In via generale l’assegnazione è il risultato di una attività giuridica, che di per sé può avere diverse qualificazioni e produrre differenti effetti. In tale assetto, la particolare tipologia di assegnazione dei beni ai soci definisce una serie di ipotesi diverse sotto il profilo funzionale e strutturale. Nel caso in esame (vale a dire la disciplina delle società di comodo) l’assegnazione di beni ai soci viene prevista allo scopo di definire lo scioglimento del vincolo societario. Sulla nozione generale di assegnazioni nell’ordinamento tributario, P.M. Tabellini, Assegnazione (dir. trib.), in Enc. giur., I, Roma, 1991, ad vocem. Con specifico riferimento all’assegnazione dei beni dalle società ai soci, N. Fortunato, Profili tributari delle assegnazioni dei beni ai soci, cit., 2, 143. (44) In particolare si rinvia alle riflessioni di attenta dottrina che ha posto in evidenza diversi aspetti critici della disciplina, in relazione alla incoerenza della stessa rispetto alle difficoltà a rinvenire una ratio dell’intero impianto normativo. Cfr. M. Trivellin, L’uscita dal regime agevolato delle società di comodo. Analisi di una agevolazione discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, cit., 15.
196
Parte prima
In questo modo devono essere corrette le distorsioni e le anomalie giuridiche, determinate da un utilizzo improprio delle discipline impositive, anche se che non nascono per fruire di vantaggi tributari e non è detto che li realizzino. L’adozione della forma di società commerciale per attività di mero godimento è una scelta ovvero una situazione di fatto che determina un utilizzo improprio di una disciplina generale (quella delle società commerciali), idoneo a generare anomalie sul piano impositivo. L’eliminazione delle società commerciali di godimento ovvero la loro trasformazione in società semplici – sancendo la fuoriuscita della società dallo statuto fiscale dell’impresa – ripristina una coerenza formale ed una correttezza sostanziale nell’utilizzo delle norme tributarie, espressioni entrambe della funzione garantistica del giusto riparto di cui all’art. 53 della Costituzione. In questo senso si ritiene che le suddette agevolazioni possano essere giustificate e trovare una copertura costituzionale. 4.2. La seconda direttrice normativa. I presupposti della disciplina. Le predeterminazioni normative e le società in perdita sistematica. – La regolamentazione in materia di società di comodo, contenuta nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, ha previsto disposizioni impositive strutturali, di carattere dissuasivo e penalizzante, che hanno riguardato le imposte dirette e l’Iva. In relazione ai presupposti di applicazione della normativa in materia di società di comodo convergono due distinti apparati normativi, quello relativo alla definizione dei presupposti per l’applicazione della disciplina e quello relativo alle cause di esclusione dalla medesima. Secondo la presente ricostruzione entrambi gli apparati normativi concorrono nella delimitazione (in positivo ovvero in negativo) delle società che esercitano attività di mero godimento dei beni. I presupposti si definiscono sulla base del mancato superamento del test di operatività o della realizzazione di perdite sistematiche (45).
(45) I presupposti di applicazione della disciplina impositiva delle società di comodo sono individuati alternativamente: nel mancato superamento del test di operatività per un periodo di imposta; nella presentazione di una dichiarazione dei redditi in perdita fiscale per cinque periodi di imposta consecutivi; nella presentazione di una dichiarazione fiscale in perdita per quattro periodi di imposta e nella dichiarazione di un reddito inferiore al minimo per un quinto periodo. Cfr. art. 30, l. 23.12.1994, n. 724, integrato dal presupposto introdotto dall’art. 2, comma 36 decies e undecies del d.l. 13.8.2011, n. 138 (convertito con modificazioni nella l. 14.9.2011, n. 148).
Dottrina
197
La disciplina del test di operatività, basata sulla predeterminazione normativa di ricavi potenzialmente ritraibili dai beni patrimoniali in esame, ha destato molte critiche, in relazione soprattutto alla sostenibilità logica e giuridica del ragionamento presuntivo alla base delle predeterminazioni normative su cui la stessa si fonda. I dubbi hanno riguardato soprattutto l’esistenza effettiva di una connessione tra beni patrimoniali detenuti dall’impresa e ricavi dagli stessi prodotti nonché la possibilità di esprimere tale connessione attraverso una presunzione di redditività costante (46). In tal senso numerose critiche sono state rivolte soprattutto ai coefficienti utilizzati, ritenuti privi di particolare ragionevolezza e di attendibilità dimostrativa e poco raffinati sul piano della logica giuridica (47). Si ritiene, in relazione alla funzione in questa sede attribuita alla disciplina in esame, sostenibile (quale tecnica di individuazione delle società di mero godimento) un test che confronti la produttività effettiva e quella presunta dei beni patrimoniali. Si concorda però sulla circostanza che i parametri di riferimento su cui si basa la predeterminazione normativa debbano essere quanto più possibile affinati e veritieri in considerazione della natura speciale della disciplina che si renderà applicabile a fronte del superamento del test. Il presupposto per l’applicazione della disciplina delle società di comodo relativo alla realizzazione delle perdite sistematiche è stato oggetto di un atteggiamento generale di totale disapprovazione da parte della dottrina (48). In
(46) Così L. Tosi, Relazione illustrativa: la disciplina delle società di comodo, cit., 6; M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2014, 714; M. Cermigliani, Il regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, in Dir. prat. trib., 2011, 265, il quale evidenzia che è sicuramente riscontrabile una generale correlazione tra patrimonio e reddito. La questione è stabilire quale sia il rapporto “statisticamente corretto” o “razionalmente attendibile” su cui si basa tale funzione. (47) Cfr. L. Tosi, Relazione illustrativa: la disciplina delle società di comodo, cit., 6, il quale evidenzia come la disciplina del test di operatività si basi su passaggi – logici, economici, giuridici – privi di una reale dimostrazione. Si tratta di “coefficienti molto rozzi, che non hanno alcun supporto dimostrativo”, “tali coefficienti non sono il frutto di alcuna indagine scientifica o vero studio statistico”. (48) In tal senso, D. Stevanato, Società di comodo, un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, 3889; Id., Società senza utili, imposte senza ricchezza: un caso di “darwinismo fiscale”?, in Dialoghi dir. trib., 2012, 502; M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., 722; M. Poggioli, Gli interventi normativi sulla disciplina delle società non operative tra esigenze di gettito e rispetto dei principi costituzionali, in Riv.
198
Parte prima
tal modo, si è fornito un ulteriore contributo alle numerose critiche che, già da tempo, colpiscono la disciplina tributaria delle perdite di periodo (49). L’inserimento delle società in perdita sistematica nella materia delle società di comodo risponde ad un’esigenza di contrastare e penalizzare l’abuso delle perdite fiscali. Nella considerazione dell’importanza di quest’ultima direttrice, si rileva una mancata coerenza della disciplina sulle società non operative con le questioni di fondo delle società in perdita sistematica. La circostanza che una società sia in perdita è sintomatica non dell’assenza di operatività della stessa, quanto (piuttosto) di una gestione antieconomica, caratterizzata dalla presenza di costi di gran lunga superiori ai ricavi per un prolungato periodo di tempo. Si ritiene, pertanto, che le società in perdita sistematica realizzino un presupposto del tutto avulso dalla funzione e dalla logica della disciplina delle società non operative, che determina - nell’assetto complessivo della materia una scelta incoerente ed irragionevole e produce nel sistema giuridico (e verso tali soggetti) effetti fortemente pregiudizievoli e non giustificabili in nome di alcun principio generale. Sulla base della presente ricostruzione vanno qualificate nell’area delle esclusioni (50) tutte le cause (di esclusione) espresse nella legge e nei provvedimenti amministrativi nonché la previsione del comma 4 bis, art. 30 l. 23.12. 1994, n. 724 (51) ove è contenuta, secondo l’impostazione di studio accolta in questa sede, la causa generale di esclusione dalla disciplina in esame (52), che assume contestualmente caratteri di generalità e di residualità.
dir. trib., 2012, 91; R. Miceli, Nuova disciplina fiscale delle società non operative, in Treccani, Libro dell’anno 2013, Roma, 2013, 424. (49) Tradizionalmente su questi aspetti, F. Tesauro, Riporto delle perdite ed incostituzionalità della sua esclusione dall’imponibile dell’Ilor, in Boll. trib., 1988, 5. (50) L’esclusione, in via generale, elimina dall’ambito di applicazione del tributo fatti giuridici già in tutto o in parte estranei alla sua ratio. Cfr., S. La Rosa, Esclusioni tributarie, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, ad vocem. Le esclusioni, in questo modo, danno rilievo ai medesimi valori giuridici e fatti espressi dalla norma impositiva. Cfr. S. La Rosa, Esenzioni ed agevolazioni tributarie, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989, 3; A. Fedele, Profilo dell’imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili, Napoli, 1966, 62. (51) La disposizione in esame prevede la facoltà di provare la presenza di “oggettive situazioni”, “che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi nonché del reddito” ovvero “non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”. (52) Cfr. M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., 496, il quale evidenzia “un quadro di insieme in cui le cause di disapplicazione della disciplina delle società di comodo appaiono sostanzialmente
Dottrina
199
Risulta generale in quanto possono rientrare nel contenuto della suddetta causa una serie innumerevole di ipotesi non formalizzate e non tipizzate ma di volta in volta verificabili in relazione alla loro idoneità probatoria a dimostrare l’assenza di un mero godimento dei beni patrimoniali; allo stesso tempo è residuale in quanto si applica per le fattispecie in cui non ricorrono le cause di esclusione espresse previste dalla legge o dai provvedimenti amministrativi del Direttore dell’Agenzia delle entrate. Nell’impianto generale della disciplina, pertanto, la disposizione in esame reca la causa generale di esclusione, che si declina nella regolamentazione della prova contraria che il contribuente è tenuto a fornire in sede di interpello probatorio (53). La prova in esame deve vertere, in via generale, sulla effettiva imprenditorialità dell’attività svolta dal soggetto, con particolare riferimento agli eventi o alle circostanze che hanno impedito il raggiungimento di risultati congrui in termini di presupposti di imposta. 4.3. (segue) I regimi sostitutivi e le preclusioni Iva. – In merito alla disciplina impositiva, introdotta dall’art. 30 della l. 23.12. 1994, n. 724, le scelte effettuate in materia di società di comodo si sono concretizzate, secondo la presente ricostruzione, nella previsione di regimi sostitutivi in materia di imposte dirette e di importanti preclusioni in materia di Iva. In linea generale, secondo le impostazioni tradizionali, i regimi fiscali sostitutivi si qualificano come regolamentazioni speciali che escludono dalla sfera di applicazione di una normativa generale determinati fatti imponibili per assoggettarli ad una disciplina ad hoc (54). La disciplina delle società di comodo in materia di imposte dirette è fina-
adeguate all’impostazione che vuole far emergere un perimetro di società senza operatività imprenditoriale”. (53) Cfr., in tale direzione, M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., 496, il quale rileva che anche la causa di disapplicazione (di cui all’art. 30, comma 4 bis) va sistematicamente interpretata all’interno del campo applicativo della disciplina. La sussistenza di una effettiva attività imprenditoriale, non di mero godimento, consente di per sé la disapplicazione del regime penalizzante. Il contribuente deve quindi indicare situazioni di fatto che permettano di qualificare l’attività all’interno della commercialità. (54) In questo senso, sulla definizione di regime sostitutivo, A. Fantozzi, Diritto tributario, Torino, 1991, 52, 143; M. Polano, Spunti teorici e prospettive in tema di regimi tributari sostitutivi, in Dir. prat. trib., 1972, I, 254; R. Schiavolin, Sostitutive (Imposte), in D. disc. priv., sez. comm., XV, Torino, 1998, 48. Nel sistema delle imposte sul reddito costituiscono regimi sostitutivi tutte le discipline speciali cui sono soggetti determinati redditi o
200
Parte prima
lizzata a regolare ai fini Irpef, Ires e Irap le società commerciali preposte al mero godimento dei beni, sottraendole alla disciplina generale delle suddette imposte. La predetta disciplina assume la natura di regime sostitutivo, caratterizzato da un autonomo criterio di definizione del fatto imponibile, della base imponibile e dell’imposta, nonché dall’utilizzo di una aliquota specifica per quanto riguarda i soggetti Ires (pari al 38% e quindi elevata di 14 punti percentuali rispetto all’aliquota generale dell’imposta). Si tratta di un regime sostitutivo di tipo alternativo e di natura penalizzante rispetto a quello ordinario. A conferma di tale impostazione si evidenzia come sia stato messo in luce da autorevole dottrina che laddove (nell’ambito del comparto dell’imposizione sul reddito) esista una predeterminazione normativa che si estenda ben oltre la definizione di un singolo componente reddituale, fino a coinvolgere un intero comparto o addirittura la determinazione dell’imposta da versare, si ravvisa allora una autonomia del regime presuntivo rispetto alla disciplina ordinaria del tributo, che qualifica un’imposta sostitutiva nella quale “la predeterminazione costituisce l’aspetto caratterizzante di un prelievo per molti aspetti distinto da quello che ordinariamente colpisce i redditi” (55). Il regime sostitutivo ha come obiettivo la definizione di una modalità di tassazione differente rispetto a quella ordinariamente applicata sulle società commerciali in quanto volta ad individuare il reddito potenzialmente ritraibile dal patrimonio, come dimostra la circostanza che la base imponibile ai fini delle imposte dirette è costituita da una predeterminazione normativa di reddito (molto affine a quella di ricavi utilizzata nel test di operatività). Nella considerazione che il reddito non è generato automaticamente dal patrimonio detenuto da una società, si sottolinea come in tale ipotesi si abbandoni del tutto ogni metodologia analitico-contabile di definizione della base imponibile, tipica del reddito di impresa ed espressiva di un’attitudine alla contribuzione di tipo dinamico, per approdare alla individuazione di una
atti in sostituzione dell’imposta generale applicabile, cfr. F. Gallo, L’influenza della disciplina formale nella ricostruzione della natura giuridica di un tributo surrogatorio, in Riv. dir. fin., 1997, I, 238. (55) Così L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., 17. L’Autore collega in questo modo l’utilizzo di una predeterminazione alla possibilità che si configuri un regime sostitutivo all’interno dell’imposta. Non si tratta di una relazione necessaria, ma possibile tutte le volte in cui la predeterminazione abbia una particolare estensione ed impatti in modo significativo sulla disciplina ordinaria di un tributo.
Dottrina
201
“grandezza statica”, costituita dalla mera disponibilità di cespiti (56). Il presupposto effettivo (indice di capacità contributiva) alla base del tributo sostitutivo in esame si sostanzia, pertanto, nel reddito potenzialmente ritraibile dal patrimonio detenuto dalla società, secondo una metodologia affine a quella utilizzata nell’imposizione catastale e riferita ai beni immobili (57). Il regime in esame colpisce, in questo modo, l’attitudine reddituale del complesso patrimoniale detenuto dalla società, realizzando un’imposta sui redditi figurativi di tipo sostanzialmente patrimoniale, assolta in sostituzione dell’imposta sui redditi effettivamente prodotti (58). Secondo una logica affine a quella esaminata è determinata anche l’Irap.
(56) In questi termini, M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., 726, il quale rileva come la struttura dell’art. 30 è fortemente sbilanciata sul versante patrimoniale. Tale struttura “mal si adatta al comparto della imposizione sul reddito”, in quanto non coglie le naturali oscillazioni economiche che costantemente si presentano nella realtà. Le declinazioni patrimoniali dell’imposta sono evidenti. (57) Sulla base degli studi in tema di imposizione patrimoniale, il regime in esame è costruito secondo l’impostazione classica che ha concepito le imposte patrimoniali quali species dell’imposizione sul reddito o quali imposte aventi, ad ogni modo, la medesima struttura. Le imposte patrimoniali sono state intese come tributi sul reddito ritraibile dal patrimonio medesimo ovvero sull’attitudine reddituale di questo. Cfr. L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, 1959, 64; Id., Principi di scienza delle finanze, I ed., Torino, 1932, 176; C. Cosciani, L’imposta ordinaria sul patrimonio nella teoria finanziaria, Torino, 1940, 122. Si rileva come attualmente tale impostazione sia stata affiancata da altra modalità di intendere le imposte patrimoniali affermatasi col tempo ed a causa soprattutto dei cambiamenti nelle tecniche di produzione della ricchezza. Progressivamente è venuto meno il legame indissolubile che si asseriva sussistere tra il reddito-frutto e il patrimonio-fonte e si è così messo in luce come ad ogni reddito non corrisponde sempre un patrimonio e – viceversa – ad ogni patrimonio non corrisponde sempre un reddito. Secondo tali evoluzioni le imposte patrimoniali possono essere collegate anche alla mera titolarità di diritti ed avulse da una dimensione reddituale nel rispetto dei valori generali dell’ordinamento giuridico. Su tali questioni, in via generale, E. Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, 2006, 156; Id, Sui limiti costituzionali dell’imposta patrimoniale, in Giur. it., 1997, I, 477. (58) Numerosa dottrina ha evidenziato un fondamento patrimoniale nell’imposizione delle società di comodo. Cfr. L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit., 5, che ravvede nella disciplina una imposizione di natura “sostanzialmente patrimoniale”; R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, cit., 68, il quale evidenzia come la disciplina presenti la logica di una imposizione patrimoniale; M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., 715, il quale evidenzia come la tassazione sul reddito si declini in una “surrettizia” tassazione del patrimonio; M. Cermignani, op. cit., 267, il quale evidenzia come il presupposto strutturale del tributo, cui ricondurre effettivamente la forza economica del soggetto, sarebbe il patrimonio e non il reddito. Si vedano sul punto le decise osservazioni e ricostruzioni di L. Peverini, Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto societario all’utilizzo distorto della forma societaria,
202
Parte prima
In quest’ultimo caso la definizione della base imponibile Irap è sostenuta da norme particolari, che sostituiscono le disposizioni generali dell’imposta. Tali norme assumono, quale valore di partenza, il reddito minimo presunto ai fini delle imposte sul reddito, quest’ultimo valore incrementato dal costo del personale e dagli interessi passivi costituirà la base imponibile. Anche in tale ipotesi (come avviene per le imposte sul reddito), la base imponibile fotografa una situazione economica sostanzialmente statica (e non dinamica come nella disciplina ordinaria nell’Irap) in quanto formata dal reddito potenzialmente ritraibile dai beni patrimoniali e da altri valori che dovrebbero rappresentare nella logica dell’Irap un certo dinamismo dell’impresa (stipendi e interessi passivi). Nel caso in cui tali ultimi valori non siano riscontrabili nella società, come è presumibile nei casi di società di mero godimento dei beni, la base imponibile Irap coinciderà con quella delle imposte dirette, definendo in questo modo una sintesi dei valori della potenzialità reddituale dei beni patrimoniali detenuti dalla società. Con riguardo all’Iva si prevedono invece disposizioni specifiche che recano un doppio livello di preclusioni. Per tutti i soggetti che rientrano nella disciplina delle società non operative, in quanto realizzano i presupposti analizzati, sorge una preclusione generale in relazione all’utilizzazione della eccedenza Iva. L’eccedenza di imposta, pari al credito Iva risultante in dichiarazione, non è ammessa a rimborso, non può essere compensata (ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 9.7.1997, n. 241), non può essere ceduta a terzi (ai sensi dell’art. 5, comma 4 ter, d.l. 14.3.1988, n. 80, convertito in l. 13.3.1988, n. 154). Tale eccedenza può essere soltanto riportata a nuovo. Il secondo livello preclude la possibilità di compensazione verticale dell’Iva a credito, rendendo tale credito sostanzialmente inutilizzabile. Tale preclu-
cit., 268, Id., La natura patrimoniale dell’imposta sulle società di comodo, in Dialoghi dir. trib., 2014, 133, il quale ravvisa una imposizione patrimoniale. L’Autore sottolinea come sia necessario prescindere del tutto dalla qualificazione normativa utilizzata dal legislatore (in termini di imposta sul reddito) e valutare la sostanza di tale forma impositiva (indice di ricchezza posto alla base dell’imposta dovuta). Quest’ultima non si riesce a giustificare se non in termini di imposizione patrimoniale. In particolare si realizza una base imponibile che utilizza il valore dei beni e non il reddito prodotto da questi ultimi, derogando (in modo molto evidente per i beni immobili) ai criteri ordinari di determinazione del reddito. In senso contrario, con importanti argomenti, D. Stevanato, Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in Dialoghi dir. trib., 2014, 133 ritiene che ad essere tassato è il reddito medio ordinario in una logica di catastizzazione del reddito.
Dottrina
203
sione si matura nel momento in cui per tre periodi di imposta consecutivi la società sia non operativa (ai sensi della disciplina) e non effettui operazioni rilevanti ai fini Iva pari almeno all’importo del reddito minimo presunto (come determinato ai fini delle imposte dirette). Nella convinzione che la società di comodo non sia una effettiva attività commerciale, le preclusioni Iva determinano una incisione della società stessa, in un primo tempo di tipo parziale (mancato utilizzo della eccedenza Iva) e in un secondo tempo di tipo totale (preclusione della detraibilità degli acquisiti) alla stregua di come avverrebbe se la società stessa fosse un consumatore finale. L’Iva non modifica pertanto la sua natura di imposta generale sul consumo, in quanto le previsioni specifiche e le preclusioni che ne conseguono assecondano tale natura, cercando di affermarla anche nel caso specifico. In considerazione della natura comunitaria dell’imposta in esame, dubbi su tale regime sorgono soprattutto in relazione alla compatibilità con i principi europei, in relazione ai quali mal si configura la scelta di limitare la detrazione Iva nei riguardi di società che sono considerate dalla disciplina come soggetti passivi di imposta (59). 4.4. (segue) La difesa endoprocedimentale del contribuente. – In considerazione della natura speciale della disciplina sulle società di comodo, della sua vocazione dissuasiva e penalizzante e della sua struttura fondata principalmente su predeterminazioni appare fondamentale – per un giusto equilibrio dell’assetto normativo nei confronti dei contribuenti – la predisposizione di un insieme di disposizioni che garantiscano una difesa delle società (60), riconoscendo a queste ultime la possibilità di provare la commercialità del proprio complesso organizzato in una fase precedente a quella giurisdizionale.
(59) Su tali aspetti si vedano le osservazioni di M. Interdonato, Gli imprenditori, in Aa.Vv., L’IVA, Giur. sist. di dir. trib., a cura di F. Tesauro, Torino 2001, 123. Inoltre si evidenzia che nel sistema Iva già esiste una disciplina specifica per le società di mero godimento, la disposizione (introdotta dall’art. 1, secondo comma, del d.lg. 2.9.1997, n. 313) recata nel comma 5 dell’art. 4 del d.P.R. 26.10.1972, n. 633, con cui è stato previsto il disconoscimento della soggettività Iva alle società di mero godimento dei beni. Sul punto R. Lupi, Le società di mero godimento tra irrilevanza Iva e autoconsumo, in Rass. trib., 1998, I, 12. (60) In linea generale, secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale, nella materia tributaria in presenza di una presunzione legale deve essere ammessa la prova contraria da parte del contribuente del diverso fatto rispetto alla ricostruzione presuntiva. Cfr. C.
204
Parte prima
Si ritiene che oggi la normativa abbia definito un nuovo quadro di difesa, che amplia le possibilità, in capo alla società, di sottrarsi dall’applicazione della disciplina delle società di comodo, attraverso un elevato numero di cause di esclusione, la previsione dell’interpello probatorio nonché la possibilità riconosciuta al contribuente di non applicare la disciplina medesima in dichiarazione. Le cause di esclusione operano automaticamente e definiscono la gran parte delle ipotesi in cui l’improduttività della società è dovuta a fattori ben definiti e collegati alle fasi della vita della società ovvero alle caratteristiche formali o sostanziali della società stessa (61). Al di fuori di tale area (cause di esclusione previste dalla legge ovvero cause di disapplicazione contenute nei provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle entrate), il contribuente che ritenga comunque di non essere destinatario della disciplina delle società di comodo, in quanto nei suoi confronti opera la causa generale relativa alle oggettive situazioni, ha facoltà di adire l’Amministrazione finanziaria, utilizzando il procedimento di interpello probatorio ex art. 11, comma 1, lett. b) della l. 27.7.2000, n. 212 (62) ovvero di
Cost. 28.7.1976, n. 200, ove si rileva che il sistema delle presunzioni legali deve salvaguardare “l’interesse della pubblica finanza alla riscossione delle imposte” con “l’altrettanto indiscutibile diritto del contribuente alla prova della effettività del reddito soggetto ad imposizione”. Cfr., in senso sostanzialmente analogo, C. Cost. 12.7.1967, n. 103; C. Cost. 14.7.1976, n. 167; Cfr. C. Cost. 15.7.1976, n. 179; C. Cost. 26.3.1980, n. 42; C. Cost. 3.12.1987, n. 431; C. Cost. 11.3.1991, n. 103; C. Cost. 8.6.1992, n. 256; C. Cost. 25.2.1999, n. 41. Su tali aspetti, F. Tesauro, Le presunzioni nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1986, I, 194; P. Russo, La tutela del contribuente nel processo sui redditi virtuali o presunti: problemi generali, in Riv. dir. trib., 1995, I, 65; F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, Padova, 1973, 261; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria, Torino, 1991, 110; L. Tosi, Il requisito di effettività, in Aa. Vv., La capacità contributiva, a cura di F. Moschetti, Padova, 1993, 321; Id., Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., 123; A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, passim. (61) Sulla natura di cause di esclusione, cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., 140, la quale rileva l’esistenza di tre giustificazioni che ne qualificano il contenuto, tutte espressione della funzione generale della disciplina come individuata nel contributo: la società presenta indici di attività economica, la società evidenzia elementi che escludono una finalità di mero godimento dei beni, la società non vive un periodo di normale svolgimento dell’attività. (62) L’interpello probatorio costituisce una ipotesi di procedimento, rivolta a fattispecie in cui è opportuno ottenere un parere qualificato, da parte dell’Amministrazione finanziaria, in merito alla esistenza di presupposti o di condizioni ovvero alla idoneità degli elementi probatori in relazione all’accesso ad un determinato regime giuridico. Si è,
Dottrina
205
non applicare la disciplina, rilevando la ricorrenza della suddetta causa in sede di dichiarazione (63). Il contribuente può, altresì, non applicare la normativa anche laddove ad esito del procedimento di interpello probatorio sia stato emesso un diniego espresso. In caso di avviso di accertamento, emesso a seguito di indagini da parte dell’Amministrazione finanziaria, è sempre possibile l’impugnazione del suddetto atto dinanzi alle Commissioni tributarie da parte della società al fine di contestare la natura “di comodo” e di dimostrare la commercialità dell’attività sociale. Tale ultima possibilità non subisce alcuna preclusione anche se il contribuente ha già dimostrato la suddetta circostanza in sede di interpello probatorio. Un’importante criticità di tale assetto è connessa all’assenza di una forma di contraddittorio preventivo all’emissione dell’avviso di accertamento, necessaria nell’ambito di una disciplina i cui presupposti di accesso sono costituiti da predeterminazioni normative. Il contribuente dovrebbe essere chiamato dalla stessa Amministrazione finanziaria a fornire la prova contraria prima dell’emissione dell’avviso di accertamento (64). Nella materia in esame dovrebbe infatti essere prevista una fase di contraddittorio obbligatorio con il contribuente ad impulso dell’Ufficio procedente, al pari di come oggi avviene nel caso della disciplina dell’abuso del diritto ex art. 10 bis, l. 27.7.2000, n. 212.
inequivocabilmente, dinanzi ad un procedimento finalizzato all’analisi di elementi di prova, al cui esito l’Amministrazione finanziaria si pronuncerà in merito alla idoneità o meno di questi ultimi a dimostrare gli elementi richiesti da ogni singola disciplina specifica. Nell’ipotesi oggetto di studio in questa sede, con il procedimento in esame, si intende comprendere, attraverso un parere qualificato dell’Amministrazione finanziaria, l’idoneità degli elementi probatori forniti dal contribuente a dimostrare la natura non di comodo della società o – in altre parole – la vitalità della società commerciale e l’assenza del mero godimento dei beni patrimoniali. (63) Si tratta di una facoltà espressamente prevista all’art. 30, comma 4 quater (l. 23.12.1994, n. 724), ove si stabilisce che “il contribuente che ritiene sussistenti le condizioni di cui al comma 4 bis ma non ha presentato l’istanza di interpello prevista dal medesimo comma ovvero, avendola presentata, non ha ricevuto risposta positiva deve darne separata indicazione nella dichiarazione dei redditi”. (64) Dovrebbe pertanto essere introdotta una forma di partecipazione in forma difensiva, come da sempre teorizzata da L. Salvini, La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2001, 3; Id., La partecipazione del privato all’accertamento tributario, Padova, 1990, 211.
206
Parte prima
L’assenza di una forma di contraddittorio non può essere per nulla giustificata dalla possibilità di utilizzare l’interpello probatorio, trattandosi di strumenti completamente diversi in ordine alla natura e funzione assolta nel sistema giuridico. Si ritiene, pertanto, necessaria l’introduzione di tale istituto al fine di rendere la disciplina in esame più coerente con il sistema nazionale e compatibile con i principi costituzionali e comunitari (65). 5. Considerazioni conclusive. La funzione della disciplina delle società comodo. – La disciplina recata nell’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724 evidenzia, secondo la presente ricostruzione, una funzione propria, il cui recupero e la cui valorizzazione possono risultare fondamentali in un progetto di razionalizzazione formale e sostanziale di un assetto normativo oggi considerato particolarmente caotico, penalizzante e non rispondente ad alcun valore giuridico. In modo autonomo rispetto al diritto civile, pur presupponendo le nozioni generali e la disciplina delle società contenuta nel c.c., la materia tributaria ha costruito negli anni una regolamentazione rivolta alle società commerciali a scopo lucrativo preposte al mero godimento dei beni patrimoniali. Si tratta di società che non svolgono una attività commerciale, ma si limitano a detenere, gestire, amministrare o far utilizzare (ai soci o ai loro familiari) i beni patrimoniali. Tale carattere dell’attività è rilevato dalla improduttività dell’assetto societario, presunta da una predeterminazione normativa o (da circa una decina d’anni anche) dalla ricorrenza di una situazione di perdita sistematica. I beni patrimoniali, parte di un contesto improduttivo, costituiscono il fulcro della disciplina tributaria delle società di comodo. Tali beni – secondo i principi che governano lo statuto fiscale dell’impresa, assetto normativo preposto alla regolazione dei presupposti di imposta nelle attività commerciali – dovrebbero essere inseriti nel dinamismo di un circuito produttivo finalizzato alla creazione di ricchezza nuova ed invece sono destinati ad uno statico godimento all’interno di una società improduttiva.
(65) Sul punto, specificamente, A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio è diritto fondamentale del diritto comunitario, in Riv. giur. trib., 2009, 203; G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale dell’ordinamento comunitario, in Rass. tribut., 2009, 580; E. A. La Scala, Il silenzio dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2012, 111; R. Miceli, Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione, in Riv. dir. trib., 2016, 305.
Dottrina
207
La fisiologica applicazione dello statuto dell’impresa alle società di comodo – espressione di una presunzione di commercialità, principio generale del nostro ordinamento (66) – genera diverse incoerenze logiche ed anomalie giuridiche. La parziale o totale sottrazione dalla disciplina dello statuto fiscale dell’impresa delle società di mero godimento dei beni è pertanto il movente e la funzione del filone normativo che ormai da circa 50 anni si esprime seguendo due diverse direttrici normative. La prima (direttrice) ha operato a favore della sottrazione totale di tali società dal regime dello statuto dell’impresa commerciale, attraverso discipline che da sempre hanno riconosciuto, pur con normative di durata temporanea, agevolazioni fiscali a fronte dello scioglimento o della trasformazione delle società di comodo. La seconda direttrice normativa, che si è espressa nella disciplina strutturale contenuta nella l. 23.12.1994, n. 724, ha determinato una parziale sottrazione delle società di comodo dal regime dello statuto fiscale dell’impresa attraverso regimi sostitutivi delle imposte dirette e previsioni specifiche Iva. È stato così definito un sistema normativo che ai fini delle imposte dirette ha introdotto una tassazione di tipo figurativo e di natura sostanzialmente patrimoniale. Ai fini Iva si sono operati dei correttivi che hanno gradualmente trattato la società di comodo alla stregua di un consumatore finale. 5.1. La necessità di una correzione della disciplina alla luce della funzione generale. – L’obiettivo di correggere le anomalie che nascono sul piano impositivo a seguito dell’applicazione generalizzata dello statuto fiscale dell’impresa commerciale alle società di comodo risulta condivisibile a condizione che l’impianto normativo che lo attua assuma una forma adeguata, una sostenibilità logica ed una coerenza giuridica. Alla luce di tali principi il sistema normativo in materia di società di comodo dovrebbe essere rivisto. La forma - come si è molte volte messo in luce - ha assunto uno stato troppo confuso e stratificato. In considerazione dell’importanza della disciplina
(66) Sulla questione si vedano le riflessioni di V. Ficari, Redditi di impresa e programma imprenditoriale, cit., 53, che rileva – da tempo – un certo anacronismo del principio di attrazione relativo alle società di persone e di capitali commerciali, che costituisce una presunzione assoluta della natura del reddito prodotto, auspicando invece ad una imposizione differenziata sulla base dell’oggetto dell’attività (e non sul tipo di società).
208
Parte prima
in esame, la stessa dovrebbe essere semplificata e riformulata alla luce della funzione generale. Sul piano dei contenuti l’intero impianto normativo risulta oggi molto discusso e criticato a causa di previsioni molto irrazionali e particolarmente pregiudizievoli per il contribuente. Anche in tali aspetti, sul piano sostanziale, la disciplina dovrebbe essere rivista alla luce della sua funzione di fondo. Il recupero della funzione della disciplina, che si traduca in una rinnovata coerenza dell’assetto normativo, attraversa alcuni passaggi fondamentali volti ad abrogare delle previsioni e correggerne delle altre, come messo in luce nell’ambito dell’analisi della tecnica normativa utilizzata. Tra i passaggi che si reputano improrogabili si registra sicuramente una revisione del presupposto delle perdite sistematiche e dell’aliquota maggiorata Ires. La disciplina sulle società di comodo mostra un evidente sbilanciamento nella fase attuativa in senso pregiudizievole rispetto agli interessi del contribuente, che le fa assumere un carattere para-sanzionatorio. Tale carattere dovrebbe essere eliminato a favore di un impianto impositivo equilibrato e coerente con lo svolgimento di una attività di mero godimento dei beni.
Rossella Miceli
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Corte Cost., 5 luglio 2017 - 13 luglio 2017, n. 177; pres. Grossi; rel. de Pretis Imposta di registro – Atti giudiziari – Alternatività IVA-registro – Limitata ai provvedimenti di condanna – Natura eccezionale e derogatoria della previsione agevolativa – Impossibilità di interpretazione estensiva – Diritto vivente – Sentenza che ammette al concorso fallimentare un credito precedentemente escluso – Accertamento di diritti a contenuto patrimoniale – Presupposto necessario e sufficiente alla partecipazione all’esecuzione collettiva – Identità della ratio rispetto all’applicazione dell’alternatività ai provvedimenti di condanna – Illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 8, c. 1, lett. c), parte prima, Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986 nella parte in cui assoggetta ad imposta proporzionale le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo con accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA La disciplina che applica agli atti giudiziari la regola dell’alternatività ( quindi la sola imposta fissa quando hanno ad oggetto corrispettivi o prestazioni soggetti ad IVA ) ha natura agevolativa, sarebbe quindi estensibile solo quando lo esiga la ratio del beneficio. Nel caso, l’estensione è però impedita, secondo il diritto vivente, dalla natura eccezionale e derogatoria della previsione di cui alla Nota II dell’art. 8, parte prima, Tariffa allegata al D.P.R. n. 131/1986. Tuttavia le sentenze che, a seguito del giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, accertano la sussistenza di crediti si riconducono alla ratio sottesa alla disposizione che applica il principio di alternatività alle sentenze di condanna, stante l’impossibilità di azioni esecutive, qui surrogate proprio dalla partecipazione all’esecuzione collettiva cui le sentenze stesse danno adito. Risulta pertanto irragionevole e va dichiarato incostituzionale il disposto della lett. b) del c. 1 del suddetto art. 8 nella parte in cui non assoggetta ad imposta fissa le sentenze di accoglimento di opposizione allo stato passivo del fallimento che accertano crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA.
(Omissis) Ritenuto in fatto. - 1. Con ordinanza del 20 maggio 2016, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 2016, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato
74
Parte seconda
questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro). La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dal curatore del fallimento della K. I. spa nei confronti dell’Agenzia delle entrate - direzione provinciale II di Napoli. La controversia ha ad oggetto un avviso di liquidazione, che ha determinato in euro 68.559,00 l’imposta di registro relativa un decreto pronunciato ai sensi dell’art. 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; in seguito: legge fallimentare). Con esso il Tribunale ordinario di Napoli, definendo un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento della K. I. spa, ha ammesso al concorso un credito in precedenza escluso. Il ricorrente nel processo principale lamenta che sia stata applicata l’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 (in seguito, anche: Tariffa), anziché nella misura fissa, nonostante si tratti della registrazione di un provvedimento relativo a un credito derivante da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto (IVA). Sostiene, altresì, che le pronunce rese a definizione dei giudizi di opposizione allo stato passivo, per la loro natura endofallimentare, non sarebbero soggette a registrazione. Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 10 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, anziché in misura fissa, gli «[a]tti dell’Autorità Giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio […] c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale», anche nel caso di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA. 1.1. Sulla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, ai sensi della nota II all’art. 8 della Tariffa, gli atti giudiziari di cui al comma 1, lettera b) e al comma 1-bis dello stesso art. 8 non sono sottoposti all’imposta proporzionale di registro per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a IVA. Tale norma costituirebbe una particolare attuazione del principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilito dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986, sicché agli atti in essa indicati si applicherebbe l’imposta in misura fissa. Il rimettente osserva, altresì, che secondo la costante giurisprudenza di legittimità, alla quale dichiara di aderire, la norma di cui alla citata nota II si applica ai soli provvedimenti di condanna e, in quanto di stretta interpretazione, non si può estendere agli atti giudiziari che si limitano ad accertare crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, come le sentenze pronunciate in esito ai giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
75
Così interpretata la norma – che sarebbe valida anche per i decreti che definiscono ora i giudizi di opposizione, ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare nella sua attuale formulazione – il ricorso dovrebbe essere respinto, mentre esso sarebbe invece destinato ad essere accolto se la Corte ritenesse fondato il dubbio di costituzionalità. In questo secondo caso infatti il ricorrente dovrebbe pagare solo l’imposta di registro in misura fissa. Da qui, per il giudice a quo, la rilevanza della questione. 1.2. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la norma censurata violerebbe in primo luogo l’art. 3 Cost. per lesione del principio di eguaglianza, in quanto sarebbe del tutto irragionevole «trattare in maniera differenziata» le pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA e le pronunce di condanna al pagamento degli stessi crediti, per le quali la nota II all’art. 8 della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa. Secondo il rimettente, la pronuncia di condanna al pagamento di un credito presuppone sempre, quale suo antecedente logico, un giudizio di accertamento dello stesso credito, sicché il legislatore disciplinerebbe in modo irragionevolmente diverso «situazioni con presupposti identici», solo perché la parte avrebbe deciso di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore. Questa conclusione varrebbe, a maggior ragione, per i giudizi di opposizione allo stato passivo, in quanto il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare. Con l’opposizione si proporrebbe quindi una domanda di accertamento equivalente, nella sostanza, a un’azione di condanna, sia pure nei limiti del concorso, poiché il creditore chiede, oltre all’accertamento del suo diritto, anche di concorrere nell’attivo. 1.3. In secondo luogo, la norma censurata violerebbe l’art. 24 Cost. per lesione del diritto di difesa sia del creditore che del fallimento, in quanto il primo «non azionerà le sue pretese nel giudizio di opposizione (specialmente laddove vanti importi di notevole entità), perché a fronte di una ipotetica partecipazione al concorso (credito verosimilmente falcidiato e di molto) sosterrà viceversa un costo certo e di notevole entità (l’1% della somma vantata)», mentre il secondo avrebbe «maggiore convenienza a non coltivare alcun giudizio», perché l’ammissione al passivo del credito e il suo pagamento con la falcidia concorsuale si tradurrebbe per la massa dei creditori in un «costo» inferiore a quello che deriverebbe dal pagamento in prededuzione, ex art. 111 della legge fallimentare, dell’importo versato a titolo di imposta di registro proporzionale dal creditore vittorioso nel giudizio di opposizione. 1.4. Sarebbe violato anche l’art. 53 Cost. per lesione del principio di capacità contributiva, in quanto il creditore di una prestazione soggetta a IVA sarebbe tenuto al pagamento dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, indipendentemente «da una sua attività o scelta processuale» e «per il solo fatto che è stato costretto ad agire in ambito endo-fallimentare», non potendo agire in via ordinaria nei confronti
76
Parte seconda
del debitore fallito; e in quanto, inoltre, «il pagamento dell’imposta viene chiesto anche al Fallimento (anzi, in caso di accoglimento dell’opposizione il creditore istante avrà diritto al pagamento in prededuzione)». 1.5. Infine, sarebbe violato l’art. 10 Cost. per lesione del «principio di concorrenza (garantito anche a livello comunitario)», in quanto la norma censurata porrebbe il creditore del fallito «in una posizione deteriore rispetto a un creditore che agisca contro un debitore non fallito». 2. Con atto depositato in cancelleria il 22 novembre 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque manifestamente infondata. 2.1. L’interveniente osserva che l’imposta di registro, quale imposta d’atto, può avere natura di tassa o natura di imposta in senso stretto a seconda che essa sia legata alla prestazione di un servizio amministrativo di registrazione, che comporta l’applicazione del tributo in misura fissa, oppure al contenuto e agli effetti giuridici degli atti, dai quali emerga un evento suscettibile di valutazione economica, con conseguente applicazione di una misura proporzionale. L’imposta dovuta per i decreti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo avrebbe questa seconda natura, dal momento che essi contengono l’accertamento dell’esistenza e dell’efficacia del credito nei confronti della procedura e consentono al contribuente di partecipare al concorso ottenendo la soddisfazione del credito in sede di riparto. Ciò premesso, ad avviso dell’Avvocatura la diversità delle situazioni messe a confronto escluderebbe la fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. Solo la pronuncia di condanna, a differenza di quella di accertamento, costituisce titolo esecutivo idoneo a ottenere sia la soddisfazione coattiva del credito che l’adozione di misure cautelari, quale l’ipoteca giudiziale ex art. 2818 del codice civile. Il fatto che la condanna presupponga sempre l’accertamento del diritto non rileverebbe, perché «quest’ultimo è qualcosa in meno rispetto alla condanna», così da giustificare l’assoggettamento delle corrispondenti decisioni giudiziarie a un’imposta proporzionale dell’uno per cento, ridotta a un terzo di quella ordinariamente prevista per le sentenze di condanna, pari al tre per cento ex art. 8, comma 1, lettera b), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. Nel caso di accertamento giudiziale di un credito derivante da operazioni soggette a IVA, la mancata applicazione del principio di alternatività sarebbe del tutto logica e coerente con il sistema, perché la natura dichiarativa della pronuncia esclude l’obbligo di versamento dell’IVA. Verrebbe pertanto meno la necessità di evitare una doppia imposizione dello stesso fatto economico, costituente la ratio dell’assoggettamento alla sola imposta fissa delle pronunce di condanna, la cui esecuzione determina l’applicazione immediata dell’IVA. Il trattamento delle sentenze di accertamento con una tassazione di registro autonoma, pari a un terzo di quella ordinaria, sembrerebbe dunque ragionevole.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
77
Secondo l’interveniente, il fatto che nel giudizio di opposizione allo stato passivo sia preclusa una pronuncia di condanna al pagamento del credito accertato non comporta alcuna violazione dell’art. 3 Cost., in quanto le situazioni messe a confronto permangono comunque diverse. Nelle procedure concorsuali, invero, l’impossibilità di ottenere pronunce di condanna al pagamento dei crediti ammessi al passivo sarebbe connaturata al sistema, che vieta di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ex art. 51 della legge fallimentare, sicché l’auspicata estensione del principio di alternatività ai soli decreti che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo, in sostanziale deroga alla regola generale che prevede la tassazione proporzionale delle decisioni di accertamento, apparirebbe del tutto ingiustificata. 2.2. La questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. sarebbe inammissibile, perché fondata sull’erroneo presupposto che il creditore escluso dal concorso sia indotto a non proporre opposizione per la certezza del costo corrispondente all’imposta proporzionale di registro applicabile sulla somma accertata giudizialmente, mentre la sua successiva riscossione in sede di riparto sarebbe invece incerta e soggetta alla falcidia concorsuale. Il giudice a quo non avrebbe considerato che il costo della registrazione del decreto emesso ex art. 98 della legge fallimentare non rimane a carico del creditore vittorioso che abbia anticipato il pagamento dell’imposta, avendo egli diritto al rimborso della spesa nei confronti della procedura, in prededuzione rispetto agli altri crediti. 2.3. La questione sollevata in riferimento all’art. 53 Cost. sarebbe infondata, in quanto l’imposta di registro in esame è applicabile in presenza di una manifestazione di capacità contributiva, come si dovrebbe considerare la pronuncia di accertamento dell’esistenza di un credito. 2.4. Infine, la questione riferita all’art. 10 Cost., sotto il profilo della lesione del principio comunitario di tutela della concorrenza, sarebbe inammissibile per mancanza assoluta di motivazione, apparendo in ogni caso improprio il riferimento a tale parametro, anziché all’art. 11 Cost. Considerato in diritto. - 1. La Commissione tributaria provinciale di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) (in seguito, anche: Tariffa), in riferimento agli artt. 3, 10, 24 e 53 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, anziché in misura fissa, gli «[a]tti dell’Autorità Giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio […] c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale», anche nel caso di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto (IVA). La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dal curatore di un fallimento nei confronti dell’Agenzia delle entrate - direzione provinciale II di Napoli. La controversia ha ad oggetto un avviso di liquidazione che ha applicato l’imposta di registro
78
Parte seconda
proporzionale a un decreto con il quale il Tribunale ordinario di Napoli, definendo un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ha ammesso al concorso un credito in precedenza escluso, ai sensi dell’art. 99 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa; in seguito: legge fallimentare). Il ricorrente nel processo principale lamenta che sia stata applicata l’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento ai sensi dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, anziché nella misura fissa, nonostante si tratti della registrazione di un provvedimento relativo a un credito derivante da operazioni soggette a IVA. Il rimettente osserva che ai sensi della nota II all’art. 8 della Tariffa gli atti giudiziari recanti condanna al pagamento di somme, di cui al comma 1, lettera b), e al comma 1-bis dello stesso art. 8, per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a IVA, non sono sottoposti all’imposta proporzionale di registro, bensì all’imposta in misura fissa, in attuazione del principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilito dall’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986. Il rimettente osserva, altresì, che secondo la costante giurisprudenza di legittimità, alla quale dichiara di aderire, la norma di cui alla citata nota II si applica ai soli provvedimenti di condanna e, per la sua natura di stretta interpretazione, non si può estendere agli atti giudiziari che si limitano ad accertare crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, come quelli pronunciati in esito ai giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento. 2. La norma censurata violerebbe in primo luogo l’art. 3 Cost. per lesione del principio di eguaglianza, in quanto sarebbe del tutto irragionevole trattare in maniera differenziata le pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA e le pronunce di condanna al pagamento degli stessi crediti, per le quali la nota II all’art. 8 della Tariffa prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa. Secondo il rimettente, la pronuncia di condanna al pagamento di un credito presuppone sempre, quale suo antecedente logico, un giudizio di accertamento dello stesso credito, sicché il legislatore disciplinerebbe in modo irragionevolmente diverso «situazioni con presupposti identici», solo perché la parte avrebbe deciso di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore. Questa conclusione varrebbe, a maggior ragione, per i giudizi di opposizione allo stato passivo, in quanto il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare. Con l’opposizione, pertanto, si proporrebbe una domanda di accertamento equivalente nella sostanza a un’azione di condanna, sia pure nei limiti del concorso, poiché il creditore chiede, oltre all’accertamento del suo diritto, anche di concorrere nell’attivo. In secondo luogo, la norma censurata violerebbe l’art. 24 Cost., per lesione del diritto di difesa, sia del creditore che del fallimento, in quanto il primo «non azionerà le sue pretese nel giudizio di opposizione (specialmente laddove vanti importi di
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
79
notevole entità) perché a fronte di una ipotetica partecipazione al concorso (credito verosimilmente falcidiato e di molto) sosterrà viceversa un costo certo e di notevole entità (l’1% della somma vantata)», mentre il secondo avrebbe «maggiore convenienza a non coltivare alcun giudizio», perché l’ammissione al passivo del credito e il suo pagamento con la falcidia concorsuale si tradurrebbe per la massa dei creditori in un «costo» inferiore a quello che deriverebbe dal pagamento in prededuzione, ex art. 111 della legge fallimentare, dell’importo versato a titolo di imposta di registro proporzionale dal creditore vittorioso nel giudizio di opposizione. Sarebbe violato anche l’art. 53 Cost., per lesione del principio di capacità contributiva, in quanto il creditore di una prestazione soggetta a IVA sarebbe tenuto al pagamento dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, indipendentemente «da una sua attività o scelta processuale» e «per il solo fatto che è stato costretto ad agire in ambito endo-fallimentare», non potendo agire in via ordinaria nei confronti del debitore fallito; inoltre, in quanto «il pagamento dell’imposta viene chiesto anche al Fallimento (anzi, in caso di accoglimento dell’opposizione il creditore istante avrà diritto al pagamento in prededuzione)». Infine, sarebbe violato l’art. 10 Cost. per lesione del «principio di concorrenza (garantito anche a livello comunitario)», in quanto la norma censurata porrebbe il creditore del fallito «in una posizione deteriore rispetto a un creditore che agisca contro un debitore non fallito». 3. La questione è fondata. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità la sentenza che a seguito del giudizio di opposizione ammette al passivo del fallimento un credito in precedenza escluso deve essere assoggettata all’imposta proporzionale dell’uno per cento, prevista dall’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. Si tratta infatti di una pronuncia emessa in esito a un giudizio contenzioso di cognizione contenente l’accertamento, nei confronti della procedura fallimentare, dell’esistenza e dell’efficacia del credito con l’effetto di consentire al contribuente la partecipazione al concorso e la possibile soddisfazione delle sue ragioni in sede di riparto (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 7 novembre 2012, n. 19247; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 19 ottobre 2012, n. 17947 e n. 17946; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 5 luglio 2011, n. 14816; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 26 giugno 2009, n. 15159; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 10 giugno 2005, n. 12359; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 18 febbraio 2000, n. 1849). Queste caratteristiche segnano la differenza fra la pronuncia in esame e gli atti giudiziali indicati nell’art. 8, comma 1, lettera b), e comma 1-bis della Tariffa, i quali, contenendo una statuizione di condanna, sono suscettibili di esecuzione forzata, preclusa, invece, nella procedura concorsuale. Dalle diverse caratteristiche (e dai diversi effetti) dei due tipi di pronunce deriva che la regola dell’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA stabilita dall’art. 40
80
Parte seconda
del d.P.R. n. 131 del 1986 – secondo il quale «[p]er gli atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi soggetti all’imposta sul valore aggiunto, l’imposta si applica in misura fissa» – non opera nel caso in cui il credito ammesso al concorso fallimentare in esito al giudizio di opposizione sorga da operazioni soggette a IVA. La nota II all’art. 8 della Tariffa limita infatti l’applicazione della citata regola dell’alternatività ai soli atti indicati espressamente (quelli di cui al comma 1, lettera b, e al comma 1-bis dell’art. 8), con una previsione agevolativa che, per la sua natura eccezionale e derogatoria, non è applicabile ad altri atti giudiziari. «In definitiva» – afferma la Cassazione – «il legislatore, nell’ambito delle tipologie di atti dell’autorità giudiziaria elencate nell’art. 8 della tariffa, ha individuato in modo specifico e puntuale, nell’esercizio della sua discrezionalità, quelle […] da assoggettare, in deroga alla previsione generale, ad imposta in misura fissa anziché proporzionale: ne deriva che, pur se in astratto anche le disposizioni tributarie recanti benefici fiscali sono suscettibili di interpretazione estensiva […], la norma in esame, per le caratteristiche suddette, non lascia spazio all’interprete per ampliarne la precisa portata applicativa» (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 19 ottobre 2012, n. 17947 e n. 17946). Questo orientamento interpretativo può essere riferito anche al decreto motivato che definisce le medesime controversie ai sensi dell’art. 99 della legge fallimentare, nel testo vigente, trattandosi di provvedimento emesso all’esito di un giudizio contenzioso in materia di diritti soggettivi, sicché la sua forma, propria del rito camerale scelto dal legislatore, non ne muta la natura di pronuncia di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale, ex art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa. Per la sua uniformità e costanza nel tempo, la descritta interpretazione della portata dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa integra il diritto vivente, sicché correttamente il giudice a quo pone in riferimento ad essa il suo dubbio di legittimità costituzionale, sottoponendola allo scrutinio di questa Corte. 3.1. Nell’esame della censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost., si deve muovere dalla riconosciuta natura agevolativa della disciplina che applica l’imposta di registro in misura fissa alle (sole) pronunce di condanna al pagamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA. Questa Corte si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni che prevedono agevolazioni fiscali e, in questo contesto, ha affermato che «norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)» (da ultimo, sentenze n. 153 del 2017 e n. 111 del 2016).
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
81
È pertanto necessario verificare innanzitutto se, come sostiene il giudice a quo, la ratio dell’agevolazione si possa considerare comune anche alla categoria delle pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette a IVA, per le quali l’applicazione dell’imposta in misura fissa è negata. L’agevolazione trova il suo fondamento nel principio di alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA, stabilito in via generale dal citato art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986 e diretto a evitare fenomeni di doppia imposizione, conseguenti alla simmetria del sistema IVA-registro. Condizione necessaria e sufficiente del trattamento agevolato è che l’operazione ricada nell’ambito di applicazione dell’IVA, delineato oggettivamente e soggettivamente dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto). Si deve trattare, cioè, di «cessioni di beni» (art. 2) o «prestazioni di servizi» (art. 3) effettuate da soggetti esercenti attività di impresa (art. 4) o «arti e professioni» (art. 5). Quanto agli atti giudiziari, l’ambito di applicazione del principio è specificamente limitato, come precisato dalla citata nota II all’art. 8 della Tariffa, ai provvedimenti di condanna «per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto». Come visto, l’estensione del trattamento agevolativo alle pronunce di accertamento di corrispettivi o prestazioni ugualmente soggetti all’IVA è impedita, per diritto vivente, dalla natura eccezionale e derogatoria della sua previsione rispetto alla regola generale dell’assoggettamento delle pronunce di condanna all’imposta di registro proporzionale. A sostegno della censura di irragionevolezza, il giudice a quo muove innanzitutto dal rilievo che la condanna presuppone sempre un giudizio di accertamento, con la conseguenza che il legislatore disciplinerebbe in modo diverso situazioni aventi gli stessi presupposti, facendo dipendere la diversità di trattamento fiscale solo dalla decisione della parte di non chiedere contestualmente anche la condanna del debitore. Questa tesi non può essere condivisa. In generale, il fatto che l’accertamento del diritto di credito costituisca il necessario antecedente logico-giuridico della condanna non rende omogenee le fattispecie messe a confronto, neppure ai fini del regime tributario agevolato. È evidente, infatti, la diversità degli effetti che derivano dai due tipi di pronunce, quanto alla realizzazione degli interessi del creditore, perché solo quelle di condanna sono suscettibili di esecuzione forzata, rientrando così nell’ambito di applicazione dell’IVA qualora dispongano il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti a tale imposta. Nondimeno, tenuto conto della ratio del principio di alternatività, che mira a evitare la doppia imposizione dello stesso atto, si deve pervenire a una diversa conclusione con riguardo alle pronunce di accertamento dei crediti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento. Può così circoscriversi il più ampio petitum formulato dal giudice a quo, alla luce delle specifiche motivazioni che egli dedica a tale profilo della censura di irragionevolezza, in stretta correlazione con la fattispecie dedotta nel processo principale. Il rimettente precisa infatti che nei giudizi
82
Parte seconda
di opposizione allo stato passivo il creditore escluso non potrebbe agire per ottenere la condanna del fallimento, ostandovi le regole del concorso, che consentono solo l’azione di accertamento endofallimentare, con la quale il creditore chiede, altresì, di concorrere nella ripartizione dell’attivo. Invero, il trattamento differenziato non risponde a ragionevolezza qualora l’accertamento del credito soggetto a IVA sia, come nel caso dell’accoglimento dell’opposizione allo stato passivo, il presupposto necessario e sufficiente della partecipazione del creditore all’esecuzione collettiva, che è strumentale al pagamento del credito stesso, sia pure in “moneta fallimentare”. Sotto tale profilo, la differenza tra le pronunce di accertamento e le pronunce di condanna, da cui la richiamata giurisprudenza trae la conclusione dell’inapplicabilità del regime fiscale agevolato alle prime, tende a sfumare sino a dissolversi. Per la soddisfazione del credito ammesso al passivo, infatti, non è richiesta una successiva pronuncia di condanna suscettibile di esecuzione forzata, preclusa dal divieto ex art. 51 della legge fallimentare. Da questo angolo visuale, la ratio sottesa all’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA risulta comune a entrambe le situazioni messe a confronto ed esige pertanto che l’ambito di applicazione del beneficio fiscale sia esteso alle pronunce in questione, non essendo rilevante che il pagamento del corrispettivo soggetto a IVA, in sede di riparto dell’attivo fallimentare, sia un evento futuro e incerto nell’an e nel quantum, ben potendo valere questa stessa affermazione anche per il pagamento coattivo in seguito a condanna, che dipende comunque dalla capienza del patrimonio del debitore. Di conseguenza, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto. Le altre censure, con le quali il giudice a quo lamenta la violazione degli artt. 10, 24 e 53 Cost., rimangono assorbite. P.Q.M. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte prima, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto. (Omissis)
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
83
L’alternatività iva-registro ed i suoi limiti. Sommario: 1. Ma si tratta veramente di agevolazione? – 2. L’alternatività fra IVA ed imposte sui trasferimenti come assetto strutturale del sistema tributario italiano. – 3. L’estensione degli effetti dell’alternatività nell’interpretazione degli artt. 5 e 40 T. U. – 4. La nota II all’art. 8, Tariffa, parte prima. – 5. Conclusioni.
La Cassazione interpreta restrittivamente la disposizione di cui alla nota II all’art. 8 tariffa, parte prima allegata al DPR 131/1986, escludendo dall’alternatività IVA- registro le sentenze, di accertamento, che ammettono al passivo un credito costituente corrispettivo soggetto ad IVA. La Corte costituzionale, qualificando tale indirizzo interpretativo come “diritto vivente”, restringe, con sentenza “manipolativa”, l’efficacia normativa della lettera c) comma 1 dell’art. 8 della tariffa stessa, ottenendo l’estensione, argomentata per identità di ratio, dell’alternatività alle sentenze suddette. L’artificiosità della costruzione dimostra che è preferibile un’interpretazione analogica della succitata nota II. The Supreme Court (Corte di Cassazione) interprets strictly the rule set out in note II to Section 8 of the tariff, part one, attached to the Presidential Decree (DPR) 131/1986, thus excluding from the alternativity between VAT and registration tax those (declarative) court decisions which admit among the bankruptcy’s liabilities credits arising from a consideration subject to VAT. The Constitutional Court, by qualifying such interpretation as “living law”, limits (through a “modificative” decision) the effectiveness of letter c), paragraph 1, of Section 8 of the same tariff, thus achieving the extension, based on the same ratio, of the alternativity between VAT and registration tax for such court decisions. The artificiality of such interpretation proves that an analogical (and therefore broader) interpretation of the abovementioned note II is preferable.
1. Ma si tratta veramente di agevolazione? – Tutta la motivazione della sentenza sembra muovere dalla qualificazione della regola dell’alternatività IVA-registro come agevolazione. Dalla natura di “previsione agevolativa” si deduce la natura “eccezionale e derogatoria” dell’assoggettamento ad imposta fissa dei provvedimenti giurisdizionali di condanna al pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti ad I V A (art. 8, nota II, parte prima Tariffa allegata al D. P. R. n. 131/1986, che deroga ai c. 1, lett. b), e 1 bis dello stesso articolo), quindi si conferma la giurisprudenza della Cassazione che ne nega l’interpretazione estensiva, giurisprudenza che viene qualificata “diritto vivente”. Applicando la propria giurisprudenza in materia di agevolazioni fiscali (da ultimo sentenze nn. 153/2017 e 111/2016), che ammette sentenze di accoglimento con effetto “estensivo” di tali “benefici” solo “quando lo esiga la
84
Parte seconda
ratio che li ispira (e già si tratta di un’attenuazione del vincolo delle “rime obbligate”), la Corte rileva, riguardo alle pronunce di accertamento di crediti che definiscono il giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, la sussistenza della medesima ragione di evitare la concorrente applicazione dell’IVA e dell’imposta di registro. Infatti le regole del concorso impediscono al creditore escluso dallo stato passivo l’azione di condanna, consentendogli soltanto di chiedere, tramite un giudizio di accertamento, di partecipare all’esecuzione collettiva, che d’altronde gli permette di ottenere la soddisfazione del suo credito, sia pure in moneta fallimentare. Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale (per violazione dell’art. 3 cost., come risulta dalla motivazione) dell’art. 8, c. 1, lett. c),della Tariffa, parte prima, allegata al D. P. R. n. 131/1986 (disposizione relativa ai provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto 1’“accertamento di diritti a contenuto patrimoniale”, assoggettati all’aliquota dell’1%) “nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”. La sentenza (che in caso di diversa formulazione dell’eccezione di incostituzionalità poteva essere riferita alla succitata nota II dello stesso art. 8), sollecita un immediato dubbio: perché qualificare, senza alcuna incertezza, la disciplina della c. d. “alternatività IVA-registro” (artt. 5, c. 2, e 40 D. P. R. n. 131/1986, 8, nota II, parte prima, e 1, c. 1, lett. b), parte seconda della relativa Tariffa) come “agevolativa”? La delimitazione dei presupposti dei tributi per evitare plurime imposizioni dei medesimi fatti costituisce, a mio parere, uno dei più evidenti esempi di “esclusione”, non di “esenzione” dal tributo. Poiché l’esclusione, a prescindere dalla tecnica formulare adottata, è modalità di definizione del presupposto coerente con la ratio ispiratrice del tributo, non può affermarsene 1’“eccezionalità”, dunque non vi è limite alla sua estensione, anche analogica. La posizione della Cassazione (qui elevata a “diritto vivente”) è eccessivamente influenzata dal riferimento alla “deroga”; ma sembra si dimentichi che il rapporto derogatorio esprime, in sé, una relazione fra proposizioni verbali, non necessariamente fra norme. Ora, nel caso dell’esclusione, si ha proprio una pluralità di proposizioni nei testi normativi, che esprime però un’unica regula iuris: la definizione del presupposto del tributo. D’altronde il riferimento alla deroga è, per la Cassazione, strumentale alla qualificazione di eccezionalità, che esclude l’analogia; ma, nel caso in esame, è la sentenza stessa della Corte costituzionale che, accertando l’identità
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
85
di ratio, estende la regola dell’alternatività (la sentenza di accoglimento per violazione dell’art. 3 mi sembra implicare sempre un giudizio circa l’identità della ratio). Riconoscendo la natura di “esclusione” alla regola dell’alternatività, la Corte avrebbe quindi potuto ammetterne l’estensibilità analogica. A ciò non dovrebbe fare ostacolo la diffusa opinione che, in funzione garantista, nega la possibilità di “integrazione” analogica delle norme impositrici: infatti l’estensione della regola ridurrebbe, non amplierebbe, l’area dei fatti imponibili. Altro discorso riguarda il rapporto fra riserva di legge ed analogia, ma richiederebbe uno spazio eccessivo; si può comunque rilevare che con questa sentenza di accoglimento “sottrattivo” con riferimento a disposizione “additiva” la Corte ha ottenuto esattamente l’effetto sostanziale di un’estensione analogica, e questo parrebbe un forte argomento a favore della possibilità di analogia in materia riservata. Aperto il varco all’analogia, la Corte avrebbe potuto richiamare l’onere dell’“interpretazione conforme” e dichiarare inammissibile l’eccezione. Mi sembra però aver qui operato in modo decisivo la convinzione circa il consolidamento della giurisprudenza della Cassazione: la forza del “diritto vivente” altera il faticoso equilibrio con il principio dell’“interpretazione conforme”; è certo però che il risultato pratico dell’estensione del regime dell’imposta fissa agli atti in questione è ottenuto all’esito di un iter logico – giuridico per lo meno problematico. A questo punto si dovrebbe affrontare la vera sostanza del tema sottoposto al giudizio della Corte, che riguarda la ratio effettivamente sottesa al principio dell’alternatività IVA-registro e quindi l’ambito degli atti “relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi” soggetti ad IVA, dunque non assoggettabili ad imposta proporzionale di registro. Pur con la necessaria sintesi imposta dalle dimensioni di una nota a sentenza, tenterò di esporre un’opinione al riguardo nei paragrafi successivi. 2. L’alternatività fra IVA ed imposte sui trasferimenti come assetto strutturale del sistema tributario italiano. – Per quanto attiene alla natura e funzione della disciplina sinteticamente evocata con la formula dell’alternatività una prima considerazione sembra pacificamente ammessa: non si tratta di regole inerenti la struttura stessa dell’IVA o comunque rese necessarie dalla sua introduzione nei sistemi tributari dei paesi aderenti alla Comunità (oggi all’Unione) europea. Le direttive in materia hanno sempre escluso la possibilità, per gli stati, di istituire tributi simili all’IVA, ma l’imposta di registro non
86
Parte seconda
è tale, quindi può con essa legittimamente coesistere. La giurisprudenza della Corte di giustizia sull’argomento è costante e pacifica. In effetti, la scelta di evitare un concorso tra l’applicazione della nuova imposta sugli scambi e quella dell’imposta di registro in misura proporzionale nasce, nella progettazione della riforma del sistema tributario italiano disegnata dalla L. n. 825/1971, da una considerazione intrinseca al sistema stesso. Il tributo di registro aveva sempre assunto, sin dalla sua istituzione, le caratteristiche di un’imposta generale, gravante, in ragione della loro efficacia giuridica, tutti gli atti, da chiunque posti in essere, a prescindere dal tipo di attività in cui fossero inseriti. L’introduzione, ed il progressivo espandersi, di forme sempre più estese di imposizione dei consumi, risoltasi poi nell’istituzione di un’imposta “generale”, l’IGE, appunto, aveva già evidenziato la possibilità di sovrapposizioni nell’ambito di applicazione di istituti fiscali che non prevedevano delimitazioni delle rispettive aree di operatività. Il fenomeno era generalmente apprezzato negativamente ed incluso fra le criticità del sistema (frequente, ad es., il riferimento al contratto di appalto, che dava luogo all’applicazione sia dell’imposta di registro sia dell’IGE, oltre all’imposta di bollo sulla documentazione scritta). Il problema fu risolto (art. 7, c. 2, L. n. 825/1971) con una delimitazione dell’ambito di operatività dell’imposta di registro in quanto applicata con aliquota proporzionale, volta ad escluderne l’applicazione concorrente con l’IVA. La formula adottata nella legge delega risulta quanto meno discutibile, in quanto l’applicazione “in misura fissa” è prevista per gli atti che “prevedono corrispettivi soggetti all’imposta sul valore aggiunto”: la scelta dei termini evidenzia, infatti, il permanere degli schemi concettuali elaborati per l’imposta generale sull’entrata. Indubbiamente più preciso nell’identificare le operazioni soggette ad IVA costituenti il primo termine di riferimento per determinare la limitazione apportata all’ambito di operatività dell’imposta di registro risulta il testo dell’art. 38 D.P.R. 26.10.1972, n. 634, che, in attuazione della delega, così disciplinava il profilo “sostanziale” dell’alternatività: “Per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi soggetti all’imposta sul valore aggiunto l’imposta si applica in misura fissa.”. Tuttavia le fattispecie rispetto alle quali operava l’esclusione dell’imposta proporzionale di registro erano menzionate solo nella rubrica dello stesso art. 38, così formulata: “Atti relativi ad operazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto”. Solo nell’art. 40 del Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro (D.P.R. n. 131/1986) il testo della disposizione è integrato dal riferimento ad ambedue i termini del rapporto di alternatività: “Per gli atti relativi a cessioni di beni
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
87
e prestazioni di servizi soggetti all’imposta sul valore aggiunto l’imposta si applica in misura fissa.”. L’“alternatività” ha trovato applicazioni anche alle imposte ipotecarie e catastali, nonché, in misura assai limitata, all’imposta di bollo, tributi che tuttavia non interessano il caso che ha dato origine alla questione di legittimità costituzionale qui considerata. La disciplina che esprime l’incidenza dell’alternatività sui criteri di determinazione quantitativa del tributo di registro fu integrata, nella legislazione delegata, con una rilevante attenuazione dei relativi obblighi “formali” (cui consegue, normalmente, la non applicazione anche dell’imposta fissa), attenuazione consistente nell’inclusione di tutte le scritture private non autenticate contenenti solo disposizioni relative ad operazioni soggette ad IVA fra gli atti da registrare solo in caso d’uso (oggi artt. 5, c. 2, D.P.R. n. 131/1986 e 1, c. 1, lett. b), parte seconda, della Tariffa allegata). La disciplina così introdotta comporta una limitazione degli effetti di fattispecie imponibili (che tali restano solo per la più limitata incidenza dell’imposta fissa ove sia dovuta, o comunque richiesta, la registrazione) collegata all’operatività di un diverso tributo; essa determina, da un lato, il venir meno dell’accennato carattere di “generalità” originariamente attribuito all’imposta di registro, dall’altro, instaura tra i due tributi un rapporto, correntemente denominato “alternatività”, assai simile ai rapporti di “surrogazione” o “sostituzione”. Si tratta, peraltro, di disciplina propria ed esclusiva del registro, riferibile quindi alle sole fattispecie imponibili rilevanti per questo tributo, ma, per la sua funzione regolatrice di fenomeni di “concorrenza” delle due imposte, necessariamente collegata anche con le fattispecie rilevanti ai fini dell’applicazione dell’IVA. Come già si è accennato, la fissazione degli ambiti di operatività di due tributi, frutto di un apprezzamento complessivo della loro collocazione nel sistema tributario, esprime un principio ordinatore non riducibile alla nozione di agevolazione fiscale, e neppure a quella di deroga, se intesa come relazione fra principi e regole ad essi non coerenti, dotate di minor capacità espansiva. Non è quindi possibile accettare l’indirizzo interpretativo seguito dalla Cassazione nelle pronunce assunte dalla Corte costituzionale come “diritto vivente”: la portata normativa delle disposizioni di legge in materia di alternatività va stabilita, senza accettare pregiudiziali limitazioni, in funzione della ratio cui esse complessivamente si riconducono. Gli “atti” soggetti a registrazione, o comunque ad essa sottoposti, cui l’imposta di registro si applica “in misura fissa” sono dunque quelli “relativi” ad operazioni soggette ad IVA: la regola dell’alternatività include un
88
Parte seconda
rinvio all’intera disciplina di quest’ultimo tributo per l’identificazione delle “operazioni” ad esso soggette. Si deve però tenere conto che l’intero impianto della riforma nel settore dell’imposizione indiretta attribuisce all’imposta sul valore aggiunto una posizione di preminenza e, proprio in funzione dell’alternatività, la riconosce come forma tendenzialmente esclusiva di imposizione delle attività economiche. Ciò spiega i limiti all’operatività del principio generale per cui, nel rinvio intraistituzionale, le norme inserite nel sistema richiamante dovrebbero essere conformate ai principi di quest’ultimo: la soluzione adottata per gli assetti permutativi fra prestazioni di cui una soltanto è soggetta ad IVA evidenzia il riconoscimento di una totale prevalenza al principio per cui in ogni scambio le prestazioni non aventi ad oggetto denaro costituiscono distinte operazioni, del tutto estraneo alla sistematica del registro, alla quale è però conformata la stessa identificazione delle due fattispecie imponibili, l’una soggetta all’imposta fissa di registro, l’altra a quella proporzionale. Anche per stabilire l’ambito di operatività dell’alternatività si dovrà quindi fare preliminarmente riferimento alle “operazioni” come definite ai fini dell’applicazione dell’IVA, ma individuandone un’area di effetti entro la quale identificare le fattispecie rilevanti ai fini del registro (gli “atti”), cui è riservato il regime dell’imposta fissa o della registrazione solo in caso d’uso. In questi termini si pone dunque la questione affrontata nella sentenza annotata, che si incentra, appunto, sul criterio identificativo degli “atti relativi” ad operazioni soggette ad IVA. 3. L’estensione degli effetti dell’alternatività nell’interpretazione degli artt. 5 e 40 T. U. – Come chiaramente risulta dalla motivazione, la Corte costituzionale ha inteso individuare il principio ispiratore dell’alternatività, accertarne razionalità ed attitudine ad espandersi a situazioni testualmente non previste nelle disposizioni legislative, secondo il procedimento logico dell’analogia. Tuttavia la Corte stessa non ha ritenuto di potersi affidare all’analogia in quanto tale, ostandovi il “diritto vivente”; la riconduzione alla disciplina dell’alternatività di situazioni di fatto non previste, ma per le quali sussiste l’“eadem ratio”, è stata quindi ottenuta mediante una sentenza manipolativa. Sembra dunque evidente l’esigenza di ancorare il risultato normativo dell’operazione compiuta dalla Corte ad un principio con saldi fondamenti normativi e coerente nelle singole applicazioni. All’individuazione di tale principio non fanno ostacolo le espresse deroghe all’alternatività successivamente introdotte (cfr., ad es., art. 40, c. 1 bis, D.P.R.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
89
n. 131/1986; art. 5, c. 1, lett. a bis) e art. 8 bis Tariffa allegata al D.P.R. stesso; con riferimento all’alternatività dell’IVA con l’imposta ipotecaria di trascrizione, art. 1 bis Tariffa allegata al D. Lgs. n. 347/1990). Queste limitazioni all’ambito di operatività del principio, dettate essenzialmente dall’esigenza di limitare le possibilità di evasione all’IVA, non incidono sul fondamento e sulla ratio ispiratrice del principio stesso, ponendo piuttosto il problema della loro giustificazione e razionalità. Da un esame, anche sommario, della prassi amministrativa e della giurisprudenza emerge che sin dall’inizio esse si sono orientate, pur in mancanza di qualsiasi supporto testuale nelle disposizioni addietro richiamate, ad una concezione ampia della “relazione” fra “atti” soggetti a registrazione ed “operazioni” soggette ad IVA. Già nel periodo immediatamente successivo alla riforma Amministrazione finanziaria (Circ. n. 301388/75 del 17.7.1976) e giurisprudenza di merito (C.T.C. n. 1407 del 17.6.1983) appaiono concordi nell’estendere gli effetti dell’alternatività a “tutto quanto il negozio” rientrante nella sfera di applicazione dell’IVA, nell’“interezza delle disposizioni necessariamente connesse” (Circ. n. 7/1973) ovvero anche agli atti separati attinenti ad un “preordinato negozio giuridico colpito da IVA” del quale sono “parte integrante e conclusiva”. Con riferimento dapprima agli atti di quietanza (relativamente all’imposta di bollo cfr. Nota n. 30/399 del 25.7.1983, da ultimo confermata da Ris. N. 73/E del 23.3.2009) si prospetta quindi l’idea che l’applicazione dell’imposta proporzionale di registro sia preclusa non solo per gli atti che “contengano la cessione di beni o la prestazione di servizi”, ma anche per tutti quelli che “servono a sostanziare il rapporto giuridico espresso dalle parti” considerato nella sua interezza ed unitarietà, con particolare riguardo all’adempimento delle obbligazioni assunte (quindi si considerano soggette ad imposta fissa tutte le quietanze, non solo per corrispettivi, ma anche per restituzioni connesse all’operazione, ad es., del capitale mutuato). Il collegamento con le obbligazioni connesse all’operazione imponibile ai fini IVA assume pertanto un rilievo decisivo nell’individuazione degli atti ad essa “relativi” ed il criterio per l’individuazione di tali obbligazioni tende a spostarsi dal rapporto genetico con il negozio in cui si risolve la singola cessione di beni o prestazione di servizi al contenuto della prestazione dovuta. Ciò appare evidente nell’ulteriore evoluzione, in appresso richiamata, di questo indirizzo interpretativo, che estende gli effetti dell’alternatività anche all’adempimento delle obbligazioni di garanzia (accessorie, come quelle del fidejussore, od autonome, come nel caso dell’avallante – cfr. Ris n. 300980 del 6.11.1975).
90
Parte seconda
Questa concezione dell’alternatività contrasta fortemente con la usuale conformazione dei rapporti di concorrenza, surrogazione, sostituzione e complementarietà fra tributi, che è fondata su relazioni di sovrapposizione, totale o parziale, fra le fattispecie imponibili dei tributi stessi. Ora, l’adempimento dell’obbligazione di pagare il corrispettivo in denaro di cessioni di beni o prestazioni di servizi, è rilevante in ambito IVA, almeno ai fini dell’esigibilità, se anteriore al perfezionarsi dell’operazione (produzione dell’effetto reale nelle cessioni di immobili, consegna o spedizione nelle cessioni mobiliari, ultimazione delle prestazioni di servizi), se successivo risulta, invece, irrilevante, anche ai fini dell’eventuale recupero dell’imposta (l’operatività dell’art. 26, c. 2, D.P.R. n.633/1972 presuppone l’avvenuta risoluzione per inadempimento ovvero il verificarsi delle fattispecie di cui al c. 4 dello stesso art. 26). Peraltro, anche l’adempimento di obbligazioni ulteriori, strumentali per o connesse con l’operazione imponibile (ad es., la consegna dell’immobile successivamente al trasferimento della proprietà) può risultare irrilevante ai fini IVA. L’idea di alternatività dominante in giurisprudenza e nelle interpretazioni dell’amministrazione finanziaria prescinde quindi da una rigorosa comparazione delle fattispecie rilevanti ai fini dell’applicazione dell’IVA e degli altri tributi interessati e si fonda invece su di una considerazione assai ampia di tutte le vicende giuridiche nelle quali si realizzano gli interessi coinvolti in ciascuna “operazione” soggetta ad IVA. Si prospetta, insomma, l’assoggettamento alla sola imposta fissa per tutti gli atti che danno esecuzione alle obbligazioni nascenti dai relativi contratti o documentano l’esecuzione stessa (e forse, al limite, anche degli atti produttivi di effetti meramente strumentali al perfezionarsi dell’operazione). 4. La nota II all’art. 8, Tariffa, parte prima. – Col D.P.R. 26.4.1986, n. 131, portante l’approvazione del Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, fu aggiunta, nell’art. 8, Parte prima della Tariffa allegata, la seguente nota: “Il – Gli atti di cui al comma 1, lettera b), non sono soggetti all’imposta proporzionale per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’art. 40 del testo unico.”; a seguito dell’inserimento (con l’art. 33, c. 1, lett. a), L. 23.12.2000, n. 388) del comma 1 bis del medesimo art.8, la nota II fu integrata con l’inserzione, dopo le parole “al comma 1, lett. b)”, delle seguenti: “e al comma 1 bis”.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
91
Poiché l’art. 8, c. 1, lett. b), e c. 1 bis, contempla gli atti dell’autorità giudiziaria ordinaria e speciale (c. 1, lett. b) che definiscono, anche parzialmente, il giudizio, compresi i decreti ingiuntivi e che recano condanna “al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura”, nonché quelli analoghi dei giudici amministrativi (c. 1 bis) “che recano condanna al pagamento di somme di denaro diverse dalle spese processuali”, risulta evidente che l’introduzione della nota II allo stesso art. 8 corrisponde ad una nozione “ampia” dell’alternatività, e non ad una prospettazione più restrittiva, che ne delimiti l’efficacia con riguardo ai soli atti che integrino le fattispecie costitutive degli effetti in cui si manifesta l’inserimento nel circuito applicativo dell’IVA. Anzi, laddove dispone l’esclusione da imposta proporzionale dei provvedimenti recanti condanna al pagamento di “corrispettivi” (si noti che il c. 1 bis dell’art. 8 contempla le sole “condanne al pagamento di somme di denaro”), a prescindere dalla loro anticipazione rispetto al perfezionarsi dell’operazione, che determinerebbe perlomeno il “momento di esigibilità dell’imposta”, la nota stessa si pone in deciso contrasto con ogni concezione “restrittiva” dell’alternatività. In realtà la disposizione in esame si pone in piena continuità con i già accennati orientamenti interpretativi di amministrazione finanziaria e giurisprudenza, che danno rilievo al finale adempimento di tutte le obbligazioni, al soddisfacimento degli interessi complessivamente implicati in ogni “operazione” soggetta ad IVA: tutte le condanne al pagamento di corrispettivi o al adempimento di altre obbligazioni dalla stessa derivanti sono strumentalmente necessarie al definitivo concludersi dell’operazione, in tutte le sue implicazioni giuridiche (e pertanto anche economiche). Nell’interpretare questa disposizione amministrazione finanziaria e giurisprudenza si sono infatti coerentemente ispirate all’idea che l’alternatività copra tutte le vicende attuative dell’operazione, identificate in funzione del contenuto delle prestazioni dedotte in ciascun rapporto obbligatorio che ne deriva, a prescindere dalla collocazione funzionale nella struttura dei contratti e dall’eventuale mutamento dei titolari. L’operatività della clausola è stata pacificamente estesa sia alle condanne all’adempimento di prestazioni che non sono tecnicamente, “corrispettivi” (come la quota capitale delle rate di rimborso dei mutui – Cass. Sez. V n. 2718 del 5.2.2008) sia alle condanne nei confronti di obbligati in garanzia (con riferimento alle prestazioni oggetto di obbligazioni dei garanti, identificate con quelle dell’obbligato principale, cfr. Circ. nn. 214 del 10.9.1998; 34 del 30.3.2001; Cass. Sez. V n. 3572 del 21.1.1998; da ultimo Cass. Sez. 6/V, Ord n. 14000 del 19.6.2014).
92
Parte seconda
Anche laddove la giurisprudenza ha scelto soluzioni più restrittive (negando, ad es., l’applicazione dell’imposta fissa nel caso di condanna al pagamento a favore del cessionario del credito – Cass. n. 4802 del 28.2.2011) le argomentazioni addotte appaiono in contrasto con il criterio, pacificamente accolto in altre sentenze, dell’identità della prestazione originariamente dedotta nell’obbligazione, che con la cessione non muta oggettivamente (sembrano quindi convincenti le critiche della dottrina – cfr. G. Vaselli, in Riv. Dir. Trib. 2012, II, 554 ss.). Perfino nel caso in cui, per negare l’estensione del regime più favorevole, si è argomentato dalla sopravvenuta implicazione in altra e diversa “operazione” (il credito per corrispettivo di prestazione soggetta ad IVA era stato ceduto in controprestazione di servizi forniti da un terzo – Cass., Sez. I, n. 11312 del 29.8.2000), si potrebbe obiettare che, a prescindere dalla soggezione ad IVA della nuova operazione, l’obbligazione del debitore ceduto permane sino alla sua estinzione (nel caso di cessione del credito in luogo dell’adempimento, l’efficacia estintiva del negozio è subordinata, salvo diversa volontà delle parti, all’effettiva riscossione del credito ceduto – art. 1198 c.c. – e ciò potrebbe assumere rilievo ai fini dell’esigibilità dell’IVA sulla nuova operazione). Con particolare riferimento agli atti giudiziari va poi rilevato che nell’attuale T.U. di cui al D.P.R. 4, n. 131/1986 non è stata riprodotta la nota all’art. 8 Tariffa, parte prima, che, nel D.P.R. 26/10/1972, n. 634, espressamente confermava la soggezione ad imopsta proporzionale dei provvedimenti di condanna o di mero accertamento, anche quando la condanna avesse ad oggetto corrispettivi soggetti ad imposta sul valore aggiunto. Manca quindi ogni base testuale per affermare una generale inoperatività del principio di alternatività relativamente a tutti gli atti giudiziari, cui derogherebbe la nota II all’art. 8, parte prima, D.p.R. 131/1986. In definitiva, l’interpretazione dominante della nota II all’art. 8, Tariffa, Parte prima, risulta chiaramente orientata a considerarla alla stregua di una specifica applicazione del principio di alternatività, posto dall’originaria delega legislativa, ad esso coerente e consequenziale. È chiaro, infatti, che l’assoggettamento alla sola imposta fissa degli atti portanti condanna all’adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto “corrispettivi o prestazioni soggetti ad IVA” è stato generalmente considerato una logica conseguenza dell’applicazione del medesimo regime agli atti di quietanza che documentano l’adempimento stesso, già desunta, in via interpretativa, dall’art. 40 del Testo unico. A prescindere da ogni eventuale propensione per diversi esiti interpretativi, è proprio questo orientamento che dovrebbe essere assunto come “diritto vivente”.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
93
5. Conclusioni. – Le considerazioni sin qui svolte mi confermano nell’opinione che la giurisprudenza della Cassazione (Sez. V, nn. 17946 e 17947 del 19.10.2012 – 14816/2011; 12359/2005; 1849/2000) rigidamente contraria a qualsiasi estensione del regime dell’alternatività ad atti giudiziari diversi da quelli testualmente indicati nella nota II all’art. 8 Tariffa, Parte prima, allegata al D.P.R. n. 131/1986, è infondata. Si deve infatti dare una corretta applicazione al criterio interpretativo per cui il limite all’estensione si giustifica solo per l’eccezionalità di regole confliggenti con principi, dunque limitate nell’applicazione alla propria specifica ratio. È evidente, invece, che l’interpretazione dominante, condivisa dalla stessa Cassazione in gran parte della sua giurisprudenza, considera tale disposizione diretta derivazione del principio di alternatività, pertanto con esso del tutto coerente. Anche volendo accettare gli argomenti addotti dalla Cassazione nella motivazione delle sentenze in questione, incentrati sulla pretesa natura derogatoria della succitata nota II rispetto a più generali proposizioni normative, l’erroneità delle conclusioni raggiunte risulta evidente. Per affermare la posizione derogatoria della regola desumibile da tale disposizione si deve presupporre una regola più generale che esclude gli atti giudiziari dall’ambito dell’alternatività, e tale regola non è oggi esplicitata da alcun testo normativo. Anzi, la disciplina degli atti giudiziari ai fini del registro non differisce, per questo aspetto, da quella di qualsiasi altro atto per il quale la tariffa prevede un’aliquota proporzionale: nulla è detto in proposito perché la soluzione del problema è stata rimessa all’interpretazione degli artt. 5 e 40 del Testo unico, che, in quanto tali, non escludono un’applicazione agli atti giudiziari. Basta prendere in considerazione le sentenze ad effetti traslativi di cui alla lettera a) del c. 1 dell’art. 8 Tariffa, parte prima, per rendersi conto che il richiamo alle “stesse imposte previste per i corrispondenti atti” implica la possibile applicazione dell’art. 40 del T. U. (ad es., alla sentenza che accoglie la domanda di esecuzione in forma specifica di un contratto preliminare avente ad oggetto una cessione di beni soggetta ad IVA). Una volta accolta la già accennata concezione “ampia” dell’alternatività, cade ogni possibilità di desumere l’esclusione degli atti giudiziari dalla loro collocazione ulteriore e solo eventuale rispetto all’operazione soggetta ad IVA. Dunque mancano elementi sia testuali sia sistematici dai quali dedurre l’esistenza di una più generale regola cui derogherebbe la nota II, che si pone invece come piana applicazione delia disciplina dell’alternatività prevista dal Testo unico. Certo, di deroga si potrebbe parlare, ma direttamente rispetto al dato normativo desumibile dall’art. 40 T.U., se si accogliesse una concezione “ri-
94
Parte seconda
stretta” dell’alternatività, che potrebbe portare all’esclusione dalla sua area di incidenza per ogni vicenda processuale, in quanto successiva ed estranea al nucleo limitato degli elementi costitutivi dell’operazione imponibile. Di un simile orientamento, che porrebbe, peraltro, un rilevante dubbio di intrinseca irrazionalità per l’intera nota II, non vi è però traccia nella giurisprudenza e nella prassi amministrativa. In definitiva, l’orientamento della Cassazione, assunto dalla Corte costituzionale come “diritto vivente”, risulterebbe fondato solo in virtù di una nozione dell’alternatività mai accolta dalla stessa Cassazione ed in forza della quale la stessa disposizione che vi include le sentenze di condanna potrebbe essere considerata irragionevole, anche oltre il limite della legittimità costituzionale. La sentenza qui annotata (presupponendo l’impossibilità, o comunque le scarse probabilità, di un mutamento dell’orientamento della Cassazione) ha adottato una soluzione sostanzialmente equa e ragionevole con riguardo agli atti giudiziari considerati. Tuttavia la tecnica della sentenza “manipolativa” implica la formale accettazione della tesi della Cassazione (pur sostanzialmente negata con l’affermazione dell’estensibilità della ratio della pretesa “agevolazione”). Ciò non resta senza conseguenze. Ad esempio, la stessa Corte costituzionale afferma che il regime dell’imposta fìssa non potrebbe essere esteso alle sentenze di mero accertamento, ma non è più chiara, in questa prospettiva, la ragione di una così netta discriminazione tra atti che incidono sui medesimi rapporti, derivanti dall’operazione imponibile, in funzione comunque strumentale alla definitiva soddisfazione degli interessi coinvolti.
Andrea Fedele
Cassazione civile, SS. UU., 9 maggio - 6 luglio 2017, n. 16692; Pres. Amoroso; Rel. Perrino Amnistia e condono – Condono ex L. n. 289/2002 – Effetti della definizione automatica ex art. 9, commi 9 e 10, l. n. 289/2002 – Crediti d’imposta con natura di agevolazione – Contestabilità da parte dell’Amministrazione finanziaria – Sussiste Anche se il condono “tombale” di cui all’art. 9, l. n. 289/2002 ha l’effetto di precludere “ogni accertamento”, esso non impedisce all’amministrazione finanziaria di contestare la spettanza di crediti d’imposta aventi carattere agevolativo esposti in dichiarazione, conformemente al principio per cui il condono incide sui debiti dei contribuenti, ma non sui crediti da essi vantati verso l’Erario.
(Omissis) Ragioni della decisione. 1. – Il contrasto evidenziato dalla sezione tributaria di questa Corte interferisce con la decisione sollecitata dal secondo motivo del ricorso per cassazione, di rilievo prodromico rispetto al primo, col quale la società ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 9 l. n. 289/02, là dove la Commissione tributaria regionale ha escluso l’efficacia preclusiva del condono anche quanto all’accertamento dell’insussistenza di crediti da agevolazioni. 1.1. – Queste sezioni unite sono dunque chiamate a stabilire se l’effetto preclusivo di ogni accertamento stabilito dalla combinazione dei commi 9 e 10 dell’art. 9 l. n. 289/02 riguardi l’intera situazione tributaria e, quindi, non soltanto i debiti del contribuente verso il fisco, ma anche i crediti vantati nei confronti di esso, con particolare riguardo a quelli da agevolazioni. Stabiliscono le disposizioni in questione, per quanto d’interesse, che: «La definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all’applicabilità di esclusioni. Sono fatti salvi gli effetti della liquidazione delle imposte e del controllo formale in base rispettivamente all’articolo 36-bis ed all’articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, nonché gli effetti derivanti dal controllo delle dichiarazioni IVA ai sensi dell’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica
96
Parte seconda
26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni; le variazioni dei dati dichiarati non rilevano ai fini del calcolo delle maggiori imposte dovute ai sensi del presente articolo. La definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive. La dichiarazione integrativa non costituisce titolo per il rimborso di ritenute, acconti e crediti d’imposta precedentemente non dichiarati, né per il riconoscimento di esenzioni o agevolazioni non richieste in precedenza, ovvero di detrazioni d’imposta diverse da quelle originariamente dichiarate» (comma 9); «Il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta: a) la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario...» (comma 10). 2. – Queste sezioni unite non hanno finora esaminato ex professo la questione. Con la sentenza 5 giugno 2008, n. 14828 richiamata nell’ordinanza, le sezioni unite non si sono occupate direttamente della sorte dei crediti d’imposta in caso di definizione automatica in base all’art. 9 l. n. 289/02, sibbene della sorte dei pagamenti eseguiti che il contribuente, dopo avere aderito al c.d. condono tombale, pretenda in restituzione perché li ritiene indebiti: è a questo riguardo che si è fissato il principio di diritto secondo cui, con riferimento alla definizione automatica stabilita dall’art. 9 l. n. 289/02, la presentazione della relativa istanza preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d’imposta definite in via agevolata, ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto. Ciò perché il condono pone il contribuente di fronte ad una libera scelta fra trattamenti distinti, quali coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo eventualmente il rimborso delle somme indebitamente pagate, o corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto eventualmente già corrisposto in via ordinaria. Il principio riprende statuizioni della Consulta, la quale (con sentenza 8 luglio 1975, n. 185) aveva in precedenza appunto stabilito, con affermazione di carattere generale, che il condono «pone l’interessato di fronte ad una alternativa: o soggiacere alla pretesa della pubblica amministrazione onde definire la pendenza tributaria attraverso la richiesta del beneficio o esperire i rimedi giuridici che la legge prevede per contrastare la pretesa stessa. Tutto ciò si inserisce razionalmente in quelle che sono le finalità del provvedimento di clemenza: una regolamentazione giuridica del rapporto pendente tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria che renda indenne l’interessato dalle sanzioni conseguenti al mancato adempimento del quale la legge tributaria gli fa carico e che dirima, nel contempo, ogni controversia in ordine alla regolarità della obbligazione tributaria alla sua fonte». Con quella stessa sentenza le sezioni unite hanno avvertito che non «rileva, per la evidente diversità della questione, la disposizione dell’ultimo periodo della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 9...»; in obiter, anzi, hanno sottolineato che, in base alla disposizione in oggetto, «...il condono non impone al contribuente la rinuncia al credito
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
97
ivi esposto, né preclude all’amministrazione di rimborsarlo, se lo ritiene fondato, o di accertarne la non rimborsabilità (v. Corte cost. ord. n. 340/2005)». 3. – Ciò posto, secondo la tesi che si prospetta come maggioritaria in seno alla sezione tributaria di questa Corte, il c.d. condono tombale contemplato dall’art. 9 l. n. 289/02 elide i debiti del contribuente verso l’Erario, ma non opera sugli eventuali crediti, in quanto il terzo periodo del comma 9 del suddetto art. 9, secondo cui la definizione automatica delle imposte non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive, va interpretato nel senso che il condono non influisce sull’ammontare dei crediti, e non impedisce all’Erario di vagliarli, di contestarli e di recuperarne gli importi esposti in dichiarazione (ex plurimis, in relazione a crediti da agevolazioni, Cass. ord. 7 giugno 2011, n. 12337; ord. 12 giugno 2012, n. 9578; ord. 19 luglio 2013, n. 17749; 5 febbraio 2014, n. 2597; ord. 16 aprile 2014, n. 10574; 3 agosto 2016, n. 16157). 3.1. – Di recente, tuttavia, è emerso un indirizzo, variamente argomentato, che si è posto in consapevole contrasto con quest’orientamento. Si è difatti sostenuto che il condono di cui all’art. 9 l. n. 289 del 2002 elida sì i debiti del contribuente verso l’Erario, ma comporti altresì la preclusione nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati di ogni accertamento tributario, ivi compreso quello volto al recupero di crediti d’imposta, adducendovi a sostegno argomenti diversi: a. – secondo Cass. 17 febbraio 2016, n. 3112, l’orientamento maggioritario della Corte ha avuto riguardo all’ipotesi di credito iva illegittimamente compensato a causa dell’inesistenza delle operazioni, da tenere ben distinta da quella del credito d’imposta generato da agevolazione, espressamente considerata come condonabile dal legislatore; b. – a queste considerazioni, incentrate sulla non comparabilità tra credito iva da operazioni inesistenti e credito da agevolazione, Cass. 22 luglio 2016, n. 15195 ha aggiunto che il comma 9 dell’art. 9 l. n. 289/02, là dove stabilisce che «la definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all’applicabilità di esclusioni», precluderebbe l’accertamento e, in particolare, l’avviso di recupero del credito da agevolazione, qualora il credito da agevolazione risulti incluso nella dichiarazione integrativa, in tal modo giovandosi del crisma della definitività; c. – le osservazioni sono state successivamente ribadite da Cass. 3 agosto 2016, nn. 16186 e 16187. A tanto con l’ordinanza interlocutoria si aggiungono argomenti tratti dalla salvezza, contenuta nell’art. 9 l. n. 289/02, dei soli controlli di natura formale e contabile, non già di quelli concernenti i presupposti sostanziali del diritto all’agevolazione: la circostanza che siano consentiti soltanto i controlli formali suonerebbe come conferma della irretrattabilità del credito da agevolazione. 4. – Merita adesione il primo dei due orientamenti illustrati. L’argomento dinanzi indicato sub a., che innerva tutte le sentenze riconducibili all’orientamento minori-
98
Parte seconda
tario, è in realtà ininfluente ai fini dell’interpretazione delle disposizioni in esame, giacché, in relazione al c.d. condono tombale, le peculiarità dell’iva rilevano in senso affatto diverso da quello assunto. Queste peculiarità, date dal fatto che si tratta di un tributo armonizzato, non incidono sull’applicazione del comma 9 dell’art. 9 l. n. 289/02, conformandone gli esiti alla natura armonizzata, ma escludono in radice l’applicabilità stessa dell’intero art. 9, compresi, quindi, i suoi commi 9 e 10. Esso va difatti disapplicato quanto all’iva, giusta la sentenza (Corte giust. 17 luglio 2008, causa C-132/06), con la quale la grande sezione della Corte di giustizia ne ha affermato il contrasto con gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva e con l’art. 10 Ce, in quanto consente ai contribuenti che non hanno osservato gli obblighi in materia di iva, relativi agli esercizi d’imposta compresi tra il 1998 ed il 2001, di sottrarvisi definitivamente e di sfuggire anche alle relative sanzioni, versando una somma forfetaria sproporzionata rispetto all’importo dovuto, ragguagliato al fatturato realizzato, con uno squilibrio che conduce ad una quasi esenzione fiscale (Cass. 7 febbraio 2013, n. 2915, seguita senza oscillazioni: si vedano, tra molte, 13 novembre 2013, n. 25492; 26 febbraio 2014, n. 4630; 26 gennaio 2015, n. 1288; 24 giugno 2015, n. 13068; 16 ottobre 2015, n. 20960; 15 aprile 2016, n. 7490; 22 aprile 2016, n. 8115); laddove, in quest’ambito, l’interpretazione da assegnare all’art. 9, comma 9, l. n. 289/02, quando è svolta da questa Corte, lo è sovente, dopo Cass. n. 2915/13, per mere esigenze di completezza della motivazione (vedi, tra varie, Cass. 11 marzo 2015, n. 4873 e 14 ottobre 2015, n. 20642). 4.1. – Che il contrasto con la normativa unionale conduca comunque alla non condonabilità, indipendentemente dal tipo di tributo, emerge dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha disapplicato la norma in questione anche con riguardo alle agevolazioni, qualora abbiano sostanziato un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione definitiva della commissione europea (Cass. 22 luglio 2015, n. 15407). 5. – Alla materia dell’iva si riferì pervero la Consulta, allorquando valutò la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni in questione, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 53 Cost., che il giudice remittente aveva interpretato nel senso di riconoscere al contribuente la possibilità di consolidare il credito d’imposta emergente in un’annualità «coperta» dal c.d. condono tombale, in ragione del fatto che il perfezionamento di questo precludesse all’amministrazione finanziaria la possibilità di svolgere accertamenti tributari per contestare la debenza del rimborso e rendesse incontestabili le somme richieste a credito. Ma in quell’occasione le peculiarità dell’iva non ebbero il rilievo illustrato sub 4, che si è imposto dopo l’indicata sentenza della Corte di giustizia, di circa tre anni successiva, di modo che la circostanza che si vertesse in materia di iva ha fornito soltanto l’occasione per la ricostruzione della portata dei commi 9 e 10 dell’art. 9 in esame. La Corte costituzionale (ord. 27 luglio 2005, n. 340, richiamata, con riguardo all’art. 28, comma 4, del d.l. n. 429/82, come convertito, nella successiva ord. 25 ottobre 2005, n. 402) dunque, nel dichiarare manifestamente infondata la questione, basata sull’interpretazione sopra indicata delle disposizioni in esame, ha precisato che: – l’art. 9, comma 9, l. n. 289/02 va inteso nel
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
99
senso che il condono non influisce di per sé sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorché la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata; – il successivo comma 10 preclude l’accertamento dei debiti dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non quello dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso. Le statuizioni hanno una chiara valenza generale; d’altronde, sul piano ontologico, non è predicabile distinzione, ai fini dell’accertamento del fisco, tra inesistenza del credito iva perché prodotto da operazioni inesistenti ed inesistenza del credito da agevolazione per mancanza dei relativi presupposti. 5.1. – Quel che è particolarmente significativo nelle pronunce della Consulta è, peraltro, la ricostruzione del condono, dedotta a fondamento logico dell’opzione seguita e destinata a conformare anche la decisione odierna. Per natura, il condono incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti, in quanto si traduce in una forma atipica di definizione del rapporto tributario, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e di ridurre il contenzioso, non già in quella dell’accertamento dell’imponibile (si veda, in particolare, sul punto, Corte cost. 13 luglio 1995, n. 321). L’atipicità sta dunque nel fatto che col condono si regola l’obbligazione tributaria prescindendo dall’accertamento dell’imponibile, per finalità deflattive e di bilancio. 5.2. – La sanatoria derivante dal condono è dunque effetto di legge dell’adesione oblativa, senza che il fisco possa esercitare alcun potere decisorio, in quanto il condono opera secondo meccanismi di diritto pubblico diversi dalla modificazione negoziata dell’obbligazione per via di novazione, transazione o conciliazione (Cass., sez. un., 27 gennaio 2016, n. 1518). 6. – La preclusione di ogni accertamento tributario nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati derivante dal perfezionamento del procedimento di condono non può che concernere, allora, il solo debito tributario. Estenderla anche ai crediti, in mancanza di qualsiasi potere decisorio da parte dell’Ufficio, colliderebbe in maniera frontale con le finalità del condono, indirizzate a reperire risorse di bilancio e non già a perseguire finalità transattive e di compensazione di ragioni di credito e di debito. 6.1. – Il primo periodo del comma 9 dell’art. 9, là dove stabilisce la definitività della liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione come effetto della definizione automatica, non si pone in contrasto, ma, anzi, conforta questa ricostruzione. La definitività della liquidazione riguarda l’imposta lorda, di modo che quel si rende definitivo è l’imponibile, in base al quale l’imposta lorda si quantifica, giustappunto perché il condono, dell’imponibile, esclude qualsivoglia accertamento: la disposizione si riferisce difatti alla spettanza delle deduzioni, che identificano somme che sono sottratte dalla base imponibile, su cui si calcola l’imposta lorda e delle esclusioni, che concorrono con la norma base a definire l’ambito applicativo dell’imposta. In questo contesto, al cospetto della polisemia del termine “agevolazione”, le agevolazioni, la spettanza delle quali diviene parimenti definitiva per effetto della definizione automatica non possono che essere, al pari delle deduzioni
100
Parte seconda
cui sono accomunate, quelle che incidano sulla determinazione dell’imponibile, ad esempio prevedendone un sistema forfetario di determinazione. Di contro, l’agevolazione che si risolva, come nel caso in esame, nel riconoscimento di un credito d’imposta, non incide sulla determinazione dell’imponibile, in quanto è destinata ad operare come fattore di compensazione, nel senso che neutralizza, in tutto o in parte, estinguendolo, l’obbligo di versamento scaturente dalla liquidazione dell’imposta operata sull’imponibile indicato nella dichiarazione (sulla configurabilità del credito d’imposta come strumento di pagamento a mezzo di compensazione e sulla sua estraneità alla base imponibile, vedi Cass. 19 febbraio 2014, n. 3948). E giustappunto in base alla considerazione che l’atto di recupero incide, come il credito che è volto a revocare, direttamente sull’imposta e non già sull’imponibile, questa Corte (Cass. 6 agosto 2014, n. 17648; 23 aprile 2014, n. 9124) ha escluso che la controversia ad esso relativa, anche ai fini irap, nei confronti di una società di persone, comporti litisconsorzio necessario tra la società ed i soci. Una tale agevolazione, quindi, determinando non già la riduzione dell’imponibile, bensì quella dell’imposta, è estranea all’ambito applicativo della disposizione in esame. 6.2. – L’estraneità al condono dell’accertamento dell’imponibile dà conto altresì dell’attribuzione all’Amministrazione finanziaria dei soli poteri di controllo formale ex artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/73, che non toccano la posizione sostanziale della parte contribuente e sono scevri da profili valutativi o estimativi (in termini, quanto al controllo previsto dall’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/72, omologo a quello contemplato dall’art. 36-bis del d.P.R. n. 600/73, Cass., sez. un., 8 settembre 2016, n. 17758). 7. – L’ulteriore disposizione contenuta nel comma 9 dell’art. 9 l. n. 289/02, secondo cui «la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’imposta sul valore aggiunto, nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive», va poi interpretata alla luce della considerazione che il prelievo da condono sostituisce quello ordinario, di modo che è pur sempre la dichiarazione originaria la base sulla quale s’innesta la definizione agevolata. 7.1. – Perché la definizione agevolata possa operare, dunque, occorre che siano fissati gli importi in relazione ai quali sono poi sviluppati in maniera forfetaria i calcoli di quanto dovuto. È quindi al fine di garantire l’attendibilità della dichiarazione sul piano contabile, ossia dell’indicazione degli importi ivi indicati e della loro congruenza, che il legislatore ha fatto salvi, per quanto d’interesse, gli effetti della liquidazione delle imposte e del controllo formale in base rispettivamente all’art. 36-bis ed all’art. 36-ter del d.P.R. n. 600/73. Difatti, si specifica (secondo nucleo normativo del secondo periodo del comma 9 dell’art. 9) che «le variazioni dei dati dichiarati – ossia le variazioni operate dal contribuente con la dichiarazione integrativa prevista dalla norma – non rilevano ai fini del calcolo delle maggiori imposte dovute ai sensi del presente articolo».
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
101
7.2. – In questo quadro, non va trascurato che i crediti abbattono l’imposta netta e che, qualora siano eccedenti rispetto ad essa, generano importi da rimborsare. Anche in relazione ad essi v’è dunque l’esigenza che ne siano indicati gli importi, perché non possano più essere modificati; e ciò anche al fine di garantire l’applicazione dell’ultimo nucleo normativo del comma 9 dell’art. 9, secondo cui la dichiarazione integrativa non può fungere da titolo per il rimborso di crediti precedentemente non dichiarati, oppure per il riconoscimento di agevolazioni in precedenza non richieste. È in relazione a quegli importi, e non ad altri, che l’Ufficio può svolgere le proprie attività di verifica, che possono sfociare in avvisi di accertamento, nel novero dei quali s’iscrive anche l’avviso di recupero del credito da agevolazione che rileva nella fattispecie in esame. Diversamente da quanto adombrato dall’orientamento minoritario, dunque, l’avviso di recupero non è affatto incompatibile con la disciplina apprestata dall’art. 9 l. n. 289/02 e, in particolare, con l’esercizio dei controlli contabili e formali fatti salvi dalla disposizione, ma è ad essa complementare: mentre i controlli in questione garantiscono la correttezza formale della dichiarazione integrativa, che determina la definitività della liquidazione dell’imposta lorda, con l’avviso di recupero il fisco reclama i crediti che hanno abbattuto l’imposta netta, avendone riscontrata la carenza dei presupposti sostanziali. 8. – Giova, infine, sottolineare, sul piano sistematico, che queste sezioni unite hanno già avuto occasione di rimarcare la legittimità della diversità di trattamento, in quel caso quanto all’applicazione dei termini decadenziali di accertamento, tra crediti e debiti dell’Amministrazione, allorquando hanno stabilito (Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5069), che, in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, giacché tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum. 8.1. – Una diversità di trattamento ingiustificabile, anche in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., si prospetterebbe, di contro, qualora si riconoscesse, come vorrebbero Cass. n. 15195, 16186 e 16187/16, che la sorte dei crediti sia diversa, a seconda che il credito, segnatamente da agevolazione, sia incluso nella dichiarazione integrativa ed in quanto tale divenga definitivamente acquisito, oppure che dall’esposizione del credito scaturisca una pretesa di rimborso, in quanto tale soggetta a vaglio ed a contestazione da parte dell’Amministrazione. 8.2. – A composizione del contrasto va quindi enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di c.d. condono tombale, non è inibito all’erario l’accertamento riguardante un credito da agevolazione esposto in dichiarazione, in quanto il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio”.
102
Parte seconda
9. – Col primo motivo di ricorso la società lamenta la violazione dell’art. 7, comma 2, l. n. 388/00, là dove il giudice d’appello ha calcolato nella media occupazionale del periodo di riferimento (1 ottobre 1999/30 settembre 2000) anche i dipendenti i rapporti di lavoro dei quali erano afferenti al ramo d’azienda ceduto dalla contribuente alla (omissis) il 30 marzo 2000. Il motivo è fondato. 9.1.- Dispone l’art. 7 l. n. 388/00 che: – «ai datori di lavoro, che nel periodo compreso tra il 1 ottobre 2000 e il 31 dicembre 2003 incrementano il numero dei lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato è concesso un credito di imposta...» (comma 1); – «il credito di imposta è commisurato, nella misura di lire 800.000 per ciascun lavoratore assunto e per ciascun mese, alla differenza tra il numero dei lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato rilevato in ciascun mese rispetto al numero dei lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato mediamente occupati nel periodo compreso tra il 10 ottobre 1999 e il 30 settembre 2000. Il credito di imposta decade se, su base annuale, il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, a tempo indeterminato e a tempo determinato, compresi i lavoratori con contratti di lavoro con contenuto formativo, risulta inferiore o pari al numero complessivo dei lavoratori dipendenti mediamente occupati nel periodo compreso tra il 10 ottobre 1999 e il 30 settembre 2000» (comma 2). Secondo il giudice d’appello, il calcolo della media occupazionale va operato in base «ad un mero criterio matematico», di modo che i ventinove lavoratori i rapporti di lavoro dei quali afferivano al ramo d’azienda ceduto dovevano essere compresi nel calcolo della media occupazionale della cedente, ossia dell’odierna ricorrente, soltanto fino al momento del trasferimento e non già dopo. Seguendo un’impostazione di segno diverso, l’Agenzia sostiene in controricorso che la cessione del ramo d’azienda, cui è conseguito come effetto naturale il trasferimento alla cessionaria dei ventinove rapporti di lavoro pertinenti, ha determinato la decadenza dai crediti d’imposta contemplata dal secondo nucleo normativo del comma 2 dell’art. 7. 9.2. – In relazione ad ipotesi speculare, ossia con riguardo all’acquirente dell’azienda, la quinta sezione ha già avuto occasione di rimarcare (Cass. n. 9124/14, cit.) che l’unica ipotesi in cui, in caso di sostituzione del datore di lavoro, si ha riguardo soltanto al numero di lavoratori assunti in più rispetto a quello dell’imprenditore sostituito, indipendentemente dai riflessi del trasferimento d’azienda e dei rapporti di lavoro pertinenti sulla media occupazionale, è quella «di impresa subentrante ad altra nella gestione di un servizio pubblico, anche gestito da privati, comunque assegnata...» (art. 7, comma 6, l. n. 388/00). 9.3. – In tutti gli altri casi, è inevitabile che la prosecuzione dei rapporti di lavoro alle dipendenze del cessionario derivante da trasferimento d’azienda avvenuto il 30 marzo 2000 sia destinato ad incidere sul computo della media occupazionale del cedente nell’intero periodo di riferimento, ossia nel periodo dal 1 ottobre 1999 al 30 settembre 2000, e non già, come ha sostenuto il giudice d’appello, soltanto nella frazione di tale periodo precedente al trasferimento. Ciò in quanto l’incidenza di tale evento si colloca nella cornice temporale di riferimento e, in conseguenza, sostanzia uno dei va-
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
103
lori ai quali va ragguagliato, per l’intero periodo, il calcolo della media relativamente al cedente; il che comporta anche la sua rilevanza nella verifica del rapporto, su base annuale, tra il numero complessivo dei lavoratori dipendenti e quello dei lavoratori dipendenti mediamente occupati nel periodo tra il 10 ottobre 1999 e il 30 settembre 2000, ai fini della decadenza adombrata dall’Agenzia. 10. – La censura va in conseguenza accolta e la sentenza cassata. (Omissis)
Il condono “tombale” non preclude il recupero di crediti d’imposta di natura agevolativa. Sommario: 1. L’elaborazione giurisprudenziale della definitività da condono e la po-
sizione delle SS.UU. sulla diversità fra le preclusioni relative a crediti ed a debiti del contribuente. – 2. Il problema della preclusione del recupero di crediti agevolativi nella logica della disciplina del condono. Gli argomenti delle SS.UU. – 3. Considerazioni conclusive. Secondo le Sezioni Unite, il condono “tombale” di cui all’art. 9, l. n. 289/2002 definisce il rapporto tributario solo con riferimento alla base imponibile ed al conseguente debito d’imposta, cosicché l’amministrazione finanziaria conserva il potere di contestare i crediti d’imposta con ratio di agevolazione, nonostante siano stati indicati in una dichiarazione definita mediante quel tipo di condono. La motivazione di tale conclusione, tuttavia, non sembra del tutto convincente. Non basta ricordare che la cognizione sui rimborsi richiesti in dichiarazione non è soggetta a termini decadenziali, perché il recupero dei crediti d’imposta illegittimamente compensati rientra nei ben diversi poteri di controllo automatico o formale o di accertamento, soggetti a siffatti termini. L’idea che sarebbe contrario alla funzione finanziaria del condono collegarvi il consolidamento di pretese del contribuente verso l’Erario non può sostituire l’interpretazione della normativa, considerando come il legislatore offra con il condono l’opportunità di non subire certi tipi di controlli. Le interpretazioni date da questa sentenza, in ogni caso, destano vari dubbi e perplessità. According to S.C. United Chambers, the “global” tax amnesty provided for in par. 9, l. n. 289/2002, defines tax assessments only as regards tax base and consequent debts; therefore the Revenue Service maintains the power to contest benefits granted as tax credits, despite they have been inserted in a tax return covered by that kind of tax amnesty. The reasons for this decision, however, seem not quite persuasive. It’s not enough to mention that audits concerning demands for tax refunds, even if asked in tax returns, can be done without time limits, because tax credits unlawfully set off are recovered by means of different powers, which are subject to such limits. The idea that tax amnesty, due to its financial purposes, should never make a taxpayer’s claim unquestionable, cannot substitute interpretation of law, because the lawgiver through tax amnesty offers the opportunity to avoid some kinds of tax inspections. Interpretations given by this judgment, however, raise some doubts and bafflements
104
Parte seconda
1. L’elaborazione giurisprudenziale della definitività da condono e la posizione delle SS.UU. sulla diversità fra le preclusioni relative a crediti ed a debiti del contribuente. – Con la sentenza qui annotata le Sezioni Unite (1) affermano che l’adesione al condono (2) “tombale” di cui all’art. 9, l. n. 289/2002, pur precludendo “ogni accertamento tributario” ai sensi del co. 10 di tale articolo, non sottrae il contribuente al controllo sulla spettanza dei crediti d’imposta di carattere agevolativo (3) da esso utilizzati. Le SS.UU. condividono così l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza di legittimità basato sull’assunto per cui i condoni operano sui debiti dei contribuenti e non sui loro crediti, disattendendo una tesi più recente che estendeva ai controlli su crediti d’imposta con ratio agevolativa l’effetto definitorio riferito dall’art. 9, l. n. 289/2002 alle “agevolazioni” (4). Così tratteggiata la questione, si potrebbe dubitare che il consolidamento di un indirizzo maggioritario, riguardante la disciplina di un condono risalente a quindici anni fa, meriti qualcosa di più di una segnalazione. Tuttavia, il tema degli effetti dell’adesione ad un condono rispetto ai controlli sulle posizioni di credito (in senso lato) dei contribuenti ha molteplici sfaccettature (5), che hanno ripetutamente richiamato l’attenzione della dottrina (6) e da oltre qua-
(1) La questione era stata rimessa alle S.U. dall’Ordinanza della Sez. tributaria 9 novembre - 7 dicembre 2016, n. 25092. (2) Qui farò riferimento solo al condono improprio, o premiale, con definizione automatica (cfr. F. Batistoni Ferrara, Condono (dir. tribut.), in Enc. Dir., agg. V, Milano, 2001, 250 ss.; G. Passaro, Condono nel diritto tributario, in Digesto disc. priv., sez. comm., III, Torino, 1988, 383 ss.; F. Picciaredda, Condono (dir. trib.), in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma, 1988; Id., Notazioni minime in tema di clemenza tributaria, in Riv. Dir. Fin., 1983, I, 154 ss.; C. Preziosi, Il condono fiscale, Milano, 1987, 11 ss., 115 ss.) contrapposto a quello limitato all’abbuono di sanzioni, di tipo “tradizionale” (secondo la terminologia di C. Preziosi, Il condono fiscale, cit., 11) o “puro” (secondo quella di G. Falsitta, Condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, in Id., Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 310) (3) Nel caso di specie, del credito d’imposta per incremento occupazionale, ex art. 7, l. 23 dicembre 2000, n. 388. Non mi occuperò in questa sede dell’ulteriore questione, di diritto sostanziale, decisa dalle SS.UU., cioè del criterio per calcolare, nel caso di cessione di ramo d’azienda, la media occupazionale da mantenere al fine di non decadere da detto credito. (4) Cfr. Cass., Sez. trib., 27 gennaio/17 febbraio 2016 n. 3112; Cass., Sez. trib., 7/22 luglio 2016, n. 15195; Cass., Sez. trib., 6 luglio/3 agosto 2016, n. 16186 (già ricordate dall’ordinanza di rimessione), nonché Cass., Sez. trib., 1 aprile/9 giugno 2010, n. 13858. (5) Basti ricordare, tra le più recenti, la questione se il condono precluda al contribuente il rimborso dell’irap per carenza di autonomia organizzativa o impedisca all’amministrazione finanziaria la contestazione delle detrazioni iva per inesistenza delle operazioni passive. (6) Tra i lavori più recenti, ricordo F. Ardito, Condono, definizione amministrativa e
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
105
rant’anni sollecitano quella delle Corti di vertice (la sentenza in epigrafe risale nei richiami fino a Corte Cost. n. 185/1975). Già questa situazione offre, in primo luogo, l’occasione di riflettere sul modo in cui l’interprete debba porsi nei confronti del “diritto vivente”, quando l’elaborazione di esso dichiari di collocarsi al livello dei principi. Ovviamente, una siffatta costruzione giurisprudenziale “di lungo periodo”, fondata non tanto su episodici dati normativi, quanto piuttosto sulla logica intrinseca del condono, ha una particolare forza persuasiva. Ciò è dimostrato non solo dalle decisioni successive su questioni corrispondenti, sollecitamente allineatesi a questa (7), ma ancor più da quella che si è richiamata ad essa per il diverso problema della contestabilità, nonostante il condono, di un’eccedenza a credito conseguente ad un’esenzione Irpeg (8). Tuttavia, la formazione di un indirizzo consolidato non rende superfluo un controllo sugli argomenti posti a base di esso, quanto meno per definirne la reale portata. Tanto più in quanto la motivazione della sentenza qui annotata è decisamente tortuosa, fa
credito d’imposta, in Rass. Trib., 2005, 1343 ss.; Id., Ancora qualche riflessione sugli effetti del condono sulla definizione del rapporto d’imposta ed, in particolare, delle posizioni creditorie, ibidem, 2006, 1753 ss.; M. Basilavecchia, Gli effetti delle sanatorie sui crediti del contribuente, in Corr. trib., 2003, 2960 ss.; Id., Gli effetti dei condoni sulle liti da rimborso, ibidem, 2003, 3037 ss.; Id., L’istanza di condono preclude il rimborso irap ai professionisti, ibidem, 2007, 992 ss.; P. Centore, La valenza del condono alla prova dei crediti IVA, in GT – Riv. giur. trib., 2010, 489 ss.; S.F. Cociani, Condono tributario e accertamento dell’inesistenza di crediti già chiesti a rimborso, in Riv. dir. trib., 2006, II, 114 ss.; M. Conigliaro, Credito d’imposta: il condono fiscale “blocca” l’avviso di recupero, in il fisco, 2010, 2-5901 ss.; S. Fucile, L’istanza di definizione delle liti pendenti ex art. 16, l. n. 289/2002 preclude il rimborso dei crediti esposti in dichiarazione?, ibidem, 2012, 221 ss.; D. Mazzagreco, Il diritto al rimborso e la definizione delle liti fiscali pendenti, in Rass. Trib., 2011, 1363 ss.; F. Petrucci, La definizione automatica non influisce sulla valutazione della richiesta di rimborso, in Corr. trib., 2006, 703 ss.; R. Schiavolin, È davvero legittimo negare al contribuente il rimborso Iva per inesistenza delle operazioni passive, nonostante la definizione per condono ex art. 9, L. n. 289/2002?, in Riv. dir. trib., 2006, II, 5 ss.; G. Tinelli, Condono tributario e rimborsi d’imposta, in GT – Riv. giur. trib., 2005, 993 ss.; Id., La ricostruzione della natura del condono condiziona il diniego di rimborso IRAP, ibidem, 2007, 301 ss.; P. Turis, Condono tombale e rettifica del credito d’imposta sugli investimenti nelle aree svantaggiate in il fisco, 2010, 1-4486 ss. (7) Cfr. Cass., Sez. trib., 6 dicembre 2017/ 21 febbraio 2018, n. 4153; Cass., Sez. trib., Ordd. 22 maggio/13 ottobre 2017, nn. 24103 e 24104; Cass., Sez. trib., Ord. 13 luglio/13 ottobre 2017, n. 24135; Cass., Sez. trib., Ord. 7/29 dicembre 2017, n. 31135. (8) In tal senso, per quanto è dato capire dalla stringata motivazione, Cass., Sez. VI, 9 gennaio/2 febbraio 2018, n. 2648, che fa riferimento all’esenzione prevista dall’art. 10, l. Reg. Siciliana n.20/1991 (rectius, dall’art. 50, l. Reg.Siciliana n. 35/1990, in attuazione del d.p.r. n. 218/1978 e della l. n. 64/1986).
106
Parte seconda
riferimento ai “crediti” del contribuente in generale, senza affrontare il tema delle ragioni dell’eventuale peculiarità di quelli agevolativi, e giustifica le sue conclusioni, in parte, attraverso il richiamo a precedenti giurisprudenziali, risalendo ai quali, però, si ritrovano affermazioni apodittiche o citazioni di decisioni anteriori (9). In verità, seguendo a ritroso quel percorso giurisprudenziale, come vedremo, risulta che la negazione degli effetti preclusivi delle definizioni automatiche rispetto ai “crediti agevolativi” non si basa semplicemente su un principio tralatizio, conservato nel succedersi delle discipline di condono, ma rappresenta lo stadio più recente di uno sviluppo di corollari intesi a risolvere questioni via via sempre più lontane da quelle originarie (passando, come si dirà, dall’incompatibilità funzionale tra condoni e rimborsi a quella con i crediti iva e poi con i crediti d’imposta agevolativi), tanto da far sorgere il dubbio se la distanza tra premesse e conclusioni non sia ormai tanto grande da indebolire quella capacità persuasiva. In secondo luogo, le SS.UU. parrebbero prospettare una regola generale, per cui l’attività impositiva riguardante i crediti dichiarati dai contribuenti non sarebbe soggetta alle preclusioni previste per l’accertamento delle imposte dovute. La sentenza in epigrafe pretende infatti di innalzarsi “sul piano sistematico”, laddove accosta il potere dell’amministrazione finanziaria di disconoscere i crediti agevolativi, nonostante il condono con definizione automatica, a quello, pure affermato dalle SS.UU., di negare un rimborso chiesto con la
(9) In particolare, la sentenza in epigrafe cita Cass., Sez. trib., 20 aprile/7 giugno 2011, n. 12337; Cass., Sez. VI, ord. 17 aprile/12 giugno 2012, n. 9578; Cass., Sez. VI, ord. 27 giugno/19 luglio 2013, n. 17749; Cass., Sez. trib., 19 dicembre 2013/5 febbraio 2014, n. 2597; Cass., Sez. VI, Ord. 16 aprile/14 maggio 2014, n. 10574; Cass., Sez. trib., 30 marzo/3 agosto 2016, n. 16157. Si possono aggiungere a detta elencazione Cass., Sez. trib., 26 giugno/29 novembre 2013, n. 26727; Cass., Sez. trib., 10 ottobre/18 dicembre 2013, n. 28238; Cass., Sez. trib., 29 ottobre/20 dicembre 2013, n. 28531; Cass., Sez. trib., 30 ottobre/20 dicembre 2013, n.28538; Cass., Sez. trib., 25 settembre 2013/16 aprile 2014, n. 8808, le quali comunque si limitano a richiamare precedenti conformi. Risalendo alle decisioni relative al d.l. 5 novembre 1973, n. 660, conv. dalla l. 19 dicembre 1973, n. 823, affermano che la funzione del condono sia di chiudere controversie pendenti assicurando la riscossione – pur non integrale – di tributi contestati, ovvero di prevenire vertenze future riguardo a tributi non ancora pagati, p. es. Cass., Sez. I, 16 marzo 1979, n. 1571; Cass., Sez. I, 25 febbraio 1980, n. 1308; Cass., Sez. I, 2 luglio 1980, n. 4190; Cass., Sez. I, 29 luglio 1980, n. 4873; Cass., Sez. I, 25 maggio 1981, n. 3412; Cass., Sez. I, 16 giugno 1982, n. 3670; Cass., Sez. I, 16 aprile 1983, n. 2628; Cass., Sez. I, 5 febbraio 1985, n. 785; Cass., Sez. I, 4 marzo 1986, n. 1342; Cass., Sez. I, 19 luglio 1986, n. 4651; Cass., Sez. I, 23 ottobre 1989, n. 4316; Cass., Sez. I, 26 agosto 1993, n. 9032.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
107
dichiarazione benché siano spirati i termini di decadenza per rettificarla, giacché questi opererebbero solo per il riscontro delle obbligazioni tributarie (10). Vi sarebbe pertanto “una diversità di trattamento ingiustificabile” qualora i crediti d’imposta risultassero incontestabili in seguito a condono se il saldo della dichiarazione fosse a debito, ma non se questa sfociasse in una domanda di rimborso. In verità, quella recente giurisprudenza consente i controlli oltre i termini solo per evitare un indebito rimborso, dunque si riferisce ai “crediti” in quanto eccedenza globalmente risultante dalla dichiarazione: i singoli elementi che hanno portato a determinare quest’ultima restano contestabili solo fino a concorrenza di essa, mentre i crediti d’imposta dichiarati non sono verificabili semplicemente in quanto tali (11). Applicando questo indirizzo alla questione
(10) La sent. in epigrafe richiama Cass., SS.UU., 12 maggio 2015/15 marzo 2016, n. 5069, in GT – Riv. giur. trib., 2016, 473 ss. con nota critica di G. Gargiulo, Rettifica delle “dichiarazioni a credito” tra processo ed azione amministrativa. Per un’analisi del problema anteriore a quest’ultima sentenza, cfr. F. Randazzo, Alle sezioni unite la problematica della contestabilità del credito da dichiarazione non più rettificabile, in Riv. dir. trib., 2014, II, 440 ss., in nota all’Ordinanza di rimessione (Cass., Sez. trib., Ord. 28 maggio/5 novembre 2014, n. 23529). Nello stesso senso di tale sentenza si v. Cass., Sez. trib., 20 marzo/22 aprile 2009, n. 9524; Cass., Sez. trib., 27 aprile/18 maggio 2012, n. 7899; Cass., Sez. trib., 20 aprile/17 giugno 2016, n. 12557. In senso contrario, tra le altre, Cass. Sez. trib. 14 marzo/22 aprile 2005, n. 8460, in GT – Riv. Giur. Trib., 2005, 831 ss., con nota di M. Miscali, La decadenza dell’ufficio dal potere di rettificare la dichiarazione “a credito” comporta il consolidamento del diritto di restituzione del contribuente; Cass., Sez. trib., 24 novembre/29 dicembre 2010, n. 26318, in GT – Riv. giur. trib., 2011, 503, con nota di G.M. Cipolla, Crediti d’imposta e tutele processuali: si rafforza la tesi del consolidamento del credito esposto in dichiarazione e non rettificabile dal Fisco; Cass., Sez. trib., 14 marzo/8 giugno 2012, n. 9339; Cass., Sez. trib., 17 novembre 2015/15 aprile 2016, n. 7492. In dottrina, per la non contestabilità, una volta spirato il termine per gli accertamenti, dei crediti indicati in dichiarazione, almeno con riferimento ai componenti di reddito dai quali siano scaturiti, R. Liotta, L’intreccio tra pretesa amministrativistica alla riscossione dei tributi ed obblighi civilistici alla restituzione dell’indebito, in Dialoghi dir. trib., 6/2007, 843 ss.; E. Covino, Il problema della decadenza dei termini per i controlli su crediti riportati in dichiarazione, ibidem, 846 ss.; R. Lupi, Come la mettiamo con iva e crediti ceduti ?, ibidem, 848 s.; D. Ardolino, Le eccedenze chieste a rimborso in dichiarazione: onere della prova e decorrenza del diritto di restituzione, in Dialoghi Trib., 2009, 202 ss.; G. Gargiulo, Punti fermi e questioni ancora controverse in materia di rimborsi di crediti d’imposta risultanti da dichiarazione, ibidem, 208 ss.; R. Lupi, Una conferma della matrice amministrativistica del diritto tributario e il problema dei «microrimborsi», ibidem, 213 s.; G. Gargiulo - R. Lupi, Controllo ordinario delle dichiarazioni e recupero dei crediti inesistenti «compensati»: un coordinamento possibile, in Dialoghi Trib., 2009, 458 ss. (11) Cfr. Cass., SS.UU., n. 5069/2016, cit. e, nel senso di negare la diretta contestabilità di crediti d’imposta su dividendi, Cass., Sez. trib., 14 ottobre/29 dicembre 2016, n. 27306.
108
Parte seconda
delle preclusioni da condono, la contestazione di crediti agevolativi sarebbe ammessa solo qualora fossero ricollegabili ad una dichiarazione a credito e nei limiti di quest’ultimo, non per ogni caso di illegittima compensazione. Sul piano normativo, all’idea che qualsiasi posizione creditoria vantata nei confronti dell’Erario sia controllabile senza limiti di tempo è facile opporre le regole in materia di iva (12) e la disciplina sul recupero di crediti d’imposta inesistenti (13), in particolare l’art. 27, co. 16, d.l. n. 185/2008, conv. dalla l. n. 2/2009, ove si prevede come termine di decadenza l’ottavo anno successivo a quello di utilizzo del credito. Se prima di tale disciplina il potere di controllo sulle compensazioni non fosse stato soggetto a preclusioni, paradossalmente il legislatore avrebbe assoggettato il recupero di crediti inesistenti ad un limite non operante con riferimento alle meno gravi ipotesi di crediti “non spettanti” (cfr. art. 13, co.4, d.lgs. n. 471/1997). Tuttavia, in realtà, benché questi ultimi siano rilevati tramite attività soggette ad un termine ordinatorio, come i controlli ex artt. 36-bis e 36-ter, d.p.r. n. 600/1973, seguiti dalla comunicazione ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 462/1997, per recuperarli si applicano i termini di decadenza per la riscossione coattiva previsti dall’art. 25, d.p.r. n. 602/1973. Dunque, solo per i controlli automatici sulle pretese di rimborso inserite nelle dichiarazioni dei redditi il termine non risulta fissato a pena di decadenza (14). Questa differenza, emergente dalla normativa, tra le discipline dei controlli sulla spettanza, da un lato, dei rimborsi, dall’altro, dei crediti d’imposta usati in compensazione, per cui i primi non sono soggetti a decadenze e i secondi sì, poggia su diversità strutturali di rilevanza tale da superare il comune riferimento a situazioni soggettive favorevoli dei contribuenti. Infatti, un rimborso, sia richiesto mediante una dichiarazione ovvero un’istanza, non si può ottenere in mancanza di un effettivo controllo sulla pretesa
(12) Ove il potere di rettifica, ex artt. 54 e 56, d.p.r. n. 633/1972, è soggetto a termini decadenziali anche riguardo alle dichiarazioni a credito e il recupero di somme indebitamente rimborsate o compensate, ex art. 38-bis, co. 9, d.p.r. n. 633/1972, presuppone un avviso di accertamento o di rettifica, salvo che la pretesa fiscale si fondi su controlli ex art. 54-bis, d.p.r. n. 633/1972, nel qual caso si procede con la comunicazione e l’eventuale iscrizione a ruolo ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 462/1997. (13) Come è noto, l’art. 1, co. 421, l. n. 311/2004 prevede la possibilità per l’Agenzia delle entrate di “emanare apposito atto di recupero motivato” al fine di riscuotere “crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione” ex art. 17, d.lgs. 241/1997. Per la riconduzione di esso all’avviso di accertamento, si v. per tutti M. Conigliaro, op. loc. cit. (14) Per converso, lo sono quelli per il recupero di somme erroneamente rimborsate, ex art. 43, d.p.r. n. 602/1973.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
109
(anche se, nel primo caso, è sufficiente la liquidazione ex art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973: cfr. artt. 41 e segg. d.p.r. n. 602/1973). Si può considerare questa una scelta del legislatore (15), ma comunque si tratta di una caratteristica essenziale del procedimento, ed è coerente con questo meccanismo che la pretesa di rimborso non diventi irrefragabile solo perché inserita in una dichiarazione non contestata dall’amministrazione finanziaria entro i termini per la rettifica (16). Per converso, come il controllo sostanziale sulle dichiarazioni, inteso a scoprire inadempimenti dei soggetti passivi, in generale ha carattere eventuale, anche quello sui crediti d’imposta ivi indicati e sulla legittimità dell’uso di essi in compensazione si svolge solo su una certa percentuale di situazioni. Coerente con questo carattere è che esso risulti precluso una volta decorso un certo periodo, per tutelare l’interesse del contribuente a non restare esposto a contestazioni per un tempo così lungo da pregiudicarne le possibilità di difesa. Dunque, se il controllo dell’amministrazione finanziaria sulla spettanza di una situazione creditoria del contribuente rientra nella verifica sul corretto adempimento dei suoi doveri di dichiarazione e versamento, in particolare sulla condotta mediante la quale esso abbia soddisfatto tale credito “da sé” mediante compensazione, è fisiologico che l’esercizio del potere di accertamento sia soggetto a decadenza. Allora, essendovi già una preclusione legata al decorso del tempo, che pone un confine alla tutela dell’interesse pubblico a controllare la fedeltà al vero delle dichiarazioni, è possibile per il legislatore ridurre, episodicamente, gli spazi del potere di verifica, in seguito all’adesione del soggetto passivo ad un condono. Queste regole speciali devono poter essere configurate mediante scelte ampiamente discrezionali, perché, per riuscire a produrre il gettito auspicato (secondo la ratio “finanziaria” valorizzata dalla giurisprudenza prevalente), un condono, fermi i vincoli di ragionevolezza ex art. 3 Cost., deve “offrire” ai contribuenti, a fronte del prelievo forfettario, dei vantaggi interessanti in termini di sottrazione anticipata a certi controlli (17)
(15) Tant’è vero che, ai fini iva, l’art. 38-bis, d.p.r. n. 633/1972 prevede meccanismi molto più rapidi, a fronte di apposite cautele (certificazioni, garanzie), affidandosi ad eventuali controlli sostanziali a posteriori (cfr. co. 9). (16) S’intende che l’interesse del contribuente ad avere in breve tempo, almeno, la possibilità di dimostrare il proprio diritto davanti al giudice tributario, deve passare attraverso un’istanza di rimborso e, eventualmente, la formazione del silenzio-rigetto. (17) La stessa sentenza in epigrafe coglie questo aspetto al par. 6.2, laddove giustifica la conservazione all’amministrazione finanziaria “dei soli poteri di controllo formale … che non toccano la posizione sostanziale della parte contribuente e sono scevri da profili valutativi o estimativi”.
110
Parte seconda
di alcuni aspetti del rapporto tributario. Orbene, la sentenza in epigrafe, concentrandosi sulla distinzione tra debiti e crediti, non tiene conto di questa ratio delle preclusioni da condono, riferita ai poteri di accertamento e consistente nell’offrire agli interessati la certezza di non subire più certi tipi di controllo, i quali ben potrebbero riguardare anche i crediti d’imposta agevolativi. Pertanto, una riflessione sulle ragioni sistematiche per cui la decadenza dal potere di rettifica non comporta consolidamento delle pretese di rimborso inserite in dichiarazione porta a negare un’esigenza di omogeneità delle discipline relative al controllo su queste istanze e sulle altre situazioni “creditorie” vantate dai soggetti passivi. I controlli sull’impiego dei crediti d’imposta agevolativi hanno una propria disciplina, che include termini di decadenza per i relativi provvedimenti, siano questi inquadrabili tra gli avvisi di accertamento o gli atti di riscossione. Le regole in materia di condono si pongono come deroghe a questa normativa, nei limiti in cui precludono quei controlli. Resta dunque da vedere se, ponendosi soltanto nella prospettiva della disciplina e della ratio del condono, sia convincente la soluzione raggiunta dalla sentenza qui annotata, cioè che la definizione automatica non impedisce all’amministrazione finanziaria di contestare la spettanza dei crediti d’imposta agevolativi indicati in dichiarazione. 2. Il problema della preclusione del recupero di crediti agevolativi nella logica della disciplina del condono. Gli argomenti delle SS.UU. – L’idea cardine della sentenza qui annotata, cioè che il condono “elide, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti” trae origine da quella per cui esso non potrebbe avere per effetto il diritto ad un rimborso, perché il legislatore, nel concedere siffatte sanatorie, mira (oltre che alla riduzione del contenzioso) al conseguimento di un maggior gettito rispetto a quello già acquisito, non già alla determinazione di quanto fosse effettivamente dovuto (18) (in particolare, nella giurisprudenza più risalente se ne è dedotto che la definizione di controversie nelle quali il contribuente avesse già versato somme superiori a quanto richiesto per il condono comportasse la perdita di tale eccedenza) (19).
(18) Altrimenti, giustizia vorrebbe che fosse rimborsato chi avesse già versato, in sede di autotassazione, più di quanto richiesto per aderire al condono: cfr. G. Falsitta, Condoni fiscali tra rottura di regole costituzionali e violazioni comunitarie, cit., 313. (19) Nel senso che siffatte sanatorie, per un “principio acquisito nel nostro sistema tributario … hanno la finalità economica di assicurare allo Stato entrate immediate e non anche
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
111
A me, in verità, parrebbe che un siffatto obiettivo finanziario, riguardando il risultato atteso in generale dall’applicazione del condono, non sia utilizzabile come argomento interpretativo di singole disposizioni. Tuttavia, in giurisprudenza esso è stato inteso nel senso che la “natura” del condono comporti per ciascun aderente un dovere di versamento, o comunque non possa far sorgere diritti a rimborsi (20), perché tale forma di definizione, onde dirimere ogni controversia, anche futura, sostituisce all’originario rapporto tributario un’obbligazione determinata secondo criteri alternativi, rendendo irrilevante se precedenti versamenti fossero indebiti (21), sia pure per mancanza del presupposto (22) (meccanismo, questo, considerato legittimo
quella giuridica di realizzare una più efficiente e rapida giustizia tributaria in senso assoluto”, cfr., con riferimento agli artt. 6 e 11, d.l. n. 660/1973, Cass., Sez. I, 1 ottobre 1976, n. 3201; conf. Cass., Sez. I, 6 aprile 1981, n. 1935; Cass., Sez. I, 12 dicembre 1981, n. 6573; per la costituzionalità dell’esclusione dalla sfera di applicazione di detto art. 6 di controversie che, essendo già stati effettuati i versamenti, non avrebbero prodotto un ulteriore introito, cfr. Corte Cost., 12/26 febbraio 1981, n. 33, in Giur. Cost., 1981, I, 211 ss., con nota critica di S. Rosa, Dubbi in tema di condono fiscale. In dottrina, favorevole a indirizzo giurisprudenziale è C. Preziosi, Il condono fiscale, cit., 288 s; in senso critico, si v. F. Tesauro, A proposito di condono e di rimborso d’imposta, in Giur. it., 1975, III, 2, 23 s.; F. Benatti, Legge di condono e rimborso d’imposta, in Boll. Trib., 1979, 923 s.; G. Passaro, Condono nel diritto tributario, cit., 389 s.; E. De Mita, Fini del condono e rimborso di pagamenti provvisori, in Id., Fisco e Costituzione. Questioni risolte e questioni aperte, I, 1957-1983, Milano, 1984, 580 ss. (20) Ovviamente ciò non riguarda i versamenti fatti per fruire di un condono, ma eccedenti quanto dovuto in base alla disciplina di esso (si v. p. es. A. Tomassini, È dovuto il rimborso se l’importo versato per condono è erroneo ed eccessivo, in Corr. Trib., 2006, 2063 ss.; Cass., Sez. trib., 28 ottobre 2003/12 maggio 2004, n. 8987, in Corr. trib., 2004, 2677 ss., con nota di M. Basilavecchia, È rimborsabile l’indebito pagamento da condono; mentre Cass., Sez. trib., 4/16 febbraio 2014, n. 8846 ha escluso il rimborso in caso non di errore, ma di ripensamento, alla luce di modifiche normative). (21) Nel senso che la scelta del contribuente di avvalersi del condono comporti una rinuncia “ad ogni pretesa che, direttamente o indirettamente, trovi fondamento in fatti relativi agli anni condonati”, cfr. Cass., n. 2621/2016 e per una rassegna di sentenze conformi sui condoni dal 1982 al 2002, si v. Cass., n. 8829/2016. Per le critiche dottrinali all’applicazione giurisprudenziale di tale principio persino in caso di definizione di una lite pendente, i cui effetti parrebbe ovvio limitare alla questione controversa, si v. S. Fucile, op. cit., 221 ss., e D. Mazzagreco, op. cit., 1363 ss. (22) Cfr. p. es. Cass., SS.UU., 20 maggio/5 giugno 2008, n. 14828; Cass., Sez. trib., 8/16 febbraio 2007, n. 3682, in Corr. trib., 2007, p. 992 ss., con nota di M. Basilavecchia, L’istanza di condono preclude il rimborso irap ai professionisti, e in GT – Riv. giur. trib., 2007, p. 301 ss., con nota di G. Tinelli, La ricostruzione della natura del condono condiziona il diniego di rimborso IRAP; Cass., Sez. trib., 29 settembre/30 novembre 2016, n. 24388; Cass., Sez. trib., 3 luglio 2003/10 gennaio 2004, n. 195; Cass. Sez. trib., 4 marzo/12 agosto 2004, n. 15635; Cass., Sez. I, 10 novembre 1995/9 aprile 1996, n. 3273.
112
Parte seconda
da decisioni della Corte Costituzionale citate dalla sentenza in epigrafe) (23). Le discipline di condono successive, però, sono state meno rigide, salvaguardando i diritti a rimborsi (realmente) spettanti in base all’originaria dichiarazione e prevedendo che dall’importo necessario per definire una controversia fossero scomputate le somme già versate (24). Dunque, come si è detto, il legislatore ha via via configurato in base a scelte discrezionali, anche allontanandosi dalle regole che la giurisprudenza affermava riguardo ai condoni precedenti, il bilanciamento tra costi e benefici caratterizzante ciascuna “offerta” di definizione proposta ai contribuenti. Ciò dovrebbe indurre l’interprete, nel ricostruire i limiti delle preclusioni ai controlli, a dare maggior peso alla disciplina specificamente applicabile, rispetto agli obiettivi finanziari dei condoni. Tuttavia, i dati testuali della l. n. 289/2002 erano in effetti ambigui riguardo al problema affrontato dalla sentenza in epigrafe. Invero, l’art. 9, co. 9, l. n. 289/2002 stabiliva che la definizione automatica “rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione”, anche riguardo ad “agevolazioni indicate dal contribuente”, ma pure che essa “non modifica l’importo” dei “rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate”. D’altra parte, quel comma faceva “salvi gli effetti della liquidazione” e del controllo formale ex artt. 36-bis e 36-ter, d.p.r. 600/1973 e 54-bis d.p.r. 633/1972 e si riferiva ai “crediti d’imposta” solo per stabilire che, se non fossero stati dichiarati in
(23) Cfr. Corte Cost., 27 giugno/8 luglio 1975, n. 185 (secondo la quale nel condono di cui all’art. 6, l. 23 dicembre 1966, n. 1139 la “non ripetibilità in nessun caso delle somme corrisposte”, conforme ad “un costante indirizzo in materia”, era costituzionalmente legittima, perché i fini della sanatoria non si sarebbero realizzati se questa avesse trovato “applicazione solo dopo l’accertamento della sussistenza o meno dei presupposti” originari del tributo) e Corte cost. 28 giugno/13 luglio 1995, n. 321 (la quale ritiene costituzionalmente legittimo che la moglie non fosse obbligata in solido per l’imposta complementare sul cumulo dei redditi familiari in caso di condono chiesto dal marito ex d.l. n. 660/1973, giacché ciò estingueva il rapporto originario, sostituendolo con uno il cui “unico soggetto passivamente obbligato” era il richiedente). (24) Cfr. art. 16, co. 5, l. n. 289/2002, il quale ammetteva lo scomputo delle somme versate in pendenza di giudizio ma (salvo il caso di soccombenza dell’amministrazione finanziaria) escludeva la ripetibilità di importi maggiori (cfr. Cass., Sez. trib., 16 dicembre 2013/17 luglio 2014, n. 16339; Cass., Sez. trib., 12 novembre 2014/18 settembre 2015, n. 18371; Cass., Sez. trib., 28 novembre/4 dicembre 2015, n. 24769). Similmente, l’art. 11, d.l. n. 50/2017 conv. dalla l. n. 96/2017 (in tema di “definizione agevolata delle controversie tributarie”) prevede lo scomputo degli importi già versati in forza della riscossione provvisoria e per la definizione agevolata dei carichi in riscossione di cui al d.l. n. 193/2016 conv. dalla l. n. 225/2016, ma esclude rimborsi, anche di somme eccedenti quanto dovuto per la definizione.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
113
precedenza, la dichiarazione integrativa non dava titolo a chiederne il rimborso. Infine, l’art. 9, co. 10 precludeva, una volta perfezionatasi la procedura, “ogni accertamento tributario”. Restando alla lettera di dette regole, si tratterebbe di distinguere i casi nei quali la contestazione di un credito d’imposta agevolativo rientra nell’ambito dei controlli automatici e formali, non preclusi dal condono (25), da quelli inquadrabili nell’attività di accertamento, impedita dalla definizione. Come si è visto, però, la giurisprudenza si è fondata soprattutto su idee generali riguardanti gli obiettivi dei condoni e la sentenza in commento si articola per buona parte in un esame delle ragioni addotte da tali indirizzi. Conviene pertanto ora esaminare sinteticamente quegli argomenti. L’indirizzo secondo il quale la definizione automatica avrebbe impedito il recupero di crediti di natura agevolativa si basava sulla definitività della liquidazione anche riguardo alle “agevolazioni” e sulla riconduzione ad un “accertamento tributario”, precluso dall’art. 9, co. 10, l. n. 289/2002, del provvedimento che rilevava il mancato versamento di un tributo in quanto illegittimamente compensato (26). La sentenza in epigrafe, invece, intende la regola dell’art. 9, co. 9, l. n. 289/2002, per cui “la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali … crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate”, nel senso che il condono non abbia effetto su tali situazioni soggettive e quindi l’amministrazione finanziaria conservi il potere di controllarne la spettanza. Ciò, in quanto la definizione atipica del rapporto tributario secondo criteri legali, a prescindere dall’accertamento dell’imponibile, al fine di recuperare risorse finanziarie (con un prelievo sostitutivo di quello ordinario) e ridurre il contenzioso, in cui
(25) Cfr. per tutti M. Basilavecchia, Possibile la liquidazione successiva alla dichiarazione di condono favorevole al contribuente, in Corr. trib., 2004, 2625 ss. (26) Cfr. Cass., Sez. trib., 27 gennaio/17 febbraio 2016 n. 3112; Cass., Sez. trib., 7/22 luglio 2016, n. 15195; Cass., Sez. trib., 6 luglio/3 agosto 2016, n. 16186 (ricordate dall’ordinanza di rimessione Cass., n. 25092/2016) e Cass., Sez. trib., 1° aprile/9 giugno 2010, n. 13858 (secondo la quale è qualificabile come atto di accertamento e non come controllo formale un recupero preceduto da un’ispezione e dalla notifica di un p.v.c.). Per inciso, Cass., n. 15195/2016 e Cass., n. 16186/2016 affermano che la preclusione opererebbe solo se il credito fosse specificamente indicato nell’istanza di condono, ma questa pare un’erronea interpretazione dell’art. 9, co. 9, l. n. 289/2002, il quale invece ne richiedeva l’esposizione nella dichiarazione originaria (d’altronde, la modulistica per il condono “tombale” del 2003 non lasciava nemmeno la possibilità pratica di un siffatto inserimento e la Circ. Ag. Entrate 21 febbraio 2003, n. 12, par. 3.9, afferma che “le modalità stesse di calcolo degli importi dovuti ai fini della definizione automatica non consentono di far valere … crediti d’imposta prima non dichiarati”).
114
Parte seconda
si ravvisa la natura del condono, inciderebbe “sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti” perché precludere i controlli sostanziali su questi ultimi “colliderebbe in maniera frontale con le finalità del condono, indirizzate a reperire risorse di bilancio e non già a perseguire finalità transattive e di compensazione di ragioni di credito e di debito”. La definitività riguarderebbe soltanto la base imponibile dichiarata, sottratta ad “ogni accertamento tributario”, e l’imposta lorda, liquidata di conseguenza in via definitiva (27) anche rispetto a deduzioni ed esclusioni. Secondo le SS.UU., ciò comporterebbe, per coerenza, che le “agevolazioni” siano rese definitive dal condono solo se incidenti sulla determinazione dell’imponibile, sicché resterebbero estranee agli effetti di esso quelle consistenti in crediti d’imposta, perché operano sul piano della compensazione con un obbligo di versamento e non su quello della base imponibile (28). Quest’ultima spiegazione, però, desta alcune perplessità. In primo luogo, se l’art. 9, co. 9, l. n. 289/2002 stabilisce la definitività di deduzioni, agevolazioni ed esclusioni, assumere come riferimento solo le prime in quanto elementi della base imponibile, anche per identificare le “agevolazioni” rilevanti, appare una scelta dell’interprete, la quale lascia fuori ipotesi come p. es. le aliquote ridotte e non appare coerente con l’interpretazione delle esclusioni, correlate invece al presupposto. In secondo luogo, la sentenza qui annotata ricorda come “la ricostruzione del condono … destinata a conformare anche la decisione odierna”, cioè che esso, per propria natura, “incide sui debiti dei contribuenti e non sui loro crediti”, sia stata formulata da Corte Cost., n. 340/2005 e n. 402/2005 (29).
(27) Senza escludere tuttavia i poteri di controllo ex artt. 36-bis e 36-ter, d.p.r. n. 600/1973, perché essi “non toccano la posizione sostanziale della parte contribuente e sono scevri da profili valutativi o estimativi”. Secondo la sentenza in epigrafe, inoltre, essi servono a determinare correttamente il prelievo da condono, in quanto calcolato forfetariamente in base a dati risultanti dalla dichiarazione originaria; tuttavia, ciò non mi sembra pertinente ai crediti d’imposta agevolativi, perché tale prelievo ai sensi dell’art. 9, co. 2, l. n. 289/2002, era commisurato all’imposta sui redditi lorda, o all’iva esigibile ed a quella detratta (nonché a soglie integrative legate a ricavi, compensi e volume d’affari), cioè a dati non influenzati da detti crediti. (28) Anche secondo l’Agenzia delle entrate (Circ. 28 aprile 2003, n. 22/E, par. 6.2, ricordata dall’ordinanza di rimessione) il condono avrebbe effetti solo riguardo alla determinazione della base imponibile, mentre i crediti agevolativi discendono da incentivi senza rapporto con quest’ultima, che si collegano “al fenomeno tributario solo al momento del loro utilizzo in diminuzione delle imposte dovute” (ritiene condivisibile questa giustificazione M. Basilavecchia, Gli effetti delle sanatorie sui crediti, loc. cit.). (29) Corte Cost., Ord. 14/27 luglio 2005, n. 340, in GT – Riv. giur. trib., 2005, 993 ss. con
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
115
Come è noto, Corte Cost., n. 340/2005 ne ha dedotto la persistenza del potere dell’amministrazione finanziaria, nonostante la definizione automatica di cui alla l. n. 289/2002, di verificare la sussistenza del diritto di detrarre l’iva su acquisti (dei quali si contestava l’esistenza) inclusi in dichiarazioni iva con richiesta di rimborso (30). Orbene, a mio avviso, il problema è che le detrazioni iva non sembrano avere il ruolo “esterno”, rispetto all’obbligazione tributaria, assegnato ai crediti d’imposta agevolativi nello schema sopra tratteggiato: essendo il meccanismo applicativo dell’iva imperniato su sommatorie di imposte “a debito” ed “a credito”, appare arduo collocare le operazioni passive e le correlate detrazioni al di fuori dell’area coperta dalla definizione automatica, semplicemente qualificando le seconde come posizioni creditorie del soggetto passivo. D’altra parte, quella decisione si è riferita solo a casi in cui l’eccedenza a credito iva era stata chiesta a rimborso, sicché si potrebbe ben pensare che siano questi i “crediti” non coperti dal condono, conformemente all’indirizzo che esclude l’idoneità di quest’ultimo a consolidare pretese restitutorie (31). In effetti, per dimostrare che il condono delle dichiarazioni iva a credito richiede regole speciali basterebbe ricordare come in quelli del 1982 e del 1991 il legislatore avesse previsto norme apposite, anche distinguendo tra chi per l’ultimo anno definibile avesse chiesto il rimborso dell’eccedenza e chi l’avesse portata in detrazione (32) (differenza di trattamento considerata legit-
nota di G. Tinelli, Condono tributario e rimborsi d’imposta, e in Riv. dir. trib., 2006, II, 7 ss., con nota critica di R. Schiavolin, È davvero legittimo negare al contribuente il rimborso IVA, cit. e Corte Cost., Ord. 12/ 25 ottobre 2005, n. 402, in Dir. Prat. Trib., 2006, II, 149 ss. (30) Comunque, è normale nella giurisprudenza di legittimità che estende detto principio a qualsiasi credito d’imposta, anche agevolativo, richiamare l’indirizzo in tema di rimborsi iva scaturito da Corte Cost. n. 340/2005: cfr. p. es. Cass., Sez. trib., 20 aprile/7 giugno 2011, n. 12337; Cass., Sez. trib., 26 giugno/29 novembre 2013, n. 26727; Cass., Sez. trib., 10 ottobre/18 dicembre 2013, n. 28238; Cass., Sez. trib., 29 ottobre/20 dicembre 2013, n. 28531; Cass., Sez. trib., 30 ottobre/20 dicembre 2013, n. 28538; Cass., Sez. trib., 19 dicembre 2013/5 febbraio 2014, n. 2597; Cass., Sez. trib., 25 settembre 2013/16 aprile 2014, n. 8808; Cass., Sez. VI – 5, Ord. 16 aprile/14 maggio 2014, n. 10574; Cass., Sez. trib., 30 marzo/3 agosto 2016, n. 16157. (31) Nel senso, pertanto, che ne discendesse una disparità di trattamento tra soggetti utilizzatori di fatture per operazioni inesistenti, a seconda che fossero a debito od a credito, si v. S.F. Cociani, op. cit., 115. (32) La disciplina del condono di cui al d.l. n. 429/1982 non escludeva le dichiarazioni iva “a credito”, prevedendo anzi all’art. 30 l’indicazione nella dichiarazione integrativa “della maggiore imposta che si riconosce dovuta o della minore eccedenza detraibile”, e l’amnistia di cui al d.p.r. n. 525/1982 si applicava anche al reato di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, in caso di adesione al condono; qualora l’eccedenza a credito iva del 1981 fosse chiesta a rimborso, la dichiarazione rimaneva soggetta a controllo, mentre se fosse stata detratta
116
Parte seconda
tima da Corte Cost. n. 402/2005) (33). Nella giurisprudenza di legittimità si erano sviluppati indirizzi secondo i quali la definizione automatica impediva il controllo sulle detrazioni iva purché comportasse comunque un maggior prelievo, almeno sotto forma di diminuzione dell’iva a credito dichiarata (34), ma anche altri secondo i quali, essendo estranea alla ratio del condono la consolidazione di “crediti d’imposta” dichiarati, esso non avrebbe escluso le ordinarie verifiche sulla spettanza delle detrazioni (35). Ebbene, la sentenza qui annotata, per smentire l’indirizzo minoritario secondo il quale le conclusioni di Corte Cost. n. 340/2005 erano legate alle peculiari esigenze del contrasto alle frodi iva (oltre a ricordare l’incompatibilità con il diritto comunitario delle definizioni automatiche relative a detto tributo) (36), sostiene la “chiara valenza generale” dell’interpretazione dell’art. 9, co.
occorreva rinunciarvi per accedere alla definizione automatica. Nella l. n. 413/1991, l’art. 44, co. 1, consentiva di definire le controversie su un’eccedenza a credito non riconosciuta pagando il 50% di essa; per il successivo co. 6, l’eccedenza di iva già versata che non trovasse compensazione con il prelievo da condono era detraibile nelle liquidazioni periodiche; l’art. 52, co. 1, consentiva a chi avesse utilizzato fatture per operazioni inesistenti di accedere al condono solo se avesse eliminato gli effetti dell’indebita detrazione. Se la dichiarazione iva 1990 era a credito e questo era stato riportato a nuovo, l’art. 49, co. 2, l. n. 413/1991 escludeva la definizione automatica, salvo che il soggetto passivo rinunciasse al credito (nel senso che, pur mancando un’espressa rinuncia, il credito fosse comunque estinto, Cass., sez. trib., 25 aprile 2001/28 gennaio 2002, n. 1016, sulla quale si v. A. Cattaneo, Sulla validità della domanda di condono senza rinuncia al credito dichiarato, in GT – Riv. giur. trib., 2002, 946 s.). (33) Quest’ultima ha sottolineato come chi chiedesse il rimborso del credito iva del 1981 avrebbe promosso un apposito procedimento di controllo dell’amministrazione finanziaria, mentre chi l’avesse portato in detrazione nel 1982 sarebbe rimasto soggetto ai controlli selettivi e quindi non era arbitrario imporgli di rinunciarvi, date le finalità di definizione semplificata, spedita e globale delle pendenze tributarie proprie dei condoni. (34) Cfr., con diverse sfumature, Cass., Sez. I, 7 novembre 1990/14 settembre 1991, n. 9601; Cass., Sez. I, 10 novembre 1995/9 aprile 1996, n. 3273; Cass., Sez. I, 4 dicembre 1996/13 febbraio 1997, n. 1335; Cass., Sez. I, 19 marzo 1997, n. 2447; Cass., Sez. I, 4 aprile/28 agosto 1997, n. 8163; Cass., Sez. I, 27 maggio/20 novembre 1997, n. 11560. (35) Cfr. Cass., Sez. I, 2 febbraio/16 novembre 1994, n. 9646; Cass., Sez. I, 9 novembre 1995/16 luglio 1996, n. 6429; Cass., Sez. trib., 17 marzo/23 luglio 2004, n. 13854. Dopo Corte Cost. n. 340/2005, basti citare Cass., Sez. trib., 9 dicembre 2008/12 gennaio 2009, n. 375 e Cass., Sez. trib., 10 giugno/31 agosto 2010, n. 18942 (nel senso che la preclusione da condono non operi nemmeno in caso di riporto a nuovo dell’eccedenza a credito iva). (36) Cfr. Corte giust. UE, 17 luglio 2008, causa C-132/06, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 334 ss., con nota di G. Falsitta, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo. Sulle conseguenze di essa, per tutti, cfr. R. Miceli, Gli effetti della incompatibilità comunitaria del condono iva e della relativa sentenza di inadempimento sul sistema giuridico nazionale, in Riv. dir. trib., 2010, I, 587 ss. e, in giuri-
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
117
9 e 10, l. n. 289/2002 resa dalla Corte Costituzionale, aggiungendo che “sul piano ontologico”, non vi sarebbe “distinzione, ai fini dell’accertamento del fisco, tra inesistenza del credito iva perché prodotto da operazioni inesistenti ed inesistenza del credito da agevolazione per mancanza dei relativi presupposti”. A mio avviso, però, la questione della distinguibilità di detti crediti andrebbe invece posta rispetto alla disciplina del condono: guardando alla sostanza, in un confronto con le imposte sul reddito è evidente la corrispondenza tra detrazioni iva e costi inerenti alle attività d’impresa e di lavoro autonomo, pacificamente “coperti” dal condono, così come la differenza funzionale tra esse ed i crediti d’imposta agevolativi. 3. Considerazioni conclusive. – A mio avviso, la sentenza in epigrafe non offre una dimostrazione pienamente convincente delle conclusioni raggiunte, soprattutto perché, invece di concentrarsi sulla specifica disciplina della singola definizione applicabile, essa ragiona guardando alle finalità finanziarie ed ai meccanismi generali dei condoni. Nell’interpretazione delle regole sui limiti posti da questi ultimi alle facoltà di accertamento dell’amministrazione finanziaria si dovrebbe dare invece maggior peso all’esigenza che le conseguenze dell’adesione ad essi siano chiaramente desumibili dalla normativa. In quest’ultima, infatti, il legislatore può ben prevedere trattamenti diversi per i vari tipi di crediti dei contribuenti, operando scelte discrezionali correlate anche ai differenti tipi di procedure sulle quali dovrebbero incidere gli effetti preclusivi della definizione. In particolare, come emerge dai precedenti indirizzi giurisprudenziali (37), la disciplina del condono potrebbe mantenere i poteri di controllo sostanziale sugli elementi che portano a dichiarare un saldo a credito, ma non su ogni caso di compensazione, benché con quest’ultima si affermi una posizione creditoria del contribuente. A questa soluzione parrebbe ostare l’idea, emergente dalla sentenza in epigrafe, dell’incostituzionalità di una disciplina la quale consenta o meno i controlli sui crediti da agevolazione, a seconda che siano posti o no a base di una pretesa di rimborso. Tale visione però, poggiando sul comune carattere “creditorio” degli elementi da controllare, trascura la necessità di
sprudenza, Cass., Sez. trib., 23 aprile/ 26 settembre 2014, n. 20433; Cass., Sez. trib., 24 marzo 2014/8 aprile 2015, n. 6982; Cass., Sez. trib., 21 aprile/3 giugno 2015, n. 11429; Cass. Sez. trib., 17 maggio/15 giugno 2016, n. 12313. (37) Cfr. p. es. Cass., Sez. trib., n. 15195/2016.
118
Parte seconda
vagliare le differenze di trattamento alla luce della disciplina del condono e della sua ratio, consistente nell’offrire agli interessati, a fronte di un prelievo straordinario, l’affrancamento da certi tipi di procedura che potrebbero far emergere violazioni commesse. Il confronto va dunque fatto guardando alle discipline procedimentali applicabili per controllare, da un lato, l’uso dei crediti agevolativi in compensazione, dall’altro, la spettanza di quelli che portino a chiedere un rimborso in dichiarazione. Essendo palese che solo nel primo caso può emergere un’evasione, la possibilità per il legislatore di ammettere rispetto ad esso una definitività da condono mi parrebbe accettabile. Uno spunto normativo a sostegno di quest’ultima soluzione mi sembra emerga da un aspetto dell’art. 9, co. 9, l. n. 289/2002 trascurato dalle SS.UU., cioè il riferimento ai crediti “derivanti dalle dichiarazioni” come non modificati dalla definizione automatica e quindi controllabili. Infatti, la parola “derivanti” non mi pare attagliarsi ai crediti di carattere agevolativo semplicemente indicati (38) in una dichiarazione: piuttosto, è l’eccedenza a credito emergente come risultato complessivo a “derivarne”. Inoltre, laddove la sentenza afferma che “i crediti abbattono l’imposta netta e … qualora siano eccedenti rispetto ad essa, generano importi da rimborsare”, si concentra sulla compensazione “interna”, nel contesto della dichiarazione, trascurando i meccanismi compensativi operanti direttamente in sede di versamenti unitari. Si noti come oggetto della controversia fosse il credito d’imposta per incremento occupazionale, che ai sensi dell’art. 7, co. 4, l. n. 388/2000, dal 2001 era utilizzabile “esclusivamente in compensazione” ex d.lgs. n. 241/1997 (39). D’altra parte, qualora ci si chiedesse se vi sia nella disciplina del condono una disposizione diversa, applicabile al problema della controllabilità dell’uso in compensazione di crediti d’imposta agevolativi meramente “risultanti” dalla dichiarazione, si potrebbe muovere (40) dall’osservazione che a detto im-
(38) La intende invece come “indicati” Cass., SS.UU., n. 14828/2008 che però non mi pare volesse (oltretutto, riferendosi ad un problema confinato in un obiter dictum) con ciò estendere la regola della controllabilità a ogni tipo di credito, in qualsiasi parte della dichiarazione venga inserito: dato il ripetuto riferimento di essa, a tale proposito, a “rimborsi”, mi sembra intendesse parlare di dichiarazioni a credito (inteso come risultato complessivo). (39) Lo stesso prevedono, p. es., il successivo art. 8, co. 5, riguardo al credito per gli investimenti nelle aree svantaggiate e l’art. 1, co. 542, l. n. 244/2007 con riferimento a quello per l’incremento del numero di dipendenti nel Mezzogiorno. (40) Ricordando che la l. n. 289/2002 è anteriore all’art. 1, co. 421, l. n. 311/2004, concernente l’atto di recupero di crediti d’imposta inesistenti.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
119
piego, se illegittimo, può negarsi efficacia estintiva del dovere di versamento. Orbene, le violazioni di omesso versamento non rientravano nella sfera della definizione automatica ex art. 9, l. n. 289/2002, ma in quella del distinto condono ex art. 9-bis, l. n. 289/2002, il quale prevedeva la non applicazione delle sanzioni ex art. 13, d.lgs. n. 471/1997 (41) se entro il 16 aprile 2003 fossero effettuati i pagamenti di imposte e ritenute risultanti da dichiarazioni presentate entro il 31 ottobre 2002, maggiorate del 3% annuo. Parrebbe dunque sostenibile che se il contribuente non avesse provveduto a tali versamenti sarebbe rimasto soggetto a contestazioni sulle compensazioni effettuate, almeno fino allo spirare dei termini per i recuperi basati su controlli automatici o formali. In conclusione, per quanto autorevole sia la sentenza qui annotata, appaiono rilevanti i dubbi da essa non risolti, sia sul piano della giustificazione delle sue conclusioni, sia su quello dell’applicabilità di esse a crediti utilizzati nei versamenti unificati, anziché in compensazione “interna” con l’imposta lorda emergente dalla dichiarazione.
Roberto Schiavolin
(41) Si trattava quindi di un condono classificabile come puro o tradizionale (o clemenziale, o in senso proprio: cfr. D. Mazzagreco, op. loc. cit.).
Comm. trib. prov. Bari, 29 settembre 2017 - 10 ottobre 2017, n. 2651; Pres. e rel. Castellaneta Esecuzione forzata tributaria – Pignoramento presso terzi – Ordine di pagamento – Giurisdizione tributaria L’ordine di pagamento emesso dall’agente della riscossione ai sensi dell’art. 72 bis D.P.R. 602/1973, che il contribuente assume viziato dalla mancata notifica della cartella di pagamento, va impugnato innanzi al giudice tributario.
(Omissis) Svolgimento del processo. – Con atto depositato innanzi al Tribunale di Bari R.V. proponeva opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi avverso un atto di pignoramento di crediti verso terzi ex art. 72bis D.P.R. n. 602 del 1973 eseguito in suo danno da Equitalia Sud S.p.A. nei confronti del terzo B.C. S.R.L. sulla base del carico riveniente da otto cartelle esattoriali per un importo complessivo di 18.524,04 Euro. Deduceva, in linea preliminare ed assorbente, che le cartelle esattoriali in questione non gli erano mai state notificate. Eccepiva, inoltre, tutta una serie di ulteriori profili di illegittimità fra cui l’omessa notifica dell’avviso di intimazione, la prescrizione del credito e la decadenza dall’azione di riscossione, l’omessa indicazione dei termini per ricorrere e delle modalità per il ricorso giurisdizionale. Con ordinanza del 02/09/2015 il Giudice del Tribunale di Bari dichiarava, in relazione a sei delle otto cartelle esattoriali (tutte relative a carichi di natura tributaria) il difetto di giurisdizione dell’AGO con conseguente giurisdizione della Commissione Tributaria e assegnava il termine di giorni 60 per la riassunzione del giudizio. Con atto spedito l’01/06/2016 e ricevuto il successivo 7 giugno il R. riassumeva il giudizio, nei confronti di Equitalia e del terzo B.C. S.r.l. innanzi a questa Commissione Tributaria Provinciale reiterando tutte le sue doglianze e chiedendo che, previa declaratoria di illegittimità l’atto di pignoramento fosse annullato con vittoria di spese. Mentre il terzo non costituiva in giudizio, Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., già Equitalia sud S.p.A., resisteva al ricorso contestando tutte le pretese di controparte e chiedendo che:
122
Parte seconda
a) in via preliminare fosse dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione per mancata precedente impugnazione delle cartelle di pagamento e degli avvisi di intimazione; b) fosse dichiarata cessata la materia del contendere in merito al pignoramento essendosi caducata la procedura esecutiva ex art. 72bis D.P.R. n. 602 del 1973 c) fosse comunque rigettato il ricorso. All’udienza di discussione la Commissione si riservava per la decisione ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Successivamente la Commissione, riunitasi il 29/9/17, deliberava come da dispositivo. Motivi della decisione. – Preliminarmente si deve riconoscere la giurisdizione di questa Commissione Tributaria Provinciale, conformemente a quanto stabilito dal Giudice del Tribunale di Bari nel provvedimento che ha dato luogo alla riassunzione del presente giudizio. La giurisprudenza della Suprema Corte di Legittimità (per tutte e da ultimo si veda Cass. S.U. 05/06/2017 n. 13913) ha affermato che sussiste la giurisdizione del Commissioni Tributarie le quante volte, in materia di esecuzione forzata tributaria, si agisca contro un atto di pignoramento che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento. Nella fattispecie l’odierno ricorrente in riassunzione aveva impugnato innanzi al giudice ordinario, che poi ha declinato la propria giurisdizione in favore di quella del giudice tributario, un atto di pignoramento verso terzi nel presupposto, dedotto in via preliminare, della mancata notificazione delle cartelle di pagamento presupposte. Tanto basta per radicare la giurisdizione di questa Commissione. Passando al merito della controversia, si deve rilevare che in effetti la doglianza concernente la mancata notificazione delle cartelle di pagamento è fondata perché, come si desume dalla documentazione in atti, le suddette cartelle sono state notificate presso indirizzi dove il ricorrente non risiedeva più da tempo (cfr. certificato storico di residenza in atti). Ne consegue che il pignoramento verso terzi impugnato, fondato su atti non notificati al contribuente, è illegittimo e deve essere annullato. Irrilevante è la circostanza che Equitalia abbia dedotto che lo stesso pignoramento avrebbe perso efficacia per non avere il terzo B.C. S.r.l. adempiuto al pagamento del credito nei termini di legge. Questa Commissione, infatti, ha emesso all’udienza del 24/03/2017 un’ordinanza con cui ha invitato l’agente di riscossione a comunicare al terzo pignorato che il pignoramento doveva considerarsi caducato. Tale ordinanza è rimasta inadempiuta perché, come si desume dalla documentazione prodotta dalla stessa Equitalia, con la nota di deposito del 01/06/2017, la stessa si è limitata a chiedere alla B.C. S.r.l. se stesse “continuando a trattenere le somme sulla busta paga del predetto signor R. per il pignoramento de quo”, astenendosi, dunque, dal dare completa e puntuale esecuzione all’ordinanza di cui sopra.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
123
Alla luce di tale situazione non può essere accolta la richiesta della resistente di declaratoria di cessazione della materia del contendere tenuto altresì presente che la B.C., con lettera email del 12/06/2017 indirizzata al difensore del R., ha comunicato di essere in attesa della formale rinunzia di Equitalia al pignoramento notificato onde svincolare le somme trattenute in danno del suo assistito. Traendo le fila da tutte le considerazioni sin qui esposte, il ricorso merita di essere accolto con correlativo annullamento del pignoramento di crediti verso terzi ex art. 72bis D.P.R. n. 602 del 1973 eseguito da Equitalia Sud S.p.A. in danno di R.V. nei confronti del terzo debitore B.C. S.R.L. Le spese seguono la soccombenza e devono essere liquidate a carico dell’agente di riscossione che, col suo illegittimo comportamento, ha dato luogo alla controversia. P.Q.M. – La Commissione Tributaria, a scioglimento della riserva di cui all’art. 35 D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, accoglie il ricorso in riassunzione proposto da R.V. nei confronti di Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., già Equitalia sud S.p.A., e della B.C. S.r.l. e per l’effetto annulla l’atto di pignoramento di crediti verso terzi ex art. 72bis D.P.R. n. 602 del 1973 eseguito in danno del R. da Equitalia Sud S.p.A. nei confronti del terzo B.C. S.R.L. Condanna Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., al pagamento in favore del R. delle spese del giudizio che liquida in Euro 3000,00 oltre rimborso spese generali e contributo unificato, Iva e Cap come per legge. (Omissis).
Ordine di pagamento rivolto al terzo e tutela giurisdizionale del contribuente esecutato. Sommario: 1. Il caso deciso. – 2. La natura dell’ordine di pagamento dell’agente della riscossione. – 3. Le tutele avverso l’ordine dell’agente.
In forza di una recente pronuncia della Corte di cassazione, si devolve al giudice tributario l’impugnazione dell’atto di pignoramento, che il contribuente ritiene viziato dalla omessa od invalida notificazione della cartella di pagamento. E la giurisprudenza di merito tende così a generalizzare, estendendola nello specifico ad una ipotesi di esecuzione presso terzi promossa dall’agente della riscossione, una soluzione data in relazione ad una ipotesi di pignoramento mobiliare. Il che, se condivisibile nel risultato, va adeguatamente coordinato con la disciplina dell’esecuzione forzata tributaria, ove: l’agente può inviare direttamente al terzo, debitore del contribuente, un ordine di pagamento o di consegna; nel caso in cui il terzo non adempia viene attivata l’ordinaria procedura esecutiva disciplinata dal codice di procedura civile. Ne consegue che l’ordine di pagamento, collocandosi prima dell’inizio dell’esecuzione forzata, non travalica il limite di cui all’art. 2 D.lgs. 546/1992 e deve essere pertanto impugnato innanzi al giudice tributario, anche quando non si sollevino doglianze circa la notificazione della cartella.
124
Parte seconda
By virtue to the latest statement of the Supreme court, the challenge of the distraint, that the taxpayer considers invalidated by the failed or invalid notification of the payment folder, is devolved to the Tax Courts. So the case law tends to generalise the statement, extending it specifically as an hypothesis of the distraint from third parties promoted by levyng officer, a solution given in relationship to an hypothesis of the distraint of movable goods. Even if the result could be widely accepted, this solution must be properly coordinated with the subject of the tax execution, in which: the officer can send directly to the third part, taxpayer’s debtor, an order of payment or delivery; on the other hand, if the third part won’t fulfill it, it will be activated the executive ordinary procedure, which is led by the code of civil procedure. As a result, the payment order, collocating itself before the beginning of the tax execution, does not incur on the limit disposed by the article 2 of D.lgs. 546/1992, and it could be challenged in front of the Tax Courts, even when vices regarding the payment folder’s notification are not challenged.
1. Il caso deciso. – La sentenza che qui si commenta costituisce una delle prime applicazioni del principio di diritto espresso di recente dalla Corte di Cassazione (1), in virtù del quale l’atto di pignoramento, emesso dall’agente della riscossione, va impugnato innanzi al giudice tributario, laddove si assuma viziato dalla omessa od invalida notifica della cartella di pagamento. Più precisamente, a quanto è dato intendere dai fatti esposti, la vicenda trae origine dalla notificazione di un ordine di pagamento, emesso dall’agente della riscossione ai sensi dell’art. 72 bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (2), impugnato dal contribuente presso la Commissione Tributaria Provinciale che, “rifacendosi” assiomaticamente alla recente pronuncia di legittimità, ha affermato la propria giurisdizione, disponendo così la caducazione dell’atto viziato dalla mancata notifica della pregressa cartella. L’impostazione seguita dalla Suprema Corte, impatta sul riparto di giurisdizione tra giudice tributario ed ordinario nell’esecuzione forzata esattoriale, e si fonda sul decisivo rilievo per cui: l’assenza di una valida notificazione della cartella di pagamento, rende il pignoramento il primo atto della procedura di cui il contribuente abbia conoscenza. Così opinando, la sua
(1) Si tratta di Cass. SS. UU. 5 giugno 2017, n. 13913, la quale è pubblicata: in Corr. Trib. 30, 2017, 2391 ss. con nota di M. Basilavecchia, ivi Anche il pignoramento può essere atto impugnabile, 2388 ss.; in Riv di Giur. Trib. 10, 2017, 762 ss., con nota di C. Glendi, ivi Le Sezioni Unite della Cassazione “stravolgono” i confini tra giurisdizione tributaria e giurisdizione ordinaria sul versante dell’esecuzione forzata, 762 ss.; in Rass. Trib. 4, 2017, 1114 ss., con nota di G. Tabet, ivi In tema di pignoramento a sorpresa, 1120 ss. (2) Ciò è reso evidente oltre che dalle citazioni normative, dal riferimento al mancato adempimento del terzo entro i termini di legge.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
125
impugnazione, innanzi al giudice tributario, non sarebbe ostacolata dall’art. 2 D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 che esclude dall’area della giurisdizione tributaria le controversie relative ad atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento. L’impostazione troverebbe altresì conforto nella disposizione dell’art. 57 D.P.R. 602/1973, che nell’escludere la proponibilità, innanzi al giudice ordinario delle opposizioni (agli atti esecutivi) concernenti la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo, ne consentirebbe la proponibilità innanzi del giudice tributario. Invero, anche a prescindere dalla recente apertura della Cassazione, l’impugnabilità innanzi al giudice tributario del pignoramento viziato dall’omessa notifica della cartella, poteva già predicarsi, sulla scorta delle indicazioni provenienti proprio dalla legge processuale tributaria. A tal fine rilevano: l’art. 2 D.lgs. 546/1992, il quale per un verso ricomprende nell’ambito della giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto «tributi di ogni genere e specie comunque denominati» e, per altro verso, vi esclude soltanto quelle sugli atti dell’esecuzione forzata tributaria nei termini indicati dal D.P.R. 602/1973; e l’art. 19, il quale racchiude l’elencazione degli atti espressamente impugnabili (fissando così i limiti cosiddetti interni della giurisdizione tributaria), ma allo stesso tempo al terzo comma dispone altresì che “gli atti diversi da quelli elencati non sono impugnabili autonomamente” e che, “la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”. Una più attenta esegesi delle disposizioni in discorso (che valorizzi la nuova latitudine della giurisdizione tributaria e ne assicuri altresì il raccordo con il sistema di tutele previsto nell’ambito dell’esecuzione forzata tributaria (3)), conduce ad affermare l’impugnabilità, innanzi alle Commissioni tributarie, di atti diversi da quelli elencati nell’art. 19: questi ultimi, in virtù del terzo comma della medesima disposizione, ove non preceduti da una valida notifica dell’atto presupposto autonomamente impugnabile, potranno essere impugnati innanzi al giudice tributario, unitamente all’atto presupposto non notificato (4). Sicché anche
(3) Cfr. principalmente art. 2 D.lgs. 546/1992 e art. 57 D.P.R. 602/1973. (4) La soluzione è di già stata proposta in dottrina da F. Randazzo, Esecuzione forzata tributaria: il raccordo tra giudizio ordinario e tributario per una efficace tutela, in Corr. Trib., 33, 2011, 2747 e ss.
126
Parte seconda
il pignoramento non preceduto dalla valida notifica della cartella presupposta può essere impugnato, unitamente a quest’ultima, innanzi al giudice tributario. Le incertezze che emergono nell’argomentazione della Corte di Cassazione si riverberano sulle applicazioni in cui essa è o può essere declinata. Infatti: se nel caso sottoposto all’esame del Supremo Collegio oggetto di lite è un atto di pignoramento mobiliare, nel caso deciso dai giudici pugliesi si tratta invece di un ordine di pagamento rivolto ad un terzo, che è prodromico ad una procedura di espropriazione presso terzi; e l’accostamento tra le due procedure già ai fini della giurisdizione non è affatto agevole, dovendosi tener conto del carattere complesso della procedura che riguarda i terzi e, con riguardo a quella promossa dall’agente della riscossione, dell’ulteriore peculiarità data dal fatto che essa talora inizia con un ordine di pagamento emesso dall’agente della riscossione. Tali aspetti non sembrano affatto presi in considerazione dai giudici di merito, ma paiono decisivi ai fini di una corretta prospettazione della possibilità di tutela, oltre che del vaglio della condivisibilità della pronuncia da cui si muove. Sicché su di essi si vogliono svolgere alcune considerazioni, nella consapevolezza, che non agevola il compito di chi scrive, che sul punto non si registrano approfondimenti significativi. 2. La natura dell’ordine di pagamento dell’agente della riscossione. 2.1. In via generale, funzione propria del pignoramento è quella di specificare i beni su cui la pretesa creditoria verrà soddisfatta, passando così da una “potenziale” assoggettabilità all’espropriazione di tutti i beni del debitore (5), ad una “destinazione specifica” di taluni beni all’esecuzione forzata (6). Al pari delle altre forme di espropriazione mobiliare ed immobiliare, anche quella presso terzi è preordinata all’attuazione della “sanzione espropriativa a carico dell’esecutato” (7), distinguendosi per l’oggetto, costituito da crediti del debitore esecutato o da cose a lui appartenenti che si trovino nel possesso di terzi (8). I beni testè indicati, rientrano difatti nella sfera giuri-
(5) Cfr. artt. 2740 e 2910 c.c. (6) Già T. Carancini, Contributo alla teoria del pignoramento, Padova, 1936, 2 ss., 22, 256 ss. (7) In questi termini si esprime V. Colesanti, Il pignoramento presso terzi, in Enc. Dir., XXXIII, Milano, 1983, 836. (8) Sul tema si vedano ad esempio: V. Colesanti, Il pignoramento presso terzi, cit., 834 ss.; R. Vaccarella, Espropriazione presso terzi, in Dig. Disc. Priv. Sez. Civ., VII, Torino,
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
127
dica di un soggetto, diverso dagli ordinari protagonisti dell’espropriazione, nei cui confronti non è direttamente spendibile il titolo sulla scorta del quale si procede; purtuttavia, egli viene coinvolto nella procedura esecutiva solo a causa dell’affermato rapporto di diritto sostanziale intrattenuto con la res pignorata (9). Più precisamente, l’intromissione nella sfera giuridica del terzo, funzionale al perfezionarsi del pignoramento, non potendosi realizzare in via diretta (in ragione della mancanza di un titolo spendibile nei suoi confronti), viene subordinata alla collaborazione di quest’ultimo, che, nel sistema del codice di rito, assume rilievo sotto due diversi profili: in chiave di accertamento dell’obbligo del terzo ed ai fini della materiale soddisfazione della pretesa creditoria. Sotto il primo profilo, all’impossibilità di una diretta apprensione del bene che si trovi nella sfera giuridica di terzi, consegue in primis l’esigenza di sincerarsi della relazione di fatto e giuridica che lega esecutato, beni e terzo (10), prodromica rispetto all’apprensione dei beni rientranti nella sfera giuridica di quest’ultimo, e soddisfatta dal legislatore mediante l’introduzione nella procedura esecutiva di un aspetto cognitivo, il cui rilievo è peraltro stato attenuato dalle recenti riforme (11). È proprio sul piano dell’accertamento che viene in
1992, 94 ss.; A. Saletti, L’espropriazione presso terzi dopo la riforma, in Riv. Es. Forz., 2008, 283; G. Olivieri I profili e l’evoluzione del sistema di espropriazione presso terzi, AA. VV., Le espropriazioni presso terzi, a cura di F. Auletta, Bologna, 2011, 3 ss.; B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2016, 204 ss. (9) Cfr. per tutti V. Colesanti, Il terzo debitore nel pignoramento di crediti, Milano, 1967, 346. (10) Cfr. per tutti B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, cit., in particolare 205. (11) Sul punto si veda R. Vaccarella, Espropriazione presso terzi, cit., 102. Con le innovazioni apportate dalla l. 24 dicembre 2012 n.228 alla disciplina del pignoramento presso terzi, il legislatore ha parzialmente attenuato il rilievo della dichiarazione, prevedendo: all’art. 548 c.p.c., che laddove il terzo non presti il proprio apporto in chiave dichiarativa, le cose o le somme dovute si considereranno non contestate; all’art. 549, che alla mancata dichiarazione potrà porsi rimedio mediante un accertamento condotto dal giudice dell’esecuzione e destinato a concludersi con ordinanza; gli effetti dell’intervento innovatore sono stati bilanciati dal d.l. 27 giugno 2015 n. 83, conv. l. 6 agosto 2015 n. 132, che per un verso ha circoscritto l’operatività del meccanismo della non contestazione all’ipotesi in cui l’allegazione del creditore consenta l’esatta identificazione del credito o dei beni del debitore che si trovino in possesso del terzo, prevedendo che, in caso contrario, debba aver luogo l’accertamento giudiziale endoesecutivo; per altro verso ha innovato l’art. 549 c.p.c. prevedendo che l’accertamento endoesecutivo possa ora avvenire anche laddove a seguito della mancata dichiarazione non sia possibile l’esatta identificazione del credito o dei beni del debitore che si trovino in possesso del terzo. Sul punto si veda A. Saletti, Novità dell’espropriazione presso terzi, in Riv. Es. Forz., 1, 2013, 9 ss; A. Storto, Riforma natalizia del pignoramento presso terzi, le instabili conseguenze della “sta-
128
Parte seconda
gioco l’elemento collaborativo: al fine di consentire la specifica identificazione dei beni su cui potrà gravare il pignoramento il legislatore prevede che il terzo sia chiamato a rendere all’ufficio esecutivo una dichiarazione, avente per oggetto l’esistenza e la consistenza del suo debito verso l’esecutato (12); essa assolve la funzione di specificare l’oggetto del vincolo pignoratizio. Nell’ipotesi in cui la dichiarazione non venga prestata o sul suo contenuto insorgano contestazioni, il legislatore consente di superare la mancata collaborazione: ricorrendo al meccanismo della non contestazione, ovvero, mediante l’accertamento cd. endoesecutivo dell’obbligo del terzo (13). Accertato l’obbligo del terzo, in via dichiarativa o giudiziale, il vincolo pignoratizio potrà dirsi perfezionato (14); l’accertamento funge dunque da spartiacque fra l’assoggettamento potenziale di tutti i beni all’esecuzione e la specifica destinazione all’espropriazione dei beni soggetti al suindicato vincolo (15). Diversa è invece la funzione della collaborazione del terzo, che può aver luogo nella successiva fase della vendita o dell’assegnazione, mercé il perfezionamento del vincolo pignoratizio. Difatti, ogniqualvolta siano pignorati crediti del debitore e le somme siano esigibili immediatamente o entro un termine di 90 gg. (ovvero siano esigibili entro un termine superiore a 90 gg. ed i creditori ne chiedano d’accordo l’assegnazione), il giudice dell’esecuzione assegna i crediti in pagamento, di modo che il terzo debitor debitoris (divenuto in seguito all’assegnazione debitore del creditore procedente) adempia direttamente nelle mani del creditore procedente con effetto liberatorio. Tale collaborazione, che assume le vesti dell’adempimento conseguente all’assegnazione, si colloca nell’iter che conduce alla soddisfazione della pretesa creditoria (16); ed in difetto di essa, il creditore potrà ottenere quanto dovuto
bilità”, in Riv Es. Forz., 1, 2013, 34 e ss.; S. Vincre, Brevi osservazioni sulle novità introdotte dalla l. 228/2012 nell’espropriazione presso terzi: la mancata dichiarazione del terzo (art. 548 c. p. c.) e la contestata dichiarazione (art. 549 c. p. c.), in Riv. Es. Forz., 1, 2013, 53 e ss. Sulle modifiche introdotte con il D.L. 132/2014 si veda C. Consolo, Un d. l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della degiurisdizionalizzazione, in Corr. Giur., 2014, 10, 1180 ss. Sulle modifiche introdotte con il D.L. 83/2015 si veda A. Majorano, Le ultime novità in tema di espropriazione presso terzi, in Foro It., V, 2015, 453 ss. (12) Cfr. art. 547 c.p.c. (13) Sul punto v. supra nota 9. (14) Cfr. V. Colesanti, Pignoramento presso terzi, cit., 846. (15) Cfr. T. Carancini, Contributo alla teoria del pignoramento, Padova, 1936, 2 ss. (16) Si veda G. Olivieri, I profili e l’evoluzione del sistema di espropriazione presso terzi, cit., 7, secondo il quale la natura di diritto dei crediti non ne preclude la configurabilità in termini di bene da espropriare, sebbene in questo caso l’espropriazione sia satisfattiva solo
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
129
solo attraverso l’attivazione di una ulteriore procedura esecutiva, rivolta verso il medesimo soggetto che, rispetto ad essa, non assume più le vesti di terzo, sibbene di debitore esecutato. 2.2. Anche nell’esecuzione forzata tributaria, ha luogo una collaborazione del terzo, che si realizza e come dichiarazione e come adempimento; diverse sono però le funzioni. La collaborazione in forma dichiarativa è prevista dall’art. 75bis D.P.R. 602/1973; in virtù del quale l’agente, prima di procedere ai sensi degli artt. 72 e 72 bis e degli artt. 543 e ss. del codice di rito, può richiedere al terzo debitor debitoris un’indicazione scritta delle cose o delle somme dovute all’esecutato. Nonostante la richiesta sia vincolante per il terzo (essendo prevista l’applicazione di una sanzione pecuniaria nel caso di mancata risposta (17)), il tenore letterale dell’art. 75 bis, lascia intendere che l’istituto in discorso non configuri una tappa necessitata della procedura; emerge cioè una certa discrezionalità dell’agente, che verosimilmente avanzerà siffatta richiesta ogniqualvolta intenda verificare se nel patrimonio dell’esecutato sussistano crediti dell’esecutato o beni, ad esso appartenenti, che si trovino presso terzi. In altri termini, la richiesta di cui all’art. 75 bis, non risulta finalizzata ad ottenere una dichiarazione, strumentale all’accertamento dell’obbligo del terzo e che possa consentire il perfezionamento del vincolo pignoratizio; il suo fine è invece quello di far sì che l’agente, possa decidere scientemente circa l’attivazione o meno dell’esecuzione nelle forme presso terzi. Del pari diversa è, nell’esecuzione esattoriale, la funzione della collaborazione del terzo nell’ipotesi in cui essa si concreti nell’adempimento del credito per cui si procede. Difatti, il D.P.R. 602/1973 (18) prevede una speciale forma di collaborazione, che dà luogo ad una altrettanto speciale forma di esecuzione presso terzi, la quale è incoata da un ordine, proveniente dall’agente della riscossione, con cui si impone al terzo, debitore dell’esecutato, di corrispondere direttamente all’agente le somme dovute (19), fino a concorrenza del cre-
allorquando, in seguito all’ordinanza di assegnazione, il debitor debitoris, abbia eseguito la prestazione a suo carico (v. art. 553 comma 1 c.p.c.). (17) Cfr. art. 75 bis comma 2. (18) Si tratta della sezione terza del capo secondo D.P.R. 602/1973. (19) Cfr. art. 72 bis D.P.R. 602/1973. Peraltro, ai sensi degli artt. 72 e 73 l’agente potrà avvalersi dell’ordine anche nell’ipotesi in cui oggetto dell’esecuzione siano particolari categorie di crediti nei fitti o nelle pigioni ovvero cose del debitore che si trovino in possesso di terzi. In
130
Parte seconda
dito per il quale si procede. Emesso l’ordine si pongono due diversi scenari: laddove il terzo adempia, le somme da esso corrisposte saranno stabilmente acquisite dall’agente, di guisa che il credito tributario potrà dirsi già soddisfatto prescindendosi dall’accertamento dell’obbligo del terzo (20); per contro, laddove il terzo non ottemperi all’ordine rivoltogli, l’agente potrà conseguire quanto dovuto solo avviando una espropriazione presso terzi ordinaria, il cui esito è garantito dall’insorgere, sin dal momento in cui l’ordine viene notificato, degli obblighi che la legge impone al custode (21). Più precisamente, nonostante il legislatore sembri configurare l’ordine come forma di pignoramento (22), esso si colloca al termine di un procedimento peculiare finalizzato a quella che autorevole dottrina ha definito una “autoassegnazione” (23) del credito all’agente della riscossione, cumulando in sé le funzioni di pignoramento ed assegnazione (24); con l’adempimento del terzo l’esecuzione potrà già dirsi conclusa, non avendo luogo né la fase preordinata all’accertamento dell’obbligo del terzo, né la successiva fase della vendita o dell’assegnazione, in presenza del giudice ordinario (25).
quest’ultimo caso, alla consegna da parte del terzo delle cose possedute appartenenti al debitore seguirà la vendita ad opera dell’agente stesso, a cui farà seguito la fase della distribuzione delle somme in cui è previsto l’intervento del giudice dell’esecuzione. (20) Secondo Cass., 13 febbraio 2015 n. 2857, l’adempimento del terzo si configura come “comportamento concludente atto a sostituire l’accertamento del credito ed a concludere la fattispecie” esecutiva. (21) Si veda l’art. 546 c.p.c. L’attivazione di una procedura ordinaria di espropriazione presso terzi, implica la presenza del pignoramento. Purtuttavia, non può sottacersi che esso si colloca a valle di una procedura esecutiva avviata dall’agente mediante l’ordine di pagamento, rimasto poi inadempiuto. (22) Le rubriche degli artt. 72, 72bis, 73 DPR 602/1973, in sintonia con la rubrica della sezione III del capo II, definiscono la procedura esecutiva da esse disciplinata come pignoramento. In particolare, nel caso in cui oggetto dell’esecuzione siano fitti o pigioni, la disposizione dell’art. 72 (alla quale rinviano sia l’art. 72bis che, di riflesso, l’art. 73) qualifica l’ordine di pagamento nelle mani del concessionario quale contenuto alternativo e diverso dell’atto di pignoramento presso terzi, rispetto a quello tipico delineato dal codice di rito. (23) In questi termini si esprime E. Allorio, in Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 562. (24) Secondo G. Costantino, in La riscossione coattiva delle imposte mediante espropriazione dei crediti del contribuente, AA.VV. Le espropriazioni presso terzi, cit., 444, l’effetto traslativo, prodotto nell’esecuzione ordinaria dal provvedimento di assegnazione emesso dal giudice, nell’ipotesi in discorso è generato dall’ordine, che, ai sensi dell’art. 1188, comma 1, c.c., costituisce un’indicazione di pagamento ex lege, derivante, in questo caso, dall’art. 72 bis. Per il pignoramento di fitti e pigioni v. art. 72. (25) Cfr. E. Allorio, in Diritto processuale tributario, cit., 563.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
131
2.3. Le riferite peculiarità della procedura tributaria consentono di mettere meglio a fuoco la natura dell’ordine di pagamento, il che si riflette – ai fini che qui interessano – sulle possibilità di tutela, ma anche e correlativamente sull’individuazione del giudice innanzi al quale azionarle. Al riguardo, talune posizioni espresse da dottrina e giurisprudenza, coerentemente con le caratteristiche testé indicate, nonché con la natura della procedura esecutiva in cui l’atto si colloca, attribuiscono all’ordine natura di provvedimento amministrativo (26). A sostegno di tale posizione depone in primo luogo un’indagine che guardi alla sua provenienza: l’agente della riscossione esercita funzioni amministrative relative alla riscossione secondo quanto previsto dall’art 3, comma 1, D.L. 30 settembre 2005, n.203, che attribuisce “le funzioni relative alla riscossione nazionale” all’Agenzia delle Entrate, che, a sua volta, le esercita per il tramite di un “ente strumentale” a ciò preposto (27). L’agente della riscossione costituisce dunque un organo indiretto dell’amministrazione che esercita funzioni amministrative conferitegli dalla legge, delle quali la stessa legge conferisce la titolarità all’Agenzia delle Entrate. Inoltre, la natura provvedimentale dell’ordine può sostenersi, come peraltro osservato in dottrina, in conseguenza: dell’autoritarietà che lo contraddistingue, la quale consente di inquadrarlo nell’ambito del potere di coazione della pubblica amministrazione; della sua collocazione nella più ampia attività amministrativa di riscossione (più precisamente, nella fase finale di quest’ultima) (28). Ancora, depone per la natura provvedimentale dell’ordine la discrezionalità che connota l’agere dell’agente, evidente ogniqualvolta egli sia chiamato a scegliere se procedere presso terzi piuttosto che con altra procedura, se emettere direttamente l’ordine di pagamento ovvero procedere direttamente
(26) In dottrina si vedano ad esempio: A. Guidara, Esecuzione forzata tributaria in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., Torino, 2017, 176; M. Basilavecchia, Il fermo amministrativo e la giurisdizione tributaria in AA.VV. Giurisdizione unica tributaria: nuovi profili e problematiche, a cura di F. Batistoni Ferrara, Torino, 2007, 101. In giurisprudenza si vedano ad esempio: Comm. Trib. Prov. Taranto, sez. IV, 24 luglio 2015 (in banca dati Big Suite, IPSOA); Cass. 13 febbraio 2015 n. 2857. (27) Si ricorda che, in forza dell’art. 1 d. l. 22 ottobre 2016 n. 193 conv. l. 1 dicembre 2016, n. 225, ad Equitalia è chiamato a succedere un ente pubblico economico, strumentale, preposto alla riscossione nazionale e denominato “Agenzia delle Entrate – Riscossione”. (28) Sulla riconduzione dell’esecuzione forata all’attività amministrativa di riscossione, si veda, di recente, A. Guidara, Riscossione dei tributi e delle sanzioni fiscali in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., Torino, 2017, 421.
132
Parte seconda
all’espropriazione presso terzi di cui agli artt. 543 ss. del codice di rito (29), quale credito assoggettare ad esecuzione, ecc. (30). 3. Le tutele avverso l’ordine dell’agente. 3.1. L’esame della natura dell’ordine di pagamento è funzionale al vaglio delle possibilità di tutela fruibili avverso esso. La questione si colloca sul crinale del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice tributario nell’esecuzione forzata tributaria. Viene in rilievo la disposizione dell’art. 2 comma 1, D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che nel delineare i limiti esterni della giurisdizione delle Commissioni tributarie per un verso compendia “tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie comunque denominati…” e, per altro verso, esclude “le controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento … per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo D.P.R.”. Dottrina e giurisprudenza al riguardo hanno proposto diverse soluzioni che non possono ripercorrersi compiutamente in questa sede; si vuole comunque dare atto di due di esse, decisamente pertinenti al caso trattato. Secondo una prima posizione (31) avverso l’ordine è possibile ottenere tutela mediante opposizione innanzi al giudice ordinario: si muove dal tenore dell’art. 2, che esclude dalla giurisdizione del giudice tributario “le controver-
(29) Cfr. Corte cost. ord. 28 novembre 2008 n. 393 che riconosce la facoltà di scelta fra le “due modalità di esecuzione forzata presso terzi”, Sul punto si veda M. Basilavecchia, Le modalità del pignoramento presso terzi sono a discrezione dell’agente della riscossione, in Corr. Trib., 2009, 5, 327 ss. Peraltro secondo C. Glendi, La “nuova” espropriazione dei crediti del debitore verso terzi nell’esecuzione forzata tributaria, in Corr. Trib., 3, 2007, 263 ss., la facoltà di scelta fra le due diverse modalità di pignoramento va estesa anche alla previsione dell’art. 72, la cui lettera, di contro, rende l’ordine di pagamento relativo a fitti o pigioni, un passaggio imprescindibile dell’esecuzione forzata tributaria che si svolga presso terzi. (30) La scelta discrezionale dell’agente sull’an di qualsiasi tipologia di espropriazione presso terzi - ordinaria o speciale -potrà eventualmente fondarsi anche sulle informazioni acquisite per mezzo della dichiarazione stragiudiziale di cui all’art. 75bis, ove richiesta ed acquisita. (31) Cfr. ad esempio: Comm. Trib. Prov. di Novara 23 luglio 2010, n.89, in banca dati Ius Explorer; Comm. Trib. Prov. di Bari 18 maggio 2011, n.2836 ibidem; Comm Trib. Prov. di Brescia 8 giugno 2016, n.455 in def.finanze.it; Comm Trib. Reg. di L’Aquila 9 giugno 2017, n.548 ibidem (che in motivazione cita la sentenza in commento). La medesima soluzione sembra sostenuta da F. Odoardi, Il processo esecutivo tributario, Roma, 2012, 336, laddove riconduce alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie che riguardino gli atti a partire dalla notifica del pignoramento (ma v. anche 280).
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
133
sie relative agli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento”. Siffatta disposizione ricondurrebbe l’ordine di pagamento – che sarebbe atto dell’esecuzione forzata e interviene in un momento successivo alla notifica della cartella di pagamento – oltre il perimetro della giurisdizione tributaria; donde l’atto sarebbe giustiziabile mediante opposizione innanzi al giudice ordinario. Di contro, secondo una diversa posizione, di matrice essenzialmente giurisprudenziale (32), l’ordine può essere impugnato mediante ricorso innanzi al giudice tributario. Anche questa tesi prende le mosse dall’art. 2 D.lgs. 546/1992, nella parte in cui esclude dall’ambito della giurisdizione delle Commissioni tributarie le “controversie relative agli atti dell’esecuzione forzata successivi alla notifica della cartella di pagamento”; diversa, però, è la sedes che viene data all’ordine di pagamento rispetto all’inizio dell’esecuzione forzata. È una posizione che già prima facie si sposa meglio con l’analisi che si è condotta fino a questo punto e che ora occorre completare, indagando proprio la collocazione dell’ordine di pagamento nell’ambito dell’attività dell’agente della riscossione. L’esito di tale indagine consentirà, infatti, di individuare quale sia l’autorità giurisdizionale innanzi alla quale esso possa essere impugnato 3.2. Con le superiori considerazioni si è fermamente sostenuta la natura provvedimentale dell’ordine, negandone al contempo il carattere pignoratizio in base al decisivo rilievo per cui ad esso non conseguono gli effetti tipici del pignoramento. Orbene, se in virtù dell’art. 491 c.p.c. l’esecuzione forzata ha inizio con il pignoramento, nell’ambito dell’esecuzione esattoriale esso può aver luogo solo in alternativa all’ordine ovvero in seguito al suo inadempimento (33), e non può che collocarsi nella fase che precede l’inizio dell’esecuzione forzata. Ad ulteriore riprova dell’estraneità dell’ordine all’esecuzione forzata in senso stretto può osservarsi che laddove alla notifica sia seguito l’a-
(32) Cfr. ad esempio: Comm. Trib. Prov di Treviso 28 gennaio 2009 n. 23 in banca dati Pluris; Comm. Trib. Prov. di Caserta 13 giugno 2011 n. 212 in banca dati Ius Explorer; Comm. Trib. Prov. di Milano 22 ottobre 2012, n. 246 in Corr. Trib., 2013, n.508, con nota di TomassiniCasali, I procedimenti di notifica a società fuse e non residenti, pag. 501 e ss.; Comm. Trib. Prov. di Reggio Emilia 17 aprile 2013, n. 98 in banca dati Pluris; Comm. Trib. Prov. Taranto, sez. IV, 24 luglio 2015 in banca dati IPSOA. (33) Cfr. art. 72, 72bis, 73 D.P.R. 602/1973.
134
Parte seconda
dempimento del terzo, l’intervenuta soddisfazione del credito tributario (34) esclude il prodursi di qualsiasi vincolo assimilabile al pignoramento. Occorre ora individuare l’autorità giurisdizionale innanzi alla quale l’ordine sia impugnabile, in coerenza con quanto osservato circa la natura e la collocazione dell’atto nella procedura esattoriale. Di certo, come si è osservato in precedenza, in virtù dell’art. 19 D.lgs. 546/1992 terzo comma, l’ordine può comunque impugnarsi innanzi al giudice tributario unitamente all’atto presupposto, autonomamente impugnabile la cui notifica risulti omessa. Ma un accurato esame del complessivo quadro normativo delimitante il raggio di estensione della giurisdizione tributaria, che tenga conto sia dell’art. 2, che dell’art. 19 D.lgs. 546/1992, sembra suggerire la riconducibilità dell’ordine alla giurisdizione tributaria anche nelle ipotesi in cui si contestino vizi diversi dalla mancata notificazione della cartella di pagamento e a prescindere da quest’ultima. Più precisamente, si osserva che la mancata inclusione dell’ordine tra gli atti impugnabili ex art. 19 cit. (che prima facie ne preclude la giustiziabilità innanzi alle Commissioni tributarie) può essere superata accedendo all’interpretazione estensiva della nozione dell’avviso di mora, espressa tempo fa da autorevole dottrina, che ricomprenderebbe qualunque atto dell’agente della riscossione, diverso da quelli espressamente menzionati (35). E in ogni caso, le difficoltà legate alla littera dell’art. 19 cit., nella quale – si ricorda – l’ordine non è menzionato, possono ritenersi superate in virtù della rideterminazione del perimetro della giurisdizione tributaria operata dal diritto vivente: come è noto, negli ultimi anni la giurisprudenza oramai consolidata della Suprema
(34) Nell’ipotesi in cui oggetto del pignoramento siano crediti, si è già precisato che laddove l’ordine venga adempiuto esso cumulerà autoritativamente in sé le funzioni del pignoramento e dell’assegnazione, costituendo il titolo che consente all’agente di ritenere le somme. Diversamente, nell’ipotesi in cui l’ordine abbia ad oggetto cose del debitore che si trovino in possesso di terzi, l’adempimento dà luogo ad un diverso scenario: i momenti autoritativi del pignoramento e dell’assegnazione rimangono qui separati, giacché all’adempimento del terzo segue la fase della vendita nonché quella dell’assegnazione innanzi al giudice ordinario, di modo che il pignoramento non potrà dirsi del tutto assorbito nell’“autoassegnazione”. (35) Specificamente, con riferimento agli atti dell’agente della riscossione, si veda già S. La Rosa, La tutela del contribuente nella fase di riscossione dei tributi, Rass. Trib. 4, 2001, 1191 secondo il quale, la giurisdizione del giudice tributario “potrebbe de iure condito fondarsi su una interpretazione estensiva della nozione dell’‘avviso di mora’, soprattutto per la maggiore idoneità della giurisdizione tributaria a fornire tutela satisfattiva in un settore in cui è apparsa sempre problematica la valorizzazione della distinzione tra situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo”.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
135
Corte, addiviene ad una lettura notevolmente estensiva degli atti impugnabili ex art. 19, facendo leva sulla formulazione dell’art. 2 comma 1 come novellato dalla legge, 28 dicembre 2001, n. 448, nella parte in cui riconduce alla giurisdizione delle Commissioni tributarie “tutte le controversie aventi ad oggetto tributi di ogni genere e specie comunque denominati…”; la Corte, difatti, ha più volte affermato che sono impugnabili atti diversi, anche notevolmente, da quelli ivi indicati e finanche privi di veste autoritativa, ogni qual volta l’atto comunque determini in tutto o in parte la pretesa dell’amministrazione o incida sul rapporto tributario, e sia idoneo a far insorgere nel contribuente l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. (36). Ne consegue che, se l’invalidità della notifica della cartella di pagamento inficia la validità dell’ordine, in ragione della violazione dell’iter procedimentale prescritto (37), non può escludersi che il contribuente impugni l’ordine per altri motivi: ad esempio, perché emesso nonostante sia avvenuto il pagamento (di tale impugnazione, qualificabile come opposizione all’esecuzione, se si usano le categorie del codice di rito, non può conoscere il giudice ordinario in virtù della espressa esclusione sancita dall’art. 57 D.P.R. 602/1973). Come anche può accadere che anche la notifica dell’ordine sia affetta da vizi e, in particolare, che essa non avvenga nei confronti del contribuente esecutato (ma solo del terzo). Al riguardo, un Autore ha prospettato l’assenza di efficienti possibilità di tutela, ritenendo la notifica dell’ordine doverosa solo verso il terzo e non anche nei confronti del contribuente (quest’ultimo, non avendo contezza della procedura esecutiva, non avrebbe quindi alcuna possibilità di far valere le invalidità che inficiano la notifica della cartella) (38). La posizione, però, non è condivisibile perché la doverosità della notifica dell’ordine al contribuente esecutato oltre che al terzo, discende proprio dal rinvio alle
(36) Cfr. per tutte: Cass. sez. V, 8 ottobre 2007, n. 21045; Cass., 5 ottobre 2012, n. 17010; Cass., 6 novembre 2013, n. 24916. Cass. SS.UU. 27 marzo 2007, n.7388; Cass. 12 maggio 2010, n.11457; Cass. 17 dicembre 2010, n.25591; Cass. 15 aprile 2011, n.8663; Cass. 11 maggio 2012, n.7344; Cass. SS. UU. 18 febbraio 2014, n.3773; Cass, SS. UU. 5 maggio 2014 n. 9570; Cass. SS. UU. 19 giugno 2015, n.12760; Cass. SS. UU. 2 ottobre 2015, n.19704; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3315. (37) Cfr. C. Glendi, Le Sezioni Unite “stravolgono” i confini tra giurisdizione tributaria e giurisdizione ordinaria sul versante dell’esecuzione forzata, cit., 770, che rispetto alla soluzione proposta da Cass. SS. UU. 13913/2017, condivisibilmente precisa che, nel caso di mancata notifica del titolo esecutivo, l’atto di pignoramento risulta viziato giacché la legge prescrive che esso debba esser preceduto dalla notifica del titolo. (38) Si tratta di G. Tabet, In tema di pignoramento a sorpresa, cit., 1126.
136
Parte seconda
disposizioni del codice di rito, operato dall’art. 49, secondo comma, D.P.R. 602/1973 (39), e in particolare all’art. 543 c.p.c., dal quale discende la doverosità della notifica dell’ordine al debitore ed al terzo. Peraltro, la natura provvedimentale dell’ordine, di cui si è detto, non esclude la compatibilità con le disposizioni del codice di rito, richiesta dall’art. 49, in ragione della strumentalità dell’ordine alla espropriazione presso terzi ed al carattere complesso di tale procedura (ove albergano, come si è visto, oltre che i caratteri del pignoramento anche quelli dell’accertamento). E, piuttosto, nella stessa direzione depone l’art. 21 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, a tenore del quale: “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso”; sicché non può dubitarsi che l’ordine, impattando soprattutto sulla sfera giuridica del contribuente, debba a lui, oltre che al terzo, essere notificato (40).
Alessandro Zuccarello
(39) In virtù del secondo comma dell’art. 49 D.P.R: 602/1973 “il procedimento di espropriazione forzata è regolato dalle norme ordinarie applicabili in rapporto al bene oggetto di esecuzione, in quanto non derogate dalle disposizioni del presente capo e con esso compatibili”. (40) Il contribuente esecutato, cui l’ordine non sia notificato, avrebbe accesso alla tutela nel momento in cui venga a conoscenza aliunde dello stesso. E naturalmente rimarrebbe per lui sempre possibile, specialmente laddove il terzo abbia già adempiuto, esperire azione di risarcimento dei danni innanzi al giudice ordinario ai sensi dell’art. 59 D.P.R. 602/1973.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
I CONCLUSIONI dell’AVVOCATO GENERALE M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA presentate il 12 settembre 2017 in causa C-524/15(1) Imposta sul valore aggiunto – Sanzioni – Omesso versamento dell’imposta - Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti relativi all’omesso versamento dell’IVA – Violazione del principio del ne bis in idem – Identità dei fatti – Ripetizione dei procedimenti o delle sanzioni – Eccezioni al divieto del ne bis in idem – Nesso materiale e temporale sufficientemente stretto tra i procedimenti Menci Luca con l’intervento di: Procura della Repubblica [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Bergamo (Italia)] «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti, relativi all’omesso versamento dell’IVA – Violazione del principio del ne bis in idem – Identità dei fatti – Ripetizione dei procedimenti o delle sanzioni – Eccezioni al divieto del ne bis in idem – Nesso materiale e temporale sufficientemente stretto tra i procedimenti» I. Contesto normativo A. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (in prosieguo: la «CEDU») 5. Il protocollo n. 7 integrativo della CEDU, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 (in prosieguo: il «protocollo n. 7»), disciplina, all’articolo 4, il «diritto di non essere giudicato o punito due volte» nei seguenti termini: «1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sen-
20
Parte quarta
tenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione». B. Diritto dell’Unione europea 6. Ai sensi dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»): «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». 7. L’articolo 51 della Carta definisce l’ambito di applicazione della stessa: «1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati». 8. L’articolo 52 disciplina come segue la portata e l’interpretazione dei diritti e dei principi riconosciuti dalla Carta: «1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. (...) 3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa. 4. Laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni. (...) 6. Si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta».
Rubrica di diritto europeo
21
C. Diritto italiano 9. L’articolo 13, comma 1, del decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 471 (4), così recita: «Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo. Identica sanzione si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell’art. 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633» (5). 10. Il decreto legislativo del 10 marzo 2000, n. 74, relativo ai reati in materia di imposte dirette ed IVA(6) (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 74/2000»), disciplina, all’articolo 10 ter, l’«omesso versamento dell’IVA», disponendo quanto segue: «La disposizione di cui all’art. 10-bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo». 11. Conformemente all’articolo 10-bis del decreto legislativo n. 74/2000: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta». 12. Gli articoli da 19 a 21 del decreto legislativo n. 74/2000, contenuti nel titolo «Rapporti con il sistema sanzionatorio amministrativo e fra procedimenti», prevedono, in sintesi: a) che si applica la disposizione speciale quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa; b) che il processo penale e il procedimento amministrativo si svolgono separatamente, vale a dire che nessuno dei due viene sospeso in attesa della risoluzione dell’altro; c) che l’autorità competente irroga le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie fatte oggetto di notizia di reato e d) che, tuttavia, tali sanzioni non sono eseguibili, salvo che il procedimento penale sia definito con provvedimento di archiviazione o sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto e, in quest’ultimo caso, i termini per la riscossione decorrono dalla data in cui sono stati comunicati il provvedimento di archiviazione o la sentenza. 13. Successivamente alla data in cui si sono svolti i vari fatti all’origine del presente rinvio pregiudiziale, la normativa italiana è stata modificata dal decreto legislativo del 24
22
Parte quarta
settembre 2015, n. 158 (7) (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 158/2015»), che ha riformato gli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000 e introdotto un’ulteriore causa di esclusione della punibilità mediante il nuovo articolo 13 del medesimo decreto. 14. In virtù dell’articolo 7 del decreto legislativo n. 158/2015, l’articolo 10 bis del decreto legislativo n. 74/2000 è attualmente formulato come segue: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta». 15. L’articolo 8 del decreto legislativo n. 158/2015 ha modificato come segue l’articolo 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000, con effetto dal 22 ottobre 2015: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta». II. Controversia nazionale e questione pregiudiziale 16. Il sig. Luca Menci, in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, è stato sottoposto ad accertamento dall’autorità tributaria italiana a causa dell’omesso versamento dell’IVA per il periodo d’imposta 2011, il cui importo totale ammontava a EUR 282 495,76. L’accertamento si è concluso con la relativa liquidazione tributaria il 6 novembre 2013 e l’imposizione al sig. Menci di una sanzione pari a EUR 84 748,74. L’Amministrazione finanziaria ha accolto l’istanza di rateizzazione del sig. Menci, il quale ha proceduto al versamento delle prime rate. 17. Dopo la conclusione del procedimento amministrativo sanzionatorio e una volta divenuta definitiva la suddetta sanzione, la Procura della Repubblica, ritenendo che l’omesso versamento dell’IVA integrasse il reato previsto all’articolo 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000, ha avviato un procedimento penale a carico del sig. Menci in data 13 novembre 2014. 18. Nell’ambito di detto procedimento penale, il Tribunale di Bergamo (Italia) ha sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se la previsione dell’art. 50 [della Carta], interpretato alla luce dell’art. 4 [del] protocollo n. 7 della [CEDU] e della relativa giurisprudenza della Corte [EDU], osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile». 19. La Corte ha disposto la riunione di tale rinvio con le cause Orsi (C217/15) e Baldetti (C350/15). Hanno presentato osservazioni scritte il difensore del sig. Menci, il governo italiano e la Commissione europea. L’udienza (congiunta per le tre cause) si è tenuta l’8 settembre 2016. 20. Prima della lettura delle conclusioni, annunciata per il 17 novembre 2016, è stata pubblicata la sentenza della Corte EDU del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia. A seguito di tale sentenza, in data 30 novembre 2016 la Quarta Sezione della Corte ha deciso
Rubrica di diritto europeo
23
di separare la causa Menci dalle due cause precedenti, proponendone l’assegnazione alla Grande Sezione (8). 21. Con ordinanza del 25 gennaio 2017, la Grande Sezione ha disposto la riapertura della fase orale. L’udienza si è tenuta il 30 maggio 2017, unitamente all’udienza relativa alle cause Garlsson Real State (C537/16), Di Puma (C596/16) e Consob (C597/16) (9). All’udienza, il sig. Menci, la Commissione nonché i governi italiano e tedesco hanno presentato osservazioni relativamente alle questioni attinenti al presente rinvio pregiudiziale. III. Analisi della questione pregiudiziale 22. La correlazione sotto il profilo metodologico operata dalla Corte nella sentenza del 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti (10), analizzando l’articolo 50 della Carta in combinato disposto con l’articolo 4 del protocollo n. 7 si riflette come segue nei punti 15 e 24 di detta sentenza: – «[L’]esame della questione sollevata deve essere condotto alla luce unicamente dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta». – Al termine di tale esame, «ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, nella misura in cui l’articolo 50 della medesima contiene un diritto corrispondente a quello previsto all’articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, occorre garantire che la predetta interpretazione dell’articolo 50 della Carta non sia in contrasto con il livello di tutela garantito dalla CEDU». 23. Orbene, per interpretare l’articolo 50 della Carta occorre inoltre ricordare che, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della stessa, «[l]addove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione». (11) 24. Pertanto, mi occuperò in primo luogo della giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 50 della Carta, in quanto riferimento necessario per applicare il principio del ne bis in idem ai casi di cumulo di sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’IVA. 25. Esporrò poi il mio parere riguardo all’eventuale effetto su tale giurisprudenza delle pronunce della Corte EDU, compresa la sentenza A e B c. Norvegia. Esaminerò inoltre la possibilità che la Corte elabori una modalità autonoma di analisi dei procedimenti misti (penali e amministrativi) che presentano un nesso materiale e temporale sufficiente. 26. Infine, una volta concluse dette analisi, tornerò ai fatti del presente procedimento pregiudiziale per proporre una risposta che consenta al giudice nazionale di dirimere la controversia. A. Giurisprudenza della Corte sull’applicazione dell’articolo 50 della Carta al cumulo di sanzioni tributarie e penali 27. Il principio del ne bis in idem compare nel diritto dell’Unione con diverse varianti (12) il cui trattamento non è ancora stato reso uniforme dalla Corte, nonostante gli inviti in tal senso di alcuni avvocati generali (13). Non mi soffermerò sull’analisi della giurisprudenza, più restrittiva, che interpreta tale principio in riferimento alle norme sulla difesa della libera concorrenza, né su quella relativa all’articolo 54 della Convenzione di applicazione
24
Parte quarta
dell’accordo di Schengen, più estensiva, che offre un livello più elevato di tutela dei diritti degli accusati in tale materia. 28. La giurisprudenza della Corte sull’applicazione del principio del ne bis in idem al cumulo di sanzioni tributarie e penali come risposta dello Stato all’omesso versamento di imposte (in particolare dell’IVA) è stata definita nella sentenza Åkerberg Fransson. Dopo avere applicato i criteri Engel volti a stabilire se una sanzione sia realmente di «natura penale», nonostante la sua formale configurazione amministrativa, la Corte ha fatto espressamente riferimento all’effettività delle sanzioni, il cui rapporto con la giurisprudenza della Corte EDU può risultare di difficile articolazione. 29. Nella sentenza Åkerberg Fransson (14), dopo essersi dichiarata competente a rispondere alla domanda di pronuncia pregiudiziale (15), la Corte ha dichiarato che il principio del ne bis in idem «non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza che dev’essere verificata dal giudice nazionale» (16). La libertà di scelta delle sanzioni da parte degli Stati membri si giustifica con la necessità di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione (17). 30. Tuttavia, la Corte ha fissato un limite al cumulo di sanzioni penali e tributarie: «qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona». Pertanto, è possibile comminare simultaneamente sanzioni tributarie e penali, ma non imporre una sanzione nominalmente amministrativa che, in realtà, abbia natura repressiva, unitamente a una sanzione penale (18). 31. Per stabilire, specularmente, quando una sanzione tributaria sia di carattere penale, la Corte ha fatto ricorso, come già detto, ai «criteri Engel», che aveva precedentemente utilizzato nella sentenza Bonda (19). Tuttavia, anziché applicarli essa stessa a una normativa come quella svedese, ha lasciato tale compito al giudice nazionale remittente (20), con l’avvertenza che esso avrebbe potuto concludere nel senso dell’incompatibilità del cumulo di sanzioni tributarie e penali con l’articolo 50 della Carta solo se le rimanenti sanzioni erano effettive, proporzionate e dissuasive (21). 32. L’efficacia nella repressione delle frodi e la tutela degli interessi finanziari dell’Unione fanno quindi da contrappunto ai fini della valutazione dell’incompatibilità del cumulo di sanzioni tributarie e penali con il principio del ne bis in idem, quando si tratta di tributi che riguardano detti interessi. 33. L’esigenza di effettività delle sanzioni si trasforma, secondo la sentenza Taricco e a. (22), in un requisito che incide sulla libertà di scelta degli Stati membri, in quanto «possono (…) essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA». Siffatta limitazione trova peraltro fondamento nell’articolo 325 TFUE, ai sensi del quale gli Stati membri devono lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, devono adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi
Rubrica di diritto europeo
25
finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi (23). 34. In definitiva, con le sentenze Bonda (24) e Åkerberg Fransson la Corte ha interpretato l’articolo 50 della Carta in assonanza con (25) la giurisprudenza sino ad allora prevalente della Corte EDU in materia di ne bis in idem (26). Tale convergenza era logica, data la similitudine tra la disciplina del ne bis in idem di cui all’articolo 4 e del protocollo n. 7 e quella di cui all’articolo 50 della Carta (27). B. Giurisprudenza della Corte EDU sul principio del ne bis in idem e il cumulo di sanzioni tributarie e penali 35. La tutela del principio del ne bis in idem nel contesto del Consiglio d’Europa non è esente da complicazioni. Tale diritto non è stato incluso nella CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e la sua tutela è stata realizzata successivamente mediante il protocollo n. 7, ratificato da quarantaquattro dei quarantasette Stati membri del Consiglio d’Europa. Il Regno Unito non lo ha sottoscritto e la Germania e i Paesi Bassi sono riluttanti a ratificare tale protocollo La Germania, al momento della firma, nonché vari altri paesi durante la sua conclusione (Austria, Francia, Portogallo e Italia), hanno formulato riserve o dichiarazioni nei loro strumenti di ratifica, al fine di circoscrivere la competenza della Corte EDU all’ambito strettamente penale, onde poter mantenere il doppio binario di sanzioni amministrative e penali per gli stessi fatti (28). 36. La giurisprudenza della Corte EDU ha limitato gli effetti di tali riserve o dichiarazioni, subordinandone la validità, conformemente all’articolo 57 della CEDU, al rispetto delle seguenti condizioni: devono essere formulate al momento della firma del protocollo, devono riguardare norme vigenti all’epoca della ratifica, non devono essere di carattere generale e devono contenere una breve esposizione delle norme interessate(29). Ritenendo che non sussistessero tali condizioni, nella sentenza Grande Stevens e a. c. Italia(30) la Corte EDU ha considerato invalida la dichiarazione formulata dall’Italia nello strumento di ratifica del protocollo n. 7, che era intesa a limitarne l’applicazione unicamente alle sanzioni e ai procedimenti qualificati come penali dal diritto italiano. 37. Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il principio del ne bis in idem vieta di avviare due o più procedimenti di natura penale (doppio procedimento) e di applicare due o più condanne definitive (doppia condanna) nei confronti della stessa persona e per gli stessi fatti. Lo scopo di tale principio è impedire la ripetizione di procedimenti penali già conclusi, nonché garantire la certezza del diritto per i singoli, proteggendoli dall’alea di poter essere sottoposti a un doppio esercizio dell’azione giudiziaria, a un doppio procedimento o a una doppia condanna. Buona parte di tale giurisprudenza della Corte EDU verte, in particolare, sulla duplicazione delle sanzioni tributarie e penali. 38. L’applicazione del principio del ne bis in idem da parte della Corte EDU è subordinata alla sussistenza di quattro condizioni: 1) l’identità della persona imputata o sanzionata, 2) l’identità dei fatti sui quali vertono i procedimenti (idem), 3) la duplicità di procedimenti sanzionatori (bis) e 4) il carattere definitivo di una delle due decisioni. Le condizioni rilevanti ai fini della presente causa, all’origine di ampia e ampiamente controversa giurispru-
26
Parte quarta
denza della Corte EDU, sono l’identità dei fatti (idem) e la duplicità di procedimenti (bis). 1. Identità dei fatti (concetto di «idem») 39. Tale elemento del principio del ne bis in idem richiede di stabilire se i procedimenti ripetuti debbano vertere unicamente sul medesimo comportamento (idem factum) oppure sia necessario altresì che si applichi la medesima qualificazione giuridica (idem crimen). 40.Inizialmente, la giurisprudenza della Corte EDU è stata molto eterogenea e, in alcuni casi di cumulo di sanzioni penali e tributarie, ha dichiarato che gli stessi fatti potevano essere oggetto di sanzione penale e di sanzione amministrativa, poiché le stesse non tenevano conto dei medesimi elementi(31). 41.Per influenza della giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen(32), la Corte EDU ha proceduto a una revisione e riconfigurazione della sua giurisprudenza nella fondamentale sentenza Zolotoukhin c. Russia(33), nella quale ha affermato che l’articolo 4 del protocollo n. 7. vieta di punire una seconda violazione sulla base di fatti identici, o sostanzialmente uguali, a quelli sui quali è stata basata la prima, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica (opzione chiara per l’idem factum e negazione dell’idem crimen). La Corte EDU descrive l’identità dei fatti come un insieme di circostanze concrete che riguardano il medesimo autore, inscindibilmente collegate tra loro nel tempo e nello spazio(34). 42.Nella sua giurisprudenza successiva(35), la Corte EDU ha mantenuto tale approccio, favorevole alle garanzie dei singoli, consistente nel valutare l’idem factum a fronte dell’idem crimen. Nella sentenza della Grande Camera A e B c. Norvegia(36) lo ha nuovamente confermato. 2. Ripetizione dei procedimenti sanzionatori (concetto di bis) 43.La duplicazione di procedimenti sanzionatori di carattere penale è l’elemento che ha dato luogo a più difficoltà nell’applicazione dell’articolo 4 del protocollo n. 7. Quando si cumulano procedimenti o condanne vertenti su fatti identici, promananti da giudici penali, l’applicazione di detto principio non solleva grandi difficoltà. Tuttavia, esistono norme di natura repressiva che i legislatori nazionali possono configurare come norme di diritto amministrativo sanzionatorio, e non di diritto penale, al fine di eludere l’applicazione delle tutele e delle garanzie proprie dei procedimenti penali(37). a) Giurisprudenza generale della Corte EDU 44.La proliferazione di norme di diritto amministrativo sanzionatorio di carattere repressivo spiega perché la Corte EDU abbia elaborato criteri specifici e autonomi, a partire dalla sentenza Engel e a. c. Paesi Bassi(38), al fine di chiarire le nozioni di «accusa penale» di cui all’articolo 6 della CEDU e di «pena» ai sensi dell’articolo 7 della CEDU. Nello specifico, per interpretare l’articolo 4 del protocollo n. 7, ha parimenti fatto ricorso ai cosiddetti «criteri Engel» (39), vale a dire la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura dell’illecito nonché la natura e intensità o gravità della sanzione inflitta all’autore dell’illecito. Gli ultimi due criteri sono alternativi, ma la Corte EDU può, in funzione delle particolarità del caso, valutarli congiuntamente(40) 45. Nella sentenza A e B c. Norvegia, la Corte EDU ha riaffermato l’utilizzo esclusivo
Rubrica di diritto europeo
27
dei criteri Engel, sebbene alcuni Stati intervenienti in quella causa avessero suggerito altri criteri aggiuntivi per potenziarne l’applicazione, al di là dei confini ristretti del diritto penale(41). 46. Il primo criterio «Engel» attiene alla qualificazione dell’illecito nel diritto nazionale, che la Corte EDU considera soltanto come il punto di partenza per stabilire se una sanzione abbia «natura penale». Non è una regola decisiva, salvo che lo stesso diritto nazionale qualifichi come penali entrambe le sanzioni, nel qual caso, logicamente, il principio del ne bis in idem è senz’altro applicabile. Se, invece, l’ordinamento interno qualifica la sanzione come amministrativa, sarà necessario esaminarla alla luce degli altri due criteri, in considerazione dei quali occorrerà decidere se, nonostante tutto, detta sanzione abbia «natura penale» ai fini dell’articolo 4 del protocollo n. 7. 47. Il secondo criterio «Engel» riguarda la natura dell’illecito. Nella giurisprudenza della Corte EDU, per accertare se una violazione tributaria di carattere amministrativo sia in realtà di natura penale si tiene conto di fattori quali: a) i destinatari della norma sanzionatoria, nel senso che, qualora sia diretta al pubblico in generale, e non a un gruppo chiaramente delimitato di destinatari, essa sarà generalmente di «carattere penale»(42); b) lo scopo della norma di cui trattasi, poiché l’illecito non presenterà tale carattere se la sanzione prevista è diretta unicamente al risarcimento dei danni patrimoniali(43) e sarà invece di carattere penale allorché la sua previsione risponde a finalità repressive e preventive(44), e c) il bene giuridico tutelato dalla disposizione nazionale sanzionatoria, la quale sarà di carattere penale se è intesa a proteggere beni giuridici la cui tutela è normalmente garantita mediante norme di diritto penale(45). 48. Il terzo criterio «Engel» riguarda la natura e il grado di severità della sanzione. Le pene privative della libertà sono, di per sé, norme di natura penale(46) e lo stesso vale per quelle pecuniarie la cui inosservanza possa comportare una detenzione sostitutiva o l’iscrizione nel casellario giudiziale(47). 49. Applicando tali criteri al cumulo di sanzioni tributarie e penali, la Corte EDU ha ritenuto, in non poche occasioni, che le prime hanno «carattere penale» ai sensi degli articoli 6 e 7 della CEDU e, per analogia, dell’articolo 4 del suo protocollo n. 7(48). Ciò è accaduto, in particolare, in casi relativi a sanzioni pecuniarie inflitte nell’ambito di procedimenti amministrativi vertenti sull’omesso versamento di imposte, ancorché per importi modesti(49). La Corte EDU perviene a detta conclusione dopo avere esaminato la natura e la severità della sanzione, valutando se possa essere applicata integralmente, cioè senza tenere conto dell’importo finale risultante da eventuali sconti concessi dall’Amministrazione finanziaria(50). In tal senso, la Corte EDU ha considerato irrilevante la circostanza che la prima sanzione sia stata detratta dalla seconda al fine di ridurre la doppia sanzione(51). 50. Per contro, la Corte EDU ha dichiarato che non rivestono carattere penale i procedimenti e le misure fiscali diretti al recupero delle imposte non pagate e a riscuotere gli interessi di mora, a prescindere dal loro importo(52). 51. In altre pronunce, la Corte EDU ha confermato che la garanzia inerente al principio del ne bis in idem non si applica solo in caso di doppia condanna, ma anche in caso di
28
Parte quarta
doppia sottoposizione a giudizio, vale a dire, a coloro i quali siano stati oggetto di accuse che non hanno portato a una condanna. La Corte EDU ha parimenti confermato che è irrilevante che il procedimento amministrativo preceda o segua il procedimento penale, che la prima sanzione sia compensata con quella applicata nel secondo o che l’interessato sia stato assolto al termine del secondo o del primo procedimento (53). 52. La vis espansiva di tale giurisprudenza della Corte EDU ha favorito la tutela dei singoli di fronte al potere repressivo delle autorità nazionali. Una simile circostanza può forse spiegare la reazione di alcuni Stati, percettibile nelle tesi da essi sostenute nella causa A e B c. Norvegia(54), alla quale detto giudice è stato sensibile. b) Eccezione nei casi di procedimenti misti che presentano un nesso temporale e materiale sufficientemente stretto: la sentenza A e B c. Norvegia 53. Nella sentenza A e B c. Norvegia, la Corte EDU ammette che, in presenza di sanzioni formalmente amministrative aventi carattere penale, l’articolo 4 del protocollo n. 7 non si assume violato dal cumulo di procedimenti penali e amministrativi sanzionatori, purché esista tra essi un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto. Se lo Stato dimostra che fra tali procedimenti sussiste siffatto nesso temporale o materiale, non vi è «ripetizione di procedimenti o di pene (bis)». (55) 54. Secondo la Corte EDU, per stabilire se sussista un nesso materiale sufficientemente stretto tra i procedimenti penali e amministrativi sanzionatori, occorre attenersi in particolare ai seguenti criteri(56): – le finalità complementari dei procedimenti e il loro rapporto con diversi aspetti dell’atto pregiudizievole per la società. La complementarietà e la coerenza saranno tanto maggiori quanto più lontane dal «nocciolo duro del diritto penale» siano le sanzioni del procedimento amministrativo, e viceversa (57); – il doppio binario, sotto il profilo giuridico e nella pratica, dei procedimenti quando sia una conseguenza prevedibile del medesimo comportamento sanzionato; – la complementarietà nell’istruzione dei procedimenti che eviti, laddove possibile, la ripetizione della raccolta e della valutazione degli elementi di prova, grazie all’interazione tra le diverse autorità, in modo che gli accertamenti di fatto operati in uno dei procedimenti siano acquisiti nell’altro; – il calcolo e la presa in considerazione della sanzione inflitta nel primo procedimento al momento di imporre quella del secondo, in modo che la sanzione inflitta al singolo non comporti un onere eccessivo, risultando adeguata ad evitare tale rischio l’esistenza di un procedimento di compensazione. 55. La Corte EDU è meno precisa circa le regole per dimostrare il nesso temporale sufficiente tra i procedimenti. Essa si limita ad indicare che non occorre che il procedimento penale e quello amministrativo si svolgano simultaneamente, dal principio alla fine, e aggiunge che la prova sarà tanto più difficile per lo Stato quanto più ampio sarà lo sfasamento temporale tra i due procedimenti (58). 56. Dal confronto tra i fatti in discussione nella sentenza A e B c. Norvegia, da un lato, e quelli nella successiva sentenza del 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda (59),
Rubrica di diritto europeo
29
dall’altro, emergono ostacoli quasi insormontabili che i giudici nazionali dovranno affrontare per chiarire a priori, con un minimo di certezza e prevedibilità, quando sussista tale nesso temporale. C. Incidenza della sentenza A e B c. Norvegia sul diritto dell’Unione 57. Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, il significato e la portata del suo articolo 50 devono essere «uguali a quelli conferiti» dalla corrispettiva disposizione della CEDU. Ai fini della sua interpretazione, il diritto tutelato dall’articolo 50 della Carta non può essere disgiunto dall’articolo 4 del protocollo n. 7, senza che la mancata ratifica o le riserve e le dichiarazioni di alcuni Stati(60) relative a quest’ultimo siano rilevanti per la Corte. 58. Tale è l’orientamento implicitamente seguito dalla sentenza Åkerberg Fransson, nella quale non è stato ammesso che il numero di ratifiche del protocollo della CEDU dovesse incidere sul suo utilizzo come criterio per l’interpretazione dell’articolo 50 della Carta, nonostante le riserve espresse in tal senso(61). 59. La nota esplicativa relativa all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta indica che «[i] l riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli». È irrilevante che questi ultimi siano o meno vincolanti per tutti gli Stati membri dell’Unione(62). Inoltre, tale differenziazione potrebbe determinare un’interpretazione e un’applicazione della Carta non uniformi(63), a seconda che lo Stato sia o meno vincolato da un protocollo allegato alla CEDU. 60. Orbene, il nuovo orientamento giurisprudenziale adottato dalla Corte EDU nella sentenza A e B c. Norvegia rappresenta una notevole sfida per la Corte di giustizia. Il rispetto istituzionale tra i due organi giurisdizionali osta a qualsiasi commento critico(64), ma non vieta di osservare che, con il suo nuovo approccio, la Corte EDU ha modificato in misura significativa la portata finora attribuita al principio del ne bis in idem. 61. In tale contesto, ritengo che la Corte possa optare per una delle due soluzioni seguenti: – accettare – tout court – la limitazione del principio del ne bis in idem stabilita dalla sentenza A e B c. Norvegia e applicarla nell’ambito dell’articolo 50 della Carta, prendendo in considerazione l’articolo 52, paragrafo 3, della stessa; – respingere tale limitazione e mantenere il livello di tutela fissato nella sentenza Åkerberg Fransson facendo riferimento alla (precedente) giurisprudenza generale della Corte EDU. In tal modo, la Corte attiverebbe la clausola dell’articolo 52, paragrafo 3, in fine, secondo cui l’obbligo di interpretare in modo omogeneo le disposizioni della Carta dal contenuto analogo a quelle della CEDU «non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». 62. A parte queste due opzioni, stante la sentenza A e B c. Norvegia la Corte può, logicamente, elaborare una giurisprudenza specifica per determinare la compatibilità con l’articolo 50 della Carta dei cosiddetti «procedimenti misti (amministrativi e penali) che presentano un nesso sufficiente». 1. Allineamento alla nuova giurisprudenza della Corte EDU
30
Parte quarta
63. Siffatta soluzione sarebbe certamente in linea con il dovere di interpretazione armonica delle disposizioni della Carta e di quelle della CEDU (e dei suoi protocolli) sulla base dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta. 64. Vari governi intervenuti nel procedimento propugnano siffatto allineamento, richiamandosi peraltro alle norme di interpretazione della Carta contenute nel suo articolo 52, paragrafi 4 e 6. La prima indica che, «[l]addove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni». A tenore della seconda, «[si] tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta». 65. I governi menzionati osservano che, per quanto riguarda la possibilità di cumulare sanzioni penali e amministrative per gli stessi fatti, le legislazioni e le prassi nazionali sono molto variegate. A fronte di tale realtà eterogenea, essi auspicano un’interpretazione restrittiva dell’articolo 50 della Carta, che garantisca agli Stati un potere repressivo adeguato, come avrebbe fatto la Corte EDU nella sentenza A e B. c. Norvegia. 66. Non condivido tali argomenti. La norma interpretativa di cui all’articolo 52, paragrafo 6, non è applicabile all’articolo 50 della Carta, dato che, come affermato dalla Commissione, detta disposizione non contiene alcun riferimento alle legislazioni e alle prassi nazionali (a differenza di altre, quali gli articoli 16, 27, 28, 30, 34, 35 o 36 della Carta). 67. Nemmeno la regola di cui all’articolo 52, paragrafo 4, è pertinente per definire la portata dell’articolo 50 della Carta. Da un lato, i medesimi governi ammettono che non esistono tradizioni costituzionali comuni per quanto riguarda il contenuto del diritto in parola(65). Dall’altro, le tradizioni degli Stati che limitano l’efficacia del principio del ne bis in idem esclusivamente al diritto penale condurrebbero a un’interpretazione dell’articolo 50 più restrittiva perfino di quella adottata dalla Corte EDU in relazione all’articolo 4 del protocollo n. 7. 68. Un simile risultato sarebbe incompatibile con l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, sicché le tradizioni costituzionali comuni, ove ne esistessero in materia, potrebbero servire come criterio di interpretazione dell’articolo 50 della Carta solo qualora comportassero un livello di tutela del diritto più elevato(66). 69. Da parte mia, non vedo motivi (ma piuttosto inconvenienti) per i quali la Corte dovrebbe aderire alla decisione della Corte EDU di ridurre il contenuto del diritto che il principio del ne bis in idem garantisce ai singoli, quando si tratti di sanzioni della stessa natura (materialmente penali) imposte due volte per i medesimi fatti. Ritengo che sia difficile rinunciare al livello di tutela già raggiunto con la sentenza Åkerberg Fransson solo perché la Corte EDU ha cambiato orientamento(67) interpretando, nell’ambito di sua competenza, l’articolo 4 del protocollo n. 7. 70. In primo luogo, la stessa Corte EDU riconosce(68) che il modo migliore per rispettare il principio del ne bis in idem, previsto dall’articolo 4 del protocollo n. 7, è il binario unico di sanzione e considera quindi il doppio binario in caso di procedimenti misti come un’eccezione a tale regola generale. Se esiste un doppio procedimento, ancorché misto, la conseguenza, di norma, è la violazione del principio del ne bis in idem.
Rubrica di diritto europeo
31
71. In secondo luogo, il mutamento di orientamento giurisprudenziale diretto a far salvi i «procedimenti misti che presentano un nesso temporale e materiale sufficiente» è ispirato a una posizione di deferenza verso gli argomenti degli Stati parti della CEDU (69). La Corte EDU attribuisce rilevanza alla circostanza che il principio del ne bis in idem non sia stato incluso nella CEDU e sia stato aggiunto ad essa solo nel 1984 (mediante il protocollo n. 7), con riserve e dichiarazioni di alcuni firmatari. La riluttanza di taluni Stati ad accettare il ne bis in idem e le divergenze tra i diritti nazionali sembrano avere influito sul riconoscimento di tale notevole eccezione alla sua applicazione (non prevista, quanto meno non espressamente, dall’articolo 4 del protocollo n. 7)(70). 72. Non credo, ripeto, che la Corte di giustizia debba seguire la Corte EDU su questa strada. L’interpretazione dell’articolo 50 della Carta non può dipendere dalla maggiore o minore predisposizione degli Stati a rispettarne il contenuto, giuridicamente vincolante. Se nella giurisprudenza della Corte si era consolidato un orientamento secondo cui due procedimenti, paralleli o successivi, che sfocino in due sanzioni materialmente penali, per gli stessi fatti, continuano ad essere due (bis) e non uno, non ravviso validi motivi per abbandonare tale orientamento. 73. Inoltre, introdurre nel diritto dell’Unione un criterio di interpretazione dell’articolo 50 della Carta fondato sul maggiore o minore nesso materiale e temporale tra alcuni procedimenti (quelli penali) e altri (quelli amministrativi sanzionatori) aggiungerebbe notevole incertezza e complessità al diritto delle persone di non essere giudicate né condannate due volte per gli stessi fatti. I diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta devono essere di facile comprensione per tutti e il loro esercizio richiede una prevedibilità e una certezza che, a mio parere, non sono compatibili con un simile criterio. 2. Tutela più elevata del principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione 74. La Corte ha ribadito che, anche se l’articolo 52, paragrafo 3, della Carta impone di dare ai diritti in essa contemplati corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU lo stesso significato e la stessa portata di quelli loro conferiti dalla suddetta convenzione, quest’ultima non costituisce, fintantoché l’Unione non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione(71). 75. Tale giurisprudenza sottolinea l’autonomia della Corte di giustizia nell’interpretare le disposizioni della Carta, che sono le sole applicabili nell’ambito del diritto dell’Unione. Pertanto, la giurisprudenza della Corte EDU può non essere presa in considerazione quando, in relazione a diritti della Carta di contenuto analogo a quelli della CEDU e dei suoi protocolli, l’interpretazione della Corte di giustizia stabilisca un livello di tutela più elevato, sempre che ciò non leda un altro diritto garantito dalla Carta(72). 76. Nell’esercizio di tale autonomia, la Corte di giustizia potrebbe elaborare una propria interpretazione dell’articolo 50 della Carta, improntata alla continuità, divergente dalla linea giurisprudenziale rappresentata dalla sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia. Sarebbe sufficiente verificare che tale interpretazione rispetti(73) e oltrepassi il livello di tutela garantito dall’articolo 4 del protocollo n. 7, quale inteso dalla Corte EDU. 77. Poiché la sentenza A e B c. Norvegia riduce le garanzie per gli amministrati deri-
32
Parte quarta
vanti dalla suddetta disposizione, consentendo il cumulo di procedimenti, pene e sanzioni amministrative dal contenuto materialmente penale, nelle circostanze sopra indicate, la Corte assicurerebbe un livello di tutela più elevato, nell’ambito dell’articolo 50 della Carta, mantenendo senza riserve la sua giurisprudenza pregressa, sulla scia della sentenza Åkerberg Fransson. D. Una soluzione autonoma per circoscrivere la portata dell’articolo 50 della Carta? 78. L’articolo 50 della Carta, al pari dell’articolo 4 del protocollo n. 7, sancisce il principio del ne bis in idem in quanto diritto fondamentale della persona, non soggetto a deroghe. Talvolta non si tiene sufficientemente conto di simile qualità e si fanno prevalere sul diritto in parola considerazioni di ordine economico (la situazione delle finanze pubbliche, ad esempio), che, pur essendo perfettamente legittime in altri ambiti, non sono sufficienti a giustificarne la limitazione(74). 79. Orbene, nella sentenza Spasic(75), la Corte ha ammesso talune limitazioni alla tutela conferita dal principio del ne bis in idem nell’ambito dell’articolo 50 della Carta. In particolare, la Corte ha dichiarato che l’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (il quale subordina l’applicazione del principio del ne bis in idem alla condizione che, in caso di condanna, la pena «sia stata eseguita», sia «in corso di esecuzione attualmente» o non possa più essere eseguita) è compatibile con l’articolo 50 della Carta. 80. Si potrebbe ammettere, su questa stessa linea, il doppio binario di sanzioni penali e tributarie di contenuto materialmente penale per gli stessi fatti, quando si tratti di procedimenti paralleli? Secondo la clausola orizzontale di cui all’articolo 52, paragrafo 1, prima frase, della Carta, la limitazione del diritto al ne bis in idem deve essere prevista dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detto diritto. Ai sensi della seconda frase del medesimo paragrafo, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni al principio del ne bis in idem solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui(76). 81. Dei quattro requisiti indispensabili per legittimare la limitazione del diritto fondamentale, il primo e l’ultimo non solleverebbero, nel caso di specie, particolari difficoltà. La legge nazionale darebbe copertura alla doppia sottoposizione a giudizio e quest’ultima risponderebbe a una finalità di interesse generale riconosciuta dallo stesso diritto dell’Unione (vale a dire, l’esigenza che le sanzioni per le frodi gravi in materia di IVA siano efficaci e dissuasive, menzionata nella sentenza Åkerberg Fransson e successivamente ribadita nella sentenza Taricco e a.(77)). 82. Tuttavia, dubito che in tale contesto si rispetterebbe il contenuto essenziale del diritto a non essere giudicato o condannato penalmente due volte per la stessa violazione. In ogni caso, ed è questo il fattore chiave, la limitazione finora analizzata non mi sembra necessaria ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. 83. La circostanza che le normative degli Stati membri prevedano soluzioni diverse per tale questione dimostra di per sé, a mio modo di vedere, il carattere innecessario di siffatta limitazione. Se fosse realmente imprescindibile ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della
Rubrica di diritto europeo
33
Carta, lo sarebbe per tutti e non solo per alcuni degli Stati membri. 84. Da una panoramica delle normative di vari Stati membri dell’Unione emerge che esistono almeno due diversi sistemi di sanzione delle frodi relative all’omesso pagamento dell’IVA. 85. In primo luogo, i sistemi che si potrebbero definire a doppio binario (quello italiano del «doppio binario penaleamministrativo in materia tributaria» o quello svedese esaminato nella sentenza Åkerberg Fransson) consentono di svolgere in parallelo procedimenti amministrativi sanzionatori, di competenza delle autorità tributarie, e procedimenti penali, di competenza dei pubblici ministeri e dei giudici, e di cumulare sanzioni tributarie e sanzioni penali (comprese le pene privative della libertà, quelle pecuniarie e altre pene privative di diritti) nei casi più gravi di frode. 86. In secondo luogo, i sistemi che si potrebbero qualificare come sistemi a binario unico consentono, in caso di omesso versamento dell’IVA per importi elevati, di avviare procedimenti e applicare sanzioni tributarie o penali, ma ne vietano il cumulo. Se il valore della frode supera una determinata soglia, spesso gli ordinamenti nazionali attribuiscono rilevanza penale a tale comportamento e ne prevedono la repressione unicamente con sanzioni penali (di nuovo, pene detentive, multe e altro)(78), anche qualora, logicamente, l’Amministrazione liquidi, eventualmente, l’importo che il contribuente dell’IVA ha omesso di versare. 87. Nei sistemi a binario unico, il principio del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta è rispettato e il contribuente ha la garanzia che non sarà giudicato o condannato penalmente due volte per la stessa violazione. La certezza che, in definitiva, le frodi più gravi saranno contrastate efficacemente con sanzioni penali che possono comportare la detenzione del trasgressore conferisce a queste ultime la forza dissuasiva richiesta, necessaria per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione. Non può dirsi lo stesso, a mio parere, per i sistemi a doppio binario. 88. Pertanto, il doppio binario di procedimenti paralleli (amministrativi e penali), siano essi più o meno vicini nel tempo, e delle correlate sanzioni di natura penale irrogate al termine degli stessi da due autorità dello Stato dotate di potere repressivo che si pronunciano su medesimi fatti illeciti, non è una esigenza necessaria che autorizzi a limitare il diritto protetto dal principio del ne bis in idem, nemmeno al lodevole scopo di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione ed evitare che le frodi gravi restino impunite. 89. Nulla osta a che gli Stati membri impongano sanzioni penali, unitamente a quelle amministrative, per gli stessi fatti, se queste ultime non hanno natura penale. A mio parere, dovrebbe essere questo il punto fondamentale della controversia. Anziché offuscare la chiarezza che deve avere il diritto tutelato dal principio del ne bis in idem, subordinandolo a constatazioni di immane complessità, sarebbe sufficiente ripercorrere il cammino che ha condotto ad attribuire natura penale alle sanzioni pecuniarie inflitte dalle amministrazioni finanziarie. 90. Qualora, invece, si mantenga il carattere materialmente penale di tali sanzioni, come ritengo opportuno, occorre che la garanzia dell’articolo 50 della Carta sia pienamente
34
Parte quarta
salvaguardata quando lo stesso fatto integri una violazione, nel contempo, di norme tributarie che prevedono una risposta materialmente penale e di norme propriamente penali (vale a dire, quelle che identificano i reati). 91. Ciò che accade in circostanze del genere è ben noto nel diritto repressivo: un concorso di leggi, o di norme (non di reati) che deve essere risolto in modo unitario. Infatti, quando lo stesso fatto è riconducibile a due (o più) norme che lo sanzionano, la risposta repressiva deve essere individuata in una di tali norme, ossia quella che ha efficacia preminente(79). 92. La risposta repressiva unica a fronte dello stesso fatto non comporta, peraltro, una limitazione dell’ampia capacità normativa di cui dispone il legislatore nazionale per concretizzarne il contenuto. Nulla impedisce che tale risposta, che dovrà essere fornita una sola volta in toto per rispettare il diritto al ne bis in idem, preveda pene privative della libertà, multe e misure privative di diritti (interdizioni, divieti di contrarre o di esercitare determinate attività, ecc.)(80). Inoltre, per conseguire l’obiettivo della dissuasione, cui ho già fatto riferimento, le frodi fiscali più gravi potrebbero essere punite con una combinazione di tali sanzioni, nel rispetto del principio di proporzionalità. 93. Se, come fatto presente, la possibilità di integrare in una risposta unica tipi diversi di misure repressive fuga il timore che gli autori di frodi fiscali possano restare impuniti, non è necessario, nel senso sopra indicato, limitare il principio del ne bis in idem escludendo dall’ambito della tutela di tale diritto le (doppie) sanzioni imposte in seguito all’istruzione di (due o più) procedimenti, li si definisca paralleli, misti o concorrenti, attraverso i quali vengono sanzionati gli stessi fatti. 94. In definitiva, suggerisco alla Corte di adottare un’interpretazione dell’articolo 50 della Carta che prosegua in linea con la sua giurisprudenza precedente, ma non riduca il contenuto di tale diritto nel senso indicato dalla sentenza A e B c. Norvegia né in applicazione dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. E. Risposta alla questione pregiudiziale 95. Dopo questa ampia, ma ineludibile, analisi della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di giustizia sul principio del ne bis in idem, riprendo il caso del sig. Menci per esaminare la questione sollevata dal giudice a quo. 96. Alla luce della sentenza Åkerberg Fransson, si potrebbe proporre di offrire una risposta molto semplice, ma certamente poco utile, al giudice del rinvio: basterebbe ricordargli la sentenza citata e invitarlo ad applicare esso stesso i criteri Engel, senza fornirgli ulteriori elementi di valutazione. 97. Ritengo tuttavia che nel contesto delle divergenze tra i giudici italiani, alle quali ho fatto riferimento (81), circa le ripercussioni della sentenza Åkerberg Fransson e della giurisprudenza della Corte EDU in questa materia, specialmente dopo il mutamento di orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza A e B c. Norvegia, la Corte debba compiere un passo in più per facilitare ai giudici nazionali l’applicazione dell’articolo 50 della Carta. 98. In base a tale premessa, intendo esaminare in successione se nella questione pregiudiziale sollevata ricorrano: a) l’identità dei fatti sui quali vertono i procedimenti e b) la
Rubrica di diritto europeo
35
duplicità di procedimenti sanzionatori. In una fattispecie come quella oggetto del presente procedimento l’identità personale e il carattere definitivo della sanzione ricorrono entrambe chiaramente e non richiedono ulteriori chiarimenti. Infine, esaminerò la possibilità di ammettere deroghe al divieto sancito dall’articolo 50 sulla linea indicata dalla Corte EDU nella sentenza A e B c. Norvegia o seguendo la via aperta dalla Corte di giustizia con la giurisprudenza Spasic(82). 1. Identità dei fatti (idem) 99. Per quanto riguarda l’«idem», ossia l’identità dei fatti, la giurisprudenza della Corte (in particolare quella elaborata in relazione all’articolo 54 della Convenzione di Schengen, già citata) e la giurisprudenza della Corte EDU dopo la sentenza Zolotukhin c. Russia(83) contiene indicazioni sufficienti che possono essere trasposte all’applicazione dell’articolo 50 della Carta in caso di cumulo di sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’IVA. 100. Secondo la tesi prevalente in tale giurisprudenza, il divieto di doppia sanzione si riferisce ai medesimi fatti materiali (idem factum), intesi come un insieme di circostanze concrete inscindibilmente connesse, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica (idem crimen) o dall’interesse giuridico tutelato. 101. Il giudice deve chiarire, conformemente alla regola sopra esposta, se le sanzioni tributarie per omesso versamento dell’IVA e le sanzioni penali per il mancato pagamento dell’IVA dovuta annualmente si applichino agli stessi fatti. 102. Nelle sue osservazioni scritte, il governo ceco sostiene che l’identità in parola dovrebbe essere interpretata restrittivamente in caso di cumulo di sanzioni tributarie e penali, seguendo la scia tracciata dalla Corte nei procedimenti in materia di tutela della concorrenza(84). Detto governo fa riferimento, in particolare, al triplice requisito di identità dei fatti, unità del contravventore e unità dell’interesse giuridico tutelato(85). 103. Sebbene ritenga, al pari di altri avvocati generali, che la Corte dovrebbe uniformare la sua giurisprudenza sull’applicazione del principio del ne bis in idem nell’ambito della tutela della concorrenza(86) con quella da essa elaborata in relazione all’articolo 54 della Convenzione di Schengen e ad altre disposizioni concernenti lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (esigenza che è divenuta più pressante dopo l’evoluzione segnata dalla sentenza della Corte EDU Zolotoukhin c. Russia)(87), non penso che la differenza di dettaglio sottolineata dal governo ceco sia rilevante nel caso di specie. È sufficiente ricordare che, a mio avviso, l’interesse giuridico tutelato dalle sanzioni tributarie previste per l’omesso versamento dell’IVA coincide con quello tutelato dalle sanzioni penali per la medesima condotta. 104. Maggiori difficoltà solleva l’argomento del governo italiano, il quale invoca a suo sostegno la giurisprudenza della Corte suprema di cassazione secondo cui non sussiste identità dei fatti se le violazioni amministrative puniscono l’omesso versamento periodico dell’IVA in ogni mese, o trimestre, successivo alla maturazione del relativo debito, e la previsione dell’illecito penale sanziona l’omesso pagamento (per importi superiori a EUR 50 000 o 250 000, a seconda della legge applicabile nel momento considerato) corrispondente al periodo dell’anno. Detto giudice ritiene, in sintesi, che in questi casi non sus-
36
Parte quarta
sista la necessaria identità(88), aggiungendo che il principio del ne bis in idem si riferisce unicamente ai procedimenti penali e che, pertanto, esso non può applicarsi al cumulo di sanzioni penali e sanzioni amministrative fiscali, cosicché la normativa italiana non contravverrebbe né all’articolo 50 della Carta, né all’articolo 4 del protocollo n. 7. 105. Nelle sue osservazioni scritte, la Commissione sostiene invece la tesi opposta, che condivido, poiché mi sembra conforme alla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte EDU sul criterio dell’identità dei fatti. 106. Di fronte a una condotta omissiva consistente nell’inadempimento dell’obbligo di versare l’IVA, ciò che rileva è il complesso delle circostanze di fatto specifiche, inscindibilmente connesse nel tempo e nello spazio, riconducibili a uno stesso trasgressore. Orbene, tanto nel caso delle violazioni fiscali quanto in quello delle violazioni penali in discussione nel procedimento principale, le differenze che, secondo il governo italiano, determinano l’applicazione dei due tipi di sanzione non sono di natura fattuale, ma giuridica(89). Il fatto materiale è sempre lo stesso, vale a dire l’omesso versamento dell’IVA per un importo elevato, e gli ulteriori requisiti previsti in relazione a tale omesso versamento, ossia la presentazione della dichiarazione IVA annuale, una soglia minima e un termine di riferimento, sono presupposti giuridici, e non di fatto. 107. La giurisprudenza della Corte di giustizia (e della Corte EDU) sopra richiamata(90) sottolinea che per valutare l’identità dei fatti non si deve tenere conto della loro qualificazione giuridica. Ciò che conta è l’«idem factum», e non l’«idem crimen». Sebbene il governo italiano osservi giustamente, in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione, che occorre procedere a una «valutazione concreta» dei fatti, la sua tesi relativa al rapporto di «progressione illecita» nella condotta attinente all’omesso versamento dell’IVA quale base per concludere che, in questi casi, non sussiste identità tra i fatti sanzionati due volte, non mi convince. Difatti, per quanto riguarda il sig. Menci, le circostanze di fatto concrete, che hanno dato luogo all’irrogazione della sanzione tributaria e alle quali può applicarsi del pari la sanzione penale, sono le stesse: l’omesso versamento dell’IVA corrispondente al periodo d’imposta compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2011 per un importo di EUR 282 495,76. La sanzione tributaria viene applicata a tali fatti utilizzando taluni criteri giuridici, mentre la sanzione penale richiede una valutazione di elementi giuridici diversi, ma le circostanze di fatto, ribadisco, non sono differenti. 108. Si impone un’ultima considerazione riguardo alla compatibilità dell’interpretazione da me proposta con l’obbligo degli Stati membri di applicare sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate, che garantiscano la riscossione dell’IVA e la tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Come ho già indicato, il ricorso ad un sistema a doppio binario per reprimere le frodi in materia di IVA non è necessariamente più efficace rispetto all’utilizzo di un sistema a binario unico. Se l’esigenza di ricorrere a doppi procedimenti e a doppie sanzioni derivasse, in sostanza, dalle carenze delle strutture amministrative o giudiziarie volte alla repressione delle frodi in materia di IVA, si potrebbero conseguire del pari siffatti obiettivi attraverso il miglioramento di tali procedimenti, e senza sacrificare il diritto fondamentale di non essere giudicato o condannato penalmente due volte per gli stessi fatti.
Rubrica di diritto europeo
37
2. La duplicità dei procedimenti o delle sanzioni (bis) 109. Come si è anticipato, l’articolo 50 della Carta, secondo la sentenza Åkerberg Fransson: – è compatibile con l’esistenza di un sistema a doppio binario (amministrativo e penale) per sanzionare le frodi in materia di IVA, tenuto conto della libertà degli Stati membri di scegliere le modalità di repressione dell’evasione di tale imposta; – è incompatibile, nondimeno, con la doppia punizione, a titolo, da un lato, di sanzione (o procedimento) penale e, dall’altro, di sanzione (o procedimento) tributaria, quando si possa affermare che quest’ultima ha in realtà carattere penale, nonostante la sua eventuale qualificazione da parte del diritto interno come sanzione meramente amministrativa. In tale ipotesi, ribadisco, «qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva(91), tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona»(92). 110. Conformemente alla medesima sentenza, incombe ai giudici remittenti accertare se le sanzioni tributarie imposte dall’Amministrazione finanziaria italiana siano in realtà di natura penale. Dovranno provvedere, come si è già detto, ad applicare essi stessi i «criteri Engel», soluzione che risulta logica (dato che il giudice nazionale conosce il suo diritto interno meglio della Corte), ma non esente da rischi(93). Ne consegue che è opportuno fornire a detti giudici alcune indicazioni interpretative supplementari per aiutarli a precisare meglio, nelle rispettive controversie, i margini dei menzionati criteri, in particolare del secondo e del terzo. 111. Il primo criterio Engel (la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto interno) ha scarsissima rilevanza nel caso di specie, dato che, come ha spiegato nelle sue osservazioni il governo italiano, le sanzioni tributarie per omesso versamento dell’IVA sono, nominalmente, di natura amministrativa secondo il diritto italiano, tanto per la loro denominazione quanto per gli organi che le impongono e il procedimento applicato. Ciò non deve impedire, tuttavia, la loro successiva analisi alla luce degli altri due criteri(94). 112. Il secondo criterio Engel riguarda la natura giuridica dell’illecito, che deve essere accertata dal giudice nazionale. A tal fine, esso può fare riferimento, ispirandosi alla giurisprudenza della Corte EDU sopra richiamata(95), a un insieme di elementi di confronto, tra cui l’ambito soggettivo, vale a dire l’insieme dei destinatari della norma che istituisce l’illecito. Nel caso delle violazioni tributarie per omesso versamento dell’IVA, punite con sanzioni amministrative, si tratta di tutti i contribuenti tenuti al pagamento dell’imposta in parola, e non di un gruppo determinato o circoscritto di potenziali trasgressori. 113. In tale contesto, maggiore rilevanza assume lo scopo della norma sanzionatoria al quale, come si è già rilevato, fanno parimenti riferimento la Corte EDU(96) e la Corte di giustizia nella sentenza Bonda del 5 giugno 2012(97). Corrobora la natura penale dell’illecito la circostanza che la relativa sanzione sia volta alla repressione e alla prevenzione delle condotte illecite, e non solo al risarcimento dei danni patrimoniali. Orbene, sarebbe difficile negare che le norme sanzionatorie nell’ordinamento tributario sono dirette, al contempo, a punire i contribuenti le cui frodi siano state scoperte e a fungere da ammonimento o da
38
Parte quarta
mezzo di prevenzione nei confronti degli altri contribuenti, onde evitare che cedano alla tentazione di non pagare le imposte dovute. Certamente, dal momento che le sanzioni amministrative e quelle penali sono espressioni dello ius puniendi dello Stato, non vedo come si possa negare alle prime (se non mediante una costruzione artificiale, meramente dogmatica) la doppia natura preventiva e repressiva, che le rende simili alle norme strettamente penali(98). Oltre ciò, a mio avviso, qualsiasi sanzione ha, in realtà, una componente repressiva e il suo effetto preventivo o dissuasivo deriva appunto dalla punizione che essa comporta(99). 114. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal governo italiano, l’effetto repressivo delle sanzioni tributarie non viene meno per il fatto che la legislazione nazionale consenta, in alcuni casi, di ridurne l’importo a causa del successivo pagamento dell’imposta, o autorizzi l’Amministrazione a rinunciarvi a determinate condizioni o a concludere patti, transazioni o accordi con i trasgressori che ammettano le proprie responsabilità e si astengano dall’impugnare tali atti. Queste ultime misure, o altre analoghe, possono intervenire anche nel corso dei procedimenti penali(100), senza che ciò induca a dubitare che le sanzioni previste dal codice penale (o da leggi speciali) per i reati tributari abbiano tale natura. Gli ordinamenti nazionali possono prevedere, ad esempio, che la regolarizzazione a posteriori della situazione fiscale comporta, a determinate condizioni, ora l’eliminazione dell’antigiuridicità inerente alla violazione iniziale dell’obbligazione tributaria (con conseguente venir meno dell’addebito penale), ora l’attenuazione della risposta punitiva. 115. L’ultimo elemento di cui occorre tenere conto, secondo l’interpretazione ispirata dalla giurisprudenza della Corte EDU, è il bene giuridico tutelato dalla norma nazionale che sanziona l’illecito. In linea di principio, detta norma avrà carattere penale se il suo scopo è la tutela di beni giuridici la cui difesa è normalmente garantita mediante norme penali(101). 116. Lo scopo delle sanzioni tributarie per omesso versamento dell’IVA è, per l’appunto, assicurare la corretta riscossione di tale imposta e la simultanea tutela degli interessi finanziari degli Stati e dell’Unione. Si tratta quindi di beni giuridici che, nei casi più gravi, devono essere protetti anche mediante il diritto penale, come la Corte ha ribadito nella sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (102), dato che gli Stati devono reprimere efficacemente le frodi in tale settore. 117. Di fronte a quest’obbligo, sarebbe lecito chiedersi se l’opzione migliore sia cumulare sanzioni tributarie e sanzioni penali per gli stessi fatti, il che, con sufficiente probabilità, renderebbe più efficace la repressione delle frodi (quanto meno di quelle gravi) in materia di IVA. Simmetricamente, tale doppia sottoposizione a procedimento ridurrebbe il vantaggio di cui godrebbero i contribuenti con maggiori disponibilità economiche in caso di applicazione del principio del ne bis in idem, qualora si concludesse che la sanzione amministrativa osta alla successiva sanzione penale per gli stessi fatti(103). 118. Non ritengo tuttavia che una simile obiezione sia convincente. Senza che occorra duplicare i procedimenti sanzionatori, amministrativo e penale, per gli stessi fatti, un’adeguata descrizione delle fattispecie penali di frode o elusione fiscale più gravi, unitamente all’azione diligente dei giudici penali di ciascuno Stato, garantisce in misura sufficiente l’efficacia dissuasiva accresciuta della repressione di tali fattispecie, evitando al contempo
Rubrica di diritto europeo
39
la violazione di una garanzia così importante per il contribuente come il diritto a non essere giudicato o condannato due volte per la medesima violazione. 119. Il terzo criterio Engel riguarda la natura e il grado di severità della sanzione. Traendo ispirazione dalla giurisprudenza della Corte EDU, che deve riflettersi nell’interpretazione dell’articolo 50 della Carta, i giudici nazionali devono ricordare che, come ha ripetutamente dichiarato la stessa Corte EDU, la modesta entità delle sanzioni pecuniarie irrogate nei procedimenti amministrativi per omesso versamento di imposte non esclude che dette sanzioni abbiano carattere penale(104). Invero, l’ordinanza di rinvio indica che la sanzione tributaria di cui all’articolo 13 del decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 471 (pari al 30% dell’importo dell’IVA non versata), ha, per natura ed entità, carattere penale, senza che vi osti la circostanza che altre sanzioni aumentino tale percentuale fino al 100% o a cifre superiori(105). 3. Le eventuali restrizioni al divieto del ne bis in idem nel caso di specie 120. Alla luce degli elementi di fatto esposti nella sua ordinanza dal giudice del rinvio, la cui valutazione in definitiva gli spetta, il doppio binario di procedimenti avviati nei confronti del sig. Menci per un’unica condotta (l’omesso versamento dell’IVA) potrebbe comportare una violazione del suo diritto a non essere giudicato e condannato due volte per gli stessi fatti. 121. Avendo escluso che si possa accettare, in relazione all’applicazione del principio del ne bis in idem a casi di frode fiscale disciplinati dal diritto dell’Unione, la limitazione dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta (sentenza Spasic)(106), potrei fermarmi qui senza procedere oltre. 122. Tuttavia, per l’ipotesi in cui la Corte decidesse di esplorare questa possibilità, ritengo, in subordine, che la sua applicazione al presente procedimento non sarebbe possibile. Inoltre, siffatta limitazione non è necessaria, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, e il cumulo di procedimenti o sanzioni previsto dal diritto nazionale non soddisfa il criterio di proporzionalità, cosicché non appare riconducibile a detta disposizione. 123. Ai fini della proporzionalità, si potrebbe valutare il coordinamento tra i diversi procedimenti, la cooperazione tra le autorità durante il loro svolgimento e la compensazione delle possibili sanzioni. Orbene, tali elementi sembrano deporre a sfavore di una normativa come quella italiana, applicata al sig. Menci, la quale i) non prevede il coordinamento tra procedimenti penali e amministrativi, ii) non impone alle autorità partecipanti ai suddetti procedimenti di collaborare tra loro, al fine di evitare aggravi eccessivi per il singolo e iii) non istituisce un sistema di coordinamento o compensazione delle sanzioni, limitandosi a stabilire che le sanzioni amministrative sono esigibili solo al termine del procedimento penale. 124. Parimenti in subordine, per il caso in cui la Corte di giustizia decidesse di seguire la via tracciata dalla Corte EDU nella sentenza A e B c. Norvegia al fine di interpretare l’articolo 50 della Carta, ritengo che un caso come quello del sig. Menci non sia riconducibile alla giurisprudenza elaborata in detta sentenza. 125. A dimostrazione di ciò è sufficiente osservare che, sulla base degli elementi agli
40
Parte quarta
atti, nel caso di specie non sembrano sussistere né la complementarietà né l’istruzione coordinata dei procedimenti (penali e amministrativi). Sebbene la valutazione definitiva dei fatti e del contesto della fattispecie spetti al giudice del rinvio, tutto sembra indicare che vi sia stata una netta separazione tra il procedimento amministrativo sanzionatorio e il procedimento penale. Non si rileva nemmeno uno stretto nesso temporale tra i due procedimenti (fra i quali intercorre un intervallo di oltre un anno; inoltre, il procedimento penale è stato avviato dopo la conclusione di quello amministrativo, una volta divenuta definitiva la sanzione ivi irrogata). IV. Conclusione 126. Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di rispondere nei seguenti termini alle questioni pregiudiziali sollevate dal Tribunale di Bergamo (Italia): «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: – richiede per la sua applicazione la sussistenza dell’identità dei fatti materiali che, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica, costituiscono la base per l’adozione delle sanzioni tributarie e di quelle penali; – risulta violato qualora venga promosso un procedimento penale o inflitta una pena di tale natura a una persona già punita, in via definitiva, per lo stesso fatto con una sanzione tributaria quando quest’ultima, nonostante la sua denominazione, in realtà abbia carattere penale. Il giudice nazionale verificherà tale circostanza applicando i seguenti criteri: la qualificazione giuridica dell’illecito secondo il diritto interno; la sua natura, che deve essere valutata tenendo conto dell’obiettivo della norma, dei suoi destinatari e del bene giuridico da essa tutelato, nonché la natura e il grado di severità della sanzione». 1 Lingua originale: lo spagnolo. 2 C617/10 EU:C:2013:105 (in prosieguo: la «sentenza Åkerberg Fransson»). 3 CE:ECHR:2016:1115JUD002413011 (in prosieguo: la «sentenza A e B c. Norvegia»). 4 Decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 471, Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (GURI n. 5, dell’8 gennaio 1998 – Supplemento ordinario n. 4). 5 Decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 472, Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (GURI n. 5, dell’8 gennaio 1998 – Supplemento ordinario n. 4), che prevede all’articolo 13 la possibilità di ridurre le sanzioni per mancato pagamento di tributi. 6 Decreto legislativo del 10 marzo 2000, n. 74, Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (GURI n. 76, del 31 marzo 2000). 7 Decreto legislativo del 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23 (GURI n. 233, del 7 ottobre 2015 – Supplemento ordinario n. 55). 8 La sentenza è stata pronunciata in entrambe le cause il 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti (C217/15 e C350/15, EU:C:2017:264). 9 Questi tre procedimenti vertono parimenti sull’applicazione del principio del ne bis in idem ad
Rubrica di diritto europeo
41
ipotesi di cumulo di sanzioni penali e amministrative, ma in materia di abuso di mercato. 10 C217/15 e C350/15, EU:C:2017:264. 11 La nota esplicativa concernente tale disposizione indica che «[i]l paragrafo 3 intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la CEDU affermando la regola secondo cui, qualora i diritti della presente Carta corrispondano ai diritti garantiti anche dalla CEDU, il loro significato e la loro portata, comprese le limitazioni ammesse, sono identici a quelli della CEDU». 12 Rinvio alle opere di Van Bockel, B., The ne bis in idem principle in EU Law, Kluwer, 2010, e Van Bockel, B. (ed.), Ne Bis in Idem in EU Law, Cambridge University Press, 2016. V. anche Oliver, P., e Bombois, T., «Ne bis in idem en droit européen: un principe à plusieurs variantes», Journal de droit européen, 2012, pagg. da 266 a 272; e Tomkin, J., «Article 50, Right not to be tried or punished twice in criminal proceedings for the same criminal offence», in Peers, S., Hervey, T., Kenner, J., e Ward, A., The EU Charter of Fundamental Rights: a Commentary, Hart Publishing, Oxford, 2014, pagg. da 1373 a 1412. 13 V. conclusioni dell’avvocato generale Kokott presentate il 15 dicembre 2011 nella causa Bonda (C489/10, EU:C:2011:845, paragrafo 33 e ulteriori conclusioni ivi citate). 14 La fattispecie in discussione in quel caso era quasi identica a quella oggetto del presente procedimento: il sig. Åkerberg Fransson era stato sanzionato in via amministrativa per l’omesso versamento di somme ingenti a titolo di IVA e, al termine del relativo procedimento, ne era stato avviato un altro, questa volta penale, per gli stessi fatti. 15 La Corte si è dichiarata competente dato che erano applicabili gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1) nonché l’articolo 325 TFUE, trattandosi di un caso di attuazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Da allora non vi sono più dubbi sull’applicabilità della Carta a tali fattispecie. Per contro, le sanzioni tributarie e penali imposte in Italia per omesso versamento dell’imposta sul reddito non sono soggette all’applicazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, cosicché la Corte si è dichiarata manifestamente incompetente a risolvere una questione pregiudiziale con ordinanza del 15 aprile 2015, Burzio (C497/14, non pubblicata, EU:C:2015:251). 16 Sentenza Åkerberg Fransson, punto 37. 17 Ibidem, punto 34. 18 L’articolo 6 del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità (GU 1995, L 312, pag. 1), contiene disposizioni volte a garantire il rispetto del principio del ne bis in idem per evitare il cumulo delle sanzioni amministrative dell’Unione con sanzioni penali degli Stati membri. 19 Sentenze Åkerberg Fransson, punto 35, e del 5 giugno 2012, Bonda (C489/10, EU:C:2012:319, punto 37). Quest’ultimo caso verteva sul concorso tra un procedimento penale in Polonia e sanzioni amministrative dell’Unione europea applicate a taluni beneficiari di aiuti in materia agricola. 20 Alcuni autori hanno criticato la diversità tra gli approcci adottati dalla Corte nelle cause Bonda (sentenza del 5 giugno 2012, C489/10, EU:C:2012:319) e Åkerberg Fransson, giacché nella prima essa ha applicato direttamente i criteri Engel per stabilire che la sanzione amministrativa imposta agli agricoltori che percepivano aiuti illegittimi aveva carattere penale, mentre nella seconda ha demandato al giudice svedese l’utilizzo di tali criteri. V. Vervaele, J.A.E., «Ne bis in idem: ¿un principio transnacional de rango constitucional en la Unión Europea?», Indret: Revista para el Análisis del Derecho, 2014, n. 1, pag. 28. 21 Sentenza Åkerberg Fransson, punto 36. A seguito di tale sentenza, la Corte suprema svedese
42
Parte quarta
ha modificato la sua giurisprudenza e, in alcune sue decisioni di giugno e luglio del 2013, ha dichiarato che la normativa svedese che consentiva il cumulo di sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’IVA era in contrasto con il principio del ne bis in idem. 22 Sentenza dell’8 settembre 2015 (C105/14, EU:C:2015:555, punto 39). 23 Sentenze dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C105/14, EU:C:2015:555, punto 37), e Åkerberg Fransson (punto 26 e giurisprudenza citata). Il medesimo obbligo è sancito dall’articolo 2 della Convenzione stabilita in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea, relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, firmata a Lussemburgo il 26 luglio 1995 (GU 1995, C 316, pag. 48). Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il suo contenuto deve essere comunitarizzato ed è pendente la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, COM (2012) 363 final, dell’11 luglio 2012. Sembra che, dopo l’accordo politico del Consiglio, del 7 febbraio 2017, tale importante atto normativo possa essere adottato rapidamente. 24 Sentenza del 5 giugno 2012 (C489/10, EU:C:2012:319). 25 Lenaerts, K., e Gutiérrez Fons. J.A., «The place of the Charter in the EU institutional edifice», in Peers, S., Hervey, T., Kenner, J., e Ward, A., The EU Charter of Fundamental Rights:a Commentary, Hart Publishing, Oxford, 2014, pag. 1600. 26 In precedenza, la giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen aveva esercitato una certa influenza sulla giurisprudenza della Corte EDU, specialmente nella sentenza del 10 febbraio 2009, Zolotoukhin c. Russia (CE :ECHR:2009:0210JUD001493903), alla quale farò riferimento più avanti. 27 La Corte EDU, richiamando espressamente la sentenza Åkerberg Fransson, ha menzionato anche la convergenza dei due giudici europei sulla valutazione della natura penale di un procedimento tributario e, a fortiori, sulle modalità di applicazione del principio del ne bis in idem in materia tributaria e penale. V. sentenza del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:2015:0430JUD000345312, § 73). 28 Garin, A., «Non bis in idem et Convention européenne des droits de l’homme. Du nébuleux au clair-obscur: état des lieux d’un principe ambivalent», Revue trimestrielle de droits de l’homme, 2016, pagg. da 402 a 410. 29 Corte EDU, decisione del 26 aprile 2005, Põder e a. c. Estonia (CE:ECHR:2005:04 26DEC006772301), confermata con decisione del 2 novembre 2010, Liepājnieks c. Lettonia (CE:ECHR:2010:1102DEC003758606, § 45). 30 Corte EDU, sentenza del 4 marzo 2014, CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, §§ da 204 a 211. In precedenza, la Corte EDU ha del pari ritenuto invalida la riserva austriaca, nella sentenza del 23 ottobre 1995, Gradinger c. Austria, CE:ECHR:1995:1023JUD001596390. 31 Corte EDU, decisione del 14 settembre 1999, Ponsetti e Chesnel c. Francia, CE:ECHR:1999:0914DEC003685597. 32 Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, firmata a Schengen il 19 giugno 1990 (GU 2000, L 239, pag. 19). V., tra le altre, sentenze dell’11 febbraio 2003, Gözütok e Brügge (C187/01 e C385/01, EU:C:2003:87); del 10 marzo 2005, Miraglia (C469/03, EU:C:2006:156); del 9 marzo 2006, Van Esbroeck (C436/04, EU:C:2006:165); del 28 settembre 2006, Van Straaten (C150/05, EU:C:2006:614), e del 27 maggio 2014, Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:586). 33 Corte EDU, sentenza del 10 febbraio 2009 (CE:ECHR:2009:0210JUD001493903). 34 Corte EDU, sentenza del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia (CE:ECHR:2009:0210JUD001493903, §§ 82 e 84).
Rubrica di diritto europeo
43
35 Corte EDU, sentenze del 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, §§ da 219 a 228); del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520JUD001182811, § 42); del 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia (CE:ECHR:2015:0127JUD001703913, §§ 44 e 45), e del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:2015:0430JUD000345312, §§ da 62 a 64). 36 § 108. 37 Alcuni autori parlano di «criministrative law». V., ad esempio, Bailleux, A., «The Fiftieth Shade of Grey. Competition Law, “criministrative law» and “Fairly Fair Trials»», in Galli, F., e Weyembergh, A. (ed.), Do labels still matter? Blurring boundaries between administrative and criminal law – The influence of the EU, editions de l’ULB, Bruxelles, 2014, pag. 137. 38 Corte EDU, sentenza dell’8 giugno 1976 (CE:ECHR:1976:0608JUD000510071, § 82). 39 Corte EDU, sentenza del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia (CE:ECHR:2015:0210JUD005375312, § 30 e giurisprudenza citata). 40 V., inter alia, Corte EDU, sentenze del 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia (CE:ECHR:2016:0609JUD006660209, § 31), e del 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, §§ 30 e 31). 41 Sentenza A e B c. Norvegia, §§ da 105 a 107. 42 Corte EDU, sentenza del 2 settembre 1998, Lauko c. Slovacchia (CE:ECHR:1998:0902J UD002613895), § 58. 43 Corte EDU, sentenza del 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, § 38). 44 Corte EDU, sentenze del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia (CE:ECHR:2009:0210JUD001493903, § 55), e del 25 giugno 2009, Maresti c. Croazia (CE:ECHR:2009:0625JUD005575907, § 59). 45 Corte EDU, sentenze del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia (CE:ECHR:2009:0210JUD001493903, § 55), e del 25 giugno 2009, Maresti c. Croazia (CE:ECHR:2009:0625JUD005575907, § 59). 46 Corte EDU, sentenza dell’8 giugno 1976, Engel e a. c. Paesi Bassi, (CE:ECHR:1976:1123JUD000510071, § 82). 47 Corte EDU, sentenza del 31 maggio 2011, Žugić c. Croazia (CE:ECHR:2011:0531JUD000369908, § 68). 48 V., inter alia, Corte EDU, sentenze del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia (CE:ECH R:2014:0520JUD001182811); del 20 maggio 2014, Häkkä c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520J UD000075811); del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia (CE:ECHR:2015:0210JUD005375312), e del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:2015:0430JUD000345312). 49 Corte EDU, sentenze del 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, §§ 37 e 38); del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520JUD001182811, § 40), e del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia (CE:ECHR:2015:0210JUD005375312, § 31). 50 Corte EDU, sentenze del 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 98); dell’11 settembre 2009, Dubus S.A. c. Francia (CE:ECHR:2009:0611JUD000524204, § 37), e del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:2015:0430JUD000345312, § 55). 51 Corte EDU, sentenza del 18 ottobre 2011, Tomasovic c. Croazia (CE:ECHR:2011:1018JUD005378509, § 23).
44
Parte quarta
52 Corte EDU, sentenza del 18 ottobre 2001, Finkelberg c. Lettonia (CE:ECHR:2001:1018D EC005509100). 53 La Corte EDU considera che il principio del ne bis in idem è violato nel caso in cui le autorità tributarie abbiano imposto ammende o aggravi di imposta mentre i giudici penali avevano assolto i trasgressori in procedimenti penali paralleli o successivi (sentenze del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia, CE:ECHR:2015:0430JUD000345312, e del 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia, CE:ECHR:2016:0609JUD006660209). 54 § 119. 55 § 130. 56 Sentenza A e B. c. Norvegia, § 132: «Les éléments pertinents (…) sont notamment les suivants» (il corsivo è mio). L’elenco dei criteri, dunque, non è esaustivo, come osservato dal governo ceco nella sua risposta ai quesiti scritti della Corte. 57 Sentenza A e B c. Norvegia, § 133. 58 Sentenza A e B c. Norvegia, § 134. 59 CE:ECHR:2017:0518JUD002200711. 60 Come precedentemente esposto, la giurisprudenza della CEDU ha neutralizzato, in gran parte, gli effetti delle riserve o dichiarazioni di alcuni Stati (tra cui l’Italia) relative all’articolo 4 del protocollo n. 7. 61 Ricordo che l’avvocato generale Cruz Villalón aveva sostenuto, al paragrafo 85 delle sue conclusioni nella causa Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2012:340), un’interpretazione parzialmente autonoma dell’articolo 50 della Carta, dopo avere affermato che «l’obbligo di interpretare la Carta alla luce della CEDU de[ve] essere attenuato quando il diritto fondamentale in questione, o un aspetto dello stesso (come nel caso dell’applicabilità dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU alla duplice sanzione amministrativa e penale), non è stato pienamente incorporato dagli Stati membri». V., nel medesimo contesto, van Bockel, B. e Wattel, P., «New wine into old wineskins: the scope of the Charter of Fundamental Rights of the EU after Åkerberg Fransson», European Law Review, 2013, pag. 880. 62 Certamente, uno Stato membro può essere indotto, in tal modo, a rispettare le norme di un protocollo (e la giurisprudenza della Corte EDU che lo interpreta), ma solo nella misura in cui esse si «integrino» nel contenuto del diritto tutelato della Carta, in ambiti ricompresi nel campo di applicazione dell’articolo 51 della stessa. Naturalmente, uno Stato membro non può far valere l’assenza di ratifica o le riserve a un protocollo allegato alla CEDU in quanto motivo per non applicare un diritto disciplinato dalla Carta, il cui contenuto sia analogo all’omonimo diritto tutelato in forza di detto protocollo. 63 Tale posizione è stata sostenuta anche dall’avvocato generale Jääskinen nelle conclusioni relative alla causa Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:739, paragrafo 63). 64 La sentenza A e B c. Norvegia, adottata da un’ampia maggioranza di giudici della Grande Camera (16 su 17), contiene il parere dissenziente del giudice Pinto de Alburquerque, il quale la censura in termini particolarmente aspri. 65 Il che spiega le riserve presentate in relazione all’articolo 4 del protocollo n. 7. 66 La nota esplicativa relativa all’articolo 52 precisa che, secondo la regola di interpretazione del paragrafo 4, «piuttosto che in un’impostazione rigida basata sul “minimo comun denominatore”, i diritti in questione sanciti dalla Carta dovrebbero essere interpretati in modo da offrire un elevato livello di tutela che sia consono al diritto dell’Unione e in armonia con le tradizioni costituzionali comuni». 67 Nella sentenza A e B c. Norvegia, la Corte EDU richiama taluni precedenti (in particolare la
Rubrica di diritto europeo
45
causa Nilsson c. Svezia, sentenza del 13 dicembre 2015, CE:ECHR:2005:1213DEC007366101) nei quali avrebbe fatto riferimento al nesso materiale e temporale tra diversi procedimenti sanzionatori. Tuttavia, ritengo che il sostanziale mutamento di orientamento giurisprudenziale sia effettivamente intervenuto nella sentenza A e B c. Norvegia. 68 Sentenza A e B c. Norvegia, § 130. 69 Sentenza A e B c. Norvegia, §§ da 119 a 124. Sulla base dell’autonomia di cui dispongono gli Stati per organizzare il loro ordinamento giuridico, la Corte EDU ha dichiarato che essi devono essere liberi di fornire risposte giuridicamente complementari rispetto al medesimo fatto illecito, mediante procedimenti differenziati gestiti da autorità diverse, purché tali risposte costituiscano un insieme coerente e non comportino un onere eccessivo per l’interessato. Così, la Corte EDU riconosce che l’articolo 4 del protocollo n. 7 non deve impedire agli Stati di reagire di fronte agli illeciti tributari mediante un procedimento amministrativo sanzionatorio e un procedimento penale per frode fiscale, se il loro svolgimento e le sanzioni imposte negli stessi sono sufficientemente integrati. 70 A tale proposito, la Corte EDU fonda il suo ragionamento sulle conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón nella causa Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2012:340, paragrafo 70), il quale ha richiamato le differenze tra i diritti nazionali e ha fatto riferimento alla circostanza che il cumulo di sanzioni amministrative e penali è radicato nel diritto interno di molti Stati. 71 Sentenze Åkerberg Fransson, punto 44; del 15 febbraio 2016, N. (C601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 45); del 28 luglio 2016, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a. (C543/14, EU:C:2016:605, punto 23); del 6 ottobre 2016, Paoletti e a. (C218/15, EU:C:2016:748, paragrafo 21), e del 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti (C217/15 e C350/15, EU:C:2017:264, punto 15). 72 Le spiegazioni relative all’articolo 52 della Carta precisano che il paragrafo 3 di detto articolo intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta stessa e la CEDU, «senza che ciò pregiudichi l’autonomia del diritto dell’Unione e della Corte di giustizia dell’Unione europea» (sentenza del 15 febbraio 2016, N., C601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 47). Come previsto dall’articolo 52, paragrafo 3, seconda frase, della Carta, l’articolo 52, paragrafo 3, prima frase, di quest’ultima non osta a che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa di quella offerta dalla CEDU (sentenza del 21 dicembre 2016, Tele2 Sverige e Watson e a., C203/15 e C689/15, EU:C:2016:970, punto 129). 73 Sentenza del 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti (C217/15 e C350/15, EU:C:2017:264, paragrafo 24). V. altresì, per analogia, sentenza del 15 febbraio 2016, N (C601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 77). 74 Non è possibile derogare all’articolo 4 del protocollo n. 7 neppure in applicazione della clausola generale dello stato di emergenza di cui all’articolo 15 della CEDU, che menziona il caso della guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. 75 Sentenza del 27 maggio 2014, Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:586, punto 55). 76 Sentenza del 27 maggio 2014, Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:586, punto 56). 77 C105/14, EU:C:2015:555, punto 40. 78 In questi casi è generalmente previsto che l’Amministrazione finanziaria trasmetta gli atti al pubblico ministero affinché promuova l’azione penale, e il procedimento amministrativo sanzionatorio si conclude senza l’irrogazione di sanzioni tributarie. 79 I criteri per individuare la disposizione applicabile dipenderanno dai rispettivi codici penali o dalle leggi nazionali ad essi assimilate. Fra tali criteri figurano quello di specialità (la norma speciale prevale su quella generale), quello di sussidiarietà (la norma sussidiaria si applica in mancanza della norma principale) e quello della consunzione o dell’assorbimento (la norma più ampia assorbe quelle che puniscono le violazioni rientranti nel suo ambito di applicazione).
46
Parte quarta
80 È appena il caso di rilevare che la risposta repressiva – o il proscioglimento dell’imputato – non pregiudica la facoltà dell’Amministrazione finanziaria di liquidare la somma dovuta, aggiungendo a tale importo gli interessi di mora o altri aggravi che non abbiano natura materialmente penale. 81 Richiamano tale situazione, tra i tanti, Dova, M., «Ne bis in idem e reati tributari: a che punto siamo?», Diritto penale contemporaneo, 9 febbraio 2016; Viganò, F., «Omesso versamento di IVA e diretta applicazione delle norme europee in materia di ne bis in idem?», Diritto penale contemporaneo, 11 luglio 2016. 82 Sentenza del 27 maggio 2014 (C129/14 PPU, EU:C:2014:586). 83 Corte EDU, sentenza del 10 febbraio 2009, CE:ECHR:2009:0210JUD001493903. 84 Il principio del ne bis in idem deve essere rispettato nell’ambito del diritto della concorrenza e vieta che un’impresa venga condannata o perseguita un’altra volta per un comportamento anticoncorrenziale per il quale sia stata sanzionata o dichiarata non responsabile in forza di una precedente decisione non impugnabile (sentenza del 15 ottobre 2002, Limburgse Vinyl Maatschappij e a./Commissione, C238/99 P, C244/99 P, C245/99 P, C247/99 P, da C250/99 P a C252/99 P e C254/99 P, EU:C:2002:582, punto 59). 85 Sentenze del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione (C204/00 P, C205/00 P, C211/00 P, C213/00 P, C217/00 P e C219/00 P, EU:C:2004:6, punto 338), e del 14 febbraio 2012, Toshiba Corporation e a. (C17/10, EU:C:2012:72, punto 97). 86 In udienza, la Commissione ha sostenuto che la Corte non si pronuncia sul requisito dell’idem, imponendo di prendere in considerazione l’idem factum in generale per tutti gli ambiti del diritto dell’Unione. A suo parere, in ambiti come quello del diritto della concorrenza, nei quali possono coesistere un procedimento amministrativo sanzionatorio nazionale e un altro procedimento avviato dalla Commissione, occorrerebbe riconoscere l’idem crimen per valutare l’identità dei fatti, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem. L’unità dell’interesse giuridico tutelato sarebbe quindi rilevante e la Commissione ha chiesto alla Corte di non modificare nella presente causa la sua giurisprudenza citata nella nota precedente, in attesa di altri casi più pertinenti in cui esaminare tale questione. 87 Corte EDU, sentenza del 10 febbraio 2009, CE:ECHR:2009:0210JUD001493903. 88 Cassazione penale, Sezioni unite, n. 37424, del 12 settembre 2013. Secondo il ragionamento della Corte di cassazione «(…) [n]ell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, il presupposto è costituito dal compimento di operazioni imponibili comportanti l’obbligo di effettuare il versamento periodico dell’IVA (...), la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento periodico dell’IVA, e il termine per l’adempimento è fissato al giorno sedici del mese (o trimestre) successivo a quello di maturazione del debito IVA (…). Nell’illecito penale di cui all’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il presupposto è costituito sia dal compimento di operazioni imponibili comportanti l’obbligo di effettuare il versamento periodico dell’IVA (...), sia dalla presentazione (...) della dichiarazione annuale IVA relativa all’anno precedente (…); la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a [EUR 50 000], dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale; il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto per il versamento dell’acconto IVA relativo al periodo di imposta successivo». 89 mSecondo la Corte suprema di cassazione, una parte dei presupposti (compimento di operazioni imponibili comportanti l’obbligo di effettuare il versamento periodico dell’IVA) coincide con la condotta (omissione di uno o più dei versamenti periodici dovuti), ma gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti che essa definisce essenziali (la presentazione della dichiarazione annuale IVA e la soglia minima dell’omissione, richieste per il solo illecito penale e il termine di
Rubrica di diritto europeo
47
riferimento temporale). Essa ritiene pertanto che questi due illeciti si articolino in termini di rapporto di «progressione illecita», sicché quello penale costituisce sostanzialmente una violazione molto più grave di quello amministrativo e, pur contenendo necessariamente quest’ultimo (senza una violazione del termine periodico mancherebbe uno dei presupposti del reato), lo arricchisce di elementi essenziali, quali la soglia e il termine allungato, che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità (che, ove operante, riguarderebbe il solo illecito penale). 90 V. paragrafi da 39 a 42 delle presenti conclusioni. 91 Nella controversia dalla quale ha tratto origine la presente questione pregiudiziale non sembra che vi siano dubbi circa il carattere definitivo delle sanzioni imposte dalle autorità italiane. Tuttavia, spetta al giudice remittente stabilire se, conformemente al suo diritto nazionale, le decisioni dell’autorità tributaria italiana siano definitive e abbiano statuito nel merito della causa. 92 Sentenza Åkerberg Fransson, punto 34. 93 I giudici di uno stesso Stato membro possono giungere a soluzioni diverse e perfino contraddittorie. In Italia, come ho già ricordato, la Corte suprema di cassazione ha considerato compatibile con la sentenza Åkerberg Fransson e i criteri Engel il sistema del doppio binario (amministrativo e penale) di sanzioni dell’omesso pagamento dell’IVA, mentre il giudice del rinvio sembra sostenere la posizione contraria. 94 V. paragrafo 46 delle presenti conclusioni. 95 V. paragrafo 47 delle presenti conclusioni. 96 V. le sentenze della Corte EDU citate alle note 43 e 44. 97 C489/10, EU:C:2012:319, punti da 39 a 42. 98 V., inter alia, Corte EDU, sentenze del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520JUD001182811, §§ 39 e 40); del 10 febbraio 2015, Häkkä c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520JUD000075811, §§ 38 e 39); del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia (CE :ECHR:2015:0210JUD005375312), e del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:201 5:0430JUD000345312). La dottrina qualifica tali misure come «punitive administrative sanctions», ponendo in rilievo che esse condividono con le sanzioni penali tanto lo scopo punitivo, inteso in senso lato, quanto il contenuto, sotto forma di pagamento di una somma di denaro e/o di privazione di diritti quali esercitare una professione o partecipare a gare d’appalto pubbliche [Weyembergh, A., e Joncheray, N., «Punitive Administrative Sanctions and Procedural Safeguards», New Journal of European Criminal Law, 2016, n. 2, pagg. da 194 a 199; Caeiro, P., «The influence of the EU on the blurring between administrative and criminal law», in Galli, F.; Weyembergh, A. (ed.), Do labels still matter? Blurring boundaries between administrative and criminal law – The influence of the EU, editions de l’ULB, Bruxelles, 2014, pag. 174. 99 nel dibattito accademico (in alcuni casi filosofico) circa il fondamento, la giustificazione e lo scopo, o gli scopi, delle pene prosegue da secoli, con teorie divergenti, alcune delle quali pongono l’accento sugli elementi retributivi e altre sugli effetti preventivi (prevenzione generale o prevenzione speciale) o deterrenti. Una controversia analoga, storicamente più recente ma parimenti irrisolta, riguarda l’esistenza di criteri qualitativi che inducano a distinguere gli illeciti penali da quelli meramente amministrativi, altra questione sulla quale non vi è consenso. È veramente difficile individuare tali criteri qualitativi quando, come nel caso delle violazioni e dei reati tributari del caso di specie, l’omesso versamento dell’IVA per un importo superiore a EUR 250 000 ha carattere penale e lo stesso omesso versamento, ma per un importo di EUR 249 000, non lo ha. 100 Il governo italiano lo ha confermato in udienza, poiché il suo diritto contempla la rinuncia (totale o parziale) all’esercizio dell’azione penale in alcuni casi, a determinate condizioni, e la con-
48
Parte quarta
clusione di «accordi» tra il pubblico ministero e l’imputato, che consentono di evitare lo svolgimento del processo. In alcuni Stati membri esistono meccanismi di sconto di pena per gli imputati che, dopo l’inizio del procedimento penale, saldino il debito tributario o collaborino all’inchiesta giudiziaria. 101 V. sentenze della Corte EDU citate alla nota 45 delle presenti conclusioni. 102 C105/14, EU:C:2015:555, punto 40. 103 L’applicazione di una sanzione tributaria, definitiva, alla frode osterebbe alla successiva sanzione penale, cosicché i contribuenti con maggiori disponibilità economiche sarebbero tentati di non pagare l’IVA, sapendo di esporsi solo a una sanzione pecuniaria ma non a sanzioni penali, qualora l’Amministrazione ne scoprisse la condotta illecita. 104 Corte EDU, sentenze del 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, §§ da 37 a 38); del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia (CE:ECHR:2014:0520JUD001182811, § 40), e del 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia (CE:ECHR:2015:0210JUD005375312, § 31.) 105 Ho già ricordato, peraltro, che la natura e il grado di severità della sanzione devono essere accertati valutando la possibilità di applicarla integralmente, cioè senza tenere conto dell’importo finale, qualora, in un caso specifico, tale importo sia stato ridotto per effetto di sconti concessi dall’Amministrazione finanziaria. V. Corte EDU, sentenze del 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 98); dell’11 settembre 2009, Dubus S.A. c. Francia (CE:ECHR:2009:0611JUD000524204, § 37), e del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia (CE:ECHR:2015:0430JUD000345312, § 55). 106 Sentenza del 27 maggio 2014, C129/14
II CONCLUSIONI dell’AVVOCATO GENERALE M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA presentate il 12 settembre 2017 in Causa C-537/16 (1) Imposta sul valore aggiunto – Sanzioni – Omesso versamento - Condotte di manipolazione del mercato – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti – Violazione del principio del ne bis in idem Garlsson Real Estate SA, in liquidazione, Stefano Ricucci, Magiste International SA contro Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema di cassazione (Italia)] «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Direttiva 2003/6/CE – Condotte di manipolazione del mercato – Normativa nazionale che prevede una sanzione amministrativa e una sanzione penale per gli stessi fatti – Violazione del principio del ne bis in idem»
Rubrica di diritto europeo
49
I. Contesto normativo A. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (in prosieguo: la «CEDU») 3. Il protocollo n. 7 integrativo della CEDU, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 (in prosieguo: il «protocollo n. 7»), disciplina, all’articolo 4, il «diritto di non essere giudicato o punito due volte», nei seguenti termini: (Omissis) (vedi causa Menci) B. Diritto dell’Unione 1. Carta dei diritti fondamentali 4. Ai sensi dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»): «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». (Omissis) (vedi causa Menci) 2. Diritto derivato in materia di abusi di mercato a) Direttiva 2003/6 6. Il trentottesimo considerando così recita: «Al fine di garantire l’adeguatezza del quadro comunitario di contrasto agli abusi di mercato, ogni violazione dei divieti o degli obblighi fissati dalla presente direttiva dovrà essere tempestivamente scoperta e sanzionata. A tal fine le sanzioni dovrebbero essere sufficientemente dissuasive, proporzionate alla gravità della violazione e agli utili realizzati e dovrebbero essere applicate coerentemente». 7. L’articolo 5 così stabilisce: «Gli Stati membri vietano a qualsiasi persona fisica o giuridica di porre in essere manipolazioni del mercato». 8. Ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1: «Fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive». b) Regolamento n. 596/2014 9. Conformemente al settantunesimo considerando: «(...) è opportuno prevedere una serie di sanzioni amministrative e altre misure amministrative per assicurare un approccio comune negli Stati membri e potenziarne l’effetto deterrente. L’autorità competente dovrebbe avere la possibilità di escludere una persona dall’esercizio di funzioni di gestione in una società di investimento. Le sanzioni imposte in casi specifici dovrebbero essere determinate tenendo conto, se del caso, di fattori appropriati come la restituzione dei benefici finanziari individuati, la gravità e durata della viola-
50
Parte quarta
zione, eventuali circostanze aggravanti o attenuanti, la necessità che le ammende abbiano un effetto deterrente e, se opportuno, prevedere una riduzione dell’ammenda in caso di collaborazione con l’autorità competente. In particolare, l’importo effettivo delle sanzioni amministrative da applicare in un caso specifico può raggiungere il livello massimo previsto dal presente regolamento o un livello più elevato previsto dal diritto nazionale, per le violazioni molto gravi, mentre ammende significativamente inferiori al livello massimo possono essere applicate alle violazioni meno gravi o in caso di composizione. Il presente regolamento non dovrebbe limitare la facoltà, per gli Stati membri, di prevedere livelli più elevati di sanzioni amministrative o altre misure amministrative». 10. Il settantaduesimo considerando così recita: «Anche se nulla osta a che gli Stati membri stabiliscano regole per sanzioni amministrative oltre che sanzioni penali per le stesse infrazioni, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a stabilire regole in materia di sanzioni amministrative riguardanti violazioni del presente regolamento che sono già soggette al diritto penale nazionale, entro il 3 luglio 2016. Conformemente al diritto nazionale, gli Stati membri non sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato, ma possono farlo se il loro diritto nazionale lo consente. Tuttavia, il mantenimento delle sanzioni penali in luogo delle sanzioni amministrative per le violazioni del presente regolamento o della direttiva 2014/57/UE non dovrebbe ridurre o incidere altrimenti sulla capacità delle autorità competenti di cooperare, di avere accesso a informazioni o di scambiare informazioni tempestivamente con le autorità competenti di altri Stati membri ai fini del presente regolamento, anche dopo che le autorità giudiziarie competenti per l’azione penale siano state adite per le violazioni in causa». (Omissis) c) Direttiva 2014/57 15. Conformemente ai considerando 22, 23 e 27: «(22) Gli obblighi previsti nella presente direttiva di prevedere negli ordinamenti nazionali pene per le persone fisiche e sanzioni per le persone giuridiche non esonerano gli Stati membri dall’obbligo di contemplare in tali ordinamenti nazionali sanzioni amministrative e altre misure per le violazioni previste nel regolamento (UE) n. 596/2014, salvo che gli Stati membri non abbiano deciso, conformemente al regolamento (UE) n. 596/2014, di prevedere per tali violazioni unicamente sanzioni penali nel loro ordinamento nazionale. (23) L’ambito di applicazione della presente direttiva è determinato in modo tale da integrare e garantire l’effettiva attuazione del regolamento (UE) n. 596/2014. Mentre le condotte illecite commesse con dolo dovrebbero essere punite conformemente alla presente direttiva, almeno nei casi gravi, le sanzioni per le violazioni del regolamento (UE) n. 596/2014 non richiedono che sia comprovato il dolo o che gli illeciti siano qualificati come gravi. Nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi dalla presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem. (...)
Rubrica di diritto europeo
51
(27) La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la Carta), quali riconosciuti nel TUE. In particolare, dovrebbe essere applicata con il dovuto rispetto del diritto (…) di non essere giudicato o punito due volte in procedimenti penali e per lo stesso reato (articolo 50)». 16. Ai sensi dell’articolo 5: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché la manipolazione del mercato di cui al paragrafo 2 costituisca reato, almeno nei casi gravi e se commessa con dolo. (Omissis) C. Diritto italiano 18. Il decreto legislativo n. 58/1998, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (in prosieguo: il «TUF»), al suo articolo 185, primo e secondo comma, stabilisce quanto segue: «1. Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni. 2. Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo». 19. L’articolo 187 ter, primo comma, del TUF(7) così dispone: «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro centomila a euro venticinque milionichiunque, tramite mezzi di informazione, compreso Internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari». 20. L’articolo 187 ter, terzo comma, lettera c), del TUF prevede che, fatte salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con le stesse sanzioni amministrative pecuniarie chiunque pone in essere «operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o di espediente». (Omissis) 23. L’articolo 649 («Divieto di un secondo giudizio») del codice di procedura penale, dispone quanto segue: «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345». II. Procedimento nazionale e questione pregiudiziale 24. Il 9 settembre 2007 la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (in prosieguo: la «Consob») irrogava una sanzione amministrativa pecuniaria di EUR 10 200 000 nei confronti del sig. Stefano Ricucci e di altre due società da lui amministrate (Magiste Inter-
52
Parte quarta
national SA e Garlsson Real Estate SA), quali obbligate in solido. I fatti addebitati, avvenuti nel 2005, venivano qualificati come condotte di manipolazione del mercato, ai sensi degli articoli 187 ter, terzo comma, lettera c), e 187 quinquies, primo comma, lettera a), del TUF. 25. Il sig. Ricucci e le due società impugnavano la sanzione amministrativa dinanzi alla Corte d’appello di Roma (Italia) che, con sentenza del 2 gennaio 2009, riduceva la medesima a EUR 5 000 000. 26. Avverso tale sentenza tutte le parti interessate presentavano ricorso dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia). Nello specifico, nel proprio ricorso in cassazione il sig. Ricucci deduceva, come elemento significativo, di essere già stato condannato per i medesimi fatti con sentenza penale definitiva del 10 dicembre 2008 pronunciata dal Tribunale di Roma (Italia). 27. Infatti, parallelamente, il sig. Ricucci era stato sottoposto a un procedimento penale per i medesimi fatti(8) a titolo dei quali gli era stata comminata la sanzione amministrativa. Il procedimento penale si era concluso con sentenza di patteggiamento del 10 dicembre 2008, con cui il Tribunale di Roma aveva condannato il sig. Ricucci a una pena detentiva di quattro anni e sei mesi, ridotta a tre anni per la scelta del rito, e a varie pene accessorie(9). La pena era stata successivamente estinta in seguito alla concessione dell’indulto ai sensi della legge n. 241/06. 28. La sentenza (penale) del 10 dicembre del 2008 era passata in giudicato l’11 settembre 2009, in seguito al rigetto da parte della Corte suprema di cassazione del ricorso per cassazione avverso la medesima. 29. Nella trattazione del ricorso per cassazione presentato contro la sentenza del 2 gennaio 2009, la Corte suprema di cassazione aveva disposto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale (Italia) affinché si pronunciasse in ordine alla costituzionalità dell’articolo 187 ter, primo comma, del TUF. 30. Tuttavia, con sentenza n. 102 del 12 maggio 2016, la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale(10). Con riferimento a detta pronuncia, il giudice del rinvio indica nella sua ordinanza che la mancata previsione, nell’ordinamento nazionale, dell’estensione del principio del ne bis in idem anche ai rapporti tra sanzioni penali e sanzioni amministrative di natura penale appare non conforme ai principi del diritto dell’Unione. Non sarebbe ammissibile, in base ai principi sovranazionali, la previsione del doppio binario e, quindi, della cumulabilità tra sanzione penale e sanzione amministrativa, applicate in processi diversi, qualora quest’ultima abbia natura di sanzione penale. 31. Pertanto, la Corte suprema di cassazione ritiene che la celebrazione e la definizione del procedimento amministrativo, successivamente alla sentenza penale emessa nei confronti del sig. Ricucci, possano rappresentare una violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 50 della Carta, alla luce della sentenza della Corte del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson(11), e della giurisprudenza della Corte EDU (sentenze del 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, del 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, e del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia)
Rubrica di diritto europeo
53
32. In questo contesto, essa sottopone alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la previsione dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, interpretato alla luce dell’articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della normativa nazionale, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per cui il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile. 2) Se il giudice nazionale possa applicare direttamente i principi unionali in relazione al principio del “ne bis in idem”, in base all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, interpretato alla luce dell’articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU, della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della normativa nazionale». (Omissis) III. Analisi delle questioni pregiudiziali 35. Prima di proporre una risposta alle due questioni pregiudiziali, ritengo opportuno formulare due precisazioni. La prima è che non sussistono dubbi circa l’applicabilità dell’articolo 50 della Carta alla causa in esame, giacché la normativa nazionale sugli abusi di mercato, in virtù della quale sono state irrogate le sanzioni controverse, è stata adottata dallo Stato italiano per recepire la direttiva 2003/6 all’interno del diritto nazionale. 36. Infatti, l’ambito di applicazione della Carta, relativamente all’operato degli Stati membri, è definito nel suo articolo 51, paragrafo 1, secondo cui le disposizioni della Carta si applicano ad essi esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. I diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati nell’applicazione delle norme interne che, a loro volta, rispecchiano norme dell’Unione o derivano da esse(12). Per contro, la Corte non è competente a statuire su una situazione giuridica che esula da detto ambito e le disposizioni della Carta non possono giustificare di per sé tale competenza(13). 37. Una seconda precisazione riguarda la scelta del legislatore italiano di introdurre, nel 2005, un sistema di duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni (amministrative e penali) per reprimere le condotte di abuso di mercato, in attuazione della direttiva 2003/6. 38. Come esposto dal giudice del rinvio, tale sistema di doppio binario, amministrativo e penale (doppio binario sanzionatorio), mostra talune caratteristiche che lo rendono difficilmente compatibile con il ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta. Qualora tale sistema fosse stato introdotto dalla direttiva 2003/6, occorrerebbe considerare la sua possibile nullità, proprio per l’eventuale violazione dell’articolo 50 della Carta. 39. A mio giudizio, tuttavia, la direttiva 2003/6 non costringe gli Stati membri ad applicare un sistema di doppio binario, amministrativo e penale, per reprimere questa sorta di condotte illecite. Pertanto, non ritengo che essa sia incompatibile con l’articolo 50 della Carta(14). 40. Ciò precisato, analizzerò, in primo luogo, la normativa dell’Unione sugli abusi di mercato sotto il profilo del ne bis in idem, per poi illustrare, sinteticamente, la portata dell’articolo 50 della Carta. Infine, proporrò le risposte da fornire alle due questioni sottoposte dal giudice del rinvio.
54
Parte quarta
A. La normativa dell’UE sugli abusi di mercato e il principio del ne bis in idem 41. La direttiva 2003/6 vieta gli abusi di mercato, al fine di preservare l’integrità dei mercati finanziari e accrescere la fiducia degli investitori. A costoro occorre garantire la possibilità di operare in condizioni di parità e di essere tutelati dall’uso illecito di informazioni privilegiate(15). 42. L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 impone agli Stati di punire tali condotte illecite con sanzioni sufficientemente dissuasive, efficaci e proporzionate (16). Benché non li obblighi a prevedere sanzioni necessariamente penali nei confronti degli autori di abusi di informazioni privilegiate, nemmeno lo vieta. Inoltre, secondo la Corte, «considerata la natura delle violazioni di cui trattasi, nonché dato il grado di severità delle sanzioni che esse possono comportare, siffatte sanzioni, ai fini dell’applicazione della CEDU, possono essere qualificate come sanzioni penali»(17). 43. La direttiva 2003/6 non menziona il principio del ne bis in idem né la necessità di strutturare sulla base di quest’ultimo i rapporti fra la repressione amministrativa e il perseguimento penale delle condotte di abuso di mercato. Dal suo silenzio non può, tuttavia, inferirsi che essa auspichi l’adozione di un sistema basato su un doppio binario per la punizione di tali condotte. La direttiva riconosce agli Stati un’ampia libertà nel configurare il rapporto di queste sanzioni amministrative con quelle penali e non osta a che gli Stati prevedano meccanismi atti ad assicurare il rispetto del diritto al ne bis in idem, in modo da evitare la duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni. 44. Il diritto derivato dell’Unione in materia di abusi di mercato è stato profondamente innovato con l’adozione del regolamento n. 596/2014 (che ha sostituito la direttiva 2003/6) e della direttiva 2014/57, la quale armonizza le sanzioni penali che gli Stati membri possono applicare a questo tipo di condotte. Malgrado la loro inapplicabilità alla causa in esame, per le ragioni temporali già illustrate, entrambi gli atti consentono di trarre utili indicazioni per la causa medesima. 45. Per quanto concerne la via amministrativa, il regolamento n. 596/2014 rafforza notevolmente i poteri di controllo, investigativi e sanzionatori delle autorità nazionali. Nello specifico, il suo articolo 30, paragrafo 2, consente agli Stati membri di adottare sanzioni e misure amministrative particolarmente onerose(18). 46. Malgrado la loro qualificazione formale, alcune di tali sanzioni nominalmente amministrative hanno natura sostanzialmente penale, conformemente ai cosiddetti criteri Engel elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU(19), adottati dalla Corte nelle sue sentenze Bonda(20) e Åkerberg Fransson(21). Come già anticipato, nella sentenza Spector Photo Group e Van Raemdock la Corte ha riconosciuto che, considerata la loro severità e la natura delle violazioni che intendono reprimere, siffatte sanzioni possono essere qualificate come sanzioni penali(22). 47. Proprio tale circostanza (ossia che alcune delle sanzioni amministrative previste nel regolamento n. 596/2014 abbiano, in realtà, natura penale) pone il problema della loro compatibilità con le sanzioni penali applicabili alle medesime condotte di abuso di mercato, ai sensi della direttiva 2014/57, sotto il profilo del diritto al ne bis in idem.
Rubrica di diritto europeo
55
48. Il regolamento n. 596/2014 non indica nulla espressamente a tal proposito. Ciononostante, il suo articolo 30, paragrafo 1, secondo comma, autorizza gli Stati membri a decidere di non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative se le violazioni sono già soggette a sanzioni penali nel rispettivo diritto nazionale entro il 3 luglio 2016. In tal caso, essi dovranno comunicare dettagliatamente alla Commissione e all’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati le pertinenti norme di diritto penale(23). 49. A differenza del regolamento n. 596/2014, la direttiva 2014/57 fa esplicito riferimento al ne bis in idem nei suoi considerando 23 e 27 riportati supra(24). Essa ammonisce in modo imperativo che l’irrogazione di sanzioni penali (ai sensi della direttiva medesima) e di sanzioni amministrative (ai sensi del regolamento n. 596/2014) «non violi il principio del ne bis in idem». 50. È vero, tuttavia, che, nonostante tali espliciti riferimenti, l’articolato della direttiva 2014/57 non prevede alcun meccanismo particolare atto a impedire che il cumulo delle sanzioni penali con quelle amministrative violi il ne bis in idem. Sono gli Stati membri a dover garantire, all’atto di recepire la direttiva in esame nel proprio diritto nazionale, che non si possa essere incriminati due volte per i medesimi fatti. (Omissis) B. Prima questione pregiudiziale: applicazione del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta alla duplicazione di procedimenti penali e amministrativi per le condotte di manipolazione del mercato 52. Nelle conclusioni Menci ho sviluppato per esteso le mie riflessioni sui seguenti aspetti: – l’applicazione dell’articolo 50 della Carta al cumulo delle sanzioni tributarie e penali, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, in particolare, della sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson(26), e di altre precedenti(27); – la giurisprudenza della Corte EDU in tema di ne bis in idem, sia in ordine all’identità dei fatti sia circa la ripetizione dei procedimenti sanzionatori(28); – l’influenza della sentenza della Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia(29), sul diritto dell’Unione(30); – la possibilità di percorrere la strada dell’articolo 52, paragrafo 1, prima frase, della Carta al fine di limitare il diritto a non essere perseguito o condannato penalmente due volte per lo stesso reato(31). 53. Ritengo che le medesime riflessioni possano essere svolte, mutatis mutandis, allo scopo di interpretare la portata della tutela conferita dall’articolo 50 della Carta nei casi di duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni, penali ed amministrativi, per uno stesso fatto qualificabile come abuso di mercato. Pertanto, rimando ad esse. 54. Con la prima questione pregiudiziale il giudice del rinvio chiede se l’articolo 50 della Carta consenta la celebrazione di un procedimento amministrativo finalizzato all’irrogazione di sanzioni nei confronti dell’autore di una condotta illecita di manipolazione del mercato, in presenza di una sentenza penale definitiva che abbia già condannato tale persona per la medesima condotta.
56
Parte quarta
55. L’applicazione del principio del ne bis in idem, tutelato dall’articolo 50 della Carta, esige la presenza di quattro condizioni, ossia: 1) che la persona perseguita o sanzionata sia la stessa; 2) l’identità dei fatti oggetto di giudizio (idem); 3) la duplicazione dei procedimenti sanzionatori (bis); e 4) il carattere definitivo di una delle due decisioni. 56. Il giudice del rinvio non nutre dubbi circa la coincidenza della persona perseguita né sulla definitività della condanna penale. Stando ai dati contenuti nell’ordinanza di rinvio e alle altre informazioni fornite dalle parti, il sig. Ricucci è stato perseguito due volte e sanzionato due volte, in via penale e in via amministrativa. Come ho già illustrato, la pena detentiva(32) gli è stata inflitta dal Tribunale di Roma con sentenza del 10 dicembre 2008, passata in giudicato in data 11 settembre 2009. La sanzione amministrativa (multa di EUR 10 200 000, ridotta successivamente alla metà) è stata irrogata nei suoi confronti dalla Consob e riguardo ad essa è ancora pendente il procedimento dinanzi alla Corte suprema di cassazione, nel corso del quale è stata sollevata la domanda di pronuncia pregiudiziale qui esaminata. 57. Pertanto, i dubbi del giudice del rinvio si concentrano sugli altri due elementi del ne bis in idem, vale a dire l’identità dei fatti (idem) e la ripetizione dei procedimenti (bis). 1. Identità dei fatti (idem) 58. Come ho illustrato nelle conclusioni Menci(33), la giurisprudenza della Corte, in particolare quella emanata sull’articolo 54 della Convenzione di Schengen, nonché la giurisprudenza della Corte EDU dopo la sentenza Zolotukhin c. Russia(34), concordano nel ritenere che il divieto della doppia pena si riferisce ai medesimi fatti materiali (idem factum), intesi come un insieme di circostanze concrete indissolubilmente connesse, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica o dal bene giuridico tutelato (idem crimen). 59. A mio parere, l’applicazione dell’articolo 50 della Carta da parte della Corte dovrebbe seguire il medesimo orientamento. Non ritengo necessario approfondire questo tema(35), dal momento che, nella causa in esame, sussistono pochi dubbi sulla circostanza che i fatti per i quali il sig. Ricucci è stato sanzionato due volte siano identici. Nessuna delle parti che hanno depositato osservazioni lo mette in discussione e il giudice del rinvio esprime tale opinione nella sua ordinanza, rimandando espressamente alle sentenze della Corte EDU nelle cause Zolotukhin c. Russia(36) e Grande Stevens e a. c. Italia(37). 60. Inoltre, come suggerito dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, l’applicazione del criterio dell’idem crimenin luogo dell’idem factum condurrebbe nella presente causa al medesimo risultato, poiché il bene giuridico tutelato dagli articoli 187 ter e 185 del TUF è lo stesso, ossia l’integrità dei mercati finanziari. 2. Ripetizione dei procedimenti sanzionatori (bis) 61. L’articolo 50 della Carta sarebbe violato se, oltre alla condanna penale definitiva, la stessa persona fosse sottoposta a un procedimento sanzionatorio (come quelli che istruisce la Consob) al termine del quale possono essere irrogate nei suoi confronti alcune sanzioni che, pur presentando una natura formalmente amministrativa, sono in realtà delle vere pene. 62. Come ho indicato nelle conclusioni Menci(38), nel quadro dell’articolo 50 della Carta, la Corte è ricorsa ai cosiddetti criteri Engel quali parametri per determinare quando
Rubrica di diritto europeo
57
un procedimento o una sanzione, in linea di principio di natura amministrativa, abbiano natura penale(39). (Omissis) 65. Secondo il giudice del rinvio, tenendo conto della natura dell’illecito, gli illeciti amministrativi puniti dalla Consob presentano in sostanza natura penale, conformemente al secondo criterioEngel. Trattasi di un’affermazione che condivido. I beni tutelati da tali norme (articolo 187 terdel TUF) sono identici a quelli tutelati dalle omonime fattispecie di reato (articolo 185 del TUF). Con le une e con le altre si tenta di salvaguardare l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni. L’attribuzione della potestà sanzionatoria alla Consob per reprimere questo tipo di illeciti ha finalità sia preventiva (dissuadere i possibili trasgressori dall’attuare condotte illecite di abuso di mercato), sia repressiva (sanzionare coloro che hanno commesso questo tipo di fatti ed evitare la loro reiterazione)(42). (Omissis) 67. La gravità delle sanzioni deve essere valutata, come osserva anche il giudice del rinvio, in funzione di quella di cui è a priori passibile la persona interessata, e non di quella alla fine inflitta o eseguita: una possibile successiva riduzione della pena o la mancata esecuzione per la concessione di un indulto (come avvenuto nel caso di specie) sono irrilevanti(44). 68. L’applicazione dei criteri Engel alla controversia principale spetta al giudice del rinvio, che si trova nella posizione migliore per valutare se la sanzione amministrativa oggetto del suo giudizio presenti, in realtà, natura penale. Nella specie, il giudice del rinvio ritiene che la sanzione amministrativa inflitta dalla Consob al sig. Ricucci sia di natura penale. 69. Stando a questa premessa, la deduzione più logica è che la norma italiana in tema di abuso di mercato consente la doppia repressione, amministrativa (ma sostanzialmente penale) e penale, della medesima condotta illecita, senza elaborare un chiaro meccanismo processuale inteso a evitare che l’autore dei fatti sia perseguito e sanzionato due volte. In tal modo, si verifica una violazione del diritto al ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta. 70. Contro tale deduzione sono state presentate due obiezioni. La prima mette in evidenza che fra il procedimento amministrativo sanzionatorio e quello penale sussiste un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto, conformemente alla sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia (45), che li renderebbe compatibili con l’articolo 50 della Carta. 71. Per i motivi che ho illustrato più dettagliatamente nelle conclusioni Menci(46) non concordo con quest’argomento. Ribadisco che la Corte non dovrebbe accogliere l’interpretazione restrittiva del diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta, e dovrebbe rifiutarsi di seguire la scia del mutamento giurisprudenziale della Corte EDU riguardante l’articolo 4 del protocollo n. 7. É suo dovere, invece, mantenere un livello di tutela più elevato di quel diritto, in linea con le sentenze sinora pronunciate sul succitato articolo 50 della Carta(47).
58
Parte quarta
72. La seconda obiezione è che il doppio binario sanzionatorio sarebbe giustificato dalla necessità di assicurare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive in risposta alle condotte di abuso di mercato, come esigerebbe l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6. Analogamente alla Consob, nelle loro osservazioni orali i governi italiano, tedesco e polacco hanno sostenuto che tali peculiarità delle sanzioni consentono di restringere l’ambito di applicazione dell’articolo 50 della Carta, cosicché la doppia repressione, penale e amministrativa, promuoverebbe un contrasto più efficace delle condotte di abuso di mercato. 73. Al pari della Commissione, ritengo che l’esigenza di efficacia delle sanzioni non costituisca una limitazione del diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta. L’obbligo di applicare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive grava sugli Stati in maniera generale e indipendentemente dall’adozione di un sistema di doppio binario (penale e amministrativo) o di binario unico (penale) per sanzionare gli abusi di mercato. A prescindere dal meccanismo scelto, il regime sanzionatorio deve essere efficace e, in ogni caso, rispettare il diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta. 74. Come ho esposto nelle conclusioni Menci(48), solo la clausola orizzontale dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta consentirebbe di valutare se l’efficacia delle sanzioni contro gli abusi di mercato possa qualificarsi come «finalità di interesse generale» idonea a giustificare eccezioni all’articolo 50 della Carta(49). 75. Secondo la clausola orizzontale dell’articolo 52, paragrafo 1, prima frase, della Carta, la limitazione del diritto al ne bis in idem deve essere prevista dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di tale diritto. Conformemente alla seconda frase del medesimo paragrafo, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni al ne bis in idem solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui(50). 76. Dei quattro requisiti indispensabili per legittimare la limitazione del diritto fondamentale, il primo e l’ultimo non presenterebbero, nel caso in esame, particolari difficoltà. La legge nazionale coprirebbe la doppia imputazione e questa risponderebbe a una finalità di interesse generale riconosciuta dal medesimo diritto dell’Unione (ossia, la tutela dell’integrità dei mercati finanziari). 77. Tuttavia, dubito che, in siffatto contesto, sia rispettato il contenuto essenziale del diritto di non essere perseguito o condannato penalmente due volte per lo stesso reato. Ad ogni modo – e in ciò consiste l’elemento chiave – la limitazione testé analizzata è, a mio avviso, non necessaria ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. 78. Il fatto che la normativa degli Stati membri contempli soluzioni diverse in proposito mostra da sé, a mio parere, il carattere non necessario di tale limitazione. Se fosse realmente imprescindibile, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, lo sarebbe per tutti gli Stati membri e non solo per alcuni di essi. Taluni Stati membri hanno istituito il sistema del binario unico per la repressione delle condotte di abuso di mercato, mentre altri hanno mantenuto quello del doppio binario, predisponendo però meccanismi processuali
Rubrica di diritto europeo
59
(l’«aiguillage» in Francia) che impediscono il cumulo di sanzioni(51). 79. La capacità dissuasiva di una sanzione dipende dalla sua gravità: senza dubbio dissuadono maggiormente le pene detentive (ossia, quelle previste per i reati) rispetto alle pene pecuniarie (tipiche del regime amministrativo). Un sistema che associ, senza duplicarle, queste ultime per gli illeciti meno gravi e riservi le prime per i più gravi rispetterà l’obiettivo di prevenire la moltiplicazione di tali abusi. 80. Quanto all’efficacia, non ravviso ragioni in base alle quali, laddove si tratti di sanzioni sostanzialmente penali e dunque soggette alle garanzie inerenti al diritto penale, l’operato degli organi amministrativi dovrebbe essere, necessariamente, più celere di quello degli organi giudiziali. Spetterà agli Stati membri introdurre misure (legislative, amministrative e di ordine giurisdizionale) idonee ad affrontare la repressione degli abusi di mercato conciliando la loro efficacia con il rispetto dei diritti tutelati dalla Carta. 81. In sintesi, qualora la risposta sanzionatoria amministrativa presenti sostanzialmente natura penale, la doppia repressione amministrativa e penale delle medesime condotte illecite di abuso di mercato, senza elaborare un meccanismo processuale per evitarla, non garantisce il rispetto del diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta. C. Sulla seconda questione pregiudiziale 82. Il giudice del rinvio chiede se l’articolo 50 della Carta sia direttamente applicabile in fattispecie come quella in esame e se conferisca ai cittadini diritti che i giudici nazionali sono tenuti a proteggere. 83. La risposta a tale questione può essere facilmente desunta dalla giurisprudenza della Corte. L’articolo 50 della Carta costituisce una norma chiara, precisa e incondizionata, che conferisce direttamente a chiunque il diritto a non essere perseguito o condannato penalmente due volte per un medesimo fatto. Esso può essere di certo fatto valere direttamente dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, che sono obbligati a tutelarlo. 84. Inoltre, ai sensi dell’articolo 6 TUE, l’articolo 50 della Carta forma parte integrante del diritto primario dell’Unione e, in quanto tale, prevale sulle norme di diritto derivato dell’Unione medesima nonché sulle norme degli Stati membri. 85. In caso di conflitto fra il proprio diritto interno e i diritti garantiti dalla Carta, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme. Pertanto, esso dovrà disapplicare all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale(52). 86. Infatti, sarebbe incompatibile con le esigenze inerenti alla natura del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione facente parte di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare tale diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente siano d’ostacolo alla piena efficacia delle norme dell’Unione(53).
60
Parte quarta
87. In caso di norme incompatibili con il diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta, il giudice nazionale o le autorità amministrative competenti dovrebbero, pertanto, archiviare i procedimenti pendenti, senza conseguenze negative per l’interessato che sia già stato perseguito o sanzionato in un altro procedimento penale o amministrativo avente natura penale. IV. Conclusione 88. Alla luce dei ragionamenti suesposti, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte suprema di cassazione (Italia) nei seguenti termini: «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: 1) Non consente la doppia repressione, amministrativa e penale, della medesima condotta illecita di abuso di mercato, quando la sanzione amministrativa che, ai sensi della normativa nazionale, ne consegue presenti sostanzialmente natura penale ed è prevista la ripetizione dei procedimenti contro la medesima persona e per fatti identici, senza elaborare un meccanismo processuale che eviti tale duplicità. 2) Può essere fatto valere direttamente da un singolo dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, che è tenuto a garantire la piena efficacia del diritto al ne bis in idem, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale». 1 Lingua originale: lo spagnolo. 2 Causa C524/15 (in prosieguo: le «conclusioni Menci»). 3 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) (GU 2003, L 96, pag. 16). 4 Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione (GU 2014, L 173, pag. 1). Il regolamento n. 596/2014 ha sostituito la direttiva 2003/6 a decorrere dal 3 luglio 2016. 5 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato (direttiva abusi di mercato) (GU 2014, L 173, pag. 179). 6 Né il regolamento n. 596/2014 né la direttiva 2014/57 sono applicabili ratione temporis al caso di specie, i cui fatti risalgono al 2005. 7 Introdotto con la legge de 18 aprile 2005, n. 62, Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee, legge comunitaria 2004. 8 Secondo l’ordinanza di rinvio, l’imputazione di cui al capo g) della sentenza di patteggiamento prevede l’accusa, nei confronti del sig. Ricucci, quale Presidente del Consiglio di Amministrazione della Magiste International SA e quale dominus di fatto della Garlsson Real Estate SA, di «diffusione di notizie false concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo del titolo RCS Mediagroup», mediante condotte specificamente evidenziate che sono sostanzialmente le medesime contestate con la violazione amministrativa, con coincidenza tra destinatario della sanzione amministrativa e soggetto sottoposto a sanzione penale. 9 Le pene accessorie consistevano in: a) interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di anni tre; b) incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione
Rubrica di diritto europeo
61
per anni 3, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio; c) interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per anni 3; d) interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; e) pubblicazione della sentenza su due quotidiani di rilevanza nazionale; e f) interdizione dai pubblici uffici per anni 3. 10 Secondo la Corte costituzionale, il giudice del rinvio avrebbe dovuto «sciogliere il nodo» dei rapporti tra concetto di ne bis in idem desumibile dalla CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, e concetto di ne bis in idem nel contesto degli abusi di mercato, come desumibile dal sistema dell’Unione, determinando altresì se quest’ultima figura, come disciplinata dalla normativa dell’Unione europea, fosse direttamente applicabile all’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro. 11 Causa C617/10, EU:C:2013:105. 12 Sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2013:105), punti da 18 a 22. 13 Così, in Italia, le sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’imposta sul reddito non presuppongono l’applicazione del diritto dell’Unione, nel senso indicato dall’articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Per questa ragione, la Corte ha dichiarato la propria incompetenza a rispondere a una questione pregiudiziale nell’ordinanza del 15 aprile 2015, Burzio (C497/14, EU:C:2015:251). 14 Neppure il regolamento n. 596/2014 e la direttiva 2014/57, inapplicabili alla controversia in esame in quanto entrati in vigore successivamente alla commissione dei fatti sanzionati (2005), obbligano gli Stati membri ad introdurre il doppio binario per reprimere gli abusi di mercato. 15 Sentenze del 23 dicembre 2009, Spector Photo Group e Van Raemdock (C45/08, EU:C:2009:806), punto 47; del 7 luglio 2011, IMC Securities (C445/09, EU:C:2011:459), punto 27; del 28 giugno 2012, Geltl (C19/11, EU:C:2012:397), punto 33, e dell’11 marzo 2015, Lafonta (C628/13,EU:C:2015:162), punto 21. 16 V. trentottesimo considerando della direttiva 2003/6, riportato al paragrafo 6. 17 Sentenza del 23 dicembre del 2009, Spector Photo Group e Van Raemdock (C45/08, EU:C:2009:806), punto 42. 18 Fra cui si annoverano le seguenti: revoca o sospensione dell’autorizzazione di una società di investimento; interdizione, temporanea o permanente, dall’esercizio di funzioni dirigenziali in società di investimento; interdizione temporanea da attività di negoziazione per conto proprio; sanzioni amministrative pecuniarie massime di valore pari ad almeno tre volte l’importo dei guadagni ottenuti o delle perdite evitate grazie alla violazione, quando possono essere determinati. Nel caso di persone fisiche, le sanzioni amministrative pecuniarie possono raggiungere un importo massimo di almeno EUR 5 000 000 e, nel caso di persone giuridiche, di almeno EUR 15 000 000. L’articolo 31, paragrafo 3, dispone che gli Stati membri possono prevedere sanzioni amministrative di importo più elevato. 19 V., tra le tante, sentenze della Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 98; e 11 settembre 2009, Dubus S.A. c. Francia, CE:ECHR:2009:0611JUD000524204. 20 Sentenza del 5 giugno 2012, Bonda (C489/10, EU:C:2012:319). 21 Sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2013:105). 22 Sentenza del 23 dicembre 2009 (C45/08, EU:C:2009:806), punto 42. 23 Qualora uno Stato non applichi il regime sanzionatorio amministrativo previsto dal regolamento e punisca le condotte di abuso di mercato solo a livello penale, ovviamente non si verificheranno casi (come il presente) di cumulo di procedimenti amministrativi e penali, motivo per cui il diritto previsto dall’articolo 50 della Carta sarà rispettato. 24 V. paragrafo 15 delle presenti conclusioni.
62
Parte quarta
26 Causa C617/10, EU:C:2013:105. 27 Conclusioni Menci, paragrafi da 27 a 34. 28 Ibidem, paragrafi da 35 a 56. 29 CE:ECHR:2016:1115JUD002413011. 30 Paragrafi da 57 a 77 delle conclusioni Menci. 31 Ibidem, paragrafi da 78 a 94. 32 Rammento che la pena detentiva era pari a quattro anni e sei mesi di reclusione (successivamente ridotta a tre anni per la scelta del rito ed infine estinta per indulto), oltre ad altre pene accessorie, sebbene di carattere operativo. 33 Paragrafi da 100 a 109. 34 Corte EDU, 10 febbraio 2009, CE:ECHR:2009:0210JUD001493903. 35 In teoria, potrebbe porsi la questione se adottare come criterio l’identità del bene giuridico protetto comporti una limitazione ingiustificata dell’ambito di applicazione dell’articolo 50 della Carta, generando una tutela minore rispetto a quella prevista dall’articolo 4 del protocollo n. 7, incompatibile con il dettato dell’articolo 53 della citata Carta. La limitazione avrebbe luogo sia nei casi di applicazione dell’articolo 50 all’interno di un solo Stato sia nelle fattispecie di tipo transfrontaliero, cui la Commissione ha fatto riferimento in udienza. In ogni caso, ribadisco, non occorre approfondire in questa sede tale problema, che non costituisce oggetto di giudizio. 36 Corte EDU, 10 febbraio 2009, CE:ECHR:2009:0210JUD001493903. 37 Corte EDU, 4 marzo 2014, CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, §§ da 219 a 228. In tale sentenza, in presenza di un abuso di mercato doppiamente sanzionato (amministrativamente e penalmente) sulla base degli articoli 187 ter e 185 del TUF, e in circostanze simili a quelle della causa in esame, la Corte EDU ha ritenuto sussistere l’identità dei fatti. 38 Paragrafo 31. 39 Sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2013:105), punto 35, e del 5 giugno 2012, Bonda (C489/10, EU:C:2012:319), punto 37. 42 In questo stesso senso, sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 96. 43 Paragrafi 48 e 119. 44 Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, §§ 97 e 98. 45 CE:ECHR:2016:1115JUD002413011. 46 Paragrafi da 63 a 73. 47 Qualora la Corte decidesse di interpretare l’articolo 50 della Carta conformemente alla sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia, il giudice nazionale dovrebbe verificare se, nel caso del sig. Ricucci, sussista un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto fra il procedimento penale e quello amministrativo sanzionatorio. In udienza, il governo italiano e la Consob hanno sostenuto l’esistenza di tale nesso, ma dagli elementi versati agli atti risulta dubbia, quanto meno, la connessione temporale. 48 Paragrafi da 78 a 93. 49 V. sentenza del 27 maggio 2014, Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:586), punto 55. 50 Ibidem, punto 56. 51 V. l’ampia analisi di diritto comparato realizzata da vari autori nel numero monografico della Revue internationale des services financiers/International Journal for Financial Services, 2015, n. 1; nonché Lecoqc, A., Principe non bis in idem: vers l’esquisse d’une standardisation de l’Una Via
Rubrica di diritto europeo
63
procédural: expériences belges et françaises, Tijdschrift voor rechtspersoon en vennootschap/Revue pratique des sociétés 2016, n. 6, pagg. da 645 a 668; Club des juristes, Poursuite et sanction des abus de marché:le droit français à l’épreuve des textes communautaires et des jurisprudences récentes (CEDH, CJUE, Conseil constitutionnel, maggio 2015, www.leclubdesjuristes.com/les-commissions/ rapport-poursuite-et-sanction-des-abus-de-marche/). 52 Sentenze del 9 marzo 1978, Simmenthal (106/77, EU:C:1978:49), punti 21 e 24; del 19 novembre 2009, Filipiak (C314/08, EU:C:2009:719), punto 81; del 22 giugno 2010, Melki e Abdeli (C188/10 e C189/10, EU:C:2010:363), punto 43, e del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C617/10, EU:C:2013:105), punto 45. 53 Sentenze del 22 giugno 2010, Melki e Abdeli (C188/10 e C189/10, EU:C:2010:363), punto 44, e del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C617/10), punto 46.
III CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA presentate il 12 settembre 2017 in Cause riunite C596/16 e C597/16(1) Imposta sul valore aggiunto – Sanzioni - Omesso versamento – Normativa nazionale che applica una sanzione amministrativa ed una sanzione penale per gli stessi fatti – Sentenza penale di assoluzione, che accerta l’insussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito penale – Articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Violazione del principio del ne bis in idem Enzo Di Puma contro Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) (C596/16) e Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) contro Antonio Zecca (C597/16) [domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema di Cassazione (Italia)] «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Direttiva 2003/6/CE – Condotte di trasmissione di informazioni privilegiate – Normativa nazionale che applica una sanzione amministrativa ed una sanzione penale per gli stessi fatti – Sentenza penale di assoluzione, che accerta l’insussistenza dei fatti costitutivi dell’illecito penale – Articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Violazione del principio del ne bis in idem»
64
Parte quarta
I. Contesto normativo A. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (in prosieguo: la «CEDU») 3. Il Protocollo n. 7 allegato alla CEDU, sottoscritto a Strasburgo il 22 novembre 1984 (in prosieguo: il «Protocollo n. 7»), disciplina all’articolo 4 il «diritto a non essere giudicato o punito due volte», nei seguenti termini: (Omissis) (vedi causa Menci) B. Diritto dell’Unione 1. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea 4. Secondo l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»): «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». (Omissis) (vedi causa Menci) 2. Diritto derivato in materia di abusi di mercato a) Direttiva 2003/6 6. La direttiva 2003/6 ha armonizzato le norme sostanziali regolatrici delle condotte di uso indebito di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, stabilendo inoltre l’obbligo per gli Stati membri di irrogare sanzioni amministrative a questo tipo di condotte illecite, indipendentemente dalla loro perseguibilità in sede penale mediante norme di diritto interno. 7. Il considerando trentottesimo afferma quanto segue: «Al fine di garantire l’adeguatezza del quadro comunitario di contrasto agli abusi di mercato, ogni violazione dei divieti o degli obblighi fissati dalla presente direttiva dovrà essere tempestivamente scoperta e sanzionata. A tal fine le sanzioni dovrebbero essere sufficientemente dissuasive, proporzionate alla gravità della violazione e agli utili realizzati e dovrebbero essere applicate coerentemente». 8. Relativamente alle condotte di traffico di informazioni privilegiate, l’articolo 2, paragrafo 1, così si esprime: «Gli Stati membri vietano alle persone di cui al secondo comma che dispongono di informazioni privilegiate di utilizzare tali informazioni acquisendo o cedendo, o cercando di acquisire o cedere, per conto proprio o per conto terzi, direttamente o indirettamente, gli strumenti finanziari cui le informazioni si riferiscono. Il primo comma si applica a chiunque possieda tali informazioni: a) a motivo della sua qualità di membro degli organi di amministrazione, di direzione o di controllo dell’emittente, ovvero; b) a motivo della sua partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero c) per il fatto di avere accesso a tali informazioni a motivo del suo lavoro, della sua professione e delle sue funzioni, ovvero d) in virtù delle proprie attività criminali».
Rubrica di diritto europeo
65
9. L’articolo 2 è completato dall’articolo 3, secondo cui: «Gli Stati membri vietano alle persone soggette ai divieti di cui all’articolo 2: a) di comunicare informazioni privilegiate a un’altra persona se non nell’ambito del normale esercizio del loro lavoro, della loro professione o delle loro funzioni; b) di raccomandare ad un’altra persona di acquisire o cedere o di indurre un’altra persona ad acquisire o cedere, in base a informazioni privilegiate, strumenti finanziari a cui tali informazioni si riferiscono». 10. L’articolo 14, paragrafo 1, è del seguente tenore letterale: «Fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive». b) Regolamento n. 596/2014 11. Conformemente al considerando settantunesimo di detto regolamento: «(...) è opportuno prevedere una serie di sanzioni amministrative e altre misure amministrative per assicurare un approccio comune negli Stati membri e potenziarne l’effetto deterrente. L’autorità competente dovrebbe avere la possibilità di escludere una persona dall’esercizio di funzioni di gestione in una società di investimento. Le sanzioni imposte in casi specifici dovrebbero essere determinate tenendo conto, se del caso, di fattori appropriati come la restituzione dei benefici finanziari individuati, la gravità e durata della violazione, eventuali circostanze aggravanti o attenuanti, la necessità che le ammende abbiano un effetto deterrente e, se opportuno, prevedere una riduzione dell’ammenda in caso di collaborazione con l’autorità competente. In particolare, l’importo effettivo delle sanzioni amministrative da applicare in un caso specifico può raggiungere il livello massimo previsto dal presente regolamento o un livello più elevato previsto dal diritto nazionale, per le violazioni molto gravi, mentre ammende significativamente inferiori al livello massimo possono essere applicate alle violazioni meno gravi o in caso di composizione. Il presente regolamento non dovrebbe limitare la facoltà, per gli Stati membri, di prevedere livelli più elevati di sanzioni amministrative o altre misure amministrative». 12. Nel considerando settantaduesimo si legge: «Anche se nulla osta a che gli Stati membri stabiliscano regole per sanzioni amministrative oltre che sanzioni penali per le stesse infrazioni, gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a stabilire regole in materia di sanzioni amministrative riguardanti violazioni del presente regolamento che sono già soggette al diritto penale nazionale, entro il 3 luglio 2016. Conformemente al diritto nazionale, gli Stati membri non sono tenuti a imporre sanzioni sia amministrative che penali per lo stesso reato, ma possono farlo se il loro diritto nazionale lo consente. Tuttavia, il mantenimento delle sanzioni penali in luogo delle sanzioni amministrative per le violazioni del presente regolamento o della direttiva 2014/57/UE non dovrebbe ridurre o incidere altrimenti sulla capacità delle autorità competenti di cooperare,
66
Parte quarta
di avere accesso a informazioni o di scambiare informazioni tempestivamente con le autorità competenti di altri Stati membri ai fini del presente regolamento, anche dopo che le autorità giudiziarie competenti per l’azione penale siano state adite per le violazioni in causa». (Omissis) c) Direttiva 2014/57 18. Conformemente ai considerando 22, 23 e 27 di tale direttiva: «(22) Gli obblighi previsti nella presente direttiva di prevedere negli ordinamenti nazionali pene per le persone fisiche e sanzioni per le persone giuridiche non esonerano gli Stati membri dall’obbligo di contemplare in tali ordinamenti nazionali sanzioni amministrative e altre misure per le violazioni previste nel regolamento (UE) n. 596/2014, salvo che gli Stati membri non abbiano deciso, conformemente al regolamento (UE) n. 596/2014, di prevedere per tali violazioni unicamente sanzioni penali nel loro ordinamento nazionale. (Omissis) 19. Relativamente agli abusi mediante traffico di informazioni privilegiate e alla raccomandazione o induzione di altri alla commissione di tali abusi, l’articolo 3 prevede: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché l’abuso di informazioni privilegiate, la raccomandazione o l’induzione di altri alla commissione di un abuso di informazioni privilegiate di cui ai paragrafi da 2 a 8 costituiscano reati, almeno nei casi gravi e allorquando siano commessi con dolo. 2. Ai fini della presente direttiva, si ha abuso di informazioni privilegiate quando una persona in possesso di informazioni privilegiate utilizza tali informazioni acquisendo o cedendo, per conto proprio o per conto di terzi, direttamente o indirettamente, gli strumenti finanziari cui tali informazioni si riferiscono. 3. Il presente articolo si applica a chiunque possieda informazioni privilegiate: (...) c) in quanto avente accesso a tali informazioni nell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione ovvero di una funzione o ufficio; oppure (...) Il presente articolo si applica anche a chiunque abbia ottenuto informazioni privilegiate anche in ragione di circostanze diverse da quelle indicate al primo comma e sia a conoscenza del carattere privilegiato di tali informazioni». 20. L’articolo 4, paragrafo 1, afferma: «Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché la comunicazione illecita di informazioni privilegiate di cui ai paragrafi da 2 a 5 costituisca reato, almeno nei casi gravi e se commessa con dolo». 21. Secondo l’articolo 7, relativo alle sanzioni penali per le persone fisiche: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché i reati di cui agli articoli da 3 a 6 siano punibili con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive. 2. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché i reati di cui agli articoli 3 e 5 siano punibili con la pena della reclusione per una durata massima non inferiore ad anni quattro.
Rubrica di diritto europeo
67
3. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché il reato di cui all’articolo 4 sia punibile con la pena della reclusione per una durata massima non inferiore ad anni due». 22. Conformemente all’articolo 13, paragrafo 1, gli Stati membri adottano e pubblicano le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva entro il 3 luglio 2016. C. Diritto italiano 23. Il decreto legislativo n. 58/1998, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (in prosieguo: il «TUF») stabiliva, nella versione del suo articolo 184 applicabile ai fatti, quanto segue: «1. È punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro centomila a euro quindici milioni chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio; c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a). (Omissis) 24. Il TUF è stato modificato dalla legge del 18 aprile 2005, n. 62, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee, legge comunitaria 2004, al fine di ampliare le competenze della Consob, attribuendole, inoltre, un potere sanzionatorio autonomo di carattere amministrativo di repressione delle condotte di traffico di informazioni privilegiate. In concreto, questa legge ha inserito nel TUF l’articolo 187 bis, il cui tenore letterale è il seguente: «1. Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro tre milionichiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio; c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a). 2. La stessa sanzione di cui al comma 1 si applica a chiunque essendo in possesso di informazioni privilegiate a motivo della preparazione o esecuzione di attività delittuose
68
Parte quarta
compie taluna delle azioni di cui al medesimo comma 1. (Omissis) II. Causa principale e questioni pregiudiziali 28. Secondo il resoconto dei fatti per i quali la Consob li ha sanzionati(7), il sig. Zecca e il sig. Di Puma acquistavano alcune azioni facendo uso di informazioni privilegiate. Nello specifico, il sig. Zecca, in qualità di dirigente della sezione «Transaction Services» della Deloitte Financial Advisory Services S.p.a., era a conoscenza di informazioni relative a un progetto di offerta pubblica di acquisto di azioni della Guala Closures S.p.a. Era a conoscenza, inoltre, di informazioni riservate relative a un progetto di acquisizione del controllo della Permasteelisa S.p.a. 29. Nel 2008, il sig. Zecca comunicava queste informazioni al sig. Di Puma, esortandolo ad acquistare azioni di tali due società. Quest’ultimo, infatti, acquistava, il 30 settembre 2008, 4 000 azioni della Guala Closures e, in concorso con il sig. Zecca, 2 375 azioni della Permasteelisa, il 14 e il 17 ottobre 2008. 30. La Consob, a seguito dell’avvio del procedimento amministrativo il 17 settembre 2009, con delibera del 7 novembre 2012 infliggeva al sig. Zecca una sanzione, quale autore dell’illecito previsto dall’articolo 187 bis, comma 1, lettere a) e c), del TUF, irrogandogli: i) una multa di EUR 100 000 per aver esortato il sig. Di Puma ad acquistare azioni della Guala Closures; ii) un’altra multa di EUR 100 000 per aver comunicato al sig. Di Puma informazioni privilegiate concernenti il progetto di acquisizione del controllo della Permasteelisa; iii) una terza multa di EUR 100 000 per l’acquisto di 2 375 azioni della Permaasteelisa; e iv) la perdita temporanea, per sei mesi, della capacità di assumere taluni incarichi in società quotate in borsa(8). 31. Nella stessa delibera, la Consob infliggeva al sig. Di Puma, in applicazione dell’articolo 187 bis, comma 4 e comma 1, lettera a), del TUF: i) una multa di EUR 100 000 per l’acquisto di azioni della Guala Closures; ii) un’altra multa di EUR 100 000 per l’acquisto di azioni della Permaasteelisa; e iii) la perdita temporanea per tre mesi della capacità di assumere taluni incarichi in società quotate in borsa. 32. I soggetti colpiti dalle sanzioni impugnavano, con esito differente, la delibera della Consob dinanzi alla Corte di appello di Milano – Sezione Civile. Il ricorso del sig. Di Puma veniva rigettato (sentenza del 4 aprile 2013), mentre quello del sig. Zecca veniva accolto (sentenza del 23 agosto 2013), avendo ravvisato la Corte un vizio di forma nella notifica dell’atto di contestazione, e conseguentemente dichiarato estinte le sanzioni inflitte. 33. Entrambe le sentenze venivano impugnate dinanzi alla Corte di cassazione, la prima dal sig. Zecca e la seconda dalla Consob. La Corte suprema di cassazione (Italia), prima di pronunciarsi sui rispettivi ricorsi, ha sottoposto alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali. 34. La Consob, inoltre, il 2 dicembre 2011 trasmetteva alla Procura della Repubblica di Milano una relazione recante i risultati delle indagini sulle operazioni dei sigg. Zecca e Di Puma. Nel procedimento penale avviato in seguito a questa comunicazione, il Tribunale di Milano – Sezione penale, li assolveva dal reato contemplato dall’articolo 184 del TUF, per
Rubrica di diritto europeo
69
insussistenza dei fatti contestati. La sentenza (n. 6625 del 2014) non veniva impugnata dalla Procura, pertanto è passata in giudicato(9). 35. I sigg. Zecca e Di Puma invocavano questa sentenza penale di assoluzione nei ricorsi per cassazione contro le sanzioni della Consob Facendo valere, in particolare, che il Tribunale di Milano – Sezione penale li aveva assolti dal reato previsto dall’articolo 184 del TUF per insussistenza del fatto, e che detta sentenza era passata in giudicato. Essendo la condotta incriminata da questo articolo identica a quella qualificata come illecito amministrativo dall’articolo 187 bis del TUF (10), applicato dalla Consob per sanzionarli, rilevavano di essere sottoposti a due processi per un medesimo fatto, con la conseguente violazione del principio del ne bis in idem enunciato dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 e dall’articolo 50 della Carta. 36. La Corte suprema di cassazione, accogliendo il riferimento alla sentenza penale di assoluzione nel giudicare il suo eventuale effetto di cosa giudicata rispetto alle sanzioni imposte dalla Consob, ricorda che, nella sentenza del 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia(11), la Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») ha dichiarato che le disposizioni italiane che sanzionano come illecito amministrativo la manipolazione del mercato contrastano con il diritto a non essere puniti due volte per condotte identiche dal punto di vista materiale. 37. Ciò nonostante, il giudice a quo nutre dubbi sull’estensione di questa giurisprudenza della Corte EDU all’articolo 50 della Carta, alla luce della sentenza della Corte del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson(12). 38. In tale contesto, la Corte suprema di cassazione (Italia) sottopone alla Corte le due questioni pregiudiziali seguenti, identiche per ambedue i procedimenti: «1) Se l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione vada interpretato nel senso che in presenza di un accertamento definitivo dell’insussistenza della condotta che ha integrato l’illecito penale sia precluso, senza necessità di procedere ad alcun ulteriore apprezzamento da parte del giudice nazionale, l’avvio o la prosecuzione per gli stessi fatti di un ulteriore procedimento che sia finalizzato all’irrogazione di sanzioni che per la loro natura e gravità siano da qualificarsi penali. 2) Se il giudice nazionale, nel valutare l’efficacia, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, ai fini del riscontro della violazione del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, debba tener conto dei limiti di pena posti dalla direttiva 2014/57/UE». (Omissis) III. Analisi delle questioni pregiudiziali 40. Con la prima questione, il giudice del rinvio intende accertare se, conformemente all’articolo 50 della Carta, le sentenze penali definitive che dichiarano l’insussistenza di un fatto costituente reato di abuso di mercato escludono, di per sé, l’avvio o la prosecuzione di qualsiasi altro procedimento sanzionatorio per gli stessi fatti, quando questo procedimento possa dar luogo a sanzioni che per la loro natura e gravità siano da qualificarsi penali. 41. Con la seconda questione, lo stesso giudice si chiede se, nel valutare l’efficacia,
70
Parte quarta
proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, il giudice nazionale debba tenere conto dei limiti posti dalla direttiva 2014/57. 42. Prima di suggerire una risposta a tali questioni, credo sia opportuno fare tre precisazioni. La prima è che non ci sono dubbi sull’applicabilità dell’articolo 50 della Carta alla presente causa, visto che la normativa nazionale sull’abuso di mercato, in virtù della quale sono state irrogate le sanzioni contestate, è stata adottata dallo Stato italiano per recepire all’interno del diritto nazionale la direttiva 2003/6. 43. L’ambito di applicazione della Carta, relativamente all’operato degli Stati membri, è definito nel suo articolo 51, paragrafo 1, secondo cui le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. I diritti fondamentali tutelati dalla Carta devono essere rispettati nell’applicazione delle norme interne che, a loro volta, rispecchiano norme dell’Unione o derivano da queste(13). Per contro, la Corte non è competente a giudicare riguardo ad una situazione giuridica non compresa in detto ambito, e le disposizioni della Carta non possono giustificare di per sé tale competenza(14). 44. Una seconda precisazione riguarda la scelta del legislatore italiano di introdurre, nel 2005, un sistema di duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni (amministrative e penali) per reprimere le condotte di abuso di mercato, in applicazione della direttiva 2003/6. 45. Questo sistema di doppio binario, amministrativo e penale (doppio binario sanzionatorio), presenta talune caratteristiche che lo rendono difficilmente compatibile con il ne bis in idem dell’articolo 50 della Carta, come il giudice del rinvio ha illustrato. Se tale sistema fosse stato introdotto dalla direttiva 2003/6, se ne dovrebbe considerare la possibile nullità, proprio per l’eventuale violazione dell’articolo 50 della Carta. 46. A mio giudizio, tuttavia, la direttiva 2003/6 non impone agli Stati membri di applicare un sistema di doppio binario, amministrativo e penale, per reprimere questo tipo di condotte illecite, quindi non ritengo questa direttiva incompatibile con l’articolo 50 della Carta. 47. Nelle mie conclusioni nella causa Garlsson Real State e a.(15), ho analizzato la compatibilità della direttiva 2003/6 con l’articolo 50 della Carta. Mi riferisco anche al nuovo regime di sanzioni applicabili alle condotte di abuso di mercato, introdotto dal regolamento n. 596/2014 e dalla direttiva 2014/57, che tanto meno obbligano gli Stati membri a scegliere il doppio binario per reprimere gli abusi di mercato e che non sono contrari, per tale motivo, al diritto al ne bis in idem. 48. La terza precisazione riguarda il ricorso alla direttiva 2014/57 e all’eventuale irricevibilità della seconda questione pregiudiziale. Secondo il governo italiano, questa direttiva non è applicabile ratione temporis alla controversia, e ciò è vero. Infatti, gli accadimenti sanzionati si sono verificati nel 2008 e il termine di recepimento della direttiva 2014/57 nei diritti interni è scaduto il 3 luglio 2016. 49. Il giudice del rinvio è, ovviamente, consapevole che la direttiva 2014/57 non si applica a queste cause per ragioni temporali. Di conseguenza la sua (seconda) questione alla Corte non riguarda l’interpretazione di questa direttiva, bensì la possibilità di estrar-
Rubrica di diritto europeo
71
re dal nuovo contesto normativo (direttiva 2014/57 e regolamento n. 596/2014) dati utili per valutare l’efficacia, la proporzionalità e la dissuasività delle sanzioni, nella valutazione della violazione del principio ne bis in idem(16). Così interpretata, dubito che la seconda questione sia ricevibile. A. Prima questione pregiudiziale: applicazione del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta alla duplicazione dei procedimenti penali e amministrativi per traffico di informazioni privilegiate 50. Nelle conclusioni nella causa Menci ho sviluppato in extenso le mie riflessioni su: – l’applicazione dell’articolo 50 della Carta al cumulo delle sanzioni tributarie e penali, alla luce della giurisprudenza della Corte, in particolare, della sentenza Åkerberg Fransson e di altre anteriori(17); – la giurisprudenza della Corte EDU sul ne bis in idem, tanto relativamente all’identità dei fatti quanto alla ripetizione dei procedimenti sanzionatori(18); – l’influenza della sentenza della Corte EDU, del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia(19), sul diritto dell’Unione(20); – la possibilità di percorrere la strada dell’articolo 52, paragrafo 1, prima frase, della Carta al fine di limitare il diritto a non essere giudicato o punito penalmente due volte per lo stesso reato(21). 51. Credo che queste stesse riflessioni possano essere estese, mutatis mutandis, per interpretare la portata della tutela conferita dall’articolo 50 della Carta ai casi di duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni, penali ed amministrative, per uno stesso fatto qualificato come traffico di informazioni privilegiate. Mi riporto, quindi, ad esse. 52. Il giudice del rinvio, con la sua prima questione pregiudiziale, intende accertare se l’articolo 50 della Carta consenta la celebrazione di un procedimento amministrativo finalizzato all’irrogazione di sanzioni agli autori di condotte illecite di traffico di informazioni privilegiate, in presenza di una sentenza penale definitiva che abbia già dichiarato l’insussistenza di dette condotte. 53. L’applicazione del principio del ne bis in idem, tutelato dall’articolo 50 della Carta, richiede il concorso di quattro requisiti: 1) l’identità della persona imputata o sanzionata; 2) l’identità dei fatti addebitati (idem); 3) la duplicazione dei procedimenti sanzionatori (bis); e 4) il carattere definitivo di una delle due decisioni. 54. Nella presente controversia, il giudice del rinvio sembra non avere dubbi sulla coincidenza (identità) delle due persone imputate o sanzionate per le condotte di traffico di informazioni privilegiate, cioè i sigg. Zecca e Di Puma. I procedimenti penali che si sono conclusi con la sentenza di assoluzione erano diretti contro di loro, così come i procedimenti amministrativi, al termine dei quali la Consob ha irrogato loro le sanzioni della multa e le incapacità prima citate. 55. Nemmeno il carattere definitivo di una delle decisioni che hanno posto fine ad uno dei procedimenti (in questo caso, quelli penali) è controverso. Nel procedimento penale avviato dalla Procura contro i sigg. Zecca e Di Puma, il Tribunale di Milano – Sezione penale li ha assolti dal reato previsto dall’articolo 184 del TUF, perché il fatto non sussiste.
72
Parte quarta
La sentenza è passata in giudicato(22). 56. Neppure l’identità materiale dei fatti oggetto di giudizio (idem) sembra controversa né problematica per il giudice a quo. I fatti per i quali i sigg. Zecca e Di Puma sono stati imputati e assolti penalmente sono gli stessi (condotte di utilizzo di informazioni privilegiate) per i quali la Consob ha inflitto loro le sanzioni amministrative. 57. I dubbi del giudice del rinvio si concentrano, conseguentemente, sulla duplicazione o ripetizione dei procedimenti sanzionatori (bis). Si tratta di comprendere se sussista una violazione dell’articolo 50 della Carta quando, dopo l’assoluzione penale definitiva per insussistenza della condotta punibile, la persona assolta possa essere di nuovo sottoposta, per gli stessi fatti, al procedimento sanzionatorio della Consob (o alla prosecuzione di quello già avviato), che, eventualmente, culmini con sanzioni formalmente di natura amministrativa ma che, in realtà, sono delle vere pene. 58. Come ho indicato nelle conclusioni Menci(23), la Corte ha utilizzato nel contesto dell’articolo 50 della Carta i cosiddetti criteri Engel, come parametri per determinare quando un procedimento o una sanzione, in linea di principio di natura amministrativa, abbiano natura penale(24). 59. Il primo criterio Engel (la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto interno) non è molto rilevante in questo caso, visto che il diritto italiano qualifica i procedimenti e le sanzioni della Consob come amministrativi. Ciò non impedisce, tuttavia, la sua ulteriore analisi alla luce degli altri due criteri(25). 60. Il secondo criterio Engel riguarda la natura giuridica dell’illecito. Un illecito nominalmente amministrativo sarà, in realtà, di natura penale quando riunisca una serie di fattori (tra gli altri, che la punizione sia finalizzata alla repressione e alla prevenzione e non si limiti al risarcimento dei danni patrimoniali, e salvaguardi beni giuridici la cui tutela venga normalmente garantita da norme di diritto penale) a cui mi sono riferito nelle conclusioni Menci(26). 61. Secondo il giudice del rinvio, tenendo conto della natura dell’illecito, gli illeciti amministrativi puniti dalla Consob hanno sostanzialmente natura penale, conformemente al secondo criterioEngel, e concordo con questa affermazione. I beni tutelati da tali norme (articolo 187 bis del TUF) sono identici a quelli tutelati dalle omonime fattispecie di reato (articolo 184 del TUF). Con le une e con le altre si cerca di salvaguardare l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni. L’attribuzione della facoltà sanzionatrice alla Consob per reprimere questo tipo di illeciti ha finalità sia preventiva (dissuadere i futuri trasgressori dal commettere condotte illecite di traffico di informazioni privilegiate), sia repressiva (sanzionare coloro che hanno commesso questo tipo di fatti ed evitare la loro recidiva)(27). 62. Il terzocriterio Engel riguarda la natura ed il grado di severità della sanzione, valutabile in funzione dei criteri ai quali ho fatto riferimento anche nelle conclusioni Menci(28). Data la varietà delle sanzioni che la Consob può applicare e, segnatamente, l’elevato importo delle multe che può infliggere, il giudice del rinvio riconosce che si tratta di sanzioni con un’evidente connotazione penale.
Rubrica di diritto europeo
73
63. La gravità delle sanzioni deve essere valutata in funzione di quella di cui è a priori passibile la persona interessata, e non di quella poi inflitta o eseguita: una possibile successiva riduzione della pena o la mancata esecuzione per la concessione di una grazia sono irrilevanti(29). Allo stesso modo, l’applicazione dell’articolo 50 della Carta non è subordinato alla condizione che in uno dei procedimenti sia stata pronunciata una sentenza definitiva che abbia dichiarato la responsabilità dell’interessato per l’illecito e applicato la sanzione. Come motiva nella sua ordinanza lo stesso giudice del rinvio, l’efficacia delle norme sanzionatorie deve valutarsi sempre alla luce dell’accertamento dell’illecito; di conseguenza, qualora quest’ultimo sia stato ritenuto insussistente, non si dovrà porre il tema dell’efficacia delle sanzioni. 64. A mio giudizio, l’applicazione del diritto al ne bis in idem dell’articolo 50 della Carta impedisce l’avvio o la prosecuzione di un procedimento amministrativo sanzionatorio per gli stessi fatti, quando i trasgressori siano stati assolti con sentenza definitiva in un procedimento penale. Il contenuto essenziale dell’articolo 50 della Carta sarebbe pregiudicato se si prendessero in considerazione solo le decisioni sanzionatorie e non quelle di assoluzione, nel giudicare sulle violazioni del ne bis in idem. 65. Se si ammettesse l’irrilevanza delle decisioni di assoluzione relativamente al ne bis in idem, nessuno godrebbe della certezza che offre questo diritto, che contiene la garanzia di non essere imputato o sanzionato dopo una sentenza penale definitiva di assoluzione. Lo Stato non può attivare una seconda volta, per gli stessi fatti, il suo potere repressivo contro un individuo definitivamente assolto penalmente. Questo divieto vale sia per un nuovo processo penale, sia per un procedimento amministrativo che si concluda con sanzioni sostanzialmente penali. 66. In tal senso, la Corte EDU ha confermato che la tutela inerente al ne bis in idem è applicabile non solo ai casi di doppia condanna, ma anche a quelli di doppia incriminazione, cioè a coloro che sono stati oggetto di imputazioni concluse senza condanna. Ha dichiarato, altresì, che è indifferente che il procedimento amministrativo preceda o segua il procedimento penale, che la prima sanzione si compensi con quella applicata nel secondo, o che la persona interessata sia stata assolta in esito al secondo o al primo procedimento(30). 67. Da un’altra prospettiva, il diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta tutela la certezza del diritto dei singoli, in modo che le sentenze definitive di cui beneficiano non possano essere contraddette da un successivo operato dell’amministrazione, di contenuto sanzionatorio. Il rispetto della qualità di cosa giudicata propria delle sentenze penali (definitive) di assoluzione sarebbe snaturato se un’autorità amministrativa, come la Consob, potesse ignorarle, considerando provati gli stessi fatti la cui insussistenza è stata dichiarata dal giudice penale. 68. Lo stesso giudice del rinvio fa riferimento, nella sua ordinanza, a questa interazione tra il ne bis in idem e l’efficacia di cosa giudicata. Detto giudice sottolinea il rischio di pronunce contraddittorie in relazione alle condotte dei sigg. Zecca e Di Puma, se la sentenza definitiva di assoluzione del giudice penale italiano non impedisse alla Consob di adottare nei loro confronti le sanzioni amministrative, per gli stessi fatti di traffico di informazioni
74
Parte quarta
privilegiate(31). 69. In relazione a questo limite, è necessario ricordare la ormai consolidata giurisprudenza della Corte sull’importanza che ricopre, nell’ordinamento giuridico dell’Unione e negli ordinamenti giuridici nazionali, il principio dell’autorità di cosa giudicata. Al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione(32). 70. Il diritto dell’Unione non impone in ogni caso ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione(33). In assenza di una normativa comunitaria in una determinata materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi(34). 71. Questa giurisprudenza della Corte avvalora l’idea precedente, ovvero che il diritto al ne bis in idem dell’articolo 50 della Carta potenzia il rispetto del principio dell’autorità di cosa giudicata delle sentenze penali nazionali, impedendo l’applicazione di sanzioni successive di contenuto contrario per gli stessi fatti. Non può ritenersi, pertanto, che la necessità di applicare sanzioni efficaci proporzionate e dissuasive, prevista dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 o nella giurisprudenza della Corte, significhi, per i giudici nazionali, l’obbligo di non rispettare l’autorità di cosa giudicata di una sentenza penale definitiva di assoluzione. 72. Devo far riferimento, infine, all’eventuale implicazione che potrebbe avere nella presente controversia il mutamento giurisprudenziale della Corte EDU nella sua sentenza A e B c. Norvegia(35), pronunciata quando era già stata proposta la questione pregiudiziale. Secondo questa sentenza, il cumulo di un procedimento amministrativo sanzionatorio con altro penale non viola l’articolo 4 del Protocollo n. 7 quando vi sia tra questi un vincolo materiale e temporale sufficientemente stretto. Alcune delle parti, nelle loro osservazioni scritte e orali, hanno auspicato l’estensione di questa giurisprudenza all’applicazione dell’articolo 50 della Carta, per giustificare il modello italiano di doppio binario della repressione delle condotte di abuso di mercato. 73. Non condivido questa argomentazione, per i motivi che ho chiarito più dettagliatamente nelle conclusioni Menci (36). Ribadisco che la Corte non dovrebbe accogliere questa interpretazione restrittiva del diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta, rifiutandosi di seguire le orme del mutamento giurisprudenziale della Corte EDU relativamente all’articolo 4 del Protocollo n. 7. Essa è tenuta, al contrario, a mantenere un livello di tutela più elevato di quel diritto, in linea con le sentenze sino ad ora pronunciate sull’articolo 50 della Carta. 74. In questa causa, il giudice del rinvio, che gode di una prospettiva migliore per valutare se le sanzioni amministrative oggetto del suo giudizio siano, effettivamente, di natura
Rubrica di diritto europeo
75
penale, sostiene che le sanzioni applicate dalla Consob ai sigg. Zecca e Di Puma posseggono tale natura, e che gli illeciti che esse puniscono perseguono lo stesso fine dei reati di abuso di mercato. Così stando le cose, l’applicazione dei criteri Engel alla causa principale comporterebbe l’accertamento della violazione dell’articolo 50 della Carta. 75. In base a questa premessa, la conclusione più coerente è che una normativa nazionale come la normativa italiana sull’abuso di mercato permette la doppia repressione, amministrativa (ma sostanzialmente penale) e penale, della stessa condotta illecita, senza strutturare una chiara modalità processuale per evitare la doppia imputazione e la doppia sanzione agli autori dei fatti. In questa misura, essa viola il diritto al ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta, visto che consente la celebrazione di un procedimento amministrativo finalizzato a sanzionare gli autori di condotte illecite di traffico di informazioni privilegiate, quando una sentenza penale definitiva ha già dichiarato l’insussistenza di dette condotte. B. Seconda questione pregiudiziale: esigenza di efficacia delle sanzioni come possibile limite al diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta 76. Con la sua seconda questione, la Corte suprema di cassazione intende chiarire se un giudice nazionale debba tenere conto dei limiti sanzionatori stabiliti dalla direttiva 2014/57 nella valutazione dell’efficacia, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni e determinare, di conseguenza, se vi sia una violazione dell’articolo 50 della Carta. 77. Il giudice del rinvio interpreta la sentenza Åkerberg Fransson nel senso che il giudice nazionale, prendendo in considerazione l’articolo 50 della Carta, sarà obbligato a valutare l’efficacia, la proporzionalità e la dissuasività delle sanzioni «residue» dopo l’applicazione del ne bis in idem. Per questa valutazione, occorre chiarire se possono prendere come riferimento i limiti di pena stabiliti dalla direttiva 2014/57(37). 78. Prendendo le mosse da questa lettura della sentenza Åkerberg Fransson, il giudice del rinvio rileva che, visto che una sentenza penale di assoluzione (come quella relativa ai sigg. Zecca e Di Puma) comporta l’esclusione dell’applicazione di sanzioni nei procedimenti penali, l’articolo 50 della Carta potrebbe non essere contrario all’ulteriore irrogazione di sanzioni amministrative (di carattere penale), come quelle applicate dalla Consob(38). 79. Non condivido questa interpretazione della sentenza Åkerberg Fransson. A mio parere, dal punto 36(39) della stessa non si desume che l’ambito di applicazione del diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta sia condizionato dal fatto che, in caso di sentenza penale di assoluzione, possano imporsi altre sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, per identici fatti. Tanto meno questa condizione si deduce dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 né dall’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2014/57. 80. Al pari della Commissione, ritengo che l’esigenza di efficacia delle sanzioni non costituisca un limite al diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta. L’obbligo di applicare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive grava sugli Stati in maniera generale, indipendentemente dall’adozione di un sistema di doppio binario (penale e amministrativo) o di binario unico (penale) per sanzionare gli abusi di mercato. Qualunque sia il sistema scelto, il regime sanzionatorio deve essere efficace e, sempre, rispettare il diritto al ne bis in
76
Parte quarta
idem garantito dall’articolo 50 della Carta. 81. Come ho chiarito nelle conclusioni Menci(40) e Garlsson Real State e a.(41) solo la clausola orizzontale dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta consentirebbe di valutare se l’efficacia delle sanzioni contro le condotte di traffico di informazioni privilegiate possa qualificarsi come «finalità di interesse generale» suscettibile di giustificare le eccezioni all’articolo 50 della Carta(42). 82. Secondo la clausola orizzontale dell’articolo 52, paragrafo 1, prima frase, della Carta, la limitazione al diritto al ne bis in idem deve essere prevista dalla legge e rispettare il suo contenuto essenziale. Conformemente alla seconda frase dello stesso paragrafo, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni al ne bis in idem solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui(43). 83. Dei quattro requisiti fondamentali per legittimare la limitazione del diritto fondamentale, il primo e l’ultimo non presentano, in questo caso, particolari problematiche. La legge nazionale darebbe copertura alla doppia incriminazione e questa risponderebbe a una finalità di interesse generale ammessa dallo stesso diritto dell’Unione (ovvero, la tutela dell’integrità dei mercati finanziari). 84. Dubito, tuttavia, che, in questa situazione, si rispetti il contenuto essenziale del diritto a non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato. Ad ogni modo – e questo è l’elemento chiave –, la limitazione ora analizzata mi sembra non necessaria, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. 85. Il fatto che la regolamentazione degli Stati membri contempli soluzioni diverse su questo punto dimostra di per sé, a mio modo di vedere, la non necessarietà di questa limitazione. Se fosse veramente imprescindibile, conformemente all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, lo sarebbe per tutti e non solo per alcuni di quegli Stati membri. Vi sono Stati membri che hanno istituito il sistema del binario unico per la repressione delle condotte di abuso di mercato e altri che hanno mantenuto quello del doppio binario, ma predisponendo meccanismi processuali (l’«aiguillage» in Francia) che impediscono il cumulo di sanzioni(44). 86. La capacità dissuasiva di una sanzione dipende dalla sua gravità: senza dubbio dissuadono di più le pene detentive (ossia, quelle previste per i reati) di quelle pecuniarie (tipiche del regime amministrativo). Un sistema che associ, senza duplicarle, queste ultime per gli illeciti meno gravi e riservi le prime per i più gravi, rispetterà l’obiettivo di prevenire la moltiplicazione di questi abusi. 87. Quanto all’efficacia, non vedo perché, quando si tratta di sanzioni sostanzialmente penali, e pertanto soggette alle garanzie connesse al diritto punitivo, l’operato degli organi dell’amministrazione dovrebbe essere, necessariamente, più rapido di quello degli organi giudiziali. Spetterà agli Stati membri introdurre misure (legislative, amministrative e di ordine giurisdizionale) idonee ad affrontare la repressione degli abusi di mercato conciliando la loro efficacia con il rispetto dei diritti che la Carta salvaguarda. 88. Conseguentemente, il carattere efficace, proporzionato e dissuasivo delle sanzioni
Rubrica di diritto europeo
77
non costituisce una limitazione dell’ambito di applicazione del diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta. IV. Conclusioni 89. Alla luce dei ragionamenti esposti, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte suprema di cassazione (Italia) nei seguenti termini: «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: 1) Osta a una normativa nazionale che consente la celebrazione di un procedimento finalizzato all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale agli autori di condotte di abuso di mercato, quando vi sia già una sentenza penale, di assoluzione e definitiva, che abbia dichiarato, rispetto agli stessi fatti e alle stesse persone, l’insussistenza di tali condotte. 2) Non può essere limitato, in circostanze come quelle del procedimento principale, per soddisfare l’esigenza di efficacia, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni applicabili alle condotte di abuso di mercato». 1 Lingua originale: lo spagnolo. 2 Causa C524/15 (in prosieguo: le «conclusioni Menci»). 3 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa agli abusi di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) (GU 2003, L 96, pag. 16). 4 Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione (GU 2014, L 173, pag. 1). Il regolamento n. 596/2014 ha sostituito la direttiva 2003/6 dal 3 luglio 2016. 5 Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle sanzioni penali applicabili in caso di abusi di mercato (direttiva abusi di mercato) (GU 2014, L 173, pag. 179). 6 Né il regolamento n. 596/2014 né la direttiva 2014/57 sono applicabili ratione temporis alla causa in esame, i cui fatti risalgono al 2005. 7 Come si spiegherà in seguito, la giurisdizione penale italiana ha assolto i due presunti autori dal reato di abuso di mercato. 8 Inoltre, disponeva la confisca dei suoi beni per un valore di EUR 23 106,25, pari al profitto ricavato dagli illeciti commessi, ai sensi dell’articolo 187 bis, comma 4, del TUF. 9 La Consob, che si è costituita parte civile nel processo penale, ha interposto ricorso, ma la sua impugnazione, secondo il giudice del rinvio, non influisce sul passaggio in giudicato della sentenza. 10 Ambedue le norme puniscono, sia come reato che come illecito amministrativo, l’azione dell’acquisto e rivendita di azioni di una società, dopo essere venuti a conoscenza di informazioni privilegiate relative alla stessa. 11 Corte EDU, 4 marzo 2014 (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010). 12 Causa C617/10; in prosieguo: la «sentenza Åkerberg Fransson», EU:C:2013:105. 13 Sentenza Åkerberg Fransson, punti da 18 a 22. 14 Così, in Italia, le sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’imposta sul reddito non presuppongono l’applicazione del diritto dell’Unione, a norma dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Per questa ragione, la Corte si è dichiarata incompetente a rispondere a una questione pregiudiziale nell’ordinanza del 15 aprile 2015, Burzio (C497/14, EU:C:2015:251). 15 Conclusioni del 12 settembre 2017, C537/16, paragrafi da 41 a 51.
78
Parte quarta
16 In questo senso, rileva che, se esistesse una norma di diritto interno che contempli una sanzione penale superiore, nel massimo, al limite indicato nella direttiva, sarebbe assicurata l’effettività del diritto dell’Unione e, di conseguenza, la previsione di un’ulteriore sanzione amministrativa darebbe senz’altro luogo a una violazione dell’articolo 50 della Carta. 17 Conclusioni Menci, paragrafi da 27 a 34. 18 Ibidem, paragrafi da 35 a 56. 19 CE:ECHR:2016:1115JUD002413011. 20 Paragrafi da 57 a 77 delle conclusioni Menci. 21 Ibidem, paragrafi da 78 a 94. 22 La Consob, in qualità di parte civile, l’ha impugnata, ma la Corte suprema di cassazione ha indicato chiaramente che «la sentenza penale di assoluzione della parte resistente è diventata definitiva» (punto 8 dell’ordinanza di rinvio). 23 Paragrafo 31. 24 Sentenze Åkerberg Fransson, punto 35; e del 5 giugno 2012, Bonda (C489/10, EU:C:2012:319), punto 37. 25 Paragrafi 46 e 111. 26 Ibidem, paragrafi 47 e da 112 a 115. 27 Nello stesso senso, Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:201 4:0304JUD001864010), § 96. 28 Paragrafi 48 e 119. 29 Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:2014:0304J UD001864010), §§ 97 e 98. 30 La Corte EDU ha ritenuto violato il ne bis in idem in quanto le autorità fiscali avevano irrogato delle multe quando i giudici penali avevano assolto i trasgressori in procedimenti paralleli o successivi (sentenze del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia, CE:ECHR:2015:0430JUD000345312; e del 9 giugno 2016, Sismanidis e Sitaridis c. Grecia, CE:ECHR:2016:0609JUD006660209). 31 Il giudice del rinvio evidenzia che, se il secondo procedimento dovesse proseguire anche in presenza del definitivo accertamento dell’insussistenza del fatto costitutivo dell’illecito, al fine di rendere possibile l’applicazione di sanzioni ulteriori, l’esito che potrebbe derivarne sarebbe quello del rischio di un contrasto di giudicati all’interno dello Stato membro, giacché a una sentenza penale di assoluzione potrebbe seguire, per gli stessi fatti, una sentenza di condanna riguardo all’illecito amministrativo e alle relative sanzioni. 32 Si vedano, tra le altre, le sentenze del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub, (C2/08, EU:C:2009:506), punto 22; del 6 ottobre 2015, Târșia (C69/14, EU:C:2015:662), punto 28, e dell’11 novembre 2015, Klausner Holz Niedersachsen (C505/14, ECLI:EU:C:2015:742), punto 38. 33 Sentenze del 16 marzo 2006, Kapferer (C234/04, EU:C:2006:178), punto 22; del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub (C2/08, EU:C:2009:506), punto 23; del 10 luglio 2014, Impresa Pizzarotti (C213/13, EU:C:2014:2067), punto 59, e del 6 ottobre 2015, Târșia (C69/14, EU:C:2015:662), punto 29. 34 Le modalità di applicazione non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni simili di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività). Si vedano le sentenze citate nella nota precedente e quella dell’11 novembre 2015, Klausner Holz Niedersachsen (C505/14, ECLI:EU:C:2015:742), punto 40. 35 CE:ECHR:2016:1115JUD002413011.
Rubrica di diritto europeo
79
36 Paragrafi da 63 a 73. 37 Sebbene questa direttiva non sia applicabile ratione temporis ai fatti di causa, la si può utilizzare come elemento ermeneutico aggiuntivo (si vedano i paragrafi 49 e 50). 38 Il doppio binario sanzionatorio si potrebbe giustificare con la necessità di assicurare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive in risposta alle condotte di abuso di mercato. I governi italiano, tedesco e portoghese, così come la Consob, hanno sostenuto nelle loro osservazioni che queste caratteristiche delle sanzioni consentono di restringere l’ambito di applicazione dell’articolo 50 della Carta, in modo che la doppia repressione, penale e amministrativa, promuoverebbe una lotta più efficace contro le condotte di abuso di mercato. 39 «Spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di detti criteri [criteri Engel], se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi del punto 29 della presente sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive [...]». 40 Paragrafi da 78 a 93. 41 Causa C537/16, punti da 74 a 80. 42 V. la sentenza del 27 maggio 2014, Spasic (C129/14 PPU, EU:C:2014:586), punto 55. 43 Ibidem, punto 56.
44 Si veda l’amplia analisi di diritto comparato realizzata da vari autori nella monografia della Revue internationale des services financiers/International Journal for Financial Services, 2015, n. 1; nonché Lecoqc, A., Principe non bis in idem: vers l’esquisse d’une standardisation de l’Una Via procédural: expériences belges et françaises, Tijdschrift voor rechtspersoon en vennootschap/Revue pratique des sociétés 2016, n. 6, pagg. da 645 a 668; Club des juristes, Poursuite et sanction des abus de marché:le droit français à l’épreuve des textes communautaires et des jurisprudences récentes (CEDH, CJUE, Conseil constitutionnel, maggio 2015, www.leclubdesjuristes.com/les-commissions/rapport-poursuite-etsanction-des-abus-de-marche/.
Doppio binario sanzionatorio e principio di ne bis in idem: in attesa della decisione della Grande Sezione, le conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona. Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’esame dei rinvii pregiudiziali. – 3. Analisi delle
conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona. – 3.1. Il doppio binario sanzionatorio tributario e il divieto di bis in idem: un’incompatibilità strutturale che non trova appigli nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE. – 3.2. Il Testo Unico della Finanza (T.U.F.) e il doppio binario sanzionatorio, dopo la sentenza della Corte EDU Grande Stevens c. Italia e il “non liquet” della Consulta. – 4. L’incerto revirement della Corte di Strasburgo nella sentenza della Grande Camera nel 2016. – 5. Le incertezze interpretative derivanti dai criteri indicati dalla Grande Camera. – 6. I profili innovativi delle conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona. – 7. Conclusioni.
80
Parte quarta
Partendo dall’analisi di alcuni rinvii pregiudiziali promossi dal Tribunale di Bergamo e dalla Corte di Cassazione italiana, il lavoro esamina le conclusioni presentate alla Grande Sezione della CGUE, dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona, nelle attesissime cause concernenti la compatibilità dei sistemi sanzionatori tributario e finanziario CONSOB con il principio europeo del ne bis in idem. Tale principio, stabilito dalla sentenza della Corte EDU Grande Stevens del 4 marzo 2014, è stato in parte ridimensionato dalla Grande Camera nella causa A e B c. Norvegia nel 2016. Le conclusioni dell’Avvocato Generale esaminano criticamente quest’ultima decisione, mettendone in luce la debolezza della ricostruzione concettuale; una ricostruzione che sembra affidare un principio fondamentale, come quello del divieto di bis in idem, a regole indeterminate; trascurando un’esigenza di stretta predeterminazione della sanzione da irrogarsi e risultando, dunque, incompatibile con il principio di proporzionalità e, prima ancora, con il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU. Di qui la sollecitazione, rivolta alla Grande Sezione della CGUE a prevedere un livello di tutela più elevato del diritto a non essere giudicati due volte per il medesimo fatto, rispetto a quello attualmente garantito dal diritto convenzionale, reputato non sufficientemente elevato. Starting from the analysis of some references for preliminary rulings promoted by the Court of Bergamo and the Italian Court of Cassation, the paper examines the conclusions presented to the Grand Chamber of the CJEU, by the Advocate General M. Campos Sanchez-Bordona, in the highly anticipated cases concerning the compatibility of tax and financial sanction systems CONSOB with the European principle of ne bis in idem. This principle, established by the ruling of the EDU Court Grande Stevens on March 4, 2014, was partly reduced by the Grand Chamber in case A and B c. Norway in 2016. The conclusions of the Advocate General critically examine this last decision, highlighting the weakness of conceptual reconstruction; a reconstruction that seems to entrust a fundamental principle, such as the prohibition of bis in idem, to indeterminate rules; disregarding a need for a strict predetermination of the sanction to be imposed and therefore found to be incompatible with the principle of proportionality and, first of all, with the principle of due process in art. 6 CEDU. Hence the solicitation, addressed to the Great Section of the CJEU, to provide a higher level of protection of the right not to be tried twice for the same fact, compared to the one currently guaranteed by conventional law, considered not sufficiently high.
1. Introduzione. – Il principio del ne bis in idem ha suscitato negli ultimi anni una rinnovata attenzione da parte di giurisprudenza e dottrina; tanto in considerazione soprattutto di alcune pronunce delle Corti europee sul tema, che hanno avuto ad oggetto sia il doppio binario sanzionatorio in tema di abusi di mercato, affidato alla CONSOB e al giudice penale nella disciplina prevista dal T.U.F; sia l’omologo procedimento penale ed amministrativo stabilito dall’ordinamento tributario per contrastare l’evasione fiscale. La complessa vicenda a giudizio della Grande Sezione della Corte di giu-
Rubrica di diritto europeo
81
stizia (1) trae origine, per quanto riguarda l’Italia, dalla sentenza Grande Stevens del 4 marzo 2014 (2). Fino a quella data, non si può certo affermare che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sia stata caratterizzata da un indirizzo univoco. A fronte di qualche decisione che ravvisava la violazione del principio di ne bis in idem nella celebrazione di un secondo processo penale, in violazione dell’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU, a prescindere, quindi, dall’esito del primo processo nei confronti di uno stesso soggetto, per i medesimi fatti (e, dunque, per violazione del divieto di bis in idem processuale), altra giurisprudenza ha affrontato il problema dall’angolo visuale della natura della sanzione amministrativa. La Corte EDU ha, quindi, ritenuto violato il divieto di bis in idem in presenza di una sanzione formalmente amministrativa, tuttavia penale in senso materiale, per il carattere afflittivo della sanzione (3).
(1) Con riferimento alle conclusioni dell’Avvocato Generale M. Campos Sánchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017 nelle cause C-524/15 (Menci), C-537/16 (Garlsson Real Estate SA e a.) e cause C-596/16 e C-597/16 (Di Puma e Zecca). (2) La sentenza è di particolare rilievo per l’Italia, perché ha ad oggetto i poteri sanzionatori della CONSOB in ipotesi di violazioni delle disposizioni del Testo Unico della Finanza, in tema di abuso d’informazioni privilegiate e di abusi del mercato. La sentenza si segnala per la nettezza dei principi che in essa vengono affermati: infatti, qualifica la sanzione amministrativa comminata dalla CONSOB come sostanzialmente penale; evidenzia, poi, una serie di elementi qualificanti il procedimento sanzionatorio, non in linea con i principi del giusto processo, garantiti dall’art. 6 della CEDU. Tra questi la sentenza ne segnala alcuni emblematici: l’adozione della sanzione, inaudita altera parte, nonché l’assenza di un’udienza pubblica in Corte d’Appello; non potendosi considerare tale, secondo la Corte di Strasburgo, l’udienza in Cassazione, dati i limiti che caratterizzano la giurisdizione di legittimità. Principio sancito dalla Consulta, con sentenza n. 50 del 1989, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 39, comma primo, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636 (“Revisione della disciplina del contenzioso tributario”), nella parte in cui escludeva l’applicabilità ai giudizi che si svolgevano dinanzi alle commissioni tributarie di primo e secondo grado, dell’articolo 128 c.p.c. e, quindi, del principio di pubblicità dell’udienza, stabilito in tale articolo. In buona sostanza, la sentenza Grande Stevens riconosce la duplice violazione del divieto di bis in idem, nelle due diverse declinazioni, procedimentale e materiale. (3) Sulla spinta della giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, la Corte EDU ha proceduto ad una revisione e riconfigurazione della sua giurisprudenza nella fondamentale sentenza del 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, nella quale ha affermato che l’art. 4 del Prot. n. 7 vieta di punire una seconda violazione sulla base di fatti identici ovvero sostanzialmente uguali a quelli sui quali è stata basata la prima, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica (opzione chiara per l’idem factum e negazione dell’idem crimen). La Corte EDU descrive l’identità dei fatti come un insieme di circostanze concrete che riguardano il medesimo autore, inscindibilmente collegate tra loro nel tempo e nello spazio.
82
Parte quarta
Al riguardo occorre aggiungere, per completezza, che la sentenza della Corte EDU, Grande Stevens c. Italia, era stata preceduta da due decisioni della Corte di giustizia, in tema di rapporti tra divieto di bis in idem e doppio binario sanzionatorio amministrativo e penale. La sentenza del 5 giugno 2012, causa C-489/10 (Bonda), era relativa al concorso tra un procedimento penale in Polonia e sanzioni amministrative dell’Unione europea inflitte ad alcuni beneficiari di aiuti indebiti in materia agricola; mentre la sentenza Åkerberg Fransson c. Svezia, causa C617/10 del 2013, aveva ad oggetto il doppio binario sanzionatorio, tributario e penale. Decisioni che hanno indubbiamente avuto una qualche influenza nell’evoluzione della giurisprudenza convenzionale (4). Più di recente la Corte di Strasburgo, alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio tra l’esigenza di dare effettività ad un elementare principio di civiltà giuridica, riconosciuto come diritto fondamentale sia dalla CEDU, sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (5), ha tentato un riassestamento della propria giurisprudenza. L’obiettivo, sollecitato da diversi Paesi caratterizzati da un doppio binario sanzionatorio, era finalizzato a contenere le ipotesi di violazione del divieto di bis in idem nel caso di doppio binario sanzionatorio, operando una dubbia inversione di tendenza; senza, tuttavia, rinnegare i capisaldi del precedente indirizzo, moltiplicando le incertezze. La Grande Camera della Corte EDU (6) è pervenuta a questo risultato, ribadendo la validità dei criteri Engel (7); aggiungendovi, tuttavia, un nuovo parametro di valutazione, fondato sul criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” (8) tra i due procedimenti, utilizzato
(4) La Corte EDU, richiamando espressamente la sentenza Åkerberg Fransson, ha menzionato anche la convergenza dei due giudici europei sulla valutazione della natura penale di un procedimento tributario e, a fortiori, sulle modalità di applicazione del principio del ne bis in idem in materia tributaria e penale. Va in questa direzione la sentenza della Corte EDU del 30 aprile 2015, Kapetanios e a. c. Grecia. (5) Una spinta in questo senso è venuta anche dalla nettezza dei fatti e dei principi affermati nella sentenza Grande Stevens e dal conseguente automatismo delle decisioni. (6) Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, ricorsi nn. 24130/11 e 29758 /11. (7) Cfr. Corte EDU, Grande Camera, 23 novembre 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, in cui la Corte individua taluni criteri di riconoscimento della natura penale di una sanzione, come meglio verrà specificato nel corso del lavoro. (8) Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit. L’adozione del criterio della “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” può condurre
Rubrica di diritto europeo
83
dalla stessa Corte in qualche decisione risalente, per negare la violazione del principio. Prima di soffermarmi sui passaggi delle conclusioni dell’Avvocato generale che, nell’economia della causa che ci occupa, assumono maggiore rilievo, mi sembra opportuno anticipare che, nonostante la chiarezza della posizione assunta dall’Avvocato Generale, circa l’incompatibilità del doppio binario sanzionatorio col divieto di bis in idem, la decisione della Corte di giustizia non è scontata. Le questioni all’attenzione della Grande Camera apparentemente appaiono abbastanza chiare: il doppio binario sanzionatorio, così come è articolato attualmente in Italia, nel settore tributario e in quello degli abusi di mercato, in una pluralità di circostanze contrasta sia con l’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU, sia con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Tuttavia, si tratta di questioni complesse, che presentano sfaccettature molteplici, nei rapporti tra le fonti e tra gli ordinamenti; a partire dal dialogo tra le Corti che ha come sfondo, la dialettica, non meno delicata, tra potere legislativo e funzione giurisdizionale. Un dialogo triangolare, che si sviluppa sul piano interno nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di Cassazione, nonché tra queste e le Corti europee, sul terreno dei rapporti tra diritto convenzionale, diritto dell’Unione europea e diritto nazionale (9). Un percorso istituzionale in itinere, non sempre inquadrabile all’interno di categorie rigide; reso più incerto dalla scarsa sensibilità italiana ai segnali che vengono dalle istituzioni e dalle Corti europee. In questo quadro il tentativo di affinamento giurisprudenziale (10), fi-
la Corte EDU, in qualche circostanza particolare, ad escludere la violazione del divieto di “bis in idem”, come appunto nella causa A e B c. Norvegia. Tuttavia, in considerazione delle incertezze prodotte da un criterio temporale così generico, sembra difficile poterne far discendere un criterio interpretativo di ordine generale valido in ogni ordinamento. (9) Comprensibilmente, le riflessioni più esaustive relative al principio di ne bis in idem sono svolte dalla dottrina penalista che ne approfondisce i diversi risvolti, sia con riferimento ai rapporti tra diritto tributario nazionale e giurisprudenza delle Corti europee, sia con riguardo ai profili di ordine interno; a partire dal ruolo e dai limiti oggettivi della giurisprudenza costituzionale al riguardo. Sul punto, con ampi riferimenti alla dottrina penalistica, dopo la sentenza Grande Stevens, si rinvia all’interessante contributo di M. Caianiello, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’IVA: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, in Dir. pen cont., rivista on-line, 18 maggio 2015. (10) Con riferimento alla sentenza della Grande Camera, A e B c. Norvegia, si veda F. Colaianni - M. Monza, Il problema del “conflitto” tra ne bis in idem “internazionale” e doppio binario tributario. La parabola del principio verso l’eclisse?, in Riv. dir. trib., 2017, 2, Suppl. on-line, 23 ss., specie il & 4. I due Autori ritengono che la decisione della Corte EDU del
84
Parte quarta
nalizzato ad un contenimento delle ipotesi di “bis in idem sostanziale”, introdotto dal nuovo criterio di valutazione, ha suscitato numerose critiche in dottrina; destando, da ultimo, qualche indubbia, quanto lecita perplessità da parte dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona, chiamato intanto a pronunciarsi sul tema, rispetto ad una serie di rinvii pregiudiziali promossi dal Tribunale di Bergamo e dalla Corte di Cassazione italiana. Partendo dall’analisi di queste pronunce, egli mette in luce la debolezza della ricostruzione concettuale della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Essa sembra trascurare non solo un’esigenza di stretta predeterminazione della sanzione da irrogarsi; non appare, altresì, compatibile neppure con il principio di proporzionalità (11) e, prima ancora, con il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU (12), benché conduca verosimilmente ad una sanzione “integrata” (13). Una commistione tra norme e
novembre 2016 rappresenti una forzatura, piuttosto che un vero e proprio revirement rispetto a quanto stabilito nella sentenza Grande Stevens del 2014 (cfr. Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c/Italia). In tutti i casi, secondo questi studiosi, la soluzione norvegese non potrà avere ricadute nell’ordinamento interno, per la netta separazione dei due procedimenti, regolata dall’art. 20 del d.lgs. n. 74/2000. In ogni caso vi osterebbe la profonda differenza nell’ordinamento interno tra il procedimento amministrativo e quello penale nella valutazione e nella formazione della prova. (11) Sul rapporto tra il principio di ne bis in idem e il principio di proporzionalità si veda F. Amatucci, I principi della proporzionalità e del ne bis in idem nel sistema sanzionatorio tributario, in Dir. Prat. Trib. Int., 2015, 415 ss. (12) Sul tema si vedano, per ulteriori approfondimenti, gli interessanti contributi di G. Tabet, Giusto processo e giustizia tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rass. trib., 2013, 383 ss.; F. Tesauro, Giustizia tributaria e giusto processo, in Rass. trib., 2013, pp. 309 ss.; Id., Giusto processo e processo tributario, in Rass. trib., 2006, 1, 11 ss.; M. Cantillo, Giusto processo e giustizia tributaria nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Rass. trib., 2013, 395 ss.; A. Di Pietro, Giusto processo, giustizia tributaria e giurisprudenza comunitaria, in Rass. trib., 2013, 405 ss.; E. Della Valle, Il giusto processo tributario. La giurisprudenza della CEDU, in Rass. trib., 2013, 435 ss.; F. Gallo, Quale modello processuale per il giudizio tributario, in Rass. trib., 2011, 1, 11 ss.; Id., Sullo stato attuale della riforma del contenzioso tributario, in Rass. trib., 2000, 1, 15 ss.; Id. Verso un giusto processo tributario, in Rass. trib., 2003, 1, 11 ss.; Giovannini A., Giustizia e giustizia tributaria (riflessioni brevi sul giusto processo), in Rass. trib., 2011, 271 ss. Si segnalano, altresì, gli studi monografici di A. Poddighe, Giusto processo e processo tributario, Milano, 2010. Tra gli altri cfr. A. Bodrito – A. Marcheselli, Il giusto processo tributario, in Aa.Vv. Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009; L. Del Federico, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Milano, 2010. (13) Sul punto sembra utile riportare un breve passaggio della lunga ed articolata dissenting opinion alla sentenza A e B c. Norvegia; il giudice Pinto de Albuquerque il quale, dopo aver denunciato la vaghezza e l’arbitrarietà del concetto di “sufficiently close connection in substance and in time”, ha sostenuto come la decisione della Grande Camera apra le porte “to an unprece-
Rubrica di diritto europeo
85
diritto che affida alla giurisprudenza un ruolo di creazione del diritto, incompatibile con il principio di stretta legalità proprio della tradizione giuridica continentale in campo penale. Pertanto, sulla base dell’esame di alcuni rinvii pregiudiziali provenienti dall’Italia, relativi al doppio binario sanzionatorio tributario (amministrativo e penale) e all’analogo modello repressivo degli abusi di mercato disciplinato dal T.U.F. (Testo Unico della Finanza), l’Avvocato Generale, nelle conclusioni relative alle cause C-596/16, C-597/16, C-524/16 e C-537/16 e depositate il 12 settembre 2017 (14) ha evidenziato che il doppio binario sanzionatorio italiano potrebbe violare il principio di “ne bis in idem” (15) sia in materia
dented, Leviathan-like punitive policy based on multiple State-pursued proceedings, strategically connected and put in place in order to achieve the maximum possible repressive effect”. (14) Conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sánchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017 nelle cause C-524/15, Menci, C-537/16, Garisson Real Estate SA e a., e C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca. (15) In tema di doppio binario sanzionatorio e della violazione del principio di ne bis in idem cfr., ex multis, V. Maiello, Doppio binario sanzionatorio, ne bis in idem e reati tributari, in Giur. comm., Marzo-Aprile 2017, 348 ss.; M. Bontempelli, Verso un adattamento della disciplina italiana delle sanzioni tributarie al diritto europeo?, in Rass. trib., 2017, 2, 562 ss.; A. Giovannini, Recepimento e limiti dei principi “superiori” nel processo tributario, in Rass. trib., 2017, 2, 344 ss.; F. Russo, L’equilibrio storico sistematico tra processo penale e tributario alla luce dei principi CEDU e pronunce della Corte EDU, in Dir. Prat. Trib. Int., 2017, 1, 131 ss.; L. Tysserand, Doppio binario sanzionatorio e principio del ne bis in idem “sostanziale”: una soluzione in cerca di autore, in Dir. Prat. Trib., 2017, 3, 1296 ss.; F. Colaianni - M. Monza, Il problema del “conflitto” tra ne bis in idem “internazionale” e doppio binario tributario. La parabola del principio verso l’eclisse?, in Riv. dir. trib., 2017, 2, Suppl. on-line, 23 ss.; S. Manacorda, Equazioni complesse: il ne bis in idem “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 2017, 4, 514 ss.; S. Dorigo, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: il regresso della giurisprudenza sovranazionale, in GT-Riv. giur. trib., 2017, 6, 473 ss.; A. Calzolari, L’insostenibile incompatibilità dell’ordinamento nazionale con il principio del ne bis in idem, in Corr. Trib., 2017, 4, 309 ss.; P. Centore, La doppia sanzione per gli illeciti fiscali commessi dalla società (e dai suoi amministratori), in Corr. Trib., 2017, 20, 1554 ss.; A. De Lia, Brevi riflessioni in ordine alla rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute, tra ne bis in idem e principio di ragionevolezza, in Riv. dir. trib., 2017, 3, 55 ss.; G. Paroni Pini, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la Grande Camera detta i limiti di applicabilità del principio del ne bis in idem, in Riv. dir. trib., 17 gennaio 2017, Suppl. on-line; P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2016, 1, Suppl. online, 23 ss.; F. Polegri, Il principio del ne bis in idem tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, in Giur. it., 2016, 7, 1711 ss.; C. Santoriello, Sanzioni penali, sanzioni amministrative e ne bis in idem: la Cassazione rinvia alla Corte UE, in Il fisco, 2016, 42, 4079 ss.; E. Bindi, Corte costituzionale e doppio binario sanzionatorio (riflessioni a margine della sent. n. 102 del 2016), in Le Società, 2016, 10, 1125 ss.; E. A. Sepe, Ne bis in idem: in attesa di soluzione tra
86
Parte quarta
fiscale, sia nel campo degli abusi nel mercato finanziario. Le cause derivano, come detto, da tre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia tutti aventi ad oggetto la compatibilità di sistemi di doppio binario sanzionatorio, con il divieto di “bis in idem” di cui all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, anche nota come Carta di Nizza. 2. L’esame dei rinvii pregiudiziali. – Il primo rinvio pregiudiziale proviene dal Tribunale di Bergamo (16) (causa C-524/15, Menci), con riguardo
Corte di Giustizia e legislatore nazionale, in Il fisco, 2016, 46, 4448 ss.; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, in Dir. Prat. Trib., 2015, 2, 282 ss.; A. Giovannini, Il ne bis in idem per la Corte EDU e il sistema sanzionatorio tributario domestico, in Rass. trib., 2014, 5, 1155 ss.; G. M. Flick., Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Rass. trib., 2014, 939 ss.; G. Cesari, Illecito penale e tributario – Il principio ne bis in idem alla luce della più recente giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e di Cassazione, in Riv. dir. trib., 2014, 4, 74 ss.; M. Fidelbo, Il principio del ne bis in idem e la sentenza “Grande Stevens”: pronuncia europea e riflessi nazionali, in Publicatt, 2014; F. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del “doppio binario” nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, 1, 29 ss.; M. Dova, Ne bis in idem in materia tributaria: prove tecniche di dialogo tra legislatori e giudici nazionali e sovranazionali, in Dir. pen. cont., rivista on-line, 5 giugno 2014. (16) Cfr. Trib. Bergamo, ord. 16 settembre 2015, Giud. Bertoja. Ricordiamo che proprio sull’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 il Tribunale di Bologna (ord. 21 aprile 2015) aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per contrasto con l’art. 117 Cost., comma primo, in relazione all’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, per fatti aventi ad oggetto la disciplina di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997 e quella di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000. Siffatta questione di legittimità, peraltro, è apparsa pienamente sovrapponibile a quelle impiegate dalla Corte di Cassazione (Cass., Sez. V pen., ord. 10 novembre 2014, dep. 15 gennaio 2015; Cass., Sez. trib., ord. 6 novembre 2014, dep. 21 gennaio 2015) entrambe aventi ad oggetto la disciplina sanzionatoria prevista dal T.U.F. in materia di abusi di mercato. La prima ordinanza, in particolare (vale a dire quella del 10 novembre 2014), aveva ad oggetto il reato di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 184 T.U.F. (parimenti sanzionato sul piano amministrativo dall’art. 187bis T.U.F., tanto da poter sollevare, in via principale, questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 Cost., comma primo, nella parte in cui prevede: “salve le sanzioni penali, quando il fatto costituisce reato”; in via subordinata la questione di legittimità concerneva, invece, l’art. 649 c.p.p. nella parte in cui “non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU e dei relativi Protocolli”). Viceversa, la Sezione tributaria civile della Corte di Cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58/1998, ovvero l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato, ancora per contrasto con l’art. 117 Cost., comma primo, in relazione agli artt. 2 e 4 del Prot. n. 7 CEDU. La Corte costituzionale (sent. 12 maggio 2016, n. 102) ha dichiarato tali questioni semplicemente inammissibili per difetto di rilevanza, in parte deludendo le aspettative di chi si attendeva una presa di posizione sul merito della questione.
Rubrica di diritto europeo
87
ad un processo penale per il reato di omesso versamento IVA regolato dall’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000; la sanzione penale in tal modo inflitta ha, di fatto, rimesso in discussione il problema dell’ammissibilità o meno della comminazione di una duplice sanzione rispetto ad un imputato che, difatti, era già stato sanzionato in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria sulla base dell’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997 per lo stesso importo IVA non versato. Viceversa, un ulteriore rinvio pregiudiziale deriva dalla Sezione tributaria della Cassazione civile (17) e concerne un procedimento di opposizione contro un provvedimento sanzionatorio CONSOB rispetto all’illecito amministrativo di manipolazione del mercato di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58/1998 (c.d. T.U.F.). Il provvedimento era, infatti, stato inflitto nei confronti di due società e di una persona fisica (il noto immobiliarista Stefano Ricucci), che tuttavia avevano già definito mediante sentenza di patteggiamento il procedimento penale avviato nei loro confronti per il medesimo fatto, ricondotto per l’appunto al delitto di manipolazione del mercato ex art. 185 T.U.F. (causa 537/16, Garlsson Real Estate e a.). Da ultimo, ancora due rinvii pregiudiziali riuniti in un unico procedimento, provenienti dalla seconda Sezione civile della Corte di Cassazione e riguardanti due procedimenti paralleli di opposizione contro provvedimenti sanzionatori CONSOB per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187-bis T.U.F. nei confronti di due persone fisiche, rispetto alle quali in sede penale e in relazione al medesimo fatto era stata pro-
Infine, con riguardo al già citato Tribunale di Bologna, la Corte costituzionale sembra voler prender tempo in attesa della pronuncia della Corte di giustizia, decidendo la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione sollevata, considerate le novità legislative intervenute con la riforma dei reati tributari, ovvero con il d.lgs. n. 158/2015; in specie verificando la sussistenza o meno degli estremi della causa di non punibilità ex art. 13-bis del d.lgs. n. 74/2000. In definitiva, il Tribunale di Bergamo, pur ripercorrendo le stesse linee argomentative, investe della questione la Corte di giustizia e non la Corte costituzionale; sollevando, per l’appunto, questione pregiudiziale di interpretazione. Rispetto, dunque, ai precedenti citati, la questione non ha ad oggetto né l’art. 649 c.p.p., né l’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, quanto piuttosto l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. (17) Cfr. Cass., Sez. trib., ord. 13 ottobre 2016, n. 20675. L’ordinanza rimette due diverse questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia europea. Con la prima delle due questioni pregiudiziali essa chiede di chiarire se l’art. 50 della Carta di Nizza, interpretato alla luce dell’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, costituisca un ostacolo alla celebrazione di un procedimento di natura amministrativa, avente ad oggetto il medesimo fatto già sanzionato mediante una sentenza penale divenuta irrevocabile. La seconda questione pregiudiziale, invece, riguarda la possibile diretta applicazione da parte del giudice interno dell’art. 50 della Carta.
88
Parte quarta
nunciata sentenza di assoluzione in relazione al corrispondente delitto di abuso di informazioni privilegiate ai sensi dell’art. 184 T.U.F. (causa C-596/16 e causa C-597/16, Di Puma e Zecca) (18). In specie, nelle richiamate conclusioni (19) l’Avvocato generale riporta l’attenzione sul fatto che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE non consente la doppia repressione, amministrativa e penale, della medesima condotta illecita di abuso di mercato, allorquando la sanzione amministrativa presenti sostanzialmente natura penale, nonché allorquando sia prevista la ripetizione dei procedimenti contro la medesima persona e per fatti identici, senza predisporre un meccanismo processuale volto ad evitare tale duplicità. L’Avvocato generale sottolinea, inoltre, che il carattere precettivo del principio fissato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE è di immediata comprensione e non offre margini di dubbio all’interprete. Tuttavia, in considerazione delle incertezze sull’effettiva portata di tale norma, riscontrate nella giurisprudenza italiana al riguardo, M. Campos Sanchez-Bordona sottolinea che il principio di ne bis in idem può essere fatto valere direttamente da un singolo dinanzi ad un organo giurisdizionale nazionale. Quest’ultimo è chiamato ad assicurare la piena efficacia del diritto al ne bis in idem, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante una sentenza della Corte costituzionale. In questo modo l’Avvocato generale, di fronte alle resistenze italiane ad adeguare il proprio sistema binario di repressione degli abusi di mercato, a seguito della sentenza Grande Stevens c. Italia, vuole mettere in luce che il principio di ne bis in idem costituisce parte integrante del diritto primario dell’Unione; ricordando, dunque, che esso prevale sulle direttive, sui regolamenti e sulle norme interne degli Stati membri (20).
(18) Entrambe le vicende sono posteriori alla sentenza Grande Stevens del marzo 2014 (Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c/Italia, cit.), che, come già detto, aveva sanzionato la violazione del divieto di bis in idem da parte della normativa dettata dagli articoli 187-ter, 184 e 185 del T.U.F., per contrastare la manipolazione del mercato. (19) Si rinvia alle conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona, presentate il 12 settembre 2017, Causa C524/15 (Menci), in Info Curia – Giurisprudenza della Corte di giustizia. (20) In caso di norme incompatibili con il diritto al ne bis in idem il giudice nazionale o le autorità amministrative competenti dovrebbero archiviare i procedimenti pendenti, senza conseguenze negative per l’interessato che sia già stato perseguito o sanzionato in un altro procedimento penale o amministrativo avente natura penale. Questa posizione sulla portata del divieto di
Rubrica di diritto europeo
89
Ad ogni modo ciò che emerge con estrema chiarezza è che il legislatore nazionale può liberamente stabilire per medesimi fatti illeciti un doppio binario di procedimenti paralleli (amministrativo e penale), più o meno vicini sotto il profilo temporale. Tanto, tuttavia, non abilita la legge nazionale ad introdurre limitazioni al principio del ne bis in idem; men che meno al fine di garantire tutela agli interessi finanziari dell’Unione (21). Un riferimento, quest’ultimo, che fa comprendere che, almeno nelle conclusioni dell’Avvocato generale, il sistema del doppio binario sanzionatorio italiano, così come è attualmente, non dovrebbe avere scampo. In base a quanto ulteriormente osservato dall’Avvocato generale, la Corte di giustizia, sulla base dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, non dovrebbe accogliere l’interpretazione restrittiva del diritto al ne bis in idem offerta recentemente dalla Corte di Strasburgo in relazione all’art. 4, Prot. n. 7 della CEDU, il cui contenuto è analogo. Tuttavia, secondo quanto esposto nelle conclusioni da M. Campos Sanchez-Bordona, la Corte di giustizia dovrebbe rifiutarsi di percorrere la strada del mutamento giurisprudenziale della Corte EDU con riguardo, per l’appunto, all’art. 4 del protocollo n. 7, benché la giurisprudenza della Corte EDU sia di immediata rilevanza ai fini dell’interpretazione del diritto al ne bis in idem riconosciuto dall’art. 50 CDFU (22); a nulla rilevando, come aveva in-
bis in idem, regolato dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentale dell’UE, illustrata con grande chiarezza dall’Avvocato generale nelle conclusioni davanti alla CGUE, evidenzia una netta differenza rispetto all’analogo principio recato dall’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU. Infatti, mentre di fronte ad una violazione del divieto di bis in idem disciplinato dalla Carta di Nizza il giudice nazionale può disapplicare la norma interna contrastante con tale divieto, come ricordato dall’Avvocato Generale; nel caso, invece, di violazione del medesimo divieto stabilito dalla CEDU, l’incompatibilità della norma interna contrastante con il divieto o viene superata in via interpretativa oppure potrà essere eliminata dal legislatore ovvero da una sentenza della Corte costituzionale. (21) Gli interessi finanziari dell’Unione rilevano, conformemente a quanto sostenuto dall’Avvocato generale, in relazione ad un’esigenza di effettività delle sanzioni. Si legge, infatti, nelle conclusioni: “L’esigenza di effettività delle sanzioni si trasforma, secondo la sentenza Taricco e a., in un requisito che incide sulla libertà di scelta degli Stati membri, in quanto «possono (...) essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA». Siffatta limitazione trova peraltro fondamento nell’art. 325 TFUE, ai sensi del quale gli Stati membri devono lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, devono adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi”. (22) Difatti, in base al disposto dell’art. 52, par. 3 CDFUE, il significato e la portata dei diritti riconosciuti dalla Carta devono essere almeno pari a quelli conferiti alle corrispondenti garanzie sancite dalla Convenzione europea (e dai suoi protocolli).
90
Parte quarta
vece sostenuto l’Avvocato generale Cruz Villanón, nelle proprie conclusioni in Fransson (23), il fatto che la norma convenzionale non sia stata ratificata da tutti gli Stati membri dell’UE). La soluzione indicata dalla Grande Camera della Corte EDU (A e B c. Norvegia) (24) raffigura il livello minimo di tutela che il diritto dell’Unione è chiamato a garantire. La Corte di giustizia dovrebbe offrire un livello di tutela più elevato nell’ambito dell’Unione, ove ne sussista l’opportunità. Un’opportunità che sussiste senz’altro, secondo l’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona: difatti, il nuovo criterio introdotto in A e B dalla Corte di Strasburgo aggiunge “notevole incertezza e complessità al diritto delle persone di non essere giudicate né condannate due volte per gli stessi fatti”, mentre “i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta devono essere di facile comprensione per tutti” e occorre possano applicarsi in modo prevedibile e certo (conclusioni in causa Menci, par. 73). A parere di chi scrive, nelle argomentazioni svolte e sostanzialmente volte a ricordare ai giudici nazionali come il principio del ne bis in idem sottenda esigenze e principi fondamentali di uno Stato di diritto, sembra potersi leggere tra le righe un richiamo al maggiore rilievo che ha acquisito negli ultimi anni il rapporto tra giudice nazionale e giudice europeo, nella duplice declinazione della Corte EDU e della Corte di giustizia. In questa prospettiva, la rivendicazione da parte dell’Avvocato generale, M. Campos Sanchez-Bordona di una maggiore tutela dei diritti dei cittadini europei, nelle materie regolate dal diritto dell’Unione, rispetto al diritto convenzionale, indica lucidamente il ruolo centrale del diritto, nello sviluppo dell’Unione europea. 3. Analisi delle conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona. 3.1. Il doppio binario sanzionatorio tributario e il divieto di bis in idem: un’incompatibilità strutturale che non trova appigli nella Carta dei dirit-
(23) Cfr. Corte giust., 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Aklagaren c/ Hans AkerbergFransson. In specie, con tale pronuncia la Corte di giustizia ha ritenuto compatibile il concorso tra sanzioni amministrative e penali in tema di IVA per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi; spetta al giudice nazionale di verificare in concreto la sussistenza del carattere sostanzialmente penale della sanzione amministrativa. Si può discutere sulla legittimità di tale condizione di indeterminatezza. Cfr. sul punto C. Fregni, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e tassazione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2014, 210 ss. (24) Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit.
Rubrica di diritto europeo
91
ti fondamentali dell’UE. – Al fine di fornire qualche utile chiarimento delle osservazioni svolte dall’Avvocato generale nelle conclusioni depositate il 12 settembre 2017 mi è parso opportuno muovere dalle questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di giustizia dell’Unione europea (25). Al riguardo occorre sottolineare che M. Campos Sanchez-Bordona, in presenza di tre diversi rinvii pregiudiziali, aventi tutti ad oggetto il rapporto tra doppio binario sanzionatorio e divieto di bis in idem, ma con riferimento a normative e a situazioni diverse, ha svolto tre distinte conclusioni, coordinate tra loro, in modo da suggerire alla Corte tre proposte di decisione coerenti con il contenuto dell’art. 50 della Carta di Nizza. Il lavoro ricostruttivo è, quindi, di grande interesse, anche per il diverso approccio al tema delle tre ordinanze. A partire dal conflitto tra il divieto di bis in idem (stabilito dall’art. 50 della CDFUE) e il vigente sistema di doppio binario sanzionatorio parallelo (amministrativo e penale) nel sistema tributario, che, in seguito alla novella del 2015, ha ridotto, senza eliminarle, le ipotesi di conflitto (26). Il giudice del rinvio (nella specie, il Tribunale di Bergamo, da cui origina la causa C-524/15, Menci), con espli-
(25) Il primo dei procedimenti esaminati concerne la causa C-524/15 (Luca Menci). La questione pregiudiziale, come detto, proviene dal Tribunale di Bergamo che, nell’ambito di un procedimento penale instaurato per il reato di omesso versamento IVA (art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000) a carico di un imputato che era già stato sanzionato dall’Agenzia delle Entrate, ha sottoposto alla Corte di giustizia la descritta questione pregiudiziale. (26) È bene ricordare che il d.lgs. n. 158/2015, nel tentativo di riformare il sistema sanzionatorio tributario, ha introdotto talune novità che impattano negativamente sul principio di ne bis in idem. Difatti, tale riforma ha modificato, altresì, l’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000, relativo alle cause di non punibilità dei reati tributari. Non sono punibili i reati di omesso versamento di ritenute certificate, omesso versamento dell’IVA, indebita compensazione, ove l’autore di tali condotte provveda, nella fase di avvio del giudizio di primo grado, all’estinzione integrale dei debiti tributari (compresi le sanzioni amministrative e gli interessi) mediante pagamento degli importi dovuti. Viceversa, i reati di omessa o infedele dichiarazione non sono punibili qualora il pagamento, effettuato nel modo appena descritto, avvenga entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo (sempre che si verifichi prima che l’autore della condotta abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche ovvero di altra attività di accertamento amministrativo ovvero di procedimenti penali). Peraltro, qualora prima della dichiarazione di apertura del dibattimento il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito residuo, con facoltà per il giudice di prorogare questo termine una sola volta, per non oltre tre mesi, non consentendo, invece, di concedere un termine più lungo, coincidente con lo scadere del piano di rateizzazione, perlomeno in determinate circostanze. Il legislatore è, altresì intervenuto, sugli artt. 3, 4 e 5 del d.lgs. n. 74/2000, elevando le soglie di punibilità nei casi di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, di dichiarazione infedele ovvero di dichiarazione omessa.
92
Parte quarta
cito richiamo all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, mette in luce le incertezze interpretative relative a due elementi del ne bis in idem, vale a dire l’identità dei fatti (idem) e la ripetizione dei procedimenti (bis). Difatti, l’applicazione del principio del ne bis in idem, tutelato, per l’appunto, dall’art. 50 della Carta, esige, in base alla giurisprudenza europea, la presenza di quattro condizioni, ovvero: 1) che la persona perseguita o sanzionata sia la stessa; 2) l’identità dei fatti oggetto di giudizio (idem); 3) la duplicazione dei procedimenti sanzionatori (bis); 4) il carattere definitivo di una delle due decisioni. Pertanto, il rinvio pregiudiziale del giudice lombardo si basa sull’ipotesi che l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, interpretato alla luce dell’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della normativa nazionale, osti alla possibilità di dare avvio ad un procedimento sanzionatorio avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia riportato in precedenza una sanzione amministrativa definitiva; dunque, un fatto rispetto al quale il medesimo soggetto abbia riportato condanna di natura penale irrevocabile (par. 18). Il governo italiano ha difeso la legittimità del doppio binario sanzionatorio sulla base di due argomenti. Il primo, si basa sulle sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2013, vale a dire sulla nozione di “progressione criminosa”, escogitata per aggirare sia il principio di specialità, sia la violazione del divieto di bis in idem (27). Il
(27) Dalla lettura del testo dell’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000, che regola il principio di specialità, sorge spontanea una domanda: com’è possibile che, nonostante una regola così chiara come quella dettata dall’art. 19, il divieto di bis in idem risulti violato in una pluralità di circostanze? La risposta deve cercarsi nell’eterogenesi dei fini che caratterizza il sistema penaltributario, in seguito ad una serie di interventi scoordinati, introdotti in tempi diversi dal legislatore, con l’obiettivo di affiancare alla funzione dissuasiva propria delle sanzioni penali anche l’ulteriore profilo di sussidiarietà, al fine di agevolare la riscossione delle sanzioni amministrative. Rappresentative di questa tendenza sono le modifiche introdotte al d.lgs. n. 74/2000, che condizionano la determinazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.) e la sospensione condizionale della pena al previo pagamento delle imposte evase e delle relative sanzioni. A queste, vanno aggiunte, per il ruolo determinante assunto nella moltiplicazione delle ipotesi di violazione del divieto di bis in idem, le nuove figure di reato introdotte nel d.lgs. n. 74/2000, con gli artt. 10-bis (omesso versamento di ritenute dovute o certificate), 10-ter (omesso versamento di IVA) e 10-quater (indebita compensazione); si tratta, infatti, di sanzioni penali che, al superamento di determinate soglie di punibilità, si sovrappongono alle sanzioni amministrative per ritardati ed omessi versamenti diretti, regolate dall’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997. A questi
Rubrica di diritto europeo
93
secondo argomento fa riferimento al fatto che il sistema del doppio binario sanzionatorio, tributario e penale, rappresenti un principio fondamentale derivante dalla tradizione costituzionale italiana (28). Richiamandosi, pe-
elementi, di per sé significativi, occorre aggiungere altre due specificazioni: la prima, contenuta nell’art. 20 del d.lgs. n. 74/2000, introduce il principio della netta separazione, quindi della necessaria duplicazione del procedimento amministrativo e del processo tributario rispetto a quello penale. Di qui il contrasto strutturale con il divieto di ne bis in idem processuale, accompagnato dall’inesigibilità delle sanzioni amministrative, fino alla conclusione del processo penale. Se a questo quadro si aggiunge che, nonostante il carattere sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative, alla luce della giurisprudenza europea, la Corte di Cassazione ha ritenuto, per ragioni formali, che il principio di specialità non si applichi alle sanzioni amministrative, negandone la natura penale, nonché svuotando tale principio di ogni residua portata garantista, si comprende perché, nonostante la sentenza Grande Stevens e la novella legislativa introdotta con il d.lgs. n. 158/2015, il problema del contrasto tra doppio binario sanzionatorio e principio di ne bis in idem non abbia ancora trovato una soluzione soddisfacente, conforme ai principi di diritto europeo. (28) Al riguardo occorre riconoscere che la posizione del governo italiano, nella vicenda che ci occupa, è obiettivamente difficile: supportata con argomenti che non trovano appigli neppure nella sentenza della Grande Camera del novembre 2016, assai criticata da Campos Sanchez-Bordona. L’affermazione, poi, che il sistema del doppio binario processuale sia espressione delle tradizioni costituzionali italiane è stata smentita al livello più autorevole dalla sentenza della Corte costituzionale del 21 luglio 2016, n. 200. La questione all’esame della Consulta non riguardava direttamente il rapporto tra doppio binario amministrativoafflittivo e quello penale in campo tributario, avendo ad oggetto una vicenda di ne bis in idem riferita a due procedimenti formalmente penali. Tuttavia, la violazione del principio stabilito dalla CEDU (art. 4, Prot. n. 7), pur non recepita nel testo costituzionale, secondo la Corte è immanente al sistema, in relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione, nella lettura in senso naturalistico e materiale dell’idem factum offerta dalla giurisprudenza della Corte EDU. Con la sentenza n. 200/2016 la Consulta ha, quindi, fatto propria la giurisprudenza convenzionale sul punto ed ha optato per la soluzione del “fatto storico”, inteso in senso materiale e non giuridico-formale. Secondo la Consulta: “Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico e ripudiano l’intorbidamento della valutazione comparativa, in forza di considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Le sempre opinabili considerazioni sugli interessi tutelati dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell’evento, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant’altro concerne i diversi reati, oggetto dei successivi giudizi, non si confanno alla garanzia costituzionale e convenzionale del ne bis in idem e sono estranee al nostro ordinamento”. Sul punto si segnala l’interessante contributo di F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, in www.cortedicassazione.it. In particolare il Presidente Emerito della Corte costituzionale, F. Gallo, commenta: “Anche la Consulta, seppur con riferimento al solo art. 649 (e, quindi, alla sola sanzione penale), dà perciò un’interpretazione del ne bis in idem in sintonia con quella della Corte EDU, perché chiarisce che l’idem factum è da intendersi in senso naturalistico e non giuridico. Deve trat-
94
Parte quarta
raltro, alle norme di interpretazione della Carta contenute nel suo art. 52, parr. 4 e 6 (29). L’Avvocato generale osserva che gli Stati membri intervenuti hanno sottolineato che, sulla possibilità di cumulare sanzioni penali e amministrative per gli stessi fatti, le legislazioni e le prassi nazionali sono molto variegate. Pertanto, auspicano un’interpretazione restrittiva dell’art. 50 della Carta, che garantisca agli Stati un potere repressivo adeguato, conformemente a quanto stabilito dalla Corte EDU nella sentenza A e B c. Norvegia. Una conclusione respinta da Campos Sanchez-Bordona, con riferimento ad entrambe le disposizioni invocate (art. 52, paragrafi 4 e 6) dalla Corte remittente. In relazione al paragrafo 6, egli sottolinea che esso si applica solo ad alcune disposizioni specifiche della Carta, tra cui non rientra l’art. 50 (30). Mentre la limitazione del divieto alle sole sanzioni penali in senso stretto, in aderenza alle tradizioni di alcuni Stati, condurrebbe ad un’interpretazione dell’art. 50 della Carta ancora più restrittiva di quella accolta dalla Corte EDU con la sentenza A e B c. Norvegia. Un’ipotesi incompatibile con quanto stabilito dall’art. 52, par. 3 (31). Sul punto centrale, relativo all’“identità dei fatti”, l’Avvocato generale
tarsi, cioè, di un evento che, rilevando esclusivamente quale modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione del soggetto indagato, ha una connotazione oggettiva materiale e prescinde dalla qualificazione giuridica della fattispecie di reato. Questa definizione della Corte costituzionale dell’idem factum in senso naturalistico è importante perché, indipendentemente dal fatto che è stata data in riferimento alle sole sanzioni penali (e non al cumulo tra sanzione amministrativa e sanzione penale), sembra, in via generale, prendere le distanze dalle indicate sentenze gemelle della Suprema Corte, non accettando l’interpretazione del “medesimo fatto” che quest’ultima dà in termini di «raffronto astratto» tra diverse fattispecie”. (29) La prima disposizione stabilisce che: “laddove la presente Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni”. In base alla seconda disposizione, invece, “si tiene pienamente conto delle legislazioni e prassi nazionali, come specificato nella presente Carta”. (30) Secondo l’Avvocato generale la norma interpretativa di cui all’art. 52, par. 6, non è applicabile all’art. 50 della Carta, dato che, come affermato dalla Commissione, detta disposizione non contiene alcun riferimento alle legislazioni e alle prassi nazionali (a differenza di altre disposizioni, quali gli artt. 16, 27, 28, 30, 34, 35 o 36 della Carta) (par. 66). (31) Un simile risultato sarebbe incompatibile con l’art. 52, par. 3, della Carta; sicché le tradizioni costituzionali comuni, ove ne esistessero in materia, potrebbero servire come criterio di interpretazione dell’art. 50 della Carta solo qualora comportassero un livello di tutela del diritto più elevato (v. par. 68 delle conclusioni dell’Avvocato generale).
Rubrica di diritto europeo
95
afferma con estrema chiarezza che sussistono pochi dubbi sulla circostanza che i fatti per i quali il soggetto è stato sanzionato due volte siano identici (32). Difatti, rispetto alla specifica materia delle violazioni tributarie, oggetto del procedimento Menci, appare inequivoca l’identità della somma evasa oggetto dei paralleli procedimenti sanzionatori, tributario e penale (33). La tesi della “progressione criminosa” che, secondo il governo italiano, legittima il doppio binario sanzionatorio, si fonda sulla giurisprudenza di legittimità (34). Con le sentenze gemelle del 28 marzo 2016, le Sezioni Unite avevano ritenuto che le duplici sanzioni amministrative-tributarie per omesso versamento delle ritenute e dell’IVA periodica (mensile o trimestrale), regolate dall’art. 13, comma primo, del d.lgs. n. 471/97 e gli illeciti penali previsti dagli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74/2000, avendo ad oggetto fattispecie diverse, non erano regolate dal principio di specialità, stabilito dall’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000, quanto piuttosto dal principio di “progressione criminosa” (35). Pertanto, la
(32) Al riguardo si riporta il paragrafo 99. Per quanto riguarda l’«idem», ossia l’identità dei fatti, la giurisprudenza della Corte (in particolare quella elaborata in relazione all’art. 54 della Convenzione di Schengen, già citata) e la giurisprudenza della Corte EDU dopo la sentenza Zolotukhin c. Russia contiene indicazioni sufficienti che possono essere trasposte all’applicazione dell’art. 50 della Carta, in caso di cumulo di sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’IVA. (33) Su questo tema, centrale per la comprensione della portata del principio di ne bis in idem in campo tributario, si rinvia alle puntuali considerazioni di G. Flora, Il ne bis in idem “europeo”: devastante tsunami o vento che spazza le nuvole?, in Rass. trib., 2016, 4, 10011011. (34) È interessante notare che, mentre ad oltre tre anni dalla sentenza Grande Stevens, la nostra Corte di Cassazione moltiplica il proprio impegno a sostegno della legittimità del cumulo delle sanzioni tributarie amministrative e penali, la Corte Suprema svedese, a pochi mesi dalla sentenza Åkerberg Fransson c. Svezia, ha modificato la sua giurisprudenza e, in alcune sue decisioni di giugno e luglio del 2013, ha stabilito che la normativa svedese che consentiva il cumulo di sanzioni tributarie e penali per omesso versamento dell’IVA era in contrasto con il principio del ne bis in idem. (35) La tesi della “progressione criminosa”, introdotta dalle Sezioni Unite con le sentenze gemelle del 28 marzo 2013, nn. 37424 e 37425, è stata fortemente criticata dalla dottrina penalistica, in quanto avulsa dall’evoluzione del diritto europeo e della giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo. La teoria si presenta ancora più fragile dal punto di vista del diritto tributario. L’unico elemento di differenziazione tra la sanzione tributaria regolata dal d.lgs. n. 471/1997 e quella penale è costituito dal fatto che l’illecito tributario e la conseguente sanzione amministrativa hanno ad oggetto il mancato versamento mensile o trimestrale delle ritenute, in materia di imposte dirette e dei versamenti IVA periodici. Viceversa, l’illecito penale si realizza su base annuale, quando la somma dei versamenti omessi supera la soglia di punibilità. In buona sostanza, mentre l’omissione dei versamenti periodici, in tema di IVA che qui ci occupa, può non comportare violazione dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 64/2000 (perché i mancati
96
Parte quarta
duplicità della sanzione non comporta violazione del principio di ne bis in idem, di cui all’art. 649 c.p.p.; principio che, nell’ordinamento interno, non ha rilievo costituzionale (36).
versamenti periodici possono essere corretti con la dichiarazione annuale ovvero possono non integrare il delitto per non aver superato le soglie di punibilità), la violazione di tale disposizione comporta in ogni caso anche la violazione dell’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997. In definitiva, la teoria della “progressione criminosa”, inventata dalle Sezioni Unite per aggirare il principio di specialità, recato dall’art.19 del d.lgs. n. 74/2000 e per consentire il cumulo delle sanzioni, viola ipso facto il divieto di bis in idem stabilito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La giurisprudenza delle Sezioni Unite è l’ennesima manifestazione del “favor fisci” nella forma più discutibile, perché ne estende gli effetti perfino alla materia penale. Per poter giungere a questa conclusione le Sezioni Unite sorvolano sull’evoluzione del diritto europeo, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, nonché sul valore di principio fondamentale del divieto di bis in idem, sia nel diritto convenzionale (art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU – art. 50 CDFUE), sia in quello dell’UE. Si può aggiungere, al riguardo, che dopo la novella del 2015 che ha introdotto nell’art. 13 la causa di non punibilità, la disposizione ha perduto ogni connotato sanzionatorio, in quanto strumentale al regolare adempimento della sanzione amministrativa, penale in senso materiale. Un elemento che evidenzia ulteriormente il carattere strumentale della tesi della “progressione criminosa”. Sul punto si rinvia alle interessanti considerazioni svolte da E. Mengoni, Ne bis in idem in materia tributaria e giurisprudenza sovranazionale: una questione ancora aperta, in Magistratura Indipendente, 30 maggio 2016. Vedi anche la Relazione di orientamento dell’Ufficio del Massimario penale della Corte di Cassazione, n. 26/2017, intitolata: “Ne bis in idem. Percorsi interpretativi e recenti approdi della giurisprudenza nazionale ed europea”. (36) Sul tema è, di recente, intervenuta la Corte costituzionale, con sentenza n. 43 del 2 marzo 2018, nella quale la Corte sembra consegnare all’attenta valutazione del legislatore il sistema del doppio binario sanzionatorio, ritenendo che il principio di specialità, di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000, non sembra garantire la tenuta costituzionale del sistema normativo interno, alla luce delle norme interposte europee. Difatti, in questa pronuncia, la Corte richiama il legislatore a “stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che il sistema del doppio binario determina tra ordinamento nazionale e CEDU”. (Sul punto cfr. E. De Mita, Contro il diritto UE il doppio binario sulle sanzioni, in Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2018). Rispetto alla ricostruzione fornita dalla Corte di Strasburgo nella sentenza A e B c. Norvegia, la Corte osserva che non può escludersi che l’applicazione del divieto convenzionale di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per lo stesso fatto si imponga ancora, tutte le volte in cui venga a mancare il legame temporale e materiale sufficientemente stretto, per un cavillo normativo ovvero a causa delle modalità di svolgimento delle vicende procedimentali. Difatti, chiarisce la Corte: “neppure si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrigata. Se pertanto la prima sanzione fosse modesta, sarebbe in line di massima consentito, in presenza del legame temporale, procedere nuovamente al fine di giungere all’applicazione di una sanzione che nella sua totalità non risultasse sproporzionata, mentre nel caso opposto il legame materiale dovrebbe ritenersi spezzato e il divieto di bis in idem pienamente operante”. Questa considerazione, sul piano astratto, è ineccepibile e consen-
Rubrica di diritto europeo
97
In disparte le critiche della dottrina, anche la giurisprudenza di legittimità, ha manifestato dubbi circa la sostenibilità della “progressione criminosa” come canone interpretativo per disinnescare il principio di specialità, di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000. La terza Sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 19334/2015 aveva preso le distanze dalle sentenze delle Sezioni Unite del 2013, sostenendo che la teoria della “progressione criminosa” presenta “non irrilevanti dubbi di compatibilità con la normativa eurocomunitaria” con riferimento al divieto di bis in idem (37). Una posizione, come abbiamo visto, fatta propria dalla sentenza n. 200/2016 della Consulta. Osserva, a questo proposito, Campos Sanchez-Bordona: “secondo la tesi prevalente in tale giurisprudenza, il divieto di doppia sanzione si riferisce ai medesimi fatti materiali (idem factum), intesi come un insieme di circostanze concrete inscindibilmente connesse, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica (idem crimen) o dall’interesse giuridico tutelato. Il giudice deve chiarire, conformemente alla regola sopra esposta, se le sanzioni tributarie
te alla Corte, in presenza di una giurisprudenza della Grande Camera della Corte EDU meno netta nella definizione della violazione del diritto al ne bis in idem, rispetto alla sentenza Grande Stevens del 2016, di rimettere la questione al giudice del rinvio per un nuovo esame, alla luce della sentenza A e B c. Norvegia. Non trascurando, tuttavia, di richiamare il legislatore ad intervenire, per eliminare le possibili interferenze tra il principio convenzionale e l’ordinamento tributario o finanziario interno. Se, tuttavia, si esamina la vicenda alla luce delle condizioni di fatto richiamate nell’ordinanza di rimessione dal giudice del rinvio e del carattere afflittivo delle sanzioni amministrative tributarie, la violazione del divieto convenzionale è difficile da escludere. Sulla base, tuttavia, di quanto già osservato nel corso del lavoro, alla luce anche dei precedenti giurisprudenziali sul punto, appare chiaro come il parametro normativo sostanzialmente in discussione non sia l’art. 4 del Prot. n. 7 CEDU, quanto piuttosto l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, di cui, non casualmente, l’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona ha chiesto alla Grande Sezione della Corte Lussemburghese di assicurare al divieto di bis in idem una protezione più ampia rispetto a quella garantita dalla Corte EDU. Se la Corte costituzionale, con la richiamata decisione n. 43/2018, ha manifestato una serie di dubbi circa la compatibilità del vigente sistema del doppio binario sanzionatorio con il divieto di bis in idem convenzionale, anche in presenza della sentenza A e B c. Norvegia, meno netta rispetto alla precedente giurisprudenza, gli stessi dubbi non sembrano sfiorare la terza Sezione della Cassazione penale nella sentenza n. 6993 del 14 febbraio 2018. Nella sentenza, infatti, la Cassazione utilizza la giurisprudenza della Grande Camera della Corte EDU per riaffermare la legittimità del doppio binario sanzionatorio. (37) La sentenza n. 19334 dell’11 febbraio 2015 della terza Sezione penale della Cassazione ha precisato che: “non è il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem […], bensì l’identità materiale e naturalistica del fatto. Poco importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicità. Ciò che conta, per ritenere violato il divieto, è che l’effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto”.
98
Parte quarta
per omesso versamento dell’IVA e le sanzioni penali per il mancato pagamento dell’IVA dovuta annualmente si applichino agli stessi fatti” (parr. 100-101). Sicché egli ritiene che, per ragioni funzionali, spetti poi al giudice del rinvio valutare se la sanzione amministrativa già irrogata e divenuta definitiva abbia natura sostanzialmente punitiva, in base ai criteri Engel (38). In ogni caso, la novella legislativa al d.lgs. n. 74/2000, introdotta con il d.lgs. n. 158/2015, pur avendo ridotto significativamente le possibili ipotesi di contrasto al divieto, attraverso l’introduzione della causa di non punibilità (art. 13), le ha, tuttavia, concentrate nei casi regolati dall’art. 13-bis, vale a dire nelle ipotesi di violazioni più gravi delle leggi tributarie (39). A ben vedere, il ruolo primario dell’art. 13, nel testo novellato, sembra, infatti, finalizzato, nell’intento del legislatore, a spingere il contribuente, sottoposto a contestazioni potenzialmente di rilievo anche penale, a definire la controversia nella fase dell’accertamento utilizzando gli istituti deflattivi del contenzioso, piuttosto che ad affrontare i costi ed i rischi di una lunga fase contenziosa. In ogni caso, il contenimento delle violazioni del divieto di bis in idem, in seguito alla novella del 2015, non è il risultato di un coordinamento tra i diversi procedimenti sanzionatori, tributario e penale, ma solo il prodotto del
(38) La Corte europea, infatti, (nel celebre caso Engel del 1976) detta taluni criteri di riconoscimento della natura penale di una sanzione. Anzitutto rileverebbe, secondo la Corte di Strasburgo, la qualificazione che nel diritto interno è riconosciuta alla sanzione; tale criterio implica, cioè, la verifica da parte del giudice europeo sul fatto che il diritto interno riconduca l’infrazione nell’ambito di quelle penali. In mancanza di una qualificazione formale, la valutazione attiene al profilo sostanziale, alla stregua dei criteri su cui fonda la classificazione interna. In secondo luogo rileverebbe la circostanza che la sanzione trovi applicazione all’esito di un processo penale e che la stessa risulti, peraltro, collegata al reato; rileverebbe altresì la severità della pena (in astratto e in concreto); rileverebbe, infine, la finalità e la natura stricto sensu afflittiva e sanzionatoria della misura inflitta dall’ordinamento. (39) Il d.lgs. n. 158 del 24 settembre 2015, agli artt. 11 e 12, ha modificato, come anticipato, l’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000, trasformando la circostanza attenuante del pagamento del debito tributario in causa di non punibilità. In particolare, ribadiamo, rientra nella previsione del nuovo art. 13 la non punibilità, al seguito del pagamento del debito tributario, delle fattispecie indicate negli articoli 4 e 5 dello stesso decreto legislativo. Il medesimo trattamento è stabilito per le ipotesi regolate dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater. A seguito della riforma del 2015 è stato introdotto l’art. 13-bis, che disciplina le circostanze del reato; la nuova disposizione prevede, nel caso del pagamento del debito tributario, in seguito al ravvedimento operoso ovvero in adempimento di quanto stabilito nel processo amministrativo, la riduzione della pena fino alla metà e la non applicabilità delle pene accessorie. Tale disposizione si applica a tutti i delitti disciplinati dal d.lgs. n. 74/2000, fatte salve le ipotesi di applicazione della condizione di non punibilità ai sensi dell’art. 13.
Rubrica di diritto europeo
99
pagamento integrale di quanto dovuto dal contribuente, sanzioni comprese, nel processo penale a suo carico. Per questi profili, salva l’applicazione della causa di non punibilità, (40). il novellato art. 13, non incide in alcun modo sugli elementi strutturali che fanno dubitare della legittimità del doppio binario sanzionatorio rispetto a quanto stabilito dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (41). Alla luce di tutte queste considerazioni si spiega la particolare attenzione recata dall’Avvocato M. Campos Sanchez-Bordona alla precisa delimitazione degli aspetti di fatto e degli effetti giuridici ad essi collegati, rispetto alla portata del divieto di bis in idem fissato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Un’attenzione motivata, come vedremo, dall’esigenza di non lasciare ai giudici nazionali margini d’incertezza nell’applicazione dell’art. 50, come interpretato dalla Grande Sezione, con riferimento alle questioni pregiudiziali sottoposte al suo esame (42). 3.2. Il Testo Unico della Finanza (T.U.F.) e il doppio binario sanzionatorio, dopo la sentenza della Corte EDU Grande Stevens c. Italia e il “non liquet” della Consulta. – Il tema del doppio binario sanzionatorio, nelle ipotesi di abuso del mercato disciplinate dal T.U.F., appare, almeno a prima vista, più
(40) Depone in questo senso il fatto che il legislatore, sdoppiando le misure premiali nell’art. 13 (causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario) e 13-bis (circostanze del reato), non abbia preso in considerazione le conseguenze, nei casi evidentemente meno diffusi ma non infrequenti, in cui, per l’assenza di coordinamento con altre norme tributarie, la causa di non punibilità non entra in gioco. Senza dire delle ipotesi regolate dall’art. 13-bis del d.lgs. n. 74/2000, in cui il contrasto con il divieto di bis in idem assume la duplice veste di bis in idem processuale e materiale. (41) Certo, la diminuzione dei casi di violazione del divieto convenzionale di cui all’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU, nonché, nella causa che ci occupa, il contenimento delle violazioni anche dell’art. 50 della Carta di Nizza, costituisce un fatto positivo. Tuttavia, la novella al d.lgs. n. 74/2000 presenta seri dubbi di compatibilità con il principio di ne bis in idem e dubbi di costituzionalità, in relazione ai principi di eguaglianza e di stretta legalità (artt. 3 e 24 Cost.). Su questi temi, per maggiori approfondimenti, si rinvia a V. Maiello, Doppio binario sanzionatorio, ne bis in idem e reati tributari, in Giur. Comm., 44/2, marzo-aprile 2017, 348 ss. (42) Osserva al riguardo l’Avvocato generale (par. 96): “alla luce della sentenza Åkerberg Fransson, si potrebbe proporre di offrire una risposta molto semplice, ma certamente poco utile, al giudice del rinvio: basterebbe ricordargli la sentenza citata e invitarlo ad applicare esso stesso i criteri Engel, senza fornirgli ulteriori elementi di valutazione Ritengo, tuttavia, che nel contesto delle divergenze tra i giudici italiani, alle quali ho fatto riferimento, circa le ripercussioni della sentenza Åkerberg Fransson e della giurisprudenza della Corte EDU in questa materia, specialmente dopo il mutamento di orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza A e B c. Norvegia, la Corte debba compiere un passo in più per facilitare ai giudici nazionali l’applicazione dell’art. 50 della Carta”.
100
Parte quarta
semplice; la sentenza della Grande Sezione della Corte di Strasburgo, Grande Stevens c. Italia, rappresenta, infatti, il leading case in materia. Tuttavia, a circa quattro anni da quella storica pronuncia, nonostante molteplici tentativi della magistratura di individuare una soluzione giudiziaria al divieto di bis in idem, la situazione rimane ancora incerta; anche per la posizione assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 102/2016, vale a dire di decidere di non decidere (43). Pertanto, con riguardo all’ulteriore elemento che caratterizza il principio del ne bis in idem, ovvero la “ripetizione dei procedimenti”, le conclusioni dell’Avvocato generale appaiono in linea con le osservazioni dell’ulteriore giudice del rinvio (causa C-537/16, Garlsson Real Estate e a (44)), secondo cui, tenendo conto della natura dell’illeci-
(43) Cfr. C. cost., 12 maggio 2016, n. 102, in G.U., 18 maggio 2016, n. 20. La decisione della Consulta, di dichiarare inammissibili le ordinanze di rinvio proposte dalla quinta Sezione penale e dalla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, in relazione alla prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 187-ter del T.U.F. e dell’art. 649 c.p.p., pur non essendo, per alcuni profili, esente da critiche, non aveva sorpreso la dottrina penalista per le lacune e le incertezze delle ordinanze di rimessione. La Consulta aveva, innanzitutto, evidenziato il difetto di rilevanza della questione posta nell’ordinanza proposta dalla quinta Sezione penale della Suprema Corte; aveva rilevato, inoltre, che la seconda ordinanza proposta dalla Sezione tributaria della Suprema Corte era stata posta dal giudice del rinvio in modo perplesso; pertanto, non appariva chiaro il petitum. Due profili procedimentali che avevano consentito alla Corte di non affrontare il problema dell’illegittimità parziale dell’art. 649 c.p.p., sollevata dal giudice penale di Bologna. Una decisione, quindi, di attesa, che chiama in causa il legislatore; dettata dalla convinzione dell’impossibilità di adeguare il sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale, ai principi europei in tema di divieto di bis in idem, con interventi mirati della Corte, in presenza di una giurisprudenza della Cassazione attestata nella difesa dello status quo. Non è un caso se, sia pure in diverso contesto, la Corte costituzionale, come anticipato, con la sentenza 21 luglio 2016, n. 200, relativa al processo “Eternit”, è intervenuta in tema di divieto di bis in idem, riconoscendo la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. Su questi profili, con ampi richiami bibliografici, vedi F. Viganò, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in Dir. pen. cont., rivista on-line, 16 maggio, 2016. Una critica ragionata della posizione attendista della Consulta è svolta da Bindi E., Corte Costituzionale e doppio binario sanzionatorio (riflessioni a margine della sentenza n. 102/2016), in Le società, 2016, 10, 1125 ss. Secondo questa studiosa, un intervento della Consulta nel senso dell’illegittimità parziale dell’art. 649 c.p.p., anche se non risolutivo in tutti i casi, avrebbe rappresentato un segnale di rilievo rivolto al legislatore, nel percorso di rimozione dall’ordinamento interno del doppio binario sanzionatorio, incompatibile con il divieto di bis in idem, stabilito dall’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. (44) Cfr. Cass., Sez. trib., ord. 13 ottobre 2016, n. 20675, cit. Il rinvio pregiudiziale, come anticipato, nasce da un procedimento di opposizione contro un provvedimento sanzionatorio CONSOB per l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato di cui all’art. 187-ter del d.lgs. n. 58/1998 nei confronti di due società e di una persona fisica che avevano già risposto
Rubrica di diritto europeo
101
to, gli illeciti amministrativi di manipolazione del mercato regolati dall’art. 187-ter del d.lgs. n. 58/1998 (c.d. T.U.F.) puniti dalla CONSOB presentano, in sostanza, natura penale, conformemente al secondo criterio Engel (45). L’Avvocato generale mette in luce, infatti, la natura repressivo/punitiva di una sanzione che, nel caso di specie, non si limita, come avviene talvolta in campo tributario nell’ipotesi di ritardo nei versamenti, al recupero della somma evasa e ai relativi interessi; da essa, infatti, consegue altresì l’obbligo di pagamento di una sanzione pecunia particolarmente onerosa (46). Difatti, i beni tutelati dalla norma (art. 187-ter del T.U.F. (47)) sono identici a quelli disciplinati dalle omonime fattispecie di reato (art. 185 del T.U.F. (48)). Entrambe le norme
in sede penale per il medesimo fatto, qualificato in quella sede come delitto di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 185 T.U.F. (45) La Corte europea, infatti, (nel celebre caso Engel del 1976) detta taluni criteri di riconoscimento della natura penale di una sanzione. Anzitutto rileverebbe, secondo la Corte di Strasburgo, la qualificazione che nel diritto interno è riconosciuta alla sanzione; tale criterio implica, cioè, la verifica da parte del giudice europeo sul fatto che il diritto interno riconduca l’infrazione nell’ambito di quelle penali. In mancanza di una qualificazione formale, la valutazione attiene al profilo sostanziale, alla stregua dei criteri su cui fonda la classificazione interna. In secondo luogo rileverebbe la circostanza che la sanzione trovi applicazione all’esito di un processo penale e che la stessa risulti peraltro collegata al reato; rileverebbe altresì la severità della pena (in astratto e in concreto); rileverebbe, infine, la finalità e la natura stricto sensu afflittiva e sanzionatoria della misura inflitta dall’ordinamento. (46) Conclusioni presentate dall’Avvocato generale M. Campos Sanchez–Bordona, il 12 settembre 2017, Causa C-537/16 Garlsson Real Estate SA, in liquidazione, Stefano Ricucci, Magiste International SA c/ Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob), in Info Curia–Giurisprudenza della Corte di giustizia. (47) Si riporta il testo dell’art. 187-ter, comma primo, del Testo Unico della Finanza: “(Manipolazione del mercato) – Salve le sanzioni penali, quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro centomila a euro quindici milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari”. (48) L’art. 185 del T.U.F., che regola il regime sanzionatorio penale in tema di manipolazione del Mercato, stabilisce che: “1. Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni. – 2. Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo. – 2-bis. Nel caso di operazioni relative agli strumenti finanziari di cui all’art. 180, comma 1, lettera a), numero 2), la sanzione penale è quella dell’ammenda fino a euro centotremila e duecentonovantuno e dell’arresto fino a tre anni”. Dalla lettura coordinata degli articoli 185
102
Parte quarta
hanno lo scopo di tutelare l’integrità dei mercati finanziari e un’esigenza di sicurezza delle transazioni. Secondo quanto osserva il giudice del rinvio, opinione condivisa dall’Avvocato generale, la gravità delle sanzioni deve essere valutata in funzione di quella di cui è a priori passibile la persona interessata e non di quella in definitiva inflitta ovvero eseguita. L’eventuale successiva riduzione della pena, l’assoluzione o la mancata esecuzione per la concessione di un indulto sono da ritenersi irrilevanti. La Corte di Strasburgo ha, poi, a pochi mesi di distanza, affermato ancora una volta la violazione convenzionale in un caso di doppio binario sanzionatorio penale e amministrativo in materia tributaria (Jóhannesson e a. c. Islanda (49)); il che, secondo l’Avvocato generale, determina “ostacoli quasi insormontabili che i giudici nazionali dovranno affrontare per chiarire a priori, con un minimo di certezza e prevedibilità, quando sussista tale nesso tra i due procedimenti” (conclusioni in causa Menci, par. 56). Veniamo ora alla seconda ordinanza di rinvio, incardinata nella causa C-537/16, Garlsson Real Estate e a) (50); il rilievo della Corte di Cassazione concerne il fatto che il doppio binario sanzionatorio “sarebbe giustificato dalla necessità di assicurare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive in risposta alle condotte di abuso di mercato, come esigerebbe l’art. 14, par. 1, della direttiva 2003/6”. Sul punto l’Avvocato generale osserva che l’obbligo di applicare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive “grava sugli Stati in maniera generale e indipendentemente dall’adozione di un sistema di doppio binario (penale e amministrativo) o di binario unico (penale) per sanzionare gli abusi di mercato. A prescindere dal meccanismo scelto, il regime sanzionatorio deve essere efficace e, in ogni caso, rispettare il diritto al ne bis in idem tutelato dall’art. 50 della Carta”. A sostegno di queste argomentazioni l’Avvocato generale ritiene che, salva la clausola orizzontale di cui all’art. 52, par. 1, della Carta, la limitazione del diritto al ne bis in idem deve essere
e 187-ter del T.U.F. emerge chiaramente sia il carattere sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative, sia il cumulo con le sanzioni penali, in presenza di due diversi procedimenti nei confronti del o dei medesimi soggetti, aventi identità di oggetto. (49) Corte EDU, Sez. I, 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda, ric. n. 22007/11. La Corte non ha ravvisato nei fatti di causa la “stretta connessione materiale e temporale” stabilita nella sentenza del novembre precedente A e B c. Norvegia. (50) Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Suprema di Cassazione (Italia) il 24 ottobre 2016, Garlsson Real Estate SA, in liquidazione, Stefano Ricucci, Magiste International SA c/ Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob), cit.
Rubrica di diritto europeo
103
prevista dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di tale diritto. In questo modo l’Avvocato generale risponde, per l’appunto, alla sopraesposta seconda obiezione della Corte di Cassazione (51). Di qui l’esigenza di elaborare, a livello di diritto dell’Unione, una nozione autonoma di ne bis in idem. Il che implica la verifica del se e in che misura tale diritto possa essere compresso ai sensi del citato art. 52, par. 1, CDFUE, sulla base del quale i diritti riconosciuti dalla Carta possano essere limitati laddove la limitazione sia prevista dalla legge, rispetti il contenuto essenziale di tali diritti e risulti altresì, nel rispetto del principio di proporzionalità, “necessaria rispetto a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Probabili limitazioni del diritto a non essere giudicato o condannato penalmente due volte per i medesimi fatti potrebbero non essere giustificate sulla base del requisito della necessità, a prescindere dagli ulteriori requisiti. Ciò per il solo fatto che molti Stati dell’Unione garantiscono un’efficace tutela degli interessi protetti mediante un sistema sanzionatorio dei medesimi illeciti a binario unico, che prevede in genere la possibilità di applicare sanzioni amministrative ovvero, nei casi più gravi determinati dalla legge, sanzioni penali, senza tuttavia consentirne il cumulo. Il che evidentemente esige la previsione comunque di meccanismi processuali volti ad evitare il doppio procedimento sanzionatorio, così garantendo il diritto individuale al ne bis in idem ed evitando qualsivoglia pregiudizio per gli interessi di volta in volta tutelati (conclusioni in causa Menci, par. 78-94). Appare con estrema chiarezza, dunque, che, ad avviso dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona, qualora la risposta sanzionatoria amministrativa presenti natura sostanzialmente penale, la doppia repressione (amministrativa e penale) delle medesime condotte illecite di abuso di mercato, senza elaborare un meccanismo processuale per evitarla, non garantisce il rispetto del diritto al ne bis in idem, tutelato dall’art. 50 della Carta. 4. L’incerto revirement della Corte di Strasburgo nella sentenza della Grande Camera nel 2016. – Ad un’attenta lettura sembra che le conclusioni
(51) Articolo 52, 1. “Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
104
Parte quarta
dell’Avvocato generale lascino intendere, pur in un quadro di rigoroso garbo istituzionale, una sostanziale divergenza rispetto alle argomentazioni riportate dalla Grande Camera in A e B (52); argomentazioni che mi sembra opportuno, almeno in parte, approfondire. Anzitutto, la sentenza afferma la natura “sostanzialmente penale” delle sovrattasse del 30% irrogate a entrambi i ricorrenti, in questo modo conformandosi alla valutazione della stessa Corte Suprema norvegese. Il contrasto, infatti, concerneva la rilevanza “sostanzialmente penale” delle sovrattasse; nonché la possibilità che la disposizione convenzionale precluda non solo procedimenti consecutivi, ma anche procedimenti paralleli per il medesimo fatto. Di poi la Corte riafferma la piena validità dei criteri Engel ai fini della determinazione della violazione del divieto di bis in idem, sulla base di esigenze di interpretazione sistematica della Convenzione, intesa come un corpo unitario. Viceversa, le argomentazioni appaiono più complesse con riguardo all’applicabilità della garanzia del ne bis in idem anche ai procedimenti che procedano parallelamente. La Corte evidenzia l’applicabilità della garanzia convenzionale anche ai casi di procedimenti paralleli per il medesimo fatto, una volta che uno di essi si concluda con un provvedimento definitivo, utilizzando alcuni indici fattuali, che tuttavia non consentono di individuare un ulteriore criterio univoco (in aggiunta ai criteri Engel). Difatti, la Grande Camera, pur non negando la propria giurisprudenza granitica sulle nozioni di “materia penale” e di “idem factum”, si avvale di una nuova chiave di valutazione, al fine di verificare la sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro, nel caso in cui ad una sanzione amministrativa definitiva si affianchi un procedimento penale per lo stesso fatto, nei confronti della stessa persona. Se tra i procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, sussiste una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” essi possono senz’altro coesistere. Ad un lettore attento è agevole comprendere che la Corte EDU non muta orientamento sui concetti di “materia penale” e di “idem fac-
(52) Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit. Al riguardo cfr. G. Paroni Pini, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: la Grande Camera detta i limiti di applicabilità del principio del ne bis in idem, op. cit. F. Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in Dir. pen. cont., rivista on-line, 18 novembre 2016; C. Fatta, Il nuovo volto del ne bis in idem nella giurisprudenza della Grande Camera e la compatibilità con il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria, in Giur. Pen. Web, 2017, 1.
Rubrica di diritto europeo
105
tum”. Essa, viceversa, vuole suggerire una terza via utile alla soluzione della questione relativa alla violazione del principio di ne bis in idem. Difatti, essa individua alcuni parametri di riferimento concreti volti a verificare la sussistenza del nesso temporale e di quello sostanziale. Pertanto, con riguardo al nesso temporale si ritiene sia consentito allo Stato di apprestare un sistema di risposte sanzionatorie parallele, con il conseguente svolgimento, dunque, di procedimenti paralleli per il medesimo illecito; sempre che, tuttavia, non ne consegua, per il soggetto sottoposto alla duplice sanzione, un sacrificio eccessivo e cagionato da un perdurante stato di incertezza processuale per l’interessato (§ 121). Tale argomentazione induce, di fatto, a pensare di poter escludere la violazione anche nell’ipotesi in cui il secondo procedimento incominci dopo la definizione del primo procedimento. Una circostanza, quest’ultima, di dubbia compatibilità con l’impianto dell’art. 50 CDFUE, che tutela il diritto di ciascun individuo a non essere giudicato una seconda volta per i medesimi fatti, all’esito di un primo procedimento di natura penale divenuto definitivo. Un’applicazione generalizzata di questo criterio, fondato su elementi elastici ed incerti, avrebbe, infatti, un effetto sostanzialmente ablativo del divieto di bis in idem processuale, che non potrebbe non incidere anche sul divieto di bis in idem sostanziale. Spetta, pertanto, alla Corte di verificare se il sistema che il singolo Stato abbia adottato determini una violazione del divieto di bis in idem ovvero raffiguri, viceversa, il “prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria” (§ 122). In specie, secondo la Grande Camera della Corte EDU, dall’art. 4 del Prot. n. 7 non è dato desumere un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa (ma “sostanzialmente penale” sotto il profilo materiale) per quei reati di evasione fiscale rispetto ai quali il soggetto è passibile altresì di una sanzione penale, in relazione ad un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo; si tratta, invero, di condotte fraudolente rispetto alle quali la mera sanzione amministrativa non rappresenterebbe un’adeguata risposta sanzionatoria (§ 123). Pertanto, proprio al fine di perseguire un appropriato bilanciamento tra gli interessi del singolo e quelli della comunità alla previsione di un’adeguata sanzione integrata, la Corte EDU ritiene di dover valorizzare la cd. “sufficiently close connection in substance and time”; occorre, dunque, che entrambi i procedimenti resistano alla verifica della sussistenza di una “sufficiente connessione”, temporale e sanzionatoria, tale da fare sembrare i due procedimenti due segmenti di
106
Parte quarta
un’unica risposta sanzionatoria dell’ordinamento (53). Sicché, il rispetto dell’art. 4 del Prot. n. 7 ben può essere assicurato mediante la previsione di un meccanismo in grado di riunire, in qualche stadio della procedura, i due procedimenti sanzionatori. Tanto consentirebbe l’irrogazione delle differenti sanzioni da parte di un’unica autorità e nell’ambito di un unico processo. La Corte aggiunge, poi, che con tale disposizione la Convenzione non esclude la conduzione parallela di due procedimenti; tuttavia, occorre che essi siano caratterizzati, sotto il profilo sostanziale e cronologico, da una connessione sufficientemente stretta e che sussistano meccanismi volti ad assicurare risposte sanzionatorie proporzionate e prevedibili (§ 130). Ciò non vuol dire, tuttavia, che i procedimenti debbano svolgersi “simultaneamente” dall’inizio alla fine; è, invece, possibile che essi siano condotti “progressivamente” (ad esempio, quando sussistano ragioni di efficienza dell’amministrazione giudiziaria e, come anticipato, non ne derivi, per il soggetto coinvolto, un pregiudizio sproporzionato derivante da un perdurante stato di incertezza processuale). Al fine, dunque, di valutare la sussistenza dei descritti requisiti, la Corte EDU indica una serie di fattori concreti di cui occorre tener conto, che raffigureranno de gli indici di insussistenza della violazione del divieto. Anzitutto la diversa finalità dei due procedimenti; pertanto, la Corte dovrà valutare se i procedimenti abbiano scopi differenti e abbiano ad oggetto aspetti diversi della medesima condotta. In secondo luogo, valuterà la prevedibilità della duplicazione di procedimenti e sanzioni da parte dell’autore della condotta. Di poi occorre che la Corte valuti, altresì, che i due procedimenti siano condotti in modo integrato, così da evitare “per quanto possibile”, sostiene la Corte, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova; in particolare attraverso una “adeguata interazione tra le varie autorità competenti in modo da far sì che l’accertamento dei fatti in un procedimento sia utilizzato altresì nell’altro procedimento”. Da ultimo, la necessaria considerazione nel secondo procedimento dell’entità della sanzione inflitta nel primo procedimento, “in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena” (§ 133). Una pluralità di elementi di fatto che, vale la pena di precisare sin d’ora, non è dato di riscontrare nel sistema italiano di doppio binario sanzionatorio,
(53) Un’analisi critica dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU in tema di violazione del divieto di bis in idem è svolta da M. Bontempelli, Verso un adattamento della disciplina italiana delle sanzioni tributarie al diritto europeo?, op. cit., specie parr. 2 e 4, 564-571.
Rubrica di diritto europeo
107
sia nel settore finanziario, disciplinato dal Testo Unico della Finanza, sia nel settore tributario; le cui normative di riferimento sono il d.lgs. n. 472/1997, relativo alle sanzioni amministrative, e il d.lgs. n. 74/2000 che, viceversa, regola quelle penali (54). Le riflessioni dei giudici di Strasburgo, senz’altro nuove rispetto al principio del ne bis in idem, appaiono, viceversa, ridondanti rispetto al tema della “connessione temporale e sostanziale sufficientemente stretta”. Il criterio della prevedibilità della duplice sanzione appare, infatti, pleonastico, essendo la materia sanzionatoria coperta da riserva di legge (55); mentre espressioni come “sacrificio eccessivo”, “perdurante incertezza, “sufficiente connessione”, “per quanto possibile”, “adeguata interazione tra le autorità competenti”, evidenziano situazioni di fatto talmente fluide ed indeterminate da non poter essere utilizzate come criteri validi in ogni circostanza, ai fini di un confinamento del divieto di bis in idem, coerente con i valori sottesi dallo stesso principio. Tale argomento, infatti, era stato oggetto di alcune pronunce di inammissibilità (cfr. R.T. c. Svizzera, del 2000, Nilsson c. Svezia, del 2005, nonché nel 2015 Boman c. Finlandia) ed era stato richiamato nella sentenza Nykanen c. Norvegia (56). Un elemento non preso in considerazione dalla sentenza Grande Stevens c. Italia (57), in cui la Corte di Strasburgo, come già detto, ha
(54) Un’approfondita analisi dell’incompatibilità del doppio binario sanzionatorio nel settore tributario con il divieto di bis in idem, sia processuale, sia sostanziale, dopo la novella al d.lgs. n. 74/2000, introdotta dal d.lgs. n. 158/2015, è svolta da A Calzolari., L’insostenibile incompatibilità dell’ordinamento nazionale con il principio del ne bis in idem, in Corr. trib., 2017, 4, 309 ss. (55) La prevedibilità della condanna, nel ragionamento della Corte EDU, sembrerebbe legata al fatto che nella decisione norvegese i due contribuenti avevano confessato l’evasione commessa. Si tratta, tuttavia, di un elemento fattuale conseguente ad una strategia difensiva del contribuente da cui non sembra possibile far discendere un criterio generale, valido in ogni circostanza, che giustifichi la violazione del divieto di bis in idem. (56) Corte EDU, Sez. IV, 20 maggio 2014, Nykanen c/Finlandia. Al riguardo cfr., in particolare, A. Poddighe, Il divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento tributario secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Nykanen contro Finland e le possibili ripercussioni sul sistema repressivo tributario interno, in Riv. dir. trib., 2014, 4, 104 ss. (57) Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c/Italia, cit. Per qualche utile approfondimento al riguardo cfr. A. Lanzafame, Il ne bis in idem vale anche per le sanzioni amministrative di natura afflittiva: la Corte di Strasburgo conferma l’approccio sostanzialistico e traccia la strada per il superamento del “doppio binario”, in www.leggioggi.it; M. Fidelbo, Il principio del ne bis in idem e la sentenza “Grande Stevens”: pronuncia europea
108
Parte quarta
rilevato senza alcuna incertezza la duplice violazione dei principi del giusto processo e del divieto di bis in idem. Occorre, ad ogni modo, evidenziare che prima della sentenza della Grande Camera la giurisprudenza della Corte di Cassazione, basandosi su alcune di queste precedenti pronunce della Corte dei diritti umani (58), era sembrata particolarmente attenta rispetto alla valutazione di quei procedimenti (amministrativo e penale) aventi ad oggetto lo stesso fatto. Proprio la sentenza Nykanen c. Finlandia, veniva strumentalmente impiegata per sostenere l’insussistenza della violazione del principio di ne bis in idem sostanziale in tema di illeciti tributari (59). Secondo i giudici di legittimità, sulla base della pronuncia dei giudici di Strasburgo, due procedimenti (anche se nominalmente non coincidenti) che accertino gli stessi fatti e, tuttavia, siano indipendenti tra di loro e si svolgano in successione, violano il principio del ne bis in idem. Tuttavia, aggiunge la Cassazione, tale violazione non caratterizza, in genere, l’ordinamento tributario italiano; difatti, “i due procedimenti sono paralleli ed interagiscono tra loro, poiché l’avvenuto pagamento del debito tributario condiziona l’entità della sanzione penale” (60). Sempre secondo i giudici di legittimità, gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74/2000 prevedono una disciplina sufficientemente chiara circa i rapporti tra il sistema sanzionatorio amministrativo e i procedimenti penale e tributario; i quali, secondo la Cassazione, “non sembrano essere totalmente indipendenti tra loro”. Principi, questi ultimi, riaffermati anche successivamente, con la sentenza n. 42470
e riflessi nazionali, op. cit.; G. De Amicis, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano. Corte Suprema di Cassazione, Tavola rotonda su “Il principio del ne bis in idem tra giurisprudenza europea e diritto interno”, Roma, 23 giugno 2014; G. M Flick – V. Napoleoni, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto?, Relazione introduttiva all’incontro di studio organizzato dall’ABI sulla sentenza della Corte EDU, Roma, 4 giugno 2014; C. Sacchetto, Sanzioni tributarie e CEDU, in Rass. trib., 2015, 483 ss.; G. Vinciguerra, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte EDU, op. cit.; F. Viganò, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in Dir. pen. cont., rivista on-line, 16 maggio 2016. Unitamente a queste pronunce si segnalano talune ulteriori condanne in tema di doppio binario penale-tributario: cfr. Corte EDU, Sez. V, 27 novembre 2014, Lucky Dev c/Svezia (a tal riguardo cfr. G. D’angelo, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: precisazioni dalla Corte EDU, in Rass. trib., 2015, 253 ss.); Corte EDU, Sez. IV, Hakkà c/Finlandia; Corte EDU, Sez. IV, 20 maggio 2014, Glantz c/Finlandia; Corte EDU, Sez. IV, 20 maggio 2014, Pirttimaki c/Finlandia. (58) Cfr., in specie, la già citata Corte EDU, Nykanen c. Finlandia, cit. (59) Cass., Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, Aumenta, n.m. (60) Cass., Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, cit.
Rubrica di diritto europeo
109
del13 luglio 2016, Orsi, Rv. 268383-84 (61). Il riferimento alla giurisprudenza convenzionale (sentenza Nykanen), richiamata dalla Suprema Corte per negarne l’applicabilità al doppio binario sanzionatorio domestico, appare, tuttavia, fuorviante (62). Il principio di specialità, introdotto dall’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000 (63), allo scopo di impedire il cumulo di sanzioni amministrative e penali in capo allo stesso soggetto e per i medesimi fatti, è, infatti, reso inoperante dalle norme procedimentali stabilite negli artt. 20 (rapporti tra procedimento penale e processo tributario) e 21 (sanzioni amministrative per le violazioni ritenute penalmente rilevanti) dello stesso decreto. Tali disposizioni, nello stabilire la rigidità della separazione tra procedimento amministrativo, processo tributario e procedimento penale hanno istituzionalizzato il sistema del doppio binario sanzionatorio e, quindi, il contrasto con il divieto di bis in idem processuale (64). Sul piano sostanziale, poi, le Sezioni Unite, con le sentenze gemelle n. 37425/2013, n. 37426 /2013, seguite dalle ulteriori decisioni, la n. 40526/2014 e la n. 20887 del 2015, hanno escluso l’applicabilità del principio di specialità ai rapporti tra gli illecito penale (di cui agli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000) e illecito amministrativo (di cui
(61) Cass., Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470, Orsi. (62) Si veda sul punto l’ordinanza del Tribunale di Milano, Sez. I, del 6 dicembre 2016, secondo cui il principio di ne bis in idem, non preclude l’operatività sul piano interno del doppio binario sanzionatorio previsto, in caso di market abuse, dagli artt. 185 e 187 del T.U.F. quando il processo amministrativo e quello penale sono legati da un nesso sostanziale e temporale sufficientemente stretto, in base a quanto stabilito dalla Corte EDU nella sentenza A e B c. Norvegia. Con nota di S. Manacorda, Equazioni complesse: il “ne bis in idem” “ancipite” sul “doppio binario” per gli abusi di mercato al vaglio della giurisprudenza, in Dir. Pen. Proc., 2017, 4, 515 ss. (63) Art. 19 – Principio di specialità 1. Quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del Titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale. 2. Permane, in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che non siano persone fisiche concorrenti nel reato. (64) Secondo l’Avvocato Campos Sanchez-Bordona, nelle conclusioni in causa Menci: “ai fini della proporzionalità (delle sanzioni) si potrebbe valutare il coordinamento tra i diversi procedimenti, la cooperazione tra le autorità durante il loro svolgimento e la compensazione delle possibili sanzioni. Orbene, tali elementi sembrano deporre a sfavore di una normativa come quella italiana, applicata al sig. Menci, la quale i) non prevede il coordinamento tra procedimenti penali e amministrativi, ii) non impone alle autorità partecipanti ai suddetti procedimenti di collaborare tra loro, al fine di evitare aggravi eccessivi per il singolo e iii) non istituisce un sistema di coordinamento o compensazione delle sanzioni, limitandosi a stabilire che le sanzioni amministrative sono esigibili solo al termine del procedimento penale (punto 123).
110
Parte quarta
all’art. 13 del d.lgs. n. 471/97) (65). Secondo la Cassazione, infatti, tra le diverse fattispecie sanzionatorie, amministrative e penali, qui richiamate intercorre un rapporto di “progressione criminosa”, dunque un concorso effettivo e non apparente di norme, che esclude l’applicabilità del principio di specialità, recato dall’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000. Con la conseguenza di affiancare alla violazione del divieto di bis in idem processuale, proprio dei sistemi di doppio binario rigidi, anche la violazione di quello sostanziale; tanto in presenza di due procedimenti destinati a concludersi con due diverse sanzioni, entrambe di natura penale in senso materiale, secondo la giurisprudenza EDU. In questo scenario delineato dalla Cassazione (66), svalutativo del dato normativo e fortemente riduttivo rispetto all’effettiva potenzialità di violazione del divieto di bis in idem, che permane elevata, nonostante le modifiche introdotte con il d.lgs. n. 158/2015, si inserisce un ulteriore cambio di indirizzo della Corte EDU, richiamato nelle conclusioni in causa Menci dall’Avvocato generale Campos Sanchez-Bordona, per evidenziare le incertezze prodotte dalla decisione della Grande Sezione del novembre 2016 (67). I giudici di Strasburgo, in una recente e successiva pronuncia (68) (causa Jóhannesson e a. c. Islanda) evidenziano, infatti, che sussiste una tendenziale indipendenza nella raccolta e nella valutazione delle prove nei due procedimenti sottoposti al loro esame, per violazione del divieto convenzionale; prendono atto che il lasso temporale trascorso (cinque anni) tra la condanna penale e la conclusione del procedimento amministrativo, è molto ampio; indi, nonostante la prevedibilità del doppio procedimento e delle conseguenti sanzioni, riconoscono la violazione del divieto di bis in idem. Sicché, proprio il criterio temporale, unitamente alla necessaria sussistenza di tutti i fattori materiali indicati dalla Grande Camera della Corte EDU nel 2016, dimostra la difficile applicabilità dei criteri materiali indicati dal nuovo indirizzo giurisprudenziale, al doppio binario sanzionatorio
(65) Secondo la Cassazione, infatti, tra le diverse fattispecie sanzionatorie, amministrative e penali, qui richiamate, intercorre un rapporto di “progressione criminosa”; dunque un concorso effettivo e non apparente di norme, che mette fuori gioco l’applicabilità del principio di specialità, recato dall’art. 19 del d.lgs. n. 74/2000. (66) Abbiamo visto, infatti, come essa sia reticente rispetto alle radicali diversità strutturali dei due procedimenti sanzionatori, che mettono ragionevolmente fuori gioco qualsiasi ipotesi di “connessione materiale e strutturale”, richiamata nella sentenza del 2016 della Grande Camera (cfr. Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit.). (67) Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, cit. (68) Corte EDU, Sez. I, 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda, cit.
Rubrica di diritto europeo
111
italiano e, dunque, la dubbia applicabilità nell’ordinamento sanzionatorio tributario italiano dell’eccezione della stretta connessione materiale e temporale (69). 5. Le incertezze interpretative derivanti dai criteri indicati dalla Grande Camera. – Sulla base delle argomentazioni svolte dall’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona appare interessante immaginare quale potrà essere la decisione della Grande Sezione. Sembra, difatti, indiscutibile l’approccio rigoroso proposto dall’Avvocato generale; peraltro, rispetto alla recente inversione di tendenza avanzata dalla Corte di Strasburgo nella pronuncia A e B c. Norvegia del 2016 esaminata nel paragrafo precedente, che ha introdotto nuovi fattori di incertezza. Elementi, tuttavia, ininfluenti, per quanto detto, nelle cause all’esame della Corte lussemburghese. Nelle conclusioni l’Avvocato generale sembra prendere una chiara distanza dall’indirizzo espresso dalla Grande Sezione della Corte di Strasburgo, posto che ne deriverebbero insormontabili incertezze applicative; in questo modo fornendo un inaccettabile contributo di confusione e imprevedibilità ai giudici nazionali, proprio per le incertezze prodotte dall’individuazione di fattori materiali piuttosto generici, in una materia (quella dei diritti fondamentali di ciascun individuo) che, viceversa, dovrebbe essere caratterizzata dal più elevato grado di certezza e prevedibilità. Anzitutto, come anticipato, i fattori materiali suggeriti dalla Corte di Strasburgo appaiono, nell’ordinamento sanzionatorio tributario italiano, una nota stonata. Le sanzioni amministrative perseguono, nel quadro del doppio binario sanzionatorio, una finalità evidentemente punitiva, in entrambe le ipotesi all’esame della Corte di giustizia, piuttosto che, come in Norvegia, una funzione controbilanciante i costi dell’attività di accertamento, che grava indiscutibilmente sulla fiscalità generale rispetto all’attività di riscossione che può essere posta a carico del contribuente inadempiente. Occorre considerare, poi, l’identità sostanziale tra i beni giuridici tutelati dalle sanzioni amministrative e da quelle penali, sia in tema di repressione degli abusi di mercato, sia in campo tributario; nonché il fatto che entrambe sono ispirate al principio di offensività e che alle
(69) Sul punto si veda l’interessante contributo di G. Melis., Ne bis in idem con il nodo della connessione, in Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2017.
112
Parte quarta
condotte fraudolente non sempre corrispondono sanzioni di tipo penale (70). Il rapporto tra i due tipi di procedimento e di processo, in disparte le congetture ideologiche circa i reciproci condizionamenti ovvero la reciproca autonomia (specie nella fase di acquisizione e valutazione delle prove), evidenzia, comunque, una serie di limitazioni che mettono rapidamente in luce l’incongruenza del criterio strettamente temporale e sostanziale suggerito dalla Corte di Strasburgo, ai fini della definizione della connessione; tanto da rivelarsi un quesito difficilmente risolvibile. Il che equivale a dire che la connessione dei due diversi procedimenti, con riferimento al fattore tempo, dipenderà da circostanze di fatto che, in una pluralità di situazioni non possono essere predeterminate a priori. Lo stesso può dirsi almeno in parte per l’elemento materiale. La stessa sentenza della Grande Camera della Corte EDU (A e B c. Norvegia) ha evidenziato una connessione materiale tra i due procedimenti più formale che sostanziale (71); giustamente criticata nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona. Applicando a tale decisione gli stessi indici materiali utilizzati nel 2017 dalla Corte EDU, nella successiva sentenza Jóhannesson e a. c. Islanda, probabilmente la decisione della Grande Camera poteva giungere ad un diverso approdo, riconoscendo violato il divieto convenzionale ad essere giudicato due volte per il medesimo fatto. La connessione ha riguardo all’identità del soggetto implicato e all’identità dell’oggetto; avvalersi di un criterio tendenzialmente fluttuante corrisponde a meccanismi che non reggono alla verifica di compatibilità costituzionale. Occorre, infatti, considerare che l’ordinamen-
(70) Per questi e per più ampi profili cfr. G. Melis, Ne bis in idem con il nodo della connessione, op. cit. (71) In senso critico, rispetto alla connessione materiale e temporale tra i due procedimenti che, in base alla decisione della Grande Sezione della Corte EDU del novembre 2016 (A e B c. Norvegia), metterebbe fuori gioco il divieto di bis in idem, si esprime il Presidente Emerito della Corte costituzionale, prof. Franco Gallo. Cfr. F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, op cit. Secondo il prof. Gallo: “[…] Non può negarsi che tale regime è caratterizzato da una sostanziale condivisione dell’attività di raccolta delle prove […] Ma non può nemmeno negarsi che tale connessione cessa qui, perché dopo questa fase sussiste il limite del dibattimento penale, nel quale le regole poste a garanzia dell’imputato impongono la formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Non si evita, perciò, una duplice valutazione della prova, conoscendo il giudice penale e l’autorità amministrativa separatamente della causa. Il giudicato non fa stato nell’altro procedimento e accade spesso che le due autorità giungano a conclusioni diverse. Non può aversi dubbio, insomma, che nell’ordinamento italiano si verifica una duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova […]”.
Rubrica di diritto europeo
113
to tributario dedica al rapporto tra sanzione amministrativa e giudizio penale sia l’art. 19, che regola il principio di specialità, sia l’art. 13, relativo alle cause di non punibilità, sia l’art. 13-bis, che disciplina le circostanze del reato; si tratta delle disposizioni del d.lgs. n. 74/2000, novellate in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. n. 158/2015. Ora, mentre l’applicazione delle cause di non punibilità fa venir meno il processo penale ed elimina in radice la possibilità di una duplice condanna, nelle ipotesi previste dall’art. 13-bis, in tema di circostanze del reato, i due procedimenti (amministrativo e penale) si concludono entrambi con una duplice condanna per i medesimi fatti. In buona sostanza, infatti, la prima sanzione, di norma quella amministrativa, di natura penale, non subirà alcuna modifica, anche nel caso di assoluzione nel processo penale; mentre nella seconda condanna, quella inflitta dal giudice penale, quest’ultimo dovrà limitarsi a tener conto dell’effettivo adempimento delle sanzioni amministrative, nella determinazione della pena. La conclusione ovvia è che avremo due procedimenti e due giudicati diversi, a carico del medesimo soggetto, per gli stessi fatti. In definitiva, una situazione che si sovrappone, fino ad identificarsi con esso, al divieto di bis in idem stabilito nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Ad ogni modo, la risposta dell’Avvocato generale ai quesisti proposti dalla Corte di Cassazione invita ad una riflessione attenta su alcuni aspetti fondamentali del rapporto tra diritto interno e diritto europeo, con specifico riferimento al diritto italiano. Le conclusioni, infatti, oltre alla Grande Sezione lussemburghese, sono rivolte direttamente ai giudici nazionali; esse chiariscono una serie di dubbi posti nelle tre ordinanze di rinvio. I giudici del rinvio, talvolta interrogandosi sulla compatibilità dell’ordinamento nazionale con il diritto europeo, ne mettono in luce il contrasto con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, trovando riscontro nelle conclusioni dell’Avvocato generale (in causa Menci). In altra ipotesi, come già anticipato nel corso del lavoro, le stesse conclusioni mettono in luce l’incompatibilità con l’art. 50 della Carta di una sanzione amministrativa, comminata dopo l’assoluzione nel processo penale tra i medesimi soggetti, per i medesimi fatti (causa Di Puma e Zecca). Da ultimo, negando la possibilità di far convivere le sanzioni amministrative, penali in senso materiale, comminate ad un soggetto con un secondo processo di natura penale, le conclusioni ricordano il carattere auto applicativo dell’art. 50 CFDUE e, dunque, della sua conseguente efficacia diretta per gli stessi giudici nazionali, senza necessità di operare un rinvio pregiudiziale
114
Parte quarta
alla Corte di giustizia, ovvero sollevare una questione di legittimità alla Corte costituzionale. Non a caso si legge nelle conclusioni che la disposizione in parola è “norma chiara, precisa e incondizionata, che conferisce direttamente a chiunque il diritto a non essere perseguito o condannato penalmente due volte per un medesimo fatto” (72). Non solo; viene altresì evidenziata l’intima caratterizzazione di tale norma, che la rende, infatti, prevalente rispetto alle norme di diritto derivato dell’Unione, nonché su quelle degli Stati membri. Essa, aggiunge M. Campos SanchezBordona, “può essere di certo fatto valere direttamente dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, che sono obbligati a tutelarlo. Inoltre, ai sensi dell’art. 6 TUE, l’art. 50 della Carta forma parte integrante del diritto primario dell’Unione e, in quanto tale, prevale sulle norme di diritto derivato dell’Unione medesima nonché sulle norme degli Stati membri. In caso di conflitto fra il proprio diritto interno e i diritti garantiti dalla Carta, il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme. Pertanto, esso dovrà disapplicare all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Infatti, sarebbe incompatibile con le esigenze inerenti alla natura del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione facente parte di un ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare tale diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente siano d’ostacolo alla piena efficacia delle norme dell’Unione” (par. 83-86). Ne consegue, come già abbiamo anche anticipato, che “in caso di norme incompatibili con il diritto al ne bis in idem tutelato dall’art. 50 della Carta, il giudice nazionale o le autorità amministrative competenti dovrebbero, pertanto, archiviare i procedimenti pendenti, senza conseguenze negative per
(72) Conclusioni in cause De Puma e Zecca, par. 83. Cfr. Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Suprema di Cassazione il 23 novembre 2016, Causa C- 597/16, Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob)/Antonio Zecca; Causa C-596/16, Enzo Di Puma/Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob).
Rubrica di diritto europeo
115
l’interessato che sia già stato perseguito o sanzionato in un altro procedimento penale o amministrativo avente natura penale” (par. 87, conclusioni in causa Garlsson Real Estate SA e altri). Un’ulteriore ragione, quest’ultima, che agevola l’Avvocato generale nella conclusione che, ove la Corte dovesse ritenere che il ne bis in idem euro unitario osti allo svolgimento del secondo procedimento, il giudice dovrebbe applicare direttamente l’art. 50 CDFUE; pertanto, egli dovrebbe dichiarare l’impossibilità di procedere nel secondo giudizio per l’appunto sulla base di tale norma, senza dovere attendere la previa rimozione in via legislativa ovvero mediante una sentenza della Corte costituzionale delle pertinenti norme. Sembra, dunque, emergere l’ennesimo richiamo all’esatta comprensione del rapporto che caratterizza il diritto interno rispetto a quello europeo; l’intento di chiarire ciò che non abbisognerebbe di alcun chiarimento, vale a dire l’assoluta trasparenza della disposizione di cui all’art. 50 della Carta, nonché la sua efficacia diretta all’interno degli Stati (73). Conclusione, questa, piuttosto ovvia non solo alla luce del rilievo via via maggiore che ha acquisito negli ultimi anni il rapporto tra giudice nazionale e giudice europeo, ma considerata altresì l’elevata sensibilità rispetto al tema della compatibilità della legislazione comune con i diritti fondamentali di fonte euro unitaria. Questa attenzione quasi didascalica dell’Avvocato generale al tema dell’applicabilità diretta dell’art. 50 della CDFUE da parte dei giudici nazionali non deve, tuttavia, sorprendere; l’avvocato Campos Sanchez-Bordona ha ben presente i limiti di efficacia della giurisprudenza della Corte EDU rispetto all’effetto diretto delle sentenze della Corte di giustizia (74). Sollecita, dun-
(73) Al riguardo si trascrive quanto stabilito nella sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10), Åkerberg Fransson, punto 45: “[…] per quanto riguarda poi le conseguenze che il giudice nazionale deve trarre da un conflitto tra disposizioni del proprio diritto interno e diritti garantiti dalla Carta, secondo una costante giurisprudenza il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. (74) La richiesta alla CGUE di assicurare all’art. 50 della Carta di Nizza una più ampia tutela rispetto al livello di tutela assicurato dalla Corte EDU con la decisione A e B c. Norvegia risponde all’esigenza di assicurare l’effettività della tutela del principio di ne bis in idem, in modo da orientare nello stesso senso anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Traspare, infatti, la preoccupazione di tutele differenziate in tema di diritti fondamentali, tra materie armonizzate ed altre, che ricadono nell’ambito di tutela della CEDU. Questione, questa, di particolare rilievo in campo tributario, nel quale una tutela differenziata dei principi fondamentali
116
Parte quarta
que, i giudici nazionali a disapplicare le norme interne in contrasto con il divieto di bis in idem, allo scopo di favorirne l’applicazione estensiva anche ai giudizi della Corte di Strasburgo ed evitare così il rischio di un’applicazione della garanzia convenzionale meno tutelata rispetto a quella assicurata dall’art. 50 della Carta di Nizza, anche alla luce della posizione assunta dalla Corte costituzionale al riguardo (75). 6. I profili innovativi delle conclusioni dell’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona. – Sulla base delle argomentazioni svolte è agevole individuare la portata innovativa delle conclusioni attentamente sviluppate dall’Avvocato generale Campos Sanchez-Bordona. Attraverso il coordinamento delle conclusioni relative alle tre ordinanze di rinvio, l’Avvocato generale giunge a definire gli stretti limiti che il legislatore italiano dovrà rispettare per rendere compatibili i sistemi sanzionatori tributario e dei mercati finanziari con il divieto di bis in idem. Conclusivamente, l’Avvocato generale propone alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali poste dal Tribunale di Bergamo (causa Menci) nel modo seguente: «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: 1) Richiede per la sua applicazione la sussistenza dell’identità dei fatti materiali che, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica, costituiscono la base per l’adozione delle sanzioni tributarie e di quelle penali; 2) Risulta violato qualora venga promosso un procedimento penale o in-
tra imposte armonizzate e non armonizzate rappresenta un rischio che occorre possibilmente prevenire, anche attraverso il dialogo tra le Corti. (75) Con sentenza n. 135 del 2014 la Corte costituzionale ha così descritto il rapporto tra art. 117 Cost e CDEU: “[…] secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, le norme della CEDU – nel significato loro attributo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, par. 1, della Convenzione) – integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali […]”. Ne deriva che, ove si profili un contrasto – non superabile a mezzo di un’interpretazione “adeguatrice” – fra una norma interna ed una norma della CEDU, il giudice comune, non potendo rimuoverlo tramite la semplice non applicazione della norma interna, deve denunciare la rilevata incompatibilità tramite la proposizione di una questione incidentale di legittimità costituzionale per violazione del suddetto parametro”. La Corte costituzionale, con questa decisione, ha confermato la perdurante validità di tale ricostruzione, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (13 dicembre 2007). Una tesi non condivisa dalla giurisprudenza della CGUE.
Rubrica di diritto europeo
117
flitta una pena di tale natura a una persona già punita, in via definitiva, per lo stesso fatto con una sanzione tributaria quando quest’ultima, nonostante la sua denominazione, in realtà abbia carattere penale. Il giudice nazionale verificherà tale circostanza applicando i seguenti criteri: la qualificazione giuridica dell’illecito secondo il diritto interno; la sua natura, che deve essere valutata tenendo conto dell’obiettivo della norma, dei suoi destinatari e del bene giuridico da essa tutelato, nonché la natura e il grado di severità della sanzione». Analogamente propone alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali poste dalla Corte di Cassazione italiana (causa Ricucci ed altri), nei seguenti termini: «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: 1) Non consente la doppia repressione, amministrativa e penale, della medesima condotta illecita di abuso di mercato, quando la sanzione amministrativa che, ai sensi della normativa nazionale, ne consegue presenti sostanzialmente natura penale ed è prevista la ripetizione dei procedimenti contro la medesima persona e per fatti identici, senza elaborare un meccanismo processuale che eviti tale duplicità. 2) Può essere fatto valere direttamente da un singolo dinanzi a un organo giurisdizionale nazionale, che è tenuto a garantire la piena efficacia del diritto al ne bis in idem, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale». Da ultimo, suggerisce alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte suprema di cassazione (causa Di Puma e Zecca) nei seguenti termini: «L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: 1) Osta a una normativa nazionale che consente la celebrazione di un procedimento finalizzato all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente penale agli autori di condotte di abuso di mercato, quando vi sia già una sentenza penale, di assoluzione e definitiva, che abbia dichiarato, rispetto agli stessi fatti e alle stesse persone, l’insussistenza di tali condotte. 2) Non può essere limitato, in circostanze come quelle del procedimento principale, per soddisfare l’esigenza di efficacia, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni applicabili alle condotte di abuso di mercato». Come emerge dalle conclusioni, dunque, da un lato rileva la sollecitazione rivolta ai giudici italiani a disapplicare le disposizioni dell’ordinamento interno in tutte le situazioni in cui viene in rilievo un’ipotesi di bis in idem, a conferma della ritenuta incompatibilità del sistema del doppio binario italia-
118
Parte quarta
no con l’art. 50 della CDFUE. Dall’altro, si coglie in quelle pagine un altro aspetto non meno interessante; l’invito diretto, viceversa, alla Grande Sezione a superare le contraddizioni insite nella sentenza A e B c. Norvegia, più volte richiamata dall’Avvocato generale. Difatti, il riferimento a quella pronuncia serve a mettere opportunamente in luce che le garanzie convenzionali stabilite dalla CEDU rappresentano le garanzie minime che l’ordinamento europeo riconosce: garanzie che la giurisprudenza della Corte di Lussemburgo può ampliare sulla base del diritto primario europeo, così evitando il rischio di un sostanziale svuotamento del principio di “ne bis in idem” (76). Ciò detto, appare evidentemente difficile l’applicazione del principio di “connessione temporale e sostanziale stretta” al sistema del doppio binario italiano, per la ragione piuttosto banale che il sistema sanzionatorio norvegese (amministrativo e penale) è stato recentemente adattato, sulla spinta della loro Corte Suprema, in modo da rientrare nei criteri di connessione temporale e sostanziale impiegati in passato dalla Corte di Strasburgo per negare, in talune sentenze piuttosto risalenti, la violazione del divieto di bis in idem (77). In definitiva, un accorto maquillage giurisprudenziale, finalizzato a superare le obiezioni rinvenibili nella ormai consolidata giurisprudenza convenzionale in tema di divieto di bis in idem. Tuttavia, questo aspetto non risulta, come detto, decisivo, per la diversa natura dei due procedimenti (condotti da due diverse giurisdizioni, con poteri e funzioni significativamente diversi); con particolare riguardo alle differenti modalità di formazione ed acquisizione delle prove, che possono condurre a risultati sensibilmente diversi tra i due distinti procedimenti. Una condizione di incertezza da cui non sembra possibile enucleare un nuovo criterio interpretativo utilizzabile in ogni diversa circostanza. Di qui le motivate critiche dell’Avvocato generale Campos Sanchez-Bordona alla sentenza A e B c. Norvegia, nonché alla confusione e
(76) In buona sostanza, i giudici di legittimità norvegesi, evidenziando sensibilità giuridica e pragmatismo istituzionale, hanno proposto una ricostruzione del loro sistema sanzionatorio (amministrativo-afflittivo e penale in campo tributario), che trovava appiglio in alcune sentenze di rigetto della Corte di Strasburgo in tema di ne bis in idem, piuttosto risalenti. In definitiva, un accorto maquillage giurisprudenziale, finalizzato a superare le obiezioni rinvenibili nella ormai consolidata giurisprudenza convenzionale in tema di divieto di bis in idem. (77) È opportuno precisare al riguardo che la progressione sanzionatoria affidata conclusivamente al giudice penale nell’ordinamento norvegese conduce ad un coordinamento dei due profili sanzionatori, amministrativo e penale, affidato a quest’ultimo giudice.
Rubrica di diritto europeo
119
all’incertezza che il criterio della “connessione materiale e temporale sufficientemente stretta” potrebbe ulteriormente alimentare. Il modello italiano di doppio binario sanzionatorio (amministrativo e penale) nel settore tributario e in quello finanziario, disciplinato dal Testo Unico della Finanza, si presenta formalmente e strutturalmente diverso rispetto al modello norvegese, per alcuni essenziali profili. Come ampiamente chiarito vi sono elementi di fondo che impediscono di adattare la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo alla situazione italiana; a partire, come detto, dal diverso regime di formazione e acquisizione delle prove (richiamato, da ultimo, nel caso Jóhannesson e a. c. Islanda) che caratterizza i due procedimenti, amministrativo e penale, nel nostro Paese (78). Aspetto, quest’ultimo, rilevante, tuttavia non esaustivo, rispetto ai limiti di una giurisdizione amministrativa-tributaria incardinata nell’Amministrazione finanziaria, in cui non è facile riconoscere i caratteri del giusto processo garantiti dall’art. 111 della nostra Carta Fondamentale e dall’art. 6 della CEDU; a partire dall’apparenza di indipendenza che una giurisdizione domestica, interna all’Amministrazione finanziaria, non è in grado di assicurare (79). Considerazioni analoghe possono formularsi rispetto ai procedimenti sanzionatori presso la CONSOB ai sensi del Testo Unico della Finanza. Infatti, in tutti i casi in cui alle violazioni colpite con sanzioni pecuniarie il T.U.F. affianchi per i medesimi fatti anche sanzioni penali non esiste alcuna norma che consenta di unificare i due procedimenti paralleli (80), in modo da giungere ad una condanna che assorba gli effetti del procedimento amministrativo e ne
(78) Sulle diversità strutturali che caratterizzano il processo amministrativo-tributario rispetto al processo penale, che rendono inapplicabile l’ipotesi di connessione sostanziale e temporale del doppio sistema sanzionatorio previsto dall’ordinamento tributario e dalla disciplina dei mercati finanziari, cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, op. cit., specie 35. (79) Per questi e per più ampi profili si permetta di rimandare ad un mio precedente lavoro: M. Villani, La Giustizia Tributaria tra esigenze pratiche e vincoli di diritto interno ed europeo del “giusto processo”, in Dir. Prat. Trib., 2016, 3, Parte I, 1004-1075. (80) Osserva al riguardo l’Avvocato generale nelle conclusioni in causa Ricucci, al punto 69: “stando a questa premessa, la deduzione più logica è che la norma italiana in tema di abuso di mercato consente la doppia repressione, amministrativa (ma sostanzialmente penale) e penale, della medesima condotta illecita, senza elaborare un chiaro meccanismo processuale inteso ad evitare che l’autore dei fatti sia perseguito e sanzionato due volte. In tal modo, si verifica una violazione del diritto al ne bis in idem garantito dall’articolo 50 della Carta”.
120
Parte quarta
tenga conto nella determinazione della pena (81). Ne discende un elemento di differenziazione profonda dei due diversi procedimenti, amministrativo e penale (sia nel campo del contrasto agli abusi di mercato, sia nella repressione degli illeciti tributari), che non consente evidentemente di connettere il primo procedimento al secondo. Del resto la piena autonomia del procedimento amministrativo e del processo tributario, rispetto al processo penale, è definita con estrema chiarezza dal legislatore negli artt. 19, 20, e 21 del d.lgs. n. 74/2000. Pertanto, il contrasto con il divieto di bis in idem del regime di doppio binario sanzionatorio tributario scatta con la definitività del primo procedimento, proprio per la mancanza degli elementi richiamati nella A e B c. Norvegia del 2016. Le stesse considerazioni possono estendersi al procedimento sanzionatorio per abuso di informazioni privilegiate presso la CONSOB, in rapporto con il procedimento penale per gli stessi fatti, svolto dal giudice penale (82). A sostegno di queste conclusioni ricordiamo che l’Avvocato generale suggerisce alla Corte di giustizia di adottare un’interpretazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione “che prosegua in linea con la sua giurisprudenza precedente, ma non riduca il contenuto di tale diritto nel senso indicato dalla sentenza A e B c. Norvegia, né in applicazione dell’art. 52, par. 1, della Carta” (conclusioni in causa C-524/15, Menci). Tant’è che reputa tale limitazione (quella di cui all’art. 52, par. 1, della Carta) non necessaria ai fini di un’efficace politica dissuasiva delle violazioni in campo finanziario e tributario; in numerosi Stati viene assicurata un’efficace deterrenza, affiancata da sanzioni proporzionate agli illeciti commessi, senza violare il divieto di bis in idem (83). Per converso, ritiene che il cumulo di procedimenti ovvero di san-
(81) Tuttavia, questo è soltanto uno degli aspetti critici della disciplina sanzionatoria italiana nel campo degli abusi di mercato. La Corte di Strasburgo, infatti, ha condannato l’Italia non solo per violazione del divieto di bis in idem; ha sanzionato anche il procedimento sanzionatorio, in quanto contrastante con i principi convenzionali del giusto processo. (82) Art. 187-ter (Manipolazione del mercato): 1. Salve le sanzioni penali, quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro centomila a euro quindici milioni. Chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari. (83) In definitiva, questo sembra essere il ragionamento dell’Avvocato Campos SanchezBordona: è senz’altro possibile assicurare un’efficace e proporzionata deterrenza agli strumenti sanzionatori, nelle materie qui prese in considerazione, senza violare il diritto fondamentale di “ne bis in idem”, tutelato dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Egli osserva al riguardo (punto 73): “Al pari della Commissione, ritengo che l’esigenza di efficacia delle
Rubrica di diritto europeo
121
zioni previsto dal diritto nazionale si pone in contrasto con il principio del ne bis in idem; mentre non si può dire soddisfi il criterio di proporzionalità (84). A queste considerazioni, formulate dall’Avvocato generale nelle cause Menci e Ricucci e riprese nelle proposte alla Corte, aggiungerei quelle relative alla causa Di Puma e Zecca, per il contributo chiarificatore della portata dell’articolo 50 della Carta in tema di divieto di bis in idem. La prima, si riferisce al divieto di sottoporre ad un secondo processo di natura penale un soggetto precedentemente assolto in un processo penale per i medesimi fatti. Affermazione di principio, speculare a quella relativa all’impossibilità di coltivare un secondo processo, di natura penale, per i medesimi fatti, in seguito ad una condanna definitiva ad una pena stabilita in accordo tra le parti (art. 444 c.p.p.). Un’affermazione che evidenzia la natura processuale, oltre che sostanziale, del principio tutelato dall’art. 50 della Carta di Nizza. La seconda considerazione di principio, non meno importante, si riferisce al fatto che la necessità di assicurare sanzioni efficaci, dissuasive e proporzionate alla gravità delle violazioni commesse, non può essere utilizzata come un grimaldello per annullare la portata del divieto di bis in idem. Un’affermazione netta, che se accolta dalla Corte di giustizia, obbligherà l’Italia ad una revisione profonda dei sistemi di doppio binario sanzionatorio vigenti. Il punto più incerto è immaginare, viceversa, come possa pronunciarsi la Corte di giustizia, posto che già nella causa Fransson sembra aver seguito un profilo di prudente cautela (85), che intuitivamente potrebbe essere qui riconfermato; con la conse-
sanzioni non costituisca una limitazione del diritto al ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta. L’obbligo di applicare sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive grava sugli Stati in maniera generale e indipendentemente dall’adozione di un sistema di doppio binario (penale e amministrativo) o di binario unico (penale) per sanzionare gli abusi di mercato. A prescindere dal meccanismo scelto, il regime sanzionatorio deve essere efficace e, in ogni caso, rispettare il diritto al ne bis in idem tutelato dall’articolo 50 della Carta”. (84) Sul contrasto tra divieto di bis in idem, sancito dall’art. 50 della Carta di Nizza, e il sistema di doppio binario sanzionatorio in campo finanziario e tributario, anche alla luce del principio di proporzionalità, cfr. F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, op. cit., 16. (85) Ricordiamo nuovamente, infatti, che la Corte, in quella pronuncia, ha chiarito che l’art. 50 CDFUE è norma di diritto primario dell’Unione, come tale direttamente applicabile dal giudice nazionale, senza necessità (né possibilità) di intervento della Corte costituzionale; tra l’altro resta fermo il principio sulla base del quale l’art. 50 CDFUE “non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una sanzione tributaria e successivamente una sanzione penale, qualora la prima sanzione non sia di natura penale, circostanza che dev’essere verificata dal giudice nazionale”. Il che, di fatto, obbliga il giudice nazionale a valutare se, alla luce dei criteri
122
Parte quarta
guenza di rigirare la palla al giudice nazionale, chiamato ancora a valutare se la sanzione amministrativa precedente possa essere qualificata come di natura sostanzialmente penale. Per meglio comprendere questo aspetto occorre, tuttavia, che esso venga contestualizzato, nel quadro dei rapporti della giurisprudenza della CGUE sia con la giurisprudenza della Corte EDU, sia con quella delle Corti nazionali di legittimità. Come ho avuto modo di sottolineare in precedenza questo percorso è stato indicato dallo stesso Avvocato generale Campos Sanchez-Bordona nelle sue conclusioni; affermando che la migliore conoscenza del diritto interno consente al giudice nazionale di applicare con maggiore puntualità i principi giuridici indicati dalla Corte di giustizia. D’altra parte, la diversa efficacia delle sentenze della Corte EDU rispetto a quelle dei giudici lussemburghesi (la Corte costituzionale riconosce efficacia diretta solo a queste ultime) e l’ambito più ristretto della giurisprudenza della Corte di giustizia rispetto alla Corte EDU, rendono ineludibile, come già accennato, un dialogo tra le Corti che favorisca un’armonizzazione condivisa dei diritti nazionali rispetto a quelli europei, anche attraverso interventi legislativi, conformi agli indirizzi espressi dalle Corti europee e dalla Consulta al riguardo. Se si legge in quest’ottica, il paragrafo 34 della sentenza Åklagaren c. Åkerberg Fransson, non offre ai giudici nazionali opportunità di elusione (86).
impiegati dalla Corte di Strasburgo ai fini della verifica della natura penale della sanzione, la sanzione precedente e il relativo procedimento, formalmente amministrativi, abbiano o meno natura sostanzialmente penale. In tal caso, un’ipotesi di doppio binario sarebbe illegittimo alla luce dell’art. 50 CDFUE; fermo restando l’obbligo degli Stati membri di assicurare comunque che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive (§ 36 della sentenza). Ma qui ritornano i puntuali rilievi dell’Avvocato Generale M. Campos Sanchez-Bordona sulla possibilità di assicurare una sanzione proporzionale, efficace e dissuasiva, senza dover invocare l’eccezione rappresentata dall’art. 52, par. 1, della Carta. (86) Sul punto, si riporta questo passo della pronuncia Åklagaren c/ Åkerberg Fransson, in causa C-617/2010, emessa il 26 febbraio 2013. Chiamata a chiarire “se occorra interpretare il principio del ne bis in idem sancito all’art. 50 della Carta nel senso che esso osta a che siano avviati nei confronti di un imputato procedimenti penali per frode fiscale, una volta che gli è già stata inflitta una sovrattassa per gli stessi fatti di falsa dichiarazione”, la CGUE ha dichiarato che “l’art. 50 della Carta non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse e sanzioni penali. Infatti, per assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione, gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili […] Esse possono quindi essere inflitte sotto forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due. Solo qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’art. 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti
Rubrica di diritto europeo
123
Ma potrebbe anche darsi che la Corte di giustizia in base alle sollecitazioni dell’Avvocato generale, qui richiamate, decida di delimitare con maggiore precisione il tipo di indagine affidata al giudice nazionale, rispetto a quanto stabilito al riguardo in causa Fransson. Su questo profilo la posizione espressa dall’Avvocato generale è estremamente chiara: suggerisce alla Corte di rispondere alle incertezze della giurisprudenza italiana al riguardo, precisando ulteriormente quanto già definito nella sentenza Fransson. Dunque, chiarendo i dubbi interpretativi e suggerendo l’esatta portata della garanzia di cui all’art. 50 della Carta; con particolare riferimento al sistema italiano caratterizzato da un doppio binario sanzionatorio, parallelo, in entrambi i casi afflittivo, indi penale. Difatti, il dubbio legato al fatto che la portata della garanzia stabilita dall’art. 50 della Carta debba essere non inferiore a quello assegnato all’art. 4 del Prot. n. 7 della CEDU, è strettamente legato alla inevitabile conseguenza che, se così è, allora alla richiesta di effettività delle sanzioni la Corte di giustizia potrebbe, perlomeno nei casi di frode più gravi, far corrispondere l’obbligo di applicazione di una sanzione penale in senso stretto, in sostituzione della sanzione amministrativa, afflittiva anch’essa, quindi penale (punto 34) (87). Ne conseguirebbe logicamente che in tutte le altre ipotesi sanzionatorie la sanzione penale dovrebbe essere esclusa, in ragione del principio di proporzionalità, eliminando nel contempo il rischio di violazione del divieto di bis in idem (88). Prevedendo, a tal riguardo, un logico intervento legislativo, laddove il giudice potrebbe più ragionevolmente garantire solamente la tutela dell’individuo rispetto al divieto di bis in idem. Si colloca in questa linea l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e della legislazione francese, relativa al principio di ne bis in idem. In seguito
penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona” (punto 34). (87) Tuttavia, rammenta l’Avvocato Campos Sanchez-Bordona: “in base a quanto stabilito dalla sentenza Åkerberg Fransson, il divieto di bis in idem stabilito dall’art. 50 della Carta è incompatibile, nondimeno, con la doppia punizione, a titolo, da un lato, di sanzione (o procedimento) penale e, dall’altro, di sanzione (o procedimento) tributaria, quando si possa affermare che quest’ultima ha in realtà carattere penale, nonostante la sua eventuale qualificazione da parte del diritto interno come sanzione meramente amministrativa. In tale ipotesi, ribadisco, qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona”. (88) Sul punto, in senso conforme, cfr. F. Gallo, Il ne bis in idem in campo tributario: un esempio per riflettere sul “ruolo” delle Alte Corti e sugli effetti delle loro pronunzie, op. cit. specie par. 4, n. 4.
124
Parte quarta
alla sentenza Grande Stevens, l’Assemblea plenaria della Cassazione penale (equivalente alle nostre Sezioni Unite), con le decisioni del dicembre 2014 e del gennaio 2015, aveva trasmesso al Conseil constitutionnel le questioni di legittimità costituzionale inerenti alle possibilità di cumulo tra le sanzioni erogate dall’AMF (l’equivalente della CONSOB) e le sanzioni penali per gli stessi fatti in tema di abusi di mercato (89). Il Conseil constitutionnel nella decisione del 18 marzo 2015 (sentenza EADS), senza pronunciarsi esplicitamente sul doppio binario sanzionatorio, aveva dichiarato incostituzionali gli artt. L 465-1 e L 621-15 del codice finanziario, per contrasto con il principio costituzionale di necessità e proporzionalità delle pene (90), in relazione agli effetti provocati dal cumulo delle sanzioni penali in senso materiale ed in senso stretto; sospendendone tuttavia gli effetti fino al 1 settembre 2016, per consentire le modifiche legislative necessarie. Non è questa la sede per approfondire l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, che ha investito anche ambiti diversi rispetto alla repressione degli abusi di mercato, a partire dal fisco (91). Qui basta indicare che la giurisprudenza costituzionale francese, su impulso della Corte di Cassazione, ha disinnescato i conflitti con le Corti europee sul divieto di bis in idem, utilizzando con diverse modalità il principio costituzionale di necessità e proporzionalità delle pene. Essa ha, così, evitato il cumulo delle sanzioni penali adeguandosi alla giurisprudenza europea; senza, tuttavia, coinvolgere direttamente il principio di ne bis in idem e senza porre in discussione il sistema di doppio binario sanzionatorio, in attesa di un intervento sistematico del legislatore sul punto.
(89) Al riguardo la posizione della Cassazione nell’ordinanza di rinvio al Conseil constitutionnel, ordinanza n. 760827, è esplicita: “[…] la questione sollevata presenta un carattere serio, in quanto le disposizioni contestate, che consentono l’esercizio di un procedimento penale per fatti che sono già stati oggetto di una decisione definitiva da parte della commissione delle sanzioni dell’AMF, sono suscettibili di ledere in modo ingiustificato il principio del ne bis in idem”. (90) Il Conseil constitutionnel richiama in particolare l’art. 8 della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, i cui principi sono riaffermati esplicitamente sia nella Costituzione del 1946, sia in quella vigente della quinta Repubblica. (91) Con la sentenza n. 572 del 30 settembre 2016 il Conseil constitutionnel, chiamato a stabilire la legittimità del cumulo delle sanzioni stabilite dagli artt. 1729 e 1741 del Codice Generale delle Imposte, ha stabilito innanzitutto la legittimità costituzionale delle due disposizioni, valutate singolarmente. Ha, inoltre, ritenuto conforme alla Costituzione il loro cumulo, in ragione della gravità delle violazioni e delle frodi commesse; ha, tuttavia, aggiunto una riserva definitiva d’interpretazione, stabilendo agli effetti della determinazione della pena l’applicabilità di quella più grave tra le due comminate; evitando, così, il conflitto con il principio di ne bis in idem.
Rubrica di diritto europeo
125
Questa circostanza, potrebbe, forse orientare la Corte di giustizia a seguire almeno alcune delle indicazioni proposte da M. Campos Sanchez-Bordona nelle cause che ci occupano; ponendo termine ad una situazione in cui l’Italia continua a considerarsi “zona franca” rispetto ai principi fondamentali della Carta di Nizza e della CEDU. 7. Conclusioni. – Ad ogni modo, al di là di ogni slancio ipotetico sulla risposta della Corte, occorre soffermarsi su un profilo ulteriore che potrebbe, forse, incidere sulla decisione della Grande Sezione della Corte Lussemburghese. La Corte EDU e la Corte di giustizia dell’Unione Europea, pur tutelando entrambe i diritti fondamentali comuni, si pongono in parte su piani diversi. In particolare, nei casi che qui ci occupano, che si riferiscono a materie armonizzate, la Corte di giustizia ha un’esigenza di uniformità nell’interpretazione dei principi fondamentali, che la impegna ad una giurisprudenza caratterizzata da una corrispondente omogeneità, indipendentemente dallo Stato coinvolto. La Corte di Strasburgo ha, invece, nel campo della tutela dei diritti umani, una competenza generalista, che la conduce, talvolta, a valutare in base ai principi della CEDU, situazioni e circostanze di fatto, tra di loro anche molto diverse, espressive dei diversi ordinamenti, che incidono sull’uniformità delle proprie decisioni, attraverso il bilanciamento tra i diversi interessi e i principi. Una differenza di non poco conto rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia, chiamata a giudicare situazioni giuridiche disciplinate da regolamenti e da direttive, che non impediscono l’evoluzione della giurisprudenza; tuttavia, impongono un forte ancoraggio ai principi. A ciò vorrei aggiungere un ulteriore elemento di riflessione. Le contraddizioni giurisprudenziali messe in luce dall’Avvocato generale e riportate in questo contributo evidenziano, a ben vedere, sul piano interno, una diversità di approccio della magistratura ordinaria rispetto alla giurisprudenza di legittimità. La prima, più attenta ai profili garantisti e alla tutela dei diritti, cerca di adattare l’ordinamento interno a quello europeo; ove tale adeguamento non appaia possibile essa ricorre alla Corte di giustizia. A tale approccio si contrappone quello più contrastato della giurisprudenza di legittimità, che appare divisa, complessivamente meno garantista sotto questo aspetto (92).
(92) Sul punto, da ultimo, cfr. Cass., III Sez. pen., 16 febbraio 2017, n. 7394, secondo cui, “non è deducibile innanzi alla Corte di Cassazione la violazione del divieto del ne bis in idem, atteso che escluso in sede di legittimità l’accertamento del fatto necessario per verificare la preclusione
126
Parte quarta
Per essa, infatti, specie quando decide a Sezioni Unite, sembra prevalente la tutela della stabilità dell’ordinamento, rispetto alla tutela degli interessi del singolo contribuente. Una stabilità perseguita attraverso una lettura delle questioni esaminate, anch’essa in qualche misura sostanzialista, tuttavia ispirata da una scala di valori diversa rispetto a quella utilizzata dalle Corti europee per contrastare la violazione del divieto di bis in idem. Emerge, dunque, una diversa lettura, volta a porre in primo piano la tutela di un preteso “favor fisci”, estraneo al concetto di democrazia fiscale cui si ispira la Costituzione; sacrificando, piuttosto aridamente, la fondamentale tutela dei diritti umani. Alla luce di queste considerazioni, ben si comprende l’invito rivolto dall’Avvocato generale M. Campos Sanchez-Bordona alla Grande Sezione a non seguire la Grande Camera nel tentativo di adattare la propria giurisprudenza alle particolarità delle situazioni caratterizzanti che possono prodursi nei diversi ordinamenti, piuttosto che invitare gli Stati ad adeguare i sistemi giuridici ai principi fondamentali del diritto dell’Unione, esigendone il pieno rispetto. Con riferimento ai precedenti pure citati, questa volta il giudice nazionale sceglie di rivolgersi alla Corte di giustizia piuttosto che, a seconda dei casi, alla Corte costituzionale ovvero alla Corte di Cassazione (piuttosto reticente negli ultimi tempi ad affrontare il tema del doppio binario, specie in seguito ai molteplici precedenti giurisprudenziali, non sempre univoci, anche di Strasburgo). E, invero, il segnale di un giudice nazionale auspicante dettami precisi, volti a superare le oramai insormontabili ambiguità interne sul punto, ovvero il segnale della debolezza non solo delle Corti superiori nazionali, ma altresì della legislazione nazionale sul tema.
Maria Villani
derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito”. In senso opposto SS. UU., 31 ottobre 2001, n. 42792, in Osservatorio Contrasti Giurisprudenziali, Diritto Penale e Processo, 7/2017.